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Dispense 2022-2023

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DISPENSE

PER GLI INSEGNAMENTI DI


- FILOSOFIA, SOCIETA’,
COMUNICAZIONE
- PROCESSI, SOGGETTI, POTERI

A.A. 2022/2023

Prof.ssa Federica Giardini


Dott.ssa Federica Castelli
All’origine, l’Occidente non esiste
. Il furto della storia e la nascita della civiltà p. 3
. Gli eredi di Gilgamesh p. 9
. Atena nera p. 14
La morale eroica e la politica del mito
. Dalla Guerra di Troia alla polis p. 22
. L’Iliade, poema della forza p. 26
. Politica ateniese del mito p. 30
Pensare la polis
. Platone p. 36
. Aristotele p. 44
. Chi parla in città? p. 55
Roma
. Il cittadino romano p. 62
. Cittadinanza e divisione dei sessi nel diritto romano p. 70
. Sessualità e politiche dei corpi p. 73
. Polibio p. 76
. Cicerone p. 77
Il pensiero politico cristiano
. Agostino p. 79
. Tommaso d’Aquino p. 81
Assemblaggi medievali
. L’ordine giuridico medievale p. 83
. Territorio, autorità, diritti p. 88
Fondazioni e istituzioni
. Chiara d’Assisi p. 94
. de Pizan p. 98
. Le streghe e lo sviluppo del capitalismo p. 105
Il rinascimento
. Machiavelli p. 109
. Montaigne p. 111
. La Boétie p. 112
. Thomas Müntzer e la guerra dei contadini p. 113
Giusnaturalismo e contrattualismo
. Diritto Naturale p. 118
. Contrattualismo p. 120
. Hobbes p. 122
. Hobbes e il presente p. 125
. Spinoza p. 132
. Locke p. 134
. Astell p. 136
. I salotti e la nascita dell’opinione pubblica p. 145
. Montesquieu p. 147
. Rousseau p. 150

1
. Wollstonecraft p. 152
Illuminismo e Rivoluzione Francese
. Kant e l’Illuminismo p. 158
. Robespierre p. 164
. Saint-Just p. 164
. Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina p. 165
Lo Stato, la dialettica, il lavoro
. Stato p. 168
. Hegel p. 170
. Schmitt p. 173
. Marx p. 175
. Luxemburg p. 186
. Weil p. 191
Ripensare la politica
. Arendt p. 198
. Società di massa e società dei consumi p. 204
. Decolonizzazione p. 209
. Emancipazione e autodeterminazione nelle lotte delle donne p. 212
. Manifesto di rivolta femminile p. 218
. Habermas p. 221
L’età globale e la nuova ragione del mondo
. La fine delle grandi narrazioni: postmoderno, biopolitica, globalizzazione e spatial turn p. 224
. Sfere pubbliche in conflitto: ragione e differenze p. 229
. Le politiche della differenza e la ridefinizione femminista del pubblico p. 233
. La miseria del mondo. Muri, esclusioni, recinzioni p. 238
Mostri, cyborg, algoritmi: politiche del postumano
. Post-democrazia, algoritmi, big data p. 241
. Ecodipendenti e interdipendenti p. 245
. Attori umani e non umani p. 246
. Haraway p. 248

2
IL FURTO DELLA STORIA E LA NASCITA DELLA CIVILTÀ
All’origine, l’Occidente non esiste

L'antichità, l'antichità "classica", rappresenta, secondo parte degli studiosi, l'inizio di un nuovo
mondo (un mondo fondamentalmente europeo) e si incastra perfettamente in una
concatenazione storica all'insegna del progresso. L'operazione ha chiesto innanzitutto di
distinguere radicalmente l'antichità classica dai periodi che l'avevano preceduta nell'età del
bronzo e che avevano caratterizzato un certo numero di società, in prevalenza asiatiche. In
secondo luogo, la Grecia e Roma sono considerate il fondamento delle idee politiche
contemporanee, in particolare per quel che riguarda la democrazia. In terzo luogo, viene
minimizzato il ruolo di certi aspetti dell'antichità, soprattutto: aspetti di tipo economico, come
il commercio e il mercato, accentuando le differenze tra le varie fasi che hanno condotto a
quella attuale. […]
L'antichità classica segnerebbe per alcuni l'inizio del sistema politico della polis, della
"democrazia" stessa, della "libertà" e del dominio del diritto. Per quanto riguarda l'economia,
secondo questa concezione essa fu un'età a se stante, fondata sulla schiavitù e sulla
redistribuzione, ma non sul mercato e sul commercio. Per ciò che riguarda i mezzi di
comunicazione, sempre secondo questa concezione i greci, con la loro lingua indoeuropea,
compirono il decisivo passaggio all'alfabeto che usiamo ancora oggi; c'è inoltre la questione
dell'arte, compresa l'architettura. Infine, prenderò in esame il problema della eventuale
esistenza di differenze tra i centri dell'antichità europei e quelli del Mediterraneo orientale
nonché delle zone circostanti dell'Asia e dell’Africa.
Il furto della storia da parte dell'Europa occidentale iniziò con le nozioni di società arcaica e di
società antica, procedendo poi più o meno in linea retta attraverso il feudalesimo e il
Rinascimento fino al capitalismo. Che si iniziasse di lì è comprensibile, perché per l'Europa
più tarda l'esperienza greca e romana, con l’adozione della scrittura alfabetica, rappresentò
l'alba stessa della “storia" (prima dell'avvento della scrittura, tutto era preistoria, ambito
precipuo degli archeologi più che degli storici). Naturalmente, in Europa erano esistite
registrazioni scritte anche prima dell'antichità classica, nella civiltà minoico-micenea e della
Grecia continentale. Ma quel sistema di scrittura è stato decifrato solo negli ultimi sessant'anni
e i documenti consistevano perlopiù in elenchi a uso amministrativo, non erano “storia" o
letteratura nel senso corrente. La storia e la letteratura comparvero in misura consistente in
Europa soltanto dopo l’ottavo secolo prima dell'era volgare, con l'adozione e l’adattamento da
parte della Grecia del sistema di scrittura dei fenici, l’antenato di molti altri alfabeti, che già
possedeva il suo ordine (senza le vocali). Uno dei primi argomenti oggetto di scrittura da parte
dei greci fu la guerra contro la Persia, che portò distinzione tra Europa e Asia fondata su un
giudizio di valore, con profonde conseguenze sulla nostra storia intellettuale e politica. Per i
greci, i persiani erano "barbari", caratterizzati dalla tirannide invece che dalla democrazia. Si
trattava naturalmente di un giudizio puramente etnocentrico, alimentato dal conflitto greco-
persiano. Per esempio, l'idea del presunto declino dell’Impero persiano dopo il regno di Serse
(485-465 a.e.v.) nasce da una visione incentrata sulla Grecia e su Atene; non è confermata né
dai documenti accadici provenienti da Babilonia o aramaici provenienti dall’Egitto, per non
parlare dell'evidenza archeologica. In realtà, i persiani erano altrettanto “civilizzati” dei greci,

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soprattutto a livello della élite dirigente. E costituirono la via principale per la trasmissione ai
greci del sapere delle società alfabetizzate del Vicino Oriente antico.
Dal punto di vista linguistico, l'Europa era diventata il luogo di residenza degli "ariani", i popoli
parlanti lingue indoeuropee provenienti dall'Asia. L'Asia occidentale, per parte sua, era il luogo
di residenza di popoli parlanti lingue semitiche, un ramo della famiglia afro-asiatica che
includeva le lingue parlate dagli ebrei, dai fenici, dagli arabi, dai copti, dai berberi e da molte
altre popolazioni nel Nord Africa e in Asia. Fu questa distinzione tra ariano e non-ariano, che
troverà la sua piena incarnazione nelle dottrine naziste, ad alimentare nell'etnografia europea
la tendenza a trascurare i contributi dell'Oriente allo sviluppo della civiltà.
Noi siamo dunque informati sul significato dell'antichità nel contesto europeo, benché ci sia
qualche divergenza tra i classicisti sul suo inizio e la sua fine. Ma come mai il concetto di
antichità classica non è stato applicato anche nello studio di altre civiltà, quelle del Vicino
Oriente, dell'India o della Cina? Esistono fondate ragioni per questa esclusione del resto del
mondo per questa data di inizio della "unicità europea"? Gli studiosi della preistoria hanno
sottolineato l'evoluzione fondamentalmente simile, in tempi diversi ma secondo una sequenza
di stadi paralleli, delle società protostoriche in Europa e altrove. Quella progressione continuò
in tutta Europa fino all'età del bronzo. A quel punto si sarebbe verificata una divaricazione. Le
società arcaiche della Grecia appartenevano sostanzialmente all'età del bronzo, anche se si
prolungarono nell'età del ferro e addirittura periodo storico. Dopo l'età del bronzo, si sostiene,
in Europa ci fu l'esperienza dell'antichità, mentre l'Asia ne restò estranea. Un grosso problema
per la storiografia è costituito dal fatto che, mentre molti storici occidentali, compresi eminenti
studiosi come Gibbon, hanno analizzato il declino e la caduta del mondo classico greco e
romano e la comparsa del feudalesimo, quasi nessuno ha considerato ha considerato in modo
approfondito le conseguenze di ordine teoretico della comparsa dell'antichità, o della società
antica, intese come periodo distinto. Un antropologo come Southall a proposito del modello
asiatico, scrive che “la prima radicale trasformazione fu il modo di produzione dell’antichità.
Il quale si sviluppò nel Mediterraneo, senza però mai sostituire in gran parte dell'Asia e del
Nuovo Mondo il modo di produzione asiatico”. Già, ma perché non lo sostituì? Non viene
addotta alcuna ragione, se non quella che il modo di produzione dell'antichità presentava "un
salto quasi miracoloso nella questione dei diritti dell'uomo" (ma non della donna?). Fu, scrive
Southall, una transizione che ebbe luogo nel Mediterraneo orientale in parte per mezzo delle
"migrazioni in un contesto di crollo della società”, una situazione che, peraltro, deve essersi
presentata con una certa frequenza.
Da molti studiosi la storia successiva dell'Europa è concepita come il risultato di una non
meglio precisata sintesi tra la società romana e le società tribali indigene, in termini marxisti
una formazione sociale germanica, sui cui rispettivi contributi è da tempo in corso una diatriba
tra romanisti e germanisti. Ma già ciò che riguarda il suo primo periodo, l'antichità stessa è
spesso considerata l'esito della fusione tra alcuni stati dell'età del bronzo e alcune "tribù" di
origine "ariana" che presero parte alle invasioni doriche, con vantaggio per entrambi i regimi,
per le culture urbane centralizzate e "civilizzate" come per le "tribù", più rurali e dedite alla
pastorizia.
Dal punto di vista dell'economia e più in generale dell'organizzazione sociale, il concetto di
tribù non è molto illuminante. Mentre può servire a indicare taluni aspetti dell'organizzazione
sociale, in particolare la mobilità e l'assenza di uno stato burocratico, il termine "tribale" non è

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molto utile per differenziare la natura dell'economia. Si trovano "tribù" che praticano la caccia
e la raccolta, altre che praticano una semplice agricoltura a zappa, altre ancora che praticano la
pastorizia. Una cosa comunque è chiara circa la nascita di quella che nella nostra percezione è
la civiltà classica dell'antichità, e cioè il fatto che non fu costruita direttamente sulla base di
economie "tribali" dei generi succitati. Fu edificata, piuttosto, su società come quella micenea
e quella etrusca, fortemente influenzate dai molti progressi, riguardanti la vita rurale oltre che
la vita urbana, che segnarono l'avvento dell’età del bronzo, non soltanto in Europa ma in primo
luogo nel Vicino Oriente, nella cosiddetta "Mezzaluna fertile", nonché in parti dell’India e della
Cina. Durante l'età del bronzo, intorno al 3000 a.e.v., l'Eurasia conobbe lo sviluppo di numerose
nuove “civiltà”, nel senso tecnico di culture urbane fondate su un’agricoltura evoluta che
impiegava l'aratro, la ruota e in alcuni casi l’irrigazione. Esse diedero impulso alla vita urbana
e all'attività artigianale specializzata, comprese forme di scrittura, dando così inizio a una
rivoluzione dei modi di comunicazione oltre che dei modi di produzione. Queste società
altamente stratificate produssero forme culturali gerarchicamente differenziate e una grande
varietà di attività artigianali, in Cina nella valle del Fiume Rosso, nella cultura di Harappa
nell'India settentrionale, nella Mesopotamia e in Egitto e, più tardi, in altre parti della
Mezzaluna fertile, oltre che nell'Europa orientale. Ci furono uno sviluppo parallelo in tutta
questa vasta area e anche qualche forma di comunicazione tra le varie zone. Anzi, la rivoluzione
urbana influì sullo sviluppo non soltanto di quelle grandi civiltà ma anche delle “tribù” che
vivevano alla loro periferia e a cui si attribuisce una bella "nascita" della società greca.
Childe sottolinea il ruolo svolto nel mondo classico dal commercio, per effetto del quale si
diffusero su una vasta area culture, idee e personale specializzato. Esisteva, naturalmente, un
commercio degli schiavi, i quali non erano però semplice manodopera: "Comprendevano
maestri profondamente istruiti, scienziati, artisti, scrivani e artigiani, come pure prostitute […]
Così la civiltà orientale e la mediterranea, essendosi fuse, furono congiunte mediante il
commercio e la diplomazia ad altre civiltà dell'Oriente e alla vecchia barbarie del Nord e del
Sud". Tali scambi avvenivano all'interno delle società oltre che tra le società.
Le "tribù" alla periferia, quei "barbari" in senso tecnico, non appartenenti alle grandi civiltà,
furono a loro volta influenzate da questi importanti sviluppi presenti nelle società urbane, con
le quali avevano frequenti contatti, quando scambiavano prodotti o quando fornivano loro aiuto
nel trasporto delle merci, e che, data la maggiore mobilità, consideravano un possibile bersaglio
durante gli spostamenti: per alcune di quelle “tribù” compiere razzie contro le città e i loro
traffici costituiva anzi un modo di sostentamento. Tale è la situazione descritta nel
quattordicesimo secolo da Ibn Khaldun nel suo resoconto del conflitto aperto nel Nord Africa
tra i beduini nomadi e gli arabi berberi stanziali, nel quale, in confronto ai popoli più avanzati
tecnologicamente, le tribù mostravano un maggior grado di solidarietà (asabiya), un tema
ripreso da Emile Durkheim in La divisione del lavoro sociale, con la sua nozione di
“solidarietà”. Quasi tutte le grandi civiltà ebbero analoghi rapporti con le “tribù” circostanti e
subirono analoghe incursioni: i cinesi da parte dei manciù, gli indiani da parte dei mongoli di
Tamerlano dell'Asia centrale, il Vicino Oriente da parte delle circostanti popolazioni del
deserto, l'Europa da parte dei dori. Non c'era niente di straordinario sotto questo profilo negli
attacchi dei germani e di al popoli contro il mondo classico, se non nella misura in cui furono
un fattore determinante nella distruzione dell'Impero romano e nella scomparsa temporanea
delle sue straordinarie realizzazioni nell'Europa occidentale. Con tutto ciò, quelle tribù non

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erano semplicemente dei "predatori". Furono importanti in stesse, come vedremo, oltre che per
la pratica della solidarietà per certe idee di democrazia e di libertà, tutti elementi che vengono
quasi universalmente associati ai greci.
Ciò che chiamiamo antichità classica affondava, come è ovvio, le sue radici nella Grecia e nella
Roma arcaiche; questa è la versione seguita dalla maggior parte degli storici della classicità.
Esiste inoltre generale consenso sul fatto che l'antichità classica si fosse edificata su un
precedente crollo della civiltà. Nel 1200 a.e.v., "la Grecia assomigliava a qualsiasi altra società
del Vicino Oriente". Così come in seguito, con la caduta dell’Impero Romano, nell’Europa
occidentale si verificò una drammatica cesura, alla stessa stregua intorno al 1 100 a.e.v. sembra
essersi verificato in Grecia un analogo crollo della civiltà micenea. Forse quel crollo fu causato
da un'invasione; comunque, l'esito fu la scomparsa della cultura palaziale. Il mondo greco fu
da quel momento caratterizzato da "una contrazione degli orizzonti: non più edifici
monumentali, non più sepolture multiple, non più comunicazione impersonale, ma limitati
contatti con il mondo esterno".
Preso atto delle indubbie somiglianze con le culture regionali precedenti, specialmente nella
lingua, si pone anche il problema intrinseco alla storia europea, di ciò che differenziava la
società dell'antichità classica dalle società coeve o addirittura antiche che emersero dall'età del
bronzo, sia nel Vicino Oriente sia altrove. Nella società dell'antichità classica, come visto,
ebbero indubbiamente luogo importanti cambiamenti. Scomparvero le culture palaziali (a
ovest). Ci fu l’avvento dell'età del ferro, qui e altrove, con un uso molto più diffuso dei metalli.
Ma il problema non è l'assenza o meno di importanti trasformazioni nel corso del tempo. Il
problema deriva dal porre distinzioni categoriali tra la società arcaica e la società greca (cioè
l'antichità "classica"), che in tal modo viene differenziata da tutte le altre, quando tali differenze
potrebbero più utilmente essere concepite in termini evolutivi o evoluzionistici meno drastici,
soprattutto se si tratta principalmente di differenze di importanza locale. La società arcaica era
in senso lato una società dell'età del bronzo, come il resto delle società coeve; i greci
appartenevano invece all'età del ferro. Ma quei periodi si susseguirono nella medesima sfera
geografica e commerciale, fondendosi l'uno nell'altro. Per esempio, Arthur Evans, l'archeologo
che disseppellì il palazzo di Cnosso a Creta sostenne che i minoici erano "liberi e indipendenti"
e rappresentarono la prima civiltà europea, in altre parole costituirono un precedente per i greci.
Orbene, libertà e indipendenza sono termini comparativi, e i minoici in realtà erano più
dipendenti dagli altri popoli di quanto Evans supponesse; anzi, commercialmente erano legati
al Vicino Oriente, da dove (compresa l’isola di Cipro) provenivano le provviste di stagno, di
rame e di altre merci; e lo stagno e il rame servivano per fare il bronzo. Erano presenti anche
legami culturali; ci sono prove di rapporti con l'Egitto, come dimostra la pittura parietale di una
tomba della Valle dei Re datata intorno al 1500 a.e.v., indicativa dell’esistenza di rapporti tra
Europa, Africa e Asia. […]

La politica
Anche per la politica viene spesso usata una definizione parallela a quella applicata
all'economia, e ugualmente ristretta, con il risultato che certi elementi generali vengono riferiti
in modo esclusivo all'antica Grecia. In tale contesto, come fa osservare Cartledge, la politica è
concepita come "le misure perseguite dagli stati, invece che come i processi che stanno alla
base della loro adozione”, una visione ristretta, che chiaramente esclude le società senza stato

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nonché un'enorme gamma di attività che molti considererebbero politiche. La "democrazia
primitiva", tipica il più delle volte delle società di piccola scala, non viene in tal modo presa in
considerazione. […]
Tre sono gli aspetti della politica della tradizione classica considerati differenti rispetto alle
tradizioni di altre società coeve, che sarebbero stati trasmessi all'Europa occidentale: la
democrazia, la libertà e il dominio del diritto. La democrazia è considerata per assunto una
caratteristica tipica dei greci ed è contrapposta al "dispotismo" o "tirannide" dei loro vicini
asiatici. Questo presupposto è invocato dai nostri politici attuali come una caratteristica di
antica data dell'Occidente, in contrapposizione ai "regimi barbari" di altre parti del mondo. […]
Se supponiamo, con Ibn Khaldun per esempio, che siano esistite in altri luoghi delle democrazie
tribali, queste, se non avranno forse costituito un modello per gli europei del diciannovesimo
secolo, lo furono certamente per altri popoli. I greci, beninteso, inventarono la parola
"democrazia", e probabilmente furono i primi a dare a essa una forma scritta che altri potessero
leggere, ma non inventarono la pratica della democrazia. Qualche forma di rappresentanza è
stata un elemento della politica e delle lotte di molti popoli. […] La presenza di tali formazioni
politiche era particolarmente rilevante in regioni come l'Africa, che praticavano una semplice
agricoltura a zappa, con colture cicliche e itineranti. Ma gruppi "repubblicani" di questo tipo si
riscontrano anche nel contesto di sistemi agricoli più complessi (età del bronzo), spesso in zone
montagnose, meno facili da controllare da parte di un potere centrale. Per esempio, A. Leo
Oppenheim ne riferisce la presenza in Mesopotamia, e Romila Thapar in India. In Cina esisteva
un tipo analogo di formazione politica, più simile ai "ribelli primitivi" o ai "banditi" alla Robin
Hood, lungo le rive dei fiumi. Per il Nord Africa, ho già citato l'opera del grande storico Ibn
Khaldun sulle tribù del deserto. In Europa, troviamo gruppi del genere in alcune zone
montagnose che si sottraevano alla presa dello stato, come i clan scozzesi e albanesi. Ma ancora
più ai margini troviamo l'organizzazione delle navi pirata, sovente basata su principi
"democratici", come se, una volta sfuggite all'auto dello stato, le comunità scegliessero di
realizzare un sistema più cooperativo, simile a quello che ispirò alcune colonie nordamericane.
Dunque, a parte la terminologia, in nessun senso si può dire che greci avessero "scoperto" la
libertà individuale o la democrazia. […]
L’influenza del mondo classico sulla storia europea e mondiale posteriore non è lineare.
L'Occidente può benissimo guardare alla democrazia ateniese come al proprio modello, ma
quello non fu l'unico regime politico esistente in Grecia. Era presente anche la "tirannide". E
né la tirannide né la democrazia erano connotate dagli stessi valori di cui le investiamo noi
oggi. […]
Uno dei modi più importanti in cui si esplicitava la scelta popolare ad Atene era il voto
(mediante l'uso in certi casi di frammenti di vasellame iscritti). Ma questa procedura non era
confinata in Grecia. Nella sua analisi sulle origini della democrazia, Havies cita Cartagine
esclusivamente in relazione alle guerre, e mai per il suo sistema politico, e la Fenicia è trattata
in maniera ancora più sommaria. Eppure, la colonia fenicia di Cartagine voterà ogni anno per
eleggere i suoi magistrati, i suffeti, che, a quanto risulta, ai tempi di Annibale rappresentavano
l'autorità suprema. […]
Il secondo elemento della politica che avremmo ereditato greci è l'idea di "libertà", un tratto,
ancora una volta, evidenziato dalla loro ideologia esplicita e autopromozionale, benché sia noto
che, al pari dei romani, i greci praticavano ampiamente la schiavitù. In Europa, il lavoro

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schiavile continuò a lungo, nonostante tutta la retorica sulla libertà; in epoca carolingia, anzi,
gli schiavi costituivano una parte importante delle esportazioni europee. Inoltre, varie forme di
lavoro servile furono in uso praticamente fino alla Rivoluzione industriale, definita a sua volta
da alcuni "schiavitù salariale", in quanto gli individui non avevano. accesso diretto ai mezzi di
produzione ed erano pertanto costretti a vendere il proprio lavoro a un padrone. La libertà,
dunque, è un concetto più complicato di quello che si potrebbe pensare. E, come ha sottolineato
Isaiah Berlin, occorre distinguere tra concetto positivo e un concetto negativo di libertà, tra la
libertà dall'interferenza e dalla coercizione, considerata una cosa buona, e la libertà di
autorealizzarsi, che facilmente scivola nella giustificazione per la coercizione di altri. […]
La libertà, ripete Finley, è il contrario della schiavitù. E in Grecia la schiavitù, aggiunge con
un evidente paradosso, era connessa con la libertà:

I greci, come è noto, inventarono sia l'idea di libertà individuale che la cornice istituzionale nella quale
essa poté realizzarsi. Il mondo pre-greco (il mondo dei sumeri, dei babilonesi, degli egizi e degli assiri
e non posso astenermi dall'aggiungervi i micenei) fu, in un senso profondo, un mondo privo di uomini
liberi, nell'accezione in cui l'Occidente è giunto a intendere tale concetto […]. Un aspetto della storia
greca, insomma, è il progredire, di pari passo, della libertà e della schiavitù.

[…] Il terzo contributo che si suppone l'antichità classica abbia dato alla politica è il dominio
del diritto, una caratteristica associata prevalentemente alla tradizione romana. Indubbiamente
i romani elaborarono un complesso codice di leggi scritte, come fecero del resto altre società
dotate di scrittura. Ma è del tutto erroneo presumere che le culture orali non fossero anch'esse
governate dalla legge in senso lato, come hanno argomentato Malinowski e innumerevoli altri
antropologi, soprattutto, forse, Gluckman nel suo particolareggiato studio del diritto presso i
Rotse (lozi) dello Zambia. In realtà, la nozione di "dominio diritto" è stata interpretata dagli
appartenenti alle culture dotate di scrittura in maniera generalmente troppo ristretta. Esistono
libri di testo sul diritto nuer, sul diritto tswana e su molti altri sistemi; tali diritti orali sono
spesso stati incorporati nei codici scritti delle nuove nazioni delle quali quelle popolazioni
fanno ora parte. È vero che certi recenti avvenimenti nell'Africa sahariana possono dare
l'impressione che in quel continente mancasse la certezza del diritto. Ma lo stesso si potrebbe
dire avvenimenti recenti in Iraq, nei Balcani o nell'Europa orientale e addirittura nell'Europa
occidentale. L'impiego della forza militare, dovunque avviene, è il contrario del dominio del
diritto, che se alla fine uno degli effetti di tali azioni di forza può essere la sua introduzione.
Per scendere a un livello più specifico, l'idea diffusa che i diritti di proprietà privata siano
un'invenzione del diritto romano (o occidentale) trascura del tutto le raffinate analisi dell’ordine
giuridico delle culture orali condotte dagli antropologi. Quale società agricola potrebbe mai
funzionare senza stabilire diritti di esclusione (ma non necessariamente esclusivi o permanenti)
sulla terra da coltivare? I loDagaa del Ghana settentrionale, che erano una cultura orale e
abitavano in una zona dove non c'era carenza generale di terra coltivabile, segnavano i confini
dei terreni molto chiaramente con pietre, che spesso portavano una croce nera, ad ammonire
del pericolo (in gran parte di ordine soprannaturale) derivante dalla loro violazione. Anche se
erano frequenti, non mancavano, come sempre tra vicini, le liti sui confini. Liti che erano spesso
risolte per mezzo di procedure legali condivise, dibattiti assembleari, intervento di intermediari
a minacce di azioni violente. Le società dotate di scrittura, più complesse, avevano

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naturalmente metodi propri, tra cui la registrazione e le scritture pubbliche, presenti in tutte le
società dopo l’era del bronzo. "Contratti" scritti erano in uso in Cina, fin dal periodo T’ang,
sotto forma di scritture private, riguardanti anche il passaggio di proprietà dei terreni. C'è un
documento stilato a Taiwan nel diciannovesimo secolo che inizia: "L'esecutore del contratto
per la vendita irrevocabile di un terreno arido […]”. Il venditore prosegue dicendo di avere
offerto la prelazione ai parenti prossimi e che, avendo ottenuto risposta negativa procede alla
vendita, "perché mia madre ha bisogno di denaro”. La transazione è messa per iscritto "perché
temiamo che orale sia poco affidabile”, confermando in tal modo che in linea di principio
esisteva la possibilità di trasferire i diritti di proprietà anche per via orale, senza il ricorso a
procedure scritte, benché queste fossero più sicure. […]

Brani tratti da J. Goody, Il furto della storia, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 38 - 76

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L'archeologia, l'etnologia, le scienze religiose ed altre discipline delle scienze sociali, grazie
soprattutto alle estensive ricerche del XX secolo, concordano nell'attribuire ai Sumeri la prima
forma di società con una struttura statale ed una storia tramandata per iscritto - l'origine quindi
della civiltà. La prima fondazione di uno stato rappresenta un grande salto qualitativo per
l'umanità.
Lo stato come strumento sociale e istituzione omnicomprensiva porta con sé anche ai giorni
nostri quei tratti essenziali che si erano manifestati già al momento della sua nascita: era ed è
strumento della classe egemone per il controllo dei prodotti, frutto del più svariato lavoro
umano. Per questo motivo comprendere i Sumeri significa comprendere meglio noi stessi e la
nostra epoca1. Se i Sumeri non fossero stati scoperti, dimenticando questa antichissima e
notevole fonte di civiltà, avremmo dimenticato anche noi stessi e localizzato in maniera errata
gli inizi della nostra storia. I Sumeri sono quindi il nostro ieri e ci sono tanto vicini quanto il
nostro immediato passato. Ma come nacque la Sumeria e quali rivoluzioni fondamentali del
processo di civilizzazione porta con sé? Senza dubbio gli sviluppi delle comunità antecedenti
lo stato sono la condizione necessaria per la nascita di una società in forma di stato.
Nell'evoluzione dell'umanità si osserva che le prime forme di primati sono apparse circa 60
milioni di anni fa. L'andatura eretta, l'impiego di attrezzi primitivi si manifesta circa 20 milioni
di anni fa. I nostri avi iniziarono a vagare alla scoperta del mondo, si espansero ed occuparono
la terra. Circa milione di anni fa le prime concentrazioni umane si insediarono nell'area del
Mediterraneo e nella Mezzaluna Fertile della catena dei Monti di Tauro e Zagros. Insediamenti
favoriti dal clima mite e da una ricca flora e fauna. A partire da questa zona geografica
l'espansione avviene in tutte le direzioni a causa dell'aumento demografico. Questa circostanza
può essere dimostrata anche geneticamente per le attuali popolazioni asiatiche ed europee. La
Mezzaluna d’Oro, e ancor più specificatamente la regione compresa tra il Tigri e l'Eufrate,
conosciuta col nome storico di Mesopotamia, gioca un ruolo fondamentale nella formazione

1
Cfr. tra gli altri Hans J. Nissen: "Geschichte Altvorderasiens", Monaco 1999; Susan Pollock: "Ancient
Mesopotamia. The Eden That Never Vas", New York/Cambridge 1999; Barthel Hrouda: "Mesopotamien. Die
antiken Kulturen zwischen Euphrat und Tigris". In collaborazione con Rene Pfeilschrifter, Monaco 2000. (n.d.t)

9
della società comunitaria primitiva. Con la fine dell'ultima era glaciale circa ventimila anni fa,
il clima freddo e secco lascia il posto ad un clima mite e piovoso, e così tra il 15000 e il 12000
a.C. si ha l'apparizione della società mesolitica, di cui ancor oggi si trovano abbondanti prove
nella regione sotto forma di fossili.
Lo sviluppo sociale dipendeva dalle condizioni climatiche in tale misura che, come
conseguenza dell'improvvisa siccità manifestatasi circa 10000 anni fa, al posto della forma di
sviluppo basata sulla caccia e sulla raccolta, apparve quella che la ricerca storica chiama
rivoluzione neolitica (Era Neolitica). I resti più antichi della società neolitica finora rinvenuti
provengono tutti dalle regioni superiori del Tigri e dell'Eufrate. La rivoluzione neolitica può
anche essere definita come rivoluzione agraria. Si fonda su l'appropriazione della coltivazione
dei campi e l'allevamento del bestiame. Scavi archeologici nelle vicinanze di Diyarbakir-Ergani
Çayönü2 (Çeme Kote Ber), Batman (Çeme Xallan), Urfa-Siverek (Nevala Çore)3 ci permettono
di seguire la storia di insediamenti collettivi fino al 10000 a.C. Sotto i numerosi cumuli di terra
(Tepe) che si possono incontrare tra il Tigri e l'Eufrate, si trovano i primi villaggi neolitici
(Gond). In kurdo Gond ancor oggi significa villaggio. Nella lingua dei Luwi, uno dei più antichi
popoli dell'Anatolia il cui idioma appartiene al ceppo linguistico ariano4, la regione viene
chiamata Gondwana, cioè "il paese dei luoghi alti", mutatosi poi in Kurdian5 - nel Medioevo
Kurdistan, in iraniano Seljuk. Questo argomento verrà trattato più dettagliatamente nel capitolo
dedicato alla storia dei kurdi. Questi cumuli di terra, che in effetti persino ai giorni nostri sono
visibili in molti luoghi e ad occhio nudo, sono una prova di quanto estesamente e
profondamente la rivoluzione neolitica si sia manifestata in questa regione. Fino ad ora in
nessun altro luogo della terra è stata scoperta una tale concentrazione di insediamenti risalenti
a quest'epoca.
La ricerca è unanime nel riconoscere che, come la società del Mesolitico, anche la società del
Neolitico si è diffusa sulla terra in tutte le direzioni a partire da queste terre. Si tratta della più
importante epoca preistorica di espansione che, grazie alla sua ampia dimensione sociale,
racchiude in sé tutte quelle peculiarità che serviranno alla preparazione della civiltà. La società
del Neolitico sviluppatasi tra il 6000 e il 4000 a.C. nella regione centrale compresa tra il Tigri
e l'Eufrate in direzione della cultura di Tell-Khalaf, intorno al sesto millennio raggiunge
l'Africa del Nord (Egitto), il basso Eufrate, il Golfo di Bassoro e l'Anatolia centrale (Çatal
Höyük). Nel quinto millennio si apre la strada verso il Caucaso, la sponda settentrionale del
Mar Nero, i Balcani, l'Iran nord-orientale e l'India (sulle sponde dell'Indi e nella terra del
Punjab). Nel quarto millennio è la volta poi della Cina e dell'Europa ed infine del continente
americano nel terzo millennio. In base ai ritrovamenti archeologici, la scienza storica parte

2
Dove ad es. l'archeologo Robert Braidword nel 1993 scoprì il fino ad ora più antico campione di tessuto nella
storia dell'umanità, datato come risalente al 7000 a.C. (New York Times del 13 luglio 1993). (n.d.t)
3
Nel frattempo inondata nel corso dei lavori di costruzione di una diga. (n.d.t)
4
Öcalan usa questo concetto in senso linguistico, non etnico. È vero che oggi spesso si preferisce usare
l'espressione indoeuropeo, espressione che però mi sembra fuorviante se applicata ad un periodo, per il quale non
esistono documenti storici provenienti dall'India o dall'Europa che appartengono a questo gruppo linguistico.
Considerando la spiegazione etimologica del concetto fatta da ÔcaIan nei capitoli 8.1 e 8.3, come pure le sue
chiare argomentazioni scientifiche e politiche, mi sembrava falso rinunciare completamente al concetto, anche se
nel campo linguistico tedesco è come sempre caricato di un significato razzista a causa dell'uso fattone
nell'ideologia nazista. Per questo motivo mi dissocio dal ragionamento secondo il quale parlando di "Indoeuropei"
e "Semiti" si sarebbero potuti diffondere concetti in generale, o antisemiti in particolare. (n.d.t)
5
Deriva dal concetto sumerico che - kur - che sta per 'montagna'. (n.d.t)

10
dalla diffusione delle conquiste culturali. Già la cultura di Tell-Khalaf inventò tutti quegli
strumenti indispensabili per la creazione della civiltà. L'artigianato dei vasi, l'ascia, l'aratro, gli
utensili per la lavorazione della lana, la tessitura, la macinazione del grano, l'architettura
collettiva del villaggio, la ruota, oggetti semi-metallici di rame, l'uso delle stelle come simboli
ed una ideologia basata sul credo negli dei, sono la grande eredità dell'umanità in questi inizi
della storia. Se volessimo trovare un paragone alla loro importanza per lo sviluppo storico,
dovremmo risalire all'epoca dell'Illuminismo, nel periodo compreso tra il XVI e il XX secolo
d.c. Tanto era il significato di questa cultura nella storia.
Là dove il Tigri e l'Eufrate insieme formano un fertilissimo delta alluvionale nelle vicinanze
del Golfo di Bassoro, le comunità appartenenti alla cultura di Tell-Khalaf producevano
un'abbondanza di prodotti mai vista prima. Un ruolo fondamentale a tal fine lo ebbe il
passaggio all'irrigazione artificiale dei campi per mezzo di canali, che vennero nuovamente
colpiti da un periodo di siccità tra il 4000 e il 3000 a.C. A tutto ciò si devono aggiungere le
lussureggianti palme da dattero e la ricchezza di pesce. Vi erano quindi tutte le condizioni
necessarie alla nascita nella coscienza umana del ben radicato concetto di Paradiso e per l'inizio
di una nuova epoca storica: l'epoca in cui "la storia inizia con i Sumeri"6. Con la scrittura
cuneiforme inventata intorno al 3000 a.C. entriamo nella fase della storia scritta.
Nonostante la civiltà possa essere definita in base a una molteplicità di particolarità, tuttavia
quella decisiva - o meglio la caratteristica distintiva - è il fatto che questa raggiunga l’eccedenza
produttiva frutto del lavoro umano, con una produttività ben superiore all'effettivo consumo e
la costituzione di rapporti di schiavitù, in altre parole la proprietà privata. I Sumeri realizzano
tutto ciò nella forma dello Ziggurat, un'entità che assume la funzione sia di tempio sia di luogo
di lavoro collettivo e centro amministrativo sociale. Questi centri stanno a rappresentare
l'identità della società ed allo stesso tempo si caricano di un significato sacro, in quanto
rappresentanti dell'ordine celeste sulla terra. Sono i prototipi dei grandi templi, eretti più tardi
nell'intero corso della storia della civiltà, delle agorà, dei parlamenti, dei centri commerciali e
dei quartieri militari, dei centri educativi e culturali. Rappresentano il grembo materno della
istituzionalizzazione dello stato.
Fin dall’inizio gli interpreti della società di allora, i sacerdoti, vogliono conferire un carattere
sacro e di eterna immutabilità a questa invenzione chiamata stato, cioè lo Ziggurat, in
considerazione della produttività raggiunta: lo Ziggurat era al tempo stesso il dominatore dello
spirito umano, in quanto rappresentante dell'ordine celeste sulla terra, e la più matura fonte di
autorità.
In fin dei conti però si trattava di un processo in cui, da una parte si creava un’immensa
produttività materiale, grazie all’utilizzo della forza lavoro degli schiavi come strumento
produttivo, e dall’altra un grande numero di uomini veniva allo stesso tempo liberato dalla
produzione.
Questi ultimi avevano ora tempo sufficiente per dedicarsi alla religione, all'artigianato, a
compiti amministrativi e governativi, come pure la possibilità di accumulare benessere. La
teologia sumerica come aggregato, guida spirituale e morale, con l’implementazione di un
ordine di divinità, raggiunse un notevole potere sulle menti, i pensieri e sulla struttura spirituale
degli uomini. Gli sviluppi materiali e spirituali si alimentavano a vicenda. La proprietà "sacra",

6
Dal di un libro dello studioso americano di sumerologia Sumuel Noah Kramer (1961). (n.d.t)

11
la famiglia “sacra” e l’istituzionalizzazione della religione, diventarono i pilastri principali
della nuova struttura sociale. La comunità, fino ad allora fondata sui legami di stirpe, si
trasformò un po’ alla volta in una struttura con classi e strati sociali, che si davano nuove forme
di rappresentanza.
Quindi lo stato è effettivamente un'invenzione del Sumeri. I precursori del processo che porterà
alla sua formazione sono all'inizio i potenti interpreti della realtà, la classe sacerdotale. Questi
rappresentano allo stesso tempo la nascita di una classe che funge da amministratore e
organizzatore del processo produttivo. Il passaggio da sacerdoti a sacerdoti-re (periodo
dinastico) è quasi privo di nota. Il terreno è già pronto, sia spiritualmente che materialmente.
Se studiamo la mitologia sumerica attraverso i testi disponibili, capiremo meglio perché i
Sumeri consideravano tutte le loro azioni come "ordine degli dèi". Agli uomini di quel tempo
in effetti l'ordine sacro raggiunto dai sacerdoti doveva apparire divino. Come terreno era
inconcepibile. La forma basilare del pensiero non si fondava sul sapere, ma sulla fede. E la fede
è un fatto di cuore, che conosce solo abnegazione e non nutre dubbi di alcun tipo. Nessun'altra
ideologia era fino allora riuscita ad avere un'influenza così forte sugli uomini, come la
mitologia sumerica. Non ci si può non stupire di come i Sumeri svilupparono questa mitologia,
trasformandola in una teologia sulle cui fondamenta si sviluppò l'essere stato. Il precedente era
stato creato, sarebbe poi diventato il paradigma di tutto il successivo pensiero religioso e
filosofico. È il fondamento e la fonte, ma al tempo stesso anche un atto di creazione della prima
semplice e primitiva forma originaria di letteratura ed arte. Con ragione la sumerologia è
riuscita a diventare un po' alla volta la branca più importante della ricerca storica. Senza la
storia dei Sumeri tutta la storia è condannata ad essere scritta in maniera lacunosa e falsa.
I contributi fondamentali dei sumeri allo sviluppo storico si possono riassumere a grandi linee
come segue:
- Invenzione della lingua scritta
- Matematica e calcolo del tempo (calendario)7
- Prima mitologia e teologia comprensive
- Fondazione dello stato, politica e formazione delle classi
- Leggi e diritto scritto
- Stato, tempio, artigianato e centralizzazione del commercio
- Proprietà privata e pubblica
- Sacra famiglia e dinastia (reggenza ereditaria)
- Letteratura e saghe, musica
- Prime colonie ed imperialismo
A questo si possono aggiungere un gran numero di concetti, istituzioni e sistemi. Tuttavia
questa breve lista è già sufficiente ad illustrare in modo convincente come si sia formata la
struttura principale della civiltà. I contributi successivi sono limitati e soltanto quantitativi,
niente di più di una sottile suddivisione di qualcosa di già esistente. Uno dei concetti utilizzati
volentieri dai Sumeri era il concetto di <ME>, una specie di legge o di caratteristica di civiltà.
I sumeri sono consapevoli delle loro scoperte, che definiscono e concettualizzano come i sacri

7
Quello che modernamente conosciamo come teorema di Pitagora viene solitamente attribuito al filosofo e
matematico Pitagora. In realtà il suo enunciato (ma non la sua dimostrazione) era già noto ai Babilonesi.

12
<ME>, o leggi. Finora la ricerca ne ha contati 104, numero che potrebbe comunque crescere
ancora. novantanove attributi del dio dell'Islam derivano da questi concetti sumerici.
Quando si parla dei Sumeri, un altro dei temi centrali è quello riguardante l'espressione
mitologica del conflitto tra l'ordinamento matriarcale ed il dominio patriarcale8. Infatt
congemporaneamente alla nascita della schiavitù, il sesso femminile perde progressivamente
la propria influenza nella realtà sociale. Questo profondo ed intenso conflitto si rispecchia nella
gerarchia degli dèi, in particolare nella decadenza della dea della montagna Nin-Hursag, fino
ad allora figura preminente, che perde la sua posizione nell'ordinamento statale dei Sumeri
dominato dagli uomini.
Nin-Hursag era la dea delle regioni montuose settentrionali ed orientali. È la dea della
montagna, rappresentata come una stella, 'Sterk' in kurdo. All'inizio di questo processo di
trasformazione la donna dei Sumeri era un essere profondamente rispettato. Nell'ordinamento
divino occupava metà del cielo. Nei conflitti diretti tra Nin-Hursag e l'astuto e saggio dio
maschile <Enki> — in una resa dei conti secondo la legge dell'occhio per occhio, dente per
dente — si giungeva comunque per lo più alla pace attraverso il compromesso. Nella mitologia
sumerica successiva incontreremo questa dea con il nome di "Inanna”. Consapevole delle sue
azioni Inanna abbandona la città di Enki, Eridu, dopo aver preteso dalla controparte maschile
che le venissero restituite le proprie conquiste, in quanto vera dea creativa del Neolitico. Con
questi ME ritorna nella sua città di Uruk. Poiché questo successo nella mitologia sumerica era
oggetto di credo assoluto, diventò parte Integrante della religione. Tutte le battaglie degli dei
in realtà non sono che chiare ed efficaci rappresentazioni dei conflitti interni al processo di
formazione dello stato sumerico. Si racconta una favola in cui le entità divine, rappresentanti
dei conflitti di classe, delle rivalità tra le dinastie, delle guerre tra città-stato, combattono fino
alla fine le loro battaglie. Tutto ciò sarebbe inimmaginabile nell’ordine degli dèi, i cui sudditi9
possono essere soltanto ombre. La forza di volontà è una prerogativa degli dèi. Soltanto loro
possono lottare, vincere o riconciliarsi. Questa affascinante forma di dominio ideologico
costituisce il nucleo del concetto di stato e della sua teoria. Come stato centrale personificherà
poi allo stesso tempo tutti gli ordinamenti religiosi, giuridici e politici. Ideologia dello stato che
perdura ancor oggi.

Brani tratti da A. Öcalan, Gli eredi di Gilgamesh. Dai sumeri alla civiltà democratica,
Punto Rosso, Milano 2011, pp. 11-17

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8
Si veda in proposito ad es. Gerda Lerner, "The Creation Of Patriarchy", Oxford 1986, o Hilde Schmôlzer, "Die
verlorene Geschichte der Frau", Bad Sauerbrunn 1990. (n.d.t)
9
Questo concetto (kul) viene usato spesso da Öcalan in questa opera. Secondo l'Oxford Dictionary Turco-lnglese,
in turco moderno significa sia schiavo sia creatura e uomo in senso religioso. Probabilmente l'espressione deriva
dall'arabo qull, che nel vocabolario arabo di Hans Wehr è reso come esiguità, irrilevanza, scarsità. Sembra tuttavia
che né l'arabo né il persiano conoscano l'uso che del concetto se ne è fatto nella lingua della corte osmanica:
l'uomo come un essere il cui destino è determinato da Allah ed è a disposizione del sultano. Se quindi in questo
libro il concetto viene sempre tradotto come suddito, è per destare nel lettore italiano l'associazione con la
posizione dell'individuo sottomesso in una monarchia assolutista, come spesso accade nell'Europa medievale.
(n.d.t)

13
[il testo] Atena nera si concentra sui prestiti culturali greci dall'Egitto e dal Levante nel II
millennio a.C., o, per esser più precisi, nel corso dei mille anni che vanno dal 2100 al 1100 a.C.
Alcuni di questi scambi avvenuti forse prima, e altri posteriori, saranno anche tenuti in conto.
Le ragioni per scegliere questo particolare lasso di tempo sono, in primo luogo, che questo
risulta essere il periodo in cui la cultura greca si formò, e, in secondo luogo, che mi è stato
impossibile scoprire, nei documenti del Vicino Oriente o in fonti leggendarie, culturali o
etimologiche greche, indicazioni di qualsiasi prestito precedente.
L'ipotesi che propongo è che mentre sembra esservi stata durante questo millennio un'influenza
più o meno continua del Vicino Oriente sull'Egeo, essa avrebbe subito considerevoli variazioni
d'intensità a seconda del periodo. Il primo «picco» di tale influenza, di cui si abbia traccia, fu
il XXI secolo. Fu allora che l'Egitto si riprese dal crollo del Primo Periodo Intermedio e fu
costituito il cosiddetto Medio Regno dalla nuova XI dinastia. Questa non solo riunì l'Egitto, ma
attaccò anche il Levante, e, a quanto risulta da testimonianze archeologiche, ebbe contatti di
vasto raggio che si spinsero ben oltre, sino ad includere di certo Creta e forse la Grecia
continentale. La successione di faraoni neri dell'Alto Egitto, tutti chiamati Menthotpe, aveva a
proprio divino patrono il dio falco e toro Mngw o Mont. E durante lo stesso secolo che vennero
costruiti i palazzi cretesi; e a quest'epoca risalgono le prime tracce del culto del toro,
rappresentato sui muri dei palazzi, culto che fu centrale alla mitologia greca su re Minosse e
Creta. Sembrerebbe quindi plausibile supporre che tali sviluppi cretesi, direttamente o
indirettamente, riflettessero il sorgere del Medio Regno egizio. […]
Nel frattempo, è interessante notare che secondo un'antica tradizione, cui fa riferimento Omero,
Amfione e Zeto furono i primi fondatori di Tebe, e che l'altro fondatore della città, Cadmo,
arrivò dal Vicino Oriente molto tempo dopo che la loro prima città era stata distrutta. Come le
piramidi egizie, la tomba di Amfione e Zeto fu associata col sole e, come queste, la Tebe greca
aveva strette associazioni con una sfinge. Inoltre, essa era in qualche modo connessa col segno
zodiacale del Toro, e molti studiosi hanno stabilito paralleli tra il culto del toro tebano e quello
cretese. Nulla è certo, ma ci sono forti indizi che connettono la tomba e la prima fondazione di
Tebe, direttamente o indirettamente, all'Egitto della XI dinastia.
Mentre a Creta il culto del toro fu dominante per altri 600 anni, l'Egitto abbandonò il culto
regio di Mont col sorgere della XII dinastia, poco dopo il 2000 a.C. La nuova dinastia aveva
come patrono il dio ariete Amon, originario dell'Alto Egitto. Credo che la maggior parte dei
culti dell'ariete che si ritrovano attorno all'Egeo, e in genere associati a Zeus, derivassero
dall'influenza di questo periodo, traendo spunto tanto da Amon che dal culto dell'ariete/capra
Mendës nel Basso Egitto.
Erodoto e autori successivi scrissero molto circa le vaste conquiste di un faraone che egli
chiama Sesôstris, il cui nome è stato identificato con S-n-Wsrt o Senwosret, nome di alcuni
faraoni della XII dinastia. Ma queste affermazioni di Erodoto sono state trattate con speciale
derisione. Lo stesso trattamento è stato riservato ad antiche leggende circa spedizioni di vasto
raggio intraprese dal principe etiope o egizio Memnôn, il cui nome potrebbe derivare da >lmn-
mh3t (scritto Ammenemës da autori greci posteriori), nome anche questo di altri importanti
faraoni della XII dinastia. Entrambi i cicli leggendari sembrano ora trovare conferma nella
recente lettura di un'iscrizione proveniente da Memfi che descrive le conquiste per terra e per
mare di due faraoni della XXII dinastia, Senwosret I e Ammenemës II. C'è anche

14
un'interessante somiglianza tra Hpr k3 R<, nome alternativo di Senwosret, e Kekrops
(Cecrope), il leggendario fondatore di Atene che alcune antiche fonti dicono fosse egizio. […]
La prima revisione del modello antico che propongo è che si ammetta che ci siano state, durante
il IV e III millennio, invasioni o infiltrazioni della Grecia da parte di popoli di lingua indo-
europea provenienti dal Nord. La seconda revisione che voglio proporre è che si situi lo sbarco
di Danao in Grecia vicino all'inizio del periodo Hyksos, ossia circa nel 1720 a.C., non vicino
alla sua fine — nel 1575 0 dopo — come riportato nelle antiche cronografie. Sin dalla tarda
antichità, gli autori hanno scorto nessi tra le testimonianze egizie sull'espulsione degli odiati
Hyksos da parte della XVIII dinastia, la tradizione biblica dell'Esodo dall'Egitto degli Israeliti
e le leggende greche sull'arrivo ad Argo di Danao. Secondo la tradizione greca, Danao era o
egizio o siriano, ma è definitivo che egli giungesse dall'Egitto dopo o durante la lotta col suo
gemello Egitto, la cui origine è palese. Questa triplice associazione sembrerebbe plausibile, e
da alcuni archeologi è stata messa in coincidenza con le testimonianze archeologiche. Sviluppi
recenti nella datazione al radiocarbonio e nella dendrocronologia rendono però impossibile
situare i nuovi insediamenti in Grecia alla fine del periodo Hyksos. D'altra parte, sia questi
nuovi dati che le testimonianze archeologiche di Creta concorderebbero a datare lo sbarco nel
tardo XVIII secolo, agli «inizi» del periodo quindi.
Gli antichi cronografi variano nelle loro datazioni dell'arrivo di Cadmo e della sua «seconda»
fondazione di Tebe. Io assocerei anche queste leggende agli Hyksos, per quanto potrebbero
riferirsi a periodi successivi. La tradizione greca associava Danao con l'introduzione
dell'irrigazione e Cadmo con l'introduzione di certi tipi di armi, dell'alfabeto e di alcuni rituali
religiosi. Secondo il modello antico riveduto, sembrerebbe che l'irrigazione giungesse con
un'ondata migratoria precedente, ma altri prestiti, incluso il carro da guerra e la spada, entrambi
introdotti in Egitto nel periodo Hyksos, giunsero poco dopo nell'Egeo. Nella religione, i culti
introdotti in questa fase sembra si accentrassero attorno a Poseidone e Atena. Io sostengo che
il primo debba identificarsi con Seth, dio egizio delle plaghe selvagge o del mare, cui gli
Hyksos erano devoti, e col semitico Yam (mare) e Yahwe. Atena era l'egizia Nëit e
probabilmente la semitica <Anât, anch'essa a quanto risulta venerata dagli Hyksos. Con ciò
non si vuol negare che altri culti di divinità quali Afrodite e Artemide fossero introdotti in
questo periodo. […]
Per generale accordo, la lingua greca si sarebbe formata durante i secoli XVII e XVI a.C. In
essa struttura e lessico di base indo-europei si combinano con un vocabolario della vita colta
non indo-europeo. Sono convinto che gran parte di questo sia plausibilmente derivato
dall'egizio e dal semitico occidentale. Ciò ben si accorderebbe con un lungo periodo di
dominazione da parte di conquistatori egizio-semiti.
Alla metà del XV secolo, la XVIII dinastia costituì un potente impero nel Levante, e ricevette
tributo dall'Egeo. In questa regione si sono ritrovati molti oggetti della XVIII dinastia. A mio
parere, fu questa un'altra onda di piena dell'influenza egizia, e fu probabilmente in questo
periodo che il culto di Dioniso — tradizionalmente considerato come «tardo» — sarebbe stato
introdotto in Grecia. In specifico, accetto l'antica tradizione secondo cui i culti misterici eleusini
di Demetra si costituirono in questo periodo. Agli inizi del XIV secolo a.C., ritengo che ci fosse
un'altra invasione della Grecia, quella dei Pelopidi o Achei provenienti dall'Anatolia, i quali
introdussero nuovi stili di fortificazione e forse le corse dei carri; ma questa non interessa
direttamente il mio progetto.

15
Nel XII secolo a.C., si ebbe un'altra e più disgregante rottura storica. Nell'Antichità, ciò che
ora chiamiamo «invasione dorica» era molto più spesso definita «il ritorno degli Eraclidi». Gli
invasori giunsero certamente dalle frange Nord-occidentali della Grecia, zone che erano state
influenzate di meno da quella cultura dei palazzi micenei che essi distrussero. È affascinante
che essi stessi si chiamassero «Eraclidi», e che pretendessero di essere d'origine divina e di
discendere da Eracle, e vantassero anche come propri gli antenati egizi e fenici delle famiglie
reali che erano state rimpiazzate dai Pelopidi. Non c'è dubbio che i discendenti di questi
conquistatori, i re dorici dell'età classica e ellenistica, credessero di discendere dagli Egizi e dai
Fenici.
[…] Ho scritto altrove sull'origine fenicia della polis o città-stato e sulla «società schiavistica»
durante il IX e VIII secolo nell'interpretazione marxista. Spero anche, un giorno, di lavorare
sulla trasmissione della scienza, della filosofia e della teoria politica egizie e fenicie da parte
dei fondatori greci di queste discipline, la maggior parte dei quali avevano studiato in Egitto e
in Fenicia. Atena nera si occupa però essenzialmente del ruolo svolto da Egizi e Semiti nella
formazione della Grecia durante la media e tarda età del bronzo.
[…] La tesi che sostengo, sulla base di un certo numero di etimologie, è che nel peculiare
lessico della tragedia [Le supplici, di Eschilo] sia documentata in modo considerevole
un'influenza egizia, e ciò indica che Eschilo era a contatto con tradizioni antichissime. In
particolare, affermo che il tema stesso è basato su un gioco di parole tra hikes(ios) (supplice) e
Hyksos; mentre, a un altro livello, l'idea che i colonizzatori giungessero dall'Egitto come
supplici può essere intesa come un contentino per l'orgoglio nazionale dei Greci. Un simile
tentativo di attenuare il colpo lo si può vedere nel Timeo, in cui Platone riconosce un'antica
parentela «genetica» tra l'Egitto e la Grecia in generale, e in particolare tra Atene e Sais, la
principale città sul margine Nord-occidentale del Delta. Piuttosto implausibilmente, assegna
però priorità temporale ad Atene. Come alcuni altri Greci, Eschilo e Platone sembrano sentirsi
offesi dalle leggende di colonizzazione, poiché esse pongono la cultura ellenica in posizione
inferiore rispetto a quella degli Egizi e dei Fenici, verso i quali la maggior parte dei Greci di
quel tempo sembra provasse un'acuta ambivalenza. Gli Egizi e i Fenici erano disprezzati e
temuti, ma al tempo stesso profondamente rispettati per la loro antichità e per la loro antica
religione e filosofia, che avevano ben conservato. […] Molti tra gli antichi Greci condividevano
un sentimento assai simile a ciò che oggi chiameremmo nazionalismo: disprezzavano gli altri
popoli e alcuni, come Aristotele, davano a ciò persino una dignità teorica sostenendo una
superiorità degli Elleni basata sulla posizione geografica della Grecia. Era un sentimento
temperato dall'assai sincero rispetto che molti autori greci provavano per le culture straniere,
in particolare quella dell'Egitto, della Fenicia e della Mesopotamia. Ma in ogni caso la forza di
questo «nazionalismo» dell'antica Grecia era trascurabile rispetto all'onda di piena dell'etnicità
e del razzismo, legati ai culti dell'Europa cristiana e del Nord, che col movimento romantico
travolse l'Europa settentrionale alla fine del XVIII secolo. Il paradigma delle «razze»,
intrinsecamente ineguali per dotazione fisica e mentale, fu applicato a tutti gli studi umani, ma
soprattutto alla storia. Si riteneva ora indesiderabile, se non disastroso, che le razze si
mescolassero. Per essere creativa, una civiltà doveva essere «razzialmente pura». Divenne così
sempre più intollerabile che la Grecia concepita dai romantici non soltanto come epitome
dell'Europa, ma come sua pura infanzia — potesse essere il risultato della mescolanza tra nativi
europei e colonizzatori africani e semiti.

16
[…] Nel Capitolo IV mi occupo di nomi di città. E più comune che questi siano trasmessi da
cultura a cultura di quanto non avvenga per i nomi di tratti naturali del paesaggio. Tuttavia, il
numero insignificante di nomi di città indo-europei in Grecia, e il fatto che si possano trovare
plausibili derivazioni egizie e semitiche per la maggior parte di essi, sono indizio di un'intensità
di contatto che è impossibile spiegare in termini di commercio. Uno dei gruppi consonantici
più comuni nei nomi di città greche, per esempio, ha origine dalla radice Kary(at). Sarebbe
plausibile spiegarla in base alla comune parola semitico occidentale per città qrt — vocalizzata
in molti modi nei diversi nomi di città, inclusi Qart-, Qàrêt o Qiryàh/at. Si tratta infatti di uno
dei più comuni toponimi fenici ed ebraici, come si riscontra in Cartagine e in molte altre città.
Qui fornisco esempi che dimostrano uno stretto parallelismo tra l'uso di Kary - e quello della
parola greca comune per città, polis. Tra questi, il più interessante è quello che riguarda le
figure di cariatidi poste attorno alla tomba di Cecrope, leggendario fondatore di Atene, in un
portico del tempio di Atena Polia. «Figlie della città» sembrerebbe quindi una spiegazione di
questo nome più plausibile che «sacerdotesse di Artemide originarie di Karyai in Laconia» o
«fate del noce», che sono le sole spiegazioni oggi fornite. Ci sono molte varianti della radice
Kary-, tra queste io includo Korinthos (Corinto). […]
Il Capitolo V è dedicato a una città, Atene. Vi sostengo che tanto il nome della città, Athënai,
quanto quello della divinità, Athënë o Atena, derivino dall'egizio Ht Nt. Nell'antichità, Atena
era con coerenza identificata con la dea egizia Nt o Nëit. Entrambe erano divinità vergini della
guerra, della tessitura e della sapienza. Il culto di Nëit aveva il suo centro nella città di Sais, nel
Delta occidentale; i cittadini di Sais avvertivano una speciale affinità con gli Ateniesi. Sais ne
era il nome profano; il titolo religioso della città era Ht Nt (tempio o casa di Nëit). […] Se la
concordanza fonetica è buona, quella semantica è perfetta. Come ho detto, gli Antichi
concepivano Nëit e Atena come due nomi della stessa divinità. In Egitto era normale che ci si
rivolgesse a una divinità col nome della sua dimora, e ciò spiegherebbe la confusione greca tra
il nome della dea e quello della sua città. C'è infine l'affermazione di Carace di Pergamo, del II
secolo d.c., secondo cui «gli abitanti di Sais chiamavano la loro città Athënai» e ciò avrebbe
senso a patto che essi avessero usato Ht Nt come nome di Sais.
[…] Nêit, sin dall'epoca pre-dinastica era stata simbolizzata come uno scarabeo su un bastone,
per poi svilupparsi in uno scudo a forma di 8, spesso accompagnato da armi. Questo
simbolismo parrebbe essere all'origine della cosiddetta «dea scudo» che si ritrova nella Creta
minoica, la quale a sua volta è di solito posta in relazione con una placca di calcare dipinto
ritrovata a Micene che mostra le braccia e il collo di una dea che spunta da dietro uno scudo a
forma di 8. Ora, quest'immagine è stata vista come una rappresentazione primitiva del Palladio,
una panoplia di corazza e armi associata col culto di Pallade Atena, oltre che con la dea stessa.
In tal modo si può quindi tracciare uno sviluppo iconografico — dall'Egitto del IV e III
millennio, attraverso Creta e Micene nel II, sino alla ben nota dea del I millennio — che
corrisponde precisamente alla leggendaria associazione tra Nëit e Atena e al rapporto
etimologico tra loro. Inoltre, il culto di stato ateniese per la dea Atena giunse alla sua pienezza
proprio nell'epoca — alla metà del VI secolo — in cui Amasis, faraone saita d'Egitto, ne
promuoveva il culto altrove nel Mediterraneo orientale.
Sais era alla frontiera tra Egitto e Libia, e fu inoltre a periodi in parte libica, il che spiega la
minuta descrizione che Erodoto fornisce dell'associazione tra Atena e Libia. E inoltre chiaro
che questo primo, grande storico greco riteneva che gli Egizi e alcuni libici fossero neri. D'altra

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parte, le prime rappresentazioni greche di Atena sono quelle di Micene, in cui le membra della
dea son dipinte in accordo con la convenzione minoica presa dall'Egitto di rappresentare gli
uomini come rosso/marroni e le donne giallo/ bianche. […]
L'ultima sezione del capitolo è dedicata alle influenze egizie sulla Sparta dell'età del ferro. Il
fatto che gran parte del vocabolario politico tipicamente spartano possa essere stato
plausibilmente derivato dal tardo egizio è connesso alla tradizione secondo cui il legislatore
spartano Licurgo avrebbe visitato l'Oriente e l'Egitto per studiarne le istituzioni. Inoltre,
l'ipotesi di un'influenza culturale egizia su Sparta è rafforzata dall'aspetto sorprendentemente
egizio dell'arte spartana arcaica. Tutto ciò si collega alla credenza dei re spartani in una propria
discendenza dagli Eraclidi, e quindi dagli Egizi o dagli Hyksos; e ciò potrebbe anche spiegare
anomalie, dal punto di vista del modello ariano, quali la costruzione di una piramide nel
Menelaion, il santuario «nazionale» spartano, e la lettera che uno degli ultimi re spartani scrisse
al gran sacerdote di Gerusalemme proclamando di essergli legato da parentela.
[…] Il Capitolo tratta della più remota influenza religiosa che si possa discernere nelle origini
del culto taurino cretese, la cui nascita è contemporanea alla fondazione dei palazzi dell'isola.
L'influenza è quella del culto regio del dio falco/toro Mntw o Mont sotto l'XI dinastia, nel XXI
secolo a.C. Io sostengo che la mancanza di testimonianze su un culto taurino a Creta nel periodo
Minoico Antico, nel III millennio, rende assai improbabile che vi sia continuità col culto taurino
documentato in Anatolia nel VII millennio. Inoltre, la montuosa Creta non può in alcun modo
essere considerata un paese per natura favorevole all'allevamento del bestiame. Oltre
all'improvvisa comparsa del culto taurino nell'isola, alla coincidenza dei tempi, a quanto si sa
sull'espansione dell'influenza egizia durante i regni dei vari faraoni dell'XI dinastia chiamati
Menthotpe, e alle testimonianze archeologiche sui contatti tra Egitto ed Egeo in quest'epoca, ci
sono testimonianze leggendarie che indicano un'influenza egizia su Creta in questo periodo. Io
credo che i nomi del dio Mntw e del faraone Menthotpe si riflettano entrambi nel nome che le
leggende greche assegnano a un antico giudice, legislatore e conquistatore delle isole greche,
Radamanto, nome che si può plausibilmente far derivare da un egizio *Rdi «Mntw dà».
Radamanto era anche il patrigno bellicoso di Eracle, e all'eroe aveva insegnato a tirar d'arco;
Mntw era anche il dio dell'arte dell'arco. Mntw era associato alla dea R<t, il cui nome, come
sappiamo da fonti mesopotamiche, era vocalizzato come Ria. Sembrerebbe questa un'origine
plausibile del nome della dea Rhea, che aveva un ruolo centrale nella religione cretese.
Il culto di Mntw non fu il solo culto taurino egizio a raggiungere l'Egeo. Ritengo plausibile
associare la figura leggendaria di Minosse, primo re e legislatore di Creta, a Mënês — o Mina,
come lo chiamava Erodoto — primo legislatore e faraone d'Egitto, da datarsi attorno al 3250
a.C. Nell'Antichità si attribuiva a Mina la fondazione del culto taurino di Apis a Memfi. Un
altro culto taurino egizio — chiamato Mnevis dai Romani — era stato plausibilmente derivato
da una forma egizia *Mnewe. Questo culto era stato associato a «mura serpeggianti» sin
dall'epoca dell'Antico Regno, centinaia di anni prima che i palazzi cretesi fossero costruiti.
Abbiamo così una triplice coincidenza: in Egitto c'erano due culti taurini associati con i nomi
Mina e Mnewe; il primo era il nome del fondatore della dinastia regia, e il secondo era connesso
a «mura serpeggianti»; a Creta c'era un culto taurino associato con il fondatore re Minosse e
con un labirinto! La tradizione greca, assai chiara in proposito, sostiene che per ordine di
Minosse il labirinto fu copiato da un originale egizio dal grande artista e architetto Dedalo. I
tentativi di derivare il nome labirinto da una presunta parola lidia labrys che significherebbe

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«ascia» sembrano meno plausibili dell'etimologia proposta dagli egittologi attorno agli anni
1860 — e negata da quelli del XX secolo — che risale a un toponimo egizio ricostruito *R-pr-
r-hnt, nome del sito ove sorgeva il grande labirinto egizio descritto da Erodoto e da altri antichi
autori.
Culti taurini, derivati non soltanto da quello di Mngw ma anche da quelli di Mina, Mnevis e
Apis, erano presenti in tutta la Grecia, ma furono sopravanzati da quelli dedicati a capre e arieti.
Agli inizi o attorno agli inizi della XII dinastia, il culto regio egizio mutò: da culto del falco/toro
Mntw a culto dell'ariete Ammon. Come già detto, sulla base di rilievi epigrafici si è dimostrato
che i faraoni della XII dinastia chiamati >Imn-m-h3t e S-n Wsrt, plausibilmente da identificarsi
con i grandi conquistatori Memnôn e Sesôstris della tradizione greca, intrapresero spedizioni
di vasto raggio nel Mediterraneo orientale. Sostengo quindi, nel Capitolo II, che i diffusi culti
oracolari dell'ariete/capra, rinvenuti in tutto il bacino egeo, iniziarono a essere introdotti poco
dopo che essi ebbero assunto posizione predominante nello stesso Egitto nel corso del XX
secolo a.C. In Egitto, i culti erano associati sia con Ammon che con Osiride e, nell'Egeo, con
Zeus e con Dioniso, che erano visti come loro equivalenti greci.
[…] È sorprendente notare che in Grecia la tragedia, che era essenzialmente religiosa, veniva
associata tanto con Dioniso quanto col capro, tragos. […] L'etimologia che propongo per
Poseidone è P3(w) o Pr Sidôn, «colui che è di Sidon» o «casa di Sidon». Sid, dio patrono di
Sidon, derivava il proprio nome dalla radice s/swd, «cacciare». Era una divinità della caccia,
della pesca, dei carri da guerra e del mare; la concordanza semantica è quindi perfetta. […] Ma
sia essa accettabile o meno, credo di poter mostrare sorprendenti parallelismi tra Seth e
Poseidone, di particolare interesse proprio perché nel periodo classico le due divinità non
venivano identificate. Similarità tra i due dèi e i loro culti non possono quindi essere attribuite
a una successiva «egittizzazione».
[…] Il Capitolo V, I gemelli temibili, tratta di Apollo e Artemide. In Egitto il sole era venerato
in molti modi diversi: come Ra, come Aten, il disco solare, e come klprr e Tm, rispettivamente
il giovane sole del mattino e il vecchio sole della sera. […] Horus veniva identificato con
Apollo almeno sin dai tempi del poeta Pindaro, nel V secolo, e che sia così legato all'alba delle
origini è molto appropriato ad Apollo, che era Concepito come eternamente giovane. Il mito
centrale su Horus era quello della sua lotta vittoriosa con Seth che gli si era manifestato sotto
le spoglie di un mostro acquatico. In Grecia uno dei principali miti di Apollo era quello di
Delfi, in cui il giovane dio, accompagnato dalla sorella Artemide, aveva ucciso il Pitone. Io
sostengo che Delfi, come adelphos (fratello), deriva da una parola semitica che significa
«coppia» o «gemello». Il titolo di Apollo, Delphinios, è un doppione di un altro, Dydimos,
«gemello», e la «gemellarità» di Apollo sembra essenziale alla sua natura.
I moderni storici della religione greca stanno abbandonando l'idea che Artemide, sorella
gemella di Apollo, fosse esclusivamente una dea lunare. Si ritiene ora che essa fosse una dea,
vergine e cacciatrice, della sera e della notte. In epoca ellenistica, Artemide era vista come
controparte della dea gatta egizia Bstt, che era identificata con la luna. Anche Bstt aveva però
un aspetto battagliero e come tale si riteneva che avesse contribuito alla distruzione dei nemici
di Horus. Sotto questo aspetto era concepita come leonessa e identificata come controparte
femminile di Ra e di Tm, dio del sole serale. Hprr e Tm insieme costituivano gli aspetti
gemellari di Hr3htwy, «Horus dei (due) orizzonti», che era l'equivalente di Ra. La consorte di
Tm, Tmt/Bstt, sembra godesse di una qualche indipendenza, e dalla metà del III millennio fu

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posta in relazione con le due dee leonesse associate con Horus dei (due) orizzonti. In Egitto, il
più grande monumento a Horus era la Sfinge di Giza. Anche se il monumento è un singolo
leone, una dedica inseritavi accanto nel tardo XV secolo, più di mille anni dopo che fu costruita,
fa riferimento a Hr 3htwy e a Hr(ì) Tm, che quasi sicuramente si riferisce allo stesso Tm. Dal
punto di vista fonetico, una forma femminile *Hrt Tmt offrirebbe una buona etimologia di
Artemide. […] La gemellarità di Apollo e di Artemide è quindi la stessa che esiste tra Hprr e
Tm, tra il sole mattutino e quello della sera.
[…] Io sostengo che la Sfinge tebana si può identificare come la natura selvaggia e leonina di
Europa e di Artemide; ma un nesso ancora più stretto tra le due sfingi ci è offerto
dall'indovinello posto dalla Sfinge greca: «Quale essere ha soltanto una voce, ha talvolta due
piedi, talvolta tre, talaltra quattro, ed è più debole quando è giunto al culmine?». La risposta di
Edipo riguardava la vita dell'uomo, ma l'enigma appartiene a un'intera costellazione di
indovinelli che si ritrova in tutto il mondo — molti dei quali si riferiscono alla debolezza del
sole alla mattina e alla sera, e alla sua forza a mezzogiorno. Io credo che alla luce della dedica
della Sfinge egizia al sole del mattino e della sera, il parallelismo sia assai degno di nota.
Malgrado la comparsa assai tarda del nome di Apollo, l'interazione di influssi egizi e semitici
mi induce a ritenere che questo ciclo di miti solari sia stato introdotto durante il periodo Hyksos.
[…] Poiché a Micene si sono ritrovate placche di maiolica del tipo di quelle che venivano poste
sotto gli angoli dei templi, databili al regno di Amenôphis III (1405-1367), non ho alcuna
difficoltà ad accettare la possibilità che il culto eleusino della Grecia arcaica fosse il
discendente di un culto fondatovi dagli Egizi 700 anni prima. Una delle molte ragioni, infatti,
per cui questo culto era assolutamente unico in Grecia era che — come avveniva nei templi
egizi — esso disponeva di un clero ufficiale, costituito da due clan i cui membri, in epoca
ellenistica, ritenevano per certo di avere ascendenze egizie.
Nei misteri egizi di Osiride figurava Iside in cerca del marito/fratello assassinato, la dea che ne
ricomponeva il corpo, e il trionfo del loro figlio Horus su Seth, assassino del padre. Di primo
acchito, la storia eleusina sembra assai diversa. In essa Demetra andava in cerca della figlia
Persefone, rapita da Ade, dio del mondo infero. Ritrovava Persefone, ma, non riuscendo a
liberarla, scendeva in sciopero impedendo la naturale crescita stagionale dei raccolti. Infine, si
stipulava un patto secondo il quale Persefone avrebbe passato metà dell'anno con Ade e metà
con la madre. Queste differenze non sono sufficienti a convincere di non tenere in alcun conto
l'antica testimonianza secondo cui i misteri greci sarebbero giunti dall'Egitto.
Mentre in Egitto Osiride era il centro del mito, Iside ne era la protagonista; in Grecia, non c'è
dubbio che dietro Demetra si ritrovasse Dioniso. Inoltre, nei misteri egizi c'erano in realtà non
una ma due donne. Iside aveva la sorella/ doppio Nephthys a costante compagna, la quale non
solo andava in cerca di Osiride e ne celebrava il lutto, ma era anche sposata col di lui assassino,
Seth. In tal modo, essa corrispondeva simmetricamente alle ambiguità di Persefone, che aveva
aspetti amorosi e infernali. Soprattutto, però, le ampie variazioni che si ritrovano in questi cicli
di miti greci e egizi dimostrano che non si dovrebbe cercare di estrarre troppo dalle differenze
che tra essi si riscontrano, dato il gran numero di precisi parallelismi tra i due culti misterici.
[…] Non c'è alcun dubbio, ad ogni modo, che il nucleo dei misteri eleusini fossero la ricerca
dell'immortalità e la paradossale credenza che la si potesse raggiungere soltanto attraverso la
morte. Si credeva che tramite l'iniziazione ai misteri si passasse attraverso una morte simbolica
per «rinascere» come immortale; tale concezione era corrente in tutto il Vicino Oriente antico,

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ma era predominante in Egitto. Tutti gli autori antichi convenivano quindi che Pitagora, Orfeo,
Socrate, Platone e gli altri che si erano occupati dell'immortalità dell'anima ne avessero appreso
dall'Egitto.
[…]
Lo scopo conoscitivo […] [è] aprire nuove aree di ricerca a donne e uomini che sono molto
meglio qualificati di me. Lo scopo politico di Atena nera è, inutile dirlo, sminuire l'arroganza
culturale europea.

Brani tratti da M. Bernal, Atena nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica,
Pratiche, 1991

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LA MORALE EROICA E LA POLITICA DEL MITO

Una storia culturale della morale antica non può che trovare nell’Iliade la sua scena d'origine.
[...] Un inizio l'Iliade lo è certamente per noi, rappresentando l'insieme di testi più antichi che
quella tradizione ci abbia trasmesso [...]. Ma anche per i Greci, almeno a partire dal V secolo,
l'Iliade costituiva senza alcun dubbio il testo degli inizi e delle origini, e proprio nel senso di
questa duplice illusione: essi vi leggevano il fondamento della loro cultura, della loro visione
del mondo, della loro morale (tanto che non riuscirono mai, malgrado sforzi tenaci e ripetuti, a
dimenticare davvero Omero); e i loro storici, come Tucidide, non poterono fare a meno,
malgrado ogni cautela critica, di usare il poema come l'unica fonte possibile per l'evento
primario della storia greca, la guerra di Troia.
Eppure, noi sappiamo altrettanto bene che l'Iliade si colloca piuttosto nello stadio finale di un
universo culturale. Il poema è stato composto ed eseguito per un pubblico e in un ambiente
sociale già lontani di secoli dal tempo in cui è situata la finzione poetica, ed è stato trascritto
ancora più tardi nella forma in cui noi lo leggiamo: le tre fasi corrispondono rispettivamente a
un mondo vagamente post-miceneo, alla nascente società della polis e a quella della polis
compiuta. [...] C'è tuttavia qualcosa che l'Iliade documenta: ed è la memoria che il nuovo
mondo nascente ha conservata di quello vecchio e sparito, la memoria di un tempo degli inizi
concluso e però ancora efficace nella coscienza, nella rappresentazione morale, nella visione
del mondo. [...] il documento di una fase, certo antica se non originaria, della consapevolezza
morale dei Greci, delle figure che la popolano, della crisi che la attraversa. Occorre subito dire
che — a differenza della tragedia del V secolo — la messa in scena della crisi non costituisce
il senso né lo scopo deliberato dell'Iliade (o dei poemi che vi confluiscono). Essa non è un testo
intenzionalmente problematico: i problemi, e la crisi, sembrano emergere piuttosto dalla logica
interna dell'universo poetico rappresentato, come effetto necessario delle tensioni di cui si è
detto, e della sua ambigua contestualità. Al contrario, crisi e problemi sono resi più acuti
proprio dalla chiusura, dalla compattezza non incrinata del sistema dei valori dai quali la
«società omerica» appare governata, dal rigido rilievo delle figure eroiche su cui essa si
impernia. Queste figure appaiono i modelli di riferimento di una cultura «testualizzata», nel
senso di Lotman: una cultura cioè in cui i codici di comportamento non sono orientati da
grammatiche, norme o regole formali il cui effettivo riempimento possa variare a secondo delle
situazioni e delle persone, ma sono piuttosto affidati, appunto, alla rappresentazione poetica di
figure perfette ed esemplari, che fungono da regole per così dire incarnate e viventi, capaci di
colpire immediatamente l'immaginazione e di ispirare l'emulazione. Con una ulteriore
limitazione: poiché l'eroe della «società omerica» è innanzitutto una figura legata a uno status,
quello di un'aristocrazia regale e militare, la sua esemplarità non vale evidentemente per tutti,
nel senso che l'emulazione è concessa soltanto ai suoi simili per status; se è estensibile anche
ad altri, questa sua universalizzazione può assumere solo la forma di un principio di esclusione
e sottomissione. [...]
Chi è dunque l'eroe della «società omerica», e in che cosa consiste la sua esemplarità morale?
Egli è innanzitutto il capo di una casata (oikos) che detiene la sovranità su di una comunità
umana e sul suo territorio, di solito entrambi assai piccoli. Questa sovranità è da un lato
illimitata, nel senso di non essere soggetta ad alcun ulteriore potere esterno né al controllo
istituzionalizzato di organismi collettivi interni. D'altro lato, però, essa è radicalmente

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indebolita dall'assenza di qualsiasi legittimazione istituzionale che garantisca la continuità e la
trasmissione dinastica del potere del signore (l'assenza di Odisseo da Itaca riduce il suo oikos
in balia di nobili estranei, né Telemaco può vantare alcun diritto certo alla successione del
padre). La sola legittimazione della sovranità eroica nella «società omerica» sta nella sua
capacità — da dimostrare ogni volta — di assolvere il suo specifico compito sociale, che è in
primo luogo la difesa armata della comunità, e in secondo luogo la difesa strenua del proprio
status, del proprio onore. Da esse dipendono quel consenso collettivo, quel «rispetto», che
sono il solo fondamento di fatto di una sovranità così priva di legittimità istituzionale: il vecchio
eroe incapace di incutere rispetto per il venir meno della sua forza sul campo di battaglia è
costretto di fatto a delegare la sovranità al figlio, come accade a Laerte con Odisseo o a Peleo
con Achille. [...]
L'eroe è per eccellenza agathos, «buono», ma il valore di questo termine non ha, nella «società
omerica», nessuna delle connotazioni che un'etica più tarda gli avrebbe attribuito. Agathos è in
primo luogo un'indicazione di status, e vale dunque «nobile»; ma poiché lo status va sempre di
nuovo legittimato dal comportamento, agathos significa anche immediatamente «buono a»,
«capace di», in grado dunque di erogare una prestazione che è in primo luogo guerriera. [...]
L'insieme delle prestazioni eccellenti di cui l’agathos è capace costituiscono la sua areté, la
sua «virtù». Anche questo termine va letto al di fuori dei significati attribuitigli dalla riflessione
morale più tarda. Si tratta in Omero di una «virtuosità», che si esprime soprattutto ed
essenzialmente nell'agone guerriero, nella capacità di far prevalere la propria forza su nemici e
rivali. [...] La virtù eroica è spesso anche definita come capacità di ben parlare «in consiglio».
Ma non si tratta in ogni caso del rigore o della sottigliezza dell'argomentazione razionale,
quanto piuttosto della capacità di prevalere di fronte all'assemblea dei pari; una sorta di
trasferimento, dunque, della forza, del kratos eroico, dalla spada alla parola (che la prima
dev'essere comunque pronta a confermare, se non si tratta di un vecchio e indebolito eroe di
secondo piano come Nestore).
Il riconoscimento sociale tributato alla virtù, che è essenziale per la sopravvivenza e la
legittimazione della condizione eroica, prende due forme strettamente correlate: la «fama»
(kleos), che si sparge e si consolida tra gli uomini grazie al racconto delle gesta dell'eroe; e
soprattutto il rispetto e l'onore (time), di cui egli deve godere presso i pari, i sudditi, i nemici.
Ma è proprio nella figura della time che compaiono tensioni, crepe capaci di intaccare il
compatto universo morale della «società omerica». Da un lato la time è il riconoscimento
dovuto allo status, alla ricchezza, alla prodezza guerriera dell'eroe, e anche alla sua capacità
di adeguarsi alle regole fondamentali di convivenza fra gli uomini, al necessario rispetto della
divinità. Figura limite tra la condizione umana e quella divina, l’agathos non può rescindere
i legami che lo connettono ad entrambe; e in primo luogo, non può non riconoscere ai suoi
pari quel diritto al riconoscimento, alla time, che è per lui esigenza vitale. D'altra parte, però,
il carattere fondamentalmente agonale della virtù eroica, la difesa a oltranza della propria time
non possono accettare i vincoli della convenzione sociale (e neppure, come vedremo, della
stessa condizione umana). Per asserire la propria virtù, per difendere il proprio onore in una
situazione di crisi, l'eroe è indotto — anzi è necessariamente spinto — a violare la time altrui.
L'affermazione di sé richiede allora la negazione dell'altro, la distruzione di quella time che
ne fa — che potrebbe farne — un proprio pari, laddove la dinamica implacabile della virtù
non consente situazioni di eguaglianza. Se Agamennone si prende Briseide, è perché, egli

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afferma rivolgendosi al rivale, «tu sappia quanto son più forte di te, e tremi anche un altro di
parlarmi alla pari (isori), o di levarmisi a fronte» (77. 1.184 sgg.). Questa violazione del tacito
patto di mutuo riconoscimento, questa espropriazione della time altrui che appartiene alla
dinamica inerziale della virtù eroica, è la hybris. Agamennone commette hybris nei riguardi
di Achille (77. 1.203), ne viola la condizione eroica togliendoli la sua time, disonorandolo (II.
1.353, 507). Il suo kratos colpisce in questo modo nel cuore e nell'animo la condizione eroica,
la stessa consistenza umana del rivale, abbassandolo alla condizione di uomo privo d'onore
(atimetori), al pari di un Tersite. L'effetto più immediato è un dolore violento, pari a quello di
una ferita mortale [...]. Sul piano psicologico la risposta a questo dolore è l'ira, il desiderio
incontenibile di vendicare il torto subito (è questa, come vedremo, una definizione che
diventerà canonica nell'etica greca per la passione con la quale l’Iliade si apre, poiché menis
è la prima parola del poema, e da cui è interamente permeata). Ma al livello dell'interazione
sociale la perdita della time dà luogo a due figure irrimediabilmente lesive della condizione
eroica, a meno che la vendetta sia prontamente e totalmente consumata: oggettivamente, quel
«biasimo» o disprezzo (elenchete), dove si rovescia specularmente la «fama» di cui l'eroe
integro godeva; soggettivamente, la «vergogna» (aidos), un sentimento, o piuttosto una
condizione esistenziale, in cui si esprime la radicale vulnerabilità dell'eroe a quel giudizio
sociale onde egli traeva la sua sola possibile legittimazione. [...] Non sono la colpa né il
peccato, ma appunto la vergogna, a sancire il decadimento dell'eccellenza dell'eroe, la perdita
della sua condizione di esemplarità — e anche, socialmente, del suo solo diritto alla sovranità.
Eppure, per quanto tremenda sia, egli deve essere pronto ad infliggere — dunque anche a
subire — questa lesione della sua costitutiva time, perché in ciò consiste l'essenza della sua
virtù, che tende dunque contraddittoriamente a violare quel patto di mutuo riconoscimento su
cui si fonda l'unica possibilità di sopravvivenza della «società omerica».
[...] Questa contraddizione e questa necessità non sono tuttavia immediatamente altrettanto
pericolose per la società nel suo insieme, articolata com'essa è sull'asse verticale dell'eroe, del
suo oikos e della comunità loro suddita. [...] È tuttavia proprio l'Iliade a rovesciare questa
normalità, a porre al centro del proprio intreccio ciò che avrebbe dovuto restare marginale.
[...] L'esercito greco sotto Troia è in primo luogo, un'impresa collettiva, con un fine comune,
che impone per il suo stesso senso un vincolo collaborativo a gruppi e individui che sono
invece agonali, competitivi nella loro stessa ragion d'essere, nella loro costitutiva visione del
mondo. Tanto basterebbe a scuotere il sistema dei valori di una società che il poema tendeva,
al tempo stesso, a 'testualizzare'. Ma c'è di più: l'esercito, per la stessa durata della sua impresa,
finisce per costituire una sorta di aggregazione semi-permanente fra gruppi sociali, un quasi
sinecismo dunque, il cui senso oggettivo, inerziale, sarebbe lo sbocco nella formazione della
polis, la struttura della convivenza e della collaborazione politico-militare.
Una polis impossibile, tuttavia: nella «società omerica» non esistono né strutture di
organizzazione del potere, né forme di mediazione politico-legale, né, infine, presupposti di
una concezione morale collaborativa, fondata sulla comunanza dei valori, che possano
renderla attuabile o solo pensabile. L'Iliade fa dunque precipitare le sue figure esemplari, i
suoi eroi, in una situazione politica, senza che essi possiedano la minima attrezzatura morale
e sociale per farvi fronte. [...] l'esistenza di un esercito, di un'impresa collettiva, di una polis
virtuale, imporrebbe l'esigenza di una forma unificata del potere. Ma dove questo potere
potrebbe trovare la sua legittimazione, nei riguardi della pluralità degli eroi che sono tali

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proprio in quanto liberi da qualsiasi soggezione, e degli oikoi gelosi della propria autonomia
di rapporti, se non nell'unica «virtù» universalmente riconosciuta, la forza? In effetti, la
precaria sovranità di Agamennone sull'esercito dei greci si fonda proprio sulla superiorità del
kratos, suo personale e della comunità che gli obbedisce, rispetto agli altri eroi e ai loro gruppi.
Ma è chiaro che questa legittimazione frana non appena le si opponga una forza equivalente
e non immediatamente assoggettabile. Questo è il senso dirompente del conflitto fra
Agamennone e Achille, sul quale l'Iliade si costruisce e nel quale si consuma, oggettivamente,
la crisi della «società omerica» nella sua simultanea impossibilità di sopravvivere come tale
e di trasformarsi in «città».
Il problema del conflitto, quella che si è definita la sua 'tragicità', risiede nel fatto che entrambi
i contendenti hanno perfettamente ragione, all'interno del sistema di valori che essi
condividono, e che nessuno dispone di valori ulteriori, in qualche modo universalizzabili, che
possano fungere da riferimento accettabile per un superamento o per una mediazione tra le
ragioni dei rivali. [...] La conciliazione proposta nel libro 9 e realizzata nel libro 19 è apparente
e ambigua nelle intenzioni di entrambi i rivali: di Agamennone, che non cerca con essa se non
di rilegittimare la propria sovranità in crisi, e di Achille che vede in essa solo lo strumento per
combattere una sua guerra che è tornata ad essere privata. [...]
L'ambiguità della posizione di Achille si identifica, a questo punto, con il problema morale
fondamentale dell'Iliade. L'esistenza di un'impresa collaborativa come l'esercito dei Greci,
con una sua struttura sia pur precariamente 'politica' e un suo tentativo di centralizzazione del
potere, rende l'atteggiamento dell'eroe anomalo e «selvaggio». Reciprocamente, Achille
realizza fino in fondo la ferrea logica della morale eroica, sulla quale la «società omerica»
pure è centrata. Da questo punto di vista, l'anomalia è costituita precisamente da quell'esercito
e da quell'impresa, per la quale non esistono né le condizioni sociali né i presupposti necessari
nella morale individuale. Così Achille, dopo l'offesa ricevuta, «mai all'assemblea si recava»
(11. 1.490): ma l'esistenza di un'agora come luogo decisionale fra pari, normale forse per
l'ascoltatore dell'Iliade, non lo è certo per il signore guerriero la cui arete viene proposta a
modello. [...] Così ancora, secondo il rimprovero di Aiace, «Achille ha reso selvaggio il suo
gran cuore nel petto; crudele! non gli importa l'amicizia (philotes) dei suoi compagni» (71.
9.628 sgg.). Ma la philotes non è un dato strutturale e irrevocabile, come lo sarebbe fra i
membri del corpo politico della città; provvisoria e revocabile, essa è stata cancellata da chi
ha recato l'offesa e da chi non vi si è opposto. La stessa ambiguità riecheggia nei rimbrotti
che, ancora alla fine del poema, Apollo — destinato a diventare il dio politico per eccellenza,
oltre che il dio filosofo — rivolge all'eroe implacabile: «Achille che sana ragione non ha, non
ha animo trattabile in netto, sa solo cose selvagge, come leone quando alla sua gran forza
(bie), al cuore superbo obbedendo, va tra le greggi degli uomini a procacciarsi il cibo. Così
Achille ha distrutto ogni pietà (eleos), né rispetto (aidos) c'é in lui» (77. 24.40 sgg.). Ma come
rimproverare all'eroe di comportarsi al modo di un leone selvaggio, quando appunto la forza
leonina è al cuore di quella «virtù» che lo costituisce come tale? L'uomo senza polis, dirà
molto più tardi Aristotele nella Politica, ha una condizione superiore o inferiore a quella
umana — è belva o dio —, ed è soprattutto per natura bramoso di guerra (Pol. I 1, 1253a3
sgg.). Achille è precisamente tutto questo: è apolis, è leone e anche dio per discendenza
materna, è avido di guerra per status. Ed è apolis, occorre ripetere, perché gli sono estranee
sia le condizioni sociali sia l'attrezzatura mentale per vivere nella città: questa è la prova

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innaturale cui il poema sottopone lui come del resto Agamennone, costringendoli a mostrare
la loro esemplare virtù eroica e insieme a negarla in nome delle esigenze dell'impresa comune.
[...] Si può parlare di responsabilità laddove l'individuo si pensi, e venga pensato, come un
fulcro personale di decisione, come una soggettività autonoma da cui dipendono intenzioni,
scelte e comportamenti; solo allora esso potrà venir considerato, e considerarsi, giudicabile,
imputabile, insomma valutabile per le azioni compiute e le intenzioni soggiacenti. Nulla di
tutto questo può aver senso per Agamennone e le altre figure eroiche della «società omerica».
Esse si concepiscono come determinate nei comportamenti, oltre che dalla pressione
dell'attesa sociale, dall'influsso iper-potente di agenti esterni, la divinità in primo luogo. L'eroe
è tramato dalla divinità: con esortazioni, consigli, minacce, spesso con inganni irresistibili;
l'errore che ne può derivare è vissuto non come un atto che si compie, ma qualcosa che si
subisce, al pari di una ferita. [...] Ma anche i gesti non compiuti per diretta istigazione divina
non possono venir riferiti al controllo di una soggettività unificata, responsabile di
deliberazione volontaria. Nell'uomo omerico, la vita, l'emozione, l'azione appaiono
disaggregati in una pluralità di esperienze non accentrabili intorno ad un io consolidato, a un
complesso psicosomatico unitariamente governato. [...] Lo thymos, principio della passione,
della risposta emozionale, dunque il maggior ispiratore dell'azione, agisce, come del resto le
membra, secondo una dinamica autonoma e incontrollabile: l'eroe può così pensarsi come
soggetto ad una costrizione psichica, che gli si impone al pari di quella divina, e come questa
gli è in qualche modo esterna, che dipenda o no, a sua volta, dalla volontà degli dèi. [...]
Tuttavia, che almeno in un’occasione Agamennone avverta la necessità di dichiararsi estraneo
alla causazione (aitios) di un gesto che egli ha compiuto, e che lo faccia in un contesto
potenzialmente politico com'è l'assemblea di quell'esercito che il suo gesto ha messo in
pericolo, significa ancora una volta l'aprirsi di una crepa, l'agire di una contraddizione.
Di nuovo, il conflitto fra Achille e Agamennone rappresenta dunque il momento del
logoramento e della crisi della morale omerica, che si manifestano proprio nelle due figure
chiamate a rappresentarne più emblematicamente i valori e le virtù. Poiché il conflitto chiama
direttamente in causa l'intervento della divinità, esso non può che innescare, sullo sfondo, un
simile processo di crisi nelle figure della «religione omerica». L'impossibile città degli eroi
tende a rendere impossibili i loro dèi. [...] Il coinvolgimento della società degli dèi con quella
degli noi uomini è immediato e diretto, tanto più che i secondi sono spesso legati ai primi da
vincoli di discendenza, oltre che dai necessari tributi di rispetto, venerazione e sacrificio. [...]
L'eccessiva vicinanza e somiglianza degli dèi produce, nel momento del conflitto e della crisi,
un loro logoramento, in quanto modelli di riferimento, parallelo e analogo a quello subito
dalle figure eroiche; una loro incapacità di fungere da garanti di una norma superiore alle parti
in conflitto e valida per entrambe, alla cui luce dirimere, arbitrare o almeno valutare il conflitto
stesso. [...]

brani tratti da M. Vegetti, L’etica degli antichi, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 13-37

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Il vero eroe, il vero soggetto, il centro dell’Iliade è la forza. La forza usata dagli uomini, la
forza che sottomette gli uomini, la forza davanti alla quale la carne degli uomini si ritrae.

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L’anima umana vi appare di continuo alterata dai suoi rapporti con la forza: trascinata, accecata
dalla forza di cui crede di disporre, curva sotto il giogo della forza che subisce. Chi aveva
sognato che, grazie al progresso, la forza appartenesse ormai al passato, ha potuto scorgere in
questo poema solo un documento; chi invece, oggi come allora, individua nella forza il centro
di ogni storia umana, trova qui il più bello, il più puro degli specchi.
La forza rende chiunque le è sottomesso pari a una cosa. Esercitata fino in fondo fa dell’uomo
una cosa nel senso più letterale del termine, poiché lo rende cadavere. […] La forza che uccide
è una forma sommaria, grossolana della forza. Com’è più varia nei suoi modi di procedere e
molto più sorprendente nei suoi effetti l’altra forza, quella che non uccide, quella che non
ucciderà per certo. Sta per uccidere: sicuramente lo farà, o forse sta per farlo, oppure rimane
solo sospesa sull’essere che essa in ogni istante può uccidere. Comunque essa muta l’uomo in
pietra. Dal potere di trasformare un uomo in cosa, facendolo morire, deriva un altro potere,
altrimenti prodigioso: quello di trasformare in cosa un uomo che pur è vivo. Egli è vivo, ha
un’anima, tuttavia è una cosa. Un essere ben strano: una cosa che ha un’anima; che strana
condizione per l’anima. Chi potrà dire quanto ci metterà ad adattarvisi in ogni istante, a torcersi
e ripiegarsi su se stessa? Essa non è fatta per abitare una cosa; quando vi è obbligata non v’è
più nulla in essa che non patisca violenza.
[…] Terminato il combattimento, lo straniero debole e disarmato che supplica il guerriero non
necessariamente è condannato a morte; ma un istante d’impazienza del guerriero può bastare a
togliergli la vita. Tale condizione è sufficiente a privare la sua carne della proprietà principale
della carne vivente. […] Almeno i supplici, una volta accontentati, ridiventano uomini come
gli altri. Ma vi sono esseri più sventurati che, non morendo, diventano cose per il resto della
vita. Nelle loro giornate non vi è alcun gioco, alcun vuoto, alcuno spazio libero per realizzare
qualcosa di propria iniziativa. Non sono uomini che vivono più duramente di altri o collocati
socialmente più in basso di altri; è un’altra specie umana, un compromesso tra l’uomo e il
cadavere. Dal punto di vista logico è contraddittorio dire che l’essere umano è una cosa; ma
quando l’impossibile si fa realtà, la contraddizione diviene lacerazione nell’anima. Questa cosa
aspira in ogni istante ad essere un uomo o una donna, ma non vi riesce affatto. È una morte che
si estende lungo una vita; una vita che la morte ha raggelato molto prima di averla soppressa.
[…] Nessuno può perdere più di quanto perda lo schiavo; egli perde tutta la sua vita interiore,
la ritrova in parte quando appare la possibilità di cambiare destino. Così è l’imperio della forza:
arriva tanto lontano quanto in natura […] La forza posseduta da altri domina l’anima al pari
della fame estrema, dal momento in cui si afferma come un potere perpetuo di vita e di morte.
Ed è un imperio così freddo, così duro come se fosse esercitato dalla materia inerte. Il più
debole, ovunque si trovi, anche nel cuore di una città, è altrettanto solo, se non di più, di chi si
trova sperduto in mezzo ad un deserto.
[…] La forza annienta tanto impietosamente, quanto impietosamente inebria chiunque la
possiede o crede di possederla. Nessuno la possiede veramente. Nell’Iliade gli uomini non sono
divisi in vinti, schiavi, supplici da un lato e in vincitori, capi dall’altro; non vi è un solo uomo
che non sia in qualche momento costretto a piegarsi alla forza.
[…] Che tutti siano destinati per nascita a patire violenza, è una verità preclusa alle menti degli
uomini dall’imperio delle circostanze. Il forte non è mai forte in assoluto, né il debole è debole
in assoluto, l’uno e l’altro però lo ignorano. Non si ritengono della stessa specie: né il debole
si vede simile al forte, né viene visto tale. Chi possiede la forza procede in un ambiente privo

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di resistenze, senza che nulla, nella materia umana che lo circonda, possa suscitare tra l’impulso
e l’atto, quel breve intervallo in cui abita il pensiero. Dove il pensiero non ha posto, nemmeno
la giustizia o la prudenza ne hanno. Ecco perché questi uomini armati agiscono con durezza e
da folli. La loro arma affonda in un nemico inerme, prostrato ai loro piedi; trionfano su un
moribondo descrivendogli le offese che subirà il suo corpo; Achille sgozza dodici adolescenti
troiani sulla pira di Patroclo, con la stessa naturalezza con cui noi recidiamo dei fiori per una
tomba. Forti del loro potere, non dubitano mai che le conseguenze dei loro atti li obbligheranno
a loro volta a piegarsi. Quando, con una parola, possono mettere a tacere, far tremare e ridurre
all’obbedienza un vecchio, riflettono essi forse che le maledizioni di un sacerdote sono
importanti agli occhi degli indovini? Si rinuncia forse a rapire la donna amata da Achille
sapendo poi che tanto lui quanto lei potranno solo obbedire? Achille, quando gioisce vedendo
fuggire i miserabili Greci, può forse pensare che questa fuga, che durerà e finirà secondo la sua
volontà, farà perdere la vita al suo amico e a lui stesso? Così, coloro ai quali la forza è prestata
dalla sorte, periscono perché vi si affidano troppo. Non può accadere che non periscano. Infatti
non considerano la loro stessa forza una quantità limitata, né i loro rapporti con gli altri un
equilibrio tra forze diseguali. Gli uomini che non impongono ai loro atti quel tempo di
sospensione da cui solamente procede il rispetto verso i nostri simili, concludono che il destino
ha dato loro ogni licenza e ai loro inferiori nessuna. Da quel momento vanno al di là della forza
di cui dispongono: inevitabilmente eccedono, ignorando che essa è limitata. Vengono allora
consegnati senza scampo al caso, le cose non obbediscono più. Talvolta il caso li avvantaggia,
talvolta li danneggia; eccoli nudi dinanzi alla sventura, senza l’armatura di potenza che
proteggeva la loro anima, senza più nulla ormai che li separi dalle lacrime. Questo castigo, di
un rigore geometrico, che punisce automaticamente l’abuso della forza, fu per eccellenza
oggetto di meditazione presso i Greci. Costituisce l’anima dell’epopea; con il nome di Nemesi
mette in moto le tragedie di Eschilo; per i Pitagorici, per Socrate e per Platone fu il punto di
partenza per pensare l’uomo e l’universo. Tale nozione è diventata familiare ovunque sia
penetrato l’ellenismo. Forse è questa nozione greca a sussistere, con il nome di kharma, in
alcuni paesi orientali impregnati di buddismo; ma l’occidente l’ha smarrita e nessuna delle sue
lingue ha una parola per esprimerla; le idee di limite, misura, equilibrio, che dovrebbero
determinare il comportamento della vita, hanno solo un uso strumentale nella tecnica. Siamo
geometri solo dinanzi alla materia, i Greci furono innanzi tutto geometri nell’apprendere la
virtù. L’andamento della guerra, nell’Iliade, consiste in questo gioco altalenante. Il vincitore
del momento si sente imbattibile, anche se qualche ora prima aveva sperimentato la disfatta; si
dimentica di godere della vittoria come di un bene transitorio. Al termine della prima giornata
di combattimento raccontata nell’Iliade, i Greci vittoriosi potrebbero probabilmente conseguire
l’oggetto dei loro sforzi, cioè Elena e le sue ricchezze; almeno se si pensa, come fa Omero, che
l’esercito greco aveva ragione di credere che Elena fosse a Troia. I sacerdoti egizi, che
dovevano saperlo, dissero più tardi a Erodoto che ella si trovava in Egitto. […] Ciò che
vogliono è niente meno di tutto. Tutte le ricchezze di Troia come bottino, tutti i palazzi, i templi
e le case in cenere, tutte le donne e i bambini schiavi, tutti gli uomini cadaveri. Dimenticano
un particolare: che non tutto è in loro potere; essi non sono entrati in Troia. Forse lo saranno
domani, forse no.
[…] Un uso moderato della forza, che da solo consentirebbe di sottrarsi a tale meccanismo,
richiederebbe una virtù sovrumana, rara quanto una costante dignità nella debolezza. Del resto,

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neppure la moderazione è esente da rischi; infatti il prestigio, che costituisce per più di tre quarti
la forza, è dato innanzi tutto dalla superba indifferenza del forte per i deboli, un’indifferenza
così contagiosa che si comunica a quelli che ne sono l’oggetto. Ma di norma non è il pensiero
politico a consigliare l’eccesso. La tentazione dell’eccesso è quasi irresistibile. Talvolta
nell’Iliade vengono pronunciate parole ragionevoli; quelle di Tersite lo sono al più alto grado.
[…] Ma la parole ragionevoli cadono nel vuoto. Se pronunciate da un inferiore, questi viene
punito e tace; se è un capo, non vi adegua i suoi atti. Si trova inoltre sempre un dio che
all’occorrenza consiglia l’irragionevolezza. Alla fine scompare dalla mente l’idea stessa che si
possa voler sfuggire all’occupazione toccata in sorte, quella di uccidere e di morire.
[…] È vero che ogni uomo è destinato a morire e che un soldato può invecchiare tra i
combattimenti; ma per coloro la cui anima è sottoposta al giogo della guerra, il rapporto tra la
morte e il futuro non è lo stesso che per gli altri uomini. Per gli altri la morte è un limite al
futuro imposto in anticipo; per loro, essa è il futuro stesso, il futuro assegnato dalla loro
professione. Che per degli uomini il futuro sia la morte è contro natura. […] L’anima patisce
violenza tutti i giorni. Al mattino soffoca ogni aspirazione perché il pensiero non può viaggiare
nel tempo senza passare per la morte. La guerra quindi cancella ogni idea di scopo, persino
l’idea degli scopi della guerra. Essa cancella anche il pensiero di porre fine alla guerra […]
Ciononostante, l’anima sottomessa alla guerra grida per essere liberata; ma la liberazione stessa
le appare sotto una forma tragica, estrema, sotto la forma della distruzione. […] L’uomo abitato
da questo duplice bisogno di morte, finché non è diventato altro, appartiene a una razza diversa
da quella dei viventi. […] La fredda brutalità dei fatti di guerra non è affatto mascherata:
vincitori e vinti non sono né ammirati, né disprezzati, né odiati. Il destino e gli dèi decidono
quasi sempre della mutevole sorte dei combattimenti. Nei limiti assegnati dal destino, gli dèi
sovrani dispongono della vittoria e della disfatta; sono sempre loro a provocare le follie e i
tradimenti che ogni volta impediscono la pace; la guerra è il loro affare personale e il capriccio
e la malizia sono i loro unici moventi. Quanto ai guerrieri, i paragoni che li fanno apparire
vincitori o vinti, bestie o cose, non possono suscitare né ammirazione né disprezzo, ma solo il
rimpianto che gli uomini possano essere così trasformati. La straordinaria equità ispirata
dall’Iliade ha forse degli esempi a noi sconosciuti, ma non ha avuto imitatori.
[…] Comunque sia, questo poema è una cosa miracolosa. L’amarezza verte sull’unica giusta
causa di amarezza: la subordinazione dell’anima umana alla forza, cioè, in fin dei conti, alla
materia. Questa subordinazione è la stessa per tutti i mortali, benché l’anima la porti
diversamente a seconda del grado di virtù. Nell’Iliade, come pure sulla terra, nessuno vi si può
sottrarre. Nessuno di coloro che vi soccombe è visto per questo come un essere spregevole.
Tutto ciò che, all’interno dell’anima e nelle relazioni umane, sfugge all’imperio della forza è
amato, ma amato dolorosamente a causa del pericolo di distruzione che continuamente
incombe. […] La tragedia attica, almeno quella di Eschilo e Sofocle, è la vera continuazione
dell’epopea. Il pensiero della giustizia la rischiara senza intervenire mai. La forza vi appare
nella sua fredda durezza, accompagnata sempre da effetti funesti ai quali non sfugge né chi la
usa né chi la patisce; l’umiliazione dell’anima sotto costrizione non viene mascherata, né
avvolta da facile pietà, né esposta al disprezzo; più di un essere ferito dal degrado della sventura
diviene oggetto di ammirazione.

Brani tratti da S. Weil, L’Iliade o il poema della forza, Asterios 2012

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Facciamo una fantasia: una città è stata appena fondata, un gruppo di cittadini si è insediato nel
suo territorio. Qual è a questo punto, per il saggio legislatore, il compito più urgente? Stabilire
forse delle leggi? Se assume come guida Platone, non comincerà da lì: piuttosto, forgerà dei
miti.

[Persuaderà i cittadini] che in realtà sono stati formati e cresciuti nel seno della terra, essi, le loro armi e tutto il
loro equipaggiamento; che dopo averli formati del tutto, la terra, loro madre, li ha dati alla luce, e che ora essi
sono tenuti a guardare terra che abitano come fosse la loro madre e la loro nutrice, a difenderla se qualcuno l’assale
e a considerare gli altri cittadini come dei fratelli, sorti come loro dal seno della terra.

Forgiare dei miti: tale sarebbe dunque, a voler credere in Platone, la prima preoccupazione di
un fondatore di città — ma il sofista Crizia, "tiranno" di Atene e parente del filosofo, non diceva
nulla di diverso quando fondava l'ordine politico sul timore degli dèi, abile invenzione di un
saggio. Si può prestar fede in questo al filosofo della Repubblica, che appena gettate le basi
della città immaginaria si è affrettato a sottomettere l'attività mitopoietica all'autorità
onnipotente di una censura ufficiale (377 b-c): se dei “cattivi" miti devono essere
immediatamente sostituiti con dei buoni miti, con delle "belle menzogne" ad uso e consumo
del corpo civico, ciò significa che ogni città greca per quanto immaginaria vive di miti.
Mettendo da parte la fantasia del primo inventore e la problematica della bella menzogna,
torniamo ora al “reale”; a quelle città greche ben reali, dotate di una storia e di una vita politica:
il mito è là, sempre già lì, antica storia inscritta nello spazio civico, rinnovata nella pratica
quotidiana e in occasione di decisioni più circostanziate, ora per narrare le origini, ora per dare
fondamento al presente della polis. Cercheremo di delineare questo inserimento multiforme
all'interno di una città, esempio prestigioso se non privilegiato della politica greca del mito.
Prendiamo quindi una città: Atene. Un territorio (chôra) e degli uomini (andres). Al centro
della chôra, lo spazio urbano, spazio della vita civica, scandito da tre luoghi solenni: l'Acropoli,
l'Agorà, il Ceramico — la collina del potere e del sacro, la piazza pubblica e il cimitero
nazionale. Una comunità di cittadini, con le loro donne (che hanno diritto al nome di Ateniesi
ma non a quello di cittadine) e due categorie di non-cittadini, i meteci e gli schiavi. Una vita
civica intensa, dominata dalla ricerca imperialista della potenza, prima ancora che dal desiderio
di espansione. Ad Atene come nelle altre città, alcuni miti narrano l'origine — necessariamente
brillante — e le gesta leggendarie degli eroi nazionali danno vita a una serie di imprese — erga
solitarie, nelle quali i cittadini riconoscono un presagio delle loro imprese collettive. Per
cominciare, due miti.

Il confronto tra Atena e Poseidone. Il mito di Erittonio


Anzitutto, il litigio degli dèi e ciò che ne conseguì. Divinità poliade, Atena regna su Atene; fin
dall'origine, il suo tempio si innalza sull'Acropoli. Fin dall'origine: più esattamente, da quando
gli Ateniesi hanno optato per Atena a svantaggio di Poseidone. Ciò avveniva nel tempo lontano
della spartizione delle timai tra gli immortali; ogni dio voleva va ricevere la sua porzione di
onori tra i mortali, e le città degli uomini erano la posta in gioco di aspre lotte. Ad Atene,

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dunque, Poseidone e Atena si affrontano. Arrivato per primo in Attica, Poseidone fa scaturire
un mare (l'Eretteide) da una cavità dell'Acropoli; allora, per ordine di Atena, un olivo svetta
dalla roccia sacra e una corte di giustizia, riunita da Zeus o costituita — di già! — dagli
Ateniesi, regola la disputa. Cecrope, re originario, mezzo uomo e mezzo serpente, già umano
ma ancora legato alle creature mostruose sorte dalla Terra primordiale, assiste come testimone
al litigio (secondo alcune versioni, egli sceglie). Rigettate le sue pretese, Poseidone è vinto,
presso gli Ateniesi come a Trezene, dove è Atena che la spunta, e come ad Argo o a Delfi, dove
deve cedere il passo a Hera e ad Apollo. Comincia allora per la città ateniese l'era della
civilizzazione. E se, ad Atene come altrove, civilizzazione e potere maschile degli andres sono
sinonimi, i miti ateniesi rendono conto per tre volte di questa equivalenza. Scegliere Atena,
significa eleggere una dea guerriera, vergine senza madre nata da un padre che è anche padre
onnipotente degli dèi e degli uomini: Atena, il cui «cuore, salvo che per le nozze, appartiene
interamente all’uomo» e che, in occasione del processo di Oreste assassino di sua madre
Clitemnestra, si pronuncerà senza riserve per i diritti del padre. Testimone o arbitro, Cecrope e
è anche l'inventore del matrimonio monogamico: egli mette fine alla disordinata promiscuità
dei sessi istituendo la filiazione patrilineare. Infine, ancora più chiaramente, una versione del
mito fonda la vittoria di Atena sull’esclusione politica delle donne: colpevoli di aver scatenato
la collera di Poseidone votando per la figlia di Zeus, mentre gli uomini si pronunciavano per il
dio, battuto, è vero, di un solo voto - c'era un’unità in più da parte delle donne! —, le donne
sono per sempre deprivate di ogni potere nella polis. La città degli uomini ha visto la luce: il
primo antenato veramente umano degli Ateniesi può nascere.
Il mito di Erittonio narra questa nascita e fa entrare la città nel tempo degli uomini. Erittonio è
nato dalla terra attica, fecondata dal desiderio di Efesto per Atena; sul suo nome i mitologi
dell'antichità si dilettavano a chiosare: Chtonios, figlio della Terra, è il prodotto del brandello
di lana (erion) con il quale la vergine inseguita asciugò sulla sua gamba lo sperma del dio, a
meno che non sia semplicementete sorto dalla lotta (eris) amorosa delle due divinità. Ma questo
autoctono è in primo luogo strettamente legato ad Atena, e in lui si rinsaldano per sempre i
legami della polis con la divinità poliade. L'Iliade (Il, 546-551) spartiva già i ruoli tra Atena la
terra feconda (zeidôros auroura): alla terra il parto (teke), ad Atena il compito di allevare il
bambino, qui chiamato Eretteo — e di farne il suo protetto [...]. Nel V secolo, i ceramisti
ateniesi rappresenteranno volentieri Gê mentre tende il neonato ad Atena perchè lo allevi;
meglio ancora: affinché lo riconosca. In verità, Erittonio discende da Atena come si può
discendere da una vergine ribelle ad oltranza nei confronti del parto: attraverso la mediazione
della terra. Divenuto re di Atene, Erittonio non manca di rendere alla sua protettrice tutto ciò
che le deve, istituendo le Panatenee e associando per sempre al nome della dea il nome del suo
popolo: secondo Erodoto (VIII, 44), è sotto il regno di Eretteo che gli abitanti dell'Attica
presero il nome di Ateniesi. Così, il re autoctono apre per Atene il tempo umano della storia
mitica. Attraverso la sua nascita, egli appartiene all'era originaria di Cecrope; sui vasi, l'uomo
serpente assiste frequentemente alla “nascita" del bambino miracoloso e le sue figlie. Aglauro,
Pandroso ed Erse sono, per volontà di Atena, le nutrici umane di Erittonio: pesante compito,
che assolveranno male e che le condurrà alla morte. La fine di Erittonio - o piuttosto di Eretteo
poiché al vecchio re la tradizione sembra riservare questo nome — riconcilia Atene e il rivale
di Atena. Al prezzo di due vite: per salvare la città minacciata dalla spedizione del trace
Eumolpo, figlio di Poseidone, Eretteo deve sacrificare la propria figlia prima di essere

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inghiottito dal suolo, colpito dal tridente del dio; ma la sua morte lo associa per sempre dal al
dio, ed è con il nome di Poseidone-Eretteo che sarà d'ora in avanti onorato: da un evento tragico
nasce per la città il beneficio di una nuova protezione divina. Con Erittonio o con Eretteo (che
siano separati o confusi) inizia la lunga teoria dei re di Atene, come attesta una celebre coppa
di Berlino che agli spettatori abituali — Cecrope ed Efesto — della nascita di Erittonio,
aggiunge Eretteo, il re adulto, ed Egeo, padre di Teseo.

La “Vita” di un eroe: Teseo


La storia di Teseo comprende tutte le sequenze di un'epopea eroica. Dall’infanzia alla prova
iniziatica, dalla fortuna alla sfortuna, la vita di Teseo è una lunga serie di imprese «che
condensano tutte le virtù e tutti i pericoli dell'azione umana»: atti civilizzatori, lotta contro i
mostri, superamento della condizione umana, tutte queste forme dell'impresa eroica, Teseo le
ha fatte proprie. Figlio di Egeo — o, secondo alcune versioni, di Poseidone — e di Etra, figlia
del re di Trezene, Teseo cresce presso il nonno materno, dando già allora numerose prove del
suo valore. A sedici anni, età dell'efebia, solleva la roccia sotto la quale Egeo aveva nascosto
una spada e dei sandali, e munito di questi segni di riconoscimento, parte per Atene seguendo
la via più pericolosa. È l'inizio di una lunga iniziazione al termine della quale conquista lo
statuto di figlio legittimo di Egeo: strada facendo, purifica la terra da una serie di mostri (come
la scrofa di Crommio) e di temibili briganti, quali Sini, Cercione e Procuste (Proc[r]uste); una
volta riconosciuto da Egeo, per affermarsi come degno figlio del re, non gli resta che annientare
l'orribile toro di Maratona e trionfare sulla truppa dei cinquanta figli di Pallante, suoi cugini,
che contendono il potere a Egeo. Ma è tipico di un destino eroico ignorare il riposo: senza
attardarsi, Teseo si imbarca per Creta con l'obiettivo di sconfiggere il Minotauro, al quale Atene
deve offrire periodicamente il pasto cruento di sette giovani e sette giovinette. Sappiano che
trionfa sul mostro e conquista il labirinto grazie ad Arianna, che abbandona quest’ultima a
Naxos e che dimentica di issare la vela bianca in segno di vittoria, provocando così al suo
ritorno la morte di Egeo. Ecco dunque Teseo re di Atene. Re Politico, procede al sinecismo (da
sunoikismos, coabitazione) riunendo in una sola città gli abitanti sparsi dell'Attica. Re
guerriero, si manifesta in una spedizione contro Tebe e nella guerra contro le Amazzoni. L'età
adulta è per lui anche l'età dell’eccesso, o quanto meno della trasgressione dei divieti; con il
suo compagno Piritoo, rapisce Elena, figlia di Zeus, e discende agli inferi per impossessarsi di
Persefone: l'impresa finisce male e costa all'eroe una lunga cattività tra i morti, nell'attesa che
Eracle, disceso a sua volta negli Inferi, venga a cercarlo. Teseo deve ancora conoscere l'esilio
e la morte violenta a Sciro. Tale è il corso della vita del più celebre degli eroi ateniesi, l'unico
dotato di una "Vita" completa e di una figura complessa, il solo a non esaurirsi interamente nel
mito della propria nascita o della propria morte.
Due miti, una leggenda eroica: per isolarli così nei loro lineamenti è stato necessario procedere
a una cernita severa; tuttavia, se nella ricca tradizione ateniese abbiamo scelto questi tre
racconti, è perché in essi la città ateniese ha letto (ha messo?) molto di se stessa. Racconti
importanti, racconti esemplari, e dei quali cercheremo di circoscrivere il significato e gli effetti
in seno alla vita civica.

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Funzioni sociali del mito: l'autoctonia ateniese
Discorso sull'origine e sull'ordinamento del kosmos umano, il mito narra alla città e in nome
della città l'avvento della cultura; in ogni ateniese alimenta la rappresentazione che di Atene
conviene dare a se stessi o agli altri: quella di una polis "amata dagli dèi" (theophilês) e per due
volte ancorata originariamente in uno stretto rapporto con il divino - la disputa tra Atena e
Poseidone l’attesta, e le circostanze che hanno concorso alla nascita di Erittonio testimoniano
che, «figli degli dèi beati, nati da una terra sacra e che non ha conosciuto la conquista, fin dai
tempi più antichi gli Eretteidi furono prosperi». Le origini mitiche della democrazia maschile,
la guerra leggendaria contro le Amazzoni, che hanno voluto fare gli uomini e che ne pericolo
si sono rivelate donne, “metà” passiva della città. La storia delle Amazzoni è persino due volte
esemplare, poiché evoca anche la vittoria della civiltà sulla barbarie, della polis sugli stranieri:
alla Stoa poikilê, (il Portico dipinto), dove i cittadini possono contemplare, dipinti sui muri, i
fatti salienti di Atene, la leggenda affianca la storia e, «sul muro di mezzo, si vedono gli
Ateniesi e Teseo combattere le Amazzoni, poi i Greci, padroni di Ilio e, all'estremità del dipinto,
i combattenti di Maratona». Celebrato dalla parola e dall'immagine, evocato nei discorsi
ufficiali, rappresentato sulla scena tragica e più volte illustrato sui vasi o sui frontoni dei templi,
il mito rischia fortemente, sottomesso a un simile trattamento, di estenuarsi nei luoghi comuni
retorici o nelle scene convenzionali. La sua polisemia, che la tragedia esalta, al contrario
sembra esplodere quando penetra nel logos prosaico della politica o quando i ceramisti
scelgono di illustrarne una sequenza, sempre la stessa. Ma da ciò esso trae il vantaggio di
diventare, sul terreno della rappresentazione politica, una mediazione necessaria tra gli ateniesi
e Atene.
Per cogliere le numerosi funzioni assolte dal mito e i molteplici livelli dell’esperienza sociale
che esso prende in carica, sarà sufficiente un esempio: quello dell'autoctonia ateniese. La
religione ufficiale si attiene certo alla più stretta ortodossia per quanto riguarda la nascita di
Erittonio e la storia dell'antenato prestigioso è parte integrante di quello hieros logos (discorso
sacro) di Atena che occupa un così grande posto nella veglia mistica delle Panatenee. Tra il
figlio degli dèi e l'autoctono nato dal suolo della patria, la tragedia non sceglie, allorché evoca
la figura di Erittonio, e quando i tragici estendono l'appellativo di Eretteidi alla totalità del
corpo civico, essi fanno degli Ateniesi al tempo stesso dei discendenti divini e degli autoctoni.
Ma l’oratoria fa un passo in più e, come se la storia di Erittonio fosse troppo conosciuta per
essere evocata ancora una volta, gli oratori ufficiali, quelli per esempio che pronunciano
l'orazione funebre (épitaphios logos) in gloria dei cittadini caduti in combattimento, evitano in
generale di evocare l’eroe nazionale e la coppia divina che ha presieduto alla sua nascita, per
attribuire collettivamente a tutti gli andres Athênaioi il privilegio dell'autoctonia. Non ci si
stupirà che questa autoctonia generalizzata divenga un punto cardine dell'ideologia della
democrazia ateniese: non soltanto essa serve a giustificare la pratica ateniese della guerra —
campioni del diritto (o supposti tali), gli Ateniesi lo sono in virtù del loro statuto di figli
legittimi del suolo della patria —, ma gli oratori arrivano a dedurre la democrazia
dall’autoctonia o, per parlare un linguaggio platonico, l’uguaglianza politica (isonomia)
dall’uguaglianza di origine (isogonia). Così la legge (nomos) trova il suo fondamento nella
natura (phusis), e il potere i suoi titoli di nobiltà: dotati collettivamente di una buona nascita
(eugéneia), i cittadini autoctoni sono tutti uguali perché tutti nobili. Ancora un passo e i discorsi

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oppongono Atene a tutte le altre città, assemblaggi eterocliti di intrusi stabilitisi come meteci
su un suolo straniero.
Abbiamo perso il mito, strada facendo? Affermarlo significherebbe dimenticare che, nel tempo
scandito dal calendario religioso come nello spazio civico, nella quotidianità della vita come
nelle feste della collettività, ogni Ateniese ritrova in numerose occasioni il mito di Erittonio:
nell'Acropoli e durante la celebrazione delle Panatenee, nell'Agorà, nel tempio dell'Artigiano,
illustrato implicitamente dalla presenza di Atena accanto ad Efesto, sulla scena tragica o
comica, nella bottega del vasaio i cui vasi, umili recipienti o begli oggetti, ripetono all'infinito
il gesto di Gê che tende il bambino ad Atena, nelle opere d'arte di cui la loro città è adorna. E
se l'oratoria estenua il mito, c'è da scommettere che l'uditorio ateniese si occupava di riferire le
proposizioni generali del discorso al contesto vivo del mito. A meno che nei discorsi
sull'autoctonia gli Ateniesi non abbiano realmente inteso qualcos'altro: il mûthos di Atene...
I miti dunque non muoiono nel politicizzarsi. Come potrebbero, dal momento che raccontano
alla città la sua "identità”, fondando l'eponimia di Atene o presidiando la paideia dei difensori
del territorio della patria? È così che il giuramento degli efebi ateniesi chiama in causa Aglauro,
la vergine courotropha [nutrice, allevatrice: n.d.T.] dal destino cruento, perché apra la lista
delle potenze religiose prese a testimoni del vincolo irreversibile dei cittadini. È così che,
istituendo nel 508 le dieci tribù che formeranno d'ora in poi il quadro politico-militare della
vita ateniese, Clistene le ha poste sotto il patronato di dieci eroi nazionali — i dieci Eponimi
tra i quali si ritrovano senza sorpresa Cecrope, Eretteo, Egeo, e dei quali i cittadini sono invitati
a ripetere le imprese, in una mimesis sempre rinnovata.
Tra gli dèi e gli eroi, tra la parentela originaria che li unisce collettivamente ad Atena e la
parentela classificatoria che li suddivide in dieci tribù, gli Ateniesi non mancano di modelli,
iscritti nello spazio civico e nel tempo della città, che li incitino a radicare le loro azioni nel
mito.

Nello spazio e nel tempo della città, il mito


I miti sono presenti ovunque, a scandire lo spazio della città, nella quale disegnano percorsi,
formano costellazioni, nodi complessi di tensioni e di relazioni. Nel secondo secolo della nostra
era, Pausania il Periegeta, infaticabile viaggiatore e ancor più infaticabile raccoglitore di
tradizioni mitiche, visita Atene, inaugurando una serie di passeggiate erudite attraverso le città
greche: entrato dalla porta del Dipylon, che dal cimitero del Ceramico dà accesso all'Agorà,
percorre l'Agorà, sale sull'Acropoli, ritorna sull'Agorà per lasciare infine la città attraversando
il Ceramico. Percorso al tempo stesso turistico ed erudito che gli permette di sfoggiare la sua
scienza di antiquario, ma già Atene non è più che un museo del passato. Immaginiamo per un
istante quello che un Ateniese del V o del IV secolo avrebbe visto o evocato, nel seguire lo
stesso tragitto — che qui abbiamo volontariamente semplificato. Dal Ceramico all'Acropoli e
dall'Agorà al Ceramico si incrociano due cortei, ai quali il calendario assegna un momento
diverso dell'anno ma di cui lo spazio porta la traccia reale: quello delle Panatenee, che salgono
verso la collina sacra dove cresce l'olivo di Atena, dove la dea accoglie Eretteo nel suo antico
tempio, dove le vergini, figlie Cecrope danzano la notte, «calpestando, di fronte ai templi di
pall de, il tappeto erboso»; quello dei funerali pubblici, che dall'Agorà dove vegliano gli eroi
nazionali, guadagna il cimitero ufficiale per sotterrare i cittadini morti in combattimento, degni
imitatori degli Eponimi. Sull'Agorà, centro della vita politica dominato a sud-est dall'Acropoli,

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a sud dalla collina dell'Areopago dove Atena riunì un giorno il primo tribunale, a nord-ovest
dal tempio di Efesto, i dodici dèi olimpici stanno vicini agli eroi ateniesi: per ragioni di tempo,
non menzioneremo che i dieci Eponimi, il cui monumento ricopre un ruolo essenziale nella
vita politica e militare della città, e Teseo, di cui il fregio interno dell'Efaisteion e i dipinti della
Stoa poikilê raccontano le imprese — nell'Efaisteion, sub specie aeternitatis; nel Pecile,
integrate nel tempo storico ateniese, dalla guerra delle Amazzoni alla battaglia di Maratona,
dove l'eroe intervenne in compagnia di Atena e di Eracle. Ad ogni passo si ergono delle figure
eroiche, in ogni luogo si inscrivono dei racconti mitici; in breve, la passeggiata senz'altro non
è un genere civico, poiché nessuno spazio è meno neutro di quello della città. Forse chi volesse
passeggiare senza imbattersi ovunque in una città presentificata dai suoi miti dovrebbe uscire
dalle sue mura? Speranza ingenua: e sulle rive dell'Ilisso che Borea ha rapito Orizia, figlia di
Eretteo, a Maratona è immanente il ricordo di Teseo, presente anche sulle rive del Cefiso, ad
Eleusi si vede la tomba di Eumolpo, ucciso da Eretteo... Fermeremo qui la lista: in campagna
come in città, i miti parlano ai cittadini della città.
Ritorniamo sull'Agorà o, meglio ancora, sulla collina della Pnice dove si riunisce l'assemblea,
dove si decide anno dopo anno la politica degli Ateniesi: più che in ogni altro luogo, i miti vi
parlano, con grande precisione, del presente e del passato della città. O per lo meno uomini
politici e oratori si ingegnano a farli parlare. La coscienza storica dei Greci è intessuta di miti
e di leggende eroiche; è un fatto noto, sul quale non insisteremo. Ci attarderemo più volentieri
sul rapporto che, in seno alla vita politica, si instaura tra ripetizione e avvenimento, quando
l’avvenimento fa la parte del mito. Poiché questa “antichissima storia" è una storia che si
utilizza e che si rielabora. Una storia, anche che informa le azioni del presente. Di fronte alle
altre città, ogni polis brandisce i suoi miti e i suoi eroi [...] Più complessa ma altrettanto reale
è l'incidenza del mito e della leggenda eroica sulla vita politica interna: qui il viavai tra presente
e passato è costante. Il presente rimodella il passato leggendario e, all’inizio del V secolo, nella
città definitivamente liberata dai tiranni, le rappresentazioni iconografiche di Teseo sui vasi
attici cominciano improvvisamente a riprodurre gli atteggiamenti dei Tyrannoctones (gli
assassini del tiranno), così come due illustri scultori li hanno immortalati per l'edificazione del
dêmos. Allo stesso modo, la legge di Pericle sulla cittadinanza ha forse restituito, intorno al
450, una rinnovata autorità al mito dell'autoctonia. Ma viceversa, il presente può farsi
imitazione del passato leggendario: così, quando Cimone riporta in patria da Schiro le "ceneri
di Teseo" per installarle solennemente nel cuore della polis, ai piedi dell'Acropoli e presso
l'Agorà, si tratta proprio, per l'uomo politico che vuole essere un nuovo Teseo, di calarsi nella
figura dell'eroe. Strano destino quello di Teseo nella città democratica. Una storia a eclissi, le
cui vicissitudini e le cui vette sposano strettamente le fluttuazioni della politica ateniese, dal VI
al IV secolo. [...] Così, perpetuamente riattualizzato, il racconto di erga remoti pesa sulle azioni
del presente, sia che le ispiri direttamente sia che reciti per gli attori della storia, a loro uso o
ad uso altrui, il ruolo di un modello interpretativo da proiettare sull'azione. Per caratterizzare
questa embricatura tra la ripetizione e l'avvenimento, forse potremmo affermare, parodiando
Claude Lévi-Strauss, che nulla assomiglia all’ideologia di più del mito, quando diventa un mito
politico. [...]

brani tratti da N. Loraux, Nati dalla terra. Mito e politica ad Atene, Meltemi 1998, pp. 61-
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PENSARE LA POLIS

PLATONE (Atene, 428/427 a.C. – Atene, 348/347 a.C.)

[...] Nell'esperienza del V secolo Platone è profondamente radicato per molti motivi, e tutti
essenziali. La sua formazione attraversa la cultura del teatro tragico tanto da esser stato lui
stesso, in gioventù, autore di tragedie (DL 3.5); e culmina nell'incontro di un maestro, come
Socrate, la cui figura si situa tenacemente, fino all'esito drammatico, nel difficile crocevia tra
il pensiero dell'anima e quello della città. Nella vicenda politica di fine secolo Platone è
coinvolto anche per ragioni personali e familiari: un'altra grande figura cui egli è legato da
vincoli di parentela, il «tiranno» Crizia, è insieme protagonista della breve ma cruenta
rivoluzione oligarchica del 404, e vittima della susseguente restaurazione democratica.
Tutto ciò preme con forza sulla riflessione filosofica di Platone, pone domande complesse sia
nell'ordine della teoria sia in quello della condotta morale e politica, esige risposte urgenti.
[...] Si parla di domande e di risposte in senso non solo metaforico. Esse si annodano e
prendono forma, quasi inevitabilmente, in un luogo sintetico, il dialogo: un teatro filosofico
con il quale Platone continua, e insieme combatte, l'esperienza della tragedia. Quasi
inevitabilmente, perché la forma dialogica consente a Platone di mettere in scena — attraverso
i suoi personaggi, di solito morti di recente — le voci e le domande del V secolo; e insieme
di rappresentare l'efficacia delle proprie risposte, da cui quei personaggi risultano infine
convinti, e sono perciò costretti a valicare i limiti del loro mondo, rigenerati così da poter
abitare nelle nuove dimensioni progettate dal platonismo. [...]
Di tutto questo, la Repubblica costituisce l'esempio migliore. Se il dialogo è per Platone il
luogo della sintesi, critica e progettuale, fra mondi diversi, si può dire che la Repubblica
rappresenti per molti aspetti a sua volta il luogo sintetico del pensiero platonico. Essa occupa
cronologicamente una posizione mediana nel suo arco, composta come fu negli anni fra il 380
e il 370. Dal punto di vista teorico, essa rappresenta il tentativo più straordinario — e
sostanzialmente mai più ripetuto né dagli antichi né dai moderni — di intrecciare intorno ad
un unico problema, quello della giustizia, i temi dell'ontologia, dell'epistemologia, dell'etica
della politica, della psicologia, producendo un effetto di convergenza prospettica tanto
ambizioso da risultare smodato già allo sguardo analitico di un grande allievo come Aristotele.
[...]
L'ambiente è la casa al Pireo del vecchio e ricco meteco Cefalo, un produttore di armi per la
polis ateniese. Ci sono i suoi due figli: Polemarco, che la tirannide di Crizia avrebbe
condannato a morte (bevendo la cicuta) per colpire un membro della parte democratica e
confiscarne le ricchezze, e Lisia, destinato a diventare un oratore importante nella rinata
democrazia e a svolgere un ruolo significativo nel dibattito sull'eros che Platone allestisce nel
Fedro. Ci sono poi due grandi figure intellettuali del V secolo, fra loro contrapposte ma
entrambe vicine a Platone: il sofista Trasimaco, una presenza tanto più pericolosa in quanto
le sue tesi riecheggiano quelle del gruppo di Crizia, e sfiorano quindi la biografia politico-
intellettuale di Platone stesso; e il suo avversario, il maestro, Socrate, destinato a una sorte
simmetrica a quella di Polemarco, giacché la condanna alla cicuta gli sarebbe stata inflitta dai
democratici nemici di Crizia. E ancora i fratelli di Platone, Glaucone e Adimanto, che

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simpatizzano moralmente con Socrate ma non possono nascondere il fascino intellettuale
esercitato su di loro dalle tesi radicali di Trasimaco.
Il gioco delle situazioni e delle simmetrie in questa folla di personaggi risulta sottile e
complesso. Ai ricchi, siano essi di parte popolare come Cefalo o aristocratica come Glaucone
e Adimanto, verrà opposta la tesi della necessità di disgiungere il potere dalla ricchezza, e di
rifondarlo sul sapere. Agli intellettuali della polis, come Trasimaco e lo stesso Socrate
(indipendentemente dal loro atteggiamento politico-morale) verrà contrapposta l'esigenza di
un'ulteriore fondazione del sapere su più solide basi epistemologiche. Il gioco delle
confutazioni etiche — di Cefalo e Polemarco da parte di Socrate, di Socrate da parte di
Trasimaco, di entrambi da parte di Glaucone e Adimanto, e del resto del dialogo — produrrà
nel primo libro un movimento dialettico in cui le maggiori posizioni della riflessione morale
del V secolo verranno superandosi a vicenda, fino a giungere alla soglia della comune
esaustione, e apriranno in questo modo lo spazio e il livello della risposta platonica.
In questo senso, il dialogo sulla giustizia che si svolge nel I libro della Repubblica costituisce
nel suo insieme la domanda etica del V secolo, cui il resto dell'opera è chiamato a rispondere.
Che cos'è la giustizia? Cefalo risponde in termini di 'morale degli affari': giustizia è sincerità,
mantenere la parola data, «restituire quanto si è ricevuto» (Resp. 331C-E, 333A). Suo figlio
Polemarco ricorre alle virtù competitive della pratica politica: giustizia è recare «l'utile agli
amici, danno ai nemici» (333D, 334B). Entrambe queste definizioni, proprie della morale
popolare, sono centrate sull'atto e non sull'agente. Socrate non ha difficoltà a mostrarne la
debolezza, l'ambiguità, soprattutto l'impossibilità di generalizzazione (è giusto restituire a un
amico impazzito l'arma che ci ha consegnato? sulla base di che cosa si scelgono amici e
nemici?). Trasimaco, come sappiamo, fa compiere alla discussione un decisivo salto di
qualità, trasferendola sul terreno politico: la giustizia è l'insieme di norme e di vincoli che chi
detiene il potere impone ai suoi sudditi, ai fini della conservazione del potere stesso. La
risposta di Socrate a questa formidabile tesi è debole e manca sostanzialmente il segno,
nonostante il tentativo, a sua volta sofistico, di trasformare la polarità potenti/sudditi in quella
ingiusti/giusti, con le aporie che ne conseguono. Socrate fallisce nella confutazione di
Trasimaco per più rispetti. Il primo sta nel fatto che sulla questione del potere l'analogia delle
tecniche, che gli è cara, non ha più senso. Alla tesi socratica di un potere di servizio, che i
governanti svolgono nel vantaggio dei sudditi, Trasimaco replica conclusivamente: «Tu credi
che i pastori e i bovari mirino al bene delle pecore e dei buoi e non al proprio?» (343B-C). Il
secondo fallimento consiste nel ricorso al divino, che ricorda quello dei Meli di fronte agli
Ateniesi («l'ingiusto sarà nemico degli dèi, e il giusto loro amico», 352B). A questo argomento
non replica Trasimaco, che lascia Socrate alle sue «belle parole», ma lo stesso Adimanto, con
una provocazione di stampo criziano. È possibile che gli dèi non esistano, o che comunque
non si curino affatto degli uomini. Se però bisogna credere ai miti sugli dèi, bisogna crederci
fino in fondo, e pensare che sacrifici, iniziazioni, preghiere — in cui l'ingiusto ricco e potente
supera comunque il giusto povero e debole — servano a propiziarsene la benevolenza (365D).
Al di là di questo doppio fallimento socratico, toccherà al resto del dialogo lo sforzo di fondare
il nesso fra giustizia, politica e felicità «all'insaputa o meno di tutti gli dèi e gli uomini»
(427D). Ma certamente le posizioni di Trasimaco e di Socrate hanno contribuito a stabilire il
livello sul quale non può non svolgersi la discussione sulla giustizia: una volta introdotta la
questione del potere, esso diventa immediatamente quello del rapporto tra individuo e

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polis. E qui, almeno su un punto Socrate aveva ragione contro Trasimaco: non ci può essere
alcuna società, nemmeno di «predoni o di ladri», se in essa non vige un minimo di consenso
intorno a norme di «giustizia» comuni e condivise (351C-D). Una volta acquisito questo
livello, però, nessuna scorciatoia appare più lecita, come dice con chiarezza l'autocritica di
Socrate alla fine del primo libro (354B-C). Occorre assumere fino in fondo i problemi che il
dibattito morale del V secolo ha proposto alla teoria etica se si vuole che essa non ne riproduca
tutte le aporie.
C'era in primo luogo da maturare fino in fondo la consapevolezza di una crisi, e questo
comportava anche una revisione dell'esperienza socratica. La crisi investiva la concezione
dell'anima, della città, dei loro rapporti.
Quanto all'anima, la posizione ancora mantenuta nel Fedone, di opposizione polare di
un'anima «pura» al corpo, appariva ora sterile e non più difendibile. La costruzione dell'etica
non poteva che prendere atto di un fatto incontrovertibile: la scissione interna dell'anima, e
con essa del «vero io», in una pluralità di centri motivazionali e nelle relative pulsioni. [...]
l'armonia e la purezza dell'anima non sono più una certezza garantita. Esse risultano piuttosto
l'esito possibile di un programma di ricostruzione dell'unità dell'anima che tenga conto, come
dato di partenza non eludibile, della sua scissione e del conflitto che la lacera. [...] Anche la
città è a sua volta scissa e conflittuale come l'anima: l'identificazione socratica di legge e
giustizia, il suo appello alla comunità dei cittadini sentita come un corpo indifferenziato e
unitario (di cui Critone e Apologia erano documenti), non reggono di fronte a questa
consapevolezza, ribadita dall'aggressione di Trasimaco nel primo libro della Repubblica. Da
qui bisogna invece partire: «le città sono due, tra loro nemiche: la città dei poveri e quella dei
ricchi» (422E-423A). Queste due città risultano ulteriormente frammentate ogni volta che
qualcuno dica — della famiglia, del patrimonio, degli affetti — «questo è mio», rendendo
così la sfera del privato di fatto autonoma dalla comunità della polis (462C). Anche la città è
dunque malata, di quel male terribile che «la divide e ne fa molte invece di una» (462B). [...]
Le frustrazioni dell'esperienza socratica avevano infine portato a introdurre un conflitto là
dove esso non avrebbe dovuto esistere, fra anima e città: questa opposizione, tematizzata nel
Gorgia, deve ora venir superata, al pari di quella del Fedone tra anima e corpo. Anima e città
non vanno contrapposte bensì armonicamente riordinate in virtù della loro strutturale
omologia: la giustizia e l'ingiustizia nella polis costituiscono infatti lo stesso testo, scritto in
lettere più grandi, della giustizia e dell'ingiustizia all'anima individuale (368E-369A). È
questo lo snodo decisivo, imposto dal dibattito fra Trasimaco e Socrate, che connette il primo
libro della Repubblica al resto del dialogo, il livello delle domande a quello delle risposte. Si
tratterà qui di articolare un progetto che consenta di ricomporre un'ordinata unità della polis
dell'anima, e di ripristinare l'armonia dell'una con l'altra, in un parallelismo che è anche gioco
di specchi: l'anima ne risulterà intrinsecamente politicizzata (e con essa, nel Timeo, anche il
corpo), e viceversa la città ne verrà altrettanto intrinsecamente psicologizzata. Al di fuori di
questo progetto, non resta per Platone che la rassegnazione ad uno stato permanente di
scissione e disordine conflittuale tanto nella vita individuale quanto in quella sociale: le
passioni sono infatti nell'anima quello che la stasis è nella città (Soph. 228B).
[...] L'omologia e la coimplicazione di anima e città fanno sì che i1 problema morale debba
venir risolto simultaneamente in entrambi gli ambiti: non c'è individuo giusto se non in una
società giusta, ma non c'è società giusta se non lo sono insieme i suoi singoli membri. [...] La

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città, ed essa soltanto, dispone degli strumenti educativi — di formazione e anche di
coercizione sociale — capaci di rendere giusti o ingiusti i suoi membri, di condizionarne
l'abito intellettuale e morale. È la città soltanto a poter proporre, «a grandi lettere», quei
modelli di distribuzione gerarchicamente ordinata dei poteri e delle funzioni che devono
venire interiorizzati perché sia possibile sedare anche il conflitto intrapsichico individuale.
[...] È dunque dalla città che deve cominciare la ricerca della giustizia; la sua genesi e il suo
sviluppo devono mostrarne tanto la traccia (perché senza giustizia nessuna società può
esistere) quanto il principio della sua attuale degenerazione nel conflitto e nell'ingiustizia.
[...] La società si forma in origine come una comunità di produttori di beni primari (cibo,
abitazioni, abbigliamento), indotti ad associarsi dalla spinta del bisogno. Piuttosto che
provvedere singolarmente a tutte le proprie necessità, essi trovano vantaggiosa e redditizia
una divisione «naturale» del lavoro, per la quale ognuno produce il bene nel quale è
specializzato in quantità eccedente il proprio fabbisogno, e scambia la propria eccedenza con
quelle altrui. Le figure sociali inizialmente coinvolte in questo embrione di società sono
dunque quelle del contadino e dell'artigiano (muratore, tessitore), cui presto si aggiunge lo
specialista dello scambio, il commerciante. C'è, in questa società, anche un embrione di
giustizia? La risposta di Platone è positiva. Qui infatti vige il principio, insieme naturale e
morale, della oikeiopragia: ognuno svolge il proprio ruolo, la funzione per la quale è
naturalmente e intellettualmente meglio dotato. Non si tratta soltanto di un principio di
efficienza produttiva consentita dalla divisione del lavoro: la oikeiopragia, il «fare le cose
proprie» (434C, 433B) sono infatti tradizionalmente investiti di un preciso valore morale.
Platone ricorre alla vecchia idea secondo la quale la «virtù» (arete) consiste nell'eccellenza
con la quale una persona o una cosa svolgono la propria funzione (353B). E mobilita tanto la
saggezza delfica e soloniana, quanto la morale oplitica della città. «Fare le proprie cose»
significa da un lato rispettare il proprio posto in un mondo gerarchicamente ordinato di uomini
e dèi, non volere più di quanto spetta a ognuno, accettare la propria sorte; dall'altro, mantenere
la propria posizione nella schiera oplitica, osservare la virtù politica della temperanza
(sophrosyne), che significa integrazione nello sforzo comune pur nella diversità di ruoli e di
funzioni.
La città primitiva — per quanto semplice e povera sia — presenta dunque, nella oikeiopragia,
una traccia della giustizia cercata: essa distribuisce una pluralità di classi funzionali
differenziate senza che questa differenza comporti disgregazione e conflitto. [...] Ma si tratta
di una salute instabile, che contiene in sé i germi della degenerazione. Questa città è infatti
priva di un principio di governo, non possiede né potere né sapere. Fondata sul nesso bisogno-
produzione-consumo, essa è necessariamente destinata ad allargare questa spirale, ad
espandere in modo incontrollato tanto i bisogni quanto la produzione destinata a soddisfarli:
diventa così rapidamente una città «gonfia» e malata di lusso. Con quest'ultima figura, la
fenomenologia platonica della polis ha raggiunto la città esistente, in primo luogo l'Atene del
V e IV secolo. Qui sono certamente comparse le forme del potere e del sapere, tuttavia
funzionali al lusso, sintomi della sua malattia: la produzione intellettuale è destinata al
consumo e al piacere, la forza militare è al servizio della difesa e dell'incremento della
ricchezza.
L'archeologia della giustizia condotta nel libro secondo si è così trasformata in un'archeologia
dell'ingiustizia: la lotta per la ricchezza ha scisso la città, l'ha trasformata in un luogo di

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perenne conflitto interno ed esterno, l'ha consegnata alla frammentazione privatistica. [...]
Occorre tornare alla giustizia, alla salute delle origini, ma in una situazione di complessità
irreversibilmente accresciuta, che rende necessario correggere la stessa situazione originaria
con l'inserzione del principio di governo, del potere e del sapere. [...] Platone pensa che il
processo di risanamento della città debba cominciare dalla riqualificazione intellettuale e
morale del principio di forza e di potere esistente nella città malata, l’apparato militare che in
essa si è formato. Educare i giovani guerrieri per farne strumenti affidabili come cavalli e cani
coraggiosi e fedeli (375A): questo è il primo, necessario passo della svolta. Il secondo
consisterà nella scelta all'interno del gruppo militare degli elementi intellettualmente e
moralmente migliori per affidare loro il governo della città e il comando dell'esercito (412B-
E). [...] I «custodi» della città — governanti e militari — saranno soprattutto custodi dei
cittadini: essi si accamperanno nella polis in luogo adatto sia a difenderla dai nemici, sia a
controllarne i membri (415D-E). [...]
A partire dal libro III, Platone inizia a delineare i caratteri strutturali della polis rifondata e
guarita, nei quali sarà finalmente leggibile la giustizia cercata, e finora solo embrionalmente
rintracciata nella città primitiva. Il primo di essi consiste nella drastica separazione di potere
e ricchezza. I «custodi» (phylakes) al potere, ormai divisi in governanti e ausiliari militari,
non potranno disporre di alcun patrimonio personale: mantenuti a spese del resto della
cittadinanza, essi condurranno vita comune «come in un accampamento» (416D-E). Se infatti
possedessero un patrimonio privato, in denaro o in terre, essi — al modo degli oligarchi —
risulterebbero «padroni odiosi anziché alleati degli altri cittadini» (417B). Ma l'abolizione dei
patrimoni non è che un aspetto del più generale, e fondamentale, rifiuto di ogni forma di
privatizzazione, che caratterizza il vertice sociale della Repubblica platonica. [...] Ne
consegue immediatamente la soppressione della famiglia, in quanto luogo principale della
privatizzazione non solo dei patrimoni e della discendenza ereditaria, ma anche dei vincoli
affettivi fra uomo e donna, genitori e figli. Se il privato, come si è visto, è il principio della
scissione e del conflitto, la sua totale soppressione è invece la condizione necessaria per
«rendere una la città» (462A). [...] L'abolizione del privato, patrimoniale e familiare, ai vertici
del potere, è la condizione per una nuova articolazione della società in classi differenziate per
funzioni e non per interessi conflittuali, per un ritorno dunque, in condizioni infinitamente più
complesse, a quanto v'era di sano e di giusto nella città primitiva. Ci saranno i due gruppi
derivati dalla divisione interna al ceto dei guerrieri-guardiani: i governanti e i loro ausiliari
militari. Ci sarà poi un terzo e più vasto gruppo, quello dei produttori agricoli e artigianali,
che non è toccato dall'abolizione della famiglia e della proprietà privata, e che è destinato ad
alimentare anche i gruppi al potere. [...] La tripartizione funzionale della città vi reintroduce
il vecchio valore della oikeiopragia, che si articola ora però non soltanto in una distribuzione
di servizi ma anche di virtù morali. Al gruppo degli archontes è delegata la funzione del
potere; questo gruppo deriva da una selezione interna dei «guardiani» politico-militari, ed è
autorizzato al governo dal possesso di un sapere, che sostituisce così la ricchezza come titolo
di eccellenza sociale. Questo sapere è inizialmente caratterizzato come una tecnica politica,
un know-how di governo, alla maniera sofistico-socratica. Ma i libri dal V al VII chiariranno
che i suoi depositari sono i «filosofi» platonici, e che esso ha ben altri fondamenti e contenuti.
[...] Il carattere essenziale di questa funzione di potere è che essa spetta di necessità a un
gruppo sociale piccolissimo, per le straordinarie doti intellettuali e morali richieste. Grazie al

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suo sapere questo gruppo è però in grado di rendere universale il senso del proprio governo,
che viene gestito in nome della «polis intera» e non per l'interesse di una sua parte (428D). Si
trova qui anche la prima delle virtù della nuova città: essa può esser detta nel suo insieme
«sapiente» (sophe), non perché la sapienza sia distribuita a tutti i suoi membri, ma nella misura
in cui è governata dal gruppo che detiene l'eccellenza (l’arete, appunto) della sapienza (428E-
429A). [...]
Il secondo gruppo funzionale nella nuova città è quello dei guerrieri, che detiene, e perciò
trasmette all'intera città, la vecchia virtù competitiva del coraggio (429B): la sua sottomissione
al governo dei sapienti deve garantire però che questo coraggio non cada nell'eccesso
'omerico', distruggendo la convivenza nella città, ma sia piuttosto al suo servizio, assumendo
la nuova figura di «coraggio politico» (430C).
La terza parte della città è quella dei produttori, chiamata a mettere a disposizione dell'intero
corpo sociale i beni necessari. C'è una virtù che spetta specificamente a questa parte, mentre
nelle altre si aggiunge alle «eccellenze» loro proprie, sapienza e coraggio. Si tratta della
vecchia virtù civica della «temperanza», sophrosyne. Essa mantiene in Platone il suo valore
di «ordine», «padronanza» (enkrateia) delle passioni e dei desideri individuali, tanto più
necessaria nella terza classe in quanto ad essa non è negato l'accesso privato alle ricchezze,
alla famiglia, ai piaceri e agli affetti individuali (430E). Ma, nella nuova società, la sophrosyne
si carica ora di un valore diverso: essa consiste nel consenso di tutte le classi su chi «deve
governare», e in particolare nell'assenso della «parte peggiore» al potere di quella «migliore».
La temperanza è soprattutto accettazione interiorizzata e pubblica della gerarchia dei poteri,
che deve sopprimere alla radice la possibilità di rivolta dei sudditi contro i governanti. Solo
questa virtù garantisce dunque la pacificazione del conflitto nella polis, la sua concordia
(homonoia), la sua armonia, la sua capacità di formare una sinfonia (431B-432A).
Si è così completato il reperimento, nella nuova polis, di tre delle quattro virtù canoniche:
dov'è collocato il loro compimento, quella «giustizia» verso cui è indirizzata la ricerca?
Platone risponde che a questo punto essa è già stata trovata: la giustizia non appartiene ad
alcuna delle classi funzionali ma all'intera città quando «ciascuna delle classi svolge il proprio
compito» (435B-C). A questo livello di articolazione e di complessità, è possibile recuperare
il valore originario della oikeiopragia, in cui consiste la giustizia della città allorché i ruoli
non siano più quelli della produzione specializzata di beni, ma dell'esercizio delle virtù sociali.
[...] La città così risanata dal conflitto, la città in cui i valori competitivi sono definitivamente
posti al servizio di quelli collaborativi (questo significa in ultima analisi la giustizia), sarà
infine una città felice: e felice non in uno solo dei suoi gruppi, ma nella sua interezza, per
l'armoniosa distribuzione dei ruoli e delle gerarchie che vi si è realizzata (420B). [...] L'ottima
costituzione rappresenta un modello, un «paradigma» della «giustizia in sé» e dell'«uomo
perfettamente giusto»; questo paradigma ha una funzione indipendente dalla dimostrazione
della sua realizzabilità (472C-D). Si tratta intanto di una funzione critica. [...] Mai questa
città «nascerà al possibile» (473E), mai essa uscirà dal «favoleggiamento mitico» e
«troverà il suo compimento nei fatti» (501E), se non si verificherà una situazione finora
inaudita: la riunificazione nelle stesse mani di filosofia e potere politico, dynamis politike.
Questa situazione può secondo Platone prodursi in due modi: o che i filosofi assumano in
prima persona il potere, o che re e potenti acquisiscano un'autentica capacità filosofica (473
C-D, 499B-C). Un sapere impotente, o un potere senza sapere, sono entrambi privi di efficacia

41
terapeutica, incapaci di far cessare i mali di cui soffre la città (473C-D, 501E). [...] Nell'attesa
— forse indefinitamente lunga, ma non per questo da considerarsi vana — che tutto ciò possa
accadere, un'altra trasformazione è intanto possibile. Vedere il «paradigma nel cielo» può
servire, da subito, a «fondare se stessi»; indipendentemente dal fatto che la città felice «sia, o
sarà, in qualche luogo», dal suo modello sarà fin d'ora guidata la praxis del filosofo autentico
(592A-B). A partire da qui, si verifica la transizione platonica dalla città all'anima individuale
(435B-C), di cui la prima è insieme specchio (perché la città giusta richiede anime giuste),
modello e condizione di possibilità (perché la rifondazione di sé non può essere compiuta
senza le strategie educative che solo la città è in grado di generalizzare).
[...] La psicologia del quarto libro della Repubblica sembra così aver risolto il problema della
giustizia nell'anima, in analogia e specularità con quello della giustizia nella città. L'uomo
giusto e sano sarà quello in cui governa la parte razionale dell'anima. A lui spetterà il governo
della città giusta, che consoliderà attraverso la pratica educativa il governo della ragione
nell'anima. Gli uomini in cui prevalgono l'elemento animoso o desiderante, purché siano
abbastanza temperanti da accettare l'alleanza con la ragione o la sottomissione a essa,
svolgeranno armoniosamente e utilmente le loro funzioni. Le virtù, collaborative e
competitive, avranno ognuna il suo posto, all'interno della sintesi assicurata dall'ordine
gerarchico in cui consiste la giustizia. Resta tuttavia un elemento che preme per trovar posto
in questo quadro psicologico: si tratta del desiderio erotico, di cui abbiamo già notata la
collocazione contraddittoria. Questa pressione è tanto maggiore in quanto Platone non può
fare a meno di attribuire al desiderio razionale, filosofico, per la verità, un carattere fortemente
erotico (485B, 490B). [...] Il Fedro offre un saggio spettacolare di rieducazione e di
sublimazione del desiderio amoroso, che dalla iniziale propensione verso il bel corpo viene
rivolto alla bellezza in sé, e mette dunque la sua energia pulsionale al servizio dell'ascesa
verso le idee dell'anima insieme innamorata e filosofa (251A-C). Il Simposio completa il
percorso: nel discorso di Diotima, eros è trasposto dal desiderio della bellezza dei corpi a
quella delle anime, per indirizzarsi infine alla bellezza delle azioni e delle leggi (210A-D,
211C-D). Esso può dunque urgere, con la sua energia desiderante, anche verso la città della
Repubblica, che è definita «la bella città», kallipolis (527C). [...]
Abbiamo visto a più riprese come l'educazione (paideia) costituisca in Platone il punto di
contatto e di transito fra individuo e città, fra progetto e realizzazione. È necessario educare
gli uomini perché da essi possa nascere la città giusta (e, in sua assenza, questo compito può
intanto essere supplito dall'Accademia); la città giusta deve a sua volta amministrare un
programma educativo permanente per rendere giusti i suoi abitanti, e proteggersi così dalla
degenerazione sempre possibile. Alla base di questa insistenza sulla centralità dell'educazione
stanno alcune radicate convinzioni platoniche sulla condizione dell'uomo. [...] Nel bene o nel
male, l'io è plasmabile, soprattutto se si interviene sul bambino, quando ancora è «molle
come se fosse di cera» (Leg. 789E). Questa plasmabilità può essere messa a frutto da
un'«educazione retta», che quasi certamente riuscirà a forgiare uomini altrettanto «retti» [...]
Platone introduce l'analisi sul Bene nel libro sesto della Repubblica con l'argomento classico
della teoria delle idee. Le cose giuste e belle sono tali — cioè dotate di valore e desiderabili
— per la loro relazione con un principio unitario di valore: appunto, l'idea del Bene (506A).
In quanto principio di valore, l'idea del Bene costituisce l'orientamento ultimo della praxis
etico-politica: la sua conoscenza è dunque necessaria per i «custodi» della polis giusta,

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giacché «deve averla vista chi intende agire saggiamente in privato o in pubblico», costituendo
essa la causa di tutto ciò che è bello e giusto (517C). [...] l'unità e l'autonomia del Bene sono
caratteri irrinunciabili. Senza questo fondamento, viene meno la possibilità vitale che una
sola, e piccola, parte tanto dell'anima quanto della società possa presentarsi come portatrice
di un valore universale, e quindi governare in nome dell'io e della città interi; si sarebbe allora
respinti verso il relativismo sofistico, che abbandona alla folla dei desideri e alle
maggioranze assembleari la decisione «democratica», cioè arbitraria, di ciò che di volta in
volta è 'bene' per l'uomo e la città. [...] Essere giusti rappresenta per Platone un impegno duro
e complesso. È necessario lavorare sulla propria interiorità, per assicurare nell'anima il
dominio della razionalità su passioni e desideri, e operare un'adeguata conversione
dell'energia erotica. Occorre inoltre sforzarsi di conquistare la conoscenza del Bene e ispirarsi
ad esso per fondare la città giusta. Infine, bisognerà governare questa città, o, se non se ne è
intellettualmente e moralmente capaci, accettare di buon grado il governo di chi lo merita.
Ma perché — chiedevano provocatoriamente Glaucone e Adimanto all'inizio del libro
secondo — si dovrebbe voler essere giusti? Che cosa rende la giustizia desiderabile, e
meritevole di un impegno così grande? Platone offre a questa domanda una pluralità di
risposte, forse persino eccessiva. La prima è che «la giustizia in sé è bene supremo per l'anima
in se stessa» (612B). Salute e armonia dell'anima, la giustizia è per l'individuo tanto
desiderabile quanto salute e bellezza lo sono per il corpo. Questa risposta può sembrare
sufficiente e definitiva. Di fatto, però, Platone la rafforza con tutta una serie di promesse di
felicità e di ricompense, in questo e nell'altro mondo, che si accompagnano alla giustizia e la
premiano. [...] Il libro decimo della Repubblica fa largo spazio al racconto di un revenant
d'oltretomba, Er, il quale racconta di «godimenti celesti e visioni di straordinaria bellezza»
che colà spettano alle anime dei giusti, e dei tremendi castighi che toccano agli ingiusti: si
tratta di premi e punizioni valutabili nella misura del decuplo dei meriti o delle colpe che
hanno contraddistinto la vita terrena (615A-B).
Il racconto di Er ha una doppia funzione retorica. La prima, e più visibile, è ovviamente di
persuadere alla giustizia con l'evocazione dei premi e delle punizioni che spettano alle anime
nell'altra vita. Ma queste tornano, dopo il periodo stabilito, nuovamente a incarnarsi,
scegliendo la forma di vita terrena che esse preferiscono, accompagnate da questo
ammonimento: «non sarà un dèmone a scegliervi la sorte, ma sarete voi a scegliervi il dèmone
[...]. La virtù non ha padrone [...], la responsabilità è di chi sceglie, il dio non è responsabile»
(617E). A questo secondo, e più raffinato livello, il «mito» significa che ognuno è
responsabile della sua vita (Edipo non può lamentarsi d'essere dysdaimon, perché solo sua è
stata la scelta), che la virtù è libera, e noi dunque premiamo o puniamo noi stessi con la scelta
di vita che abbiamo operata.
[...] L'individuo da solo, senza la polis, non può essere giusto né felice: non lo può essere
l'uomo comune, perché manca chi lo governi e lo guidi con l'educazione, e non lo può essere
neppure il filosofo, costretto a oscillare fra la corruzione imposta dal reale e una sterile e vana
autodifesa nell'isolamento. La felicità si sposta allora nella città giusta. [...]

Brani da M. Vegetti, L’etica degli antichi, Laterza, Roma-Bari, 2002, pp. 109-158

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ARISTOTELE (Stagira, 384 a.C. o 383 a.C. – Calcide, 322 a.C.)

Aristotele si occupa delle costituzioni con un intento dichiaratamente pratico, perché, nel
rivolgersi al legislatore come al destinatario della sua Politica, ritiene che questi, nel
determinare quali sono le leggi che vanno assegnate ad una certa città, deve prendere in
considerazione il tipo di costituzione che possiede di già o che è ad essa più appropriato.
Pertanto è necessario quell'esame tipologico e classificatorio delle costituzioni che viene
offerto in alcuni capitoli del libro dell'opera (capitoli 6-8 per le costituzioni in generale,
capitoli 14-18 per il regime regale ovvero la monarchia) e nel grosso del libro IV, oltre che,
in modo meno diretto, in altre parti. È un esame che, agli occhi di Aristotele, non può essere
del tutto separato dalla determinazione di quella che è la costituzione migliore, sia essa la
costituzione migliore in assoluto (della quale si parla nei due libri finali) o la migliore
costituzione possibile (a questa non viene dedicata una presentazione distinta). Nel trattare
delle costituzioni da questo punto di vista bisogna tener conto di quelle cause o di quei fattori
che favoriscono di una certa costituzione o che, al contrario, portano al suo dissolvimento
(questo costituisce l'oggetto principale dei libri V e VI dell'opera).
Tutte queste indagini debbono partire da uno studio comparativo delle costituzioni, che si basa
su quella rassegna delle varie costituzioni delle diverse città o popoli che di fatto venne
preparata sotto la direzione dello Stagirita. [...] Evidentemente Aristotele ha in mente uno
studio di questioni che hanno a che fare con le costituzioni delle città ovvero con la loro
legislazione, e che coincidono in larga misura con i contenuti dell'opera intitolata Politica.
Non esauriscono i suoi contenuti, perché egli si occupa pure della città (polis) e, in relazione
ad essa, del cittadino, discutendo della loro natura nei primi cinque capitoli del libro III, dopo
avere presentato la genesi della città stessa, in relazione ai suoi componenti, nei primi due
capitoli dell'opera. Il componente principale della città è dato dalla casa (oikos), che viene
preso in considerazione nel resto del libro I. [...] Come vedremo, quando si occupa della città
analizzandola in parti, considera queste parti stesse come delle comunità dalle quali emerge
gradualmente la città come comunità più inclusiva, e, nel fare questo, rivolge la sua attenzione
prevalentemente a quei rapporti di governo o di potere che sono quelli stessi che, in larga
misura, definiscono la costituzione che è posseduta dalla città stessa.
Se si guarda all'aspetto più conoscitivo dell'indagine circa le costituzioni, cioè al compito di
offrire una tipologia delle costituzioni a partire dalla migliore e di descrivere il funzionamento
di ciascuna, oltre a determinare le cause che ne favoriscono la conservazione o che ne
provocano la distruzione, si tratta di temi che costituiscono nel loro insieme i contenuti di un
trattato di scienza della politica. Ma tale scienza, come è intesa da Aristotele, indubbiamente
non è tenuta ben distinta dalla filosofia della politica, perché i criteri che applica sono
valutativi e possono ricevere una giustificazione solo sul piano della riflessione filosofica. In
varie parti dell'opera (compreso il libro I), sono da lui toccate questioni come quella della
natura politica dell'uomo, della legittimazione delle forme di governo, della giustizia e della
felicità che si realizzano mediante una costituzione, che sono palesemente di interesse
filosofico. […]
Nel considerare il rapporto che c'è fra l'individuo e la città (intesa come la comunità politica
più comprensiva) Aristotele riprende l'idea platonica che fra i due sussiste un'analogia
abbastanza stretta sicché si può parlare non solo di virtù e di felicità dell'individuo ma anche

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di virtù e di felicità della città tutta. Così nell’Etica Nicomachea, I 2, 1194 b 7-9, ammette una
priorità della città sul singolo sulla base della considerazione che il loro fine è lo stesso, ma
quello della città è inclusivo dell'altro [...]. Da questo punto di vista emerge una priorità
dichiarata della politica sull'etica per la maggior comprensività della prima, ma ciò di per sé
non esclude una dipendenza della politica dall'etica nei principi cui fa ricorso.  [Eppure] può
sembrare che, nel passare dall'etica alla politica, il procedimento di Aristotele consista
essenzialmente nell'estendere alla città nel suo complesso le conclusioni che aveva tratto
(appunto nelle sue Etiche) circa la natura della virtù in generale, circa l'ordinamento
complessivo delle virtù e circa il rapporto che sussiste fra virtù e felicità (fra queste
conclusioni ci sono notoriamente la subordinazione delle virtù etiche alla saggezza —
phronesis — e l'essere la virtù condizione necessaria anche se non sufficiente della felicità).
[...] Anche in altri passi tratta la felicità come il fine ultimo della città alla maniera in cui essa
è per il singolo e, a questo modo, siccome (come egli riconosce esplicitamente) non si dà
felicità nella città se non per il fatto che i singoli che ne sono parte la realizzano, risulta in
effetti subordinare la politica all'etica. Per motivi come questi più studiosi hanno sostenuto
che l'etica viene a fondare la politica. Anche questa tesi, tuttavia, va considerata come una
semplificazione. In primo luogo, anche quando il procedimento adottato da Aristotele
comporta un'estensione alla politica di risultati ottenuti in etica, questa estensione comporta
degli adattamenti resi inevitabili dal mutamento di ambito. In secondo luogo, una parte
significativa della sua trattazione è centrata sul riconoscimento che l'obiettivo più direttamente
da perseguire in politica è la giustizia piuttosto che la felicità, e questo riconoscimento rende
la politica indipendente dall'etica, quando non comporti addirittura un rovesciamento della
priorità. [...]
Parlando di giustizia Aristotele ha in mente quella che egli stesso nel libro V dell'Etica
Nicomachea, aveva presentato come giustizia distributiva: egli è cioè interessato alla
questione di quanto viene riconosciuto e attribuito ai cittadini (o in genere agli abitanti della
città), non alle regole che sono fatte valere quando si tratta di ottenere che
un cittadino risarcisca un danno da lui fatto o venga punito per un delitto (è l'ambito di quella
che egli chiama la giustizia correttiva). Inoltre si occupa della giustizia distributiva
prevalentemente dal punto di vista politico, cioè in primo luogo dal punto di vista dell'accesso
che si deve riconoscere ai cittadini a cariche o posizioni di qualche responsabilità oppure a
organi che hanno influenza sulla vita pubblica (come le assemblee e i tribunali).
Evidentemente egli dà per ammesso che tutti desiderano governare e ritengono di averne il
titolo, perché tutti pretendono di avere la virtù, e questa si esercita nel governare, sicché la
questione è quella di trovare il modo di regolare questo accesso secondo criteri di giustizia.
S'intende che la questione si pone anche riguardo al modo in cui il potere viene esercitato, se
a vantaggio di chi governa o di chi viene governato, oppure se in conformità con la legge o
meno. (La questione del riconoscimento della sovranità della legge viene discussa in relazione
alla regalità in Pol. III 16, e tale riconoscimento stesso serve da discriminante nella
presentazione di certi regimi politici in IV 5-6 e 8.)
Non si occupa invece della giustizia distributiva dal punto di vista economico, probabilmente
perché ritiene che il tema non interessi direttamente la politica, anche se si rende perfettamente
conto del fatto che le differenze nella ricchezza possono avere molto peso nella vita della città
nel suo complesso. 

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Quanto al legame che egli stabilisce fra giustizia ed uguaglianza, esso implica che ogni
costituzione che non sia del tutto aberrante realizza una qualche sorta di uguaglianza fra i
membri della città cui si riconoscono dei diritti politici ovvero fra tutti i cittadini, ma col
possibile correttivo del riconoscimento di un qualche titolo (per esempio la virtù o eccellenza
nell'aristocrazia, la ricchezza nell'oligarchia) introducente una forma di diseguaglianza
ritenuta compatibile con il principio di giustizia per il quale a ciascuno sia dato il dovuto. Una
complicazione è poi data dal fatto che Aristotele, come è noto, ammette una distinzione
fondamentale fra uguaglianza numerica e uguaglianza proporzionale – la quale comporta
anche una diseguaglianza -, ritenendo che vi sia una differenza di regime politico a seconda
del tipo di uguaglianza che viene attuato (l'uguaglianza numerica, per la quale un individuo è
uguale a un altro nei suoi diritti, è quella che prevale nei regimi democratici, mentre
l'uguaglianza per la quale i diritti riconosciuti sono in proporzione ai meriti dei singoli è quella
propria dei regimi aristocratici). [...] Aristotele, certo, anche quando si occupa direttamente
della giustizia, come in III 9, insiste sul fatto che la comunità che è costituita da una città è in
vista della felicità (ovvero del «vivere bene»), e presumibilmente ammette che le divergenze
fra una costituzione ed un'altra circa il modo di attuare la giustizia rispecchino modi differenti
per perseguire la felicità, perché è da quest'ultima differenza che fa dipendere in generale la
differenza fra le costituzioni (cfr. Pol. VII 8, 1328 a 37-b 2). Di fatto tuttavia gran parte della
sua analisi delle costituzioni da questo punto di vista prescinde da ogni tentativo esplicito di
valutarle dal punto di vista della felicità che assicurano. [...] Nella misura in cui viene
riconosciuta questa centralità del tema della giustizia per la politica, alla politica stessa viene
attribuito un ambito ben distinto da quello dell'etica, adottando quello che per noi è diventato
l'approccio più ovvio alla filosofia politica. Quando gli studiosi contemporanei cercano di
precisare quale sia il termine normativo più importante per essa, lo identificano nella giustizia,
non certo nella felicità, anche perché si ammette che spetta solo al singolo decidere dei modi
mediante cui assicurarsi il massimo di felicità, mentre la politica deve curarsi solo della
compatibilità dei fini che sono perseguiti dai singoli. Lo Stagirita, al contrario, è incline a
trattare la felicità come un obiettivo unico che gli uomini realizzano in vari modi e in varia
misura, sicché questo lo porta ad adottare una visione gerarchica dell'ordine sociale e a
proporre, per la città meglio governata, uno schema di giustizia distributiva basata sull'idea
dell'uguaglianza proporzionale. Ma Aristotele è abbastanza realista da tener conto del fatto
che regimi differenti rispondono a ideali differenti (per esempio la democrazia è orientata alla
libertà, cfr. Pol. VI, 2), e così anche gruppi differenti di persone all'interno di una città,
riconoscendo a tali ideali una certa qual legittimità ovvero intrinseca desiderabilità, sicché
questo lo porta a spostare l'accento dal tema della felicità a quello della giustizia.  [...]
All'inizio stesso della Politica Aristotele presenta la città (polis) come una comunità (o
comunanza: koinonia) che è quella sovrana o dominante (kuriotate) fra tutte e includente le
altre al suo interno. L'idea che tutte le altre comunità siano parti di questa, che viene detta
essere la comunità politica, compare anche in Eth. Nic. VIII 9 [11], 1160 a 9-30, dove sono
menzionate sia associazioni temporanee come l'equipaggio di una nave, sia associazioni
durature come la tribù (cfr. inoltre Eth. Eud. VII 9, 1241 b 24-32). Dopo essersi proposto, alla
fine del capitolo 1, di analizzare la città nelle sue parti, nel capitolo 2 egli passa ad occuparsi,
trattandole evidentemente come parti da cui la città è costituita, la casa ovvero il nucleo
familiare (l'oikos) e il villaggio (la kome). Queste parti vengono privilegiate perché è a partire

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da esse che si forma la città, sicché al procedimento analitico si accompagna (dichiaratamente,
cfr. inizio del capitolo 2) un procedimento inverso di tipo genetico. È evidente che egli ritiene
che questo suo procedimento serve a chiarire la natura stessa della città, ovvero in che cosa
stia il suo essere una comunità politica, dato che è la città (polis) e non semplicemente la
costituzione ad essere l'oggetto della scienza politica. 
Nel prendere in esame questa sua trattazione va premesso che la comunità politica che
Aristotele ha in mente (in tutta la sua opera, e anche quando parla della città migliore) risponde
ad almeno certuni dei requisiti che sono tipici della città (polis) greca. Questa, che, in genere,
coincide fisicamente con un agglomerato cittadino che può essere racchiuso da mura (talvolta
chiamato astu, per tenerlo distinto dalla polis intesa politicamente) e con la campagna che lo
circonda immediatamente, è un'entità autonoma politicamente ovvero sovrana, cioè non fa
parte, come le città moderne, di uno Stato più inclusivo. Dal punto di vista politico questa
entità è vista consistere, più che nel territorio che occupa, nella gente che la costituisce: i Greci
antichi consideravano, per esempio, come soggetto politico che può essere in guerra o in pace
con altre città, «gli ateniesi», non Atene. Non sono le mura a fare una città! Dichiara Aristotele
in Pol. III 3, 1276 a 26-27. Ci deve essere (come suggerisce nel seguito del capitolo) un unico
popolo che occupi lo stesso luogo, ma, poiché le persone non rimangono sempre le stesse (c'è
chi nasce e c'è chi muore), l'identità della città, paragonabile a quella di un fiume, è data dalla
sua organizzazione politica, da lui identificata con la sua costituzione (politeia). Fra i requisiti
che la città deve soddisfare (e che in effetti è soddisfatto piuttosto imperfettamente da città
reali come Atene) c'è quello di essere di grandezza limitata quanto a dimensioni e a
popolazione. Nel parlare della città migliore Aristotele si aspetta che (come risulta
specialmente da VII 4), se non fra tutti i membri di una città, almeno fra coloro che partecipano
agli affari politici (alle volte, come vedremo, fatti coincidere con i suoi «cittadini»), si
stabilisca una qualche sorta di solidarietà o amicizia (philia), e questa si può realizzare solo
in una condizione nella quale tutti si conoscono, per quanto superficialmente. [...] Giudica che
una città come Babilonia non è una città genuina, cioè non è dotata di sufficiente unità per
questo, pur essendo circondata da mura, perché ha le dimensioni di un popolo (ethnos)
piuttosto che di una città (cfr. Pol. 111 3, 1276 a 27 sgg.). 
[...] La casa (l'oikos), che è data non solo dalla famiglia (che spesso va oltre il nucleo costituito
da padre, madre e figli, per raggruppare diversi altri parenti) ma anche dagli schiavi che le
appartengono e dalle sue proprietà materiali, rappresenta ovviamente una comunità ben vitale
all'interno della città. Questo si verifica anche per il fatto che buona parte delle attività
produttive o economiche che si svolgono nella città sono concentrate nelle case (questo spiega
come mai il greco oikonomia, che indica la gestione della casa, abbia finito con l'assumere il
senso del nostro «economia», che ne è il calco). La situazione tipica era ritenuta essere quella
del proprietario terriero, le cui funzioni principali nella casa sono direttive, mentre il lavoro
manuale nei campi è lasciato agli schiavi e alle donne. Le donne ovviamente erano anche
tenute ai lavori di casa, e, presso certe case, lavori come il tessere venivano a costituire una
piccola industria (cfr. Xenophont., Mem. II 7). Ma anche le attività artigianali, quando
avevano carattere privato ovvero non erano rivolte ai bisogni della città, risultavano fare parte
dell'oikos.  Nell'opera aristotelica la casa o famiglia (oikos) riceve non poca attenzione, perché
il grosso del libro I è dedicato ad essa. A partire da una considerazione del rapporto padrone-
schiavo, considerato in primo luogo come forma di governo[…], Aristotele offre una

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trattazione generale della schiavitù nei capitoli 3-7; altri rapporti che esistono all'interno della
casa sono da lui discussi nei capitoli 12-13 (con considerazioni più generali in quest'ultimo
capitolo). Per via del carattere familiare che continua ad essere attribuito all'economia la
trattazione è estesa alla «crematistica» nel doppio senso di arte dell'acquisizione di beni utili
e dell'acquisizione di denaro (ciò avviene nei capitoli 8-11). Tutta questa trattazione viene
fatta rientrare nell'«economia (oikonomia)» nel senso appunto di studio della casa, ma con
attenzione per gli aspetti «economici» (nel nostro senso del termine) della sua gestione. [...]
L'importanza che viene attribuita alla casa è tale che essa viene spesso considerata da
Aristotele (e non solo da lui) come un termine intermedio fra l'individuo e la città, proponendo
anche dei paralleli fra la città tutta e l'individuo. Così egli — oltre a parlare di governo
«politico» e di governo «domestico» nella Politica — in Eth. Nic. V 6 è indotto a parlare
prima della giustizia «politica» e poi della giustizia «domestica», e in VIII 10-11 è indotto ad
istituire dei paralleli fra i rapporti (di governo, ecc.) che valgono nella città e quelli che
valgono nella casa (il cittadino maschio che partecipa agli affari politici ha anche la funzione
di capofamiglia ovvero di chi dirige la casa). [...].
Un aspetto connesso di questa organizzazione della città è dato dal fatto che è solo una
minoranza dei membri della città che sono cittadini a pieno titolo, nel senso appunto di avere
accesso alle funzioni politiche ovvero all'esercizio del potere. I cittadini a pieno titolo non si
estendono in tutti i casi oltre alla categoria degli uomini maschi e liberi e in grado di
contribuire alla difesa della città. La distinzione fra uomini liberi e schiavi è di grande
importanza per una società come quella greca. Gli schiavi sono una proprietà dei primi, e
come tali non hanno dei diritti per conto proprio. Dalla cittadinanza sono escluse anche altre
categorie di persone, in particolare (almeno ad Atene) erano esclusi i meteci, che erano dei
residenti di origine straniera, che spesso davano un contributo importante alle attività
commerciali e non solo commerciali della città. Quanto ai familiari degli uomini maschi liberi,
cioè la moglie e i figli, essi rientravano fra i cittadini, ma non fra i cittadini a pieno titolo,
poiché non potevano partecipare agli affari politici della città. [...]
Nel capitolo 2 del libro I della Politica Aristotele presenta dunque la formazione della città a
partire da comunità più piccole e più semplici che essa finisce con l'incorporare in se stessa.
[...] La prima fase è data dalla formazione della famiglia e della casa. Alla base di questa c'è
l'impulso naturale, che l'uomo ha in comune con gli animali, di accoppiarsi con una persona
dell'altro sesso e di riprodursi, in modo da assicurare la permanenza della famiglia e quindi
anche, meno direttamente, della specie (cfr. 1252 a 26-30 e Eth. Nic. VIII 12 [14], 1162 a 16-
19). A differenza tuttavia degli altri animali l'accoppiamento non è temporaneo o casuale, ma
riflette un impulso dell'uomo a stabilire una comunione duratura con persone affini, essendo
egli un animale «economico» (= fatto per l'oikos) o «accoppiantesi» (cfr. Eth. Eud. VII 10,
1242 a 22-26, insieme a Eth. Nic. loc. cit.). [...] Nella casa poi si stabiliscono anche altri
rapporti volti a soddisfare ai bisogni e richiedenti una divisione dei compiti, e fra questi c'è
quello fra padrone e schiavo, del quale notoriamente Aristotele sostiene espressamente che
esso ha una base in natura, pensando — anche se non esclusivamente — ad una differenza
naturale di attitudini per compiti differenti, anche se nel caso dello schiavo non si può parlare
propriamente di «virtù» ad esso propria (cfr. Pol. I 5-6). [...] Da tutto questo si può desumere
che per Aristotele il rapporto di divisione dei compiti che si stabilisce nella casa ha una base
in natura, che però non è più la natura biologica che porta all'accoppiamento e alla

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riproduzione ma la natura che consiste nelle differenti attitudini di persone che differiscono
per sesso o per altre ragioni. Nella casa infine si stabiliscono, oltre a dei rapporti di solidarietà
(suggeriti dal greco philia, che ha un senso più esteso del nostro «amicizia», perché si applica
anche ai rapporti interfamiliari), dei rapporti di comando o di governo, perché, in modi diversi,
la donna, i giovani e gli schiavi prendono ordini dal capofamiglia che per la donna può anche
essere il marito e per i giovani il padre. Ma rapporti del genere sono già rapporti che possono
essere conformi o meno a giustizia, sicché le sue norme hanno applicazione già all'interno
della casa.
Tutto questo allora significa che, come Aristotele dichiara espressamente in Eth. Eud. VII 10,
1242 a 40-b l, è nella casa che ci sono gli inizi e le fonti dell'amicizia (philia), della
costituzione (politeia) e della giustizia, vale a dire che sono presenti in nuce tutti i principi e
i rapporti che valgono per la comunità politica. Ed è tenendo conto di questa idea che egli si
fa della casa che si comprende come egli possa vedere un passaggio graduale da essa alla città
e possa affermare che anche la città è qualcosa di naturale, se è naturale la casa da cui si è
sviluppata (cfr. 1252 b 30 sgg.). Palesemente la continuità fra casa e città non può stare
nell'iniziale naturalità biologica che porta alla formazione di una famiglia ma deve stare
invece nella naturalità delle differenti capacità e disposizioni per le quali si stabilisce,
all'interno della casa, una divisione dei compiti e una rete di rapporti di governo (e di
subordinazione). Alla divisione dei compiti egli allude per esempio nel paragonare la città ad
un organismo vivente (in I 2, 1253 a 19 sgg.), dato che in esso organi come la mano e il piede
esercitano funzioni differenti. Inoltre la città è da lui detta essere costituita da persone
differenti (cfr. Pol. II 2, 1261 a 22-24), e questa differenza è posta in relazione alla differenza
dei ruoli, come è reso chiaro dall'analogia con le differenti funzioni che sono esercitate dai
marinai su di una nave in Pol. III 4, 1276 b 20 sgg. [...]
Quanto all'anello intermedio fra casa e città che è costituito dal villaggio, Aristotele, oltre a
presentarlo in Pol. I 2) come una sorta d'espansione della casa mediante aggregazione di più
case, riconosce che esso porta con sé qualcosa di nuovo, che sta nello scambio dei beni, che
all'interno della casa dove tutto è in comune, non necessario. [...]
Anche nel caso della terza fase, quella della formazione della città, che risulta
dall'aggregazione di più villaggi, ci deve essere qualcosa di nuovo o di più rispetto alle
comunità da cui deriva, perché altrimenti non ci sarebbe sostanziale differenza fra di esso e
quelle comunità e non avrebbe senso precisare che si tratta della «comunità politica». Nel
capitolo 2 del libro I l'indicazione che Aristotele offre è che questa comunità ha come suo
obiettivo non il semplice vivere (che è l'obiettivo che era stato attribuito alle comunità
precedenti) ma il bene vivere ovvero il vivere felicemente (cfr. 1257 b 27 sgg.). [...]
In Politica I, 2 Aristotele, dopo avere esposto la genesi della città ed avere affermato che essa
è qualcosa di naturale, introduce la celebre affermazione che è chiaro che «l'uomo è un
animale politico per natura», aggiungendo che

«colui che è senza città (apolis) per via della <sua> natura e non per un qualche accidente è un meschino oppure
è superiore all'uomo; egli è come colui che è stato ingiuriato da Omero <con le seguenti parole>: 'senza famiglia,
senza legge (athemistos)12, senza focolare'. Chi è di tal natura è immediatamente desideroso di guerra, essendo
privo di legame alla maniera di <un pezzo isolato> nel gioco della petteia. Pertanto l'uomo è un animale politico
ben altrimenti che ogni ape e ogni animale gregario» (1253 a 2-8).

49
Nel seguito giustifica questa superiore politicità dell'uomo col suo possesso del linguaggio (e,
insieme, del discorso e della razionalità), rilevando che questo lo mette in grado di non
limitare la comunicazione con i suoi simili a ciò che è piacevole e doloroso, perché mediante
il logos egli manifesta agli altri l'utile e il dannoso e, insieme, e l'ingiusto, essendo una
peculiarità dell'uomo avere percezione del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto e delle
altre qualità del genere.
Successivamente egli dichiara la priorità della città sull'individuo (oltre che sulla casa) in
quanto è la priorità del tutto sulla parte, usando ad illustrazione il parallelo con l'organismo
(umano): se questo cessa di vivere, non c'è più una mano un piede che siano veramente tali,
cioè che siano organi dotati di certe funzioni, perché non sono più in grado di espletare quelle
funzioni stesse. Colui che sia separato (dalla città) e che è in grado di far parte di una comunità
non è autosufficiente, oppure, se lo è e non fa parte di una città, vuol dire che è una bestia o
un dio.

«C'è dunque per natura in tutti un impulso ad una tale comunità, ma colui che per primo l'ha stabilita è stato la
causa dei più gran beni. Al modo, in effetti, in cui l'uomo, giunto a compimento, è il migliore degli animali, allo
stesso modo in separazione dalla legge (nomos) e dalla giustizia (dike) è il peggiore». Questo avviene perché
l'uomo dispone di strumenti che permettono di fare il massimo danno. «Pertanto egli è il più empio e il più
selvaggio <degli animali> quando è senza virtù (arete), e il peggiore nel volgersi ai piaceri del sesso e del ventre.
Ma la giustizia <è virtù> politica, giacché la giustizia è l'ordine della comunità politica, e la giustizia serve a
giudicare di ciò che è giusto» (1253 a 29-39). 

[...] Si può sostenere che l'uomo è un animale politico sostanzialmente allo stesso modo o per
le stesse ragioni per cui lo è un animale come l'ape ma che la sua politicità è resa più ricca e
complessa dal possesso del linguaggio. Si può sostenere invece che l'uomo è l'unico animale
ad essere veramente politico, sicché se altri animali, come le api, vengono detti «politici»
come avviene in qualche passo delle opere zoologiche di Aristotele, è per un uso estensivo o
metaforico del termine. Se si guarda, come non sempre si fa, al contesto cui appartiene il passo
in discussione, è la seconda interpretazione che pare essere decisamente da preferirsi. La
naturale politicità dell'uomo era stata posta in connessione immediata con la naturalità (della
polis come comunità politica, e questa è un'entità puramente umana (oltre che in effetti
riservata a certe popolazioni, cioè soprattutto ai Greci). Inoltre quanto Aristotele offre come
ragione del fatto che è un animale politico ben altrimenti che ogni altro è che questi, mediante
la sua appartenenza alla comunità politica, porta ad attuazione la sua capacità di distinguere
il giusto dall'ingiusto.  [...]
La sua politicità non è naturale nel senso di essere un dato biologico, ma solo nel senso che
risponde pienamente alla sua natura, che subirebbe un'amputazione se egli, come singolo, non
potesse stabilire rapporti di interazione con i suoi simili. E se tale politicità fosse considerata
solo dal punto di vista della capacità di cooperare con efficacia con i suoi simili, l'uomo
risulterebbe essere un animale politico non di più ma di meno delle api e delle formiche, sia
perché può abbandonare l'opzione della socialità per quella della vita solitaria, sia perché ci
sono contrasti, deviazioni individuali, ecc. fra gli uomini che sono un elemento di disturbo
che è assente in quelle organizzazioni animali. C'è dunque da presumere che la politicità
dell'uomo risieda prevalentemente in qualche altro fattore o aspetto della sua vita.

50
L'affermazione della naturale politicità dell'uomo, in associazione a quella della naturalità
della città, ha sicuramente un intento in parte polemico, nei confronti delle teorie sofistiche di
tipo contrattualistico (un riferimento esplicito ad una di queste, che viene attribuita a
Licofrone si trova in III 9, 1280 b 10-11. Aristotele mostra di condividere l'idea che alcuni dei
sostenitori di quelle teorie (si veda per esempio la sintesi che ne offre Platone in Resp. II, 358
E-359 A) avevano della condizione umana allo «stato di natura»: gli uomini si comportano
peggio degli animali, dedicandosi ad ogni forma di sopraffazione nei confronti dei loro simili.
Ma lo stabilirsi di quei rapporti di giustizia fra gli uomini che sono alla base della comunità
politica non è il risultato di un semplice accordo per porre fine a un danneggiarsi a vicenda
che finisce col danneggiare tutti, dunque non è il risultato di un artificio che è in contrasto con
la vera naturalità dell'uomo. Questa si realizza nell'appartenenza alla città e dunque
all'adozione di leggi (conformi a giustizia) da rispettare, sicché viene meno il
contrasto fra legge (nomos) e natura (physis). Egli è convinto che l'uomo ha una
predisposizione naturale alla giustizia, oltre che alla vita in società, e questa sua convinzione
è espressa appunto dall'affermazione che l'uomo è un «animale politico». Sono queste
predisposizioni che trovano attuazione con l'istituzione delle leggi come parte
dell'«invenzione» della città ovvero della comunità politica, sicché l'uomo diventa veramente
tale quando (ponendo un freno agli impulsi ferini di cui è indubbiamente dotato) realizza in
pieno la sua «politicità», in cui risiede anche la sua moralità.
[...] la modalità in cui il governo viene esercitato all'interno della città serve a qualificare il
suo regime politico (se per esempio si tratta di un regime regale oppure tirannico oppure
oligarchico). Che le cose stiano così Aristotele lo riconosce abbastanza esplicitamente in Pol.
III 6, dove offre una tipologia delle forme di governo costituzioni da lui proposta nel capitolo
successivo [...]. Questa si basa sul numero dei governanti e tiene conto della distinzione fra
costituzioni buone e costituzioni devianti (un governante: monarchia/tirannide; pochi
governanti: aristocrazia/oligarchia; molti governanti ovvero la maggioranza dei cittadini:
politeia/democrazia). Già in questo caso il passaggio dall'una all'altra tipologia non è del tutto
immediato, perché la forma di governo «aristocratica» (anche se pervertita nel caso
dell'oligarchia) che qualifica il secondo gruppo di costituzioni in effetti riguarda il rapporto
fra i governanti e i governati, mentre i rapporti che si instaurano fra i governanti stessi, nel
definire il loro accesso alle cariche, possono essere sostanzialmente identici a quelli che si
instaurano fra tutti i cittadini nelle costituzioni del terzo gruppo (politeia e democrazia). E la
situazione si complica ulteriormente quando si guarda all'approccio che Aristotele adotta nei
libri centrali della Politica, cioè nei libri IV-VI, dove si occupa delle costituzioni o regimi
politici che prevalevano nelle città greche del suo tempo. [...] Tornando alla tipologia delle
forme di governo, non si può dire che Aristotele ne proponga una che rimane identica in tutti
i passi in cui se ne occupa. Pertanto, non avendo lo spazio per offrire una rassegna completa,
sono obbligato a privilegiarne una, che è sostanzialmente mente quella suggerita da Politica
I 1, con delle integrazioni tratte da testi vari. In base a questa tipologia, abbiamo quattro forme
principali di governo: quella politica ovvero esercitata dall'uomo politico (politikos);
quella regale ovvero esercitata da chi è re (basilikos); quella «economica» ovvero esercitata
da chi è capo di una casa (oikonomikos); ovvero esercitata da chi è padrone di schiavi
(despotikos). L’identificazione di un tipo distinto di governo che è esercitato dal capo di una
casa all'interno, ovviamente, della casa (oikos) stessa, serve ad Aristotele per rendere esplicito

51
che c'è una differenza essenziale fra di esso e quello che è tipico della città (polis), che è
rappresentato proprio dal governo «politico». [...] La sua trattazione più ampia della regalità
(basileia) si trova in Pol. III 14-18, e prescinde quasi del tutto da quanto si verifica all'interno
della casa (il cenno in 1285 b 29-33 riguarda solo un certo tipo di regalità). Questa trattazione,
pur riguardando espressamente un certo tipo di regime politico o costituzione, spesso si riduce
senz'altro ad una discussione del governo di tipo regale (nel capitolo 14 c'è comunque una
tipologia, in parte storica, dei regimi qualificati da regalità compreso quello di Sparta). Il suo
interesse maggiore è centrato sulla regalità in senso pieno (coincidente con quella che era
chiamata panbasileia), cioè sul regime in cui il re governa a sua discrezione (cfr. 111 16, 1287
a 8-10). Questo regime, quando non sfocia nella tirannia (che è il rischio ad esso immanente),
è rappresentato da una situazione nella quale il re governa paternalisticamente, senza limiti
stabiliti dalle leggi, nei confronti degli altri membri della città che sono a lui così inferiori
quanto a virtù da trovarsi giustamente nella condizione di sudditi. Egli ammette che ci possano
essere dei popoli per i quali questo regime è il più indicato, e cioè quei popoli nei quali è
presente una famiglia o un clan di persone che mostrano una netta preminenza rispetto agli
altri nella loro capacità di esercizio del dominio politico (hegemonia politike) (cfr. 1088 a 8-
9). Trova insomma giustificato (anche nel senso letterale di conforme a giustizia) il ricorso al
regime monarchico quando ci sia effettivamente una situazione nella quale una persona dà
prova di una netta superiorità nei confronti di tutti gli altri che dovrebbero riconoscere come
loro compito quello di rendergli obbedienza (cfr. 1288 a 19-29).
Nel caso del rapporto marito-moglie, pur essendoci degli accostamenti o al governo politico
o a quello aristocratico (cfr. rispettivamente Pol. I 12, 1259 b 1 sgg. e Eth. Nic. VIII 10 [12],
1160 b 32-35 e 11 [13], 1161 a 22-25), è sempre presente il riconoscimento della sua
peculiarità. Si tratta, sì, di un rapporto fra persone libere, ma alla donna viene attribuita una
posizione inferiore a quella dell'uomo rispetto alla capacità di governare (cfr. Pol. 1 12, 1259
a 39 sgg.), come conseguenza del fatto che essa, pur essendo dotata (a differenza dello
schiavo, che non ce l'ha per nulla, e del bambino, che ce l'ha in modo incompleto) di capacità
deliberativa, ne dispone senza autorità (akuron) (cfr. 1 13,' 1260 a 9 sgg.). (L'inferiorità
naturale della donna rispetto all'uomo è affermata anche in Pol. 1 5, 1254b13-14. L'uso
dell'espressione «senza autorità» non è casuale: Aristotele tratta come insita alla natura della
donna quella che era la sua condizione legale normale in una società come quella ateniese,
dove si trovava a dipendere dall'autorità di un uomo, cioè prima del padre e poi del marito). 
Quanto al governo «dispotico», cioè del tipo di quello esercitato dal padrone sullo schiavo,
c'è qualche oscillazione in Aristotele, perché alle volte lo tratta come una modalità di quello
«economico» (fa così all'inizio di I 12), alle volte lo tiene distinto da esso (fa così, oltre che
all'inizio dell'opera, in III 6). In effetti esso, oltre ad essere sostanzialmente differente da tutte
le altre forme di governo perché non esercitato nei confronti di persone libere (tale differenza
viene rilevata espressamente in I 7, 1255 b 16-20, nel confrontarlo col governo 'politico', ma
vale ovviamente anche rispetto al governo sulla donna e sui figli giovani), non è neppure
sempre ristretto alla casa, perché sappiamo che una città come Atene utilizzava degli schiavi
nei lavori delle miniere e nei cantieri pubblici. Aristotele lo tiene distinto da tutte le altre forme
di governo anche per il fatto che il comando viene esercitato a vantaggio di chi lo possiede,
con l'unico limite, a quanto pare, che sta nell'interesse del padrone a non privarsi dello schiavo
(cfr. III 6, 1278 b 32-37). Aristotele riconosce che questo tipo di governo può essere esteso

52
all'intera città, nei confronti di quelle persone stesse che sotto altri regimi risultano essere,
oltre che uomini liberi, cittadini a pieno titolo. 
Aristotele tratta come dispotiche tutte le costituzioni in cui chi è al governo,
indipendentemente dal fatto che si tratta di una persona o di più persone, opera a proprio
vantaggio anziché a vantaggio di chi è governato (cfr. III 6, 1279 a 16-21, di seguito
immediato alla tipologia dei modi di governo cui si è fatto riferimento sopra). Come si è già
notato, ammette che una forma di dispotismo possa instaurarsi sia all'interno della democrazia
che all'interno dell'oligarchia (cfr. b 13 sgg.). Quanto alla tirannide in senso proprio, questa è
di solito da lui trattata più convenzionalmente come il governo di uno solo che costituisce una
deviazione della monarchia, ma è reso chiaro che si tratta di una deviazione nel senso del
dispotismo (cfr. III 8, 1279 b 1617, con gli accostamenti fra tirannide e dispotismo in V 11,
1314 a 8 e VII 2, 1324 b 2). Tutte queste sono da lui trattate come delle perversioni del tipo
di rapporto che deve instaurarsi fra liberi e cittadini e, come vedremo ancora, questo suo
giudizio è fatto valere anche per il dispotismo che si estenda, come egli riconosce che può
avvenire, al rapporto fra differenti città. 
Quanto, infine, al governo «politico», è sufficientemente chiaro che questo è teso ad assicurare
il massimo di uguaglianza possibile fra gli uomini entro i quali si stabilisce, trattandosi per
l’appunto di uomini uguali. Questa uguaglianza è assicurata dall'alternanza dei ruoli, per cui,
nel caso più semplice in cui esso sussista fra due persone, sarà prima l'uno e poi l'altro, per
periodi di tempo uguali, che si troverà nella posizione di governare ovvero di dare comandi
all'altro. Che sia questo per lui il governo politico risulta con sufficiente chiarezza in III 4,
1277 b 7 sgg., dove egli afferma che esso vale fra persone che siano simili per stirpe (genos)
e liberi, fra i quali ci si aspetta che chi va al comando prima impari ad ubbidire; nel seguito
aggiunge che l'eccellenza (arete) sta sia nel governare (o comandare) che nell'essere governato
(o ubbidire). Egli ritorna sulla questione in III 16, dove contrappone questo tipo di governo a
quello (senza restrizioni che non siano quelle che si impone chi governa) della monarchia
assoluta, perché questo si stabilisce fra uguali, che hanno uguale diritto di accesso alle cariche.
Afferma che per essi

«non è più giusto governare che essere governati, e pertanto <ciò che è giusto sta> nell'alternanza al governo
(to ana meros). Ma questa condizione è di già una legge, giacché l'ordine è legge (he taxis nomos). Pertanto,
secondo questo stesso discorso [= l'argomento di coloro che rifiutano la monarchia], che la legge governi è più
desiderabile dell'esserci un solo cittadino <a governare>» (1287 a 16-20). [...]. 

Il quadro ora delineato va completato rilevando, in primo luogo, che Aristotele propone una


tipologia di forme di giustizia che è parallela a questa tipologia delle forme di governo. Questo
punto è importante non solo perché mostra che c'è sempre una stretta connessione fra il tema
delle forme di governo e quello della giustizia, ma anche perché contribuisce alla
comprensione dell'idea stessa che Aristotele si fa del politico ovvero della politicità della
polis. Per questo punto bisogna rifarsi soprattutto al capitolo 6 [10] del libro V dell'Etica
Nicomachea, che ha per suo tema principale quella che viene chiamata la «giustizia politica»
(to politikon dikaion). È palese, dal modo in cui la presenta, che questa forma di giustizia
corrisponde al governo politico, perché essa è ritenuta valere fra uomini che siano liberi ed
uguali e fra i quali sussistono dei rapporti che sono regolati dalla legge (dal nomos). Quando

53
non sussistono questi rapporti di uguaglianza, non solo non sussiste la giustizia politica, ma
neppure la giustizia in senso proprio o pieno anziché solo analogico. Questo vale per la
«giustizia paterna». per la quale non si può parlare di giustizia in senso proprio, perché chi
danneggia un proprio figlio è come se danneggiasse se stesso, ma nei confronti di se stesso
non c'è giustizia (come viene esplicitato in VI,1 ma è già abbastanza chiaro dal tenore di
quell'esposizione). A maggior ragione non si può parlare di giustizia nei confronti dello
schiavo, che è un proprio possedimento (è il caso della «giustizia dispotica», palesemente
corrispondente al governo dispotico). Rimane la «giustizia economica», qui fatta valere per il
solo rapporto fra marito e moglie. È considerata la più prossima alla giustizia politica di tutti
questi rapporti, ma anch'essa non viene trattata come giustizia in senso pieno perché (si può
presumere, dato che Aristotele non offre nessuna spiegazione) non risponde al requisito di
uguaglianza che è presentato dalla giustizia politica. 
Come si può vedere, tutti questi sono trattati come rapporti prepolitici dal punto di vista della
giustizia, come sono trattati a questo modo dal punto di vista del governo, perché sono tutti
in qualche modo legati alla casa e non intercorrono fra soggetti che siano indipendenti l'uno
rispetto all'altro. L'unico rapporto propriamente politico è quello che intercorre fra cittadini
(uomini liberi maschi) uguali, perché è fra soggetti indipendenti ed è regolato dalla legge,
sicché è anche l'unico conforme a giustizia politica. [...]
Come risulta sufficientemente chiaro dall'approvazione che egli mostra per il governo politico
ovvero per il principio di alternanza anche nel libro VII della Politica (cfr. particolarmente 3,
1325 b 7-10 e 14, 1332 b 25-29), le riserve che egli mostra nei confronti di regimi democratici
come quello attuato in Atene non riguardano, come spesso si ritiene, il principio stesso (tipico
di una democrazia diretta) della partecipazione diretta dei cittadini al governo della città, ma
nascono dalla convinzione che tale principio è stato indebitamente esteso alla
maggioranza della popolazione maschile, quando esso dovrebbe valere solo per quella piccola
minoranza (da un cenno in Pol.  V 1, 1302 a 1-2 si può desumere che non possono superare il
centinaio di persone per città) che presenta i requisiti sopra citati. Il resto della
popolazione va esclusa perché coloro che si dedicano alle attività (relativamente nobili) di tipo
agricolo non hanno tempo a sufficienza per la politica mentre coloro che si dedicano alle
attività artigianali e ai commerci attuano un'esistenza da schiavi che li rende inadatti
all'esercizio del governo su altre persone (cfr. VII 9).
Nel prospettare questa sua visione di città migliore egli talvolta arriva a suggerire che la città
vera e propria coincide con quel nucleo di persone che, avendone il titolo, partecipano
attivamente agli affari della città stessa. Questa sua tendenza mostra comunque che ciò che
differenzia la città dalle altre comunità che essa include, è, almeno in primo luogo, proprio
l'esercizio del «governo politico», che non a caso, dunque, viene associato alla polis fin dal
primo capitolo dell'opera. Aristotele si immagina che tale governo, nella sua forma più pura,
si attui in una città che vive in pace e fra cittadini che si conoscono tutti di persona (cfr. VII
4, 1326 b Il sgg.) e fra i quali si stabiliscono quei legami di solidarietà che sono suggeriti dal
greco philia. In questa forma l'esercizio del governo diventa l'occasione per il singolo di far
rilucere la propria virtù, nel compiere azioni «belle» come fini a se stesse, anziché perseguire
il potere per fini di guadagno e di sopraffazione (cfr. Eth. Eud. 1 5, 1216 a 23-27). È una
prospettiva che si comprende solo se si riconosce che egli, fatto salvo il caso speciale
dell'attività filosofica, condivide in pieno la convinzione dominante nella cultura ateniese (se

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non in quella greca in generale) almeno a partire dalla riforma di Clistene fino ai suoi tempi
che l'attività più alta cui un uomo può dedicarsi è quella politica. Ciascuno era indotto a
definire se stesso in primo luogo come cittadino della propria polis, ma si sentiva veramente
cittadino solo se poteva partecipare attivamente al suo governo.

Brani da W. Leszl, Politica, in E. Berti (a cura di), Guida ad Aristotele, Laterza, Roma-
Bari, pp. 283-325

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CHI PARLA IN CITTA’?
All’inizio è un problema di descrizione: nel mondo esistono molti esseri, umani e non, il
problema è capire come funzionano e come funzionano in particolare quelli che si ritrovano a
vivere insieme e a organizzarsi a tal fine. Diversamente da Platone, Aristotele non concentra le
sue attenzioni sulla città, scrive opere di biologia, di fisica, è un osservatore del cosmo. Non
gli si potrebbe mai attribuire l’approccio di Socrate che, nel Fedone, racconta della sua
delusione per le indagini del naturalista Anassagora e considera vera solo l’indagine filosofica
rivolta al logos (XLVII-XLVIII), mentre nel Fedro, al suo interlocutore, che si stupisce che
non esca mai dalla città, risponde: “Io sono appassionato a imparare: ma la campagna e gli
alberi non sono disposti ad insegnarmi alcunché, mentre imparo dagli uomini in città” (V,
230d).
Filosofia e scienza della natura in Aristotele concorrono a delimitare l’ambito umano della
politica. Tant’è vero che, quando si accinge a trattare della vita comune in città, ecco che il
filosofo di Stagira definisce l’abitante della polis un vivente politico (zóon politikón). Perché
pensare agli animali, dovendo trattare degli esseri umani? Innanzitutto perché esseri umani e
altri viventi appartengono a un medesimo ambito, regolato dalle stesse costanti: la natura e le
sue leggi stabiliscono conformazione e fine di ogni organismo: “La natura non fa nulla con la
povertà con la quale gli artigiani fabbricano il coltello di Delfi, ma destina ogni cosa a una sola
funzione” (Aristotele, Politica, I, 1252a-b).
Il cosmo intero è governato da un disegno finalistico, ogni corpo tende allo sviluppo della
propria funzione. La vita comune in città, la koinonía politiké, è il tratto essenziale dell’essere
umano, la cui funzione, e lo scopo cui mira il suo organismo è di vivere insieme ad altri. Non
è dunque un caso se il testo di Aristotele parte proprio dalla città – e non da un singolo individuo
– perché la città è iscritta nel corpo umano, è il luogo dove questo può sviluppare la propria
specifica funzione e tendere al proprio fine. Tanto più che il pieno compimento dello scopo cui
tende l’organismo umano altro non è che la felicità.
Vivere insieme ad altri è organicamente connaturato all’essere umano e contiene una promessa
di felicità, se adeguatamente sviluppata. Riprendendo le analisi di La Repubblica di Platone,
Aristotele illustra come la polis sia segnata dall’interdipendenza per il soddisfacimento dei
bisogni: il contadino ha bisogno dell’artigiano per i propri attrezzi da lavoro, viceversa
l’artigiano ha bisogno del contadino per nutrirsi, il medico ha bisogno dei prodotti del primo e
degli strumenti fabbricati dal secondo, mentre entrambi hanno bisogno del medico, tutti hanno
bisogno del costruttore di case, e via dicendo. L’animale politico umano non è autosufficiente

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e dunque vive in costante e necessaria dipendenza da altri. “Da ciò dunque è chiaro che la città
appartiene ai prodotti naturali, che l’uomo è un animale che per natura deve vivere in una città
(ivi, 1253 a).
La spinta ad aggregarsi, presente nell’essere umano, trova il suo ambiente appropriato
nell’unione di famiglie e villaggi della polis, che costituisce il dispiegamento di quella pulsione
originaria.
Tuttavia Aristotele si accorge di aver descritto l’umano come una specie che condivide la
caratteristica essenziale della pulsione aggregativa con altre specie. Nella Historia animalium
Aristotele distingue gli animali tra quelli che vivono in gruppo e i solitari, e nel primo tipo
include i colombi, le gru, i cigni, per i volatili, e per gli acquatici, i tonni. Ma non esistono solo
gli animali che vivono genericamente in gruppo, quelli che fanno vita di gruppo con forme di
organizzazione complesse meritano la definizione di “animali politici”: l’umano, l’ape, la
vespa, la formica, la gru, si adoperano per un determinato fine comune (Historia animalium,
487b-488a). Non basta dunque la spinta necessitante alla vita comune per capire lo specifico
umano, va individuata una caratteristica ulteriore, unica.

Animale politico più linguaggio uguale umano


È il logos che fa da discrimine tra l’alveare e la polis: è questo che distingue in modo definitivo
l’animale umano politico da tutti gli altri animali politici.

Forse ci sono funzioni e azioni proprie del falegname e del calzolaio, mentre non ce n’è alcuna propria dell’uomo?
L’uomo è forse nato senza alcuna specifica funzione naturale? Oppure come c’è, manifestamente, una funzione
determinata dell’occhio, della mano, del piede e in genere di ciascuna parte del corpo, così anche dell’uomo si
deve ammettere che esista una determinata funzione oltre a tutte queste? Quale dunque potrebbe mai esser questa
funzione? È manifesto infatti che il vivere è comune anche alle piante, mentre qui si sta cercando ciò che è specie-
specifico dell’uomo. Bisogna dunque escludere la vita che si riduca a nutrizione e crescita. Seguirebbe la vita dei
sensi, ma essa è, manifestamente, comune anche al cavallo, al bue e ad ogni altro animale. Rimane la vita intesa
come quel determinato e specifico agire proprio <dell’animale> che ha linguaggio: sia nel senso che si lascia
persuadere col linguaggio sia nel senso che ha linguaggio e ragiona […] Poniamo come funzione specie-specifica
dell’uomo una determinata vita, ossia l’attività dell’anima e le azioni che si compiono col concorso del linguaggio
(Aristotele, Etica Nicomachea, 1097b 28- 1098a 14, nella traduzione di Lo Piparo 2003, 7-8).

Ma questo significa che nella descrizione dei tratti essenziali dell’essere umano rientrano,
apparentemente a pari merito, sia la caratteristica linguistica e razionale sia la caratteristica
politica. In effetti è così, ma appare subito chiaro che è il logos ad essere la proprietà essenziale
dirimente:

l’uomo è l’unico animale che abbia il logos: la voce è segno del piacere e del dolore e perciò l’hanno anche gli
altri animali, in quanto la loro natura giunge fino ad avere e a significare agli altri la sensazione del piacere e del
dolore. Invece logos serve a indicare l’utile e il dannoso, e perciò anche il giusto e l’ingiusto. E questo è proprio
dell’uomo rispetto agli altri animali: esser l’unico ad avere nozione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto
e così via. E proprio la comunanza di queste cose che costituisce la famiglia e la città (Aristotele, Politica, I, 1253a
9-18).

Attraverso il logos, ciò che è comune non è soltanto la vita aggregata e organizzata in vista del
conseguimento di un fine, ma molto di più. Con i giudizi sull’utile e sul dannoso le cose in

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comune si estendono all’ambito dell’etica, ciò che bene e ciò che è male, e della giustizia, ciò
che è giusto e ciò che è ingiusto, e anche a ciò che è vero e ciò che è falso, ma sotto una forma
particolare, come vedremo. L’umano diventa politico come altre specie ma più di altre specie,
perché il legame è sostanzialmente più esteso e dunque più forte. Tanto che Aristotele, citando
Omero, lega la spinta alla guerra a chi è “senza parenti, senza leggi, senza focolare” (1253a).
Conclude dunque: “Perciò è chiaro che l’uomo è animale più politico di qualsiasi ape e di
qualsiasi animale che viva in greggi” (ivi).
Il logos in Aristotele è dunque una proprietà che stringe ed estende il legame associativo. La
sua tesi innovativa è che senza la facoltà comunicativa e linguistica l’umano non è tale: il
linguaggio non si usa, lo si vive, l’umano è politico ma in quanto specificamente umano è
vivente dotato di linguaggio (zóon lógon échon).
Dire che il linguaggio è caratteristica essenziale dell’essere umano significa che è parte del suo
stesso funzionamento, non è uno strumento esterno che possa essere preso e lasciato
all’occorrenza. Se fosse strumento, come il martello, la penna, l’automobile, potrebbe essere
deposto, una volta terminato il compito per cui lo si impiega, e martello, penna e automobile
rimarrebbero lì fino all’uso successivo. Il linguaggio sarebbe dipendente dalla volontà del
soggetto che lo usa. Tuttavia

non esiste una ideale cassetta degli attrezzi espressivi e/o comunicativi da dove ad libitum un utente possa estrarre
lo strumento linguaggio e riporvelo una volta eseguito il compito prefissato. L’umano non sceglie il linguaggio.
A partire dal momento in cui comincia a parlare non è più libero di fare a meno del linguaggio o di prenderne le
distanze. Il tacere non è un mettere da parte il linguaggio, un riporlo per così dire nella cassetta degli attrezzi. Il
silenzio è una scelta interna al linguaggio: tace solo chi, potendo parlare, sceglie il silenzio come modo di parlare.
Tacciono solo gli animali che parlano […] Il linguaggio non è strumento ma attività vitale specie-specifica
dell’animale uomo. Attività vitale come lo sono, ad esempio, il battito cardiaco, il ritmo respiratorio, la pulsazione
sinaptica del cervello. Prendere le distanze dal linguaggio (rimetterlo nella cassetta degli attrezzi e passare ad altra
occupazione è impresa impossibile quanto l’allontanarsi dal cervello, dal cuore o dai polmoni e continuare a
vivere. Lo Piparo 2003, 3-4).

La descrizione di Aristotele non si ferma qui. Anzi, partita come una descrizione della vita
associata, tale descrizione è diventata comparativa – con altre forme viventi associate – e si è
sviluppata in base a criteri di distinzione e già intuiamo che si sta svolgendo in una
classificazione gerarchica “l’uomo è animale politico più di qualsiasi ape”. Vedremo poco sotto
come questa descrizione comparativa che si fa classificazione gerarchica, oltre a permettere
delle distinzioni, aprirà la strada a delle esclusioni.
Infatti il logos, descritto nella comparazione per somiglianza e dissomiglianza con altri animali,
non è una facoltà semplice, ha una serie di sottoarticolazioni che permettono delle
sottodistinzioni. Diversamente da Platone che lo individua come facoltà intellettuale e
concettuale, per Aristotele il logos è strettamente connesso al corpo, dunque alla voce. È voce,
come per altri animali, quale capacità di emettere suoni articolati; è voce che significa e dunque
comunica, anche questa è facoltà comune con altri animali; ma tale processo di significazione
va oltre la comunicazione del piacere e del dispiacere, degli stati strettamente corporei. Ecco
dunque che il logos, più della voce, caratterizza la vita politica: non basta emettere suoni con
intento di significare e comunicare per vivere insieme (vedi capitolo 5).
Umano diviso deliberazione uguale polis con il resto di umano-animale

57
Il grado più basso della comunanza di significato è quello disponibile agli animali, la capacità
di significare il dolore e il piacere. Tuttavia nella vita associata propriamente umana entrano in
gioco dei gradi ulteriori.
L’umano è l’unico a poter svolgere, attraverso la voce, un ragionamento verbale, che pertiene
all’anima. L’anima è il principio di tutti gli esseri viventi, da cui il termine latino di animali, e
l’umano, da un lato partecipa del regno animale – con la parte dell’anima che non è legata al
logos, che permette il rapporto con l’ambiente circostante, rapporti di nutrimento e di
movimento – dall’altro, è specificamente umano per quella parte di anima che è dotata di logos.
A questa parte dell’anima sono legati i desideri generati dal linguaggio: mentre avere fame
genera un desiderio di cibo a prescindere dal linguaggio, se non dalla voce articolata, altri
desideri possono nascere solo in virtù del linguaggio, sono i desideri di vedere o possedere cose
perché ce ne hanno parlato o ce ne hanno persuaso (cfr. Aristotele, Rhetorica, 1370a 18-27),
perché ce ne siamo formati un’opinione, per via diretta o indiretta.

All’opinione segue la persuasione (non è possibile, infatti, che chi ha una opinione non sia persuaso di ciò di cui
ha opinione) […] Ad ogni opinione si accompagna la persuasione, alla persuasione si accompagna il lasciarsi
persuadere, alla persuasione si accompagna il linguaggio: la capacità di formare rappresentazioni mentali si trova
in altri animali non umani, il linguaggio invece no (De anima, 428a 20-24, nel la traduzione di Lo Piparo 2003,
11).

A ritroso il linguaggio guadagna anche la sfera dell’anima non dotata di logos, la spinta a
nutrirsi può essere modificata nel caso si sia stati persuasi che mangiare un determinato cibo è
dannoso, ad esempio. Ma gli effetti del logos procedono anche in avanti, nel momento in cui è
presi in una rete di opinioni attivamente formulate o che ci giungono attraverso la persuasione,
ecco che siamo chiamati a valutare, e dunque a giudicare. Giudicare è un movimento, una
volontà che viene orientata dal ragionamento, cosa di cui è capace l’uomo adulto, ma non gli
animali e nemmeno i bambini, che si limitano a volere senza valutare.

La scelta ponderata è scelta non in senso generico ma di una cosa piuttosto che di un’altra. Ciò non è possibile
senza un’indagine e una decisione. Perciò la scelta ponderata deriva da un’opinione che è il risultato di una
decisione. […] Se dunque nessuno può scegliere qualcosa senza prima aver esaminato e deliberato che cos’è
peggio e che cos’è meglio, o se si possono volere soltanto quelle cose possibili la cui esistenza o non esistenza
dipende da noi e che sono utili allo scopo, è chiaro che la scelta ponderata è desiderio deliberato di cose che
dipendono da noi. Tutti vogliamo le cose che abbiamo scelto ma non tutto quello che vogliamo l’abbiamo scelto
in maniera ponderata. Chiamo desiderio deliberato quello il cui principio e causa è una deliberazione e che si
desidera in seguito all’azione del deliberare (Aristotele, Etica Eudemia, 1226b 7-20, nella traduzione di Lo Piparo
2003, 15-16).

In un passaggio ulteriore e del tutto conseguente, Aristotele lega la capacità deliberativa alla
capacità di distinguere il vero dal falso, collegando così, in un grado ulteriore del logos, l’etica
alla conoscenza.

Quello che nel ragionamento sono il dire sì e il dire no, nel desiderio sono il perseguire e il fuggire <qualcosa>.
Pertanto, poiché la virtù etica è una condizione determinata per scelta e la scelta è desiderio sorretto da
deliberazione, bisogna che il discorso sia vero e il desiderio sia corretto se la scelta è buona, e <bisogna anche>
che ciò che <il discorso corretto> dice e <il desiderio> persegue siano la stessa cosa (Etica nicomachea, 1139a
21-26, trad. Lo Piparo 2003, 22).

58
L’etica, dunque, è l’ambito dei desideri espressi linguisticamente e sorretti da una deliberazione
corretta. Ma questo passaggio ha dei costi alti, in termini di partizione tra umano e animale, tra
gli umani stessi e per i confini di ciò che si intende per politica. La scelta ponderata che
caratterizza l’etica sarà di competenza dei soli animali umani, che sanno orientare l’azione con
il giudizio: dagli umani, così definiti, saranno esclusi i bambini e, come vedremo, dissennati,
stranieri e schiavi; infine, tra quelli dotati della facoltà di discernimento quale capacità di
distinguere il vero dal falso nell’orientare la volontà e l’azione, verranno escluse le donne.
Quest’ultimo grado del logos ha una forza di classificazione, dunque di distinzione e di
ordinamento gerarchico, particolarmente cogente rispetto a chi può a buon titolo e diritto può
essere definito animale abitante la polis e non lega politica e linguaggio nella sola forma
politica dell’ordinamento democratico. In breve, politica e linguaggio possono trovare un
legame a prescindere dalla democrazia (v. capitolo 3). Il linguaggio in politica

non riguarda cose ‘che sono sempre allo stesso modo’ – come succede alle scienze teoretiche che hanno per
oggetto verità incontrovertibili – bensì […] riguarda cose ‘che sono per lo più’. La politica, come l’etica, è una
scienza pratica, ossia una scienza legata alla sfera contingente dell’azione: agire in modo giusto implica una
conoscenza del giusto che ha un carattere non necessario bensì solo probabile e, perciò, opinabile. Quando molti
sono chiamati a deliberare su ciò che è giusto per la polis, si apre così per la parola uno spazio di confronto e di
discussione.
Sintomaticamente, nella pagina che collega lo zoon politikon e lo zoon logon echon, l’accento non cade però sulla
funzione comunicativa della parola in quanto medium privilegiato della discussione pubblica ed elemento
caratteristico della democrazia. In prima istanza, secondo Aristotele, l’uomo non è politico perché parla e mobilita
così l’intrinseca comunicatività del linguaggio. L’uomo è politico perché, essendo in grado di percepirle, parla di
cose che pertengono, di per sé, alla comunità politica. Generata dal naturale processo aggregativo, questa può
avere molte forme, fra le quali, la democrazia. Discutendo e deliberando, il cittadino della polis democratica
mostra di essere uno zoon logon echon che sa valorizzare appieno il ruolo politico della parola, ma la parola si
inscrive nello statuto naturale dello zoon politikon anche a prescindere dalla democrazia (Cavarero 2003, 201-
202).

Chi parla, chi ha voce, chi fa rumore


Se dunque fuori dalla vita organizzata della polis greca vivono esseri che, “per loro natura, non
per caso”, sono inferiori agli umani – le bestie – ne sono fuori anche quelli che, essendo
autosufficienti, posso fare a meno dei rapporti con gli altri, gli dèi.

Chi non vive in città per la sua natura e non per caso, o è un essere inferiore o è più che un uomo (I, 1253 a ) […]
perciò chi non può entrare a far parte di una comunità o chi non ha bisogno di nulla, bastando a se stesso, non è
una parte della città, ma o una belva o un dio (Aristotele, Politica, 1253a).

Lungi però dall’assimilare gli altri popoli con le loro peculiari forme di convivenza a degli dèi
– Aristotele è contemporaneo nonché mentore di Alessandro il Grande che, nel IV secolo a.C.,
muove guerra alle popolazioni che si trovano a Oriente della Grecia, arrivando fino in India –,
li assimila a degli umani parziali, quando non a delle bestie. In questa operazione è autorizzato
dalla correttezza del ragionamento e dall’osservazione fisica e biologica. Quel che potrebbe
essere registrato come un segno di civiltà – la mancanza dell’istituto della schiavitù e la
partecipazione delle donne alla vita comune – diventa invece la conferma della distinzione e
superiorità della politica greca.

59
Presso i barbari la femmina e lo schiavo hanno la medesima posizione perché per natura essi non hanno il principio
del comando, ma la loro comunità è quella di uno schiavo con una schiava. Perciò dicono i poeti “che sui barbari
i Greci imperino è naturale” [Euripide, Ifigenia in Aulide, 1400] come se per natura fosse la stessa cosa essere
barbaro ed essere schiavo (Politica, 1252b).

Come altri animali, le formiche, che si organizzano in comune ma non istituiscono distinzioni
gerarchiche, i barbari non conoscono la verticalità dei rapporti di proprietà e schiavitù su un
simile. Gli schiavi ricevono una particolare attenzione da parte di Aristotele che stabilisce
all’interno della polis una serie di distinzioni, prima tra tutte quella tra “animali fonici” e
“animali logici” (Rancière 1995, 42).
Il criterio per individuare i vari gruppi di esseri che vivono nella polis è, come abbiamo visto,
il logos, che nel suo ultimo grado è la capacità di deliberare, una capacità che si ha per natura,
in quanto umani. Ma anche tra gli umani esistono delle gradazioni. “È schiavo per natura chi
[…] partecipa al logos soltanto per quel che può coglierla, senza possederla propriamente”
(Aristotele, Politica, I, 1254b).
Ora, poiché la capacità di deliberare, cioè di operare una scelta ponderata, è dirimente per la
vita della città, chi ne è dotato pienamente sarà nella posizione – per natura, ossia per la propria
conformazione d’anima, che ne individua funzione e scopo all’interno della rete di relazioni e
di interdipendenze – di comandare, ovvero di decidere per altri e di mettere altri nella posizione
di contribuire alla realizzazione della decisione presa.

È necessario unire i termini che non possono sussistere separatamente […] chi è naturalmente disposto al comando
a chi è naturalmente disposto ad essere comandato, in quanto la loro unione è ciò per cui entrambi possono
sopravvivere, perché chi per le sue qualità intellettuali è in grado di prevedere per natura comanda e per natura è
padrone, mentre chi, per le doti inerenti al corpo, è in grado di eseguire deve essere comandato […] per natura
dunque sono distinti la femmina e il servo (1252 a).

Ne consegue che lo schiavo ha lo statuto ibrido di strumento e di essere vivente, è una


“proprietà animata” (1253b).
Abbiamo visto come la classificazione aristotelica, basata sul linguaggio nei suoi vari gradi e
articolazioni, tratti gli altri, esterni e interni, della polis greca. Oggetto di classificazione in base
al criterio della facoltà deliberativa, sono anche le donne, ma in un modo specifico. Come esseri
umani, al pari degli altri, uomini e donne “non possono sussistere separatamente” (1252a), ma
in questo caso particolare Aristotele unisce la classificazione etica e quella politica – “il
maschio è per natura migliore, la femmina peggiore, l’uno è per natura atto al comando, l’altra
ad obbedire” (1254b e 1259b) – e procede istituendo una distinzione tra la femmina e lo
schiavo:

i modi in cui il libero comanda allo schiavo, il maschio alla femmina e l’uomo al fanciullo sono diversi. Tutti
hanno le varie parti dell’anima, ma in modi differenti, perché lo schiavo non ha affatto la facoltà deliberativa (tò
bouleutikón), la femmina ce l’ha ma incapace e il fanciullo ce l’ha, ma imperfetta (1260a).

È così che, senza contraddizione, Aristotele poco sotto può affermare che “le donne infatti
costituiscono la metà degli esseri liberi” (1260b). Sono umani, umani politici, dotati di voce e
persino di capacità di deliberare, ma solo parzialmente e – diversamente dai bambini che nel

60
crescere svilupperanno appieno tale capacità – questa limitazione è naturale, dunque
permanente, corrispondendo a una certa organizzazione dei rapporti di comando e di
obbedienza. Abbiamo ora gli elementi per comporre un quadro degli effetti politici prodotti dal
riconoscimento della capacità di linguaggio, nei suoi vari gradi.
La capacità fonativa, l’emissione di suoni – la comunicazione in vista di un fine – presuppone
una naturale destinazione alla vita associata.
La capacità linguistica di formulare un’opinione e di essere persuasi dalle opinioni altrui rende
questa convivenza eminentemente linguistica e razionale, dunque umana.
La ripartizione tra voce e giudizio è quella che determina l’organizzazione della convivenza e
le posizioni dei diversi esseri che vi si trovano.
In base al criterio di attribuzione di voce e giudizio, non tutti gli esseri che vivono nella polis
sono pienamente umani.

Tra il linguaggio di coloro che hanno un nome e il muggito degli esseri senza nome, non vi è possibilità di istituire
uno scambio linguistico, né regole, né un codice per la discussione. Questo verdetto non riflette soltanto la
cocciutaggine dei dominanti o il loro accecamento ideologico, ma esprime in senso stretto l’ordine del sensibile
che organizza il loro dominio, che è quel dominio stesso […]. Siamo in presenza della distribuzione simbolica dei
corpi, che li divide in due categorie: coloro che vediamo e coloro che non vediamo, coloro di cui si può dire esista
un logos – una parola memoriale, un conto da tenere –, e coloro che logos non hanno, coloro che parlano davvero
e coloro la cui voce, nel tentativo di esprimere piacere e dolore, non fa che imitare la voce articolata. Vi è politica
perché il logos non è mai semplicemente la parola, ma sempre, indissolubilmente, il resoconto che si fa con questa
parola: il resoconto attraverso cui un’emissione sonora viene intesa come parola, in grado di enunciare il giusto,
laddove un’altra è percepita soltanto come rumore che segnala piacere o dolore, consenso o rivolta (Rancière
1995, 42-43).

Brani da F. Giardini, L'alleanza inquieta. Dimensioni politiche del linguaggio, Le lettere,


Firenze 2010

61
ROMA

[…] I romani, sotto la Repubblica come sotto l'Impero, sono dunque cittadini. Umili o potenti,
governati da assemblee, da magistrati annuali e da un senato, o da un principe a vita (accanto
al quale, d'altronde, permangono le antiche istituzioni) nessuna esitazione è possibile: ogni
romano è cittadino, e chiunque possieda o acquisisca il «diritto di cittadinanza», la
«cittadinanza» romana è automaticamente romano. Quanto al «popolo romano», esso non è
mai stato altro che la totalità estensiva di tutti i cittadini romani. Non v'è distinzione, a Roma,
all'interno del «popolo» tra alcuni che godrebbero del diritto di cittadinanza e altri che ne
sarebbero sprovvisti. La città romana è, in linea di principio, unitaria. […] Cominciamo dal
problema del numero dei cittadini in rapporto alla popolazione totale. Fatta salva una
fondamentale disuguaglianza giuridica (ne parleremo fra poco), si può ritenere che alle origini
della Repubblica — allorché Roma non dominava ancora neanche il Lazio — c'erano
praticamente, nel suo territorio, solo schiavi (privi di diritti) e uomini liberi (tutti cittadini).
Senza dubbio, si può notare subito una caratteristica fondamentale della città romana: gli
schiavi liberati (liberti) vi penetrano con pieno diritto e godono, in linea massima, di tutti i
diritti civili e anche di alcuni diritti politici. Ciò non toglie che questa coincidenza tra il
«popolo» e la «popolazione», tra il corpo civico e l'insieme di coloro che si possono dire
romani, cessi di esistere sin dalla fine del IV secolo a.C., cioè quando Roma parte alla conquista
dell'Italia. Portata a termine del 272 a.C., questa conquista unisce ormai sotto la stessa sovranità
(quella di Roma) popolazioni d'importanza e statuti diversi. Da una parte i «Romani» (che certo
non sono tutti discendenti degli antichi abitanti dell’Urbe), che sono «cittadini di pieno diritto»
(“optimo iure”). Dall’altra, gli Italici che, membri (spesso loro malgrado) dell’«alleanza»
romana (“symmachia”), sono, per certi versi, assimilabili ai Romani (per tutto ciò che concerne
gli obblighi militari e fiscali), mentre per altri versi se ne distinguono: in primo luogo perché
non partecipano alla sovranità (le decisioni comuni sono loro imposte unilateralmente); ma
anche, a dire il vero, per una grande autonomia locale, per diritti privati e istituzioni diverse da
quelle di Roma. Quindi, se consideriamo questa «alleanza» come un insieme omogeneo (dopo
tutto, malgrado le defezioni, essa resistette ai tentativi di secessione al tempo della guerra di
Annibale) che sta per intraprendere a suo vantaggio la conquista del mondo, dobbiamo
constatare subito che il gruppo dei cittadini con pieno diritto rappresenta ormai solo una parte,
ben presto minoritaria, della popolazione totale. […] Diciamo subito che, in quei secoli, tali
cifre erano lontane dal rappresentare la totalità del gruppo dei “cives Romani”: esse si
riferivano, in realtà, solo ai maschi adulti e mobilitabili, ed escludevano quindi sicuramente le
donne e i bambini, forse i vecchi (ma la cosa non è sicura, poiché questi ultimi non erano mai
esclusi dalle funzioni politiche), e forse anche, a seconda dei momenti, i più poveri tra i
cittadini. È probabile dunque che la popolazione civica (vecchi, donne e bambini compresi)
fosse in realtà tre o quattro volte più numerosa. Ma, accanto a essa, c’è la folla dei «Latini e
alleati» italici, sia che risiedano nelle città o in territori che non sono formalmente quelli dei
cittadini, o che siano emigrati a Roma, o in municipi o in colonie romane. Notiamo del resto
che all’interno stesso delle comunità «autonome» di Latini o di alleati, una minoranza sempre
crescente della popolazione riceve a sua volta il diritto di cittadinanza romana, come privilegio
ottenuto a titolo individuale o anche (è il caso dei Latini) automaticamente, tramite l’esercizio
delle magistrature: la cittadinanza romana, per queste popolazioni, non rappresenta più la
condizione egualitaria di tutti, ma, al contrario, uno status giuridico privilegiato (dal punto di
vista fiscale e politico in particolare) e dunque, in concreto, un gruppo sociale. […] Dunque,
gli Italici rappresentano, in totale, una popolazione almeno uguale a quella dei Romani. Ma

62
tale stima è senza dubbio inferiore alla realtà, poiché non è sicuro che Romani abbiano fatto
pesare gli obblighi militari in misura uguale sui loro alleati e sui loro stessi concittadini.
Nondimeno è evidente che, se si considera la popolazione globale dell’Italia romana, i cittadini,
in epoca medio-repubblicana, non erano che una minoranza: tale situazione resterà immutata
fino alla «guerra sociale» del 90-89 a.C., un’immensa guerra di secessione paradossalmente
vinta dagli sconfitti, che ottennero dai vincitori ciò che non avevano potuto strappare loro con
le armi. Ora - benché la registrazione e l’integrazione concreta della totalità della popolazione
abbiano impiegato molti decenni per divenire effettive - tutta la popolazione libera italica (a
eccezione naturalmente degli «stranieri» di passaggio) era ritenuta cittadina: il numero dei
maschi adulti raggiunse senza dubbio il milione verso il 70, la popolazione libera totale era
forse tre o quattro volte più grande. Con l’instaurazione dell’Impero, e per ragioni che ho
tentato di mostrare altrove, le procedure e le finalità del censimento si modificano; ormai - a
partire dal 28 a.C. fino al 47 e al 73 d.C. - è la totalità della popolazione cittadina, vecchi, donne
e bambini compresi, ad essere registrata, a Roma, in Italia e nelle province […]. Durante il
secondo secolo d.C., tuttavia, sempre più numerosi furono i provinciali «peregrini» (cioè, dal
punto di vista romano, stranieri) naturalizzati: e lo sbocco spettacolare di tale processo fu la
famosa «costituzione antoniniana» del 212 d.C. che accordò a tutti gli abitanti liberi
dell’Impero (a eccezione di una piccolissima minoranza di “dediticii”) la cittadinanza romana.
Di nuovo, in apparenza, ogni «romano» era «cittadino». Eppure, è evidente che questi termini
non possono avere avuto lo stesso significato, durante l’intero cammino di una storia così lunga.
Essere “civis Romanus” era tutt’altra cosa al tempo della guerra annibalica, all’epoca delle
guerre civili, sotto Tiberio o Caracalla. Le differenze tra i vari contesti storici emergono nella
sfera specifica della vita civica, quella che dà significato al concetto stesso di cittadinanza: la
guerra e l’obbligo militare, la fiscalità (e il suo aspetto positivo tanto importante nell’antichità,
le pubbliche elargizioni), infine le decisioni comuni, il potere e il modo di parteciparvi, più o
meno diretto, da parte di ognuno. Questo insieme assai strutturato di relazioni complesse
determina la condizione concreta di esercizio della cittadinanza, la comunanza di destino che
unifica (o, talvolta, divide) il corpo dei cittadini.
Tuttavia, la cittadinanza, prima di essere un modo di vita e forse, in certe epoche, una sorta di
«mestiere», è anzitutto, e resterà sempre, uno status giuridico: in latino si dice un “ius”. E, per
di più, si tratta del “ius” per eccellenza, quello che, applicabile a tutti, viene definito “ius
civile”, il «diritto dei cittadini» […]. In fin dei conti, il diritto di cittadinanza romana vuol dire,
prima di tutto, che coloro che lo possiedono vedranno i loro rapporti personali, familiari,
patrimoniali e commerciali regolati - e le loro liti o i loro delitti giudicati - secondo un diritto
comune. […] Uguaglianza davanti alla legge non vuol dire, naturalmente, che ognuno goda
esattamente della stessa condizione, e degli “stessi” diritti: ci sono differenze inevitabili […]
sicchè un “ius civile” può svilupparsi per strati successivi e tendere tuttavia, pur
salvaguardando gli “iura” di ciascuno, verso l’universale. […] Ma questo cammino verso
un’uguaglianza giuridica sempre più razionale è in parte un’illusione. L’uguaglianza giuridica
dei cittadini - mai esistita, come vedremo, in materia politica o anche «civica» - non durò, in
materia privata, che molto poco […] Il periodo più egualitario (in linea di massima) fu l’ultimo
secolo della Repubblica […]. Ma con l’instaurarsi dell’Impero, si produce una forte reazione,
che andrà via via accentuandosi: la disuguaglianza ridiviene di fatto il principio
dell’organizzazione politica e sociale, strutturata intorno alla gerarchia degli “ordines”; per
giunta, essa si estende al diritto privato e penale. I senatori e i cavalieri - il cui “status” diviene
ufficialmente ereditario - godono di uno speciale diritto matrimoniale e testamentario e, cosa
ancora più importante, di privilegi giurisdizionali (come l’essere giudicati dal senato, per
esempio); ben presto otterranno anche privilegi di procedura (l’esenzione dalla tortura,
introdotta, sotto Augusto, per i plebei) e infine un diritto penale separato da quello degli
“humiliores”. […] Comunità di diritto, certo: ma non accadeva spesso che gli antichi

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concepissero la «città» come un’astrazione trascendente. Essa è anche, e soprattutto, comunità
d’interessi. “Res publica”, dice Cicerone, è “res populi”; e “res”, in questo caso, ha un senso
astratto e concreto al tempo stesso: i beni comuni, gli interessi comuni di tutti i cittadini nel
loro insieme. […] Ma i cittadini, in maggioranza, giorno per giorno, vivevano in tutt’altro modo
la vita collettiva. Ciò che li colpiva maggiormente erano gli evidenti vantaggi derivanti dalla
loro associazione: la protezione quotidiana di una comunità che garantiva a ciascuno e a tutti,
attraverso le istituzioni e il diritto, la sicurezza delle persone e della proprietà (Cicerone, “Dei
doveri”, 2, 73) e l’accumulo di ricchezze e agi consentito dai rapporti commerciali, dai mercati
organizzati, dalle feste e dalle fiere, dai porti. Poiché i «beni comuni» - un ponte, un corso
d’acqua, un litorale, pascoli, miniere - appartenevano a tutti, il loro sfruttamento assennato
doveva essere sufficiente per far fronte, in linea di massima, alle spese che comportava
l’organizzazione della comunità: assicurare il culto degli dèi (questi ultimi, del resto, avevano
i loro propri beni), costruire edifici e luoghi pubblici, garantire quelle attività di gestione,
finanziaria o di altro tipo, che necessitavano d’impiegati e di salari.
In cambio di tutto ciò che riceve, ogni cittadino deve, all’occorrenza, rispondere alla chiamata
comune per la difesa e il mantenimento delle «cose di tutti». Egli è dunque, in quanto cittadino,
costantemente e a priori debitore, e ciò sotto tre aspetti principali: deve a tutti prestazioni
riguardanti (come frequentemente dicono le nostre fonti) la sua persona, i suoi beni, ma anche
qualcosa di più immateriale e altrettanto importante: il suo «buon senno», i suoi «pareri
illuminati». Vediamo del resto che questi aspetti corrispondono grosso modo all’obbligo
militare, all’obbligo fiscale e, infine, alla deliberazione politica e all’esercizio di certe cariche.
In breve, il cittadino è, per la stessa natura delle cose, un soldato che può essere mobilitato, un
contribuente, un elettore ed eventualmente anche un candidato a determinate funzioni. Questi
tre aspetti della sua natura sono, in realtà, strettamente collegati ed il ricorso a essi da parte
della collettività, anche se solo periodico, resta virtuale in ogni momento. Non occorre prendere
una decisione di principio per giustificare o creare tali doveri: essi sono anteriori a ogni legge,
contemporanei alla fondazione stessa della città. Riguardano, e obbligano, tutti i cittadini, sin
dal momento in cui entrano a far parte della città: quando la loro età lo impone oppure, se sono
allogeni, proprio in virtù dell’atto stesso attraverso il quale diventano cittadini. Una città è come
un organismo vivente: è minacciata dall’esterno: occorre difenderla; talvolta ha bisogno di
risorse: bisogna fornirgliele; deve manifestare la propria volontà: la si deve esprimere
collettivamente; deve agire: le occorrono uomini che parlino, comandino, facciano i conti,
amministrino, assicurino il culto, obbediscano.
Ogni cittadino deve, «per ciò che è in suo potere e che lo riguarda», soccorrere la collettività,
cioè rispondere in ogni momento a quegli appelli. Egli può sottrarvisi solo assumendosi il
rischio supremo della partenza o della secessione [...]. Per il momento notiamo solo che, nella
maggior parte delle città, e, in ogni caso, nella Roma repubblicana, questi differenti ruoli
riguardano allo stesso modo - in linea di massima - tutti i cittadini. Non vi sono distinzioni tra
quelli che danno il loro sangue o il loro denaro e, infine, tra quelli che comandano o che
obbediscono: ognuno, secondo le circostanze, è, se occorre, soldato, contribuente, elettore o
magistrato; ognuno deve sapere (come dicono Cicerone e Livio) obbedire e comandare al
tempo stesso. Tutti devono partecipare alle decisioni, poiché esse coinvolgono il «popolo», la
totalità. In linea di massima, dunque, a Roma non vi è (non più che nella maggior parte delle
città) specializzazione funzionale, disuguaglianza strutturale (ed ereditaria) tra soldati e
produttori, sacerdoti e dirigenti, contribuenti e privilegiati, cittadini «attivi» o «passivi»; vi è al
contrario, un’impegnativa – si dice talvolta totalitaria - concezione unitaria della vita civica che
impone a tutti, e volta per volta, ciascuno dei suddetti ruoli. […]
Per quanto sia esigente, una città non può ottenere sempre tutto da tutti, fino all’estremo
sacrificio, se non attraverso un’adesione ragionevole proveniente, in primo luogo,
dall’interesse, beninteso, di ognuno. Nella vita in comune, vi sono immensi vantaggi ma anche

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inconvenienti, pericoli e oneri. […] Il problema fondamentale della città è dunque quello della
ripartizione degli oneri e dei vantaggi. […] Sistema che poggia, per intero, su un’operazione di
censimento e di ripartizione dei cittadini (“discriptio”) che la città opera periodicamente e che
si chiama “census”. […] Questo, in linea di principio. La pratica, che si evolve per parecchi
secoli, è sicuramente abbastanza diversa. [...]
Sarebbe troppo lungo esaminare nei particolari il ruolo militare dei cittadini romani: eppure,
come si sa, esso era essenziale. E furono anche i bisogni e le conseguenze della conquista, in
particolare dal punto di vista del reclutamento dei soldati, che precipitarono la Repubblica in
una crisi da cui risultarono, in fin dei conti, un nuovo esercito e una monarchia militare. [...]
Soldato e contribuente (in modo sempre costrittivo in linea di principio, fino all’epoca
imperiale), il cittadino romano non è un soggetto passivo obbediente, senza contropartita, a
coloro che lo governano: egli è anche membro di una comunità - il “populus Romanus” - dotata
in sommo grado di autonomia e di iniziativa. Si parla correntemente della «libertà» del popolo
romano, ma anche della sua «sovranità» (“maiestas”) e talvolta anche della sua «autorità». Ma,
in modo ancor più tecnico, si dice che esso ha una volontà - vuole, esige - e che, per manifestarla
dà degli ordini (“voluntas, ius sus populi”). Ora, il popolo, lo si è visto, non è altro che la totalità
estensiva dei cittadini. Essi, dunque, devono esprimere, in modo formale, verificabile e
concreto, ciò che il popolo vuole. In altri termini, il cittadino romano - mobilitabile e
contribuente - è anche provvisto di una volontà e di una opinione che egli può esprimere sugli
affari comuni. Nelle democrazie parlamentari moderne, questo aspetto della qualità di cittadino
può essere definito in modo lapidario dal termine: elettore.
A Roma le cose erano meno dirette e più complesse. La città antica è un organismo semplice e
pratico. Per sapere ciò che vogliono coloro che la costituiscono, non si è mai immaginato (o lo
si è fatto molto raramente) altro mezzo se non il chiederlo direttamente agli interessati e
ascoltarne la loro risposta. Il «sistema rappresentativo» è sconosciuto: di qui la necessità
elementare di «riunire» i cittadini in un’«assemblea», che non è, come attualmente nelle
elezioni, un’astrazione fugace ma una realtà molto concreta e prosaica: la riunione, in uno
spazio ben preciso, di tutti gli aventi diritto. Ognuno, in linea di massima, vi si reca, ascolta,
parla. […]. Tutto questo è semplice ma comportava elementi di fragilità: questa democrazia
diretta, «all’aria aperta», che esige la presenza ripetuta e assidua di tutti, si scontra, al di là di
una certa “dimensione” della città, o di una certa complessità dei rapporti economici e sociali,
con difficoltà pratiche e psicologiche considerevoli.
Come ogni città, Roma aveva dunque un’assemblea. O meglio, ed è questa una caratteristica al
tempo stesso arcaica e originale, essa ne aveva più d’una (composte, di principio e di fatto,
dagli stessi cittadini, convocati, però, e soprattutto ripartiti, in modo differente, a seconda della
natura e dello scopo di tali assemblee). Poiché ciò che caratterizza fondamentalmente le
assemblee romane è appunto il fatto che esse risultano non dalla riunione di un numero
indefinito di individui, ma di un numero limitato e preciso di “unità” di raggruppamento, in
seno alle quali ogni individuo dà il suo parere ma la cui unica opinione registrata sarà quella
collettiva. Di qui il dato di fatto linguistico: in latino, «assemblea» si dice “comitia”, al plurale.
[...] Ad essere consultate sono le 35 tribù e le 193 centurie, e non, formalmente, gli individui
che le compongono. Ed è subito evidente che, in questo caso, il sistema funziona come una
specie di negativo di quello riguardante gli obblighi fiscali e militari: i poveri, infinitamente
più numerosi dei ricchi e toccati molto poco, in pratica, dalla mobilitazione e dall’imposta
diretta, sono, al contrario, praticamente privi d’influenza, poiché la maggioranza che si calcola
è quella delle tribù o delle centurie, non quella degli individui. Questa affermazione va
probabilmente sfumata a seconda del tipo e dell’intento delle assemblee convocate. Il principio
timocratico si esprime in pieno solo nell’assemblea delle centurie […] Nell’assemblea delle
tribù, invece, i cittadini sono raggruppati, di massima, solo secondo la loro origine o il loro
domicilio. Ma non per questo, in tale assemblea, il voto è più egualitario: in primo luogo, perché

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il numero delle tribù rustiche (31) eccede di molto quello delle urbane (4), mentre la
popolazione dell’Urbe è certamente, fino all‘89 a.C., più numerosa. Poi, perché le dimensioni
e gli effettivi delle tribù (e ciò dipende dai censori e dal senato) sono estremamente disuguali.
Vi sono dunque tribù dagli effettivi ridotti in cui la voce di un elettore è, di fatto, determinante
e altre (troppo popolate) in cui essa non vale granché. [...]
L’assemblea centuriata è più timocratica di quella delle tribù: alla prima si riserveranno
l’elezione dei magistrati superiori con potere militare, le leggi concernenti la guerra, la pace, i
trattati, i giudizi capitali. Alla seconda spetteranno l’elezione degli altri magistrati (compresi i
tribuni) e il resto della legislazione e dei processi. […] Tale è dunque il quadro nel quale il
cittadino romano esercita quel potere d’opinione e di volontà che è nella sua stessa natura, e
che, è evidente, offre a ciascun individuo un posto (ed uno solo) in una struttura complessa e
non egualitaria. Ma bisogna ricordare anche altre caratteristiche essenziali del sistema
comiziale romano, che permetteranno di comprendere meglio il ruolo concreto di ciascuno. In
primo luogo, per universali che siano le loro competenze, le assemblee romane non si
riuniscono mai di pieno diritto a scadenze fisse, ma sempre, al contrario, su un «ordine del
giorno» preciso, e su una convocazione che può essere fatta solo da un magistrato
giuridicamente competente per quell’«ordine del giorno». Il popolo non è in grado di riunirsi
autonomamente: altri devono chiamarlo in vita; può accadere (raramente, certo) che non lo si
convochi affatto. Ma viceversa, non bisogna credere che i vari magistrati possano sottoporgli
qualunque cosa, quando e come vogliono: c’è un «diritto comiziale» di origine sacra, che
regola, per sedimentazione successiva, il ricorso al popolo. Questo diritto determina dunque un
calendario e, in parte, una distribuzione spaziale dei comizi: questi due elementi influiranno
fortemente sulle procedure e sullo svolgimento del voto stesso e, poi, limiteranno l’uso o
l’abuso che certi magistrati potrebbero farne. Insomma, il popolo non può riunirsi da solo;
dipende dagli dèi, dalla tradizione, dalla consuetudine. Il popolo non può nemmeno esprimersi
da sé e liberamente. Il semplice cittadino, a Roma, non sceglie la questione per cui lo si
interpella, e in più, non “delibera”. Quale che sia l’assemblea - elettorale, legislativa o
giudiziaria – il popolo, nei suoi «comizi», e il cittadino, individualmente, non fanno che
rispondere, in modo binario (sì o no) a una domanda che viene loro posta (“rogatio”). Ciò vale
anche per le elezioni. Così, il semplice cittadino è non solo privo, in linea di principio, del
diritto d’iniziativa, ma anche del diritto di partecipazione a un dibattito, del diritto
d’interrogare, di discutere e di emendare una proposta. Gli si dà certo la parola - ma come a un
giudice o a un testimone muto, alla fine di un processo, e in termini tali che, apparentemente,
limitano di molto la sua libertà. Questa libertà, infine, è anche limitata e, in un certo senso,
sorvegliata, dalle tecniche stesse del voto, almeno in origine. Infatti questo voto binario,
espresso da un sì o da un no, è anche, fino alla fine del secondo secolo a.C., un voto orale, che
si svolge in maniera lunga e minuziosa. I cittadini vengono convocati al momento della
votazione, nel quadro delle loro unità (tribù, centurie), li si fa sfilare - in un ordine che
probabilmente è stato, all’inizio, più gerarchico che alfabetico - davanti a tutto uno stato
maggiore di magistrati della città, d’impiegati o di funzionari di tali unità (curatori delle tribù,
centurioni di centurie, «rogatori», eccetera) e ognuno, sotto gli occhi degli altri, deve rispondere
a voce. L’apparato solenne di questa procedura fa del voto orale romano un’occasione in cui il
controllo della gerarchia, il peso degli ordini superiori e delle autorità costituite si manifestano
pienamente. […]
Naturalmente, in queste condizioni, dobbiamo porre la domanda centrale: chi partecipava
realmente a queste attività elettorali e politiche? Nessuna testimonianza fornisce cifre sicure.
Del resto non è nemmeno certo, visto il sistema delle unità di voto, che si tenesse una
contabilità. Ed è certo, invece, che la partecipazione era, per definizione, estremamente
variabile secondo le circostanze, ma anche, a lungo andare, secondo i cambiamenti istituzionali
e politici. […] Ma, accanto, sussisteva il possente contrappeso costituito dai comizi centuriati.

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Qui, come dicono Cicerone e i conservatori illuminati, il «vero popolo» è «diviso», «ordinato»,
gerarchizzato e i voti sono ben valutati, non solo computati. Nei comizi centuriati si dibattono
affari gravi: elezione dei consoli, dei pretori, dei censori; giudizi capitali o leggi che mettono
in discussione lo status o la vita di un cittadino; votazioni su leggi riguardanti la guerra, la pace,
la diplomazia (almeno fino al secondo secolo). In questi campi, l’età, l’esperienza acquisita con
l’esercizio della carica, la ricchezza (che rende prudenti) devono essere privilegiate. […]
Rimaneva però un’altra minaccia, più insidiosa: la corruzione. [...] In un sistema dove si sapeva
sicuramente in anticipo dove ognuno votava, e, all’incirca, quale gruppo aveva possibilità di
essere determinante, la tentazione di comprare semplicemente il suffragio era inevitabile. I
moralisti conservatori consideravano d’altronde come una forma di corruzione il semplice fatto
di proporre al popolo o alla plebe dei provvedimenti in suo vantaggio. Ma c’era anche una
corruzione più brutale e riprovevole: quella che consisteva molto semplicemente nel comprare
(ad una tariffa fissa e in contanti) il voto di questo o quel gruppo. La pratica si diffuse nel primo
secolo a.C. […]
Più grave della corruzione fu, forse, alla fine della Repubblica - tra il 101 e il 19 a.C. -
l’emergere della violenza organizzata. Il sistema comiziale romano era pur sempre troppo
rigido e troppo nettamente diviso, anche troppo controllato, per consentire alla popolazione
diversificata ed esigente di una città gigantesca come Roma, di esprimersi su tutte le possibili
poste in gioco. Si tollerava, lo si è visto, al margine delle assemblee in cui si prendevano le
decisioni, un sistema più ampio di riunioni (“contiones”) dove i semplici cittadini, che non
avevano diritto di parola, avrebbero potuto almeno informarsi, sentire i magistrati o i senatori
esprimersi in dibattiti. Al di fuori di queste “contiones” (sempre convocate da un magistrato in
carica, si noti), qualsiasi riunione del popolo, o anche di alcuni cittadini, pur senza essere
proibita e tanto meno repressa, era considerata come un inizio di sedizione. […] Certe
circostanze tradizionali della vita civica offrivano, del resto, alcune lecite occasioni di
adunanze, nelle quali l’opinione pubblica prese l’abitudine - con l’aiuto interessato dei leaders
o dei «partiti» - di manifestarsi più o meno rumorosamente: trionfi, funerali dei grandi, feste
religiose, e, in particolare, le rappresentazioni teatrali che le accompagnavano. Alla fine della
Repubblica, queste circostanze offrivano ai capi politici l’occasione - mediante la scelta delle
opere da rappresentare o semplicemente con la loro ostentata presenza - di saggiare l’opinione
pubblica o di provocarla. I grandi processi criminali o politici, con la loro procedura pubblica
e teatrale, offrivano quasi la stessa gamma di possibilità. Come si vede, erano queste
circostanze marginali a fornire occasione, molto meglio del rigido rituale comiziale, di una
comunicazione intermittente tra le «masse» e la classe politica; esse permettevano ai messaggi
di divulgarsi e, in fin dei conti, creavano ai margini della città oligarchica una sorta di
democrazia sostitutiva. Anche in questo caso, tuttavia, gli eventuali vantaggi di tali contatti
furono, alla fine della Repubblica, ben presto annullati a causa degli abusi generati dalla
violenza. La prima testimonianza formale riguardante l’intimidazione e l’impiego della forza
(la bastonatura) nelle assemblee risale al 103 a.C., allorché dei veterani di Mario fecero votare,
senza tanti complimenti, la “lex Appuleia”. A partire dall‘88 a.C., cominciò l’epoca (destinata
a protrarsi per più di mezzo secolo) delle guerre civili, che opposero, nell’Urbe, in Italia e poi
in tutto l’Impero, eserciti di cittadini, regolarmente arruolati, per regolare le liti dei loro generali
e decidere del potere supremo. […]
Voglio parlare, infine, di un fenomeno ancora più notevole: l’influenza che quei conflitti armati
di tipo militare esercitarono, durante mezzo secolo, sullo svolgimento della vita politica
romana, cioè l’apparizione e lo sviluppo di “partes” (che noi traduciamo male con «partiti»)
organizzate, più o meno, su un modello paramilitare. I colpi di stato o azioni armate mancate
di Lepido nel 78, di Catilina nel 66, di Celio e di Milone nel 47, mostrano che c’era chi, in
quell’epoca, vedeva nell’azione politica solo una fase preparatoria della guerra civile. […]
Quelle fazioni utilizzarono dunque truppe ben gerarchizzate (“copiae, operae”), il cui nucleo

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era composto da gladiatori devoti fino alla morte insieme con schiavi o con liberti irregimentati
(“decuriati”), provenienti dall’Urbe e spesso anche da zone selvagge dell’Italia. Con il loro
aiuto, ci si disputava il dominio della strada, di giorno e di notte, e l’intervento violento nelle
“contiones”, o, anche, nelle assemblee in cui si votava. […]
Il «benessere» dei cittadini (i contadini in miseria, i proletari, gli ex soldati ai quali le varie
leggi agrarie tentavano di restituire delle terre) non era unicamente uno scopo in sé: la sua
estrema giustificazione, sotto la Repubblica come sotto l’Impero, fu sempre quella di «restituire
dei cittadini alla città», allevare futuri soldati, dunque ristabilire quell’equilibrio ideale, su base
censitaria, che l’eccessivo sviluppo della città e la proletarizzazione avevano compromesso.
[…] Nessuno, conservatore o meno, rifiutava questa idea. Le divergenze cominciavano
relativamente al modo di raggiungere questo risultato. […]
Ho parlato fin qui, allontanandomi, per quanto possibile, da un’immagine idealizzata, «del»
cittadino o «dei» cittadini. Ho lasciato da parte ciò che si potrebbe chiamare la «classe politica».
Un altro ritratto, infatti, sarebbe possibile o necessario: quello dell’«uomo politico» romano,
anch’esso, s’intende, diversificato a seconda dei tempi, delle gerarchie del potere e del successo
[…] Vorrei, in compenso, per finire, e limitandomi all’epoca repubblicana, ricordare alcuni
dati a volte dimenticati. Anzitutto le parole. Non ce n’è nessuna, in latino, che designi «l’uomo
politico», se non, nella sua nudità, quella stessa che designa anche il cittadino, “civis”.
«L’uomo politico» ideale, è il “bonus” o l‘“optimus civis”. […] Bisogna tuttavia rendersi conto
che Roma è una città censitaria, dove, come non tutti i cittadini erano ammessi nelle legioni, o
nelle centurie più influenti all’interno dei comizi, allo stesso modo non tutti potevano essere
ammessi alle cariche pubbliche.
[...] In realtà, per poter aspirare agli onori, il cui primo gradino è costituito, di fatto, dal grado
di tribuno militare, occorre poter servire nella cavalleria - dunque possedere il censo equestre
e le qualifiche di onorabilità («ingenuità») afferenti. Inoltre bisogna - almeno fino all’inizio del
primo secolo - aver realmente compiuto degli anni di servizio militare (tale condizione sembra
attenuarsi intorno al 75 a.C.; ma un’esperienza nei campi militari, anche breve, è sempre
indispensabile, come lo è per l’esercizio delle cariche municipali). In compenso, sotto la
Repubblica, l’eredità (cioè il fatto di avere un padre già senatore o magistrato) non è imposta
dalla legge o dalla regola; essa rappresenta tuttavia la pratica dominante. Gli «uomini nuovi»,
figli di notabili, semplici cavalieri, possiedono il diritto riconosciuto di aspirare agli onori - e
anche, sulle orme di un Mario o di un Cicerone, ai primi posti; che poi tale cammino sia facile,
è un altro discorso. Sotto Augusto, invece, l’accesso agli onori si chiude: esso è riservato, in
linea di principio, ai figli di senatori. Tuttavia, non si creda ad un cambiamento radicale:
un’opportunità di «promozione» politica e sociale, pressappoco equivalente, viene sempre
lasciata all’ordine equestre, o addirittura, eccezionalmente, ad altre categorie. Solo che questa
promozione non dipende più, come sotto la Repubblica, esclusivamente dal voto dei comizi:
essa, ormai, è sottoposta al controllo e alla volontà del principe che, tramite due differenti
procedure, la concessione del laticlavio, e l’“adlectio”, controlla personalmente ciò che prima
era un «beneficio» del popolo.
Secondo fatto da non dimenticare: la «politica» - definiamola, per il momento, come l’accesso
alle magistrature […] - non è soltanto una carriera: è anche generatrice di status, determina cioè
non solo l’influenza e il potere ma anche, per così dire, la «dignità», le precedenze gerarchiche
ufficiali, il quadro giuridico delle condizioni sociali. Insomma, essa modella e organizza, in
grandissima parte, la vita sociale. Lo status di senatore (a partire da Augusto c’è, ufficialmente,
un “ordo senatorius” che raduna tutti gli “agnati”) non comporta soltanto il monopolio della
deliberazione e delle cariche «politiche»: esso comprende anche delle «insegne esteriori», dei
privilegi di precedenza, ma, allo stesso modo, vantaggi particolari nel campo del diritto privato
(matrimoniale o testamentario) o criminale.

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[…] Bisogna aggiungere che, ben presto, nella società romana, decisamente patriarcale, e nella
quale si dà valore all’anzianità dell’uomo e della consuetudine, il fatto di avere degli antenati
(leggiamo: antenati già «politici») crea un pregiudizio favorevole: l’eredità di fatto (anche di
diritto per il patriziato) è dunque determinante. Ma essa non basta mai, contrariamente a quanto
si verifica nelle nobiltà moderne, a garantire il mantenimento dello status: per far sì che ciò
avvenga occorre, ad ogni generazione, la sanzione, o l’unzione, del voto popolare. […]
Insomma, questi “honores”, questi titoli, queste dignità - anche se ciò è falso storicamente -
non sono dei doni gratuiti: essi sono solo delle funzioni che la “res publica” esige. […]
Il fatto che, in fin dei conti, quasi tutto dipenda dai suffragi del popolo ha, comunque, una
conseguenza notevole (come nella maggior parte delle città): anche se la decisione è talvolta
ottenuta tramite comportamenti di tipo puramente rituale, essa implica spesso (anche per le
scelte degli uomini, le elezioni) un vero e proprio dibattito. Dunque, un linguaggio comune,
una vasta gamma di argomenti, delle tecniche di persuasione. Di qui deriva, in primo luogo, il
ruolo dell’eloquenza, non tecnica dell’incantamento, ma arte del convincere - almeno in linea
di massima. Il che implica la conoscenza, e la riconoscenza, dell’altro. Tali princìpi - la cui
teoria ideale (e reciproca, sia per il popolo che per il politico) verrà espressa, sulle orme dei
Greci, da Cicerone nel primo secolo - finiranno per rendere l’arte oratoria il crogiuolo e la
sintesi di ogni virtù pubblica. Certo, in ogni momento, altre forme di dialogo con i cittadini le
si affiancano […] Ma tutto vi si rappresenta come su un vasto palcoscenico, tutto o quasi, in
essa, è pubblico. Il segreto e il silenzio verranno solo con l’Impero. Parole, senza dubbio. Ma
queste parole non erano un gioco fine a se stesso. […]
L’organizzazione del “cursus honorum” garantisce saggiamente un apprendistato graduale,
imponendo condizioni di età e un ordine fisso delle magistrature: l’esperienza suppliva così
alla formazione teorica quasi inesistente. […] Buon soldato (ha cominciato la sua carriera
imparando a ubbidire), buon ufficiale, buon generale, il «politico» romano è anche quell’uomo
dal giudizio illuminato, circondato da consulenti, da clienti (e allievi!), che, per effetto del suo
sapere, del suo buonsenso e della sua moralità (“vir bonus”) esprime anche il diritto, illumina
il pretore, e contribuisce così alla salvezza della patria, rendendo se possibile ad ognuno «ciò
che gli spetta». […] Curiosamente, in tali concrete trafile di formazione e di selezione dei
governanti, siamo colpiti dalla apparente assenza di tutto ciò che riguarda proprio
l’amministrazione e le finanze. Su quest’ultimo punto, l’ignoranza di alcuni responsabili era
notoria. La spiegazione è relativamente semplice. In primo luogo, c’era una frattura abbastanza
netta tra i magistrati responsabili e l’amministrazione propriamente detta (quella del Tesoro,
per esempio) abbandonata a scribi professionisti, organizzati in «ordine corporativo», dal
reclutamento talvolta dubbio, padroni di fatto delle operazioni. Allo stesso modo,
l’amministrazione fiscale non esisteva, affidata com’era, sotto forma di «concessione
generale», a compagnie private di pubblicani che ricevevano l’appalto dallo stato: i senatori e
i magistrati ne erano, in linea di principio, rigorosamente esclusi. Di qui la loro concentrazione
nelle mani dei cavalieri, uomini ricchi ma, appunto, non senatori. Che vi siano stati dei contatti
(e dei traffici) clandestini tra i due gruppi, è certo: la legge, nondimeno, qualche volta applicata,
vi si opponeva. Di qui, a quanto pare, l’inutilità della competenza finanziaria come qualifica
per le alte cariche. Ma l’inconveniente non era preoccupante. Nella società romana, ogni
«grande» è, in pratica, circondato da un vasto stato maggiore privato composto da schiavi,
liberti, clienti, la cui educazione specializzata è rivolta esclusivamente al servizio del padrone:
«al poco ingegno del tale, suppliva l’ingegno altrui»: ciò che il principe realizzerà in seguito
per suo servizio esclusivo esisteva in embrione, in più esemplari, nella Repubblica morente.
D’altronde - ed è l’ultimo punto che ricorderò - per grandi che fossero le responsabilità dei
magistrati a Roma, in fin dei conti, era il controllo collettivo del senato a risultare determinante:
la memoria collettiva del gruppo, la vigilanza degli anziani o degli avversari obbligava ad
affinare la competenza o vi si sostituiva.

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Pressione sociale, coesione dei gruppi, rispetto della tradizione, facevano, tutto sommato, da
cemento per questa Repubblica rustica e militare la cui irresistibile ascesa ha suscitato
l’ammirazione di Polibio. […]

Brani tratti da C. Nicolet, Il cittadino, il politico, in A. Giardina (a cura di), L'uomo


romano, Laterza, Roma-Bari 2019 [1989], pp. 1-44

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La donna non costituisce una specie giuridica a parte: il diritto romano dovette risolvere
innumerevoli conflitti in cui erano impegnate donne, ma non tentò mai di presentare la minima
definizione di ciò che fosse la donna in sé — per quanto, per numerosi giuristi, il luogo comune
della sua fragilità di spirito (imbecillitas mentis), della sua leggerezza mentale o della debolezza
relativa del suo sesso in rapporto agli uomini (infirmitas sexus) servisse come sistema di
spiegazione escogitato proprio per le sue incapacità statutarie. Invece, ciò che per il diritto è
fondamentale, è la divisione in quanto tale dei sessi […]
La natura giuridica dell'uomo e della donna uniti si realizzava pienamente nei loro titoli
specifici di padre e di madre; più precisamente, nella denominazione, che comporta tutta una
serie di caratteri statutari, di paterfamilias per l'uomo e di materfamilias o di matrona per la
donna. Che si tratti di qualificazioni giuridiche relativamente autonome in rapporto alle
situazioni reali che esse comprendono, e che non sia sempre esatto l'adeguamento tra la
paternità e il suo nome, tra la maternità e il titolo, appare chiaramente dal fatto che si potevano
chiamare pater e mater, in certi casi, uomini e donne senza figli, e che, al contrario, non tutti i
padri, ancorché legittimi, avevano necessariamente lo statuto di padre. Tuttavia, a differenza
degli uomini, le donne, per meritare il titolo di «madri di famiglia», dovevano essere nella
condizione di dare al marito figli legittimi. Si vedono apparire così, da una parte e dall'altra
della linea di divisione dei sessi, certe corrispondenze e certe dissimmetrie. Corrispondenze di
finzioni, innanzitutto, dal momento che cittadini designati come pater o come materfamilias
non erano necessariamente genitori di una discendenza da essi provenuta; ma anche
divergenze, poiché se non tutti gli uomini che avevano figli o figlie legittimi erano
giuridicamente investiti della loro funzione paterna, tutte le mogli che avevano dato figli o
figlie ai loro mariti erano invece statutariamente riconosciute come «madri». Esse ottenevano
da questo riconoscimento un'onorabilità, una dignità, una «maestà» perfino, attraverso le quali
si manifestava il lustro civico, se non politico, della loro funzione.
[…] Al momento del parto, dicono numerosi testi, il neonato assume lo statuto in cui si trova
allora sua madre: nasce schiavo, forestiero o romano, secondo che la madre abbia in quel
momento la condizione di schiava, forestiera o romana. Tuttavia questa acquisizione dello
statuto materno alla nascita è combattuta dal principio contrario che vuole che il figlio «segua
il padre» (patrem sequitar) quando è stato concepito in giuste nozze: nasce allora nella
condizione giuridica in cui si trovava suo padre al momento del concepimento. «Seguire il
padre» o «seguire la madre», ecco due legami che si escludono a vicenda: si nasce libero o
cittadino sia di padre, sia di madre, ma mai di entrambi. Ma ecco soprattutto due modelli di
legami antitetici. Il matrimonio conferisce lo statuto paterno, la nascita illegittima lo statuto
materno; lo statuto si acquisisce sia da un genitore che la legge designa (essendo il genitore

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presunto il marito della madre), sia da una partoriente che abbia concepito indistintamente, da
non si sa chi (vulgo). Perciò l'espressione che ho appena usato, «nascita illegittima», deve
essere subito corretta: si può far questione di illegittimità solo a proposito della generazione,
che spetta soltanto all'uomo. [...] Il diritto qualifica dunque come legittimo o illegittimo il
momento in cui una donna è fecondata da un uomo (legitime, illegitime concipi); come legale
o illegale l'unione dei sessi, la coniunctio maris et feminae, cioè l'unione carnale che, lo si
ricordi, dà genericamente nome al matrimonio e si vede qualificata in questo caso come «coito
legittimo» (iustus coitus, legitima coniunctio). Ma la nascita di per sé sfugge alle
determinazioni della legge. […] Questo momento non è mai qualificato giuridicamente: è
caratterizzato solo l'avvenimento del quale, tra i sette e i dieci mesi prima, secondo il computo
del «tempo legale» (iustum tempus, legitimum tempus), un uomo era stato il protagonista […]
In questo modo nel sistema giuridico romano appariva la madre: non era mai istituita né
determinata dal diritto. Invece, il titolo di «madre di famiglia», corrispondente a paterfamilias,
dipende strettamente dal matrimonio. I formulari antichi ci insegnano in modo sicuro che, sotto
il nome di materfamilias, bisogna intendere la moglie di un cittadino pienamente capace. […]
Mentre «padre» indica lo statuto dell'uomo che possiede la piena capacità giuridica, «madre»
si applica alla sposa entrata sotto il dominio del primo. […]
Ora, questo nome di moglie-madre indica molto più di un semplice fatto di società; esso sta a
significare, cioè, che a Roma le donne erano considerate dagli uomini, essenzialmente, secondo
la loro capacità di essere madri. Nulla su questo punto distingue Roma da altre società antiche,
né più generalmente dalla quasi totalità delle società umane prima dell'emancipazione delle
donne nel mondo industriale contemporaneo. Ciò che piuttosto merita attenzione, al di là di
tutte le generalità sociologiche che può ispirare il tema della donna-madre, è un fatto di ordine
istituzionale che, questo sì, è pienamente originale: l'avvenimento che fa accedere una donna
al rango riconosciuto socialmente di materfamilias non è più il parto, ma il matrimonio. […]
Bisogna anche sottolineare che il diritto, creando, per indicare la sposa legittima, il nome di
materfamilias, costruisce la maternità della donna come uno statuto che si realizza nel solo
fatto di essere unita a un paterfamilias: il codice delle dignità istituzionali snaturalizza la
maternità per assorbirla, idealmente e fittiziamente, nello stato di moglie di un cittadino
maggiorenne. […]
Padre, madre, ecco due statuti giuridici correlativi (nella misura in cui, secondo il diritto più
antico, non c'è madre che non sia moglie di un pater) e tuttavia disparati, perché è
completamente diverso l'avvenimento che fa accedere la donna al suo statuto e quello che
permette all'uomo di accedere al proprio. Sicuramente i due statuti lasciano un certo gioco alla
finzione: un uomo è «padre» senza discendenti, purché non abbia ascendenti, una donna è
«madre» senza figli, a condizione che abbia un marito. […] Questa nuova dissimmetria nel
grado di finzione che comportano i titoli di «padre» e «madre» permette di comprendere una
singolarità del matrimonio romano. Malgrado l'intento scopertamente procreatore, malgrado la
presenza esplicitamente richiesta dei due sessi, il cui accoppiamento serve a caratterizzarlo, il
matrimonio romano esisteva giuridicamente senza che fosse consumato. […] Ciò che bisogna
scoprire, dietro questa indifferenza del diritto romano per la realizzazione fisica della
coniunctio maris et feminae, che tuttavia presuppone, è una indifferenza completamente
diversa, legata alla struttura giuridica della filiazione. Non rientrava in questa struttura che un
padre fosse realmente il genitore dei figli nati dalla sua sposa legittima; importava poco persino

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che fosse fuori dalla possibilità di procrearli. […] In questo senso, il diritto successorio romano
presenta il monumento più elaborato dell'ordine sessuale organizzato a Roma dall’epoca
arcaica in poi — almeno dal tempo in cui, grazie alle leggi delle XII Tavole, siamo in grado di
comprendere il rapporto necessario che esiste tra mascolinità, potere e successione continua.
Quest'ordine è anche politico, perché governa la trasmissione della cittadinanza.
All'epoca imperiale, la cittadinanza romana si comunicava attraverso una cittadinanza
municipale, alla quale i giuristi davano il nome tecnico di origo, origine. Questo sistema fu
istituito senza dubbio nel corso dei primi decenni del I secolo a.C., quando furono integrate le
città e le comunità italiche: nacquero Romani, da allora, quelli che nascevano cittadini di città
appartenenti alla «patria comune». Quelli che erano originati da un matrimonio legittimo
seguivano l'origo del padre; quelli nati fuori dal matrimonio seguivano l'origo della madre. A
prima vista si tratta di una struttura semplicissima: la cittadinanza si trasmetteva sia per mezzo
degli uomini sia per mezzo delle donne. Ma la complessità di questa struttura comincia a
svelarsi quando si reperisce la differenza che separa le temporalità proprie alle due branche
della filiazione civica. L'origo paterna non era il luogo di nascita del padre, ma la città da cui
il padre traeva egli stesso l'origine paterna, e così via di seguito, risalendo indefinitamente. Dal
lato maschile, non c'era limite a questo regresso nel tempo o, se si preferisce, a questa
immobilizzazione del tempo da parte del diritto. Di modo che, nell'ordine politico, la continuità
successoria si fissava in un luogo che non era necessariamente quello della residenza, ma che
rimaneva quello dell'appartenenza civica. Così la cittadinanza degli ascendenti si prolungava
nella cittadinanza dei discendenti.
L'origo materna funzionava allo stesso modo? Un testo di Nerazio (giurista dell'epoca di
Traiano, all'inizio del II secolo d.c.) ci dice che la madre fornisce interamente la prima origine,
la prima origo: «chi non ha padre legale trae dalla madre la prima origine, e questa origine è
contata dal giorno in cui è messo al mondo». In un senso pratico, questo testo vuole dire solo
una cosa: l'origo acquisita per mezzo di madre trae inizio dal momento del parto, il bambino
prende la cittadinanza che la madre possiede in questo istante. […]
Nella loro grande diversità di natura, e tenuto conto anche delle evoluzioni che ognuna di esse
conosce separatamente, è difficile farci un'idea coerente delle numerose privazioni di cui soffre
la condizione giuridica delle donne romane in rapporto a quella degli uomini. […] La
subordinazione naturale delle donne agli uomini, tema aristotelico che trova forse la sua
traduzione latina nell'argomento catoniano di una superiorità (maiestas) dei mariti sulle mogli,
era in ogni caso un motivo associato da Cicerone all'istituzione della tutela legale delle mogli,
da Tacito o dai retori un motivo legato al matrimonio, ecc.
[…] le Romane continuavano ad essere colpite da un certo numero di interdizioni definitive,
indipendentemente dalle procedure di convalida alle quali talvolta i loro atti restavano soggetti.
Si ricordi che l'adozione di un figlio, la gestione di una tutela restavano vietate per loro, perché
erano prive di ogni potere su altri. Più generalmente, esse restavano lontane dai «doveri civili»
che portavano ancora il nome di «doveri maschili»: in diritto privato come in diritto pubblico,
cittadinanza e mascolinità si confondevano quando l'azione di un soggetto, superando la propria
persona e il proprio patrimonio, raggiungeva altri grazie alla capacità di ciascuno ad agire a
nome di un terzo. Questo è precisamente il dominio elargito dagli officia vietati alle donne: ci
si trova la rappresentanza, la tutela, l'intercessione, la procura, la postulazione per altri e infine

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l'azione legale, quando l'interesse perseguito non era quello del richiedente ma quello della
comunità politica (come la pubblica accusa o l'azione popolare).
[…] Meglio la formulazione esatta di una regola che oppone il maschile e il femminile secondo
il criterio delle capacità, che hanno gli uomini e non hanno le donne, a rivestire ruoli diversi
dal proprio, a prolungarsi in altri, a demoltiplicarsi, a separare in sé, con una sorta di
sdoppiamento che il diritto instaura nella loro natura, tra il loro proprio io e i «doveri», le
funzioni che incarnano […] Con tutto il rigore istituzionale, è meglio tentare di comprendere
questo principio che soggiace al diritto delle incapacità: una donna ha solo il proprio interesse
da fare valere. […] Se si ricongiungono i modi d'intervento che appartengono alla nozione di
«dovere» civile e virile, una struttura è loro comune: quella di un'azione per altri. […] Le
incapacità del diritto pubblico non sono di natura fondamentalmente diversa da quelle del
diritto privato. Certamente ci si ritorna sempre, la città è un «circolo di uomini». Una romana,
tuttavia, è civis romana e partorisce un civis romanus. Ma la cosa di cui le donne sono
essenzialmente private, nella politica come nelle relazioni intersoggettive, è la facoltà di
assicurare un servizio che trascenda la sfera ristretta dei loro propri interessi che elimini la
soggettività della loro azione per conferirle il senso astratto di una funzione. Non è
sorprendente, per esempio, che una donna possa testimoniare in tribunale; la sua parola non è
meno credibile di quella di un uomo. Ma che le sia vietato di essere testimone a un testamento
non contraddice alla regola precedente: perché il cittadino romano testis, in questo caso,
convalida l'operazione conferendole carattere di pubblicità.

Brani tratti da Y. Thomas, La divisione dei sessi nel diritto romano, in G. Duby, M. Perrot,
Storia delle donne in Occidente. L’Antichità, Laterza, Roma-Bari 1997

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L'esteso mondo mediterraneo, venutosi a formare con la conquista romana, comprendeva


popoli i cui costumi e le cui leggi scritte implicavano notevoli differenze per quanto concerneva
la famiglia. Gli interdetti di parentela per la conclusione di contratti matrimoniali (cioè le
definizioni dell'incesto), le leggi di trasmissione di prerogative civiche o etniche e la posizione
delle donne in questa trasmissione, sono state messe a confronto, comparate, e in ultimo
gerarchizzate come norme etiche, mentre le differenze erano state universalmente accettate
come norme etniche. Nella misura in cui la società riconosceva la supremazia romana, coloro
che ambivano ad integrarsi nella comunità dei vincitori erano indotti a farne proprie le leggi.
L'unificazione dei popoli del Mediterraneo sotto il diritto romano, all'inizio del III secolo, ed
in seguito sotto le regole sancite dalla Chiesa cristiana (regole che non furono totalmente
integrate nelle legislazioni dei regni occidentali o dell'Impero bizantino) ha trasformato la vita
delle donne nell'area in cui si è andata formando la società occidentale.
[…] In tutte queste civiltà le donne sposate trasmettevano lo status nel valore che gli era stato
attribuito. Con tre leggi, nel 18, nel 17 a.C. e nel 9 d.c., Augusto aveva rivoluzionato il diritto
della famiglia romana. Egli obbligava gli strati superiori della società al matrimonio e alla
procreazione, sanzionando le resistenze attraverso la decadenza dal diritto di successione.
Incoraggiava le unioni legittime e affidava allo Stato il controllo sulla fedeltà delle spose,
facendo contemporaneamente obbligo alla famiglia e ai vicini di denunciare gli adultèri sotto

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pena di subire una condanna per prossenetismo, con la conseguente perdita dello status di
rispettabilità. […]
Gli uomini volevano evitare di esporsi alle pene previste per l'adulterio e volevano sapere con
che tipo di donna avevano a che fare. Quando gli scrittori satirici enumerano i drammatici
inconvenienti delle relazioni con donne sposate (è questa la definizione dell'adulterio per
l'uomo) il timore di essere sorpresi, il sussultare a ogni minimo rumore, la serva che, complice,
spia l'arrivo del marito — non precisano mai la classe sociale cui la donna appartiene. Sempre
descritto è invece l'abito della donna rispettabile, comune a tutte le mogli legittime, vedove o
divorziate, abito che lasciava scoperto soltanto il viso […]. Le donne rispettabili evitavano in
tutti i modi di attirare l'attenzione. Uscivano con il capo velato o coperto da un lembo del
mantello, tanto a Roma che nell'Oriente greco. E, d'altra parte, uscivano molto di rado. Ad
esempio, per comprare gli abiti si mandavano donne anziane o ragazzine. In epoca repubblicana
gli uomini potevano divorziare dalla moglie che fosse uscita a capo scoperto. […] Il velo o il
lembo del mantello a coprire il capo costituivano un avvertimento: questa è una donna
rispettabile alla quale non bisogna avvicinarsi a rischio di gravi sanzioni. La donna che usciva
senza velo, vestita da serva, non era più protetta dalla legge romana contro eventuali aggressori,
i quali avrebbero beneficiato delle circostanze attenuanti. Quando i cristiani pretesero che tutte
le donne della loro religione si coprissero il capo (Paolo, I Cor. 11, 10) estesero a tutte l'aspetto
di donne intoccabili, di donne cui era dovuto rispetto, anche se non tutte erano tali per diritto
di nascita. Come gli schiavi maschi potevano indossare la toga e il pallio, abito riservato agli
uomini liberi, le donne cristiane di ogni condizione adottarono il velo, se non addirittura
l'abbigliamento completo delle matrone. Segno di soggezione, evidentemente, tanto per le
matrone quanto per le donne cristiane di rango inferiore, ma al tempo stesso segno di onore, di
riserbo sessuale, quindi di padronanza di sé. Le donne rispettabili inoltre non dovevano sedurre
i mariti ricorrendo a belletti, profumi o acconciature.
«Sposarsi per generare figli». La formula giuridica del matrimonio romano ne specificava il
fine: la procreazione. Le spose romane dovevano generare tre o quattro figli, per avere il diritto
di uscire dalla tutela: tre figli per la donna nata libera, quattro per la schiava affrancata. Le leggi
di Augusto vietavano che gli uomini non sposati, fra i 20 e i 60 anni, e le donne nubili (anche
se vedove o divorziate), fra i 18 e i 50, beneficiassero di lasciti. Le donne dovevano all'età di
20 anni essere sposate ed aver avuto almeno un figlio; per gli uomini l'età limite erano i 25
anni. Dovevano essere sposate, o aver contratto un secondo matrimonio la vedova dopo un
anno, la divorziata dopo 6 mesi. All'epoca di Adriano alla donna fu possibile far valere come
figli anche gli illegittimi, quindi anche quelli avuti come concubina, probabilmente dal
padrone, sommandoli ai figli avuti dal marito, con ogni probabilità uno schiavo affrancato
sposato con il consenso del padrone. Il punto essenziale era che le venisse riconosciuto almeno
un figlio, anche se non in vita, e per ottenere questa sicurezza bisognava averne messi al mondo
tre, che fossero vissuti più di tre giorni.
[…] La famiglia, sia quella di origine che quella del marito, pretendeva, come l'intera società,
che le donne generassero i tre figli prescritti dalla legge, affinché il marito potesse ricevere le
eredità e i lasciti spettanti; lasciti che, in mancanza di figli, andavano per gran parte a familiari
padri di famiglia oppure allo Stato. Sposate «per generare figli», secondo la formula del diritto
romano, le donne si angosciavano se il figlio tardava […]. Contro la sterilità, le donne
ingerivano rimedi non meno pericolosi degli abortivi. […] La continuità delle relazioni sessuali

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— sempre che il marito lo desiderasse e non si ritenesse pago delle sole unioni intese alla
procreazione — imponeva delle cautele. Abbiamo già detto come la contraccezione fosse di
scarsa efficacia. Se una donna libera e rispettabile richiedeva la collaborazione di un medico
per abortire, veniva sospettata di voler far sparire un figlio adulterino. […] Le donne di alto
rango venivano educate nella prospettiva di una futura continenza. […]
Questo è il quadro approssimativo che possiamo farci della società romana pagana dei primi
due secoli dell'Impero. […] Nell'ambito della resistenza aristocratica al potere imperiale va
collocata la contestazione globale al sistema sociale descritto precedentemente. Il coraggio
dimostrato dalle donne nello scontro tra la nobiltà romana e gli imperatori durante il I secolo
ha ribaltato la concezione delle relazioni fra uomini e donne.
[…] Alla fine dell'Impero romano, la contestazione filosofica del primitivo sistema sociale
assunse tutta l'estensione che poteva derivarle dal cristianesimo.
All'inizio del III secolo un imperatore romano decise di estendere il diritto di cittadinanza a
tutti i liberi dell'Impero. Ciò presupponeva una armonizzazione di tutte le leggi applicate fino
allora a quanti erano rimasti esclusi dalla cittadinanza romana, sia Greci che Egiziani o Ebrei.
Si trattò di una armonizzazione attuata solo parzialmente, dal momento che ciascuno cercava
le scappatoie per cumulare i vantaggi derivanti dai due diritti: il proprio diritto d'origine e il
diritto romano. Gli impedimenti di parentela per le unioni legittime erano di varia natura: anche
il diritto romano aveva ammesso con difficoltà l'unione fra zio e nipote, malgrado la misura
imposta dall'imperatore Claudio. Alla fine del III secolo, Diocleziano, ultimo imperatore
pagano se non si vuole considerare Giuliano l'Apostata nel IV secolo — emanò delle leggi per
fissare una serie di interdetti e dichiararli comuni a tutto l'Impero. […] Quindi, tutte le
situazioni che fino a quel momento semplicemente non consentivano un matrimonio legittimo,
e nelle quali i congiunti risultavano concubini, furono passibili di sanzioni penali.
La Chiesa cristiana, anche se non ha esplicitamente provocato tale slittamento verso la sanzione
penale, dimostrava grande attenzione nello stabilire le regole di purezza delle unioni. […] Il
cristianesimo aveva proprie regole di ammissione ed esclusione dalla «comunità cristiana»:
regole di acquisizione, conservazione e trasmissione di uno status cristiano. […] Il
cristianesimo attribuiva grande importanza alla purezza delle donne e riconosceva il diritto
matrimoniale romano. Le concubine erano ammesse a condizione di aver avuto un solo uomo
e di non aver abbandonato nessuno dei figli. Gli uomini dovevano allontanare la concubina e
prendere una sposa legittima, il che equivaleva a vanificare il sistema elaborato dalla società a
protezione delle mogli legittime.
[…] È interessante confrontare il comportamento della Chiesa di fronte ai casi di omicidio e
nei confronti dei casi di adulterio o di aborto. Al matrimonio si attribuiva un valore così elevato
da considerare l'adulterio, o l'aborto che ne era espressione, più grave dell'omicidio. È
significativo constatare come la società, anche cristiana, vivesse in una struttura gerarchizzata.
Le donne dell'alta società venivano allevate in vista della riproduzione della loro classe sociale
e non per la conservazione demografica della popolazione. Non possedevano nessuna
consapevolezza del fatto che altre donne le salvavano dai rischi delle molteplici gravidanze. O,
quanto meno, avevano coscienza di essere donne di pregio, cui la continenza conferiva dei
diritti sugli inferiori, diritto di servirsene per soddisfare i mariti, diritto di pretendere dalle
donne di rango inferiore servitù corporali, che includevano lo sfogo costituito dal gridare,
rimproverare, colpire. […]. I vescovi decisero che, se la padrona era animata dalla volontà di

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uccidere, sarebbe stata esclusa dalla comunione per sette anni, cinque nel caso che la morte
non fosse stata provocata volontariamente. La comunione poteva essere concessa in caso di
malattia, previo pentimento (can. 5). È significativo il confronto fra queste sanzioni e quelle
previste in caso di aborto o di nuovo matrimonio di una donna dopo la separazione (ammessa
dalla legge dello Stato tanto nel 306 che dopo Costantino). Una donna che avesse preso
l'iniziativa del divorzio e si fosse risposata, non poteva ricevere la comunione nemmeno in
articulo mortis (can. 8). Lo stesso valeva per una donna abbandonata dal marito (can. 9). Se il
matrimonio avveniva dopo il battesimo, le donne si venivano a trovare equiparate alle prostitute
(can. 12). È più che evidente come l'omicidio fosse considerato meno grave della lordura
sessuale in cui la donna cade a causa dell'adulterio, o di un nuovo matrimonio contratto ancora
vivente il primo marito.
In realtà, la posta in gioco era l'elevato concetto che la Chiesa cristiana, come la legge romana,
nutriva del matrimonio legittimo; come fondamento sociale, esso era considerato più
importante della salvaguardia della vita. […] Sotto ogni punto di vista, tanto nel caso di
Augusto che pretendeva nascite relativamente numerose nei matrimoni legittimi dei nobili e,
se possibile, nella generalità dei cittadini, tanto nel caso della Chiesa, che interviene punendo
in base ai propri criteri l'omicidio e l'adulterio, l'elemento preponderante è il valore etico del
matrimonio legittimo, possibilmente unico per la sposa.

Brani tratti da A. Rousselle, La politica dei corpi: tra procreazione e continenza a Roma, in
G. Duby, M. Perrot, Storia delle donne in Occidente. L’Antichità, Laterza, Roma-Bari
1997

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POLIBIO
(200-120 a.C. ca.). Storico greco. Visse al tempo in cui i Romani, sconfitto Annibale,
conquistarono la Grecia, la Macedonia e l'Asia Minore. Dopo il 168 a.C. venne trasferito a
Roma, compreso nel migliaio di uomini illustri che i Romani avevano fatto trasferire
nell'Urbe. A Roma divenne amico di Scipione Emiliano. Le sue Storie narrano come Roma si
impadronì, in poco più di mezzo secolo, di tutto il mondo conosciuto. Polibio cerca il motivo
di tale successo politico nella struttura della costituzione romana vista nel suo funzionamento.
La sua indagine si muove attraverso una comparazione fra le costituzioni realmente esistenti
selezionate secondo la loro stabilità; esclude, pertanto, di parlare di Atene e di Tebe, che
ebbero soltanto brevi periodi di splendore; parla della mitica Sparta ai tempi di Licurgo, con
il suo equilibrio tra re, anziani e popolo, come modello ottimale quando lo scopo dello Stato
sia mantenere la propria indipendenza e proteggere le sue proprietà. Ma il modello di uno
Stato espansionista è, propriamente, la costituzione romana al tempo della seconda guerra
punica. Nel VI libro Polibio afferma che la costituzione romana è un’equilibrata mescolanza
di monarchia (il potere dei consoli), di aristocrazia (il potere del senato) e di democrazia (i
poteri del popolo). Della sua costituzione effettuale fanno parte integrante, inoltre, sia
l'organizzazione concreta delle forze militari, sia le credenze superstiziose e i rituali religiosi
in quanto forze di coesione per il popolo più basso.

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Ogni fatto storico nasce, per Polibio, da cause naturali a tratti indicate come «necessità», a
tratti indicate con il termine Oche (sorte). La conoscenza del passato permette di prevedere,
per lo più, il futuro; le forme costituzionali si dispongono secondo un ciclo (anakyklosis): la
monarchia è la forma «naturale» dell'organizzazione della vita politica; essa tende a
degenerare in tirannide; l'abolizione della tirannide porta al potere l'aristocrazia che tende, a
sua volta, a degenerare in oligarchia; la rivolta del popolo contro gli oligarchi porta
all'instaurazione della democrazia; quest'ultima tende a degenerare in pura illegalità, in
«oclocrazia» («governo della folla»). A questo punto, la massa massacra o esilia i più ricchi
e spartisce i loro averi. Dal disordine progressivo la massa riesce a uscire soltanto trovando
un nuovo capo cui conferisce i pieni poteri ricostituendo la condizione originaria della
monarchia. Questo processo circolare non può essere fermato; in esso operano sia cause
esterne alle forme costituzionali, sia cause interne (lo scatenamento delle passioni). Quando
una forma politica raggiunge la preminenza assoluta, essa produce, al proprio interno, il
benessere, che scatena ogni sorta di ambizioni e di competitività: al popolo non basta emulare
i migliori e neppure eguagliarli nelle condizioni; si desidera l’uguaglianza assoluta, il che
scatena l'illegalità. È questo il futuro, previsto da Polibio, della costituzione romana.
Il rigoroso quadro della storia come scontro di poteri e l'indicazione di un margine di casualità
nelle vicende storiche ha influito sul pensiero di N. Machiavelli, il quale si riferì a Polibio
anche per il confronto fra Sparta e Roma nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (e di
Livio Polibio fu la fonte fondamentale, soprattutto per le guerre orientali di Roma). L'influsso
di Polibio fu, per lo più, indiretto, attraverso il pensiero di Machiavelli, anche se il suo nome
si incontra di frequente fra gli autori che attrassero l'attenzione degli Umanisti, i quali
tendevano a utilizzarlo soprattutto come fonte per la storia di Roma.

di F. Ingravalle; brano tratto da R. Esposito, C. Galli, Enciclopedia del pensiero politico,


Laterza, Roma-Bari 2000

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CICERONE
Cicerone, Marco Tullio (106-43 a.C.). Oratore e uomo politico romano. Appartenente a una
agiata famiglia equestre, studiò retorica e diritto a Roma. Nell'81, sotto la dittatura di Silla,
iniziò un'intensa attività forense. Nel 63 entrò in carica come console. Allo stesso anno
risalgono le orazioni contro Lucio Sergio Catilina. Esiliato nel 58, poté ritornare a Roma nel
57. L'uccisione di Gaio Giulio Cesare riaccese in lui la speranza di un ritorno alla concordia
ordinum, ma ben presto la situazione degenerò nello scontro fra Marco Antonio e Ottaviano;
ostile a Marco Antonio e pur dubbioso nei confronti di Ottaviano, nella III Filippica, lo
presentò come futuro liberatore. Nel 43 si formò il cosiddetto secondo triumvirato fra
Antonio, Ottaviano e Lepido, e il nome di Cicerone fu inserito nelle liste di proscrizione; fu
ucciso da sicari di Antonio.
Il suo pensiero politico costituì un tentativo di adattare all'esperienza storica romana il
patrimonio delle scuole filosofiche ellenistiche, in particolare dell'Accademia, soprattutto il
paradigma della 'costituzione mista', vista come modello di mediazione fra esigenze
dell'aristocrazia senatoria e popolo. L'opera di maggiore rilievo filosofico-politico di Cicerone

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è il De republica, composto nel 51, saldamente ancorato, per struttura (dialogo) e tema (la
giustizia), alla Politeia di Platone. Nel I libro Scipione Emiliano indica il fondamento
dell'ordine politico nella utilitas communis e nel iuris consensus ed esamina le forme
costituzionali della democrazia, dell'aristocrazia e della monarchia; la preferenza è accordata,
tuttavia, alla sola costituzione mista, individuata nella costituzione romana ove il Senato
impedisce o limita gli abusi del popolo. Nel libro III la discussione verte sul dilemma se il
comando politico si fondi sulla forza o sulla giustizia. Nei libri IV e V si delinea l'immagine
di un principe che rispetti le garanzie della costituzione e si presenti come esempio di amore
per la patria e di moralità. Ben poco resta del libro VI, a parte il cosiddetto somnium Scipionis,
formalmente analogo al mito di Er di Platone, contenente una descrizione dell'universo e della
condizione di beatitudine destinata a coloro che praticheranno, in terra, le virtù romane.
Continuazione del De republica sul piano della filosofia del diritto è il De legibus: in esso si
afferma, probabilmente per influsso dello stoicismo, l'esistenza di una legge universale ed
eterna presente nella natura e volta a regolare i rapporti fra gli uomini ove si radicano le leggi
specifiche fissate dai diversi popoli; alla luce di questi principi vengono esaminate le leggi
civili e religiose e le relative magistrature romane.
I temi della concordia civile e della legge universale, eterna e naturale, alimentarono la fortuna
di Cicerone nei secoli XV e XVI. Entrambi furono inseriti in una visione della retorica quale
strumento perfetto per l'azione conforme all'equilibrio delle facoltà del vir bonus ac dicendi
peritus e nella considerazione della sfera pratico-morale come ambito privilegiato della
humanitas, cioè della realizzazione dell'uomo formato dagli studi retorici e letterari, di contro
a ogni tendenza metafisica patrocinata dalla cultura della Scolastica.

di F. Ingravalle; brano tratto da R. Esposito, C. Galli, Enciclopedia del pensiero politico,


Laterza, Roma-Bari 2000

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IL PENSIERO POLITICO CRISTIANO

AGOSTINO
Agostino, Aurelio (354-430). Filosofo, teologo, padre della Chiesa. È figura centrale del
pensiero occidentale, in quanto opera una sintesi tra la filosofia neoplatonica e i motivi propri
del cristianesimo. Nato a Tagaste, in Africa, studia a Cartagine, poi insegna retorica a Milano.
Gli anni dell’abbandono della religione manichea e del battesimo (386-387) lo vedono
concentrato sul problema del male. Influenzato da Ambrogio, si avvicina a una soluzione
neoplatonica, sostenendo che le cose sono corruttibili in quanto hanno un grado di bontà e che
la corruzione non è che sottrazione di bene; il male non è sostanza, bensì mancanza di bene,
di essere. Dopo il suo ritorno in Africa viene ordinato sacerdote nel 391 e vescovo di Ippona
(Algeria) nel 395. La concezione della comunità cristiana, concepita come culmine della
storia umana, è esposta nel De civitate Dei, opera che lo impegnerà dal 412 al 426. In essa
Agostino ripensa il ruolo dell'Impero romano nel piano divino di salvezza. Il sacco di Roma
a opera dei Goti nel 410 mette fine all'epoca di Teodosio nella quale Agostino stesso aveva
ravvisato il segno del trionfo del Cristo e dell'impero cristiano universale, e ciò gli fa ritenere
fallace tutta la tradizione di pensiero cesaro-papistica che ha il suo massimo rappresentante in
Eusebio di Cesarea. L'Impero Romano non è in sé né santo né diabolico, ma dipende in tutto
dalla pietas o impietas dei suoi costruttori. La società umana è denotata da una costitutiva
indeterminatezza che l'immagine delle due città esprime. La prima parte del De civitate Dei,
dal libro I al X si apre con una ricerca sul politeismo e sulla religione romana, ed è apologetica;
in essa Agostino risponde alle accuse mosse ai cristiani di essere la causa della rovina di
Roma. La seconda parte è la pars construens: qui, utilizzando il Chronicon di Eusebio e il De
gente populi romani di Varrone, Agostino segue in parallelo storia biblica e storia profana,
costruendo precise connessioni temporali. La nozione di 'città' che Agostino impiega può
essere fatta risalire alla tradizione neoplatonica, alla filosofia stoica, a Filone d'Alessandria,
ma anche a quel luogo dell'Epistola agli Ebrei dove si parla della polis promessa da Dio agli
uomini di fede. Senza impiegare il termine città, nell'Epistola ai Romani Paolo aveva diviso
l'umanità in due gruppi, gli ingiusti e i giusti, coloro che restano sotto l'imperio della morte e
coloro che beneficiano della giustificazione per fede, ai quali spetta la vita eterna. Agostino
riprende e approfondisce queste nozioni: l’ordine politico è una 'città' senza mura né frontiere,
abitata da tutti coloro che riconoscono il medesimo Dio e obbediscono alle stesse leggi. E
questo l'asse essenziale del pensiero di Agostino: la dualità tra le due città in quanto legame,
sciolto solo con la fine della storia, tra l'aspirazione di fede alla patria celeste e l'idea antica di
città. Ne risulta un'immagine della storia umana come drammatico confronto di forze. Il
genere umano è, infatti, suddiviso in due gruppi: uomini che vivono secondo l'uomo e uomini
che vivono secondo Dio. Giustapponendo immagine simbolica e realtà storica, il primo
gruppo è la società dei malvagi, priva di giustizia, ma è anche l'Impero Romano; il secondo è
la comunione degli eletti ma anche la Chiesa militante, pellegrina sulla terra e in lotta con i
propri nemici. La giustapposizione di registro storico e registro simbolico risponde alle
esigenze di una rigorosa simmetria che include momenti di dualismo tra Chiesa e società
politica all'interno di un ordine complesso, gerarchicamente strutturato, che tiene distinte e al
tempo stesso complementari le due città. Questa idea di ordine permette di intendere le
comunità temporali come forme sociali provvisorie che contengono al loro interno la città

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celeste in viaggio verso il proprio fine. Anche gli attacchi che la fede cristiana subisce non
sono che un nuovo episodio della grande lotta tra città celeste e città terrena. La pace del corpo
e dell'anima, della casa e della società, è una «tranquillità dell'ordine» che trova il proprio
coronamento solo nell'ordine perfetto della città celeste. Tale ordine divino s'impone nella
storia dell'uomo (e attraverso questa) sino al trionfo finale. Presenti sia nell'impero sia nella
Chiesa, le due città sono «confuse l'una nell'altra», pervengono a identità separata solo alla
fine dei tempi. La concezione della comunità politica come mixta di bene e male è il punto di
massima divaricazione tra Agostino e il mondo classico.
Nelle Confessioni (III) Agostino enuncia incidentalmente il principio del patto di obbedienza
— incluso nel Decretum di Graziano (XII secolo) e fondamentale per tutto il Medioevo —
rifacendosi sia al tema biblico del patto tra Dio e popolo sia alla tradizione di diritto germanico
di reciprocità tra obbedienza al monarca e riconoscimento dei diritti del 'popolo'. Questo tema
è ripreso e approfondito nel De civitate Dei (XIX). Qui, sulla base di una definizione di
imperio come rimedio del peccato, cioè come strumento atto a correggere la corruzione
originale del genere umano e a guidarlo verso la salvezza, Agostino accoglie la definizione di
popolo data da Cicerone, sostenendo tuttavia che la repubblica romana non era un 'popolo' in
quanto priva della «vera giustizia» che solo la respublica celeste conosce e che solo il «patto
di concordia» da essa determinato può realizzare. Che l'essenza della politica sia l'obbedienza
e non la ragione, e che il suo fine sia la salvezza, implica il rifiuto della nozione aristotelica
di autosufficienza della città. Agostino tuttavia non intende negare che sia possibile una
respublica umana; ne offre, infatti, una definizione come città fondata sull'amore dei suoi
membri: il popolo è allora una moltitudine di esseri razionali uniti fraternamente nella
condivisione dell'amore per le stesse cose. E tuttavia «l'amore di sé portato sino al disprezzo
di Dio che genera la città terrena, e l'amore di Dio portato sino al disprezzo di sé che genera
la città celeste». La concezione teologica della storia elaborata nel De civitate Dei sostiene
dunque sia la compenetrazione tra città celeste e città terrena, sia il primato della Chiesa sulla
comunità politica. I motivi specifici della dottrina agostiniana - la 'confusione' tra teologia e
filosofia, la teoria dell'illuminazione, la superiorità della volontà sull'intelletto, la
cancellazione della distinzione formale tra grazia e natura — divengono nel Medioevo
patrimonio del francescanesimo, in contrapposizione all'indirizzo aristotelico-tomista
domenicano. La ripresa di principi aristotelici da parte di Alberto Magno e Tommaso
D’aquino coincide, infatti, con una rivalutazione del principio di socievolezza naturale; al fine
di attenuare la condanna agostiniana della città, essi rielaborano una dottrina dei limiti del
potere e della disobbedienza per la quale fonte del diritto non è il Pactum bensì la ragione
naturale e la consuetudine. L'agostinismo politico invece può essere identificato con la tesi
secondo cui la politica è intrinsecamente peccaminosa, il che fa nascere un'irrimediabile
contrapposizione etica e politica tra potere temporale e spirituale. Il diritto naturale umano è
subordinato a un ordine sovrannaturale religioso ed ecclesiastico rispetto al quale la regalità
stessa appare mero ufficio privo di reale potere, semplice potestà ministeriale.

di M. Merlo; brano tratto da R. Esposito, C. Galli, Enciclopedia del pensiero politico,


Laterza, Roma-Bari 2000

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TOMMASO D’AQUINO
Tommaso d'Aquino (ca. 1225-1274). Teologo e filosofo. L'opera di questa figura centrale del
Medioevo cristiano è di tale importanza che essa quasi si identifica con la forma stessa del
pensiero tardo-medioevale (la scolastica). La speculazione di Tommaso appare segnata in
misura decisiva dalla spiritualità domenicana (al cui ordine appartiene dal 1245) e dalla
tradizione del pensiero aristotelico, comprendente sia lo sforzo neoplatonico di
armonizzazione di Aristotele con Platone, sia l'influsso dei commentatori arabi di Aristotele,
in primo luogo Avicenna e Averroè. Discepolo di Alberto Magno a Colonia tra il 1248 e il
1252, successivamente attivo all'università di Parigi, la sua importanza di teologo è
testimoniata dall'appellativo doctor angelicus e dall'essere uno dei principali padri della
Chiesa.
Il suo pensiero appare insieme una sintesi e una cesura: una sintesi, in quanto il sistema
tomista rivendica l'armonia tra ragione e fede e dunque mira al superamento di ogni dualismo
nel segno di una rinnovata amicizia tra pensiero classico e cristiano; una cesura, in quanto
inaugura una concezione della vita politica in contrasto con la tradizione dell'agostinismo
politico, ovvero con una concezione improntata a un dualismo radicale tra politica e salvezza,
tra sacerdozio e regno. La ripresa della filosofia aristotelica avviene nel segno di una
concezione interamente positiva della politica come condizione fondamentale della vita
perfetta. Sostenendo che «la grazia non toglie la natura, bensì la porta a compimento», la
concezione tomista riconosce l'esistenza di una sfera di principi naturali non invalidati dal
peccato, di una legge naturale in quanto insieme di valori etico-razionali. È sullo sfondo della
rinascenza del diritto romano e dell'emergenza delle identità nazionali che va compreso questo
punto chiave della concezione tomista della politica, alla quale tuttavia, nonostante i
commentari alla Politica e all'Etica aristoteliche e il De regimine principum (1265-66, solo in
parte scritto da Tommaso), non va attribuito alcun carattere sistematico.
Tommaso intende il rapporto politico tra gli uomini, comprendente l’autorità come elemento
necessario al raggiungimento del bene comune, come fondato sulla natura umana. Nel diritto
naturale si esprime la specifica dignità dell'uomo, unica tra le creature in grado di partecipare
dell'ordine razionale dell'universo: natura e rivelazione, ragione e ordine, coesistono
armonicamente. L'ordine, che denota la potenza, consiste in una rete di relazioni gerarchiche
di governo nella quale stanno tutti gli enti. Alla definizione aristotelica di uomo come
«animale politico» Tommaso sovrappone quella di «animale naturale sociale e politico», un
sintagma nel quale la fondazione della ragion d'essere della politica nel carattere naturalmente
sociale dell'uomo si accompagna all'indicazione della necessità delle virtù politiche.
I tratti decisivi della comunità politica sono il naturale istinto alla socialità, portatore di una
pace relativa, e la negazione della solitudine individuale, ovvero l'inclusione dell'individuo
nella vita della comunità. Trattando il rapporto tra città e individui come analogo a quello tra
tutto e parti, Tommaso oscilla tra una considerazione della totalità della città, e del bene
comune che essa incarna, come superiore al bene del singolo e l'affermazione dell'identità
sostanziale del fine del singolo e del tutto. La soluzione del problema è affidata all'idea di
unità di ordine in quanto specifica della comunità umana. Nel De unitate intellectus contra
Averroistas (1270) l'idea cristiana di persona individuale e di vita politica come mezzo per il
raggiungimento di un grado superiore di perfezione viene contrapposta alle tesi averroiste
sulla mortalità dell'anima individuale e sull'unicità dell'intelletto possibile per tutti gli uomini.

81
Queste idee sono ritenute esiziali da Tommaso sul piano della filosofia morale, perché
comportano il venir meno della differenza tra gli uomini quanto alla libera scelta della volontà
e alla comunicazione politica. La naturalità della politica viene dunque ridimensionata da
Tommaso, mentre si mantiene la comunità politica come elemento dell'eticità naturale,
emancipando parzialmente le istituzioni politiche da criteri strettamente religiosi.
Il problema dell'autorità politica appare diversamente declinato da Tommaso: ora come arte
del governo che comprende l'educazione del principe a tal fine, ora come autorità che deriva
dalla comunità come sua origine e fondamento, ora come effetto di quella naturale
diseguaglianza tra gli uomini che Tommaso riprende da Aristotele.
La trattazione della città e del regno come comunità perfette, capaci di potestà coattiva e dotate
di autonomia e sufficienza, è in Tommaso svincolata da rigidi criteri universalistici,
permanendo tuttavia il riferimento al principio di unità che è segno dell'ordine divino del
mondo. Con la nozione di corpo mistico della Chiesa Tommaso opera una feconda
intersezione tra sfera politica e religiosa, sia per quanto riguarda la dottrina della monarchia
limitata da un punto di vista istituzionale e etico-giuridico (supremazia dell'ordine naturale-
razionale di giustizia) sia per la distinzione tra regno e sacerdozio che coesistono in reciproca
indipendenza ma sotto la preminenza della guida spirituale per quanto riguarda l'ordine dei
fini. Tommaso privilegia la funzione del monarca in quanto guida verso il fine al quale la
comunità politica è ordinata, sviluppando anche una parziale e circostanziata giustificazione
del tirannicidio che ne segna la distanza dalle successive dottrine dell'obbedienza passiva.

di M. Merlo; brano tratto da R. Esposito, C. Galli, Enciclopedia del pensiero politico,


Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 728-729

82
NUOVI ASSEMBLAGGI MEDIEVALI

[...] Dopo aver tentato di mettere a alcuni strumenti metodici che facilitino il nostro approccio
con l'esperienza giuridica medievale, scendiamo nel suo tessuto storico e cerchiamo di
renderci conto di quel massiccio sforzo di fondazione che impegna l'Occidente dal secolo V
all'Xl. Uno sforzo non appariscente, non clamoroso, non legato a uno di quegli eventi sonanti
che riempiono di sé la storia ufficiale, non frutto dell'opera di un principe illuminato o d'una
rivoluzionaria scuola giuridica; frutto invece, prevalentemente, d'una prassi soprattutto
notarile ma anche giudiziaria— che, silenziosa ma tenace, libera da condizionamenti troppo
stretti, consapevole almeno di dover fondare un edificio congeniale alle mutate esigenze
economiche e sociali, si fa orecchiatrice attenta di una complessa sedimentazione
consuetudinaria e la traduce in assetti organizzativi dell'esperienza, quelli che siamo soliti
chiamare istituti giuridici. In questo momento di fondazione emergono e si consolidano alcuni
atteggiamenti generali connessi alla nuova e sempre più Precisa mentalità giuridica, che
conviene individuare e fissare fin ora perché varranno come primi e illuminanti strumenti
interpretativi della esperienza in formazione: fatti di civiltà giuridica, vissuti come valori
duraturi, legati al volto autentico di essa, garanti e testimoni della sua tipicità. Valori duraturi,
abbiamo detto; e qui è necessaria una puntualizzazione. I più saranno a tal punto duraturi da
scavalcare d'un balzo l'età di fondazione e impregnare di sé anche il secondo momento più
propriamente edificativo, più propriamente sapienziale: sono quei caratteri tipizzanti che
costituiscono il medioevo del diritto, il modo medievale di sentire e vivere la giuridicità,
rappresentando la conferma della intima unitarietà dell'esperienza oggetto del nostro studio.
Ne parleremo ovviamente sin da ora, ma il nostro discorso si intenderà riferito a tutto il
medioevo, e lo testimonieranno le fonti probanti attinte in un arco storico che valica il secolo
di transizione fra i due momenti: l'XI.
Siffatti atteggiamenti (che diventano per noi strumenti inabdicabili di interpretazione) ci
sembrano essere: innanzi tutto, l'incompiutezza del potere politico: in secondo luogo — e
conseguentemente — la relativa indifferenza del potere politico verso il diritto con la
conseguente autonomia di quest'ultimo e con un connesso accentuato pluralismo giuridico;
infine, 1a conseguente fattualità e storicità del diritto. Accompagnati da due certezze
fondamentali: l'imperfezione del singolo e la perfezione della comunità, il diritto come ordine,
ordine giuridico.
Questi atteggiamenti e certezze sono al cuore non del solo momento di fondazione ma
dell'intero medioevo, che ne sarà tutto sostanzialmente caratterizzato. Atteggiamento, invece,
specifico al cosiddetto Alto medioevo è il naturalismo-primitivismo in dipendenza di un
cospicuo vuoto di cultura giuridica: quando, dal secolo XII in poi la terra riconquistata e il
tessuto di strade e di città conferisce un nuovo volto all'Europa occidentale, quando una
grande fioritura scientifica sarà protagonista nella costruzione del diritto e vi sarà il cambio
di guardia fra il sensato ma grossolano pratico di ieri e il raffinato uomo di pensiero di oggi,
il primitivismo non potrà che essere relegato nei ricordi di un passato remoto. Resterà un forte
atteggiamento naturalistico e si ribadirà un convinto reicentrismo quasi a dimostrazione che
il primo medioevo ha forgiato durevolmente una coscienza giuridica e che questa coscienza è
medievale senza limitazioni temporali; ma sarà un naturalismo rivissuto e reinterpretato in
una trama sapienziale di altissima qualità speculativa.

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Sappia il lettore che sarà nostra cura accompagnarlo alla scoperta di una unità esperienziale
ma anche delle diversità nell'unità. Il medioevo ha una sua compattezza, ma non è ovviamente
realtà immobile; l'immobilità non si conviene alla vita. L'esperienza, questa esperienza, come
ogni esperienza, ha il suo momento formativo, la sua maturità, il suo declino. Le tappe, che
abbiamo di fronte e nelle quali abbiamo ritenuto di scandire il nostro approccio, sono soltanto
due: 'fondazione' ed 'edificazione', momenti diversi nella realizzazione di un grande progetto
unitario. Alla fine, monia dell'intero edificio storico risulterà limpida.
[...] Il primo fatto di civiltà - il più condizionante, il più incisivo - è rappresentato per lo storico
del diritto dalla crisi e dal crollo della solida ammirevole struttura statale romana, dal vuoto
politico che a quella crisi e a quel crollo è conseguito, dalle soluzioni politiche che, per l'intero
arco dell'esperienza medievale, a quel vuoto si sostituirono ma che quel vuoto né colmarono
né vollero colmare. La tipicità del medioevo giuridico riposa innanzitutto su questo relativo
vuoto, su quella che abbiamo qualificato nel titolo di questo paragrafo come l'incompiutezza
del potere politico intendendo per incompiutezza la carenza di ogni vocazione totalizzante del
potere politico, la sua incapacità di porsi come fatto globale e assorbente di tutte le
manifestazioni sociali, il suo realizzarsi nella vicenda storica medievale coprendo solo certe
zone dei rapporti intersoggettivi e consentendo su altre — e amplissime - la possibilità di
ingerenza di poteri concorrenti; con un processo che, annidandosi in origine nelle prime
incrinature dell'edificio statale romano, si dispiega in un volto assolutamente tipico nel
momento in cui le incrinature si cambieranno in un crollo effettivo e sulle rovine non si
edificherà più una struttura politica della stessa qualità e intensità.
In sostanza, parlando di incompiutezza del potere politico medievale, si vuol qui riproporre
in termini meno grossolani quella intuizione storiografica cui facevamo cenno a proposito
della fortuna presso i giuristi della proposta romaniana spesso grezzamente formulata e spesso
immotivatamente ma puntuale nella diagnosi essenziale, che si suole esprimere nella
affermata assenza dello 'Stato' dal proscenio politico medievale. E qui conviene soffermarsi
un poco per intenderci meglio. [...]
Il medioevo politico ha la sua inaugurazione storica, quando, col secolo IV, è il momento
d'avvio d'una profonda crisi dello Stato imperiale, fino a Diocleziano a stento rattenuta e
compressa ma che ora sbocca in manifestazioni sempre più rilevanti: crisi di effettività, di
autorità, di credibilità. Nel mondo postdioclezianeo resta soltanto uno Stato crisalide%
incapace di affermare la propria volontà ma ancora più incapace di esprimere quella volontà
unitaria, sostitutiva e intollerante di volizioni particolari concorrenti, che è tipica di ogni
struttura autenticamente statuale; ossia resta un non-Stato. Lo Stato romano muore, muore per
inazione, per un logoramento interno, che è materiale e spirituale, per un vuoto di potere
efficace e di programma voluto.
Quel che preme qui di sottolineare è che quel vuoto non sarà che parzialmente colmato per
tutto l'arco della vita storica del medioevo; e quando, col secolo XIV, la vocazione a un potere
politico compiuto - se vogliamo, allo Stato — rappresenterà il fermento delle strutture
politiche, quel momento sarà l'eclisse della civiltà politica medievale e l'inaugurazione dell'età
nuova.
Vogliamo con ciò soltanto dire che, fra le varie organizzazioni politiche che si contenderanno
d'ora in poi la guida della società, nessuna si presenterà agli occhi dell'indagatore
congiungendo in sé l'effettività del potere e la lucidità d'un programma politico

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onnicomprensivo, Avremo le più diverse forme di regime — signorie laiche, signorie
ecclesiastiche, città libere — avremo esempi di tiranni muniti di tutta l'assolutezza di poteri
umanamente pensabile od assetti oligarchici e 'democratici' con determinati poteri di evidente
origine pattizia, ma certamente non avremo mai la presenza d'un organismo totalitario,
naturalmente teso a controllare, regolare, assorbire ogni rapporto intersoggettivo che si
verifichi entro il suo definito oggetto territoriale.
La civiltà medievale non sentì l'esigenza di colmare il vuoto lasciato dal crollo dell'edificio
statale romano, non la sentì e non la poté sentire. Il mondo che affiorava sin da quel secolo
IV così fertile di sfaldamenti e di germinazioni era percorso e sempre più sarebbe stato
percorso da forze disaggreganti. Al moto centripeto dello Stato, che aveva unificato e raccolto
l'intera plaga mediterranea, si sostituiva un inarrestabile movimento centrifugo con una
generale riscoperta di valori, interessi, vocazioni particolari. La frantumazione degli elementi
coesivi del grande mosaico aveva sminuzzato anche le tessere più esili, e la realtà che sempre
più si stava definendo appariva all'insegna di un incredibile particolarismo politico,
economico, giuridico.
Né le nuove forze politicamente e socialmente protagoniste nel campo lasciato sgombro erano
in grado di porvi rimedio e di avviare un processo di ricostruzione statuale: da un lato, le
società germaniche serbavano in sé, anche dopo il trapianto mediterraneo, un patrimonio
ideale di regalità negoziata discendente dal principio fondamentale che identifica
l'organizzazione politica come una scelta di opportunità per la miglior guida della “nazione”
e perciò tale da non soffocare autonomie particolari di gruppi e famiglie; dall'altro lato, la
Chiesa Romana - struttura centralizzata e organicissima nel proprio ordine — non poteva che
paventare il risorgere d'un potere compiuto e favorire al massimo il particolarismo della
società civile. [...]
Il vero e più caratterizzante discrimine fra la monarchia, la signoria, il comune del genuino
medioevo e la nozione di Stato riposa non tanto in una relativa 'sovranità' o in una quantità di
apparato, ma piuttosto in una diversissima psicologia del potere. Lo Stato è un certo modo di
intendere il potere politico e i suoi compiti, è innanzi tutto un programma, un programma
globale o che, anche se globale non è, tende alla globalità; è la vocazione a far coincidere
l'oggetto del potere con la totalità dei rapporti sociali, è la vocazione a diventare un potere
compiuto, E questo ehi manca all'organismo politico medievale, che anzi è contrassegnato da
una sua incompiutezza proprio sul piano della concezione del potere, della rarefazione dei
suoi compiti, del marcato disinteresse per una larga zona del sociale. [...] Nel vuoto incolmato
dopo il crollo della costruzione politica romana riposa uno dei valori e forse il più rilevante
del nuovo assetto giuridico, sicché paradossalmente noi dobbiamo assumere un vuoto, un
crollo, una inerzia, forse una impotenza — circostanze che, guardate secondo modelli
prefabbricati, sono facilmente riconducibili a dei disvalori - come il privilegio storico, la zona
di quiete in cui l'officina medievale può lavorare senza impacci, preclusioni, prevenzioni, a
una architettura sostanzialmente nuova della esperienza giuridica. [...] Significa una
incredibile libertà del campo storico, una possibilità di azione autonoma per una pluralità di
presenze che all'ombra di un potere perfettamente compiuto sarebbero state vanificate se non
espropriate del tutto della loro autonomia. [...] il diritto, non più monopolio del potere, è voce
della società, voce di innumerevoli gruppi sociali ciascuno dei quali incarna un ordinamento

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giuridico, Un mondo di ordinamenti giuridici e cioè di realtà autonome', di realtà [...]
contrassegnate da 'autonomia'.
È una considerazione rilevante per chiarire il paesaggio politico giuridico, per fare pulizia di
schemi fuorvianti; e un altro termine-nozione viene a dimostrare la sua assoluta inidoneità:
intendiamo dire 'sovranità'. Se il medioevo giuridico è un mondo di ordinamenti, cioè di
autonomie di societates perfectae, direbbe san Tommaso, corifeo a fine Dugento della
antropologia medievale non dobbiamo dimenticare che carattere essenziale di ogni autonomia
è la relatività', si tratta cioè di indipendenze relative; relative ad alcuni ordinamenti ma non
ad altri. L'entità autonoma non appare mai come un qualcosa che per se stat, avulsa da tutto
il resto; anzi, è pensata al contrario — come ben inserita al centro di un fitto tessuto di relazioni
che la limita, la condiziona ma anche le dà concretezza, perché mai pensata come solitaria
bensì immersa nella trama di rapporti con altre autonomie. Il mondo politico-giuridico è
mondo di ordinamenti giuridici perché mondo di autonomie.
Poche frasi elementari ma bastevoli per farci rendere conto di quanto sia inadatto per quel
mondo il trapianto della nozione di 'sovranità'. Se la volontà veramente sovrana è quella
«volontà capace di agire su tutti gli oggetti senza che nessun diritto positivo sia in grado di
limitarla; è un ordine valido solo per la sua forma» (B. de Jouvenel, 1971), se si caratterizza
per assolutezza e astrattezza , una siffatta volontà non può aver cittadinanza nell'universo che
ci accingiamo esplorare, Al 'sovrano' si addice la solitudine in grazia di quella assolutezza e
di quella astrattezza, ma nel grande ordine medievale nessuno è mai pensato come una
monade isolata; lo stesso Pontefice Romano, il personaggio che, munito della plenitudo
potestatis conferitagli dalla scienza canonistica, può apparire come il più solo, deve quella
pienezza unicamente alla sua funzione vicaria, è ricolmo di potestà soltanto perché parte di
un rapporto vicariale che lo lega con Dio. Di una sola sovranità, assoluta, illimitata e pertanto
acontenutistica, si può parlare nell’'universo medievale: ed è quella di Dio, vero sovrano su
di un ordine terreno scandito invece in potestà necessariamente non sovrane. [...]
I contorni si fanno più netti; e conseguenze precise si delineano per il nostro tentativo di
comprensione storico-giuridica. Lo Stato da sempre ha capito la rilevanza del diritto, di tutto
il diritto, per il compimento dei suoi scopi 'totalitari' e l'ha sempre collocato all'interno dei
suoi programmi: se pure con manifestazioni sensibilmente differenti, riscontriamo uno stesso
atteggiamento di fondo sia nello Stato romano (dove ciò avviene attraverso vari canali
confluenti, primo fra tutti una ben inserita iurisprudentia), sia nello Stato liberale moderno,
dove il problema della produzione giuridica è sottratto ad enti diversi, riservato allo Stato
stesso, e risolto nella quasi sua interezza nell'unico canale obbligato della legge espressione
della volontà esclusiva del macrocosmo Stato. Esempio quest'ultimo che abbiamo qualificato
di autentico assolutismo giuridico malgrado le premesse economico-politiche di marea
squisitamente liberale.
Diverso, invece, profondamente diverso, l'atteggiamento del regime politico medievale, che,
privo di ansie e vocazioni totalizzanti) ci sembra al contrario ispirato a una relativa
indifferenza per il giuridico. Spieghiamoci meglio: non vogliamo affatto dite che il diritto
abbia un peso relativo nella civiltà medievale, affermazione che sarebbe smentita dalla
centralità di quello per la caratterizzazione di questa. Vogliamo dire soltanto che il detentore
del potere non concepisce il diritto in quanto tale come oggetto necessario delle sue attenzioni

86
e strumento irrinunciabile del suo regime; non lo identifica in un indispensabile instrumentum
regni.
L'attenzione del monarca, del signore, del comune medievale è rivolta prevalentemente a
quella zona del giuridico che è naturalmente vincolata all'esercizio e alla conservazione del
potere e che oggi identificheremmo nella nozione generica di “diritto pubblico”. Per tutto il
resto è evidente una relativa indifferenza e, se vogliamo, il rispetto implicito per altre fonti di
normazione. [...] La relativa indifferenza del detentore del potere politico per il diritto genera
una relativa autonomia di questo da quello. [...] Nell'accezione qui proposta non significa
neutralità del diritto né sua sottrazione al gioco delle forze storiche [...] significa soltanto che
il diritto non è l'espressione di questo o quel regime né delle sole forze che ad esso fanno capo,
anzi ne è in buona parte svincolato. La produzione, e l'adeguamento, dell'ordine giuridico
sono piuttosto legati alla pluralità e varietà di forze che compongono la società civile.
Autonomia qui significa dunque storicità autentica del diritto, capacità di interpretare e
rappresentare il gioco delle linee propulsive presenti nella società, insuscettibilità a essere
ridotto a voce di un principe, di un ceto ristretto, di una classe. [...] Se il legame con il potere
è parziale e sfumato, vivo e tipizzante è infatti quello con il costume, con le strutture
economiche, con i movimenti spirituali. [...]
Nella sempre crescente impotenza del meccanismo statuale romano, si infiacchisce tutto
l'apparato costrittivo, e le forze contenute e represse riprendono vigore e valore. Dal IV secolo
in poi gli storici rilevano e seguono un alveo 'volgare' del diritto che si delinea sempre più
netto e che viene a correre parallelo a quello 'ufficiale', con un movimento che, originandosi
dapprima nelle province più periferiche, si estende lentamente tutta la realtà dell'Impero.
'Volgarità' del diritto significa extrastatualità, ricorso a forze alternative per colmare il vuoto
lasciato dallo sfacelo politico; significa uno stile e una mentalità e anche costruzioni e
soluzioni che spontaneamente prendono forma nelle comunità particolari sostituendosi al
diritto ufficiale nel tentativo di rispondere adeguatamente alle nuove idealità e ai nuovi
bisogni. Il cosiddetto “diritto volgare” è cioè un filone alternativo: sono istituti vecchi che si
deformano, istituti nuovi che si creano, con un libero attingimento dal grande serbatoio della
vita quotidiana. [...] Complessità che, sul piano socio-culturale, significa pluralità di valori e,
su un piano giuridico, pluralità di tradizioni e di fonti di produzione all'interno di uno stesso
ordinamento politico. [...]
La 'legge' del principe si presenta, dunque, a noi come un canale minore per lo scorrimento
dell'esperienza giuridica medievale. Alla sua produzione, allora, contribuì in minima parte;
alla sua cognizione, oggi, non può che contribuire assai relativamente. La produzione del
diritto risiede soprattutto in altre mani, l'esperienza scorre in altri canali.
Né dobbiamo dimenticare che, proprio per la relativa indifferenza del potere politico verso il
diritto, il momento edificativo giuridico si contraddistingue per una sostanziale libertà. Al di
fuori di programmazioni e sistemazioni centralizzanti il diritto ritrova anche le sue scaturigini
dal basso, la sua natura di scansione spontanea d'un tenuto sociale. Senza più vincoli a
trattenerlo, amputarlo, condizionarlo, torna a nascere dai fatti e sui fatti. In un mondo dove il
potere politico sembra rinunciare al proprio compito ordinativo sul piano giuridico e dove
sono rarefatti i modelli da osservare, la sfera del giuridico e fattuale tendono a fondersi, la
dimensione della “validità” cede a quella dell"effettività'.

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Se validità significa rispondenza a certi archetipi, se gli archetipi si sono dissolti col
dissolversi dello Stato e della cultura precedenti, l'organizzazione giuridica dovrà riposare su
altre fondazioni. Il fatto non diventerà diritto perché una volontà politica se ne appropria dopo
aver constatato la sua coerenza a determinati valori per essa rilevanti, ossia dopo un vaglio
filtrante totalmente affidato a quella volontà. Il fatto qui è già diritto per una sua intrinseca
forza, nel momento in cui ha dimostrato la propria effettività, ossia la capacità trovata dentro
di sé di incidere durevolmente sull'esperienza.
In mondo così privo di involucri costrittivi il diritto si colora per una sua decisa 'fattualità”: il
che non significa dire che nasce dal fatto (che sarebbe osservazione banalissima), ma piuttosto
che il fatto stesso ha qui una carica così vitale da potersi proporre, senza concorso di interventi
estranei ma alla sola condizione di dimostrarsi dotato di effettività) come fatto autenticamente
normativo [...].
Il medioevo giuridico si origina precisamente nel clima di intenso naturalismo che, in
Occidente, dal secolo quinto in avanti, la fa da padrone. La natura delle cose fisiche e sociali,
non più repressa o sublimata, pretende di avere in sé la regola giuridica e assegna ai fatti, ai
fatti primordiali tra i quali gli uomini si muovono faticosamente nella loro vicenda terrena, un
ruolo primario. Se si pone per un momento attenzione al paesaggio storico che quei secoli ci
offrono, allo sfacelo politico, al disordine sociale, al concatenarsi di invasioni guerre epidemie
carestie, alla generale crisi demografica, alla penosa e stentata sopravvivenza quotidiana, la
natura delle cose fisiche e sociali, nella sua stabilità metaumana, appare come l'unica certezza,
l'unica guida e, in quanto tale, l'unica fonte di regole. [...]
Da tutto quanto abbiamo detto sinora, da ciascuna delle peculiarità fin qui poste in evidenza,
discende l'ultimo qualificante carattere del nuovo diritto: la storicità. E per storicità qui si
intende la fedeltà della rappresentazione giuridica alle forze circolanti e operanti nella società,
per cui il tessuto formale del diritto — lungi dal separarsi dalla società nel suo divenire — ne
segue, al contrario, il corso mantenendosi in stretta aderenza ai bisogni e alle idealità via via
emergenti nella vita associata. [...] Ai beni formali della generalità, della astrattezza, della
rigidità che sono le garanzie annesse alla legge moderna l'ordine consuetudinario medievale
contrappone l’esigenza della norma particolare e plastica in perfetta aderenza al corpo sociale.
[...] Sotto questo profilo, il diritto medievale, pur non essendo legato a questo o quel regime
politico e anzi essendone intimamente scardinato, si colora d'una intensa politicità. [...]

Brani tratti da P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Laterza, Roma-Bari 1995

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L'emergere dello stato nazionale dal feudalesimo è oggetto di una vasta ricerca specialistica e
di molti dibattiti; che non è mio proposito ripercorrere qui. Intendo, piuttosto, affrontare
problemi e interpretazioni particolari inerenti questo sviluppo, in modo da registrarne la
complessità; ciò dovrebbe servire a generare una griglia analitica utile alla comprensione di
ulteriori transizioni fondative, inclusi i processi di denazionalizzazione in atto. Un aspetto
cruciale dell'analisi è la geografia politica medievale con la pluralità delle sue logiche per la
valutazione di territorio, autorità e diritti. Tre forme di organizzazione politica caratterizzano
questo periodo — feudalesimo, Chiesa e Impero. Il crescente decentramento del feudalesimo

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interagì con le tendenze accentratrici di chiesa e impero. Tuttavia le capacità generate,
mobilitate e raffinate da ciascuna di queste logiche organizzative alimentarono o crearono
spazio per formazioni ancora diverse, inclusa la crescita esplosiva delle città, verificatasi nel
breve arco di novant'anni, o l'amor patriae risvegliatosi nel periodo medievale, forse una prima
esperienza di "Europa". [...] La decomposizione dell'ordine medievale ha avuto luogo in un
contesto in cui si è potuto dar forma a un nuovo ordine, e questo nuovo ordine non è
semplicemente caduto dal cielo né si è necessariamente creato ex nihilo, anche quando il
cambiamento includeva i processi violenti che chiamiamo rivoluzioni. Guerre e alleanze,
matrimoni, commercio e altri tipi di transazioni economiche che avevano contribuito a
modellare e costituire l'ordine feudale diventarono strumenti della sua decomposizione. ln
questo mutato contesto, guerre, alleanze e commercio poterono anche farsi parte costitutiva di
una logica indirizzata a un diverso assemblaggio di territorio, autorità e diritti: quello
rappresentato dalla monarchia territoriale e dalle città. Perché questi cambiamenti si
verificassero, tuttavia, dovevano entrare in gioco potenti dinamiche che riorientassero i
processi verso nuove logiche o razionalità sostanziali. È mia convinzione che la
denazionalizzazione attualmente in atto ridiriga in modo analogo, come cercherò di dimostrare,
capacità nazionali verso progetti globali.

Territorio, autorità e diritti nel Medioevo: una disamina


Ogni tipo di organizzazione politico-economica incarna specifiche caratteristiche relative a
territorio, autorità e diritti. Il Medioevo europeo è stato un periodo di interazioni complesse tra
forme particolari di fissità territoriale, l'assenza di un'autorità territoriale esclusiva, l'incrociarsi
di giurisdizioni multiple e l'incapsulamento dei diritti in classi di persone piuttosto che in unità
territorialmente esclusive. Nel periodo classico la territorialità, nel senso di dominio territoriale
esclusivo, era appannaggio delle città; le vecchie città-stato non erano solo territoriali, ma
avevano anche autorità esclusiva sul territorio. L’Impero romano aveva inserzioni territoriali e
un'autorità centralizzata, ma non confini fissi. Il modello prevalente nel Medioevo contemplava
giurisdizioni incrociate, il che impediva che la fissità territoriale diventasse dominio territoriale
esclusivo, Polanyi (1971) definisce succintamente il feudalesimo come caratterizzato dalle sue
molteplici unità, dall'economia di baratto e dall'emergere di legami personali. Tra tutte le
origini concepibili, è da questa configurazione che è emerso lo stato territoriale nazionale. Ma,
d'altra parte, il feudalesimo si era evoluto da una geografia politica plasmata da quel che un
tempo era stato un impero centralizzato.
Nel feudalesimo esisteva una sorta di autorità centrale di origine ecclesiastica e imperiale, ma
non era basata sulla territorialità, cioè su un'autorità territoriale esclusiva. Le due forme di
autorità potevano coesistere l'una con l'altra e con le giurisdizioni medievali, per quanto spesso
in modo conflittuale. Date le loro pretese di universalità, chiesa e impero non potevano
ammettere autorità rivali nelle rispettive sfere, ma tali sfere non erano fondate sulla
territorialità. Così, in definitiva, nel feudalesimo non esisteva una singola sorgente di autorità
suprema; va sottolineato però che esistevano un discorso e un progetto di autorità centrale sia
nell'impero sia nella chiesa, e fu questo progetto a essere infine riconfigurato dai re capetingi
quale elemento fondamentale nella costruzione dello stato territoriale nazionale e della sua
autorità sovrana. Per quanto la logica politica medievale non fosse definita dalla caratteristica
di un'autorità territoriale esclusiva, forme di organizzazione sociale e politica avevano

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inserzioni territoriali. Attori chiave controllavano spazi geografici quali feudi ed ecclesia (vale
a dire l'insieme delle città che erano sedi vescovili), e sotto questo aspetto potremmo descrivere
il panorama come caratterizzato da mini-sovranità di fatto sparse in un vasto sistema di
giurisdizioni spesso sovrapposte. Ma anche quando i signori avevano giurisdizione sui castelli
e sulle terre loro concesse, mancava loro un'autorità territoriale esclusiva. [...] Malgrado il
dominio fosse fondamentalmente non territoriale, particolari tecnologie belliche e il tipo di
guerre che condussero al feudalesimo contribuirono a territorializzare certi aspetti dell'autorità,
specialmente alcuni aspetti di conduzione della guerra. Ma lo fecero in modi diversi da quelli
dell'Impero romano e del sacro romano impero. [...] Né l'autorità si costituì mediante un sistema
astratto di dominio mediato da leggi formali. Nel Medioevo l'autorità era piuttosto basata su
legami reciproci, gerarchici ma non non chiaramente definiti. [...] I diritti e gli obblighi
particolari di un individuo o di un gruppo dipendevano dalla posizione entro un sistema di
legami personali e non dall'ubicazione in un'area particolare, anche quando tali legami
personali fossero concentrati in quella particolare località. Persino dove esisteva una qualche
forma di dominio geografico, come nell'economia signorile, esso non era né completo né
determinante, essendo solo uno dei molti sistemi di dominio ai quali una località poteva essere
soggetta; era inoltre largamente costituito attraverso relazioni personali fra il signore e i suoi
feudi. [...] Cruciale per sistema di autorità e di diritti incentrato su classi di persone piuttosto
che sul territorio è la distinzione fra coloro che sono autorizzati a far parte del sistema di
obblighi e di diritti e coloro che non lo sono. [...]
Così, per quanto nel Medioevo non esistesse un'autorità esclusiva determinata territorialmente,
almeno alcune delle multiple giurisdizioni sovrapposte aspiravano allo status di autorità unica
e superiore. Le rivendicazioni di universalità della chiesa e dell'impero interagivano con la
geografia sempre più decentrata dei signori feudali e dell’ecclesia. Ciascuno di questi cruciali
attori politici aveva una propria specifica organizzazione dell'autorità, per condiviso che fosse
il territorio. Le unità territoriali ecclesiastiche erano ritagliate entro i confini delle vecchie unità
imperiali. Ma la chiesa in quanto comunità di credenti non riconosceva limiti geografici alla
sua autorità. In quanto organizzazione era centrata sia sulla sua rete di diocesi, sia su una
gerarchia che faceva capo a Roma. La caduta dell’Impero, fonte di autorità secolare
universalizzante, vide l'installarsi della chiesa nella stessa geografia costituita da un misto di
unità religioso-etniche e amministrative. Come l'amministrazione imperiale che in parte
sostituì, l’organizzazione della chiesa si basava su un'infrastruttura di luoghi chiave per
l'ecclesia o i vescovadi. Benché la chiesa venissa funzionare in modi spesso simili a quelli
dell'impero prima di lei, il processo di sostituzione fu complesso, non un semplice passaggio
amministrativo. Il Sacro romano impero non si limitava ad appellarsi alla stessa base della
chiesa, ma aveva legittimato il suo potere reclamando per sé uno status semi religioso. [...]
Oggi pensiamo che l'esclusività dell'autorità dello stato sia legata al territorio e che gli stati
nazionali abbiano pari giurisdizione. In entrambi i casi la questione dei confini territoriali
diventa di importanza fondamentale. Nessuna delle due caratteristiche costituiva un fattore
significativo nella geometria politica dei signori feudali, della chiesa e dell’impero. Persino i
confini dell'Impero romano non erano quel che considereremo confini oggi, particolarmente
sotto l'aspetto della parità di giurisdizione, Paul de Lapradelle distingue utilmente tra la
limitazione di dominio autoimposta, volontariamente praticata dall'Impero romano e la
demarcazione territoriale stabilita per mutua intesa tra due sovranità. [...] Altra caratteristica di

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questo periodo è un'assenza di distinzione fra politica interna e politica estera. [...] Il concetto
di frontiera non ha ancora posto in quello che potremmo definire diritto pubblico
internazionale; esisteva solo nel diritto pubblico interno dell'impero. [...] Anche quando
esisteva un orientamento verso un dominio territoriale, come nel caso dei Capetingi, tale
dominio era problematico. A parte la sua mancanza di esclusività, la questione dei confini era
scarsamente considerata. Spesso i confini territoriali non erano chiari o continuavano a
espandersi ben oltre il dominio del re. L'autorità era esercitata su persone sul territorio (Hallom
1980). L'acquisizione di autorità sul territorio era spesso soggetta ai rapporti personali che
conferivano a un certo individuo l’autorità su un dato terreno geografico. La lealtà individuale
e collettiva al sovrano e alla chiesa divenne il contesto essenziale della struttura sociale e
politica.
Nel Medioevo il moderno concetto di territorio nazionale era ancora lontano dall’essere
sviluppato. [...] Dal XV secolo territorio e comunità cominciano ad essere associati a città e a
una dimensione più materiale [...] Le città articolano due tipi di geografia: una rete urbana
translocale e una geografia di centralità rispetto a un hinterland. [...] È assodato che l'espansione
del commercio, quello di lunga distanza in particolare, sia stato determinante per lo sviluppo,
in numero e importanza, delle città (Pirenne 1967). [...] Questa forma di sviluppo territoriale
fu, a livello aggregato, un tipo di economia politica. La fondazione di alcune delle nuove città
fu guidata dal tentativo di evitare il dominio feudale ed ecclesiastico. I mercanti se ne andarono
dalle città esistenti e ne crearono di nuove, chiamandole “borghi nuovi” per distinguerle dalle
vecchie fortificazioni feudali; i loro abitanti furono così chiamati borghigiani. [...] I fondatori
di queste città, abbandonando le sole strutture di partecipazione politica del tempo,
rinunciavano a ogni potere politico; tuttavia questa crescita urbana rappresenta l’ingresso di
una nuova forza politica «giustapposta alle due che finora dominavano (signori territoriali;
signori e vassalli feudali), e di cui entrambe dovevano tenere conto, se non altro nel tentativo
di giovarsene come alleata per spostare a proprio vantaggio l’instabile e contrastato equilibrio
di potere» (Poggi 1978, pp. 67-68). [...]
La crescita del numero di città avvenne in un breve arco di tempo: ottanta o novant’anni [...] Il
rapido proliferare delle città e l'emergere dei borghigiani quali significativi attori politici ed
economici tipici di questo periodo ebbero luogo in un vasto panorama che includeva una
molteplicità di formulazioni sociali e codici morali precedenti, e in modo particolare quelli
della monarchia, dei feudi e della chiesa. Né le pratiche materiali degli abitanti delle città, né i
loro sistemi di credenza si accordavano con il più ampio ordine istituzionale e concettuale in
vigore. [...] ln secondo luogo, l'economia politica della territorialità urbana includeva diversi
tipi di organizzazione e di alleanze. Le città francesi si allearono con il re, quelle tedesche
crearono leghe cittadine e non si allearono né con il re né con i signori, e gli italiani crearono
città-stato autonome, alcune delle quali disponevano di un proprio grande esercito. Eppure,
malgrado questa diversità, riusciamo a individuare un tipo di economia politica territoriale
radicalmente diversa da quella di uno stato sovrano, A loro volta, entrambe sono diverse da
quelle dei regimi feudali e non territoriali dell'impero, della chiesa e della nobiltà. [...]
Il complesso regime territoriale implementato grazie alla proliferazione delle città è un
ingrediente attivo nella formazione dello stato territoriale sovrano. [...] Le città medievali
divennero sede di nuove culture politiche e, soprattutto, giuridiche che diedero spessore al
regime territoriale urbano e lo istituzionalizzarono. Esaminando la storiografia delle città in

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questo periodo, Berman trova che, nonostante l'enorme diversità delle città nell'Europa
nordoccidentale, «tutte erano governate da un» sistema di diritto cittadino» istituito dai cittadini
(1983, p. 357). Tutto ciò è significativo se consideriamo che dalla metà dell’XI all’inizio del
XIII secolo furono fondate circa cinquemila nuove città. [...]
Le città erano simili agli stati moderni in quanto disponevano di una vasta gamma di autorità -
esecutive, giudiziarie e legislative - che si occupavano di questioni economiche, militari c di
ordine pubblico ed erano soggette a restrizioni formali riguardo a tali autorità. [...] Possiamo
pensare alle città medievali, specialmente nell'XI e nel XII secolo, come centri commerciali e
produttivi che promuovevano una particolare cultura economico-politica. [...] Attraverso
queste pratiche si costituirono forme incipienti di cittadinanza: la città può essere considerata
come un luogo di fervore e di innovazione della politica. Con l'andare del tempo queste pratiche
si estesero poi di là del soggetto del borghigiano - il membro della communitas urbana — e
alimentarono forme di appartenenza politica nazionale, In queste prime fasi i borghigiani
emersero come attori politici informali che chiedevano e istituivano protezioni e garanzie
maggiori di quelle concesse loro da autorità superiori. Attraverso le loro rivendicazioni e il loro
lavoro, si costituirono come soggetti portatori di diritti.
Oltre alle spiegazioni storiche generali delle forze economiche e sociali che alimentarono la
crescita delle città voglio sottolineare tre aspetti che contribuiscono illustrare la specificità di
questa economia politica della territorialità urbana. Il primo è che gli insediamenti urbani di
allora non erano unità politicamente e legalmente distinte. Secondo Pirenne (1971) nell'anno
1000 non esistevano città nell'Europa occidentale; esistevano agglomerati urbani a economia
agricola locale privi di status specifico. A differenza di questi primi insediamenti, le città del
tardo XI e del XII secolo divennero centri di un nuovo modo di produzione e di distribuzione
e si costituirono sempre più come entità politicamente e legalmente identificabili. Il secondo
aspetto è il rapido incremento dell'eccedenza della popolazione dedita all'agricoltura, causa
degli aumenti della produttività, il che fornì un'offerta di popolazione “urbana”, nel senso che
le sue sussistenze non venivano più dalla campagna. Questa condizione creò i propri incentivi
al tipo di innovazione politica ed economica che vediamo nascere in queste città e alimentò
l'esplosione commerciale dell'XI e del XII secolo, venendone a sua volta alimentata. Infine,
molti altri soggetti terzi - re, signori, papi, vescovi - poterono trarre beneficio da questo
incremento in numero e ricchezza delle città, giungendo spesso a istituire nuove città per
assicurarsi forze militari e risorse economiche. Benché nessuna di queste condizioni fosse
nuova in sé e per sé, nell'XI e nel XII secolo esse si mescolarono in un modo particolarmente
dinamico e produttivo. Il convergere di svariati interessi sulla città comportò, inoltre, che re e
signori spesso inserirono negli statuti clausole che permettevano loro di mantenere il controllo
sui cittadini, che però vi si opposero, riuscendo talvolta ad attenuarlo.
[...] Ne La città, Weber è interessato a esaminare un tipo di città le cui condizioni e dinamiche
forzino residenti e governanti a risposte e adattamenti creativi e innovativi. Sostiene inoltre che
i cambiamenti prodotti nel contesto cittadino segnalino trasformazioni in un contesto più
ampio: esse possono influenzare profondamente il verificarsi di trasformazioni spesso
fondamentali, che poi investono la società in generale. [...] Per Weber le città sono un insieme
di strutture sociali che incoraggiano innovazione sociale e individualità, e dunque sono
strumenti di cambiamento storico. [...] Per Weber, le città del tardo Medioevo combinano le
condizioni che spinsero i residenti urbani, i mercanti, gli artigiani, i governanti all'innovazione

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politica. Queste trasformazioni riuscirono produrre un cambiamento epocale ben oltre la città
stessa [...] Sotto questo aspetto, le lotte su questioni politiche, economiche, legali e culturali
centrate sulle realtà delle città possono catalizzare nuovi sviluppi transurbani in tutti i seguenti
domini istituzionali: i mercati, le forme partecipative di governo, i diritti dei membri della
comunità urbana indipendentemente dalla nascita, il ricorso alle vie legali, le culture
dell'impegno e la deliberazione. Il particolare elemento analitico che voglio estrapolare cla
(questo aspetto dell'interpretazione e della teorizzazione weberiana della città è la storicità delle
condizioni che rendono le città siti strategici per l'attuazione di importanti trasformazioni in
svariati domini istituzionali. [...] Questa contestazione da parte di soggetti relativamente privi
di potere in confronto ai nobili, alla chiesa e al sovrano costituisce un esempio di quella che
ritengo complessità della condizione dei senza potere, anche se in questo caso si trattava di
un'assenza relativa. Essa ci mostra che le pratiche degli esclusi sono uno dei fattori che
contribuiscono a fare la storia.

Brani tratti da S. Sassen, Territorio, autorità, diritti: assemblaggi dal Medioevo all’età
globale, Mondadori, Milano 2008

VISIONI E LETTURE CONSIGLIATE


K. Follet, I pilastri della Terra (romanzo:1989, adattamento televisivo: 2010)

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FONDAZIONI E ISTITUZIONI

CHIARA D’ASSISI (1194-1253)


Diversi testimoni al processo di canonizzazione di Chiara d’Assisi, svoltosi pochi mesi dopo
la sua morte, ricordarono con una certa intensità una preoccupazione più volte manifestata
dalla donna santa nei mesi precedenti il trapasso. Disse ad esempio sora Filippa, terza
testimone: “E lo Privilegio de la povertà, lo quale li era stato concesso, lo honorava con molta
reverentia et guardavalo bene e con diligentia, temendo de non lo perdere” (Proc. III). Mentre
sora Balvina: “Delo amore et Privilegio de la povertà, disse quello medesimo che la predicta
sora Phylippa” (Proc. VII). [...] La fortuna per gli storici consiste nel fatto che le sorores di
Chiara hanno ben obbedito nei secoli al desiderio della loro madre ed hanno conservato una
lettera pontifica, consultabile ancora oggi presso il Protomonastero di Assisi, che è con tutta
verosimiglianza il privilegio cui facevano riferimento le testimoni al processo di
canonizzazione. La traduzione di questo documento è la seguente:

Gregorio vescovo, servo dei servi di Dio, alle dilette figlie in Cristo, Chiara e alle altre ancelle di
Cristo, riunite nella chiesa di San Damiano, nella diocesi di Assisi, salute e l’apostolica benedizione.
Come è palese, desiderando essere consacrate al Signore solo, avete rinunciato alla brama delle cose
temporali. Per questo, vendute tutte le cose e distribuite ai poveri, vi proponete di non avere
assolutamente nessun possedimento, per aderire in tutto alle orme di colui che per noi si è fatto povero,
via, verità e vita. Né la mancanza di mezzi vi spaventa [da allontanarvi] da un simile proposito. Infatti
la sinistra dello sposo celeste è sotto il vostro capo, per sostenere le debolezze del vostro corpo, che
per mezzo di una retta carità avete sottomesso alla legge della mente. Infine, colui che pasce gli uccelli
del cielo e riveste i gigli del campo, non vi farà mancare il vitto né il vestito, finché passando a servire,
vi offrirà se stesso nell’eternità, quando cioè la sua destra vi abbraccerà più felicemente nella pienezza
della sua visione. Ordunque, come avete implorato, avvaloriamo col favore apostolico il vostro
proposito di altissima povertà, con l’autorità della presente vi accondiscendiamo, perché non possiate
essere costrette da alcuno a ricevere possedimenti.

[...] Come ha scritto Chiara Frugoni, “fu uno scontro drammatico, quello tra Gregorio IX e
Chiara, rimasto ben vivo nella memoria delle consorelle… Quel colloquio non fu senza
conseguenze. Chiara non si piegò per quanto riguardava il nucleo centrale della sua fedeltà a
Francesco e a se stessa, e ottenne che il pontefice confermasse il «privilegio dell’altissima
povertà” (FRUGONI 2006, 34). [...] Una simile risposta al papa da parte di una donna era
cosa inaudita in una società che non dimenticava l’insegnamento apostolico: “Come in tutte
le comunità dei fedeli, le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare;
stiano invece sottomesse, come dice anche la legge” (1 Cor 14, 34). L’autore della Legenda
versificata dà una giustificazione che è al passo con la migliore teologia del periodo: Chiara
ha risposto così perché ispirata direttamente dallo Spirito Santo. In quegli stessi anni
Tommaso d’Aquino in diverse occasioni aveva ricordato che “talvolta l’ufficio della profezia
è concesso [anche] alle donne” “prophetiae officium aliquando mulieribus est concessum”
(SANCTI THOMAE DE AQUINO, 1996). Non ci sono dubbi, in ogni caso, che tra il
pontefice e la donna di Assisi si sia trattato di un colloquio molto difficile. [...]

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I precedenti dell’incontro del 1228
La Legenda di Tommaso da Celano, poco prima del brano in cui narra l’incontro tra Chiara e
Gregorio IX, parla di una speciale iniziativa di Chiara, che si sarebbe rivolta ad un precedente
pontefice. [...] Riassumendo i dati in nostro possesso, si potrebbe ipotizzare il seguente
sviluppo del problema della difesa giuridica della povertà da parte di Chiara. In un primo
momento a San Damiano si vive la povertà francescana con la stessa radicalità dei primi frati
(descritta dalla Regula non bullata) ma senza nessuna garanzia giuridica. In un secondo tempo
non c’è motivo di non pensare che Chiara abbia potuto far giungere, per interposta persona,
una richiesta a Innocenzo III per ottenere un qualche riconoscimento di tale forma di vita
povera. È stato recentemente ipotizzato che il papa si sarebbe divertito davanti a una simile
richiesta e si sarebbe messo di persona a scrivere non certo la minuta di un documento, ma
più semplicemente una prima noticina, una notula, un appunto senza alcun valore giuridico,
ma in cui forse si ipotizzava un divertissement da esperto giurista: un privilegio in cui si
affermasse il diritto di non essere costretti ad avere privilegi. Si trattava di una approvazione
si, ma senza altro valore giuridico, esattamente come era avvenuto per la regola dei frati di
Francesco, che era stata approvata solo oralmente.

Il diritto di non avere diritti


[...] Riassumiamo i fatti: nel luglio 1228 Gregorio è ad Assisi per la canonizzazione di
Francesco e si incontra con Chiara, le propone di garantire possedimenti per la sua comunità
religiosa, ma riceve in risposta un fermo rifiuto; nel settembre dello stesso anno, da Perugia,
lo stesso papa riconosce in qualche modo le ragioni di Chiara e le invia la bolla con il testo in
cui si approva e si conferma il suo propositum vitae. Chiara era così riuscita a farsi approvare
in un documento ufficiale una scelta che andava contro ogni regola giuridica.
[...] È necessario soffermarsi sul sintagma altissima paupertas, che ha un precedente
importante in Francesco d’Assisi. Si trova in un contesto solenne: il capitolo VI della Regola
bollata:

I frati non si approprino di nulla, né casa, né luogo, né alcuna altra cosa. E come pellegrini e forestieri
in questo mondo, servendo al Signore in povertà ed umiltà, vadano per l’elemosina con fiducia. Né
devono vergognarsi, perché il Signore si è fatto povero per noi in questo mondo. Questa è, fratelli miei
carissimi, l’eccellenza dell’altissima povertà, che vi costituisce eredi e re del regno dei cieli, facendovi
poveri di cose e ricchi di virtù. Questa sia la vostra porzione che vi conduce alla terra dei viventi (RB
VI)7.

[...] Il Propositum altissimae paupertatis di Chiara non è altro che il propositum di Francesco:
la decisione di vivere in profonda povertà. Il papa Gregorio IX non fa altro che corroborare
con il favore apostolico questa scelta di profondissima povertà. [...] Anche l’espressione ‘vi
proponete di non avere assolutamente nessun possedimento, per aderire in tutto alle orme di
colui che per noi si è fatto povero’ è contenutisticamente vicina a quella della Regula bullata:
‘vadano per l’elemosina con fiducia, né devono vergognarsi, perché il Signore si è fatto
povero”. Si tratta di un passo molto importante per Chiara, al punto che lo inserirà alla lettera
nella sua Forma vitae, limitandosi solo a sostituire l’espressione “vadano per l’elemosina”
con quella, più consona ad una comunità non itinerante, “mandino per l’elemosina” (RSC

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VIII, 2). [...] Nessun dubbio quindi sembra esserci sul fatto che il documento pontificio, per
sua natura un atto giuridico, sia anche un testo rivelatore del propositum vitae delle sorores
di San Damiano. [...] Emanuele Coccia, nel 2004 ha scritto che la povertà francescana

non è la semplice rivendicazione della povertà materiale, ma la definizione di una relazione con il
mondo che è impossibile articolare giuridicamente. Come pensare questo spazio di anomia assoluta,
come pensare l’articolazione non giuridica del mondo e della relazione che si intrattiene con esso?
Facendo riferimento ad una tradizione antica, quella secondo la quale, nello stato di eccezione (tempus
necessitatis) è sospeso ogni diritto di proprietà, individuale o collettiva. I francescani definivano la
povertà come la scelta perpetua di un simile stato. La forma vitae dei frati minori non fa che, per
così dire, estendere o generalizzare il tempus extremae necessitatis (lo stato d’eccezione) a tutta la
durata di una vita (COCCIA, 2004/5, p. 425-6).

Le idee di Emanuele Coccia sono state riprese e sviluppate da Giorgio Agamben, in un saggio
intitolato proprio Altissima paupertas, nel quale, tra le altre cose, scriveva:

Emanuele Coccia… ha definito la novità e, insieme, l’aporia del francescanesimo nella forma di un
“paradosso giuridico”. Se proprio del monachesimo in generale è il tentativo di costituire ad oggetto
del diritto non tanto le relazioni fra i soggetti o fra i soggetti e le cose, quanto la vita stessa nella sua
relazione alla propria forma, la specificità del francescanesimo consisterebbe nel fare di un dispositivo
giuridico, qual è, secondo Coccia, la regola, l’operatore di un “vuoto giuridico”, di una sottrazione
radicale della vita alla sfera del diritto (AGAMBEN, 2011, p. 142).

[...] La vera rilevanza della lettera di Gregorio IX risiede nel fatto che in questo caso il diritto
si è visibilmente lasciato piegare dalla vita, un po’ come era accaduto per la Religiosam vitam
eligentibus di Onorio III con la quale il papa nel 1223 aveva approvato la Regola dei frati
minori. Non è forse un caso che l’interlocutore in ambedue le circostanze sia stato Ugo dei
Conti, dapprima come cardinale e poi come papa. È infatti opera di un grande giurista quella
di sapere accogliere in un ordinamento sempre in fieri come quello pontificio, un testo che
descrive una vita che supera e si differenzia da tutte le forme giuridiche già normate in
precedenza. La difficoltà nel 1223 non consisteva soltanto nel fatto che pochi anni prima, nel
1215, il Concilio Lateranense IV aveva formalmente vietato l’approvazione di nuove forme
di vita religiosa se non con una delle regole già approvate, ma anche, e forse ancora di più nel
fatto che Francesco andava cercando un documento giuridico che garantisse, a sé e ai suoi
frati, di vivere al di là di ogni determinazione giuridica. Il cardinale Ugo di Ostia si fece
garante dell’operazione da una parte attraverso la fictio giuridica di affermare l’avvenuta
approvazione della Regola da Innocenzo III prima del divieto del Concilio, ma dall’altra
ottenendo dal nuovo papa una bolla (anzi la bolla Religiosam vitam eligentibus, che era la
bolla tradizionale di approvazione delle comunità religiose) per un testo che andava al di là
dei tradizionali criteri giuridici. L’operazione avvenuta nel 1228 (cioè solo cinque anni dopo
i fatti appena ricordati) appare del tutto analoga, con la differenza che Ugo nel frattempo è
diventato papa e quindi ha un ruolo e un potere diversi.
Il vero protagonista degli avvenimenti del 1228 però, sotto tutti i punti di vista, non è il
pontefice, ma Chiara. È lei che resiste alle profferte del papa, che pure deve aver fatto leva
sulla sua conoscenza dell’intentio di Francesco. È lei che presumibilmente, insieme alle sue

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sorores, redige la petitio con la richiesta di approvazione del suo propositum di profondissima
povertà. Ed è a lei personalmente che il pontefice indirizza la Sicut manifestum. Anche il fatto
che il suo nome sia espressamente richiamato nell’indirizzo ha infatti la sua importanza. Se
c’è una grandezza da riconoscere a Gregorio IX in queste circostanze è proprio quella di aver
finito con il dar ragione alla donna di Assisi.
Le clarisse della Federazione dell’Umbria e della Sardegna hanno sottoposto il testo della
forma vitae ad un’indagine accurata [...]. Da tutto questo lavoro sono emerse alcune
osservazioni di grande interesse [...] le sorores che parteciparono al lavoro di stesura della
forma vitae dovevano avere competenze linguistiche e giuridiche sufficienti per compiere le
loro scelte con piena consapevolezza. Questi risultati sono molto interessanti perché
rovesciano alcuni luoghi comuni circa le competenze culturali delle donne nel XIII secolo.
[...] Le importanti acquisizioni circa il livello di consapevolezza giuridica e linguistica delle
sorores di san Damiano, non devono però far perdere di vista il dato di fondo che resta quello
di un testo, quello della forma vitae, che, pur essendo di sua natura giuridico, vuole
consapevolmente andare al di là di una logica meramente giuridica.
[...] Per rendersi conto di tutto questo è sufficiente porre a confronto i due testi che, più di
ogni altro, hanno determinato la vita concreta delle sorores di San Damiano: la Forma vivendi
scritta dal card. Ugo di Ostia (futuro Gregorio IX) e la forma vitae di Chiara [...] Si comprende
così la diversa finalità delle due formae vitae: quella del cardinale aveva lo scopo di evitare
possibili deviazioni o rilassamenti dalla durezza della scelta di vita originale, quella di Chiara,
partendo dal presupposto che ogni soror non avrebbe scelto una simile vita se non lo avesse
fatto di sua piena libertà, si preoccupa di sostenere e incoraggiare la scelta fatta. Una vuole
prevenire il delitto, l’altra vuole sostenere la virtù. Alla fin fine le differenze fondamentali
sembrano essere due: la prima consiste nel fatto che la forma vitae del card. Ugo è stata scritta
da qualcuno che non doveva viverla, quella di Chiara, al contrario è il frutto di una vita
lungamente vissuta insieme; la seconda è che Ugo, in risposta alla scelta, ispirata da Dio, delle
sorores pensa bene di dare una legge, mentre Francesco, in risposta alla stessa scelta, pensa
bene di impegnarsi in una relazione di amore. La legge e l’amore sono solo apparentemente
due cose distinte: è chiaro che Francesco e con lui Chiara conoscesse bene l’espressione
paolina: “pieno compimento della legge è l’amore” [Rm 13,10]. Il problema sorge quando,
come nel caso di Francesco d’Assisi (e dietro a lui Chiara), si voglia tradurre l’amore in diritto.
Di fatto si apre così una nuova classe concettuale giuridica, con l’individuazione di un ambito
che dice e disdice la formalità del diritto. [...]
Il paradosso giuridico di Chiara (in ciò degna erede di Francesco) è tutto qua: ottenere dal
papa il diritto di vivere il vangelo, senza che alcuno possa imporre a lei e alle sue sorores una
scelta di vita diversa. Si potrebbe dire: il diritto di vivere senza diritti o, forse meglio, il diritto
di vivere il vangelo e, in definitiva, il diritto di essere libera.

Brani tratti da M. Bartoli, Chiara d’Assisi e il diritto di non avere dei diritti, in “Opsis”,
2017-11-01, Vol.17 (2), p.142
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CHRISTINE DE PIZAN (1364-1430 circa)

Cristina da Pizzano, meglio conosciuta con la versione francese del nome Christine de Pizan,
è un’autrice particolare, donna del XIV secolo che per prima si trasformò in scrittrice di
professione, occupandosi anche di problemi e questioni politiche. Christine nasce a Venezia
nel 1365, riceve un’educazione fuori dall’ordinario dal padre, Tommaso, il quale non le
insegnò semplicemente a leggere e scrivere, cosa già singolare a quei tempi nei casi di figlie
femmine, ma l’appassionò allo studio rendendola partecipe del suo sapere. Il processo di
apprendimento durò fino al matrimonio di Christine, che approfittò di questa opportunità
anche se non tanto quanto avrebbe potuto. Fu più tardi lei stessa a ricordarlo con rimpianto,
lamentando di non aver pienamente tratto vantaggio dalle conoscenze del padre e di non aver
raccolto della sua sapienza altro che “poche briciole cadute dal tavolo”. In quanto donna si
dovette accontentare di monetine, spiccioli della grandissima ricchezza culturale paterna
“raccolti in un piccolo gruzzolo”, come lei stessa scrive. Tutto quello che riuscì a racimolare
dall’educazione ricevuta dal padre e dal suo impegno notevole la mise in grado di diventare
la prima scrittrice di mestiere della storia. Evidentemente fornita di doti naturali, quando la
fortuna cambiò la sua vita dandole un’impronta meno favorevole, seppe mettere a frutto le
sue conoscenze e le sue relazioni, diventando un’intellettuale di portata europea. Christine si
autodefinisce donna italiana, ma la sua storia è molto legata alla Francia. Il padre Tommaso
era nato a Bologna e si laureò in medicina nel 1343. Docente presso l’università di Bologna
soggiornò poi a Venezia fino alla nascita di Christine nel 1365. Dopo un breve periodo
trascorso a Bologna, accettò nel 1368 l’invito a trasferirsi a Parigi dove morì nel 1387. Quando
Christine aveva poco più di tre anni, quindi, partirono alla volta di Parigi, alla corte del re
Carlo V di Francia, di cui lei stessa scrisse una bellissima biografia.
Giovanissima, Christine venne data in moglie ad un nobile di nove anni più grande di lei, che
divenne segretario del notaio. Dopo dieci anni di felicissimo matrimonio, nel 1390 Christine,
a soli venticinque anni, rimase vedova e con tre figli. La madre, rimasta vedova anch’ella, da
accudire e ulteriori problemi economici, produssero mutamenti tali da investire la sua stessa
identità, determinando, a suo dire, una sorta di mutazione sessuale: “ora io fui un vero uomo,
non è una storia, capace di guidare navi, la fortuna mi ha insegnato questo mestiere”.
Christine iniziò a scrivere non per sua scelta, ma perché così aveva voluto la sorte, tanto da
divenire protagonista della vita intellettuale del proprio tempo. Fu per colpa degli eventi che
s’era trovata a scrivere testi nei quali parlava di voci che indicavano cosa fare e descriveva
soggetti che la inducevano ad agire. La prima fase dell’opera letteraria di Christine è
caratterizzata dalla produzione di ballate. Nella seconda fase che dura fino al 1405, compone
la biografia di Carlo V e lunghi poemi in versi, ma anche La Città delle dame e Le Livre des
Trois Vertus. Nella terza fase, che va approssimativamente dal 1405 al 1412, Christine scrive
trattati più esplicitamente politici: da Le Livre du Corps de Policie al Libro della pace.

Un’anticipazione del concetto di stato di natura?


Nelle sue opere Christine scrive che grazie alla dama Cerere
“natura umana è il profitto con cui il rude selvaggio diventò civile e cittadino e gli ingegni degli
uomini che stavano in caverne d’ignoranza mutarono ed aspirarono all’altezza di contemplazione”.

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Scrive ancora:
“La gente di allora, abituata a vivere qua e là per i boschi e lande selvagge come le bestie, venne
riunita da lei in gran numero e istruita a costruire le case e le città, dove poter vivere tutti insieme.
Così, grazie a questa dama, l’epoca selvaggia si trasformò in una più umana e ragionevole.
Chi potrà mai acquisire fama più grande di chi ha condotto gli uomini nomadi e selvaggi, che
abitavano nei boschi come le bestie feroci senza leggi né giustizia, a vivere nelle città e nei centri,
insegnando loro il rispetto delle leggi? […]
Grazie a quella dama l’umanità ebbe anche il vantaggio della trasformazione di un mondo
selvaggio in civile e cittadino”10.

Nelle opere di Christine si trova un’anticipazione del tema dello stato di natura, descritto
come un luogo storico in cui gli uomini vivevano in modo selvaggio e bestiale e da cui essi
sono usciti attraverso un atto di fondazione di una società civile, che quindi non sarebbe il
risultato di una naturale socievolezza dell’uomo, ma di un’azione volontaria. Inoltre, ulteriore
elemento di originalità, è l’attribuzione della creazione di uno stato civile all’azione della dea
Cerere, che avrebbe agito come motore della conoscenza, della tecnica e delle arti domestiche,
illuminando gli uomini circa la possibilità di vivere in comunità stabili. Sembra quasi che
Christine voglia dimostrare che senza l’intervento della divinità Cerere – che rappresenta
l’elemento femminile della fecondità, delle messi, dell’agricoltura – gli uomini, intesi come
genere e non come umanità, non sarebbero stati in grado di fondare la città. Pertanto, la
fondazione della città – e della politica – è risultato di un’azione femminile.
La città è il luogo della civiltà, una civiltà che viene ricondotta al sapere delle donne, che
inventano le arti, la tessitura, la scrittura, la poesia, le armi, che sanno trasformare un mondo
selvaggio e bestiale in civile e cittadino. La città è il luogo della legge e Cerere ha anche il
merito di aver condotto l’umanità verso una società regolamentata dal diritto.
Vi è quindi stretta relazione tra il progresso sociale ed il sapere, relazione che viene portata a
compimento attraverso personaggi femminili, dimostrando un’interessante originalità di
pensiero ponendosi più di sei secoli fa in un’ottica che potremmo definire di genere.

La virtù è femminile
Come tutti gli scrittori morali, anche Christine riserva un’attenzione particolare alla virtù,
confermando però, nelle conclusioni che ne trae, l’ottica di genere. In tutte le sue opere è
presente, sotto varie forme e con vari esempi, l’esortazione a vivere secondo virtù, perché come
dice Cicerone solo la virtù è duratura e perciò le ragioni che si possono portare al vivere bene
dovrebbero essere fondate sulla virtù, perché di certo la sorte non può essere contraria a colui
che preferisce affidarsi alla virtù piuttosto che alla fortuna e al caso.
La prima radice di virtù è la prudenza, da questa nascono le altre sei che sono giustizia,
magnanimità, forza, clemenza, liberalità e verità. Nessun bene è senza ragione. La virtù, che
è bene sovrano, non è altro che giusta ragione. Ragione, dice Seneca, segue natura; ne segue
dunque che tutte le cose devono fondarsi sulla ragione o prendere avvio da questa ragione
figlia di Dio che è la prudenza.

10
CHRISTINE DE PIZAN, La Città delle Dame, I, XXXVI-XXXVIII, Carocci, 2004, pp. 176-183.

99
Ragione: Sophia. Com’è noto i civilisti ed i giuristi medievali amavano in genere giocare con
l’idea di Ragione e venerarla insieme alla giustizia come antiche divinità. Nel prologo
dell’opera dello scrittore morale Piacentino, Quaestiones de iuris subtilitatibus, appartenente
al genere letterario delle visioni poetiche, egli erige un monumento letterario alla dea del diritto,
descrivendo la bellezza e la maestà del Templum Iustitiae, che finge di aver scoperto in un
boschetto in cima ad una collina. In questo tempio dimorano Ragione, Giustizia ed Equità,
insieme alle sei virtù civili. L’analogia con l’opera di Christine è evidente. Ma la struttura di
questo tempio è quella di un banchetto celeste, quasi a voler dimostrare, come scrive
Kantorowicz11, che queste virtù non possono appartenere al governo degli uomini. O meglio,
gli uomini possono attuare le virtù, le possono seguire e Christine ne dà esempi soprattutto
nella figura del Re Carlo V, ma l’attenzione di Christine è sull’incarnazione delle virtù.
Se le donne – attraverso Cerere che ha permesso agli uomini di superare la propria bestialità
facendo riconoscere in se stessi la natura umana socievole e facendoli vivere in comunità stabili
attraverso l’opera delle donne dedite all’agricoltura e alla cura della famiglia – sono un esempio
concreto di virtù, un governo femminile potrebbe incarnare tali virtù. Tanto che Christine fa
abitare la ‘Città delle dame’ dalle grandi donne della storia, passata e presente, che hanno –
appunto – incarnato le virtù. Quando le donne hanno governato – sembra dire Christine – tali
virtù sono diventate umane ed hanno permeato il vivere civile.
Inoltre, se fino a questo momento l’ambito mistico costituiva l’unico accesso delle donne ad
una “parola ascoltata”, attraverso l’opera di Christine la presenza delle donne nell’ambito
della speculazione filosofica presenta anche altri caratteri oltre a quelli tradizionalmente
riconosciuti come passionalità, emotività, corporeità, e quindi altezza speculativa, astrazione
mentale, razionalità. Christine propone – esattamente come in ambito mistico - quale propria
fonte di legittimazione una “voce esterna”, ma tale voce ha una rappresentazione corporea e
dalle sembianze femminili. La Sophia dell’antico testamento è vicina a Dio, è generata prima
di ogni creatura e viene raffigurata che “gioca dinanzi al suo volto”. La Sapienza, dunque,
quale prima creatura di Dio, costituisce la rivelazione di Dio al femminile12 ed è utilizzata da
Christine come elemento di legittimazione e di autorevolezza per la costruzione della ‘Città
delle dame’, ma anche come fondamento del suo discorso politico più ampio. [...] Nel Livre
de la Cité des Dames, trattato morale composto verso il 1405 e nella stessa epoca del Livre
des Trois Vertus, Christine ha raccontato la maniera in cui tre figure femminili, Ragione,
Rettitudine e Giustizia, sono apparse in una visione, consigliandole di far costruire una città
ideale fondata sui principi che esse incarnano. La regina di Francia ed altre dame nobili
saranno invitate ad abitare questa città. Lungo il discorso sono citati numerosi esempi di dame
celebri, tratti dall’Antichità, dalle Sacre Scritture, dall’agiografia e dalla storia.
Nell’opera Christine domanda a dama Ragione il motivo per cui le donne non si occupano
attivamente della giustizia. Ragione risponde fornendo all’autrice una serie di esempi storici
a dimostrazione di quanto questa affermazione, comunemente diffusa, sia infondata. Si

11
Cfr. E. H. KANTOROWICZ, I due corpi del Re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale,
Einaudi, 2012.
12
Cfr. G. M. CROPP, «Les personnages féminins tirés de l’histoire de la France dans le Livre de la Cité
des dames”, Une femme de lettres au Moyen Âge. Études autour de Christine de Pizan, éd. Liliane
Dulac et Bernard Ribémont, Orléans, Paradigme (Medievalia, 16), 1995, pp. 195- 208.

100
avvicendano, dunque, la regina Fredegonda che, in attesa della maggiore età del figlio, ha
attuato un ‘saggio governo’; Bianca di Castiglia “saggissima, ed in ogni caso buona”, regina
tra le più amate per la sua virtù, prudenza e bontà, applicate all’esercizio del potere con un
altissimo senso politico; Giovanna d’Evreux, di cui afferma che “nessuno tenne meglio la
giustizia e custodì meglio la sua terra”; Bianca di Navarra che “mantenne la sua terra ed il
suo governo con grande ordine di diritto e di giustizia”; Maria moglie di Luigi duca d’Angiò,
re di Napoli e di Sicilia, che si è mostrata “di grandissimo governo e sovranità prudente, e
forte e costante di coraggio” quando “mantenne [la Provenza ribelle] sotto l’ordine di diritto
senza fare alcuna ingiustizia”; Caterina di Vendôme e di Castres, “buona e saggia” che si
occupò anch’ella di giustizia.
Attraverso l’elencazione e la descrizione delle capacità di governo di queste reggenti,
Christine, per voce di Ragione, intende dimostrare che vi sono molte donne “che hanno
migliore intendimento e più viva considerazione e giudizio di molti uomini”, tema che
riprende, approfondendolo, nel Livre des Trois Vertus.
È sempre Ragione che illustra le opere e la saggezza di governo e di giustizia delle dame della
Cité.

La virtù è sempre presente nella storia. Eternità delle virtù. Infatti, come si è detto, la ‘Città
delle Dame’ si compone di un quadro allegorico e di una serie di ritratti femminili che
simboleggiano le pietre di una città ideale, somigliante alla città di Dio di Sant’Agostino: la
città che Christine intende edificare affinché tutte le donne virtuose vi siano accolte13. L’opera
mostra un certo sincretismo relativamente alla disposizione dei personaggi: i personaggi
mitici, biblici o storici sono mescolati, di modo che si ha come l’impressione che le frontiere
del tempo e dello spazio siano abolite. [...] L’intelligenza è potenza e operazione dell’anima,
come dice Sant’Agostino, donata da Dio singolarmente, in misura maggiore ad alcuni più che
da altri, rappresenta l’inizio, l’origine della prudenza. Compito dell’intelligenza è conoscere,
dalla conoscenza viene discrezione, che è madre e guida e la prima delle virtù. È una virtù
grazie alla quale si può conoscere ciò che è buono e ciò che è malvagio, si può distinguere il
bene dal male.

Virtù per il buon governo. Una pedagogia in chiave politico-morale


Nelle opere di Christine risalta l’opposizione oscurità-luce, palesata anche attraverso
l’immagine dell’oscurità della camera dove Christine è ritirata che si trova rischiarata dalla luce
portata dall’apparizione delle tre dame, Ragione, Rettitudine e Giustizia.
È Ragione che illustra le opere e la saggezza di governo e di giustizia delle donne della Cité.
La Ragione esprime la nuova virtù che Christine intende dimostrare. La virtù, come per
Socrate, non è un semplice adeguarsi ai costumi, alle abitudini e nemmeno alle convenzioni
generalmente accolte, ma deve, invece, essere qualcosa di motivato razionalmente, di
giustificato e fondato sul piano del logos, sicché virtù è uguale a conoscenza, la più elevata
conoscenza, cioè la scienza di ciò che è bene e utile per l’uomo14.

13
Cfr. A. SLERCA, “Dante, Boccace et le Livre de la Cité des dames de Christine de Pizan”, Une femme
de lettres au Moyen Âge, op. cit., pp. 221-230.
14
Cfr. G. REALE, Socrate. Alla scoperta della sapienza umana, Rizzoli, Milano 2000

101
La virtù di governo è guidata dalla Ragione. Il saggio è colui che saggiamente compie buone
opere e non colui che conosce solo la teoria senza essere in grado di agire, quindi il saggio
unisce teoria e pratica, mentre il sapiente conosce solo teoricamente, ma non ha la saggezza
politica. “Se la sapienza è entrata nel tuo cuore – scrive Christine – consiglio ti proteggerà e
prudenza ti salverà”. L’intelligenza è una virtù grazie alla quale si può conoscere ciò che è
buono e ciò che è malvagio, si può distinguere il bene dal male, scegliendo il bene per quanto
è utile ed eliminando il male per quanto è nocivo. Lo scrive anche nell’opera su Carlo V,
quando a partire dal giorno della sua incoronazione:

“Per grazia di Dio e per un dono speciale della divina ispirazione, egli fu illuminato dalla vera
conoscenza che gli permise di distinguere il chiaro dallo scuro, il bello dal brutto, il bene dal male:
ispirato sulla retta via della salvezza, ricacciò la cieca giovinezza nel mare dell’ignoranza”.

Il discernimento, la discrezione è figlia di Dio ed ha il compito di dividere in ugual misura


tutte le cose, vuole che ai buoni siano riconosciuti i meriti e che i malvagi siano puniti. Essa
genera un’ottima figlia, ovvero prudenza. È utile ai beni spirituali e a quelli corporali e grazie
ad essa si desidera conoscere Dio e le cose propizie alla salvezza e metterle in opera, amarlo
e temerlo. Attraverso la prudenza si vuole operare un’altra virtù che ne dipende e proviene,
la circospezione, che è necessaria prima di compiere qualsiasi azione e in tutto quanto ci si
voglia accingere a fare. Con queste virtù si ottiene il buon governo. Infatti della prudenza e
del buon ordine di vita del principe possono avvalersi tutti i sudditi sia per il buon esempio
quanto per il fatto di essere ben governati.
Il buon re, infatti, come Carlo V, deve seguire l’esempio di Gesù Cristo, che

“preferiva richiamare e far ravvedere le sue genti con la dolcezza e castigarle benignamente piuttosto
che intervenire con il timore e il rigore: li rimproverava, quindi, di persona gentilmente e
benevolmente li rimetteva sulla retta via”15.

La virtù dell’intelletto è più nobile della forza fisica. Governare come ‘agire secondo le leggi’
presuppone la Saggezza, e governare come ‘arte del comando’ presuppone l’esercizio del
Potere. Si tratta, quindi di impostazioni in contraddizione, ma che con l’opera di Christine si
possono completare e compenetrare. Governare non si deve confondere con dominare. Il potere
è considerato come una sorta di compito, di dovere legato all’ufficio del governo, con la
formula regere et corrigere. In tale ufficio di governo, essere giusti è una regola d’azione al
fine del bene comune. Emerge, dunque, come dominante il criterio della giustizia, regolato
dalla Sapienza, ovvero la conoscenza spirituale del bene e del male. Non solo: la Sapientia
applicata alla politica è essenzialmente prudenza, preveggenza e stessa abilità. Scrive Christine
ne Le Livre du Corps de Policie:

“Più avanti inizierò a parlare per grazia di Dio dell’ordine di vivere che afferisce ai nobili ed ai
cavalieri. E anche a tutto l’universale popolo, talché questo genere di stato dovrebbe essere in un
solo corpo politico […].Plutarco, […] in una lettera inviata all’imperatore Traiano, paragona la cosa

15
CHRISTINE DE PIZAN, La vita e i buoni costumi del saggio Re Carlo V, Carocci, 2010, pp. 93-94.

102
pubblica ad un unico corpo avente vita, in cui il principe o i sovrani hanno il compito del capo intanto
che sono diventati sovrani e devono raggiungere i singoli accordi, tutti così come l’intendimento
dell’uomo udente e vedente osserva le opere che le membra compiono. I cavalieri e i nobili hanno il
compito delle mani e delle braccia. Così come le braccia dell’uomo sono forti per sostenere lavoro
e dolore, essi devono avere la forza di difendere il diritto del sovrano e la cosa pubblica, così come
le mani eliminano ogni cosa nociva e gettano ogni cosa malfatta ed inutile. Le altre persone del
popolo sono come il ventre, i piedi e le gambe. Così come il ventre riceve tutto quello che preparano
il capo e le membra, così l’esercizio del principe e dei nobili si deve riflettere nel bene e nell’amore
pubblico così come più avanti sarà chiarito, e così come le gambe ed i piedi sostengono il corpo
umano allo stesso modo i lavoratori sostengono tutti gli altri stati”16

Ne Le Livre du Corps de Policie, che nel titolo rimanda alla metafora da tempo in circolazione
della comunità politica come corpo, trova piena espressione il suo sostegno alla monarchia –
il sovrano il capo è del corpo politico – e la sua paura nei confronti delle classi inferiori.
Christine intende lo Stato come un’unione armonica delle varie parti che lo costituiscono,
come un unico corpo le cui funzioni sono garantite dall’armonia tra le parti e dal corretto
movimento delle singole componenti in un unico movimento. Per poter far regnare la pace e
la giustizia, il re è giudice. Ed egli è anche legislatore. Il suo potere, precisamente, lo deriva
da Dio attraverso la mediazione del sacro e dell’incoronazione, ma lo riceve per occuparsi
essenzialmente delle questioni umane. E deve utilizzare il suo potere servendo la virtù più
cara a Dio: la carità. La carità, che è la rappresentazione dell’amore divino, è tra le virtù “la
più gradita a Dio” e lo si comprende – scrive Christine poco più avanti – “da ciò che è stato
scritto del nobile imperatore Traiano, che ho più volte citato per il suo valore. Egli era
pagano e perseguitava i cristiani credendo di fare del bene (come faceva San Paolo prima
della sua conversione), come coloro che seguono la legge di natura, non conoscendo la fede
di Cristo”17. Egli, scrive Christine, fece cessare il martirio per spirito di carità e proprio in
virtù della sua carità e della sua compassione meritò la salvezza attraverso la preghiera
fervente di san Gregorio.
Riepilogando velocemente i punti toccati dell’opera di Christine si deduce che per l’Autrice
la Sapienza è a capo di tutte le scienze e la Prudenza è l’arte dell’ordine della politica. La
Sapienza è Saggezza, ovvero conoscenza delle cause prime e dei principi primi. La Prudenza
è in diretto rapporto con la Saggezza e l’arte di governare si distacca da una concezione
ministeriale, ovvero di amministrazione del governo, per acquisire una dimensione che è
conoscenza ed azione politica, in un continuum tra cultura e politica. Sapienza e Prudenza
sono guidate da Carità, che è l’immagine dell’amore di Dio. Gli autori degli Specchi dei
Principi, mossi da intenti pedagogici volti a collegare il discorso etico a quello politico,
collocavano la loro opera sul piano morale; Christine colloca la virtù al centro del suo sistema
concettuale pedagogico- morale, in anni nei quali la forza dettava comportamenti ineguali.
Con la rilevante differenza, rispetto a molti suoi contemporanei, che ella prende in
considerazione nel modello educativo anche il popolo e le donne, lasciando intravedere una

16
CHRISTINE DE PIZAN, Le livre du corps de policie, édition critique par Robert - H. LUCAS, Genève,
Librairie Droz, 1967, pp. 2-3.
17
CHRISTINE DE PIZAN, La vita e i buoni costumi…, op. cit., p. 108.

103
propensione nuova: l’educazione del popolo, al fine di contribuire al mantenimento della
pace. Introducendo l’articolazione del suo Libro della Pace in tre parti, Christine mette subito
in chiaro il suo intento pedagogico. Infatti, nella prima parte esorta a continuare la pace con
la virtù di prudenza e ciò che essa richiede per il governo di un principe; nella seconda parte
parla di nuovo in lode del bene della pace per esortare monsignore di Guyenne a tenere i
principi e i cavalieri in concordia con tre virtù, cioè giustizia, magnanimità, che è detta nobile
cuore, e forza; infine, nella terza parte parla di come ben governare il popolo e la cosa pubblica
con tre altre virtù, cioè clemenza, liberalità e verità. Scrive, inoltre, una serie di esortazioni al
principe a mantenere la pace “poiché è inevitabile che ogni regno perisca se vi regna il
dissenso, è cosa certa che con il contrario, pace e amore, è preservato e protetto nel tempo”18.
Grande lode al principe che sa bene gestire il bene della pace, che si muove a vantaggio di
ciascuno e non è disprezzata da nessuno, anzi è amata da tutti. La sua classe politica ideale è
moderata, colta, capace di apprezzare la bellezza e il vivere civile: il principe per primo,
temprato alla scuola delle virtù, non deve mai schiacciare il popolo, ma anzi deve amar il suo
bene. Il modello quindi che Christine assume è quello espresso nell’opera su Carlo V: “un
saggio governante favorito dalla sorte, forte come una catena, buona guardia e difensore del
bene del suo popolo”19. Ma quello che Christine intende dimostrare è la presenza della virtù
indipendentemente dal dato sessuale di colui o colei che è chiamato a governare. Attraverso
la lettura dei suoi testi, si può forse parlare di un’anticipazione della dialettica uguaglianza-
differenza.

Anticipazione della dialettica uguaglianza-differenza


Le virtù non hanno genere, e non solo: la virtù è femminile. L’intellettuale è il fondamento
della saggezza, ma non ne è il fine. Questo concetto appare chiarificato ne Le livre du corps de
policie in cui Christine mette in evidenza che nell’educazione del principe l’insegnamento
morale deve prevalere sul sapere propriamente detto. La scelta del precettore è, dunque,
fondamentale20. Ma se la donna, educatrice e feconda per natura (Cerere), incarna la perfetta
virtù, quindi la morale, acquisisce pari se non maggiore dignità dell’erudizione fine a se stessa
sfoggiata dai filosofi misogini. Christine, pertanto, lodando la maniera in cui le sagge e sante
dame della Cité impiegano la loro libertà e la loro autorità a vantaggio dei loro sudditi,
evidenzia l’aspetto essenzialmente femminile che ne caratterizza l’azione: l’amore, che si
riflette nel matrimonio, nell’educazione dei figli e nel governo di uno stato. Quella che era
considerata debolezza femminile, assume in Christine un valore inverso dandole autorevolezza.
Emerge, in forma embrionale, l’enunciazione del valore della differenza femminile nell’ambito
di un’uguaglianza di possibilità.
Per questo alla donna è affidato il compito di educare i figli, impegno morale più che
intellettuale. Christine scrive per la formazione dei futuri governanti e in generale degli
uomini e delle donne chiamati a restaurare quei valori che erano in crisi, con l’obiettivo di
formare le generazioni future al riconoscimento della dignità delle donne e di quelli che ella
18
CHRISTINE DE PIZAN, Libro della Pace col Poema di Giovanna d’Arco, a cura di Bianca Garavelli,
Medusa, 2007, p. 33.
19
ID., La vita e le buone opere…, op. cit., p. 138.
20
Cfr. C. BRUCKER, Le monde, la foi et le savoir…, op. cit

104
riteneva essere i valori fondamentali dello Stato: Saggezza e Prudenza. Spostando il discorso
sul piano pedagogico, agiva su quello politico, attraverso l’affermazione: “tu sei politico,
perché apprendi a ben vivere”, e proponendo l’esempio della saggia principessa che nel Livre
des Trois Vertus, istruita, abile ed eloquente, saprà mantenere o ristabilire la pace tra il
principe, suo marito, ed i suoi sudditi, lasciando intendere che la principessa giocherà il suo
ruolo al meglio in quanto risponde a qualità tipicamente femminili – quelle della relazione e
della mediazione – che gli uomini non sempre possiedono21, e facendo, così, lascia entrare a
pieno titolo la morale sociale nell’ambito della trattazione.
La donna, infatti, è considerata nel suo ruolo sociale. Ella sa rendersi utile per la società, anche
nei campi tradizionalmente riservati agli uomini: come si è detto, mostra un’attitudine per il
governo di uno stato, per l’organizzazione di una campagna militare; ma soprattutto la sua
azione è civilizzatrice e creatrice. Il personaggio della regina di Saba è emblematico.
Diversamente dalla tradizione, viene rappresentata come una governante abile, legislatrice e
civilizzatrice:

“Questa dama fu quella che primariamente cominciò a vivere nel suo regno secondo leggi
ordinate, e distrusse e pose fine alle rudi maniere di vivere dei luoghi in cui ella governò, e ammendò
le rudi usanze degli Etiopi bestiali”.

Brani tratti da R. Fidanzia, Christine de Pizan: una pedagogia morale per l’ordine dello
Stato, in «Femininum Ingenium. Collana di Studi e ricerche. Pensiero femminile: storie
e teorie» Volume 1 / 2012

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LE STREGHE E LO SVILUPPO DEL CAPITALISMO


Perché le persecuzioni erano dirette principalmente contro le donne? Come si può spiegare che
per tre secoli migliaia di donne in Europa divennero la personificazione del «nemico interno»
e del male assoluto? E come riconciliare l’onnipotente, quasi mitica immagine che gli
inquisitori e i demonologi crearono delle loro vittime – dipinte come creature infernali,
terroriste, mangiatrici di uomini, asservite al Demonio, che cavalcavano selvaggiamente i cieli
sulle loro scope – con la figura indifesa delle donne reali accusate di simili crimini e poi
torturate e bruciate al rogo?
Una prima risposta a queste domande riporta la persecuzione delle streghe agli sconvolgimenti
causati dallo sviluppo del capitalismo, e in particolare allo smantellamento delle forme
comunitarie di agricoltura prevalenti nell’Europa feudale, e all’impoverimento che travolse un
ampio settore della popolazione rurale e urbana come conseguenza dell’avanzare
dell’economia di mercato e dell’espropriazione delle terre.

21
Cfr. L. DULAC, “La figure de l’écrivain dans quelques traités en prose de Christine de Pizan” Figures de
l’écrivain au Moyen Âge. Actes du colloque du Centre d’études médiévales de l’Université de Picardie, Amiens,
18-20 mars 1988, éd. Danielle Buschinger, Göppingen, Kümmerle (Göppingen Arbeiten zur Germanistik, 510),
1991, pp. 113-123.

105
Secondo questa teoria, le donne furono le maggiori vittime in quanto furono le più immiserite
da tali cambiamenti – soprattutto le donne più anziane, che spesso si ribellavano al
declassamento e all’esclusione sociale e che costituivano la gran parte delle accusate. In altre
parole, le donne venivano accusate di stregoneria perché la ristrutturazione dell’Europa feudale
e l’avvento del capitalismo annientavano i loro mezzi di sussistenza e le basi del loro potere
sociale. Molte di loro vennero lasciate prive di risorse e dipendenti dalla carità dei più ricchi,
in un periodo in cui i legami comunitari andavano disgregandosi e si faceva strada una nuova
morale che tendeva a criminalizzare l’elemosina e a svalutare la carità, considerata invece il
sentiero verso la salvezza eterna nel mondo medievale.
Tale lettura, articolata per la prima volta da Alan Macfarlane nel suo Witchcraft in Tudor and
Stuart England (1970), si può certamente applicare a molti dei processi alle streghe. C’è senza
dubbio una relazione diretta tra alcuni casi di persecuzione e il processo delle enclosures, come
si evince dalla composizione sociale delle imputate, dalle accuse mosse nei loro confronti e
dalla comune caratterizzazione della strega come una donna anziana e povera che vive da sola
e dipende dalle donazioni dei vicini, piena di amarezza e risentimento per la sua
marginalizzazione, e pronta a minacciare e maledire coloro che si rifiutavano di aiutarla – i
quali immancabilmente la accusavano di essere responsabile di ogni loro disavventura.
Tuttavia un simile quadro non ci spiega come queste miserabili creature possano aver suscitato
così tanta paura. Inoltre non considera che molte tra le accusate venivano incolpate per aver
commesso trasgressioni sessuali o crimini riproduttivi (come l’infanticidio e l’aver causato
l’impotenza maschile), e che tra le condannate c’erano donne che avevano raggiunto un certo
grado di potere nella comunità, come guaritrici popolari e levatrici, oppure esercitando pratiche
magiche come il ritrovamento di oggetti smarriti e la divinazione.
Oltre alla resistenza, alla pauperizzazione e alla marginalizzazione sociale, quali altre minacce
rappresentavano le «streghe» agli occhi di coloro che ne pianificarono lo sterminio? Per
rispondere a questa domanda dobbiamo considerare non solo il conflitto sociale, ma anche la
radicale trasformazione di ogni aspetto della vita sociale che lo sviluppo del capitalismo ha
generato, a partire dalle relazioni riproduttive e di genere tipiche del mondo medievale.
Il capitalismo è nato dalle strategie che le élite feudali – la Chiesa, i proprietari terrieri e i
mercanti – misero in campo in risposta alle lotte del proletariato urbano e rurale che, nel XIV
secolo, mettevano in crisi il loro dominio. Fu una «controrivoluzione» che non solo soffocava
nel sangue le nuove richieste di libertà, ma creava un nuovo sistema di produzione che
richiedeva una ridefinizione dei concetti di lavoro, ricchezza e valore, funzionale a più intense
forme di sfruttamento.
Fin dal suo esordio, quindi, la classe capitalista ha dovuto affrontare una doppia sfida. Da un
lato, ha dovuto rispondere alla minaccia rappresentata dai contadini espropriati diventati
vagabondi, mendicanti e braccianti senza terra pronti a ribellarsi ai nuovi padroni, soprattutto
nel periodo tra il 1550 e il 1650, quando l’inflazione causata dall’arrivo di oro e argento dal
Nuovo Mondo accelerò a livelli incontrollabili, facendo salire alle stelle i prezzi dei generi
alimentari, mentre i salari calarono in proporzione. In un simile contesto, la presenza in molte
comunità contadine di donne anziane, risentite per la loro condizione penosa, che andavano di
porta in porta borbottando parole di vendetta, poteva senza dubbio essere percepita come una
matrice di trame cospiratorie.

106
D’altra parte il capitalismo, in quanto sistema di produzione che individua nello sfruttamento
del lavoro umano la principale fonte di accumulazione, non poteva consolidarsi senza forgiare
un nuovo tipo di individuo e una nuova disciplina sociale atta a incrementare la produttività del
lavoro. Ciò ha comportato una battaglia storica contro tutto ciò che poneva un limite al pieno
sfruttamento del lavoratore, a partire dalla rete di rapporti che legava gli individui al mondo
naturale, alle altre persone e ai loro stessi corpi.
La chiave di tale processo è stata la distruzione della concezione magica del corpo che aveva
prevalso nel Medioevo. Questa concezione attribuiva al corpo poteri che la classe capitalista
non poteva sfruttare, incompatibili con la trasformazione dei lavoratori in macchine da lavoro
e potenziali strumenti di resistenza a un simile processo. Si trattava dei poteri sciamanici che
le società precapitaliste e agricole hanno attribuito agli individui o a individui considerati
speciali, e che in Europa sono sopravvissuti nonostante secoli di cristianizzazione, spesso
assimilati ai riti e alle credenze cristiane.
È in questo contesto che deve essere inquadrato l’attacco mosso alle donne con l’accusa di
stregoneria. A causa del loro particolare rapporto con il processo di riproduzione, alle donne,
in molte società precapitaliste, si è attribuita una speciale capacità di comprensione dei segreti
della natura, che presumibilmente le rendeva abili a dare la vita e la morte e a scoprire le
proprietà nascoste delle cose. Praticare la magia (come guaritrici, curatrici popolari, erboriste,
levatrici, creatrici di filtri d’amore) era anche, per molte donne, una fonte di occupazione e
senza dubbio una fonte di potere, sebbene le esponesse a ritorsioni quando i loro rimedi non
avevano successo.
Questo è uno dei motivi per cui le donne diventarono i bersagli principali nel tentativo
capitalista di costruire una concezione del mondo più meccanicistica. La «razionalizzazione»
del mondo naturale – presupposto per una disciplina del lavoro più irreggimentata e per la
Rivoluzione Scientifica – passava per la distruzione della «strega». Anche le indicibili torture
a cui sono state sottoposte le donne accusate acquisiscono un significato diverso se le
interpretiamo come una forma di esorcismo contro i loro poteri.
In questo quadro dobbiamo anche collocare la rappresentazione della sessualità femminile
come qualcosa di diabolico, la quintessenza della «magia» femminile, che è centrale nella
definizione di stregoneria. La classica interpretazione di questo fenomeno lo attribuisce alla
curiosità e al sadismo sessuale degli inquisitori, presumibilmente generati dalle loro vite
ascetiche e repressive. Ma sebbene la partecipazione degli ecclesiastici alla caccia alle streghe
sia stata fondamentale per la costruzione della sua impalcatura ideologica tra il XVI e il XVII
secolo – e cioè quando più intensa fu la caccia alle streghe in Europa – la maggioranza di
processi vennero condotti da magistrati laici, pagati e nominati dai governi delle città. Per
questo, è lecito domandarsi che cosa rappresentasse la sessualità femminile agli occhi della
nuova élite capitalista, in vista del suo progetto di riforma sociale e dell’istituzione di una più
severa disciplina del lavoro.
Si può abbozzare una prima risposta guardando ai regolamenti introdotti nella maggior parte
dell’Europa occidentale tra il XVI e il XVII secolo per quanto riguarda il sesso, il matrimonio,
l’adulterio e la procreazione. Se ne deduce che la sessualità femminile veniva vista sia come
minaccia sociale sia, se opportunamente canalizzata, come una potente risorsa economica.
Come i Padri della Chiesa e gli autori domenicani del Malleus Maleficarum (1486), la nascente
classe capitalista doveva degradare la sessualità e il piacere femminili in quanto forze

107
incontrollabili […]. Questo è il leit motiv di ogni demonologia, a cominciare dal Malleus
Maleficarum, forse il testo più misogino mai scritto.
Cattolica, protestante o puritana, la nascente borghesia ha portato avanti questa tradizione, ma
con un’innovazione. La repressione del desiderio femminile veniva ora posta al servizio di
obiettivi utilitaristici, come la soddisfazione dei bisogni sessuali degli uomini e soprattutto la
procreazione di un abbondante forza lavoro. Una volta che il suo potenziale sovversivo fu
esorcizzato attraverso la caccia alle streghe, la sessualità femminile potè essere recuperata nel
contesto matrimoniale e indirizzata a fini procreativi.

Brano tratto da S. Federici, Caccia alle streghe, guerra alle donne, Nero 2020

VISIONI E LETTURE CONSIGLIATE


V. Evangelisti, Nicolas Eymerich, inquisitore (romanzo, 1994)

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IL RINASCIMENTO

MACHIAVELLI
Machiavelli, Niccolò (1469-1527). Letterato e pensatore politico italiano. Esordisce nella vita
pubblica di Firenze nel giugno del 1498, quando viene nominato segretario della seconda
cancelleria della Repubblica fiorentina; poco dopo, svolge un ruolo istituzionale anche agli
ordini dei Dieci di Balia. Tali incarichi comportano missioni nel campo della politica estera e
degli affari di guerra. Infatti, Machiavelli si reca presso le principali corti italiane e presso
quelle del re di Francia e dell'imperatore. Questa «lunga esperienza delle cose moderne»
(Principe, dedica) è da lui riversata nelle relazioni ufficiali e nei primi scritti politici. Con il
ritorno dei Medici a Firenze è costretto a ritirarsi a vita privata. Dai nuovi padroni riceve solo
impieghi occasionali e l'incarico di scrivere le Istorie fiorentine, che presenta nel 1525 a papa
Clemente VII. Notevole testimonianza del pensiero politico di Machiavelli è anche
l'epistolario, soprattutto quello con Francesco Vettori e con Guicciardini.
Machiavelli è pensatore della struttura aporetica della politica, realisticamente consapevole
delle pieghe antinomiche dell'esistenza umana. Libertà e necessità, virtù e fortuna, politica e
morale, passioni e ragione sono contraddizioni della realtà che non possono essere composte
in una illusoria sintesi conciliativa. Spia linguistica di tale concezione del mondo è la
predilezione per le metafore dell'ambivalenza: per esempio, Chirone il centauro e il politico
metà volpe e metà leone (Principe, XVIII). Da tale visione della «verità effettuale» deriva
l'impossibilità di una scienza politica, perché la prassi non corrisponde all'uniformità di leggi
immutabili. Se la natura umana è sempre stata la stessa e sempre lo sarà, ciò non implica una
sua invariabilità. In effetti, la combinazione delle sue componenti — istinti, sentimenti, ragione
— cambia continuamente senza alcun criterio prefissato. La stessa previsione, che secondo
Machiavelli è la virtù principe dell'uomo politico, non è assicurata da alcuno statuto
epistemologico. Innanzi tutto, essa non è tutelata, come la profezia, da una garanzia
trascendente; ma nemmeno da un determinismo naturalistico, per esempio astrologico. La
previsione è un azzardo razionale che si misura con la casualità dell'agire.
La politica, per Machiavelli, è un'arte, ossia una tecnica. Non a caso egli la paragona all'arte
medica. In effetti, al medico (così come al politico) pertengono tre compiti: l'anamnesi (la
ricognizione del passato), la diagnosi (l'osservazione empirica), la prognosi (il «vedere
discosto» in cui si esercita la «prudenza» del politico). Il politico, analogamente al medico, si
cimenta con un corpo (corpo politico), attraversato da umori e passioni, i quali non devono
essere soffocati, ma valorizzati per la conservazione e l'espansione dell'organismo.
La politica machiavelliana costituisce un itinerario della prima modernità alternativo al
modello meccanicistico elaborato da Hobbes. Essa si confronta non con un automa
algebricamente regolabile, ma con un corpo vitale, privo di un ordine definito, in cui la crisi è
sempre immanente. Inoltre, diversamente da quella hobbesiana, la concezione machiavelliana
non palesa un'intenzione neutralizzante, e in quanto tale 'nichilistica', che azzera il conflitto,
ma anzi lo preserva e tesaurizza.
Ancora, in Machiavelli risulta impensabile qualsiasi filosofia della storia che prospetti
l'evoluzione delle vicende umane secondo un corso inevitabile. La stessa teoria dell'anakyklosis
(Discorsi, I, 2), da Machiavelli mutuata dal VI libro delle Storie di Polibio, diventa per il
Segretario fiorentino una probabilità, non ma ineluttabilità.

109
Il mondo della politica è dominato dal conflitto individuale e sociale; è un agone. Non a caso
Machiavelli dedica parte cospicua della riflessione al tema della guerra, su cui è incentrato un
suo dialogo, Dell'arte della guerra in sette libri, fra le poche opere pubblicate durante la vita
dell'autore (1521). Il suo pensiero matura nel fuoco delle guerre d'Italia, che bruciano gli assetti
ideologici e istituzionali del passato. La guerra, per Machiavelli, diventa epifania della tragicità
della politica e della vita umana. La sua stessa concezione dello Stato è inconcepibile senza la
dimensione bellica e senza una traduzione delle energie civili e della «virtù» nella guerra. Da
queste considerazioni nasce l'interesse per la costituzione di armi proprie, sottratte all 'arbitrio
delle truppe mercenarie.
Machiavelli sancisce il congedo dal paradigma aristotelico-tomistico, in cui si contempla il
connubio fra etica e politica, incastonate in un ordo naturalis metafisicamente fondato. Tale
paradigma regge l'impianto dottrinale dello stesso Umanesimo civile. Il distacco di Machiavelli
dall'Umanesimo è segnato anche dal suo atteggiamento nei riguardi delle fonti classiche. Egli
non le avvicina con rispetto filologico, ma le manipola ai fini del suo discorso teorico. Tuttavia,
Machiavelli conserva l'esemplarità della Roma antica. [...]
Peraltro, il suo pensiero risulta antitetico all'utopia moderna, non perché in quest'ultima manchi
una realistica analisi dei mali della società, ma in quanto pretende di anestetizzarli in un
isolamento dalla storia e dalla politica. Per Machiavelli, invece, la politica è il destino
dell'uomo, è la sua essenziale dimensione, dalla quale non può esulare.
Queste sono le coordinate entro le quali il pensiero di Machiavelli si dispiega sia nel Principe
sia nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio. Al di là della diatriba sulla datazione delle
due opere [...], esse risultano accomunate da tali premesse teoriche. Anzi, nei Discorsi il
conflitto sociale e politico viene più esplicitamente tematizzato, rispetto al Principe, nelle
famose pagine sul contrasto fra plebe e patrizi, che non era stato affatto pernicioso a Roma
antica, ma ne aveva stimolato la libertà e l'espansione (I, 4). Ciò che differenzia le due opere
politiche è il diverso momento in cui Machiavelli pensa lo sviluppo di uno Stato. Nel Principe
emerge dominante il tema della sua fondazione, del suo mutamento rivoluzionario; da ciò
scaturiscono le valutazioni positive su Cesare Borgia. Nei Discorsi, in cui la «lezione degli
antichi» è più rilevante, quello della sua organizzazione repubblicana. Ma il primo tema non
scompare affatto, come dimostra il rilievo assunto dai fondatori di uno Stato, quali Romolo e
Mosè. Origine della politica e violenza sono fra loro inestricabili. [...]
Machiavelli polemizza con i «profeti disarmati», come Savonarola, che non abbiano compreso
la natura drammatica della politica e la vogliano pacificare in un ordinamento salvifico. Ciò
che lo distingue da Savonarola è anche una diversa concezione della religione. Essa, per
Machiavelli, acquista nei Discorsi (in particolare I, 11-15) un’importanza fondamentale quale
elemento di unità che esorcizzi non il conflitto, ineliminabile e salutare, ma la lacerazione in
fazioni. Innanzi tutto, egli è estraneo al dibattito dogmatico ed ecclesiologico. Non lo affascina
la religione come fede nutrita nella interiorità, ma come convinzione effusa nei costumi. Essa
è l'etica civile che anima un popolo e ne rinvigorisce gli «ordini» e le armi. Ne fu esempio la
religione dei Romani. Ma lo stesso cristianesimo, se purificato dal canone contemplativo e
interpretato attivisticamente, potrebbe assolvere tale ruolo. In ogni caso, è netta la ripulsa della
Chiesa di Roma. Machiavelli la condanna dal punto di vista religioso (sede di corruzione),
politico (impedimento all'unità d'Italia), teorico (inscrizione della politica in un quadro
provvidenziale mediato dal pontefice). L'interesse, dunque, per la religione si accompagna a

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un chiaro ripudio della teologia politica, della fondazione trascendente della politica. Essa è
priva di ogni fondamento.

Brani tratti da G.M. Barbuto, in C. Galli, R. Esposito (a cura di), Enciclopedia del pensiero
politico, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 405-406

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MONTAIGNE
Montaigne, Michel de (1533-1592). Pensatore francese. Autore degli Essais — cresciuti dalla
prima edizione del 1580 fino all'ultima, uscita postuma nel 1595 — Montaigne è precettore
dalla sensibilità moderna e dalla grande capacità d'introspezione. Ispirato dal dubbio e in esso
pacificato, Montaigne incontra la politica tanto nella vita pratica, come sindaco di Bordeaux
per quattro anni, quanto nella riflessione sulla vita associata, investendo anch'essa con la forza
del suo scetticismo.
Rispetto alle modalità tradizionali di giustificazione della majestas che sembravano nate
all'ombra del nascente assolutismo, Montaigne, come più tardi Pascal, assume un
atteggiamento di netto rifiuto considerandole strategie di razionalizzazione sostanzialmente
arbitrarie del potere, tentativi di giustificare ex post di qualcosa che riposa su altri fondamenti:
«Le Leggi derivano la loro autorità dal possesso e dall'uso; è pericoloso ridurle alla loro
origine». La deduzione dell'obbedienza dal giudizio della coscienza circa il valore di giustizia
delle norme gli sembra parimenti pericoloso: «Chiunque obbedisca loro perché sono giuste,
non obbedisce loro giustamente come deve». Oscillando tra la destituzione del valore
dell'esistente e l'invito all'obbedienza, Montaigne, che è personalmente scosso come tutti i
suoi contemporanei dalla situazione politica creatasi durante le guerre di religione, teorizza
una forma di positivismo giuridico avant la lettre che si propone come una riformulazione
della teoria dell'obbedienza. Il fatto che le leggi non siano l'incarnazione della giustizia, che
anzi siano semplice e tradizionale traduzione normativa di un qualche irragionevole coutume,
non autorizza alla disobbedienza ma fonda su qualcosa di diverso l'ordine sociale: «Ora, le
leggi mantengono il loro credito non perché sono giuste, ma perché sono leggi. È il
fondamento mistico della loro autorità; non ne hanno altri».
Lungi dal vedere con favore la possibilità di oggettivazione delle sempre diverse ragioni dei
soggetti in un universo normativo che finirebbe, essendo segnato dalla dualità della propria
origine, per eternizzare il conflitto, Montaigne preferisce divaricare pubblico e privato,
fondando su tale differenza la possibilità di conservazione dell'ordine: «La società non sa che
farsene dei nostri pensieri: ma quello che resta, cioè le nostre azioni, il nostro lavoro, i nostri
beni e la nostra propria vita, bisogna prestarlo e abbandonarlo al suo servizio». Convinto che
la guerra civile sia il risultato del tentativo delle coscienze individuali di produrre un ordine a
loro immagine e somiglianza, Montaigne sceglie l'obbedienza all'ordine politico esistente,
come l'unica via per la tutela della conservazione e della stessa «salute» dei soggetti. Ciò
comporta da un lato un accentuato conservatorismo politico («Non per opinione ma, in verità,
l'ottimo e migliore governo è per ogni nazione quello sotto il quale essa si è mantenuta») e
una dichiarata inimicizia verso ogni tentativo di modifica dell'esistente in vista di un bene più
alto, e dall'altro la subordinazione del principio dell'obbedienza a quello della protezione. La

111
riconferma di un compatto dovere all'obbedienza: «Non bisogna lasciare al giudizio di
ciascuno la conoscenza del proprio dovere; bisogna prescriverglielo», si ancorava così all'utile
degli individui e alla tutela della pace. Crollate le giustificazioni teologico-politiche della
majestas, inizia il percorso di costruzione di un assolutismo che è stato giustamente chiamato
'laico'.

Brani tratti da D. Taranto, in C. Galli, R. Esposito (a cura di), Enciclopedia del pensiero
politico, Laterza, Roma-Bari 2000

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LA BOÉTIE
La Boétie, Etienne de (1530-1563). Diplomatico e umanista francese. Dopo la laurea in
giurisprudenza, nel 1554 La Boétie divenne consigliere presso il parlamento di Bordeaux. Tre
anni dopo la stessa carica fu assegnata anche al filosofo M. de Montaigne: fra i due nacque
quell'amicizia che Montaigne — nei suoi Essais — celebrerà con un capitolo appassionato.
Nel 1560 a La Boétie fu affidata un'azione diplomatica presso Caterina de' Medici, reggente
al trono per il decenne Carlo IX. Nel corso dell'adempimento del suo compito La Boétie entrò
in contatto con il cancelliere M. de L'Hospital, fautore di una politica di tolleranza religiosa
di cui la reggente stessa si era fatta promotrice. Lo scritto nel quale La Boétie prese
ufficialmente posizione a favore della politica di pacificazione fu il Mémoire sur l'Edit de
Janvier. Nell'opera si denunciavano i pericoli connessi a una politica di repressione religiosa
e si auspicava la creazione di uno Stato francese nel quale un nuovo 'cattolicesimo riformato'
avrebbe permesso la convivenza pacifica di cattolici e protestanti.
A prescindere dallo scritto citato e da alcune poesie di ispirazione stoica (29 sonetti sono
riportati negli Essais di Montaigne), la principale opera politica di La Boétie è il Discorso
sulla servitù volontaria — scritta negli anni 1546-48 e rimasta inedita fino al 1576 — nella
quale è depositata una analisi strutturale del fenomeno del potere, tendente a inquadrarlo a
partire da un angolo visuale diametralmente opposto rispetto a quello di Machiavelli. Mentre
quest'ultimo visualizzava il potere dal punto di vista del principe — a cui vengono offerti
consigli atti a perfezionare l'arte di conquistarlo e conservarlo — le analisi di La Boétie si
concentrano piuttosto su coloro che sono soggetti al potere. È a questo livello che si esercita
il tentativo di cercare una spiegazione alla cosiddetta 'servitù volontaria': quella servitù che
consiste nell'accettazione volontaria da parte dei sudditi del proprio assoggettamento.
Parallelamente, La Boétie estende la sua analisi alle dinamiche dì formazione del consenso e
ai meccanismi di formazione delle élites. Grazie a sottili investigazioni storiche e
psicologiche, la Boétie indica nella libertà dell'uomo un bene impareggiabile mentre, nel
contempo, mette in atto una radicale demistificazione del potere, mostrando l’inconsistenza
della sua pretesa di agire per il bene del popolo. Se gli uomini volessero, potrebbero, attraverso
la disobbedienza, liberarsi senza sforzo dai tiranni; il fatto che ciò non avvenga dipende sia
dall'abitudine a servire, sia dalla pressione verso la conformità esercitata sul singolo da parte
del gruppo sociale, sia dalla falsa credenza in una 'superiorità naturale del tiranno, sia, infine,
dal potere delle oligarchie che collaborano con il tiranno. Dopo aver richiamato la netta
ineguaglianza fra il tiranno e i suoi sudditi, inoltre, La Boëtìe afferma che non può esserci

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fiducia o amicizia all'interno di un rapporto di potere: tale rapporto, infatti, si regge su un
equilibrio che rischia costantemente di infrangersi a danno anzitutto delle stesse élites.
Nel corso della modernità, La Boétie ha goduto di una notevole notorietà e il Discorso sulla
servitù volontaria è stato assunto come punto di riferimento da movimenti di contestazione
politica: di esso si sono appropriati sia i calvinisti oppositori della monarchia cattolica, sia la
resistenza calvinista a Enrico IV. Il testo conoscerà le sue prime edizioni non clandestine nel
corso della Rivoluzione francese, quando verrà utilizzato come strumento intellettuale di
opposizione all'ancien régime. All'opera di La Boétie si sono ispirati, infine, gruppi che vanno
dal circolo di Babeuf al rivoluzionarismo anarchico di Landauer.

Brano di A. Martone, in C. Galli, R. Esposito (a cura di), Enciclopedia del pensiero


politico, Laterza, Roma-Bari 2000

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THOMAS MÜNTZER (1489-1525) E LA GUERRA DEI CONTADINI


Dal mese di giugno del 1524 alla primavera del 1525 si ebbe il periodo più drammatico delle
rivolte contadine in Germania [...]. A produrre uno stato di straordinaria tensione sociale era
stato infatti l’aumento progressivo di imposte di varia natura, che si associava al timore diffuso
di non poter fruire, sia pure soltanto in minima parte, dei benefici offerti dal progresso, motivo
per cui alla rivolta dei contadini aderirono anche quei ceti urbani che si sentivano trascurati,
per non dire emarginati, dall’organizzazione politica e amministrativa delle città. Fu così che
si riuscì a mettere in piedi un esercito costituito non solo da contadini, ma anche da operai
tessili e minatori, che contava all’incirca trecentomila armati.
Delle quattro principali aree toccate dalle rivolte contadine, vale a dire la Svevia, la Franconia,
la Sassonia-Turingia e i domini asburgici del Tirolo, la prima a essere normalizzata fu proprio
la Svevia, ove i rivoltosi furono in un primo momento tenuti a bada con allettanti proposte di
pace e poi ripetutamente sconfitti dalle truppe guidate da Georg Truchsess von Wadburg,
comandante della Lega sveva, il quale subito dopo pensò bene di muovere senza indugi verso
la Franconia, ponendo fine alla rivolta anche in questa regione nel giugno del 1525. Tuttavia,
ciò che stava avvenendo contemporaneamente in Turingia, non solo per la presenza sul terreno
di guerra di Thomas Müntzer, ma anche per l’imminente bagno di sangue di Frankenhausen,
era destinato ad avere una tale risonanza da diventare nell’immaginario collettivo del tempo
l’emblema stesso della rivolta dei contadini in Germania e del suo tragico epilogo. In poco
meno di un anno l’ansia di rinnovamento religioso e il sogno millenaristico di realizzare il
Regno terreno di Cristo si saldarono con le rivendicazioni di carattere sociale avanzate dai
contadini, il cui programma antifeudale si trova esposto nei Dodici articoli di Memmingen,
apparsi nel marzo del 1525 ed elaborati da Sebastian Lozer, un pellicciaio locale, con l’aiuto
del parroco zwingliano Christoph Scheppeler.
Gli estensori dei Dodici articoli – la cui diffusione può dirsi assai ampia e senza precedenti –
chiedevano in modo esplicito che i sacerdoti predicassero il puro Vangelo e i parroci venissero
eletti direttamente dalle comunità; propugnavano l’abolizione della ‘piccola decima’, limitando
la ‘grande decima’ al solo sostentamento dei parroci e devolvendo il resto all’assistenza dei
poveri; esigevano la riduzione dei fitti e il ripristino dei propri diritti cancellati; rivendicavano

113
l’uso delle terre comuni, dei boschi e dei corsi d’acqua; pretendevano la libertà di caccia e di
pesca; richiedevano, inoltre, la revisione del sistema penale, attenendosi al solo diritto scritto e
rigettando ogni forma di arbitrio da parte del signore locale. Reclamavano infine l’abolizione
della servitù della gleba, con la precisazione che nel XII e ultimo articolo chi dava voce ai
contadini si mostrava disponibile a verificare la compatibilità di tali rivendicazioni con la
parola di Dio, dichiarandosi pronto a invalidare ogni richiesta considerata non legittima dalla
Scrittura22.
In questa drammatica congiuntura, Thomas Müntzer non si fece trovare impreparato e seppe
cogliere la grossa opportunità di poter finalmente tradurre in realtà il suo cristianesimo
rivoluzionario, tenuto però conto che non ricoprì mai il ruolo di guida della rivolta contadina
nel suo complesso. Laureatosi in teologia, dopo aver studiato dal 1506 al 1512 nelle università
di Lipsia e Francoforte, Müntzer possedeva una cultura notevole e solidi strumenti filologici
[...]. Nel 1519 Thomas Müntzer si trovava a Wittenberg, ove ebbe modo di conoscere Lutero,
senza però mai entrare a far parte della schiera dei suoi discepoli. Il 17 maggio del 1520
l’inquieto teologo giunse a Zwickau, importante località mineraria dell’epoca, ove iniziò a
diffondere tra i piccoli artigiani e la gente più umile di quell’area un particolare misticismo
visionario espresso con un linguaggio da profeta biblico e con ricorrenti richiami a forme di
utopismo di matrice millenaristica. D’intesa con Nikolaus Storch, Müntzer predicava il primato
della rivelazione diretta e invitava contadini, minatori, emarginati e gente comune a realizzare
il Regno millenario di Cristo sulla terra. Lo stesso Lutero era sceso in un primo momento tra i
rivoltosi per convincerli a lasciar perdere l’idea dell’insurrezione armata e a non farsi sedurre
dall’attraente parola di Müntzer. Accusato di aver fomentato a Zwickau la rivolta operaia degli
inizi del 1521, fu poi prudenzialmente destituito dal consiglio cittadino il 15 aprile di
quell’anno con l’imputazione di essere un nemico della pace religiosa e di istigare
consapevolmente all’odio. Due mesi dopo, in compagnia di Markus Stübner, Müntzer faceva
tappa a Praga, ove iniziò a predicare su invito della locale università. A quel periodo risale la
sua Protesta riguardante la causa boema, vale a dire il ben noto Manifesto di Praga, apparso
in tedesco, ceco e latino e rivolto contro preti, monaci e teologi, accomunati in un’unica
condanna per aver falsificato la parola di Dio. Contro Lutero e i ‘falsi profeti’ del suo tempo,
Müntzer afferma che il cristianesimo autentico si realizza con la rivoluzione, anche nella sua
forma più radicale e violenta.
Thomas Müntzer abbandonò Praga nel dicembre 1521 e dopo varie peregrinazioni giunse ad
Allstedt, ove nel marzo del 1523 riuscì nell’impresa di farsi nominare pastore. In questa piccola
città della Sassonia ebbe modo di avviare la sua riforma liturgica, senza tuttavia perdere di vista
l’altra esigenza primaria, vale a dire la critica della teologia luterana, di cui un saggio esemplare
è la sua Esplicita messa a nudo della falsa fede, quella di Lutero, composta all’incirca diciotto
giorni dopo la famosa Predica ai prìncipi, tenuta il 13 luglio 1524 nel castello di Allstedt. [...]

22
Testi della rivolta dei contadini si trovano raccolti in H. Eilert (a cura di), Riforma protestante e rivoluzione sociale. Testi
della guerra dei contadini tedeschi, 1524- 1526, Milano 1988, e in S. Lombardini (a cura di), Rivolte contadine in Europa.
Seco- li XVI-XVII, Torino 1983. Per l’interpretazione marxista di Friedrich Engels, si segnala una recente riedizione: F. Engels,
La guerra dei contadini in Germania (1850), Milano 2014. Per l’influsso sul coevo programma di Michael Gaissmayr, cfr.
G. Politi, Gli statuti impossibili. La rivoluzione tirolese del 1525 e il programma di Michael Gai-smair, Torino 1995, e la
sintesi di Spini, Le origini del socialismo, cit., pp. 31-41. La posizione di Lutero sui Dodici articoli si trova esposta nella sua
Esortazione alla pa- ce, sopra i dodici articoli dei contadini di Svevia, in Martin Lutero, Scritti politici, a cura di G. Panzieri
Saija, introduzione di L. Firpo, Torino 1949, pp. 445-474

114
Nella Predica ai prìncipi Müntzer aveva sostenuto che spetta particolarmente al prìncipe
eliminare fisicamente gli empi e qualora questi si rifiutasse di usare la spada della giustizia
divina, soltanto allora gli sarebbe definitivamente sottratta per essere riconsegnata al popolo.
In definitiva, il teologo si mostrava ancora fiducioso di poter guadagnare i prìncipi di Sassonia
alla sua causa, che prevedeva un nuovo ordine sociale con forti reminiscenze platoniche e
moreane, in cui «omnia sunt communia» e «a ciascuno è dato secondo il proprio bisogno e
secondo l’opportunità». Nella posteriore Esplicita messa a nudo emerge invece la rottura con
i prìncipi sassoni, che lo porterà a ipotizzare per la prima volta la possibilità di uno scontro
armato con le loro milizie [...]-
Quando Thomas Müntzer dichiarò in modo esplicito di voler realizzare il cristianesimo nella
sua forma più pura attraverso un processo rivoluzionario, la polemica a distanza con Lutero si
fece inevitabilmente più aspra. A Müntzer – che frattanto aveva stabilito intorno al 15 agosto
del 1524 il suo quartier generale nella ‘libera città imperiale’ di Mühlhausen – restava ora solo
una possibilità: scegliere se «tacere come un cane» o «patire il martirio». Fu in particolare nella
Confutazione ben fondata che Müntzer sancì definitivamente la frattura con Wittenberg e i
prìncipi, affrontando apertamente Lutero e definendolo con disprezzo la «carne senza spirito
che vive mollemente a Wittenberg». Lo spunto polemico fu offerto dalla luterana Lettera ai
prìncipi di Sassonia sullo spirito di sedizione, a cui Müntzer volle replicare pur essendo
consapevole che assai spesso Lutero si sottraeva al confronto teologico con l’avversario di
turno, rifiutandosi di discutere le tesi e preferendo indugiare nella parodia, nell’ironia e nella
satira. Concepita appena dopo l’Esplicita messa a nudo, con ogni probabilità tra il 3 e il 7
agosto 1524, dunque prima della fuga da Allstedt, e completata a Mühlhausen non oltre il 19
settembre, la Confutazione ben fondata veniva divulgata nel momento di maggiore difficoltà
per Müntzer, ossia quando i suoi avversari – soprattutto i prìncipi di Sassonia, ma senza
escludere il non meno pericoloso fronte cattolico – avevano come unico obiettivo quello di
regolare definitivamente i conti con lui [...]
La posizione di Müntzer contrastava decisamente con quella da tempo assunta da Lutero, tutto
preso dal rapporto tra uomo e Dio e tra contingente ed eterno. Lutero appare come il teologo
senza storia, assorbito completamente dal problema del destino dell’individuo e indotto a dare
forma coerente alla sua teologia dopo aver fatto irruzione sulla scena europea, nel 1517, con le
Tesi di Wittenberg. Coerentemente con il suo programma teologico, credeva fiduciosamente
che le istituzioni terrene si sarebbero rigenerate spontaneamente su basi nuove per effetto della
Riforma. Essenzialmente Lutero era convinto che la rinascita evangelica della cristianità
dovesse trovare compimento nelle coscienze individuali, piuttosto che nelle istituzioni statali e
sociali. In realtà, la sua dottrina metteva irrimediabilmente in crisi l’ordine tradizionale della
società e il sistema stesso centrato sulla Chiesa e l’Impero. Lutero era tuttavia esplicitamente
contrario allo spirito e alla prassi rivoluzionari e intimamente convinto che alla violenza
occorresse rispondere con l’accettazione del proprio destino, ragion per cui si adoperò per la
realizzazione di una riforma religiosa senza esiti violenti.
Dopo essere stato dapprima smascherato da Lutero come ‘falso profeta’ e poi espulso da
Mühlhausen, Thomas Müntzer non abbandonò il suo entusiasmo profetico e si diede ai
preparativi di una grande rivolta, la quale, considerato il suo crescente isolamento politico, si
andava configurando fin dall’inizio come una guerra della lega contadina contro tutte le autorità
costituite. Nella primavera del 1525 Müntzer, assieme al fedele collaboratore e amico Heinrich

115
Pfeiffer, guidò i contadini in armi alla riconquista di Mühlhausen, dando il suo consenso alla
secolarizzazione delle proprietà della Chiesa e alla comunione dei beni in nome di una società
senza più vincoli feudali e fondata sul principio di uguaglianza universale, il che andava ben
oltre lo spirito dei Dodici articoli. Tra il 26 e il 27 aprile lanciò quello che Ernst Bloch ha
definito «il più appassionato e rabbioso manifesto rivoluzionario di tutti i tempi», vale a dire il
Proclama ai cittadini di Allstedt, il quale, se non altro, va considerato almeno l’appello più
rivoluzionario della guerra dei contadini. In esso Müntzer esprime tutto il suo profetismo
millenaristico e l’apocalittico radicalismo religioso, ponendosi l’obiettivo politico di sollevare
Allstedt contro i prìncipi, dopo avervi costituito la Lega degli eletti [...]
Il 5 maggio 1525 Lutero replicava in gran fretta a Thomas Müntzer con l’opuscolo Contro le
empie e scellerate bande dei contadini, evidenziando un brusco mutamento di opinioni in tema
di tolleranza religiosa. Il teologo di Wittenberg attaccava aspramente i contadini tedeschi e
rigettava con fermezza, e in via definitiva, il programma di rinnovamento religioso e sociale
elaborato da Müntzer, dileggiato come ‘l’arcidiavolo’ di Mühlhausen e accusato di aver
travisato la parola del Vangelo. Quando apparve il violento libretto luterano, la guerra dei
contadini era già giunta al suo punto di massima espansione, ma anche la reazione dei prìncipi
poteva dirsi al suo massimo storico. Il suo impianto argomentativo mira essenzialmente alla
delegittimazione teologica dell’avversario, per cui non deve meravigliare se Lutero ricorre
sistematicamente all’insinuazione volgare e alla dimostrazione corrosiva, violenta e a tratti
scurrile. Ciò che più colpisce nell’aspra requisitoria luterana è l’accusa di banditismo da subito
formulata a carico dei contadini e rivolta con eguale livore anche contro Müntzer, che «va
apparecchiando solo rapine, uccisioni e spargimento di sangue» [...] Lutero esorta perciò i
prìncipi a reprimere brutalmente i contadini in armi e a ripristinare l’ordine costituito, essendo
totale la sua sfiducia nell’attuazione violenta della Riforma e nel rinnovamento politico e
sociale perseguito per vie insurrezionali [...] Motivo ricorrente nell’opuscolo luterano è la
rappresentazione a tinte fosche e minacciose di Müntzer e dei contadini, funzionale a
dimostrare sul piano argomentativo l’inaccettabilità del loro programma e l’estrema
pericolosità sociale [...]
In definitiva, l’accusa di banditismo e di sedizione armata rivolta contro Müntzer e i contadini
sembra soddisfare due esigenze di fondo ad alto potenziale delegittimante: la prima,
ridimensionare il cristianesimo rivoluzionario del suo avversario, «sanguinario e scellerato
profeta», assimilandolo a un volgare bandito di strada e rendendo palese come deve esprimersi
la giustizia divina sulla terra al cospetto di «quanti al giorno d’oggi praticano sedizione e
disordine»; la seconda, trattare la tragica vicenda della guerra dei contadini e del suo dotto
ideologo come un problema di mero ordine pubblico, sia pure di dimensioni straordinarie per
numero dei rivoltosi coinvolti e vastità dell’area interessata, rispetto al quale occorre applicare
con forza e fermezza la legge umana, dal momento che Dio stesso «vuole rispettati i re e
annientati i sediziosi».
La condanna della guerra dei contadini da parte di Lutero può dirsi ora completa.
L’atteggiamento irremovibile del teologo tedesco sul piano dell’apologia della repressione,
ancorata solidamente all’accusa di banditismo, che peraltro già contribuiva a ridimensionare la
portata del programma rivoluzionario di Müntzer, poneva inevitabilmente anche le premesse
teoriche per il tragico massacro di Frankenhausen [...] Il 15 maggio del 1525 si ebbe il tragico
epilogo della guerra dei contadini. A Frankenhausen trovarono la morte oltre seimila

116
combattenti guidati da Thomas Müntzer; più di un migliaio furono trucidati nella città
espugnata e abbandonata al crudele saccheggio dei vincitori. Müntzer, riconosciuto quasi per
caso da un mercenario e subito catturato, fu decapitato il 27 maggio, dopo alcuni giorni di
torture, assieme al fedele Pfeiffer. A Lutero si deve in questa drammatica circostanza anche
l’elaborazione di un ethos militare della Riforma, una sorta di ascesi dai risvolti
prevalentemente pratici, in grado di definire con rigore un ambito in cui l’intervento armato,
nella misura in cui fosse stato finalizzato allo sterminio dei nemici di Dio, si configurasse
essenzialmente come una pia professione [...] D’altra parte, una tale operazione concettuale
trova ampio riscontro proprio nel libretto Contro le empie e scellerate bande dei contadini, in
cui Lutero fa rientrare ogni genere di nefandezza militare in un superiore ambito d’intervento,
sospeso tra l’eterno e il contingente, in cui si opera per realizzare il piano divino e salvaguardare
la diffusione della Riforma [...]

Brani tratti da S. Zen, Riscoperta di Platone e teologie della riforma: il caso di Thomas
Müntzer tra millenarismo e cristianesimo rivoluzionario, in A. Muni (a cura di), Platone
nel pensiero moderno e contemporaneo Vol. XIII, Limina Mentis, 2017, pp. 161-174

LETTURE E VISIONI CONSIGLIATE:


Luther Blisset, Q, Einaudi 1999

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GIUSNATURALISMO E CONTRATTUALISMO

DIRITTO NATURALE
Dall'età classica a quella moderna, la nozione di diritto è segnata dalla distinzione tra diritto
naturale e diritto positivo, tra la norma, espressione della razionalità, perfetta, immutabile ed
eterna, e la norma posta dal potere, mutevole, imperfetta e storicamente determinata.
Simbolo di questa distinzione è divenuta Antigone che, nella tragedia di Sofocle, si rifiuta di
obbedire all'autorità politica sostenendo che gli ordini del re non possono sovvertire gli
agraphoi nomoi, le leggi non scritte ma «inalterabili, fisse» degli dèi. Di un diritto naturale
inteso come tribunale d'appello contro le leggi accettate per convenzione parlano i Sofisti, i
quali, contrapponendo al nomos la physis, sostengono che il modo migliore di vivere è seguire
la natura, perseguendo il proprio interesse (Antifonte). L'idea di qualcosa di naturalmente
giusto che trascenda le leggi positive è presente nel pensiero politico da Platone e Aristotele,
agli Stoici e sino al Medioevo. Se già Erodoto aveva dichiarato essere la caratteristica delle
libere città greche quella di essere governate dalle leggi piuttosto che dall'arbitrio umano,
Platone, sostenendo nelle Leggi che lo Stato in cui la legge è suddita e senza autorità è destinato
alla distruzione, definisce il diritto come ciò che permette agli uomini la coesistenza. Aristotele,
accentuando il carattere del diritto come tecnica della coesistenza giusta perché razionalmente
perfetta, ribadisce nell'Etica che solo alla «ragione» è permesso, e non a un uomo, comandare
poiché è il diritto a creare la felicità della comunità politica. Questa felicità è prodotta e
conservata da un diritto naturale e non da un diritto fondato sulla convenzione e sull'utilità,
poiché è il primo che ha la stessa forza ovunque ed è indipendente dalle diversità delle opinioni
mentre il secondo varia da luogo a luogo.
L'idea di una legge vera, conforme alla ragione, immutabile ed eterna, che non varia da paese
a paese, è elaborata soprattutto dagli Stoici, la cui dottrina, anche attraverso la mediazione di
Cicerone, avrà un grande influsso sul pensiero cristiano e su quello medioevale. Cicerone
postula l'eguaglianza degli uomini in quanto la natura è fonte di precetti accessibili a qualunque
individuo attraverso la ragione. Sul piano pratico, inoltre, egli elabora numerosi principi come
derivanti dalla legge di natura: il diritto all'autodifesa o la proibizione di ingannare o
danneggiare gli altri. La tradizione giuridica romanistica attinge dallo stoicismo l'idea di un
diritto naturale, tanto che Gaio nelle sue Istituzioni (metà del II secolo) afferma che i principi
di diritto riconosciuti da tutta l'umanità «sono stati insegnati agli uomini dalla ragione
naturale». Ulpiano, invece, travisando l'insegnamento degli Stoici, definisce il diritto naturale
come quello che la natura ha insegnato a tutti «gli esseri animati» compresi gli animali,
riducendolo a puro istinto e recidendo il legame tra il diritto naturale e la ragione.
La tradizione del diritto naturale inteso come istinto è continuata dai Padri della Chiesa,
secondo i quali la legge di natura è scritta nel «cuore» degli uomini (Agostino). È nel basso
Medioevo con Tommaso d’Aquino che si crea una sintesi fra diritto naturale come prodotto
della ragione e dottrina cristiana. Tommaso inoltre concilia il diritto naturale inteso come istinto
con quello inteso come ragione poiché in esso è ricompresa sia l'inclinazione comune all'uomo
e a tutti gli esseri della natura, inclusi gli animali, sia l'inclinazione razionale propria dell'uomo.
La dottrina tomistica assume come fondamento la distinzione, tracciata da Graziano (XII
secolo), fondatore del diritto canonico, fra legge di Dio e legge degli uomini. Per Tommaso
esiste una legge eterna e universale che scaturisce dalla ragione divina, di cui la legge di natura

118
che è negli uomini è un riflesso o una partecipazione. La legge naturale è dunque quella parte
dell'ordine posto dalla ragione divina che è presente nella ragione dell'uomo e che diventa
norma generale di comportamento.
Nella Scolastica si sviluppa poi una concezione molto diversa del diritto naturale: al centro del
pensiero nominalistico di Ockham infatti vi è la volontà di Dio, il cui valore di comando
giuridico per gli uomini non deriva da una supposta congruenza con la natura o da una ragione
obiettiva ma semplicemente dal fatto di essere la volontà di Dio. In tale modo il diritto naturale,
essendo il mezzo di notificazione all'uomo di tale volontà, diviene modificabile ad arbitrio di
Dio. Così il pensiero del tardo Medioevo spiana la strada all'idea, che sarà fatta propria dal
positivismo giuridico, secondo la quale la volontà è fondamento sufficiente per l'obbligatorietà
giuridica delle leggi.
Nella fase di crisi della fondazione teologica del diritto, che coincide essenzialmente con le
guerre di religione e con la nascita dello Stato moderno, la teoria del diritto naturale viene
espressa attraverso il giusnaturalismo nei termini razionalistici delle scienze esatte: in
particolare si tenta di utilizzare il metodo matematico o geometrico. Nell'opera di Grozio De
iure belli ac pacis (1625) si adotta per la prima volta questa metodologia: il diritto naturale,
sostiene Grozio in polemica con il volontarismo teologico, sarebbe dettato dalla ragione, anche
se Dio non esistesse. Di conseguenza il diritto naturale, che ha la sua origine nella natura
umana, si differenzia da e precede il diritto che deriva dalla volontà umana o divina che sia. La
validità di una norma, nel senso della sua naturalità, è data quindi dal suo accordo con la natura
razionale e sociale: concezione che verrà sviluppata nel senso dell'idea della necessaria
conformità al diritto naturale del diritto positivo e della costituzione degli Stati.
Mentre per Grozio il diritto naturale, in quanto dettame della ragione umana, è ancora
infallibile, per Hobbes la ragione, che resta a fondamento di questo diritto, ha natura fallibile,
cioè finita o umana ed è propria di ciascun individuo. In questo senso il diritto naturale è
radicalmente individualistico: nello stato di natura non esiste un diritto oggettivo
universalmente valido, ma esistono solo diritti soggettivi. Il diritto positivo — che nasce con il
passaggio allo Stato civile, cioè fondato su un atto giuridico, il contratto sociale — è invece un
diritto 'protetto' e quindi perfetto, poiché il sovrano razionale e rappresentativo, a cui i singoli
individui hanno trasferito i propri diritti naturali, lo certifica attraverso un suo atto di volontà
reso noto ai sudditi. Hobbes, dopo aver tendenzialmente identificato il diritto positivo e il diritto
statale, riduce quest'ultimo al solo diritto legislativo: la legge resta l'unica fonte del diritto
mentre consuetudini o diritto giurisprudenziale, ai quali manca il sigillo della volontà del
sovrano, ne vengono esclusi. In questa direzione di riduzione del diritto a diritto positivo, e di
questo a diritto legislativo (alla legge in senso stretto, cioè a una norma generale e astratta) si
muovono anche pensatori come Locke, Rousseau, Kant. Essi sembrano giudicare il diritto
pubblico come diritto perfetto (Locke) o considerare società giuridica esclusivamente quella
che nasce con il contratto sociale, cioè Io Stato, e la cui volontà si esprime solo attraverso la
legge (Rousseau) o ritenere il diritto dello stato di natura provvisorio e il diritto dello Stato
civile perentorio (Kant). I Lineamenti di filosofia del diritto (1821) di Hegel segnano la crisi
del giusnaturalismo. Il diritto naturale, inteso sia come legge divina sia come principio umano
di ragione, nella tradizione moderna del diritto naturale, era stato sino allora considerato un
possibile tribunale d'appello contro l'ingiustizia del diritto positivo: mentre con Hegel è la legge
positiva a caricarsi di tutto il valore un tempo attribuito al diritto naturale, pur senza esaurirlo.

119
La legge per Hegel diventa la massima espressione della razionalità dello Stato: se uno Stato
non si esprime nella forma della legge non è uno Stato compiuto; la libertà finisce però per
consistere nell'obbedienza alle leggi dello Stato. L'Ottocento è anche caratterizzato dalle grandi
codificazioni a partire dal Codice civile francese (1804), il cosiddetto codice napoleonico, che
avrà delle conseguenze importanti per la formazione di quella ideologia della codificazione che
considera la legislazione la sola forma essenziale e autentica del diritto (ius positum;
giuspositivismo).
Questa positivizzazione statuale, d'altro canto, non è che l'esito del giusnaturalismo moderno,
il quale richiede concettualmente che l'elemento 'naturale' del diritto venga trasferito in legge
positiva, razionale e universale. Se nel corso dell'Ottocento, dopo la trasposizione nei codici
del diritto razionale, il giusnaturalismo perde totalmente credito, nel Novecento, le cui
costituzioni positivizzano principi e valori 'fondamentali', il contrasto tra positivismo giuridico
(giuspositivismo) e neogiusnaturalismo si riaccende, soprattutto a Weimar (per esempio,
Kelsen si oppone all'interpretazione in chiave di diritto naturale della costituzione proposta da
E. Kaufmann).
Nel secondo dopoguerra si assiste a una forte rinascita del diritto naturale, anche al di fuori
della cultura cattolica al cui interno era continuato a fiorire. Questo fenomeno si registra
soprattutto in paesi, come la Germania e l'Italia, nei quali più direttamente si erano sentite le
conseguenze dei totalitarismi. Nasce così il desiderio di ritrovare un diritto trascendente
attraverso il quale limitare e controllare la volontà dello Stato. In questo senso è emblematica
in Germania la conversione di Radbruch verso la fine della guerra alla teoria del diritto naturale,
inteso come diritto sopralegale rispetto a cui il diritto positivo può essere rappresentato come
«ingiustizia legale». La rinata idea del diritto naturale si accompagna all'esigenza di intenderlo
come storicamente variabile e non più come un ordine immutabile, esigenza avvertita dallo
stesso giusnaturalismo cattolico (Rommen) che, pur mantenendo l'assolutezza dell'idea di
diritto naturale, accoglie una dimensione storica di esso. Anche in Italia la reviviscenza
giusnaturalistica postbellica non guarda a un diritto naturale immutabile e assoluto tipico della
concezione tradizionale, ma lo intende, storicisticamente, come espressione degli ideali politici
e giuridici della società in continua trasformazione.

Brano di C. Margiotta, in C. Galli, R. Esposito (a cura di), Enciclopedia del pensiero


politico, Laterza, Roma-Bari 2000

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CONTRATTUALISMO
Il termine contratto deriva dal latino contractus, dipendente, a sua volta, dal verbo contrahere
(trarre insieme). Esso è un accordo tra due o più parti per regolare o estinguere un rapporto
giuridico, stabilendo i reciproci diritti e obblighi. E il contrattualismo è l'insieme delle dottrine
che affidano al contratto la formazione o la regolazione dei rapporti di potere politici. 
Politicamente, con il contratto si dà origine alla società e si fonda l’autorità. In particolare,
con contratto si intende un trasferimento volontario del potere dai membri della società
all'autorità politica, trasferimento che segna la fine dello stato di natura e l'inizio dello Stato
sociale e politico. Esistono due diverse nozioni di contratto: una applicata alla società e l'altra

120
al potere. La prima è quella del Pactum unionis fra i diversi individui che scelgono di vivere
in collettività e attraverso il quale avviene appunto il passaggio allo Stato sociale: nasce così
contrattualmente il popolo come unità sociale e giuridica, distinto dalla massa indifferenziata.
A questo primo contratto corrisponde la nascita del diritto privato il cui principio base,
essendo i contraenti in posizione di parità, è quello di ugugaglianza. La seconda forma di
contratto è il Pactum subjectionis con il quale si instaura il potere politico: esso è stipulato tra
il popolo nel suo complesso e i governanti, al cui potere il primo si assoggetta. Questo secondo
contratto segna la nascita del diritto pubblico, di quelle norme cioè che regolano la relazione
tra sudditi e governanti e danno vita a un rapporto di subordinazione. 
[...] Nel XVII secolo si assiste a una radicale torsione del concetto di contratto: in esso sono
visti la genesi della società civile e il costituirsi (non più la trasmissione) del potere politico.
Il patto moderno costituisce entrambi, sudditi e sovrano, poiché prima del formarsi della
società non esistono soggetti politici e, a differenza del Pactum subjectionis medioevale, tale
patto non lega i contraenti. Attraverso la figura del contratto viene messo in luce come da una
situazione di isolamento degli uomini si costituisca la società e come la sottomissione dei
sudditi al sovrano, attraverso la ragione e la volontà di tutti, sia la condizione stessa del vivere
associato. Analizzando le categorie fondamentali della struttura concettuale del
contrattualismo moderno si trovano: in primo luogo lo stato di natura (diritto naturale), al cui
interno non esistono le condizioni per evitare il conflitto; in secondo luogo il contratto sociale
come strumento per uscire dalla condizione di insicurezza e il cui fine è quello di
razionalizzare la forza e fondare il potere politico sul consenso; e infine la scomparsa, dal
punto di vista logico, del diritto di resistenza verso il sovrano che, qui generato da un patto,
non è legato da un patto ai cittadini, ma è la loro stessa espressione politica. 
È importante notare che i contrattualisti hanno dato soluzioni differenti sia alla condizione
dell'uomo nello stato di natura sia alla determinazione dei soggetti e del contenuto del
contratto sociale. Hobbes — che vede nello stato di natura la condizione di guerra di tutti
contro tutti causata dalla dinamica delle passioni umane — considera che l'unico contratto che
può essere fatto rispettare è quello di associazione, poiché il Pactum subjectionis fra sudditi e
governanti non può aver luogo dato che il popolo, essendo prima della sottomissione alla
Sovranità un aggregato di individui, non può diventare parte contraente. Il passaggio allo Stato
civile per Hobbes è una convenzione attraverso cui gli individui — alienando la propria
volontà e il proprio giudizio a favore dello Stato e rinunciando alla libertà illimitata e ai diritti
dello stato di natura sanciscono la loro sottomissione incondizionata al sovrano in cambio di
sicurezza e di pace, Questo sovrano, inoltre, non essendo un contraente, non può infrangere il
contratto per cui, secondo Hobbes, l'obbligo di obbedirgli viene meno solo nel caso in cui
costui minacci l'incolumità fisica degli individui, i quali conservano il diritto ad avere salva
la vita. L'altro grande teorico del contratto del XVII secolo è Locke. Nello stato di natura
lockiano l'uomo, pur dotato di diritti innati, vive in una situazione precaria e minacciata poiché
ognuno è giudice in causa propria. Il passaggio allo Stato civile avviene perché, attraverso il
consenso degli individui, venga fatto nascere un giudice comune superiore a essi che protegga
i loro diritti naturali (vita, libertà, proprietà) fondamentali. Mentre in Hobbes la sovranità è
un 'istituzione unitaria, in Locke essa si articola in tre poteri, così gli effetti della sua
irresistibilità risultano limitati. In questo Stato civile, secondo Locke, il popolo mantiene il

121
diritto di giudicare se il sovrano agisca in modo contrario al contratto, nel qual caso esso può
fare «appello al cielo», ha, cioè, diritto alla rivoluzione. 
Nel corso del XVII secolo il contratto è largamente sostenuto nelle colonie puritane della
Nuova Inghilterra, dove ha una diretta connessione con la concezione individualista della
teologia protestante e dove il patto, sottoscritto da tutti i liberi proprietari, diventa lo strumento
concreto per fondare prima una Chiesa e poi uno Stato che la protegga, diventando così patto
politico. La lotta per l'indipendenza nell'America del XVIII secolo, inoltre, dà un nuovo
impeto alla corrente contrattualistica. Emblematica, in proposito, la Dichiarazione del
Massachusetts (1780), dove si afferma che lo Stato è un patto sociale in virtù del quale l'intero
popolo concorda con ogni cittadino. La costituzione federale degli Stati Uniti, ponendo il
problema dei diritti dei singoli Stati, apre poi la questione del contratto federale (federalismo):
il contratto, secondo la teoria contrattuale della federazione, non è più inteso esclusivamente
come sociale, originario e scritto, ma anche come federale perché ha luogo fra gli Stati
confinanti. 
Nel XVIII secolo in Europa le teorie del contratto continuano a fiorire e tra i maggiori
pensatori compaiono Rousseau e Kant. Lo stato di natura in Rousseau è una mera ipotesi che
deve servire da parametro critico per le diverse forme di società. Se nello stato di natura
l'uomo vive in pace, l'introduzione della proprietà produce il conflitto e la diseguaglianza: col
contratto sociale ciascun cittadino, sottomettendo la propria volontà alla volontà generale del
corpo politico, dà origine a un potere che precede ed eccede ogni istituzione. Per Kant, che
chiude l'età classica della teoria contrattualistica — riaperta in forma diversa solo nel XX
secolo —, lo stato di natura è una «mera idea della ragione» e il contratto, definito originario,
serve a costruire la società civile, cioè a rispettare il dovere morale di uscire dallo stato di
natura, e a fornire il fondamento alla legittimità dell'autorità politica, la quale deve riconoscere
la libertà di ognuno in quanto coesistente con la libertà di ogni altro. [...]

Brano di C. Margiotta, in C. Galli, R. Esposito (a cura di), Enciclopedia del pensiero


politico, Laterza, Roma-Bari 2000

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HOBBES
Hobbes, Thomas (1588-1679). Filosofo inglese. Entrò, in qualità di precettore, in casa di W.
Cavendish, futuro primo conte di Devonshire. Al servizio dei Cavendish — pur con numerose
interruzioni — rimase fino alla morte. Tra il 1610 e il 1634 effettuò tre lunghi viaggi sul
continente (in particolare in Italia e in Francia), entrando in contatto con alcune delle
personalità decisive della cultura seicentesca come Galilei e Mersenne. Nel 1628 pubblicò la
sua prima opera, una traduzione della Storia della guerra del Peloponneso di Tucidide, a cui
premise un'ampia e importante introduzione. La circolazione nel 1640, mentre già si
annunciavano i prodromi della rivoluzione inglese, di alcune copie manoscritte degli Elements
of Law, Natural and Politic suscitò in lui il timore di rappresaglie parlamentari, che lo indusse
a trasferirsi a Parigi, dove visse per undici anni. Qui scrisse le sue principali opere di rilievo
politico: il De cive (1642) e il Leviathan (1651). Rientrato nel 1651 in un'Inghilterra ormai
repubblicana, pubblicò negli anni successivi il De corpore (1655) e il De Homine (1658).

122
Dopo la restaurazione degli Stuart, Carlo II (a cui aveva dato lezioni di matematica a Parigi)
gli assegnò una pensione: i suoi anni tardi trascorsero in interminabili polemiche, ad esempio
sulla Libertà (con il vescovo Bramhall) e sul vuoto (con Boyle e gli studiosi del Gresham
College). Per difendersi dalle accuse di eresia che gli furono rivolte dalla gerarchia
ecclesiastica, studiò a fondo la giurisprudenza inglese in materia (redigendo tra l'altro, nel
1666, il Dialogue between a Philosopher and a Student of the Common Law of England, in
cui sostenne il primato della legge sulla consuetudine). Dopo aver scritto intorno al 1670 il
Behemoth sulla guerra civile inglese, tradusse l'Iliade e l’Odissea. All'età di novant'anni, nel
1678, pubblicò la sua ultima opera, il Decameron Physiologicum.
Nella crisi generale seicentesca, determinata dalla rottura dell'unità della respublica
christiana e dall'affermarsi del capitalismo, dalle guerre civili di religione e dalle prime
emergenze rivoluzionarie moderne, la teoria politica di Hobbes (così come, del resto,
l'intreccio di materialismo, nominalismo e convenzionalismo su cui poggia la sua filosofia)
dà espressione a una radicale rottura con la tradizione vetero-europea, intesa quest'ultima sia
nella sua variante umanistica di ascendenza ciceroniana sia nella sua variante aristotelica.
Contro l'immagine dello zoon politikon, Hobbes afferma che «l'indole degli uomini è per
natura tale che, se non vengono frenati dal timore di una potenza comune, diffidano e temono
l'uno dell'altro»; contro l'esaltazione dell'umana potenza che aveva caratterizzato
l'Umanesimo rinascimentale, definisce sì il diritto naturale come ius in omnia, mostrando
tuttavia come il suo libero dispiegamento nello stato di natura conduca al bellum omnium
contra omnes, contro ogni ipotesi di articolazione cetuale del corpo sociale, afferma
l'uguaglianza tra gli uomini, non postulandola tuttavia come 'valore' ma facendola discendere
dal fatto che, «riguardo alla forza corporea, il più debole ha la forza sufficiente per uccidere
il più forte».
L'uscita dallo stato di natura, dovuta alla paura della morte e al calcolo razionale dell'interesse
individuale, e la costruzione di un potere comune che grazie alla propria sovranità sia in grado
di assicurare la pace nonché l'ordinato dipanarsi, nei confini tracciati dalle leggi dello Stato,
dei rapporti di appropriazione e scambio tra gli individui sono così gli imperativi fondamentali
posti da Hobbes all'origine della politica. E sono anche le prescrizioni di quelle «leggi
naturali» che in se stesse mancano tuttavia della forza obbligante necessaria a vincolare il
comportamento degli uomini. Non v'è dunque continuum tra lo stato di natura e lo stato civile
innovando profondamente rispetto alla tradizione contrattualistica, che postulava un duplice
contratto (il Pactum societatis istitutivo del popolo e il Pactum subiectionis tra quest'ultimo e
il sovrano). Hobbes riconduce la nascita dello Stato a un unico patto (il Pactum unionis), in
cui trovano la propria simultanea origine il potere sovrano e il popolo, entrambi inesistenti in
natura e quindi entrambi 'artificiali'. Proprio al riguardo del patto è possibile rilevare lo scarto
più radicale tra il Leviathan e le precedenti opere di Hobbes: l'introduzione dei concetti di
'persona' (definita, in riferimento all'etimologia latina e all'originario uso in ambito teatrale,
«come una maschera»), 'autore' e 'rappresentanza' consente da una parte di fondare la figura
di un patto in cui il sovrano, non preesistendogli, non è parte contraente, e dall'altra di
produrre una connessione logica tra individui, sovranità e rappresentanza gravida di
conseguenze per la teoria politica moderna. Divenuti cittadini in seguito all'alienazione del
proprio diritto naturale, gli individui sono resi uguali dall’identica soggezione alla legge di un
sovrano che fa tabula rasa delle differenze organizzate su cui poggiava la società cetuale;

123
d'altra parte la sovranità, indipendentemente dalla forma assunta dalla civitas, è per Hobbes
sempre assoluta e rappresentativa, il che comporta tra l'altro il superamento della distinzione
tradizionale tra forme politiche rette e corrotte.
La costruzione politica che così si delinea (in cui molti interpreti hanno visto la prima
raffigurazione concettualmente rigorosa della moderna forma-Stato) viene inserita da Hobbes
nella terza e nella quarta parte del Leviathan nella cornice della storia cristiana della salvezza:
l'obbedienza ai comandi del Leviatano (il «dio mortale») è qui presentata — unitamente al
riconoscimento dell'unico articolo di fede secondo cui «Gesù è il Cristo» — come «tutto ciò
che è necessario alla salvazione» in un' 'epoca' caratterizzata dal ritiro di Dio dal mondo,
dall'assenza di miracoli e dal silenzio della parola profetica. Per Hobbes, come per le sette più
radicali del puritanesimo da cui traevano nutrimento i moti rivoluzionari a lui contemporanei,
la salvezza non è pensabile altrimenti che in termini storici e mondani: spostandone la
realizzazione in un futuro lontano e inattingibile a partire dal presente, egli neutralizza tuttavia
le implicazioni eversive di tale postulato, mentre subordinando il potere ecclesiastico al potere
temporale si rivolge contro le pretese mondane della Chiesa cattolica e dà un rilevante
contributo alla secolarizzazione della politica moderna.
Nel corso della sua vita, Hobbes non godette di una fama tra le più lusinghiere: alle accuse di
eresia verso colui che molti definivano un 'mostro' si sovrapposero presto le critiche rivolte
contro l'asprezza e l' 'immoralità' della sua dottrina, che fecero di lui nei due secoli successivi
— al pari di Machiavelli — uno degli oggetti preferiti degli strali di scrittori di ogni genere.
Prescindendo dall'influenza più o meno sotterranea esercitata da Hobbes su diversi classici
della filosofia politica — ad esempio, Spinoza, Rousseau e lo stesso Hegel — nonché su un
giurista della statura di J. Austin, si può dire che la sua fortuna moderna cominci alla fine
dell'Ottocento, quando una serie di studi, tra cui vanno almeno ricordati quelli di F. Tônnies,
ne fissò il profilo di classico della filosofia e della teoria politica. Nel corso del Novecento il
confronto con Hobbes divenne spesso a partire da una diffusa consapevolezza del rilievo
epocale della sua opera — confronto con la modernità politica nel suo complesso: nella
temperie degli anni Trenta, ad esempio, C. Schmitt riconobbe in lui sia il filosofo che aveva
saputo cogliere la 'sfida' originaria — l'assenza di un ordine teologicamente o ontologicamente
garantito — a cui deve rispondere la politica moderna sia colui che aveva formulato l'aporia
— la distinzione tra foro esterno e foro interno — da cui avrebbe preso avvio la dissoluzione
della moderna forma-Stato; L. Strauss, per contro, criticò l'idea che la novità di Hobbes fosse
da ricondurre al suo metodo 'scientifico' o alla sua antropologia, per sostenere la centralità
nella sua opera di una determinata 'attitudine morale', fondata sulla sostituzione del 'sommo
bene' con l'imperativo di fuggire il sommo male (la morte violenta). Quest'idea di una
centralità della morale nell'opera di Hobbes è determinante, pur se in guise diverse, in buona
parte della letteratura anglosassone (ad esempio, nella tesi di A.E. Taylor, poi ripresa da H.
Warrender, di un'obbligatorietà morale della legge di natura, ma anche nei più recenti studi
nutriti dai dibattiti sul neo-contrattualismo e sulla teoria della giustizia). Diversa è la lettura
di Hobbes prevalente nel continente europeo, dove si tende a sottolineare maggiormente la
concreta storicità della sua opera, rintracciando in essa, ad esempio, una risposta alle guerre
civili di religione (R. Koselleck, B. Willms) o la matrice delle moderne logiche dello Stato
rappresentativo (L. Jaume). A questo secondo filone di studi può essere associata anche

124
l'interpretazione del canadese C.B, Macpherson, la cui immagine di Hobbes come teorico dell'
«individualismo possessivo» è stata ripresa soprattutto in ambito marxista.

Brani tratti da S. Mezzadra, in C. Galli, R. Esposito (a cura di), Enciclopedia del pensiero
politico, Laterza, Roma-Bari 2000

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Hobbes e il presente
Sappiamo che la ricezione consolidata dell’opera hobbesiana ne fa l’autore della
«fondazione razionale ed artificiale dello Stato come esito della secolarizzazione di politica
società e cultura nell’Europa moderna» (Bobbio, Premessa a T. H., p. XI.). Bobbio e
Skinner, per quanto con esiti e accenti diversi, pongono a cifra di Hobbes la concezione dello
Stato. Dopo alcune decadi di letteratura che continua a far riferimento all’autore ma nel
segno invertito del declino, della posterità, della dissolvenza dello Stato, è maturata una
produzione che permette di guardare alla sua opera da un’altra angolazione.
Nuove chiavi di accesso possono essere messe sotto due titoli, la crisi e l’antropologia
politica. Hobbes compare dunque come un pensatore della crisi e come un innovatore della
questione antropologica in una prospettiva strettamente politica.
La crisi Quale è la crisi che si esprime tacitamente o esplicitamente nei testi hobbesiani.
Possiamo individuare due forme della crisi, che rimando al contempo a temporalità diverse,
ma anche a connotazioni diverse. Per il momento, definisco una forma come crisi profonda
e l’altra come crisi determinata.
La crisi profonda è quella che nella storiografia segna il Seicento – una crisi che è generata
da trasformazioni economiche, scientifico-tecniche e culturali.
Epoca in cui arriva a maturazione l’effetto della scoperta delle Americhe – che ancora non
tocca Machiavelli o Lutero, ma che troviamo già in Montaigne (1580-88) – e che Hobbes
cita nel De cive (1647, I, 13, p. 95 e nel Leviatano, XIII, Condizione naturale, p. 121) come
esemplificazione dello stato di natura al presente. L’effetto è quello del decentramento –
della perdita delle coordinate precedenti che organizzano i quadri di riferimento teoretici,
etici e politici.
È anche un’epoca che segna il distacco dalla temperie rinascimentale, che ancora concepiva
l’umano iscritto in un quadro cosmologico, e produce una matematizzazione della
conoscenza – come la fisica Galileiana che contribuisce anch’essa alla crisi delle coordinate
di riferimento precedenti (e ricordiamo che Hobbes lavora per Francis Bacon, innovatore dei
metodi conoscitivi). A questo si aggiunge lo sviluppo della scienza medica che, abbandonato
l’approccio galenico, getta le basi per una concezione del corpo umano come macchina (la
circolazione sanguigna di Harvey).
Tra le altre correnti di questa crisi profonda, possiamo individuare anche la diffusione
dell’accesso al testo biblico (Gutemberg 1450), così come promosso dalla Riforma – che
mina la funzione di auctoritas della Bibbia – in breve la legittimazione politica a mezzo della
religione - soprattutto quando accompagnata dalla prolungata fase delle guerre di religione
(1559-1648, pace di westfalia).

125
E in effetti, troviamo tutti questi elementi presenti nell’opera hobbesiana, di più, ci
permettono di comprendere il perché della stessa struttura dei testi
- Il meccanicismo del De corpore (1655) e la sua stretta correlazione con la trattazione
del De homine (1658) – l’essere umano va considerato quale corpo fisico, sottoposto alle
[1]
leggi del moto
- La struttura stessa del Leviatano (1651), che antepone alla trattazione dello stato di
natura dieci capitoli dedicati all’uomo come essere senziente, soggetto di moti volontari – di
passioni
- E ancora, in riferimento al Leviatano, troviamo la tanto discussa presenza del
riferimento al piano divino-religioso (parte III, Di uno stato cristiano) (tra Strauss e Bobbio
che lo vogliono secolarizzatore e Schmitt che vi vede la prova di una «teologia politica»).

Crisi determinata. Dicevo, crisi profonda che Hobbes affronta, elabora. Ma anche crisi
determinata, vale a dire la crisi storico-sociale della guerra civile inglese (1642-1652), che
per alcuni interpreti di rilievo di Hobbes è anche transizione verso il nuovo assetto mercantile
dell’economia inglese (Macpherson, teoria dell’individualismo proprietario 1962) – in
relazione a questa ultima lettura la crisi determinata assume la profondità storica
dell’accumulazione originaria quale condizione dell nascente ordine capitalistico.
Sebbene oggi esistano letture che riprendono in chiave democratica l’ultima opera di H. – il
Behemoth, storia delle cause della guerra civile inglese (1668) (j.j. hamilton), continua a
predominare nella letteratura più recente su Hobbes – fatto salvo Q. Skinner Hobbes and the
Republican Liberty (Cambridge UP 2008) – l’accento sulla sua risoluzione antirepubblicana
della crisi politica.
Vedremo peraltro come il tema della crisi – sotto il correlato termine di «incertezza» informi
l’altra grande costellazione problematica di Hobbes, quella cioè dell’antropologia politica.
Ecco dunque un primo piano di riapertura sul presente che, anziché prendere Hobbes nel
verso privativo – cioè riferimento di un’epoca, quella moderna, quella della sovranità e dello
Stato-nazione, rispetto al quale lavorare per progressive sottrazioni alla sua architettonica –
lo assume come un pensatore di fronte alla crisi, dunque in consonanza con i problemi che
il pensiero politico affronta oggi e di cui Hobbes rappresenta una delle risposte possibili.

L’antropologia politica. La necessità di riaprire la questione dell’antropologia politica è


strettamente correlata alla crisi del politico, sia che lo si voglia intendere come stato di
eccezione, sia che lo si voglia intendere come emersione di disposizioni umane che si
sottraggono alla razionalità calcolante del civis.
Ecco allora l’altro campo di riapertura della lezione hobbesiana sul presente. Hobbes in
effetti, da almeno dieci anni a questa parte, è riferimento come il «filosofo che ha iscritto la
paura al cuore stesso del funzionamento del politico» - basti pensare ai tanti lavori sulla
questione del male, del rischio, della morte, delle passioni tristi (Esposito Communitas ;
Pulcini La cura del mondo. Paura e responsabilità in età globale; Forti, Paranoïa e politica;
Portinaro, I concetti del male).

126
Pensatore che assume l’essere umano nella sua dimensione passionale e dunque – fatto colto
da pochi – che istituisce il campo propriamente moderno dell’antropologia politica (R.
Martinelli, Uomo natura mondo. Il problema antropologico in filosofia).
Va così registrato un cambio di prospettiva, nelle sue articolazioni.
Il cambio di prospettiva assume in prima istanza un Hobbes che non solo rinnova
profondamente le intuizioni antropologico-politiche del Rinascimento, ma che le inserisce
in un paradigma discontinuista – un paradigma che distingue l’homo – lo stato di natura –
dal civis – la dimensione pattizia. Una distinzione che per quanto fondativa dell’intera
architettonica, sembra avvitare il filosofo in una petizione di che risolve per un tutto sempre
società civile e una riduzione al diritto positivo
In effetti, da questo punto di vista, H. appare come un pensatore della soglia tra stato di
natura e stato civile, una soglia mobile, che si costituisce in un debito reciproco.
Assume così un diverso rilievo il dibattito che accompagna l’opera e l’innovazione
hobbesiana, sullo statuto da attribuire allo stato di natura – cioè come esistente di fatto oppure
come ipotesi seppure logicamente necessaria: Mondolfo, Donati, Righi « concetto limite »,
Strauss, La filosofia politica di H. 1936 « costruzione necessaria », o nella distinzione di
Pufendorf (De iure naturae et gentium) tra stato naturale puro (l’umanità in generale) e stato
naturale, così come si può verificare in alcune circostanze determinate (la guerra civile, ad
es.). Tanto che lo stesso Hobbes nella polemica con il vescovo Bramhall (svoltasi nel 1645
e ed. 1676) ammette che il «genere umano potrebbe non essere mai stato senza società», ma
parzialmente mancante – in altri termini, che lo stato di natura vada pensato come momento
specificamente storico della società civile (frammisto). Rimando qui alla specifica
definizione che Agamben dà allo stato di eccezione, in relazione al rapporto tra stato di
natura e politico costituito: come quella situazione in cui ciò che era esterno alla vita
associata pervade ciò da cui doveva rimanere separato.
Ed è in questo quadro – più complesso di quello che attribuirebbe la conflittualità al solo
stato di natura pre e post patto - che possiamo ripensare anche al tema del conflitto in
riferimento al pensiero hobbesiano.

Costellazione problematica del conflitto


Il conflitto in Hobbes non è un concetto, ma piuttosto una costellazione problematica. A
cominciare dal fatto, come detto sopra, che – una volta abbandonata la telelogia della
costituzione del potere sovrano – appare come la conflittualità connaturata all’essere umano
non si possa distinguere tra una dimensione di effettualità e una dimensione di sospensione.
Abbiamo due versioni delle tensioni connaturate all’essere umano, rispettivamente nel De
cive (1642-47) e nel Leviatano (1651)
De cive, cap. I, 12, p. 94 – Parte prima dedicata alla libertà (fuori dalla società civile)
La tendenza naturale è alla distruttività – nuocersi l’un l’altro – tendenza fondata nelle
caratteristiche passionali, potenziata successivamente dal diritto naturale.
La condizione umana è dunque guerra, ma più precisamente guerra individualizzata e
onnipervasiva.
Il termine guerra viene ulteriormente precisato come intenzione, al di là dello svolgimento
effettivo dello scontro. La pace è il tempo residuale. CIT 2, p. 95
Nel Leviatano la questione è più articolata e dettagliata (pp. 92 e ss):

127
La conflittualità si iscrive come «inclinazione generale» dell’umano secondo la seguente
concatenazione (parte I, cap. XI, Della differenza dei costumi), p. 93
- Desiderio perpetuo e senza tregua di un potere (bene) dopo l’altro
- Essendo a base individuale – lo sottolineo, questo è un paradosso hobbesiano –
caratteristica di specie che contrappone un individuo all’altro – genera nell’ordine:
Competizione (competition)
Da cui discende un’inclinazione alla:
Contesa (contention)
Inimicizia
Guerra
Inclinazione e disposizione antropologica qui si sovrappongono, là dove nel cap. X Del
potere, del pregio, della dignità, dell’onore e della disposizione (p. 92), si parla della
disposizione come una attitudine.
La guerra dunque compare come un’attitudine umana – quella che causa i successivi
passaggi verso il potere costituito. E vorrei sottolineare come questa disposizione umana,
quindi di specie, abbia poi però un effetto individualizzato e dunque disgregativo. È pur vero
che la guerra deriva dai diversi modi di intendere e conseguire il proprio bene, ma questi
diversi modi sono sempre trattati da Hobbes come attitudini e costumi – il tema seicentesco
dell’habitus – che proprio in quanto tale individuale non è. Ma soprassediamo a questa
incongruenza (de homine, cap. XIII, p. 610 ss.)
Nel capitolo XIII del Lev. – Della condizione naturale dell’umanità per quanto concerne la
sua felicità e la sua miseria, viene ripreso il tema della disposizione alla guerra, cioè come
virtualità dell’essere umano – non è necessario che lo scontro si realizzi (p. 120). È
importante sottolineare la declinazione temporale dello stato di guerra – che è pervasivo
proprio perché non si limita alla effettualità dello scontro e del conflitto, ma si estende
all’intenzione conflittuale, alla tensione. Sembrerebbe dunque che si stia parlando della
costituzione fisiologico-passionale dell’essere umano. E tuttavia, pochi passaggi prima (p.
119) troviamo tre cause principali della contesa che ricordo, discende dalla naturale
competitività: la competizione, la diffidenza, la gloria. Ecco che si apre un primo aspetto
della liminarità con cui Hobbes tratta la questione della conflittualità umana. In effetti, pur
facendo ancora una volta riferimento ai «selvaggi» d’America (p. 121) – quindi a un fuori
che vive in maniera brutale – gli esempi che vengono portati della conflittualità e delle sue
cause sono prelevati da un piano di convivenza già altamente organizzato: Lev. XI della
differenza dei costumi
Amore per la virtù, per la lode 95
Difficoltà a ricambiare benefici
La vanagloria 96
Ambizione e irrisolutezza 97
Ma ancora prima, nel cap. VI dedicato ai moti volontari, alle passioni, troviamo un elenco che
evoca più che inclinazioni elementari, delle vere e proprie situazioni che potremmo definire
culturali e sociali – la vana gloria o l’impudenza come disprezzo della buona reputazione p. 57
(peraltro la reputazione è tema ampiamente esaminato nella letteratura sulle maniere del 600

128
francese, sui salotti – e difficile ascrivere questi allo stato di natura inteso come stato
fisiologico-passionale nel senso hobbesiano).
Sempre in queste pagine vediamo anche il trapassare della paura da timore dell’altro a timore
reverenziale (sempre nel cap. VI sulle passioni, p. 55).
L’awe è il timore reverenziale nato dall’ignoranza delle cause del danno che fa volgere alla
religione – ma mentre l’altro umano provoca timore senza ulteriori aggettivazioni – ritroviamo
il termine awe, dunque timore reverenziale nella caratterizzazione della soggezione al potere
sovrano. La paura dunque non è passione che rimane confinata nello stato di natura, anzi il
timore, la paura antropologica (fera) ricompare nell’ambito politico nella sua forma
intensificata della soggezione intimorita (v. L, XXXVIII, Delle punizioni e delle ricompense).
È questa una notazione avanzata da Carlo Ginzburg, che in Paura reverenza terrore. Rileggere
Hobbes oggi (2008) mostra come fear e awe trapassino l’uno nell’altro. Per altri versi e con
tutt’altre finalità, Skinner mostra come il timore permanga da un ambito all’altro e che il
passaggio si manifesti piuttosto nel trasformare la causa del timore che da ostacolo esterno
diventa prodotto da un ostacolo interno e dunque induca ad azioni liberamente necessitate –
come quando in caso di rischio di naufragio si decide di gettare a mare il carico, dunque lo si
fa non a danno di se stessi ma anzi in vista della propria salvezza (v. Leviatano, sulla libertà dei
sudditi, p. 206) e, di nuovo, in questa direzione sembra andare anche Bobbio, quando insiste su
una presenza ultimativa della società costituita dal potere sovrano (nota p. 149 de cive).

Sicurezza, protezione, incertezza. Abbiamo visto come – abbandonando la teleologia statuale


dell’architettonica hobbesiana – il passaggio e la distinzione lineare tra stato di natura e
comportamenti civili si affievolisca. Di più, appare come la costruzione delle due sfere istituisca
un rimando speculare – da intendere in senso stretto, cioè dove lo stato di natura è il riflesso
invertito della dimensione pattizia primariamente stabilita – a potere assoluto deve
corrispondere una distruttività naturale assoluta. Possiamo parlare di una linea di legittimazione
negativa e discontinuista.
Ora, per concludere, vorrei soffermarmi sulla coppia di termini – sempre liminare, tra
antropologia politica e politica costituita – di sicurezza e protezione, perché è attraverso questa
che in Hobbes viene stabilito il principio logico del passaggio dallo stato di natura al patto. In
effetti, la necessità del potere sovrano è formulata in termini di protezione degli umani da loro
stessi. È fin dal cap. VI sui moti volontari ma poi soprattutto nel cap. XIII sulla condizione
naturale del Leviatano che troviamo ripetute occorrenze del termine « sicurezza » - cit. p. 120
A […] E sicurezza è strettamente connessa alla conservazione di sé, del proprio vivere (L, XIII,
pp. 118-120 ; De Homine, XI, 6, p. 595), o, di converso, alla protezione che ci si può procurare
da sè (L, XXI, della libertà dei sudditi, p.216), al punto che si arriva a dire che l’obbligo verso
il potere sovrano recede quando questo non è in grado di dare protezione. Ora, va notato che la
sicurezza ha una dimensione temporale – come già la guerra. La sicurezza è uno stato che
consiste proprio nella sua dilatazione temporale, garantirsi cioè il proseguimento del benessere
(non è la mera l’incolumità fisica). Ma è proprio questa dimensione temporale che introduce un
elemento trascurato nella trattazione hobbesiana. Rispetto alla sequenza insicurezza-sicurezza-
protezione, compare il lemma temporale dell’incertezza. È un termine che sicuramente coglie
lo spirito, persino il movente dell’architettonica hobbesiana – la garanzia che il
suddito/cittadino chiede al potere sovrano per il proprio benessere e di converso la

129
preoccupazione della stabilità e durata del potere sovrano. E tuttavia l’incertezza apporta un
cambio di prospettiva notevole, sia nei nessi istituiti da Hobbes, sia nell’apertura rispetto
all’analisi dei problemi del presente.
Torniamo per un momento alla questione della crisi – la perdita delle coordinate di riferimento
– genera incertezza, più che insicurezza. La crisi, soprattutto nel suo aspetto sistemico, quello
che ho definito crisi profonda, si attesta come perdita sui versanti dell’azione, dei
comportamenti (habitus) e sui criteri che ciascuna cultura e epoca rende disponibili per stabilire
il senso, l’agibilità e l’intelligibilità delle esperienze (Giardini, I nomi della crisi, p. 30). Per
altro verso, quanto alla dimensione temporale – che è elemento portante nella concezione
hobbesiana del passaggio dallo stato di natura al politico costituito - la temporalità della crisi,
nelle sue varie manifestazioni - che siano la presentificazione o l’apocalissi – pregiudicano il
senso del futuro, della prospettiva. L’incertezza è uno stato che dal punto di vista temporale
connette in modo stringente, seppure negativo, il presente e il futuro. Ora, in Hobbes, a
giustificare il passaggio dallo stato di natura al potere costituito non è la richiesta di sicurezza,
bensì una richiesta in merito alla durata e alla stabilità delle risposte alla spinta
all’autoconservazione, quindi un’uscita dallo stato di incertezza. Tanto che, come dicevo,
quando questa uscita dall’incertezza non è più garantita – non la protezione (p. 216) che può
essere procurata da se stessi – i sudditi sono sciolti dall’obbligo. Per giunta, quanto ai
comportamenti, vediamo come quello che sembra cambiare tra stato di natura e condizione
pattizia è il grado di incertezza, non la conflittualità passionale (vedi paura e timore, ma anche
il cap. V del Leviatano delle passioni). Questo slittamento tra sicurezza e incertezza recede sullo
sfondo perché H. ne sussume le cause all’interno dell’essere umano – cioè compie
un’operazione che riporta a caratteristiche connaturate all’umano gli elementi che compongono
la crisi profonda e la crisi determinata che abbiamo visto in precedenza.
È un cambio di prospettiva di rilievo: sappiamo che l’incertezza – che è un nome forse ancora
più elementare di quello di paura che è la passione correlata a una pericolo – ha caratteristiche
temporali diverse qualora si tratti di incertezza per rischio o per minaccia – il primo trasposto
in un futuro e la seconda pur nel futuro è insita nei comportamenti attuali. Ora, Hobbes,
riducendo l’incertezza alla dimensione dell’insicurezza provocata dall’interazione tra umani –
trascurando dunque sia la dimensione sistemica e pervasiva della crisi, che proprio incertezza-
disorientamento produce, sia come questa incertezza possa essere generata da fattori che non
pertengono direttamente all’interazione tra umani – riduce la funzione del potere costituito alla
sola funzione di vincolo e contenimento – o di disciplinamento (Gianfranco Borrelli, Il lato
oscuro del Leviathan. Hobbes contro Machiavelli, 2009). O per portare la questione nei termini
delle retoriche pubbliche attuali, costituisce un nesso tra crisi e governo della crisi attraverso il
controllo. È in questo quadro, che elide l’incertezza riducendola alla questione dell’insicurezza,
che possiamo capire le motivazioni che nella letteratura contemporanea spingono a un certo uso
di Hobbes – quelle letture che associano le cosiddette democrazie autoritarie al governo della
paura. O per altro verso, quelle letture che vedono il potere hobbesiano piegato all’esercizio
della gestione del rischio di morte ovvero in termini hobbesiani di protezione (Esposito,
tanatopolitica o Mbembe, necropolitica, ma anche Butler in vite precarie), o ancora di risposta
securitaria alla domanda di sicurezza. La mancata presa in conto di questo rilevante slittamento
tra incertezza e insicurezza, porta così al paradosso di una paura senza conflitto.

130
Sappiamo come nelle retoriche pubbliche attuali non è la situazione di conflittualità che chiama
a un intervento, bensì direttamente la paura, il senso di insicurezza, che in consonanza con
l’operazione hobbesiana viene attribuita a cause più percettibili benché immaginarie (aumento
dell’insicurezza fisica e patrimoniale dati in calo del 10-16% (fatti salvi i femminicidi), eccesso
della presenza di migranti, su una percentuale dell’8.5%) – di quanto non siano i fattori di crisi
e dunque le cause dell’incertezza. O ancora, la commistione della paura provocata dal potere
costituito con la paura antropologica dell’altro. Per altro verso, la questione se interpretata come
insicurezza cui si risponde con la protezione, manca di cogliere l’aspetto stratificato e sistemico
della crisi che comporterebbe una richiesta non di sicurezza ma di politiche sulle condizioni di
vita, cioè una riapertura del futuro, della progettualità – questa la riformulazione temporale
della coppia certezza-incertezza.

La compresenza di dissoluzione dello stato e rafforzamento dello stato


Per dissoluzione obbligo – inteso come cause endogene – là dove invece tale dissoluzione può
avvenire in modo sostanziale per crisi – crisi della rappresentanza ovvero in termini hobbesiani
crisi delle ragioni dell’obbligo – che sono i motivi dello scambio tra incertezza e obbligo. […]
Così passare dal tema della insicurezza a quello dell’incertezza – quale fondamento
dell’obbligo verso il potere sovrano ci permetterebbe di mettere a profitto il cap. XXI (p. 216)
sulla libertà dei sudditi, là dove si è sciolti da tale obbligo nel momento in cui tale certezza non
viene più fornita dal potere sovrano in misura maggiore a quanto la libera associazione tra
umani possa fare.

Brani da F. Giardini, Conflitti. Il paradigma hobbesiano e le mutazioni del


contemporaneo

[1]
Nel De corpore, dopo aver esposto la filosofia prima e la fisica, Hobbes procede a stabilire i fondamenti della scienza morale. Le radici
del comportamento umano affondano nella percezione e nell’immaginazione, le cui cause sono di carattere meccanico-fisiologico. Gli oggetti
esterni premono sugli organi sensoriali provocando un movimento delle parti («conatus») che si trasmette fino all’interno; a questo moto segue
(per la nota legge meccanica) un movimento eguale e contrario, vale a dire dall’interno verso l’esterno. Per questa ragione l’oggetto visivo
appare dislocato nello spazio, quasi vi fosse proiettato [ibidem, 379]. Dagli oggetti esterni i movimenti fisici si trasmettono inoltre fino al
cuore, che è sede della vita, provocandovi un’accelerazione oppure un ritardo nel processo vitale: di qui le sensazioni di piacere e dolore
[ibidem, 391]. Accade allora che l’uomo si rivolga verso gli oggetti dai quali per esperienza passata si aspetta piacere, e si ritragga invece da
quelli che possono provocare dolore: in questo modo si generano «desiderio» e «repulsione» (appetitus et fuga). Quando il desiderio e la
repulsione sono preceduti dalla «deliberazione» (deliberatio) o riflessione, Hobbes parla di «volontà» e del suo corrispettivo negativo
(velle/nolle) [ibidem, 392 ss.]. Questa la «meccanica elementare» dei moti dell’animo umano, che si può dire sia mirabilmente inaugurata da
Hobbes in queste pagine.
Nel distacco dalla reattività immediata agli stimoli introdotto dalla deliberatio (proprio il prendere distanza dalla reazione riflessa sarà un tema
centrale dell’antropologia filosofica novecentesca, cfr. infra, cap. 5, par. 2) alcuni critici hanno individuato un momento specificamente umano,
capace di sottrarre l’uomo di Hobbes a un meccanicismo troppo rigoroso. Nell’uomo alberga una duplice natura, naturale e riflessiva
[Bartuschat 1981, 24], che è quanto lo indebolisce: i desideri si moltiplicano a dismisura e cresce del pari, in conseguenza, la paura di ciascuno
nei riguardi dell’altro. Tuttavia, le espressioni hobbesiane relative alla deliberazione sembrano applicarsi in qualche misura anche agli animali
e agli esseri viventi in generale: l’uomo non fa eccezione alle regole della natura fisica [Cramer 1981, 43]. L’intenzione hobbesiana è
certamente quella di fornire una fisica dell’associazione umana a partire dai semplici meccanismi fisiologici delle sensazioni di piacere e
dolore; questo pone però il problema di riconoscere una particolarità nell’uomo, l’unico essere capace di associazione politica in senso proprio.
Nel De homine l’analisi viene ripresa e proseguita. Desiderio e repulsione, argomenta Hobbes nel capitolo undicesimo, sono conseguenze
degli oggetti dei sensi. Hobbes introduce qui la celebre analisi del problema del libero arbitrio, sviluppando considerazioni che verranno
riprese, quasi immutate, da tutto il determinismo successivo [Tönnies 1896, 153]. Il volere, argomenta il filosofo di Malmesbury, non è libero:
non siamo liberi di avere fame o sete, di desiderare o meno l’una o l’altra cosa. Quello che accade è che tra il volere e la sua realizzazione vi
siano, o meno, degli impedimenti: in quest’ultimo caso si parla di libertà [Hobbes 1658, trad. it. 1986, 593]. Poiché non sentire è non vivere,
e ogni sentire è desiderio o repulsione, ne segue per Hobbes che il «sommo bene» non consiste nella fruizione del bene desiderato (ché il
processo si arresterebbe), ma nel continuo procedere, in assenza di impedimenti, verso fini ulteriori [ibidem, 601]. A questo punto, dopo queste
necessarie premesse, s’innesta la philosophia civilis vera e propria: il confliggere delle volontà crea il bellum omnium in omnes, l’impossibilità
a conservare il sommo bene inteso come conservazione della (propria) vita, e la conseguente stipula del patto politico che dà origine allo stato.

131
SPINOZA
Spinoza, Baruch (1632-1677). Filosofo olandese di origine ebraica. La sua famiglia,
proveniente dal Portogallo, aveva raggiunto Amsterdam due generazioni prima. Nei confronti
dell'ortodossia religiosa della propria comunità, Spinoza manifesta fin dalla giovinezza un
forte dissenso, al punto che nel 1656 viene espulso perché ritenuto colpevole di eresia; da
allora è costretto ad abbandonare l'attività commerciale ereditata dal padre e a guadagnarsi da
vivere levigando lenti per telescopi e microscopi.
La filosofia cartesiana costituisce il punto d'avvio della sua riflessione (come testimoniano i
suoi Principi della filosofia cartesiana, del 1663) , che manifesta anche un grande interesse
per la realtà sociale, politica e religiosa dell'epoca, di cui l'epistolario dà numerose indicazioni:
dai contatti con la setta riformata dei Collegianti alle amicizie con esponenti del partito dei
Regenten, ai rapporti con uomini di cultura di altri paesi, quali Oldenburg o Leibniz. Durante
tutta la vita egli continua a lavorare al suo capolavoro, l'Etica ordine geometrico demonstrata,
che tuttavia non viene pubblicato se non negli Opera Postuma, temendo Spinoza la censura
— poi puntualmente arrivata — da parte delle autorità politiche. La morte per tisi lo coglie
nel 1677, mentre è intento alla scrittura del Trattato politico, che resterà incompiuto. Se il
confronto con Cartesio gioca un ruolo di grande rilievo nella metafisica spinoziana, sul piano
della teoria politica è invece la figura di Hobbes ad assumere una rilevanza di primo piano.
Spinoza riconosce infatti la novità del naturalismo antropologico hobbesiano, riprendendone
nella sua prima opera politica, il Trattato teologico-politico (pubblicato anonimo nel 1670),
la terminologia giusnaturalistica e l'approccio contrattualistico alla costituzione della società
politica; tuttavia, a partire dall'assunzione di un orizzonte semantico comune, sono rilevabili
delle differenze decisive, che riguardano essenzialmente la relazione esistente tra lo stato di
natura e lo stato civile.
La presa di distanza nei confronti delle tesi hobbesiane si radica nella dimensione ontologica
della filosofia di Spinoza: la prima parte dell'Etica punta infatti a dimostrare la natura
necessaria della causalità divina, dalla quale si deduce l'assoluta univocità di Dio (Dio è causa
delle cose nel medesimo senso in cui è causa di se stesso); il che significa che in Dio potenza
ed essenza si identificano. Questa identificazione impedisce che si possa ipotizzare una libera
volontà divina, analoga a quella presupposta nell'uomo; al contrario, Spinoza opera una critica
serrata al finalismo e all'antropomorfismo teologico. L'uomo, modo della sostanza divina
secondo gli attributi del pensiero e dell'estensione, è inserito nella catena causale in cui si
dispiega la potenza di Dio. La sua è quindi una potenza finita, che si esprime attraverso la
tendenza (conatus) a perseverare nell'esistenza per un tempo indefinito, e che pertanto
aderisce interamente ai meccanismi di riproduzione della natura nel suo complesso, né è
concepibile al di fuori di essi. Per tale ragione il diritto naturale individuale, sul quale si
soffermano sia il Trattato teologico-politico sia il Trattato politico, e che in entrambi i testi
viene esplicitamente equiparato alla Potentia, non può assumere le caratteristiche di un
canone morale che permetta di distinguere a priori ciò che è giusto da ciò che non lo è; invece,
esso esprime le regolarità rintracciabili nel comportamento umano, a partire dal
riconoscimento di alcuni affetti primari e del loro interrelarsi. Nello ius naturale (diritto
naturale) si radica tanto l’uguaglianza tra tutti gli uomini, quanto il loro potenziale disaccordo,

132
che deriva dall'elemento passionale della natura umana; un disaccordo che produce quelle
relazioni di potere che determinano un quadro di 'insocievole socievolezza', ovvero di
ambiguo desiderio di unirsi e, nel medesimo tempo, di sopraffarsi reciprocamente.
Data l'instabilità presente allo stato di natura, secondo Spinoza gli uomini riconoscono che la
vita in società è necessaria, e che anzi non si danno diritti individuali al di fuori di un diritto
comune, al punto che la stessa nozione di individualità è logicamente inseparabile da quella
di transindividualità. In quest'ottica, la costituzione di una società politica non implica alcun
mutamento dello scenario naturale, svolgendosi interamente all'interno dell'orizzonte segnato
dagli affetti e dall'immaginazione, nel quale sorgono gli stessi diritti comuni sopra indicati.
La nascita di uno Stato (imperium) si dà piuttosto nella transizione da una situazione
associativa instabile a una nella quale lo ius commune interviene coattivamente sugli aspetti
anti-sociali delle potenze individuali. La potenza collettiva (Potentia multitudinis) si specifica
così nelle leggi e nelle istituzioni che garantiscono il funzionamento del corpo comune
(respublica) , senza che la separazione tra governanti e sudditi, pur espressa giuridicamente
dalle leggi, dia vita a una nuova forma di obbligazione, diversa da quella del potere naturale.
Se, dunque, il diritto politico non è altra cosa da quello naturale, che viene mantenuto integro
all'interno dello Stato, allora il meccanismo pattizio deve trovare una formulazione
completamente diversa rispetto a quella hobbesiana. Infatti il lessico contrattualista del
Trattato teologico-politico (che peraltro il secondo Trattato non ripresenterà), lungi
dall'assumere una valenza apodittica, indica piuttosto lo spazio concreto in cui si produce una
mediazione tra le differenti nature degli uomini. Più che un atto razionale, la pattuizione e il
conseguente trasferimento dei diritti naturali individuali sono il prodotto dell'immaginazione,
ovvero, ancora una volta, l'esito di una spontanea tendenza ad associarsi, che pur esprimendosi
confusamente mette in moto un processo di stabilizzazione della società e di rafforzamento
dei suoi legami interni. Si tratta quindi di una lettura evolutiva del patto (contratto) sociale,
come si evince dall'accurata analisi della teocrazia ebraica presente nel Trattato: il regime
istituito da Mosè — e non da Dio — esprime infatti il massimo di coesione raggiungibile da
un popolo attraverso la religione, intesa però non come una forza trascendente, bensì come
l'espressione più adeguata della potenza comune. D'altronde, il rifiuto di ricorrere a un
elemento di trascendenza per dare forma unitaria alla pluralità empirica è evidente
nell'assenza di qualsiasi riferimento al principio rappresentativo, che nel Leviatano è invece
al fondamento della legittimazione del potere assoluto del sovrano.
La presenza ineliminabile dell'elemento affettivo modifica anche la riproposizione del1a
classica questione del sovrano legibus solutus: infatti, proprio a causa dell'incomprimibilità
dello spazio occupato dalle passioni individuali, concepire un potere assolutamente
indipendente dalle circostanze concrete nelle quali esso si dispiega è frutto di una percezione
allucinata della realtà, il cui esito inevitabile è l'insurrezione dei sudditi e la distruzione dello
Stato. In tal senso, nessun cittadino è mai completamente escluso dai processi di produzione
della decisione politica, per quanto le forme istituzionali di alcuni regimi (in primis quello
monarchico) sembrino indicare il contrario, dal momento che ogni uomo non può fare a meno
di esprimere la propria natura, cioè il proprio diritto naturale e la potenza che lo definisce,
passioni comprese.
Tuttavia, esistono forme statali che più di altre riescono a ottimizzare gli aspetti collaborativi
dello ius naturale, e sono quelle in cui domina non la volontà di un singolo o di una parte,

133
bensì la legge, che definisce la partecipazione dei cittadini al governo della cosa pubblica.
Spinoza definisce in tal modo la democrazia (imperium democraticum), che manifesta il più
alto grado di assolutezza, cioè di autonomia, possibile in uno Stato, poiché nell'universalità
della legge generata dal consenso si realizzano quei diritti comuni che contrastano
vittoriosamente il carattere anti-sociale delle passioni. In democrazia, affermano gli ultimi
due capitoli del Trattato teologico-politico, le leggi ampliano al massimo gli spazi di
comunicazione tra gli individui, permettendo così all'uguaglianza sancita dal diritto di natura
di progredire verso la piena razionalizzazione delle relazioni interumane, cioè verso la libertà
dispiegata.
Il riconoscimento, presente nel capitolo XX del Trattato teologico-politico, che la libertà è lo
scopo ultimo per cui la respublica viene istituita, manifesta il radicarsi della filosofia politica
spinoziana nell'etica, e nel contempo la perfetta coincidenza di quest'ultima con l'intero
impianto metafisico che, affermando la piena identità di libertà e necessità, costituisce la
condizione di possibilità della liberazione degli uomini dalla passività.

Brani tratti da S. Visentin, in C. Galli, R. Esposito (a cura di), Enciclopedia del pensiero
politico, Laterza, Roma-Bari 2000

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LOCKE
Locke, John (1632-1704). Filosofo inglese. Conobbe a Oxford lord Ashley, presso il quale
svolse mansioni di segretario privato. Questa amicizia e le traversie politiche che
accompagnarono il suo protettore gli procurarono per due volte l'esilio, prima in Francia nel
1672, poi in Olanda nel 1679. Qui si legò alla causa degli orangisti, anche se il suo grado di
adesione al programma politico di Guglielmo d'Oranges non fu sufficiente a spingerlo,
rientrato in patria, all'impegno politico diretto. Concluse la sua esistenza nel ritiro di Oates
lasciando una notevole mole di lavoro scientifico.
1. Dopo una prima fase caratterizzata da un'impostazione più tradizionale, divenne uno dei
maggiori esponenti dell'empirismo e il riconosciuto ispiratore della rivoluzione borghese
inglese. Il suo pensiero si formò attraverso la confutazione delle opere di Cartesio, cui lo
contrapponeva una diversa concezione della natura della ragione umana. Per Cartesio la
ragione è un’essenza unica e universale, uguale in tutti gli uomini e posseduta da tutti in eguale
misura perché 'innata'. Per Locke, come per Hobbes, la ragione si forma invece attraverso
esercizio e disciplina, cosicchè le differenze tra gli uomini risultano così grandi che non vi è
alcuna possibilità di superare attraverso la volontà i limiti del 'sapere probabile'. Nel Saggio
sull'intelletto umano (1690) egli afferma che la mente è una tabula rasa e tutto il suo
contenuto successivo è frutto dell’esperienza interna (riflessione) e dell’esperienza esterna
(sensazione).
Nei Saggi sulla legge di natura (1663-64), accentuando la dimensione pragmatistica della sua
concezione della ragione, precisa di intendere per ragione non la facoltà deduttivo-razionale,
ma «alcuni determinati principi pratici dai quali emanano le fonti di tutte le virtù, nonché tutto
ciò che è necessario a formar bene i costumi». Nel 1690 pubblicò i due Trattati sul governo,
nei quali confutò le tesi dell'origine divina della monarchia e formulò la dottrina

134
contrattualistica, che tra l'altro aveva fornito la legittimazione teorica della rivoluzione del
1688. Il contenuto dei due Trattati costituisce il fondamento della sua filosofia politica. Il
Primo Trattato, rivolto contro il Patriarcha di Filmer, dimostra essenzialmente che non
esistono in natura, né per volontà diretta di Dio, stabili configurazioni di potere e di autorità.
Nel Secondo Trattato, così, si può abbracciare l'ipotesi dello stato di natura e uguaglianza tra
gli uomini. Lo stato di natura è una condizione entro la quale la possibilità del conflitto,
benché meno radicale di quello descritto da Hobbes, è continuamente presente e questa
evenienza costringe l'uomo ad abbandonare la natura e a scegliere la società, per avere
salvaguardati i diritti naturali: vita, libertà, proprietà. Sia per la separazione dei poteri (fra
legislativo, esecutivo e confederativo) sia per il primato logico e politico del legislativo, frutto
diretto del contratto sociale, sull'esecutivo, subordinato al primo, sia per la costante presenza
dei diritti naturali rispetto alle logiche della politica (una preminenza che giustifica il ricorso
all’ ' appello al cielo', alla rivoluzione, quando non vi sia modo legale per salvaguardarli),
quello di Locke è l'esempio prototipico di un pensiero coerentemente liberale.
Soltanto il consenso di coloro che partecipano a una comunità stabilisce il diritto all’interno
di essa; ma, a differenza di Hobbes, tale consenso non si origina dalla paura, bensì da un atto
di libertà. Nel Secondo Trattato, la proprietà diventa esplicitamente una forma di presupposto
della comunità politica. Infatti, non è il rispetto puro e semplice delle leggi vigenti in uno
Stato a costituire, per Locke, la prova dell’appartenenza a una comunità politica, bensì il
consenso esplicito o il godimento di qualche diritto che origina dalla terra. Quindi la proprietà
di ciascuno e il suo rispetto da parte degli altri determinano una forma di condivisione che va
al di là della mera estensione del diritto.
Nel 1689 Locke pubblica Locke pubblica l'Epistola sulla tolleranza, dopo una lunga e
tormentata riflessione contenuta in precedenti scritti inediti dedicati tutti al tema della
tolleranza religiosa. Nell'Epistola Locke individua in quest'ultima il punto di incontro delle
finalità di Stato e Chiesa nell'autonomia dei rispettivi compiti e interessi.
Lo Stato, secondo Locke, è «una società di uomini costituita per conservare e promuovere
soltanto i beni civili» (la vita, la libertà, l'integrità del corpo, il possesso delle cose esterne).
Questo compito definisce i limiti della sua sovranità: la salvezza dell'anima è chiaramente al
di fuori di questi limiti, perché essa dipende dalla fede e la fede non può essere indotta con la
forza. La Chiesa, per Locke, è una «libera società di uomini che si riuniscono spontaneamente
per onorare pubblicamente Dio nel modo che credono sarà accetto alla divinità, per ottenere
la salvezza dell'anima». Quindi la Chiesa non può nulla nell'ambito dei beni civili o terreni,
né può far ricorso alla forza per alcun motivo giacché è lo Stato che ne detiene il monopolio
legittimo.
Per quanto neppure nell'Epistola la tolleranza trovi un riconoscimento incondizionato, perché
Locke ritiene che coloro che negano «l'esistenza di Dio non possono essere tollerati in alcun
modo», tuttavia vi si rinviene il ragionamento che costituisce il principio della fondazione
della 'laicità' dello Stato. In questo testo Locke sostiene il principio della moderna libertà di
coscienza attraverso un percorso che cerca di non sminuire il valore della religione. La sua
teoria della religione, o meglio la sua visione della Ragionevolezza del Cristianesimo (1695),
rappresenta un originale percorso per fuoriuscire dalla opposizione di fede e ragione secondo
la classica argomentazione usata dal pensiero degli scrittori libertini (libertinismo). Egli cerca
di ricondurre il cristianesimo al nucleo essenziale, spoglio di superstizioni, nel quale sono

135
contenuti precetti indirizzati alla vita morale dell’uomo e che, in quanto tali, appaiono
compatibili con la razionalità umana. Il contenuto fondamentale di fede del messaggio
cristiano appare così semplicemente ridotto, in Locke, ai due postulati del riconoscimento di
Cristo come Messia e dell’individuazione della vera natura di Dio. La giustificazione del
cristianesimo sta, secondo Locke, nella sua ragionevolezza e utilità. Esso ha prodotto una
forte diffusione e un radicamento popolare di precetti morali che, altrimenti, sarebbero rimasti
puro patrimonio dei filosofi. Legge morale e verità fondamentali che governano la vita
dell'uomo si giovano, in questo processo di radicamento, della forza prescrittiva che la fede
attribuisce loro. Dunque nessuna estraneità della ragione al cristianesimo, che non ha bisogno
neppure di venire emendato della parte più superstiziosa e caduca perché nemmeno essa ne
offusca l'intrinseco principio razionale.
Anche i Pensieri sull'educazione concorrono a formare il quadro di una concezione armonica
della relazione tra razionalità ed esperienza e di una definizione duttile della scelta razionale.
L'educazione dell'uomo consiste appunto nell’addestrarlo a esercitare la ragione stessa sui
contenuti particolari che gli vengono di volta in volta offerti dall'esperienza. Attraverso la
ragione il circuito virtuoso tra interiorità ed esteriorità, mente e mondo, rimane aperto e
attraverso l’educazione si persegue il fine della formazione della dignità dell’uomo.

Brani tratti da F. Papa, in C. Galli, R. Esposito (a cura di), Enciclopedia del pensiero
politico, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 395-397

LETTURE E VISIONI CONSIGLIATE:


D. Defoe, Robinson Crusoe (1719)
Cast Away (2000, regia di R. Zemeckis)

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MARY ASTELL (1666-1731)

Agli albori del liberalismo


Ammirata da Virginia Woolf, che la considera sua precedente in Le tre ghinee23, Mary Astell
(1666-1731) vive nella turbolenta Inghilterra del Seicento, in quella fase di transizione che
dalle guerre civili porta ai primi lineamenti di uno “Stato di diritto”. È una figura peculiare, al
limite del paradosso: dalla sua posizione conservatrice, partecipa infatti alla corrente dei Tories,
è la prima a sviluppare una critica d’insieme all’opera di John Locke, padre del nascente
liberalismo, e a svelarne i meccanismi interni, al di là delle argomentazioni che lo vorrebbero
un ordine ricalcato sulla libertà umana. Come pamphlettista assai nota e seguita – sarà ripresa,
anche con dileggio, da Defoe, Swift, Berkeley - si impegna in dibattiti filosofici e politici e,
pur mettendo al centro la posizione prevista per le donne del suo tempo, non si limita a sollevare
questioni di parte, ma interroga le condizioni di pensabilità e di realizzazione del nuovo ordine
politico. Non dunque una donna che pensa solo questioni femminili, ma una pensatrice che,

23 V. Woolf, Le tre ghinee, p. 33.

136
proprio a partire dalla sua posizione e dal rispetto per il proprio sesso, dispiega un’analisi
sull’ordine della convivenza per intero.
I primi decenni del secolo si sono aperti su uno spazio sospeso – quello delle rivoluzioni e della
crisi che le accompagna – entro cui stabilire nuove “regole del gioco”. La morte di William
Shakespeare, la partenza dei Padri Pellegrini per le Americhe, sono stati preceduti dalla fine
del regno della grande Elisabetta I, dando inizio a un lungo periodo di tensione tra la monarchia
e il nascente parlamento, una tensione che, culminata nelle due guerre civili del 1640 e del
1688, mescola le ragioni del potere a quelle della religione: quando in momenti successivi il
Parlamento cerca di imporre la fede anglicana e protestante, la Monarchia si difende
ripristinando la confessione cattolica. Anche la scienza - tra l’infinitamente grande della
scoperta newtoniana delle leggi di gravitazione e l’infinitamente piccolo rivelato dal
microscopio di Leuween-Hoeck e del calcolo infinitesimale di Newton e Leibniz – contribuisce
a scardinare le coordinate su cui si reggeva il vecchio mondo, perfezionando l’idea che esistano
leggi regolanti la natura, compresa quella umana.
In un tale periodo di crisi dei principi della convivenza e dell’immaginazione del mondo che
avevano regnato fino ad allora, la partita che si apre è dunque a tutto campo, riguarda i principi
della sovranità, le ragioni della sua legittimità e dell’obbedienza al potere costituito, come
anche i principi della conoscenza, il funzionamento del corpo e della mente umana. Politica,
religione, economia e scienza, la stessa educazione, sono ambiti ugualmente interessati
dall’opera di costruzione di nuovi principi: non si tratta infatti di stabilire soltanto un insieme
di regole aggiornate per accompagnare le trasformazioni, anche traumatiche, della società, ma
di concepire da capo l’essere umano.
Come spesso accade nella storia, i momenti in cui la convivenza perde le misure e regole
precedentemente valide sono momenti favorevoli alle donne: nel periodo delle rivoluzioni
inglesi le autorità preposte alla censura si indeboliscono e lasciano spazio per l’attività di
pubblica scrittura femminile, un costume che si rafforza con l’appoggio dell’esempio dei
Salotti francesi che i Realisti riportano in Inghilterra al ritorno dal loro esilio, e non ultimo lo
stesso teatro registra il salto della divisione dei compiti tra i generi, quando comincia ad
attribuire i ruoli femminili alle donne stesse, anziché a uomini travestiti.
Seguendo le urgenze dell’epoca, Astell è così libera di sviluppare la sua passione per la filosofia
politica24 che, tra ironia e logica argomentativa, la porta a confrontarsi con il compendio di
questo sforzo di innovazione, i Due trattati sul governo di John Locke (1680-1689): una
narrazione dell’essere umano, della sua natura, delle sue passioni e attività fondamentali, che
legittima una, e una soltanto, forma di governo.

La natura e (è) il potere


In una peculiare inversione però, a essere ricostruita non è un’idea sorgiva di natura e di natura
umana, bensì un suo simulacro, il riflesso di ciò che l’essere umano deve essere per meglio
rispondere ai nuovi rapporti di forza che vanno profilandosi. È proprio questo il cortocircuito
su cui si appunta l’acume di Mary Astell, quando con la sua celebre domanda – “se tutti gli
uomini sono nati liberi, com’è che tutte le donne sono nate schiave?”25 – registra l’incrongruità

24 Perry, p. 8.
25 M. Astell, Reflections upon Marriage, p. 18 (ed. Springborg)

137
della pretesa che il nascente ordine liberale sia una condizione non del tutto artificiale ma
semmai una protesi che suggella diritti e leggi naturali. L’ordine della convivenza presentato
da Locke, infatti, diversamente da autori precedenti come Hobbes, stabilisce una continuità tra
il modo in cui gli esseri umani vivono e la forma politica che acconsentono poi di darsi
attraverso un patto. Il Contratto che lega gli esseri umani sarebbe dunque legittimato dalla sua
stessa genesi, tutta umana, non più dal ricorso a Dio e, per giunta, nel pieno rispetto e tutela
delle loro inclinazioni naturali. Per natura e volontà divina, oramai sinonimi, sono dotati di
ragionevolezza, animati da spirito di moderazione – alla guerra e agli stermini subentra la
serenità della ricostruzione – sono padroni del loro corpo e di ciò che il corpo produce
attraverso il lavoro. Insomma, sono “individui proprietari”26 industriosi che, proprio perché
ragionevoli, non possono che constatare la maggiore utilità della cooperazione.
È però vero che le donne non rientrano nel profilo dell’individuo proprietario27. Come risulta
da The Laws and Resolutions of Womens Rights: Or the Lawes Provision for Women (una
raccolta di leggi pubblicata a Londra nel 1632) le donne difficilmente possono anche solo
vantare il titolo per rientrare tra i Covenants, i soggetti che si legano con un patto, e con loro
tutti quegli uomini non possidenti che per Locke è bene lasciare fuori dalla decisione politica.
La domanda di Astell tuttavia non è affatto mirata a sollecitare un’inclusione delle donne
nell’ordine liberaldemocratico nascente. Come vedremo, la pensatrice, povera di ricchezze,
trasforma questa condizione in una risorsa di radicalità. Nel suo scritto, Reflections upon
Marriage (1700) è l’impianto stesso della grande narrazione ad essere messo in questione.
L’occasione dello scritto è la vicenda di Ortensia Mancini che, su consiglio dello zio, il
Cardinale Mazzarino, sposa il duca di Mayenne. Il Duca è però uomo disturbato che la maltratta
e saccheggia le sue fortune, Ortensia chiede allora la separazione, che però le viene rifiutata.
Rifugiatasi in Inghilterra, non lontano dal quartiere londinese di Chelsea dove abitava la
pensatrice, ricevuto un appannaggio da Carlo II, il suo caso fa scandalo e sollecita Astell a una
serie di considerazioni. La vita di una donna, a partire dalle sue vicende matrimoniali, diventa
così occasione per un’analisi su grande scala di un’epoca di metamorfosi violente, con tutti i
rischi ma anche le invenzioni che offre. Ponendo al centro della scena le esigenze vitali di una
donna, è la stessa politica e le nuove concezioni di libertà e di legittimità che vengono svelate.
Non dunque un soggetto separato, sprovvedutamente consegnato a condizioni costruite altrove,
bensì lucido nell’appropriarsi del senso del proprio tempo. 
Il primo problema riguarda chi ha il potere di raccontare, non una favola qualsiasi, bensì un
mito che determina le posizioni e le caratteristiche dei soggetti coinvolti nel racconto e, così
facendo, pretende di offrirle alla stregua di un’evidenza e dunque di offrire ragioni
inoppugnabili per lo stato delle cose e per le leggi che lo regolano – una sorta di antesignano
del “pensiero unico”, quello rispetto a cui “non ci sono alternative”.

Compiono tutte le azioni grandi e occupano tutte le posizioni preminenti di questo


mondo (…) La giustizia e l’ingiustizia sono dispensate dalle loro mani, i tribunali e
le scuole traboccano di questi saggi; sono loro a disputare per la verità e anche contro
di essa; la storia la scrivono raccontando l’uno le grandi imprese degli altri (…) Non
solo possiedono le spade più affilate, ma tutte le spade e anche tutti gli archibugi, cosa

26 Carol Pateman, Il contratto sessuale; cfr. anche Macpherson


27 Antonia Fraser, The Weaker Vessel, pp. 9-14.

138
che, per logica massimamente evidente, li intitola a ciò che pretendono come loro
prerogativa. Chi può lottare contro di loro?28.

Il problema dunque non risiede solo nei rapporti di forza bruta, ma soprattutto nel simbolico,
cioè nell’avere o meno la possibilità di pronunciarsi sulle condizioni dell’ordine del discorso.
Le donne, come anche i “senza parte”, sono coloro che soccombono non solo per mancanza di
risorse materiali, ma anche perché non dispongono delle condizioni per avere voce ed “entrare
nel conto”29. L’unica voce che si fa sentire è quella che detta le regole e pretende pure che siano
regole valide per tutti perché evidenti, naturali. Per i vinti, dunque, la sconfitta è raddoppiata e
aggravata dal “mito”, dagli effetti dell’unica favola legittima30.
Astell comincia allora con l’assumere ironicamente la posizione dell’“ingenua” rispetto a ciò
che viene offerto come un’evidenza:
È vero che, sprovvista del sapere così come del genio di cui gli uomini godono in
quanto uomini, lei [l’autrice] ignorava tutto di quella inferiorità naturale che i nostri
maestri pongono quale verità evidente e fondamentale31.

E sottolinea come ciò che va sotto il nome di evidenza, di “legge naturale, razionale e divina”,
sia in realtà l’ordine delle cose dettato dall' “amore per il potere” e dalla “lotta per la
supremazia”, rispetto a cui “chi possiede minore forza o astuzia per conquistarla sarà sempre
svantaggiato”. Ribadisce così la propria ostinata incredulità – “non esigete da noi di vedere le
cose così come solo gli uomini possono scoprirle”32 – e comincia ad argomentare in modo
stringente. Il primo passaggio problematico è quello della continuità tra il costume e il diritto:
uno stato consuetudinario, il permanere delle abitudini del tempo, non indicano alcunché di
naturale, ma piuttosto la permanenza di un certo assetto dei rapporti di forza che, come tale, è
contingente.

Non si tratta di negare che il costume ha posto le donne in generale in una posizione
di assoggettamento ma il diritto non può esservi stabilito (…) il fatto che [una donna]
si trovi a servire un uomo non è che un compito contingente33.

Talmente contingente che, per un’autrice vissuta in un’epoca di grandi sovrane, è gioco
facilissimo trovare dei controesempi. Se una donna è per legge naturale – ovvero razionale e
divina – subordinata all’individuo proprietario,

allora sarebbe peccato se una donna qualsivoglia esercitasse la sua autorità su un


uomo qualsivoglia. E la più grande delle regine non deve dunque comandare bensì
obbedire al suo paggio; dato che non vi debbono essere leggi civili che possano
alterare le leggi di natura34.

28 Reflections, pp. 120-121.


29 Jacques Rancière, Il disaccordo
30 Cfr. Carla Lonzi, « vinta dal mito dell’uomo ».
31 Reflections, p. 9.
32 Ivi, p. 14.
33 Ivi,
34 Ivi,

139
La Prefazione delle Riflessioni si chiude con un elenco delle azioni della “Grande Regina” che
ha disposto delle corone d’Europa, vittoriosa ovunque sempre per altri e mai per il proprio
profitto, i vinti essendo i beneficiari di tali trionfi, ma che tuttavia non ispira gratitudine e amore
nei nuovi vincitori, non richiama la loro attenzione sul fatto che la subordinazione di una parte
del genere umano non sia poi così “naturale”35.
Avendo svelato il colpo di mano che passa tra forza e diritto, Astell procede a mettere in
questione lo stesso impianto del potere legittimato per consenso. Dalla dottrina “morbida” del
potere di Locke, consegue il fatto che il legame politico tra individui viene contratto tra parti
avvertite e consenzienti. Ma, come per gli individui non proprietari, così per le donne, la libertà
quale libertà di scegliere le condizioni entro cui contrarre un legame è più che dubbia. Che dire
altrimenti della situazione che si pretende legittimata dal diritto, in cui alcuni esseri non solo
non sono annoverati tra coloro che riconoscono attraverso il consenso l’esercizio del potere
sovrano, ma addirittura sono abbandonati non a uno ma a “centomila tiranni”, secondo la figura
utilizzata da Jean Bodin? Astell pensa a quei capofamiglia cui ogni donna deve obbedire senza
riserve, tanto che progettare di liberarsene uccidendoli era equiparato, al pari del tirannicidio,
a un tradimento. La sua obiezione rivela come la dottrina lockiana stabilisca un ordine per
preservarsi sia dal potere assoluto di un sovrano, sia dalla “potenza della moltitudine”36 – là
dove capifamiglia e proprietari sono gli unici soggetti contemplati e dunque i soli titolari di
diritti.
Nel nascente ordine liberale, la famiglia è un ambito che per quanto non politico è
assolutamente necessario sul piano antropologico e politico, sebbene la teoria non possa
renderne conto. Infatti se, da una parte, la famiglia è supplemento necessario per creare un
primo ambito associativo, senza il quale non si potrebbe passare dall’individuo a forme di
convivenza più allargate, dall’altra, è quella sfera in cui la vita del singolo può riprodursi per
poter poi provvedere alle uniche attività che affiorano alla teoria, le attività produttive.
L’individualismo e il regime proprietario sono dunque ugualmente interessati dalla critica di
Astell37, ma ancora di più lo è l’idea che il legame tra individui e con la stessa autorità costituita
avvenga attraverso la forma consensuale del contratto. La finezza argomentativa di Astell tocca
qui uno dei suoi punti più alti, quando connette le due tesi della teoria di Locke: “tutti gli uomini
nascono liberi” e “le leggi positive sono una prosecuzione delle leggi e dei diritti naturali”.
Toccando il punctum caecum della teoria, la famiglia, Astell svela la falsa inferenza: se il potere
costituito è legittimato dal consenso dei contraenti e se tutti gli esseri umani sono dotati di
diritti naturali, allora anche le donne dovrebbero essere libere contraenti nei confronti del
marito. Ma non è questo il caso. All’inverso, se esiste in natura un legame che non è il risultato
dell’accordo tra due individui bensì una subalternità data in natura, allora la relazione con il
potere costituito o è in continuità con questo stato originario oppure è una convenzione che non
ha nulla a che vedere con lo stato di natura. Argomentazioni che valgono parimenti per quei
soggetti non contemplati dalla fictio di Locke, quegli individui che, anziché “industriosi” e
dunque “proprietari” e liberi partecipanti al patto politico, cadono fuori da tale patto:
irragionevoli, banditi, esseri dotati della sola forza bruta che - per via della costruzione

35 Ivi, p. 31
36 Varikas, 287
37 Cfr. C. Pateman, Il contratto sessuale e scritti più recenti

140
speculare della natura umana sulla base delle esigenze del nuovo ordine del potere – finiscono
per non avere diritti nemmeno in natura.
Il valore delle analisi di Astell non si limita tuttavia a una precisa epoca storica, quella della
nascita dello Stato moderno e delle forme di convivenza che prevedeva. In effetti, i punti ciechi
delle teorie che oggi, ancora e di nuovo, pretendono di giustificare e legittimare l’ordine
costituito, con la figura del proprietario-cittadino di diritto insistono sulla ripartizione tra lavoro
produttivo e attività riproduttive – o, nei termini di oggi, attività di cura. Oggi vediamo gli
effetti di quella sottrazione al matrimonio cui Astell invitava quattro secoli fa. L’esodo delle
donne dai compiti domestici a loro attribuiti non ha prodotto soltanto un ingresso nel mercato
del lavoro, con le relative acquisizioni in termini di indipendenza economica e di diritti, ma ha
smobilitato il terreno stesso dello Stato di diritto, dei criteri secondo cui li riconosce e li
attribuisce, nonché delle forme del lavoro stesso. Persino la crisi del circuito reddito-
previdenza-assistenza mostra quanto l’equilibro del sistema statuale della redistribuzione della
ricchezza – alla base della stessa idea di Welfare State e degli obblighi che, contratti con i
propri cittadini, lo legittimano – fosse debitore della divisione sessuata dei compiti38. Ora come
allora, la crisi torna a legittimarsi attraverso la narrazione neoliberale della preminenza
dell’individuo industrioso, proprietario e dunque ricco di mezzi, entro cui le donne e i lavoratori
non proprietari tornano a essere la cartina di tornasole del grado di verità e di giustizia di tale
narrazione rispetto alle reali condizioni di vita. Non sarà né la prima né l’ultima volta nella
storia39.
Il legame matrimoniale serve dunque ad Astell come una vera e propria allegoria sui molteplici
piani dell’antropologia, della conoscenza, della politica e della teologia. Ad ascoltare questa
pensatrice la liberazione significa, e tornerà a significare, una postura di radicale e incarnata
incredulità, da cui generare un’altra idea di libertà, che mette al centro delle esigenze vitali e
che cerca le parole per dirla, non secondo misure e regole costruite altrove, ma secondo le
misure che produce e conosce.

Zone Temporaneamente Autonome


Dove radicarsi per pensare e immaginare queste altre regole e misure? È vero che Astell, nata
in una famiglia benestante e realista di Newcastle, utilizza spesso gli strumenti offerti dalla
tradizione conservatrice contro il nascente partito dei Whigs40. Ma è più interessante e
sorprendente rivolgere l’attenzione al modo in cui elabora il proprio pensiero a partire dalla sua
esperienza. Non siamo infatti in presenza di una mera ripetitrice delle tesi Tories, ma di una
pensatrice originale, capace di vedere al di là della polemica e delle partizioni già stabilite.
La prima mossa che compie consiste nel trarre profitto dalla distanza rispetto all’ideologia che
sta diventando egemonica. È pur vero che i Whigs contano tra le loro tesi la necessità di
riconoscere l’intelligenza femminile, ma per Astell si tratta di omologhi di quegli avvocati che
“sposano una causa per meglio tradirla”41: la retorica dell’uguaglianza tra esseri umani, come
dimostra nelle Riflessioni, non fa in realtà che ribadire la subordinazione con l’aggravante di

38 Pateman
39 Sui rinnovati rapporti tra ideologia liberale e posizione prevista per le donne, cfr. Nina Power, La donna a una dimensione, e A. Simone (a cura di)
Sessismo democratico
40 Cfr. Patricia Springborg, Mary Astell, Theorist of Freedom from Domination, Cambridge U.P. 2005.
41 Astell, in Cottignies, p. 123.

141
farla apparire naturale e dunque legittima. Piuttosto va valorizzato quel “potere che le donne
hanno per virtù di evitare o trattenere il plauso per uomini e loro azioni”42. L’incredulità è allora
quel primo spazio in cui cominciare a pensare una libertà reale, che si radica in un atto di libertà,
anziché essere attribuita o sottratta da altri.
La seconda mossa consiste nel trarre partito proprio dalle condizioni materiali di vita. In una
società che prevede che il livello del matrimonio contratto sia strettamente dipendente dalla
dote portata dalla futura moglie, la giovane Astell – orfana di padre a dodici e di madre a
diciotto anni – dismette l’idea di sposarsi. In una peculiare commistione tra l’orgoglio per la
sua provenienza e le alte pretese di sviluppo personale e spirituale, la pensatrice non si
accontenta di sperare in un’onorevole riparazione alle vicende della sorte, entro il quadro delle
possibilità offerte dalle leggi. Astell è una delle prime donne che, nella tradizione inglese,
inaugura l’idea che per una donna possano esserci promesse maggiori al di fuori del
matrimonio43.
Argomenta dunque in difesa del celibato:

Per noi donne che ci dobbiamo mettere in vendita, alla ricerca di un padrone; e quando
l’abbiamo trovato, cosa che in modo davvero improprio chiamiamo “aver fatto un
affare”, l’economia della sua e della nostra stessa vanità e lusso, o della cupidigia, a
seconda delle circostanze, riceve tutta l’attenzione delle nostre menti44.

Una presa di posizione che, lungi dall’essere l’espressione di un’inclinazione del carattere, si
sviluppa fino ad assumere il respiro di un’apertura politica e di uno sguardo di verità sull’epoca.
In effetti nel regesto The Lawes Resolutions “tutte le donne sono contemplate come sposate o
da sposare”45 eppure, con il consueto rigore argomentativo, Astell chiede:

Vi prego solo di informarmi a chi, noi altre, povere figlie senza padre e vedove che
abbiamo perso il nostro padrone, siamo tenute a dare la nostra sottomissione?46

Le orfane, come le vedove, vivono in una zona non prevista dalla legge – non posizionate come
controparte di un marito e di un padre – ma spetta al genio e alla passione di libertà di una
pensatrice trasformare questa invisibilità in un vantaggio.
Astell potenzia qui la figura della “vedova allegra”, donna alfine indipendente da legami
coniugali – controfigura luminosa della bisbetica da domare, per la quale all’epoca era prevista
una museruola con guinzaglio –, e sembra dare diritto di cittadinanza, quella che riconosce

42 Prefazione in una seria proposta


43 I vantaggi del non essere sposata torna nel XIX secolo con il cosiddetto “matrimonio bostoniano”, una forma relazione extrafamiliare e non
istituzionalizzata - sul crinale tra omosocialità e omosessualità – che ha per primo scopo quello di riorientare la sessualità femminile dai fini riproduttivi a
quelli generativi di desiderio, mondo e cultura. V. Solidarietà amicizia amore, “DWF. Donnawomanfemme”, n. 10-11, 1979 e la sezione Amicizie di donne, in
AA.VV. Peccati di amicizia, manifestolibri, Roma 1991. Sul matrimonio bostoniano come pratica di unione omosessuale femminile, v. il numero monografico
Amore proibito, “DWF. Donnawomanfemme”, n. 23/24, 1985, in particolare, Lilian Faderman, Matrimonio bostoniano, pp. 57-72. A.S. Byatt, nel fortunato
romanzo Possessione (Einaudi, Torino 1990) restituisce in modo vivido il conflitto tra lo spazio domestico dell’unione eterossessuale e la creatività
femminile, che è già presente in Virginia Woolf, nel suo invito a uccidere l’angelo del focolare per potersi esprimere, v. ad esempio Le donne e la scrittura, La
Tartaruga, Milano 1981, p. 55.
44 Mary Astell, The Christian religion, p. 113
45 The Lawes Resolutions, p. 6.
46 Mary Astell, Reflections, Preface, p. 29.

142
come vera, a quella moltitudine di donne che popolavano il suo secolo: profete, donne d’affari,
suore, radicali, operaie, prostitute e cortigiane, pie donne…47.
Ecco allora che si apre uno spazio, che si nutre di una forte percezione della realtà – che non si
fa divorare dal senso dominante e dalle sue operazioni -, di un’altrettanto forte passione e
desiderio, uno spazio che si avvale dei “vuoti legislativi invece che nuove leggi”, per “prendersi
tempo per produrre una misura femminile del mondo e da qui un diritto originario”48. È una
Zona Autonoma Temporanea, come la definisce secoli dopo Hakim Bey, un’operazione che
“libera un’area (di tempo, di terra, di immaginazione)”49, approfittando del fatto che lo Stato e
le sue leggi sono primariamente occupati con la simulazione, che scambiano le astrazioni che
producono per realtà e, così facendo, non vedono, dimenticano corpi e vite.
Due figure così distanti come Bey e Astell sono accomunati dalla capacità di ripartire dalla
potenza delle vite non previste dall’ordine dello Stato moderno – i pirati come le donne - e si
concentrano entrambi sugli spazi lasciati liberi dalla prima organizzazione funzionale al potere,
la famiglia. Per Astell non essere già nella posizione prevista dall’ordine retorico-politico si
profila come un’occasione per cercare altre misure oltre l’inclusione e così – con le
argomentazioni dei Tories – la vocazione per Dio può offrire un legame più libero di quanto
non lo sia quello a un marito-proprietario. [...] Sulle possibilità che si chiudono o si aprono a
seconda che si accetti o meno la misura data dalla posizione prevista dal potere, Astell è
lapidaria:

chi ha raggiunto una posizione di rilievo nel mondo, ma non possiede questa
spontanea e solida grandezza è, a guisa di una regina da carnevale, resa più
considerevole perché possa poi mostrarsi più abbietta50.

[...] Le passioni del nuovo essere umano previsto dalla nascente liberaldemocrazia sono al
centro di un’attenta e talora divertita riflessione di Astell. Anticipando la constatazione di Marx
- “la borghesia ha affogato nell'acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell'esaltazione
devota”51 – la pamphlettista prende di mira la doppiezza dell’ideologia nascente: individui
ragionevoli, moderati e dunque tolleranti, che in realtà stanno procedendo all’affermazione di
un modello unico, quello dei vincitori. Rivendica così l’entusiasmo, prendendo di mira quegli
argomenti che a partire dal Saggio sull’intelletto umano di Locke culminano nella Lettera
sull’entusiasmo di Shaftesbury: l’entusiasmo, soprattutto quello religioso, è “eversore della
ragione” - tanto che all’epoca la Royal Society prevedeva l’espulsione di un proprio membro
in quanto “entusiasta” - è frutto di “fantasie infondate del cervello”52. Al contrario l’uomo
nuovo è caratterizzato dalla moderazione, la passione di chi sa di non doversi battere perché
l’ordine intero del mondo, umano e non umano, è oramai a sua misura. Astell replica con
salacità, applicando l’attributo ai diversi comportamenti umani: ecco allora che un coraggio
moderato significa sopportare il male, un valore moderato è lottare quando proprio non si può

47 Antonia Fraser, The Weaker Vessel. Woman’s Lot in Seventeenth Century England, p. 6
48 Lia Cigarini, Al di sopra della legge, in Ead., La politica del desiderio, p. 195.
49 Hakim Bey, TAZ. Zone Temporaneamente Autonome, shake edizioni, Milano (1995) 2007, p 15.
50 M. Astell, Una seria proposta alle signore, pp. 80-81.
51 K. Marx, Il manifesto del partito comunista,
52 J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, IV, cap. 19.

143
fare altrimenti, un senso di giustizia moderato è fare giustizia qualche volta…53. [...] Rivelano
ancora una volta come non esista un momento originario di libertà avulsa da legami, come
vorrebbe il nascente individualismo lockiano, ma quanto questi siano da accogliere e da
sviluppare nel modo più appropriato. “Se l’essenza della libertà consiste nel vivere secondo
una regola costante”54, capacità di cogliere la verità dell’esperienza e rivendicazione di una
concezione sostanziale della libertà procedono di pari passo. Una scoperta che tornerà a più
riprese attraverso i secoli: “se si è trovata la leva (…) si può dire che la libertà femminile è
venuta al mondo. Si afferma quindi come libertà relazionale, non individuale”55.
È in questo slancio che va inquadrata la sua Una seria proposta alle signore56. In effetti,
diversamente dai modelli che la precedono – ricordiamo le proposte di educazione di Anna
Maria Van Schurman o di Bathsua Makin - il testo non comincia con un catalogo di donne
illustri che dovrebbe legittimare la pretesa che siano dotate di ragione, la ragione delle donne
è un fatto puro e semplice da cui partire. In un’epoca in cui l’analfabetismo femminile
riguardava i tre quarti della popolazione femminile, Astell padroneggia il francese e il latino,
la matematica, la filosofia nonché la teologia e conosce bene il vantaggio che ne deriva sia per
il piacere dell’essere insieme, sia come arma per svelare le “false attrattive” con cui la società
alletta le donne. Dio viene allora convocato a sostituire il giuramento di fedeltà al marito e per
aprire uno spazio in cui sostituire i surrogati di riconoscimento offerti con “una compagnia
intelligente, una reale saggezza, amiche premurose” e in cui “vorrei che viveste all’altezza della
dignità della vostra natura”, poiché “l’incapacità, se c’è, è indotta, non naturale”57. [...] Nella
Zona Autonoma cominciano così a profilarsi altre misure, altre regole, un’incipiente
istituzione, una “società alternativa”, animata da una diversa concezione di libertà. Dopo aver
tenuto in sospeso per circa una ventina di pagine le sue lettrici, ecco che Astell svela la
proposta: “la mia proposta è di erigere un monastero o, se preferite, un ritiro religioso: non solo
luogo appartato ma istituzione educativa”. Un ritiro che, più che separare, “qualifica” l’azione
nel mondo, tanto che si auspica che le insegnanti “abbiano vissuto molto”58. Un luogo di
formazione per intero, un insieme di pratiche del sapere, che ha la duplice funzione di nutrire
le passioni dell’anima e di svelare le risposte false e inappropriate, lo studio essendo inteso “ad
apprendere non parole ma cose”59, per riportare a interezza gli slanci di chi altrimenti
rimarrebbe una fictio delle nuove narrazioni:

per chi desideri conoscere il proprio debole per rafforzarlo, per chi desideri occuparsi
completamente e senza disturbo delle grandi imprese per le quali venne al mondo60.

Non è dunque certo la moderazione la passione predominante di questo nuovo spazio, bensì il
rispetto della misura di grandezza di cui, Astell tiene ad assicurare, “non sarete private”, ma

53 M. Astell, Moderation Truly Stated, pp. 5-6. V. anche Bartlemy’s Fair, or … Letter on Enthousiasm
54 Reflections, p. 19.
55 Lia Cigarini, cit., p. 196. Cf. anche Lonzi su Preziose e Moderata Fonte.
56 M. Astell, Una seria proposta alle signore, tr. it. Annamaria Loretelli, Lestoille, Roma 1982.
57 Ivi, p. 44
58 Ivi, p. 49 e p. 60
59 Ivi, p. 53
60 Ivi, p. 50

144
che anzi si svilupperà in un impegno per prepararsi al “massimo della gloria, il cui livello più
basso è superiore a quanto possiate immaginare”61.

Brani tratti da F. Giardini, Mary Astell, Locke e le Zone Temporaneamente autonome

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I SALOTTI E LA NASCITA DELL’OPINIONE PUBBLICA


Un giorno imprecisato del 1627 Catherine de Vivonne, marchesa di Rambouillet, ebbe la sorpresa di ricevere la
visita di padre Joseph, l’Eminenza Grigia di Richelieu. Tallemant des Réaux racconta come, dopo i primi
convenevoli, il potente cappuccino spiegasse le ragioni della sua presenza in rue Saint-Thomas-du-Louvre.
Richelieu gli aveva affidato l’incarico di esprimere alla marchesa il suo compiacimento per l’importante trattativa
diplomatica che Monsieur de Rambouillet stava conducendo in Spagna e le rinnovava l’assicurazione della propria
benevolenza. In cambio, però, “bisognava che ella desse a Sua Eccel- lenza una piccola soddisfazione a cui teneva
molto, perché un primo ministro non poteva mai eccedere in precauzioni. In una parola: il cardinale desiderava
che ella lo mettesse al corrente degli intrighi di Madame la Princesse e del cardinale di La Valette. La risposta
della marchesa era stata categorica: non credeva affatto che Madame la Princesse e il cardinale di La Valette
avessero degli intrighi, ma quand’anche fosse stato così, “non si sentiva portata per il mestiere della spia”. La
richiesta di Richelieu non era, dopotutto, tanto oltraggiosa: […] egli chiedeva alla marchesa di dimostrare in modo
tangibile la sua lealtà al trono, e in cambio offriva a lei e a suo marito la garanzia del favore reale. […] Il secco
rifiuto della marchesa non era una sfida aristocratica al ministro che in quegli anni richiamava all’ordine la nobiltà
ribelle con il carcere e con la scure […] Madame de Rambouillet si limitava semplicemente a rivendicare la sua
libertà privata, il diritto di vivere con chi e come più le pareva nella sua dimora. Eppure, così facendo, la marchesa
compiva un gesto inaugurale: attraverso di lei la società civile proclamava la sua autonomia dalla politica e
rifiutava le ingerenze del potere nella sfera della vita privata. […] non obbediva alle vecchie logiche del potere,
non aveva bisogno né di ministeri, né di eserciti, né di ricchezze, si affidava al puro gioco delle idee e non aveva
ancora trovato un nome. Si sarebbe chiamata Opinione e si sarebbe rivelata, soltanto un secolo dopo, una minaccia
per l’ordine costituito. […] Alla marchesa di Rambouillet spetta dunque l’onore di aver inaugurato la vita di società
in Francia e di aver presieduto, per oltre quarant’anni, il primo centro mondano del XVII secolo. Ripetuta da un
libro all’altro, quest’affermazione è diventata un assioma (Craveri 2001, 21-23).

Il gesto di Madame de Rambouillet apre uno spazio che non è né domestico né istituzionale: la
sua casa, il suo salotto, pur privato e sottratto per una parte agli editti del re e ai voleri di
Richelieu, diventerà lo spazio ospitale di tutto un mondo, governato da donne educate, che
presto detteranno “legge” in materia di comportamento, le Preziose. Donne che, non accettando
di deprezzarsi, trovano tuttavia una misura e un valore non previsti dai loro tempi.
Tale gesto si compie nel corso di una lunga crisi dell’aristocrazia, crisi economica e di identità:
gente di spada, adusa ad amministrare terre e giustizia, si trova travolta dalle trasformazioni
tecniche e mercantili e, pur cercando di rivalersi sui contadini, vede le rendite terriere ridursi
drasticamente. Al tempo stesso i valori virili della violenza e dell’eroismo guerrieri vengono
minati dall’affievolirsi delle guerre e dalla politica di Luigi XIV che costringe la no- biltà alla
vita di corte, nello spazio fastoso, ma lontano dai centri del- l’amministrazione del potere, della
reggia di Versailles. [...] Questa crisi costituisce un’occasione che Mme de Rambouillet sa
cogliere: la resistenza a trasformarsi in dama di corte diventa la spinta a creare un altro spazio
di convivenza, dotato di altre regole. È uno spazio non istituzionale, che non viene sancito nelle
forme consuete – non gode della legittimità che può provenire dalle istituzioni statuali e di
potere o da quelle ecclesiastiche – piuttosto si trova in un delicato equilibrio tra legge e costume,
tra la resistenza aristocratica al potere assoluto e l’idea, diffusa all’epoca, che il costume, le
abitudini e gli stili di comportamento, possano fare da correttivo alle leggi e ai loro abusi e
ingiustizie. Mme de Rambouillet sa investire di senso le zone che non ricadono sotto il controllo

61 Ivi, p.p. 50-51

145
diretto del potere istituzionalizzato e delle sue sanzioni. Questo spazio si apre e si consolida
attraverso la parola, più precisamente attraverso la conversazione. [...]
L’atto di Mme de Rambouillet appare a prima vista un atto di idiosincrasia, un gesto
individuale, dettato dall’insofferenza e che a questa insofferenza dà corso. Tuttavia i risultati
sviluppano ben oltre tali premesse. Innanzitutto è gesto individuale ma non privato: l’idion
greco, che designava il greco isolato, fuori dagli affari comuni della città, diventa movente di
creazione di una società, ha quindi dalla propria non l’isolamento bensì l’invenzione di una
nuova forma di vita associata. In secondo luogo, si tratta di un gesto di sottrazione e di creazione
al contempo, poiché con l’abbandono del campo della politica istituzionale, organizzata
all’epoca nella forma del regime assolutistico, la scelta non è quella di ritirarsi nel domestico o
nel privato bensì di aprirsi al mondo. Contro il lato asfittico e artificioso dei rituali di corte,
viene infatti inventata la “vita mondana”, condivisa nella ruelle – lo spazio che separava il letto
dalla parete – da una compagnia di eletti che si considerano e trattano da uguali. [...] già
all’epoca di Mme de Rambouillet, la cooptazione e l’esclusione dai salotti non rispettava più le
gerarchie nobiliari e di corte. Potevano essere scelti e introdotti anche membri non appartenenti
all’aristocrazia, come illustra bene il caso del ricercatissimo Voiture, figlio di un mercante di
vini. [...] Le donne, padrone e custodi di questo spazio nuovo, sono le autrici dell’abbandono
dello spirito di casta, della confusione dei ranghi e di una nascente mobilità sociale. Data
l’arbitrarietà dell’esercizio del potere la conversazione interviene a regolare i rapporti sociali, a
sfumare le disuguaglianze e a dare “a ciascuno ciò che gli era dovuto” (Staël 1810, 105). Il
criterio d’appartenenza viene infatti spostato dall’appartenenza al merito, dove quest’ultimo
consiste nella partecipazione ai valori della vita mondana, dettata dalle regole della politesse,
della bienséance e del naturel.
La politesse interviene sulla crisi dei valori eroici e guerreschi dell’aristocrazia – sostituisce
all’uso della forza il brio e la felicità di espressione – e riguarda una serie di modi di vivere, di
agire, di apparire che vengono acquisiti solo attraverso l’uso e la frequentazione. La
conversazione è innanzitutto uno stile, una pratica, che si trasmette e si impara solo praticandola
e vedendola praticare, non è un sapere che prescinde dalla reciproca presenza, non è un metodo
che si può apprendere in astratto. È piuttosto lo stile espresso da comportamenti, dal gusto, dalla
scelta dei divertimenti, che diventa lo spartiacque dell’appartenenza, è la bienséance – il sapersi
tenere, comportare, bene – che assume una fisionomia definita eppure mobile, corpo di leggi
che, per quanto non scritte, ha più potere di qualsiasi norma. [...]
Nella prima fase dei salotti, le Preziose sono dunque alleate e pa-drone del linguaggio e delle
regole di società, della loro società, che gli danno misura. Lo spazio linguistico è uno spazio
diverso da quello della corte e, in questo caso, delle accademie. Siamo ancora nell’epoca che
affronta il problema della mancanza di istruzione delle donne, in Francia, come nell’Inghilterra
di Mary Astell : una donna a prescindere dal proprio rango non dispone di strumenti culturali
adeguati a una convivenza che non sia quella, più dimessa, dei rapporti familiari. Eppure, nella
Francia del Seicento, la mancanza di istruzione diventa un vantaggio femminile.
Sulla spinta dell’adozione, ad opera di Francesco I, del francese, che soppianta il latino, come
lingua ufficiale nelle corti di giustizia e nell’amministrazione, il dibattito sull’istituzione di
norme linguistiche unificate finisce per pendere dalla parte non dell'erudizione bensì della
parlata “naturale”: la lingua è una musica costituita non da ricerche archeologiche e dotte, bensì
dalle pratiche vive che la costituiscono e la rinnovano costantemente. [...] Saper parlare nel
mondo non è così questione né di erudizione né di tecnicismi, senza per questo però coincidere
con l’ignoranza o con un malinteso senso di spontaneità. In parte, per i motivi che si sono visti
poco sopra, il linguaggio nei salotti è sottoposto a nuove regole, pratiche e vive, e che
richiedono disciplina; in parte, perché erudizione e tecnicismi – il linguaggio delle accademie
e dell'amministrazione – non coincidono con l’educazione.

146
Mentre la donna istruita, quella che si presume parli come i dotti e gli amministratori, non è in
fondo che una loro pallida replica, destinata a colmare all’infinito quel divario; la donna
educata, la bienséante è, di contro, curiosa, ricerca conoscenze che siano utili a sé e agli altri,
non prescinde mai di “unire la pratica alla teoria”, e si dedicherà, a tale scopo principale e ben
a ragione, allo studio, dice Madame de L’Epinay all’abate Galiani in una lettera del 1771.
La questione è dunque l’autonomia nel creare e alimentare la propria lingua. Non l’affettazione
di un sapere già codificato, bensì il naturel di chi sa mettere in armonia carattere e
conversazione, inclinazioni singolari e desiderio di stare con altri. La lingua nel suo grado
naturale, non è spontaneità, dato che richiede disciplina, apprendimento, attenzione alle
sfumature e ai dettagli, sempre in movimento; ma non è nemmeno ostentazione dello studio che
sta dietro a un’espressione “felice”, “ben trovata”. Piuttosto è l'espressione di corpo e presenza
attraverso il linguaggio, che non li imita ma li perfeziona, li ravviva, li esprime al meglio. [...]
Le Preziose diventano così le antesignane del pubblico, in un senso preciso, quello di uno spazio
sottratto alle dinamiche e gerarchie del potere istituzionale e capace di creare autonomamente
misure e valori. [...] Come registrerà poi Staël, a fronte dell'arbitrarietà delle istituzioni, della
destabilizzazione dell’ordine della vita associata – l’aristocrazia francese che non può più
definirsi secondo valori e funzioni dei secoli precedenti – i salotti istituiscono una prima forma
di legame tra estranei, che si stabilisce proprio attraverso la novità dei criteri adottati che
soppiantano le gerarchie di ran- go. Il tratto che riassume questi aspetti è la definizione di
sociabilité come associazione il cui fine è il piacere stesso dello scambio: i frequentatori dei
salotti non mirano a conseguire obiettivi che vadano oltre la vita stessa del salotto e la
convivialità che lì avviene.

Brani da F. Giardini, L’Alleanza inquieta. Dimensioni politiche del linguaggio, Le Lettere,


2010
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MONTESQUIEU (1689-1755
Montesquieu, Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède. Filosofo e scrittore politico
francese. Studia diritto all'università di Bordeaux dove inizia la sua carriera giuridica nel 1708.
Divenuto consigliere al parlamento di Bordeaux nel febbraio del 1714, viene eletto l'anno
successivo membro dell'Accademia di quella città. Sempre in quell'anno acquisisce per eredità
dallo zio Jean-Baptiste il titolo di barone di Montesquieu e la carica di presidente di sezione
(Président à momer) nel parlamento di Bordeaux. Nel giugno 1716 Montesquieu legge una
Dissertazione sulla politica dei romani nella religione dove si scorge l'influenza dei Discorsi
di Machiavelli ed emergono alcuni temi che rimarranno costanti fino allo Spirito delle leggi,
come quello della funzione sociale svolta dalla religione e quello della centralità della
tolleranza. Nel 1721 escono anonime le Lettere Persiane dove, a lato della polemica
antiassolutistica e della presa di posizione contro il dispotismo, Montesquieu avanza una
concezione cartesiana nella scienza e un'ipotesi deista in ambito religioso. Un'analisi
comparativa delle diverse religioni e forme di governo permette poi una critica sociale e politica
della Francia della reggenza, mentre in alcune lettere (11-14, relative alla favola dei Trogloditi)
Montesquieu contesta le teorie politiche di Hobbes e rivendica una naturale socievolezza degli
uomini, introducendo quella polemica antihobbesiana che sarà una costante del suo pensiero.
Montesquieu si esprime, inoltre, a favore della tolleranza religiosa (lettere 60 e 85) e analizza
i nessi che intercorrono tra religione e demografia (lettere 112-122) , considerando l'influenza
che le credenze religiose esercitano sulla società.

147
Nel 1728-29 intraprende un lungo viaggio che attraverso la Germania e l'Austria lo porta in
Italia (Venezia, Milano, Genova, Firenze, Roma, Napoli) e poi in Svizzera, Germania e Olanda,
mentre trascorre in Inghilterra gli anni dal 1729 al 1731, che risultano centrali per la sua
formazione politica. Di ritorno dall'Inghilterra Montesquieu si dedica a un'attività di studio e
di elaborazione storico-politica. Nelle Riflessioni sulla monarchia universale in Europa (1734)
analizza i tentativi di costruire un unico Stato europeo dopo la caduta dell'impero d'Occidente,
mentre nelle Considerazioni sulle cause della grandezza dei romani e della loro decadenza
(1734) opera una ricostruzione della storia romana che esclude ogni visione provvidenzialistica
alla Bossuet per evidenziare il tema della causalità storica e l'opposizione tra governo moderato
e dispotismo. Così, nel capitolo 18, Montesquieu nega che sia la fortuna a dominare il mondo
e afferma l'esistenza di «cause generali, sia morali sia fisiche» capaci di innalzare, mantenere
o fare cadere ogni monarchia.
Dal 1734 Montesquieu si dedica interamente alla stesura dello Spirito delle leggi, che esce a
Ginevra nell'ottobre del 1748; a questa edizione, ristampata nel 1749 e nel 1750, va affiancata
l'edizione postuma del 1757, che contiene alcune modifiche. In questo periodo lavora anche a
un'opera rimasta incompiuta: Saggio sulle cause che possono agire sugli spiriti e i caratteri,
dove si individua in ogni nazione l'influenza prodotta da cause fisiche — come il clima — e da
cause morali — quali le leggi, la religione e i costumi. A lato della sua opera maggiore vanno
comunque almeno ricordati i Pensieri e lo Spicilège, dove sono raccolti appunti e
considerazioni di varia natura. Montesquieu redige inoltre per l'Encyclopédie un Saggio sul
gusto, che esce postumo nel 1757 nel VII volume dell'opera.
Alla pubblicazione dello Spirito delle leggi fanno seguito attacchi sia da parte gesuita sia da
parte giansenista, a cui Montesquieu risponde con la Difesa dello «Spirito delle leggi» (1750),
dove respinge le imputazioni di spinozismo e di deismo. L'opera è comunque messa all'Indice
nel 1751. Lo Spirito delle leggi, in XXXI libri, si apre con una teoria generale delle leggi dove
queste sono definite «i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose». Questa
razionalità universale delle leggi va indagata in relazione alle leggi positive, create dagli
uomini, e all'idea di giustizia, che è anteriore alle leggi positive stesse. Montesquieu si propone
di analizzare lo «spirito delle leggi», ovvero le relazioni possibili, nei loro differenti aspetti,
che le leggi hanno con un complesso di fattori quali il carattere fisico di un paese, la sua
religione, la ricchezza e i costumi dei suoi abitanti. L'unione di cause fisiche e morali dà luogo
poi alla nozione di «spirito generale», secondo cui «molte cose guidano gli uomini: il clima, la
religione, le leggi, le massime di governo, le tradizioni, i costumi, le usanze: donde si forma
uno spirito generale, che ne è il risultato» (XIX, 4).
Entro questo modello concretamente storico e fattuale, Montesquieu elabora una tipologia
politica che consiste nell'individuare i tipi di governo, che hanno ciascuno una propria natura,
ovvero la loro specifica struttura, e un proprio principio, ovvero quell'insieme di elementi
psicologici e sociali, legati alle passioni umane, che li muovono e fanno agire. Si distinguono
così tre specie di governo, ossia repubblicano, monarchico e dispotico: «il governo
repubblicano è quello nel quale il popolo tutto, o almeno una parte di esso, detiene il potere
supremo; il monarchico, è quello nel quale uno solo governa, ma secondo leggi fisse e stabilite;
nel governo dispotico, invece, uno solo, senza né leggi né freni, trascina tutto e tutti dietro la
sua volontà e i suoi capricci» (II, l). La repubblica si distingue poi in democratica, come lo
furono Roma o Atene, e aristocratica, come Venezia. La monarchia necessita invece di «poteri

148
intermedi subordinati e dipendenti» che risultano «dei canali mediani per i quali scorre il
potere» (II, 4). Così Montesquieu — che già nelle Lettere Persiane si era schierato contro
l'assolutismo monarchico — sottolinea la necessità di limitare il potere del monarca con quello
dei corpi intermediari — la nobiltà, il clero, le città e i parlamenti. II dispotismo (tirannide),
infine, risulta la forma di governo che più si allontana da ogni diritto, in quanto si basa sulla
forza e sul potere di uno solo. A ogni tipo di governo corrisponde poi un principio che lo fa
agire: la virtù è il principio della repubblica democratica e la moderazione di quella
aristocratica; l’onore è il principio della monarchia e la paura è alla base del dispotismo. A ogni
forma di governo corrisponde una determinata legislazione politica, caratterizzata da specifiche
leggi civili, penali, suntuarie o militari. Elementi climatici e geografici condizionano inoltre le
forme di governo: una repubblica può instaurarsi solo in un paese di piccole dimensioni e una
monarchia in uno di media estensione, mentre il dispotismo regna nei vasti imperi.
Ogni regime tende a decadere e a corrompersi — in concomitanza con la corruzione del suo
principio — e inclina verso il dispotismo, che risulta il massimo pericolo per ogni forma di
governo. In parallelo a questa teoria della decadenza, Montesquieu elabora la propria
concezione della libertà politica. Se «la libertà è il diritto di fare tutto ciò che le leggi
permettono» (XI, 3), essa non si trova nella democrazia, ma in quelle monarchie dove regna la
moderazione politica. Il capitolo sesto del libro XI sulla costituzione inglese propone lo statuto
giuridico della libertà del cittadino che si incarna nella teoria della distinzione dei poteri.
Montesquieu definisce i tre poteri dello Stato: il potere legislativo, il potere esecutivo e il potere
giudiziario. In conformità con l'esempio inglese Montesquieu propone che i tre poteri siano
separati e distribuiti tra tre organi differenti, pur se legati tra di loro. Questa limitazione
costituzionale dei poteri appare l'unica garanzia per la libertà dei cittadini, che sarebbe messa
in pericolo dall'accumulo o dalla confusione dei poteri.
Montesquieu si schiera in tal modo a favore di una libertà politica contraria a ogni dispotismo,
mentre l'analisi delle relazioni che intercorrono tra storia, politica e scienza della società fanno
del suo pensiero un momento centrale della filosofia politica dell'Illuminismo, capace di
interrogarsi sul senso più profondo che assumono per il cittadino le idee di libertà e di felicità
nonché sulle cause — storiche e naturali che determinano il costituirsi delle società.
Lo Spirito delle leggi ebbe numerose edizioni e traduzioni nel corso del XVIII secolo e
contribuì alla battaglia d'opinione dei Philosophes. E se pensatori italiani come Beccaria e
Filangieri hanno riconosciuto il loro debito nei confronti di Montesquieu, il suo pensiero
influenzò ampiamente la costituzione americana. Inoltre, l'esigenza di estendere il metodo
sperimentale allo studio della società doveva riproporre l'opera di Montesquieu all'attenzione
di quella 'scuola sociologica' che da A. Comte a E. Durkheim ha visto nell'autore dello Spirito
delle leggi il «precursore» delle scienze sociali.

Brani tratti da L. Bianchi, in C. Galli, R. Esposito (a cura di), Enciclopedia del pensiero
politico, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 463-465

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ROUSSEAU
Rousseau, Jean-Jacques (1712-1778). Filosofo e scrittore svizzero di lingua francese.
L'interesse per la politica è presente in Rousseau fin dalle prime riflessioni sulle origini del
male. Sia nel Discorso sulle scienze e le atti (1750), sia nel Discorso sull'origine
dell'ineguaglianza tra gli uomini (1755) la responsabilità del male, cioè della corruzione e
malvagità umana, non viene attribuita all'uomo ma alla società, che snatura gli uomini
pervertendo la loro originaria bontà. Rousseau opera così uno spostamento del problema del
male dal campo della teodicea al campo della politica (Cassirer): contro la dottrina agostiniana
del peccato originale, egli afferma che l'uomo nasce buono, ma che, associandosi, diviene
malvagio. Il problema morale è dunque inscindibile dal problema politico. Lo studio
dell'uomo è inseparabile dall'analisi della società, o meglio, dalla critica della società che, in
Rousseau, è dunque il punto d'avvio dell'intera sua riflessione.
Alla critica del progresso culturale e scientifico che, nel primo Discorso, rompe con
l'ottimismo illuministico, segue, nel secondo Discorso, la critica della disuguaglianza quale
radice stessa del male. Rousseau ne ricostruisce la genesi tracciando una ipotetica storia
dell'umanità a partire da uno stato di natura che però non è caratterizzato, come nel
giusnaturalismo, da una socievolezza naturale, e neppure, come in Hobbes, da conflittualità e
guerra. Isolato, autosufficiente, mosso da bisogni elementari, l'uomo naturale non è né
socievole né malvagio. Egli è dotato tuttavia di una qualità tutta umana — la perfettibilità —
che, causando l'ingresso nella società e nella storia, è fonte allo stesso tempo della
socievolezza e dell'antagonismo, della moralità e della reciproca dipendenza. La nascita della
proprietà (di cui Rousseau nega, a differenza di Locke, l'origine naturale) e la divisione del
lavoro, non fanno che sviluppare la disuguaglianza tra gli uomini la cui radice sta nel primo
'confronto' reciproco e nell'insorgere delle passioni (amor proprio). Lo stato di guerra, che
Hobbes aveva identificato con lo stato di natura, è il prodotto della società, in quanto è l'ultimo
stadio della disuguaglianza, che viene sancita dal patto 'iniquo' tra i ricchi e i poveri. La società
politica nata dal patto ingiusto sfocia nel conflitto generalizzato dal quale non può che
scaturire il 'dispotismo', che per Rousseau è il peggiore di tutti i mali in quanto genera
asservimento e disordine e causa la dissoluzione del corpo politico. Priva di ogni romantico
primitivismo, la critica roussoviana mostra piuttosto l'ambivalenza della società, fonte di bene
e di male, di progresso e di degradazione. Egli ne afferma il carattere necessario e il potenziale
emancipativo, purché essa non sia fondata sul conflitto e la disuguaglianza. In questo senso,
le interpretazioni di ispirazione marxista sostengono a ragione che Rousseau non critica la
società tout court, ma la nascente società borghese, fondata su rapporti antagonistici e su una
iniqua distribuzione delle risorse.
Alla pars destruens segue nell'opera di Rousseau una pars construens, tesa alla ricerca del
'rimedio' al problema del male. «Bisogna decidere se formare un uomo o un cittadino», egli
afferma nell'Emilio, proponendo due possibili soluzioni all'ineguaglianza e all'ingiustizia. In
una società grande e corrotta, bisogna tendere alla formazione 'morale' dell'individuo (Emilio,
1762 e Nuova Eloisa, 1761); in una società ristretta e più vicina alle origini, si può invece
cambiare la società stessa, riformandone la Costituzione politica (Contratto sociale, 1762).
C'è inoltre una terza prospettiva, presente negli scritti autobiografici (successivi alla
condanna, nel 1762, dell'Emilio e del Contratto sociale), nella quale il bisogno di una società
giusta si esprime, per contrasto, attraverso la fuga dal mondo e la ricerca della solitudine.

150
«Formare l'uomo» vuol dire formare un soggetto morale che, attraverso l'esperienza del male
(delle passioni), sappia riaccedere al «sentimento interiore», quale nucleo naturale della
«virtù». Solo il soggetto virtuoso, capace di instaurare rapporti non conflittuali, ma autentici
e solidali, può fondare una comunità, la quale vive a un tempo dentro la grande società corrotta
e separatamente da essa, in quanto portatrice di valori altri. Se è vero dunque che la comunità
di Clarens della Nuova Eloisa ispira il modello di società tratteggiato nel Contratto sociale, è
anche vero che Rousseau tematizza la distinzione, corrispondente a quella homme/citoyen,
tra comunità e società (che tanta fortuna conoscerà a partire dal Novecento). Infine, la
costruzione del soggetto morale implica anche, in Rousseau, una differenziazione sessuale
che pur conferendo alla donna un'inedita dignità, ripropone e rafforza la tradizionale
opposizione pubblico/privato fondata su quella maschile/femminile.
Il secondo rimedio — «formare il cittadino» — consiste nel cambiare i fondamenti della
società e delle istituzioni politiche. Nel Contratto sociale (estratto di un più vasto progetto dal
titolo Institutions Politiques) Rousseau traccia i lineamenti di una istituzione politica
«legittima», tesa cioè alla realizzazione del «bene comune». Essa si fonda su un patto sociale,
diverso però dal patto iniquo del secondo Discorso, in quanto teso a preservare i diritti naturali
di libertà e di uguaglianza. A differenza dei giusnaturalisti, però, Rousseau non distingue tra
«patto di associazione» e «patto di sottomissione». Egli ipotizza, come Hobbes, un unico patto
di associazione, che tuttavia non avviene, a differenza di Hobbes, tra gli individui, ma tra gli
individui e la collettività, il contratto sociale, in virtù del quale ogni individuo diviene
cittadino, cioè membro del corpo sovrano, e suddito, cioè sottomesso alle leggi dello Stato,
implica la totale alienazione a favore del corpo sovrano dei diritti di ciascuno e la
sottomissione di tutti alla «volontà generale». Questa idea di completa rinuncia ai diritti
naturali ha dato luogo alle interpretazioni di Rousseau in senso totalitario (da B. Constant a
J.L. Talmon), tese a mostrare il carattere coercitivo della volontà generale. Ma ciò vuol dire
non cogliere, in Rousseau, l'originalità del nesso tra obbligo politico e libertà.
In primo luogo, infatti, obbedire alla volontà generale non vuol dire altro che obbedire a se
stessi in quanto membri del corpo sovrano. In secondo luogo, con la formazione del corpo
politico, gli individui perdono sì la libertà illimitata dello stato di natura, ma acquistano la
«libertà civile», che implica l'uguaglianza di tutti di fronte alla legge, e la «libertà morale»,
che rende ognuno padrone di se stesso. L'ordine politico legittimo assicura dunque, per usare
la distinzione di I. Berlin, sia la «libertà negativa», poiché preserva da ogni dipendenza, sia la
«libertà positiva», in quanto si fonda sulle autonome decisioni del corpo sovrano. La
sovranità, che è l'esercizio della volontà generale, appartiene al popolo (quale insieme degli
associati). Essa è, come in Hobbes, assoluta, finché rispetta il fine della utilità collettiva, ed è
inalienabile, ma non costituibile né rappresentabile in un'istituzione. Rousseau rifiuta dunque
ogni idea di rappresentanza che è invece peculiare di Hobbes e della tradizione politica
liberale (da Constant a J.S. Mill). Quale sostenitore della sovranità popolare, Rousseau è
universalmente considerato il teorico della democrazia moderna. Ma nel Contratto sociale
egli preferisce parlare di repubblica, quale forma di Stato fondata sulla legge, vale a dire
sull'atto stesso della volontà generale, garante di giustizia e di uguaglianza. Si può dunque
affermare che aspetti del giusnaturalismo (Derathé) coesistono con aspetti della tradizione
repubblicana (Viroli). Legittimo è solo uno Stato repubblicano, indipendentemente dalla
forma di governo. La distinzione tra Stato e governo riguarda in primo luogo una differenza

151
di funzioni. Allo Stato spetta la funzione legislativa, mentre al governo, che è pura
emanazione del corpo sovrano, spetta unicamente la funzione esecutiva. Non si può dunque
parlare, come in Montesquieu, di una separazione dei poteri, poiché il governo è creato da un
«mandato» del popolo; anzi esso può rappresentare una minaccia per il corpo politico, e
dunque una causa di dissoluzione dello Stato, laddove tenta di appropriarsi del potere sovrano
di fare le leggi. In secondo luogo, Rousseau considera possibili, all'interno di uno Stato
repubblicano, le diverse forme di governo (monarchia, democrazia, aristocrazia); sebbene si
pronunci chiaramente a favore non della democrazia, che considera utopica e irrealizzabile,
ma di una aristocrazia elettiva (sul modello della Repubblica di Ginevra).
Il problema della coesione dello Stato, sollevato a proposito del rapporto Stato-governo,
percorre tutto il Contratto sociale, fino alla controversa teoria della «religione civile».
Rousseau attribuisce alla religione una funzione indispensabile per la solidità dello Stato. Egli
propone una religione civile, di cui spetta al corpo sovrano stabilire dogmi e regole, e che tutti
i cittadini dello Stato sono tenuti a seguire. Sebbene tenti di fondere i principi di una religione
naturale con i doveri civili, Rousseau non riesce a superare, neppure su questo piano, quel
dualismo tra homme/citoyen su cui fonda la sua riflessione morale e politica.

Brani tratti da E. Pulcini, in C. Galli, R. Esposito (a cura di), Enciclopedia del pensiero
politico, Laterza, Roma-Bari 2000

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MARY WOLLSTONECRAFT (1759 - 1797)

“Non desidero che esse abbiano potere sugli uomini ma su loro stesse” (Wollstonecraft 2008,
p. 86) scrive Mary Wollstonecraft nella Vindication of the Rights of Woman, suggerendo un
ideale di indipendenza per le donne che sembra riecheggiare alcuni tratti della libertà
repubblicana. In queste pagine vorrei provare a mostrare proprio il legame tra femminismo e
repubblicanesimo nel pensiero di Wollstonecraft, in particolare mettendo in luce come il
contesto repubblicano non solo sia l’ambiente nel quale si forma, ma sia anche il punto di
riferimento teorico utile per comprendere il suo modo di intendere la difesa dei diritti delle
donne e la tensione all’uguaglianza. […]
Benché Mary Wollstonecraft venga spesso considerata la madre del femminismo, il suo
pensiero è stato influenzato da donne (e non solo) che prima di lei avevano rivendicato i loro
diritti; […] Negli stessi anni in Francia il tema dei diritti femminili era molto dibattuto:
Condorcet aveva sostenuto la causa dei diritti e dell’istruzione delle donne, sostenendo che
non vi sono differenze naturali tra uomini e donne e che quindi non ha senso escludere queste
ultime dai diritti propri dei cittadini. […] Il femminismo di Wollstonecraft, proprio a partire
dalla consapevolezza della mancanza di armonia della società causata dalla disuguaglianza,
diventa anche un modo per mettere in discussione il rapporto tra libertà e repubblica:
l’esperienza delle donne dimostra, infatti, che non basta vivere in una repubblica, per quanto
ben ordinata, per essere libere. Proprio la dimensione dell’esperienza diventa centrale nel
pensiero di Wollstonecraft, che sceglie come metodo il partire da sé per indagare la
dipendenza e per descrivere non solo che cos’è la mancanza di libertà, ma anche come essa

152
viene vissuta. Wollstonecraft, in questo senso, riprende l’idea repubblicana di libertà come
assenza di dipendenza, ma la amplia per comprendere la subordinazione delle donne che
vengono educate ad amare questa loro forma di vita non-libera. Wollstonecraft intende la
libertà, in senso pienamente repubblicano, come assenza di dominio e, perciò, riconosce nelle
donne degli esseri non liberi, mai pienamente indipendenti dal dominio maschile.
Proprio a partire da queste considerazioni, la riflessione sull’educazione, nata dalla polemica
con Rousseau, diventa fondamentale per capire come sia possibile che le donne amino la loro
subordinazione. La caratteristica più rilevante della formazione delle donne è il suo tendere
in un’unica direzione: rendere la donna piacente, farla diventare “il giocattolo dell’uomo, il
sonaglio che tintinna nelle sue orecchie ogni volta che egli decide di mettere da parte la
ragione e svagarsi” (Wollstonecraft 2008, p. 53). Nel corso del testo le donne vengono
paragonate a gingilli, a pennuti, a piante esotiche e ad una serie di oggettini piacevoli per
sottolinearne la frivolezza, l’attenzione all’aspetto e all’esteriorità, il ruolo di passatempo per
gli uomini e soprattutto la loro dipendenza; le donne finiscono per fare della loro bellezza il
loro solo obiettivo: “l’impegno principale nella vita di una donna, sulla base del modello
sociale attuale, è il piacere”(Wollstonecraft 2008, p. 78), che distoglie la loro mente da
occupazioni più stimolanti intellettualmente e più utili alla società. In questo modo le donne
diventano, “letteralmente parlando, schiave del proprio corpo e si gloriano di questa
sottomissione” (Wollstonecraft 2008, p. 65), che viene rappresentata dagli uomini come
piacevole e come segno di un privilegio.
Questa vanità femminile non è naturale, ma è il frutto di un’educazione che parte proprio dal
corpo: le donne vengono costrette all’immobilità, permettendo loro, fin dalla più tenera
infanzia, solo giochi sedentari e silenziosi, preludio di una vita adulta altrettanto noiosa. Mary
Wollstonecraft critica fortemente questa consuetudine: “in tutto il regno animale ogni giovane
creatura ha bisogno di esercizio continuo e l’infanzia dei bambini, secondo questa
indicazione, dovrebbe essere trascorsa fra innocue capriole che mettono in movimento mani
e piedi. L’attenzione necessaria alla sopravvivenza è, infatti, il primo naturale esercizio
dell’intelletto, mentre le piccole invenzioni per il diletto del momento sviluppano
l’immaginazione. Ma questi saggi disegni della natura sono vanificati dal cieco zelo”
(Wollstonecraft 2008, p. 62). In particolare, alle ragazze viene chiesto di conservare la propria
bellezza, che sembra essere il loro bene più prezioso, e di non metterla in pericolo con giochi
all’aria aperta: un comportamento che “indebolisce i muscoli e fa rilasciare i nervi”
(Wollstonecraft 2008, p. 62). La naturale inferiorità rispetto alla forza maschile viene
costantemente rafforzata, trasformando le donne in creature malaticce e annoiate, che prestano
attenzione al loro aspetto perché è l’unica cosa che gli è stata concessa fare: “è del tutto
naturale che una donna costretta a star seduta e ascoltare le conversazioni oziose di sciocche
governanti o presenziare alla toeletta della madre si sforzi di prendere parte alla
conversazione”(Wollstonecraft 2008, p. 63), come è logico che le bambine nei loro giochi
finiscano per imitare i comportamenti della madre davanti allo specchio non avendo avuto
modo di osservare nulla di più stimolante.
Questa educazione alla piacevolezza rende le donne dipendenti dal giudizio maschile e forma
la loro identità solo in relazione al piacere dell’uomo. Questa dipendenza dallo sguardo
maschile dà origine, secondo Wollstonecraft, ad un circolo vizioso tra l’educazione personale
e la divisione dei ruoli all’interno della società: le donne non possono lavorare a meno di non

153
essere considerate delle prostitute, quindi non possono essere indipendenti, quindi devono
trovare un marito che le mantenga e quindi devono essere piacenti; ma anche viceversa:
vengono educate solo alla frivolezza, quindi non sanno di poter essere indipendenti o non
sono in grado di esserlo e quindi non resta loro che il matrimonio. Questo cortocircuito è
anche la causa di molti dei difetti attribuiti per natura alle donne: se il loro solo obiettivo è
soltanto il matrimonio, saranno sempre rivali tra loro e dovranno usare tutti i mezzi possibili
per essere piacevoli ed essere quindi scelte da un uomo. Dalle donne non ci si aspetta nessuna
virtù “se non quelle negative – pazienza, docilità, buon umore e arrendevolezza – virtù
incompatibili con qualsiasi esercizio dell’intelletto di un certo spessore” (Wollstonecraft
2008, p. 82): gli uomini, infatti, non si aspettano di sposare una compagna con cui discorrere,
ma una schiava da avere a propria disposizione. Le donne, quindi, vengono tenute
nell’ignoranza e rese orgogliose della propria debolezza che viene interpretata come un segno
di distinzione e buon gusto: la dipendenza, travestita da seducente fragilità, diventa un valore
e un obiettivo da perseguire.
Queste virtù tipicamente femminili vengono definite negative perché basate sulla
sopportazione e perché indeboliscono l’intelletto e la volontà; ad esse, per le donne, si
aggiunge la castità, per contrastare l’intemperanza maschile. Wollstonecraft, però, nota come
questa virtù non sia appannaggio di tutte le donne: ve ne sono alcune che sono “schiave
compiaciute della lussuria occasionale”(Wollstonecraft 2008, p. 101), che diventano
voluttuose per piacere agli uomini; Wollstonecraft mostra, ancora una volta, il paradosso entro
cui sono confinate le donne: per difendere la loro reputazione devono corrispondere alla
castità, la virtù per la quale sono maggiormente lodate, ma per poter attrarre gli uomini devono
mostrarsi libertine e disponibili. In questo contrasto la castità si trasforma in pura apparenza,
in attenzione formale alla reputazione che non ha più nulla di virtuoso. Le donne sono
paragonate agli ufficiali che “acquisiscono le buone maniere prima della morale”
(Wollstonecraft 2008, p. 40) e che hanno come scopo della propria vita la galanteria e la
mondanità. Anche in questo caso viene chiamata in causa l’educazione, che sia nel caso delle
donne che dei soldati è frammentaria e subordinata agli impegni mondani: “ma può il frutto
acerbo dell’osservazione casuale, mai sottoposto al vaglio del giudizio […], meritare di essere
considerato conoscenza? I soldati, come le donne, praticano le loro virtù minori con
puntigliosa formalità. Dov’è dunque la differenza sessuale, quando l’educazione è stata la
stessa?” (Wollstonecraft 2008, p. 39) – qui Wollstonecraft presenta un altro tema caro al
repubblicanesimo, quello dei cittadini in armi: la critica di Wollstonecraft agli ufficiali, infatti,
non è altro che una riproposizione, in un contesto originale, dell’idea che cittadinanza e
servizio militare debbano procedere di pari passo e che le milizie di professione siano un
rischio per una repubblica che voglia prosperare. Wollstonecraft puntualizza come la passione
delle donne per l’esteriorità e la forma, quindi, non sia un fatto naturalmente connesso al loro
sesso, ma sia il risultato di un’educazione che preferisce l’emulazione al giudizio e che
valorizza la confezione rispetto al contenuto. In questo senso Wollstonecraft nota che
l’ammirazione di cui si fregiano le donne è ben lontana da una forma di rispetto che
scaturirebbe da dei meriti, ripercorrendo ancora una volta una riflessione repubblicana.
Questo sguardo critico sull’educazione conduce Wollstonecraft ad una riflessione sulla virtù.
Wollstonecraft, infatti, nota come la virtù sia intesa diversamente per maschi e femmine, sia
sessuata, mentre dovrebbe trattarsi di un principio universale, valido per tutti e tutte, pur se

154
declinato in doveri diversi; scrive così: “se esiste un solo criterio per la morale, un solo
archetipo d’uomo, sembra dunque che il destino lasci le donne in sospeso […]: esse non
posseggono né l’istinto infallibile degli animali, né possono puntare l’occhio sulla ragione per
un modello di perfezione. Sono state create per essere amate e non devono anelare al rispetto
per non correre il rischio di essere cacciate dalla società con l’accusa di mascolinità”
(Wollstonecraft 2008, p. 54). […]
La debolezza delle donne è lo specchio della debolezza di una società intera, nella quale è “la
ricchezza, e non la virtù, a rendere l’uomo rispettabile” (Wollstonecraft 2008, p. 140), dove
alla proprietà è tributato quel rispetto e quella ammirazione che dovrebbe essere dovuta alla
virtù e ai talenti e dove conduce a più alti onori il piacere rispetto al dovere. Le donne, poiché
vengono educate alla dipendenza, sono l’esempio più alto di questa corruzione dei costumi:
nella Vindication of the Rights of Woman of the Rights of Men Mary Wollstonecraft aveva
sottolineato come dalla mancanza di libertà nascessero il servilismo, la furbizia e l’adulazione
(Wollostonecraft 2002) e nella Rivendicazione estende questo argomento alle donne, deboli
perché schiave. [...] l’unico modo per rendere le donne pienamente virtuose sarebbe, quindi,
quello di renderle libere. Wollstonecraft si serve dell’idea repubblicana che vede la mancanza
di libertà non solo nella costrizione, ma anche nella dipendenza: la condizione femminile,
quindi, può essere descritta come una mancanza di libertà, come una vera e propria schiavitù.
Wollstonecraft pensa la libertà come sempre connessa alla ragione, tanto che sottomettersi ad
un potere perfettamente razionale coincide con l’essere liberi e, per questo, è fondamentale
sviluppare un’indipendenza di pensiero: la possibilità di pensare liberamente deve andare di
pari passo con quella di agire. Per Wollstonecraft, però, il carattere della persona viene
formato (anche se non determinato) dalle circostanze in cui si vive. L’indipendenza del
pensiero, perciò, dipende anche dalla libertà da condizioni di dipendenza materiale. [...]
La politica, così come le relazioni personali e persino i matrimoni, dovrebbe essere basata
sull’amicizia, il vincolo più sacro della società, che viene descritta come una relazione tra
uguali, tra pari. Wollstonecraft trasforma la femminilità in un concetto politico, poiché diventa
una parola in codice per dire schiavitù, e quindi, nella società europea di quel secolo, per
definire un comportamento servile. Ma nelle sue riflessioni schiavitù significa anche qualcosa
di più radicale: significa essere condizionati dal potere che le identità sociali hanno sulla
politica. [...]
Per Wollstonecraft – ed ecco un’altra traccia di repubblicanesimo – la virtù non può
pienamente svilupparsi se esclusa dalla vita attiva, dalla partecipazione politica o dalla cosa
pubblica. Le donne, però, educate ad essere frivole, non potranno provare alcun interesse per
questo campo finché non saranno libere dalla dipendenza dagli uomini. La mancanza di
partecipazione politica delle donne è un male per l’intera società anche perché “l’amore per
l’umanità, da cui scaturisce naturalmente una serie di virtù, può nascere soltanto dalla
considerazione dell’interesse morale e civile dell’umanità” (Wollstonecraft 2008, p. 125),
interesse dal quale le donne sono escluse e che non possono trasmettere. La prima richiesta in
questo senso è quella che le donne abbiano “dei rappresentanti invece di essere governate
senza alcuna voce in capitolo nelle delibere del governo” (Wollstonecraft 2008, p. 113) sulla
base dell’idea che se vengono negati “i diritti i doveri diventeranno inutili”(Wollstonecraft
2008, p 112) [...]. La seconda richiesta è che possano godere di un’istruzione pubblica uguale

155
a quella dei maschi che permetta alle donne di sviluppare il loro intelletto per poter sviluppare
la propria virtù in maniera autonoma, senza scimmiottare gli uomini.
Il nesso tra libertà e virtù come requisito di una piena cittadinanza, e quindi di una
partecipazione politica attiva, è un tema repubblicano, che, però, Wollstonecraft amplia per
immaginare una diversa forma di cittadinanza, che si accompagni a un ripensamento della
virtù civile. Wollstonecraft infatti non si limita a invocare l’ingresso delle donne nella sfera
pubblica, ma ne teorizza un ripensamento radicale: rompe la barriera tra sfera pubblica e sfera
domestica e tra virtù pubblica e privata. La sfera domestica diviene il luogo della formazione
dei cittadini e quindi diviene a tutti gli effetti pubblica o, per meglio dire, politica. La
cittadinanza viene ripensata a partire dal ruolo femminile di moglie e di madre, a partire da
doveri diversi da quelli maschili, ma che hanno, e devono avere, lo stesso statuto di doveri
pubblici: il tema di Wollstonecraft, in questo senso, non è tanto quello di liberare le donne dai
doveri domestici, ma di cambiarne la considerazione e l’atteggiamento col quale le donne li
svolgono, trasformandole da schiave in cittadine che hanno dei diritti in virtù del compimento
di doveri riconosciuti. [...]
Wollstonecraft svela, così, la natura politica della sfera privata, mettendo in luce i rapporti di
potere e di forza che agiscono in essa, sotto le mentite spoglie di una pretesa Natura, che copre
logiche di subordinazione. In questo senso la soluzione proposta non può che essere politica:
ripensare l’educazione significa tentare di scalzare le dinamiche subordinanti di quei rapporti
di potere inserendo una dimensione di uguaglianza potenziale, che offra l’opportunità di agire
politicamente. [...]Wollstonecraft, in questo modo, invoca un ripensamento della
partecipazione politica: il buon cittadino non è più solo quello che spende la sua vita negli
uffici pubblici, ma anche colei che quella vita mette al mondo.
Più ancora che rivendicare diritti, Wollstonecraft reclama un cambiamento dell’intera vita
politica e civile sulla base dell’idea che il carattere degli esseri umani non possa essere
formato unicamente dalle leggi o dagli affetti privati, ma che si costruisca nel lungo periodo
nell’intreccio di entrambi. Non può esistere, quindi, una società libera e giusta che si basi su
rapporti privati di dominio e sottomissione e non può esserci una virtù esclusivamente
pubblica. […] Forse non è in grado di sciogliere il paradosso di un’uguaglianza nella
differenza, ma sostenendo che “la virtù pubblica è solo un aggregato di quella
privata”(Wollstonecraft 2008, p. 141) sta rivendicando per le donne la possibilità di un pieno
autogoverno. Cosa intenda Wollstonecraft per autogoverno emerge soprattutto nei due
romanzi – Mary, a Fiction e Maria, or the Wrongs of Woman – dove viene presentato un
modello di autogestione in piccoli gruppi, che può garantire una maggiore libertà: in entrambi
i romanzi, infatti, alla fine le donne scelgono di vivere in campagna, in comunità piccole e
autoregolate, che rappresentano delle società non certo utopiche, ma delle suggestioni
politiche perseguibili, dove, come sottolinea Coffee, chiarisce che “to be independent, we
must live in a community of independent agents” (Coffee 2014, p. 914). Se il suo ideale,
infatti, è un “cooperative self- government”(Sapiro 1992, p. 181), basato sull’amicizia, le
donne devono poter avere potere prima di tutto su loro stesse: rifiutando di distinguere
pubblico e privato rifiuta di immaginare una sfera di eccezione in cui non valgono le stesse
regole che nella vita politica e porta la piazza nella casa, o viceversa, per non lasciare zone
d’ombra alla riflessione critica che possano produrre costrizione e dominio e rendere una
repubblica, anche se ben ordinata, ingiusta.

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Brani tratti da C. Cossutta, Ripensare la cittadinanza: Mary Wollstonecraft tra
femminismo e repubblicanesimo, in «Cosmopolis», XIII, 1/2016

LETTURE E VISIONI CONSIGLIATE


Suffragette (2015, regia di S. Gavron)

157
ILLUMINISMO E RIVOLUZIONE FRANCESE

KANT (1724 - 1804) E L’ILLUMINISMO

Il pensiero politico di Kant ha trovato formulazione soprattutto tra la fine degli anni Ottanta e
la prima metà degli anni Novanta del XVIII secolo, culminando nella Metafisica dei costumi
(1797). Gli anni Ottanta — durante i quali Kant pubblica la Critica della ragion pura (1781,
1787), la Critica della ragion pratica (1788) e la Critica del giudizio (1790) — ospitano la
formazione di alcune coppie opposizionali (prima fra tutte la coppia pubblico-privato) e di
alcuni criteri di filosofia della storia che saranno recuperati e valorizzati anche in seguito.
Anche l'ideale del cosmopolitismo non è configurato, nel saggio Idea per una storia universale
da un punto di vista cosmopolitico (1784), in senso strettamente politico. Appartiene però agli
anni Ottanta (Che cos'è l'illuminismo?, 1784) l'idea di emancipazione o di uscita dell'uomo
dallo stato di minorità, un'idea che, nel quadro del movimento illuministico tedesco ed europeo,
esprime contenuti non tanto tecnicamente giuridici (emancipazione come rottura di vincoli
paternalistici), quanto generalmente politici. La metafora della maggiore età viene
ripetutamente utilizzata da Kant come cartina di tornasole della libertà moderna: qualsiasi
forma di potere che non tratti i membri della comunità politica come maggiorenni è per Kant
incompatibile con i principi razionali del diritto. La filosofia della storia dà un preciso
contributo alla filosofia politica soprattutto laddove Kant, che pure non è un filosofo ottimista,
respinge una retorica della decadenza e un'antropologia capziosamente pessimistica: infatti la
concezione secondo cui il mondo è in regresso verso il peggio, e non in progresso verso il
meglio, e secondo cui l'uomo è per natura incapace di fare il bene, può essere strumentalizzata
dal dispotismo per rinviare all'infinito le prospettive di trasformazione e di miglioramento. In
chiave di filosofia della storia viene interpretata anche la Rivoluzione francese, soprattutto in
Il conflitto delle Facoltà (1798), perché tale criterio consente a Kant di respingere le
degenerazioni del processo rivoluzionario e tuttavia di ribadire il suo carattere di evento dal
significato irreversibile nella storia della civiltà politica moderna.
La svolta del pensiero di Kant coincide, negli anni Novanta, con la messa a punto della dottrina
del contratto originario, la quale è fondata sulla clausola del 'come se': si tratta di una finzione
in forza della quale il contratto, in quanto semplice idea della ragione, ha una realtà non
empirica ma pratica. Essa consiste nell'obbligare ogni legislatore a emanare le sue leggi 'come
se' alla loro nascita avesse presieduto la volontà riunita di un intero popolo, e nel considerare
ogni suddito, in quanto voglia essere cittadino, 'come se' avesse dato il suo assenso a tale
volontà. Il contratto originario non si fonda quindi su un documento o su un atto storico-
empirico che abbia dato vita al patto: esso conserva il suo carattere di idea regolativa la cui
origine è da intendersi come origine razionale, non fattuale. Come in Rousseau, anche in Kant
si ha un contratto tra individui che, forniti di «insocievole socievolezza», si uniscono attraverso
la comune sottomissione alle leggi. Ma, a differenza che in Rousseau, in Kant non vengono
cancellati i confini tra legalità e moralità, Stato e società, sfera pubblica e sfera privata, citoyen
e bourgeois.
I tre principi dello Stato civile inteso come Stato giuridico sono per Kant: a) la libertà di ogni
membro della società, come uomo; b) l'uguaglianza di ogni membro con ogni altro, come
suddito; c) l'indipendenza di ogni membro di un corpo comune, come cittadino. Nel primo caso

158
il bersaglio polemico è una qualsiasi forma di sudditanza ereditaria, nel secondo caso il
privilegio legato al ceto di appartenenza, nel terzo caso il governo dispotico. Rilevante è, in
relazione alla libertà, la critica kantiana dell'imperium paternale, cioè di un governo paterno nel
quale i sudditi siano figli minorenni incapaci di decidere e costretti ad attendere dalla mera
benevolenza dello Stato indicazioni su «come debbano essere felici». Il governo paternalistico,
che per Kant è il maggior dispotismo pensabile, cancella il confine — tracciato con chiarezza
già da Aristotele — tra la società domestica e la società civile, estendendo illecitamente la sfera
della 'casa' all'ambito complessivo della società e dello Stato. Non è quindi importante se il
potere persegua il bene dei sudditi o se sia al servizio della realizzazione degli scopi privati dei
reggitori: ciò che importa è la sua compatibilità con il diritto formale alla libertà.
Coerentemente, il secondo principio, relativo all'uguaglianza, corrisponde all'affermazione
liberale di una parità di chances non ostacolata da prerogative ereditarie, mentre il terzo
principio, relativo all'indipendenza, rinuncia alla fraternité della triade rivoluzionaria francese
e fa dell'indipendenza un predicato giuridico a priori.
Parte integrante della filosofia politica kantiana sono da considerarsi anche alcuni paragrafi
della Critica del giudizio nei quali Kant, come ha sottolineato in particolare H. Arendt, elabora
una teoria del giudizio politico. Per senso comune dobbiamo intendere, secondo Kant, l'idea di
una comunanza di senso, cioè di una facoltà di giudicare che nella sua riflessione tiene conto
(a priori) del modo di rappresentazione di ogni altro; ciò avviene quando ciascuno si pone al
posto di ciascuno degli altri soggetti agenti e astrae dalle accidentali limitazioni inerenti al
nostro individuale giudizio. In tal modo si ottiene un pensiero aperto o ampliato, capace di
elevarsi al di sopra delle condizioni soggettive e individuali del giudizio. Nella medesima opera
si trova anche una presa di distanza da una concezione gerarchico-organicistica, con la
concomitante adesione al modo in cui il termine 'organizzazione' è stato usato da un grande
popolo, quello americano, «per l'istituzione delle magistrature, ed anche dell'intero corpo dello
Stato. In un tale tutto infatti ogni membro non deve essere solo mezzo, ma al tempo stesso
anche fine».
Per ciò che attiene alla struttura dello Stato, Kant accoglie senza esitazioni il principio della
separazione dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario), ma senza attingere, come
Montesquieu, alla tradizione del costituzionalismo inglese e al suo sistema giuridico-politico
di contrappesi e di controlli. La norma della separazione dei poteri vale indipendentemente dai
rapporti sociali di forza tra il popolo, la nobiltà e il re e tiene fermo il principio costituzionale
astratto del legislatore sovrano. Kant distingue tra forma del dominio (forma imperii) e modo
di governo (forma regiminis): della prima sono possibili solo tre specificazioni, a seconda che
il potere di comando sia posseduto da uno solo (autocrazia), da alcuni (aristocrazia) o da tutti
(democrazia), e tale ripartizione corrisponde al potere del principe, al potere della nobiltà e al
potere del popolo. Si tratta di una semplificazione e rielaborazione del classico schema
aristotelico delle forme politico-costituzionali al quale Kant, in relazione al criterio di
classificazione del modo di governo, sostituisce l'alternativa fondamentale tra forma
'repubblicana' (fondata sulla separazione dei poteri e coincidente con lo Stato di diritto) e forma
'dispotica', quando la volontà pubblica viene adoperata dal governante come sua volontà privata
(Per la Pace Perpetua, 1795).
La separazione dei poteri è a fondamento anche dell'adesione di Kant al principio
rappresentativo. Qualsiasi forma di governo che non sia rappresentativa è una non-forma,

159
perché il legislatore può essere, in una sola e medesima persona, anche esecutore della sua
volontà. Se inoltre è possibile che, tra le costituzioni statali, quella autocratica e quella
aristocratica assumano una forma di governo conforme almeno allo 'spirito' di un sistema
rappresentativo, la democrazia, nella quale ognuno vuole essere signore, lo rende invece
impossibile. Si può affermare, complessivamente, che tanto più piccolo è il numero dei
governanti, tanto maggiore è la loro capacità di rappresentanza.
Alla teoria della rappresentanza va ricondotta la negazione del diritto di resistenza, la quale
non è in conflitto con il liberalismo di Kant: non solo perché il diritto di resistenza appartiene
a un mondo feudale e cetuale, cioè pluralistico e privo di effettiva sovranità, ma perché esso,
se fosse esercitato, sconvolgerebbe i fondamenti del diritto pubblico, configurando un secondo
potere sovrano accanto al potere sovrano esistente, minando l'ordinamento costituzionale e
ripristinando le condizioni dello stato di natura. Resta tuttavia garantita la «libertà della penna»,
cioè di espressione.
Nello scritto Sulla pace Perpetua Kant, oltre a postulare la forma repubblicana per la
costituzione civile di ogni Stato, formula altri due principi: il diritto delle genti deve essere
fondato su un federalismo di liberi Stati; il diritto cosmopolitico deve essere limitato alle
condizioni della ospitalità universale. Solo una confederazione pacifica può distinguersi da un
semplice trattato di pace, che cerca di metter fine a 'una' guerra, e porre fine a 'tutte' le guerre,
nonostante che Kant avesse affermato che la guerra, pur nella sua irrazionalità, serve a
preparare, ma non a stabilire, la conciliazione di legalità e libertà all'interno degli Stati. Quanto
al contatto tra i popoli, il diritto di ospitalità non corrisponde a un atto di filantropia o di
benevolenza, ma a un diritto di 'visita' spettante a tutti gli uomini, che in quanto tali hanno
diritto al possesso comune della superficie della Terra.

Brano di B. Accarino in C. Galli, R. Esposito (a cura di), Enciclopedia del pensiero


politico, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 353-355

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Nel 1783 uscì un libretto, i Prolegomeni ad ogni futura metafisica che si presenterà come
scienza, che ben sintetizza lo spirito illuminista. L'aveva scritto Immanuel Kant, uno dei più
importanti filosofi di tutti i tempi, e fu da lui pubblicato con l'intento di divulgare il proprio
pensiero dopo i fraintendimenti della Critica della ragion pura, uscita due anni prima. [...] Un
anno dopo la pubblicazione dei Prolegomeni ad ogni futura metafisica che si presenterà come
scienza, Kant scrisse un piccolo saggio intitolato Che cos'è l'Illuminismo?, che uscì negli Atti
dell'Accademia delle Scienze di Berlino, una sede prestigiosa e di grande diffusione [...]. ln
questo saggio sosteneva che l'Illuminismo è l'uscita dell'umanità dall'infanzia in cui essa
stessa si è ridotta per pigrizia, stupidità, abitudine a fare sempre quello che viene insegnato di
fare: «L'Illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se
stesso. Minorità è l'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro.
Imputabile a se stessi è questa minorità se la causa di essa non dipende da un difetto di
intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e di coraggio nel servirsi del proprio intelletto
senza essere guidati da un altro» [...]. Il motto dell'Illuminismo è dunque: «Abbi il coraggio
di servirti della tua propria intelligenza!». Continua Kant: «La pigrizia e la viltà sono le cause

160
per cui tanta parte degli uomini rimangono volentieri minorenni per tutta la vita e per cui
riesce tanto facile agli altri erigersi a loro tutori. È tanto comodo essere minorenni: se ho un
libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha la coscienza per me, un medico che
decide per me sulla dieta che mi conviene eccetera, io non ho più bisogno di darmi pensiero
da me. Purché io sia in grado di pagare, non ho bisogno di pensare: altri si assumeranno per
me questa noiosa occupazione». [...] Kant però dice che non basta pensare con la propria testa,
ma bisogna anche riuscire a entrare nella testa degli altri. I compiti dell'Illuminismo sono due:
diventare capaci di pensare con la propria testa, senza permettere che siano gli altri a decidere
per noi, e contemporaneamente essere capaci di capire gli altri, non essere dogmatici, riuscire
a mettersi, come si dice, «nei panni altrui».
C'è sempre un riferimento alla luce quando si parla di Illuminismo: Aufklârung in tedesco
vuol dire «rischiaramento», «illuminazione»; anche Enlightenment in inglese significa
«illuminazione». Bisogna distinguere tra l'illuminismo antico come dottrina mistica, tra gli
illuminati mistici, che credevano di avere delle visioni e accesso alle cose soprasensibili, e gli
illuministi del Settecento, che ritengono di agire sulla base della pura ragione: sarà soltanto la
ragione, e non la tradizione, la strada da seguire nella vita e nel pensiero.
Questo punto è importante, perché in effetti si potrebbe pensare che in fondo la tradizione è
una buona cosa. [...] In effetti possiamo farci guidare dalla tradizione, ed era quello che
proponeva fino al Cinquecento la Chiesa cattolica, secondo cui non c'era più bisogno di
leggere la Bibbia, perché il messaggio cristiano si era depositato nella Chiesa cattolica,
diventata la tradizione vivente. Martin Lutero, invece, si oppone a questa visione e sostiene
che bisogna tornare a leggere la Bibbia e che possiamo capirla con l'ausilio del nostro solo
intelletto, senza l'intermediazione di qualcuno che ce la spieghi. [...] La Riforma dice:
«Prendete i libri, leggete e capirete». Questo gesto, che risale al Cinquecento, prepara da
lontano il mondo di cui stiamo parlando: potete capire da voi, non c'è bisogno che vi facciate
guidare dai direttori di coscienza; potete istruirvi da voi; non basta andare a messa, bisogna
cercare di capire qualcos'altro.
Una delle più famose creazioni dell'Illuminismo è l'Encyclopédie di Diderot e D'Alembert,
che fu un successo editoriale gigantesco perché riuniva in maniera ragionevole e razionale
tutto il sapere. [...] Ovviamente non è un caso che il Settecento abbia praticato intensamente
un'attività che adesso non è più così di moda: la critica dei pregiudizi. [...] In un libro del 1766
un filosofo minore dell'Illuminismo, Georg Friedrich Meier, ci dice chiaro e tondo perché è
così importante prendersela con i pregiudizi. Parla dell'analogia tra il pregiudizio e il peccato:
avere dei pregiudizi è come commettere dei peccati. [...] «Poiché i pregiudizi possono venir
considerati peccati di precipitazione dell'intelletto umano» [...] Evitare il peccato, evitare il
pregiudizio. «Essi, dico i pregiudizi, sono infatti le cause originarie della rovina umana, e
sono tanto più pericolose quanto più remote e nascoste.» Per esempio: gli altri popoli sono
meno civili di noi e quindi facciamo la guerra agli altri popoli, ecco un tipico esempio di
pregiudizio.
Montesquieu, un altro monumento della cultura illuminista, scrisse il libro Lo spirito delle
leggi, dove mostrava che infinite sono le leggi e infiniti i costumi, tutti con una loro
razionalità, una loro ragionevolezza. [...] «Quando i pregiudizi esercitano la propria tirannide
sull'intelletto umano, esso diventa del pensare come uno schiavo che non è in grado di

161
preservarsi dagli errori più riprovevoli e insensati. E dunque incontestabilmente vero che la
dottrina dei pregiudizi è una scienza infinitamente utile.»
Quindi, non lasciamoci influenzare dalla tradizione, non lasciamoci influenzare neanche
troppo dalla storia, dai costumi, dalle abitudini [...]. Questo ci spiega il titolo dell'opera di
Kant: Critica della ragion pura, «pura» nel senso di purificata da qualunque scoria di
pregiudizi e tradizioni. Per liberarsi dei pregiudizi bisogna innanzitutto nutrire il sano costume
del dubbio. Per capire che cosa sia il dubbio dal punto di vista filosofico, non possiamo
prescindere da un grande filosofo del Seicento, René Descartes, italianizzato in Cartesio. In
un libro famoso propose questo esperimento mentale: provo a dubitare di tutto quello che mi
è stato trasmesso, di tutte le storie che mi hanno raccontato, di quello che mi hanno detto a
scuola; dubito persino dei sensi; posso essere persino ingannato dal colore delle cose, dalla
loro forma, perché tante volte penso di toccare qualcosa e in realtà sto soltanto sognando di
toccare questa cosa. Dunque devo radicalmente esercitare il principio del «dubbio metodico»,
così lo chiama Cartesio, per poter arrivare alla verità. [...] Questo è il grande insegnamento:
liberarsi dal pregiudizio, farsi guidare dalla ragione, cercare di imparare tante cose, ma
contemporaneamente vagliare dal punto di vista razionale le cose che crediamo vere, e quindi
buttare via tutte le cose stupide e sciocche che ci sono state trasmesse dall'abitudine.
Ma ora che ci siamo liberati della tradizione, ora che non crediamo al pregiudizio e vogliamo
avere dei dati assolutamente certi, cosa può servirci da guida nella vita? Ovviamente la
scienza: l'Illuminismo è il momento del grande trionfo della scienza, perché la scienza è fatta
di principi razionali applicati all'esperienza. L'Illuminismo non ha voluto fare nient'altro che
questo: applicare la ragione all'esperienza. E se si volesse enunciare il principio fondamentale
della filosofia di Kant si direbbe che è proprio la ragione applicata all'esperienza: Kant vuole
fare per la filosofia quello che la scienza ha fatto per il mondo.
Nel 1787 Kant pubblicò la seconda edizione della Critica della ragion pura e nel 1788 la
Critica della ragion pratica, testo molto più breve. [...] Si tratta ora di capire cosa intenda per
«pratica»: secondo Kant è ciò che facciamo agendo come esseri liberi. [...] La Critica della
ragion pratica cerca di mettere in scena quel mondo che non è determinato dalla necessità
come, per l'appunto, il mondo della Critica della ragion pura. In fondo, la natura opera per
necessità: quello che succede ha una causa, questa causa ha un'altra causa e così via. [...]
«Pratico» per Kant è proprio questo: pràxis, «azione», quel tipo di azione che è possibile
perché siamo liberi. Quindi nella natura tutto quanto è determinato dalle cause, ma sembra
esserci un mondo accanto alla natura o sopra la natura in cui invece siamo liberi. Del resto,
noi abbiamo un sentimento molto forte della libertà: ci sembra di scegliere liberamente delle
cose, anche se magari non è vero, perché siamo determinati dall'abitudine, dall'educazione
[...]. In molti casi, comunque, riteniamo di essere liberi, e il mondo è regolato dalla nostra
libertà. In fondo, se si danno delle pene e dei premi, è perché si suppone che gli esseri umani
siano liberi: se agissimo come automi, non esisterebbero né meriti né responsabilità.
Kant dice che non abbiamo nessuna evidenza del fatto che siamo liberi: potremmo essere
vittime di una grande illusione [...]. Benché non ci siano dimostrazioni che siamo liberi, è
necessario pensare che sia così, altrimenti la nostra vita non avrebbe senso. [...] Mentre il
mondo fisico è governato dalla necessità (la fisica è un sistema di cause e di effetti), esiste
però un mondo soprasensibile, il mondo della morale, in cui agiamo come se non ci fossero
questi vincoli. [..]

162
Quella di Kant è stata chiamata l'«etica del dovere». Kant era un fervente protestante; in
particolare, apparteneva, come sua madre, a una corrente molto spirituale del protestantesimo,
il pietismo. In un certo senso, si può dire che nella Critica della ragion pratica traspone quel
principio della responsabilità, della coscienza, del riferimento all'interiorità che è
caratteristico della religione protestante: mentre la religione cattolica è molto legata
all'esteriorità — santi, feste, riti —, nel protestantesimo predomina la dimensione interiore.
Nella Critica della ragion pratica ritroviamo qualcosa del genere: l'idea è che noi dobbiamo
agire per giustizia, seguendo il puro principio del dovere. Kant era un prussiano, quindi
l'imperativo morale è come un ordine militare.
Al di là degli elementi biografici, però, è una questione di ragionamento logico: che cosa c'è
di buono in un'azione? La risposta di Kant è l'intenzione che sta alla base dell'azione. Per Kant
la vita è piena di quelli che Kant definisce «imperativi ipotetici»: se voglio avere una bella
casa (questa è l'ipotesi) allora devo avere tanti soldi; se voglio avere tanti soldi, allora o faccio
una rapina o ho un lavoro molto redditizio. Dal punto di vista dell'imperativo ipotetico, il
«dovere» deriva dal «se»: il dovere non sta all'inizio, ma a metà. Inoltre, il dovere è
strumentale, cioè indifferente: o rapino una banca o lavoro onestamente. Il dovere è finalizzato
a obiettivi pratici: avere una bella casa. La moralità è tutt'altra cosa.
[...] Kant introduce allora l'«imperativo categorico». La sola cosa buona nel mondo morale è
la volontà di fare il bene: il «dovere» così deve precedere il «se», e non seguirlo. Devi fare
qualcosa di giusto perché devi, per nessun altro motivo. [...] Il dovere precede ogni cosa: tutti
i gerarchi processati a Norimberga si giustificavano dicendo che eseguivano degli ordini, ma
questa giustificazione non è valida: il dovere non viene dall'esterno, ma parte dal soggetto
stesso.
È interessante notare che nella Critica della ragion pratica siamo contemporaneamente il
giudice e l'imputato, cioè noi siamo coloro che determinano le leggi, obbediscono alle leggi e
verificano se queste leggi sono state rispettate. [...] La moralità kantiana procede secondo un
meccanismo astratto, a volte anche feroce, ma si comprende meglio se contestualizzata nel
pensiero dell'epoca: Kant reagiva all'idea che la morale possa essere determinata da interessi
pratici, perché se si introducono degli scopi, dei guadagni, dei vantaggi secondari, la morale
poco alla volta si sfascia. Infatti il principio fondamentale di Kant [...] è: «Opera in modo che
la massima della tua volontà possa valere sempre come principio di una legislazione
universale». [...] In realtà, Kant si confronta con la concretezza dell'agire morale, perché
l'agire morale è nel mondo soprasensibile, ma riguarda gli esseri umani. E di essere umani ce
ne sono infinite varietà [...], quindi ci sono infinite varietà che agiscono all'interno del mondo
morale. [...] C'è quindi qualcosa di empirico che sta alla base del nostro agire morale, e Kant
lo riconosce, andando un po' contro quello che aveva detto sul mondo soprasensibile,
nell'esempio della colomba, simbolo di purezza e quindi anche della purezza dell'azione
morale: la colomba incontra una resistenza quando vola, perché l'aria oppone resistenza.
Qualcuno potrebbe pensare che sarebbe meglio per la colomba non incontrare questa
resistenza, così farebbe meno fatica. Senza questa resistenza, però, non volerebbe, perché è
proprio la resistenza dell'aria che le permette di volare, come dire che le difficoltà del mondo
che ci mettono alla prova sono la condizione per dare origine a quell'agire morale attraverso
cui noi ci proiettiamo dal mondo sensibile delle cose che stanno intorno a noi al mondo
invisibile, ma tanto importante, che è il mondo della libertà.

163
Brani tratti da M. Ferraris, Kant e L'illuminismo, Roma 2011

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ROBESPIERRE
Robespierre, Maximilien de (1758-1794). Uomo politico francese, personaggio chiave della
Rivoluzione, leader indiscusso del Terrore. Avvocato, eletto agli Stati generali, è molto attivo
alla Costituente: sua la proposta di vietare la rielezione immediata dei deputati costituenti così
come il discorso nel quale la sentenza su Luigi XVI viene assimilata a una misura di salute
pubblica. Appartiene alla parte più progressista del Club dei giacobini, che ben presto si trova
a capeggiare. Attraverso la progressiva eliminazione dei principali avversari (girondini,
hebertisti, dantonisti), e grazie all'estendersi dei poteri del Comitato di salute pubblica e del
tribunale rivoluzionario, giunge a disporre di un potere pressoché assoluto, difeso con ripetute
epurazioni nel tentativo di attuare una politica sociale radicalmente democratica e
repubblicana.
Le basi teoriche di Robespierre si trovano nella teoria della Sovranità di Bodin, nel diritto
naturale di Locke, nel pensiero di Mably e soprattutto di Rousseau. L'aspirazione a una
democrazia che istituisca nell 'ordine sociale i diritti dell'uomo si lega alla ricerca di
un'uguaglianza non tanto socio-economica quanto civile. Da qui il tentativo di estendere
quanto più possibile i diritti politici e di dare consistenza alla sovranità popolare, che deve
concretamente appartenere alla comunità. Robespierre reinterpreta la separazione dei poteri
attraverso la distinzione tra potere e funzione, mostrandosi consapevole dell'importanza
dell'organo esecutivo: tuttavia rimane per lui indiscusso, nella scia di Rousseau, il primato
dell'assemblea legislativa. La struttura istituzionale è però subordinata alla preminenza del
potere del popolo: democrazia, libertà, uguaglianza e sovranità devono esistere nella società
per realizzarsi appieno. In questo senso Robespierre nega anche l'ateismo ed esalta il senso
etico istintivo del popolo: la virtù è l'unica vera via per distinguere il bene dal male ed
eliminare definitivamente il dispotismo. Con il culto civico dell'Essere Supremo Robespierre
cerca così di dare un fondamento morale e una più forte legittimazione al Terrore, poco prima
che la reazione lo condanni a morte.

SAINT-JUST
Saint-Just, Louis-Antoine-Lion (1767-1794). Uomo politico francese. Vive in giovanissima
età la fase più drammatica della rivoluzione (scontro tra Gironda e Montagna, governo
terroristico dei comitati giacobini) ; il suo pensiero — che risente inizialmente (L'esprit de la
révolution, 1791) dell'influsso di Montesquieu e poi di quello di Rousseau (Fragments sur les
institutions républicaines, De la nature, entrambi postumi) — è spesso contraddittorio ma
carico di energia.
Secondo Saint-Just, la società è «naturale», ma lasciata a se stessa ha storicamente generato
uno stato di guerra fra gli uomini, anziché evitarlo. Il suo obiettivo quindi è di superare la
politica come dimensione della corruzione, della violenza e dell'ingiustizia per giungere a
leggi giuste, ma ancora interne alla dimensione della coazione, e quindi a istituzioni che
ristabiliscano fra gli uomini rigenerati i loro «naturali» rapporti sociali. Saint-Just non è

164
preoccupato da una presunta cogenza dell'evoluzione storica: tutto per lui dipende dalla
volontà e dall'energia umana. Egli coltiva l'idea di una rivoluzione che si realizza nell'azione
di un governo e nell'applicazione di leggi — brevi e semplici — che non abbandonano mai il
risoluto carattere della 'rivoluzionarietà'.
Assai vicino a Robespierre, Saint-Just è attore febbrile dei momenti topici della rivoluzione,
soprattutto nel processo al re, e disegna in un noto discorso il 'governo rivoluzionario' che
incarnerà la Terreur. Al tempo stesso difende posizioni sociali che sconfinano nel
puritanesimo e, nella fase finale del potere montagnardo, contribuisce a definire le soluzioni
trascendentali contenute nel culto dell'Essere Supremo. Nonostante la sua idea di una
rivoluzione che opera senza sosta per la rigenerazione della società umana, Saint-Just nelle
ultime ore di vita mostra una sconcertante passività di fronte agli eventi che lo porteranno al
patibolo.

entrambi i brani da P. Colombo, in C. Galli, R. Esposito (a cura di), Enciclopedia del


pensiero politico, Laterza, Roma-Bari 2000

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DICHIARAZIONE DEI DIRITTI DELLA DONNA E DELLA CITTADINA, DI


OLYMPE DE GOUGES (1791)

Si tratta del primo documento che invoca l'uguaglianza giuridica e legale delle donne in
rapporto agli uomini ed è stato pubblicato allo scopo di essere presentata all'Assemblée
Nationale per esservi adottata. La Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina
costituisce un’imitazione critica della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, che
elenca i diritti validi solo per gli uomini, allorché le donne non dispongono del diritto di voto,
dell'accesso alle istituzioni pubbliche, alle libertà professionali, ai diritti di possedimento. Il
testo denuncia la mancanza di libertà delle donne e chiede il riconoscimento di una serie di
garanzie ed opportunità che rendano effettivi i principi della Rivoluzione anche per le donne.
L'autrice vi difende, non senza ironia sulle considerazioni dei pregiudizi maschili, la causa
delle donne, scrivendo che «La donna nasce libera e ha uguali diritti all'uomo». Volendo, si
può dire che Olympe de Gouges criticò la Rivoluzione francese di aver dimenticato le donne
nel suo progetto di libertà e di uguaglianza. In seguito, Robespierre proibì le associazioni
femminili, chiuse i loro clubs ed i loro giornali, mentre Olympe de Gouges veniva
ghigliottinata (novembre 1793) «per aver dimenticato le virtù che convengono al suo sesso»
ed «essersi immischiata nelle cose della Repubblica».
---
Da decretare da parte dell'Assemblea nazionale nelle sue ultime sedute oppure in quella della
prossima legislatura.

Prefazione
Le madri, le figlie, le sorelle, rappresentanti della nazione, chiedono di costituirsi in assemblea
nazionale. Considerando che l'ignoranza, l'oblio o il disprezzo dei diritti della donna, sono le

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sole cause delle disgrazie pubbliche e della corruzione dei governi, hanno deciso di esporre
in una dichiarazione solenne i diritti naturali inalienabili e sacri della donna, affinché tale
dichiarazione, costantemente presente a tutti i membri del corpo sociale, ricordi loro senza
posa i loro doveri, affinché gli atti del potere delle donne e quelli del potere degli uomini,
potendo essere in ogni momento comparati con il fine di ogni istituzione politica, ne siano più
rispettati, affinché i reclami delle cittadine, fondati ormai su principi semplici e incontestabili,
si volgano sempre al mantenimento della costituzione, dei buoni costumi, e alla felicità di
tutti. Di conseguenza, il sesso superiore in bellezza come in coraggio, nelle sofferenze
materne, riconosce e dichiara, in presenza e sotto gli auspici dell'Essere supremo, i seguenti
Diritti della Donna e della Cittadina.

I. La Donna nasce libera ed è eguale all'uomo nei diritti. Le distinzioni sociali non possono
essere fondate che sull'utilità comune.

II. Lo scopo di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e


imprescrittibili della Donna e dell'Uomo: tali diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza,
e soprattutto la resistenza all'oppressione.

III. Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione, che non è altro che la
riunione della Donna e dell'Uomo: nessun corpo, nessun individuo può esercitare una autorità
che non ne derivi espressamente.

IV. La libertà e la giustizia consistono nel rendere tutto quello che appartiene agli altri; così
l'esercizio dei diritti naturali della donna non ha limiti se non la tirannia perpetua che l'uomo
gli oppone; questi limiti devono essere riformati dalle leggi della natura e della ragione.

V. Le leggi della natura e della ragione vietano tutte le azioni nocive alla società: tutto quello
che non è vietato da queste leggi, sagge e divine, non può essere impedito, e nessuno può
essere costretto a fare quello che tali leggi non ordinano.

VI.La Legge deve essere l'espressione della volontà generale; tutte le Cittadine e Cittadini
devono concorrere, personalmente o tramite loro rappresentanti, alla sua formazione; la legge
deve essere eguale per tutti: tutte le Cittadine e tutti i Cittadini, essendo eguali ai suoi occhi,
devono essere egualmente ammissibili ad ogni dignità, posto e impiego pubblico, secondo le
proprie capacità; e senza altra distinzione che non sia quella delle loro virtù e dei loro talenti.

VII.Per nessuna donna si farà eccezione: la donna è accusata, arrestata, e detenuta nei casi
determinati dalla Legge. Le donne obbediscono come gli uomini a tale Legge rigorosa.

VIII.La Legge deve stabilire solo pene strettamente ed evidentemente necessarie, e nessuno
può essere punito se non in virtù d'una Legge stabilita e promulgata anteriormente al delitto e
legalmente applicata alle donne.

IX. Nel caso di ogni donna dichiarata colpevole la Legge eserciterà ogni rigore.

166
X. Nessuno deve essere infastidito per le proprie opinioni, anche fondamentali. La donna ha
il diritto di salire sul patibolo; deve avere egualmente quello di salire sulla Tribuna; purché le
sue manifestazioni non turbino l'ordine pubblico stabilito dalla Legge.

XI. La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi della
donna, poiché tale libertà assicura la legittimazione dei padri nei confronti dei figli. Ogni
Cittadina può dunque dire liberamente, sono madre d'un figlio che vi appartiene, senza che un
barbaro pregiudizio la forzi a dissimulare la verità; salvo a rispondere dell'abuso di tale libertà
nei casi determinati dalla Legge.

XII.La garanzia dei diritti della donna e della Cittadina necessita un'utilità maggiore; tale
garanzia deve essere istituita per il vantaggio di tutti, e non per l'utilità particolare di coloro
cui è data.

XIII.Per il mantenimento della forza pubblica, e per le spese d'amministrazione, i contributi


della donna e dell'uomo sono eguali; la donna partecipa a tutti i servizi, a tutte le occupazioni
penose; deve dunque partecipare egualmente alla distribuzione di posti, di impieghi, di
cariche, di dignità e dell'industria.

XIV.Le Cittadine e Cittadini hanno il diritto di constatare di persona o tramite propri


rappresentanti la necessità della contribuzione pubblica. Le Cittadine non possono aderirvi
che grazie all'ammissione di una divisione eguale, non solo nella fortuna, ma anche
nell'amministrazione pubblica, e di determinare la quota, l'imponibile, la copertura e la durata
delle imposte.

XV.La massa delle donne, coalizzata per la contribuzione con quella degli uomini, ha il diritto
di chiedere conto, a ogni agente pubblico, della sua amministrazione.

XVI.Ogni società, in cui non è assicurata la garanzia dei diritti, né è determinata la separazione
dei poteri, non ha una costituzione; la costituzione è nulla, se la maggioranza degli individui
che compongono la Nazione non ha cooperato alla sua redazione.

XVII. Le proprietà sono di tutti i sessi riuniti o separati; esse sono per ciascuno un diritto
inviolabile e sacro; nessuno può esserne privato in quanto vero patrimonio della natura, se
non quando la necessità pubblica, constatata legalmente, lo esiga a tutta evidenza, e a
condizione di una giusta e preventiva indennità.

LETTURE E VISIONI CONSIGLIATE


Wu Ming, L’armata dei sonnambuli, Einaudi 2014
H. Mantel, La storia segreta della rivoluzione, Fazi, 2014
H. Mantel, Un posto più sicuro, Fazi, 2014
H. Mantel, I giorni del terrore, Fazi, 2015
U. L. Le Guin, I reietti dell’altro pianeta, 1974

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LO STATO, LA DIALETTICA, IL LAVORO

STATO
Da status, condizione (della cosa pubblica); in prima approssimazione, forma di organizzazione
del potere politico, che esercita sovranità su territorio e cittadini.
Non si riesce a dare una risposta univoca e certa alla domanda «che cosa è lo Stato», se non
precisando con attributi le sue molteplici e diverse identità. Di queste la più condivisa è quella
di «Stato europeo moderno». È un'idea che va mantenuta ben distinta sia dalle realtà statuali o
para-statuali non europee (I'impero persiano o l'impero cinese), sia da quelle antiche (la polis
greca e la respublica romana), sia da quelle medioevali (il sistema feudale caratterizzato dalla
segmentazione della sovranità in una gerarchia di rapporti personali e clientelari). Rispetto a
questi precedenti l'idea dello Stato, in quanto Stato moderno, è del tutto nuova, e la sua novità
emerge bene negli scritti dei primi autori moderni cui si devono le formulazioni più coerenti e
influenti della statualità, anche se nella cultura dell'epoca vengono impiegati i termini
respublica e civitas, e non la parola Stato, che soltanto nell'Ottocento acquisirà il suo significato
attuale: Machiavelli nel Principe (1513), Bodin in Les six livres de la république (1576) e
Hobbes nel De Cive (1647) e nel Leviatano (1651). Ma il concetto di Stato e la visione
laicizzante della politica che ne deriva si costituiscono ed evolvono nel contesto delle istituzioni
che ne sono al tempo stesso l'effetto e la causa. Si intende dunque per Stato una forma politica
che fa necessariamente riferimento a un sistema politico-istituzionale storicamente
determinato: un sistema che nasce nell'Europa occidentale dalla formazione delle grandi
monarchie assolute (soprattutto Francia e Inghilterra), coinvolte dall'inizio del XXI secolo in
un processo di progressiva concentrazione di una sovranità territoriale unica ed esclusiva. Tali
monarchie prendono gradualmente il posto dei due poteri ecumenici (Chiesa e impero) e della
pluralità di autorità secolari divise e disperse (principi e signori) , tipiche di una società insieme
universalista e frammentata quale quella medioevale, e di segno contrario rispetto al disegno
di razionalizzazione centralizzatrice proprio dello Stato moderno. L'effettività di tale sovranità
si determina necessariamente in un sistema europeo di Stati (sanzionato dal trattato di Westfalia
del 1648) ciascuno dei quali riconosce i diritti degli altri, sia pure nella logica di un diritto
internazionale basato sulla legge del più forte.
Anche l'autorevole definizione weberiana dello Stato come «monopolio dell'uso legittimo della
forza fisica nell'ambito di un determinato territorio», perlomeno nella versione corrente fatta
propria da sociologi e storici quali Bendix, Tilly e Mann, non sfugge a questo intreccio tra
modello teorico e prassi politica e non riesce a proporsi come tipologia universale comunque
utilizzabile, se non ricorrendo a ulteriori e specifiche declinazioni che la collochino in un
contesto storico. Anche in questo caso inevitabile è il richiamo alle successive fasi di
affermazione dello Stato moderno (lo Stato pre-moderno del principe rinascimentale e della
società per ceti, lo Stato assoluto del Seicento e del Settecento, lo Stato liberale dell'Ottocento
e lo Stato-Nazione del Novecento) e alla costante interazione con altri e correlati fattori di
modernità di natura ideologica, economica, politica e militare rispettivamente individuabili nei
seguenti processi: la riforma e la figura del principe devoto; la laicizzazione della concezione
del mondo e la rivoluzione scientifica; la nascita del capitalismo e l'industrializzazione; la
burocratizzazione e la capacità del governo di estrarre risorse crescenti attraverso l'obbligo

168
della contribuzione; la guerra e la creazione di eserciti permanenti sempre più organizzati ed
estesi.
Ma tutte queste aggettivazioni della parola Stato, ivi comprese quelle della formula neo-
weberiana, rimandano all'attributo comune della modernità. Questa volta ci troviamo di fronte
alla concettualizzazione generale di tutte le possibili declinazioni della parola Stato e tutto
viene a dipendere dal suo significato e dai criteri di giudizio in essa impliciti. Da una parte la
considerazione dello Stato in quanto istituzione storicamente determinata non può che essere
filtrata attraverso valutazioni di merito circa la sua conformità al modello di modernità che è
stato assunto come valido. Dall'altra le caratteristiche di tale modello sono parte integrante e
imprescindibile di quel processo storico di modernizzazione la cui attuazione dà luogo alla
costruzione dello Stato moderno. Ciò significa che nella trattazione dell'argomento Stato
intervengono contemporaneamente due differenti approcci metodologici: quello etico-
normativo (proprio della filosofia politica) per la formulazione di teorie circa ciò che lo Stato
deve essere, e quello empirico-descrittivo (proprio della sociologia storica) per la conoscenza
di che cosa realmente gli Stati sono e sono stati. Nella dinamica di questa duplice e inscindibile
esigenza di metodo — che tiene conto della doppia dimensione dello Stato, il quale è un sistema
di norme ma anche un sistema di istituzioni — sono perlopiù dominanti le ragioni teoriche di
una modernità pensata in contrapposizione ai valori della tradizione cristiano-medioevale, al di
là della disciplina o delle discipline in gioco.
Un esempio significativo è dato dalla classica definizione bodiniana dello Stato in termini di
sovranità. Il problema del legista e politique Bodin è di natura pragmatica e teorica: si tratta da
una parte di creare un governo forte e accentratore in grado di porre termine all'anarchia delle
guerre di religione, dall'altra di pensare, tenendo conto di quella congiuntura e
dell'insegnamento della storia, un sistema politico, quello dello Stato-république, che sia
concepito in maniera tale da configurarsi come detentore di un potere supremo, laicamente
basato sulla razionalità della costruzione teorica dello Stato. Viene quindi relegata sullo sfondo
di un mito delle origini l'investitura divina e viene comunque depotenziata qualsiasi fondazione
esterna al sistema stesso. Lo Stato esiste ed è tale in quanto è l'unico e legittimo sovrano
assoluto, dotato della facoltà esclusiva di 'fare la legge' e, se è il caso, anche di superarla. Gode
cioè del totale monopolio dell'autorità coattiva, sola fonte legale di un diritto pubblico la cui
giurisdizione si applica a tutto il suo territorio e a tutti i suoi sudditi. Ciò vuol dire che, in
contrasto con la variegata e mista realtà della Francia del Cinquecento ancora in piena
transizione tra Medioevo ed età moderna, si afferma la superiorità e universalità dello ius
publicum dello Stato sulle prerogative di corpi e istituti separati ancora rivendicanti propri
diritti originari. Si delinea così uno spazio proprio della politica dove lo Stato sovrano fa e
comanda le sue leggi, separato dalla sfera domestica del diritto privato che viene spoliticizzato
e circoscritto nell'ambito di sua pertinenza.
Il passo successivo viene compiuto da Hobbes, che mette a frutto la lezione cartesiana: la teoria
della nascita dello Stato diventa una scienza i cui principi sono razionalmente dimostrabili al
pari di un teorema di geometria. La politica viene così definitivamente liberata da qualsiasi
ipoteca metafisica e l'entità Stato si avvia a trovare una sua identità astratta e impersonale.
Nell'epoca dell'Assolutismo e del divine right of kings si obbediva alla summa Potestas di
diretta investitura divina di un monarca che nel suo corpo inglobava e rappresentava la volontà
di tutto il corpo politico dei sudditi. Lo Stato e la sua sovranità erano incarnati nella persona

169
fisica del re, così come nel Medioevo ogni forma di autorità veniva riportata al corpo mistico
della Chiesa. Invece, il Leviatano non è più un organismo vivente, ma uno Stato-macchina
regolato dalle leggi, i cui poteri assoluti derivano soltanto dalla convenzione del patto
(contratto) sociale e dalla sua funzione terrena e pratica di unico e supremo garante della
sicurezza e della pace. La strada è tracciata per una concezione impersonale dello Stato in
quanto persona giuridica che trova la sua giustificazione nell'ordinamento legale di cui con i
suoi apparati istituzionali è l'unica espressione legittima. E a quella legittimità di natura divina
e storico-dinastica (vedi le leggi fondamentali del regno che nel sistema di Bodin limitavano e
condizionavano la sovranità), che era l'origine del potere dei monarchi assoluti, si sostituisce
una legittimità che è prevalentemente legale. L'autorità dello Stato non è più coattiva in quanto
espressione di un principio esterno e superiore allo Stato stesso, ma è semplicemente la legge
dello Stato e in quanto tale va obbedita. Nello Stato è implicita la giuridificazione dei poteri:
lo Stato è a sua volta vincolato all'ordinamento legale a cui deve la sua esistenza e i suoi poteri;
tendenzialmente, si configura quindi come Stato di diritto.
Alla cosiddetta concezione discendente del potere che fa necessariamente risalire ogni autorità
a un'investitura divina e comunque esterna allo spazio della politica e che è tipica
dell'assolutismo, si contrappone la concezione ascendente (già operante in Hobbes) che
individua nel popolo il soggetto originario della costituzione dello Stato, la cui esistenza e
legalità sono vincolate alla rappresentanza dei diritti e interessi del popolo stesso. Si profila
così dall'interno dello Stato una evoluzione in senso costituzionale: lo Stato assoluto delle
monarchie d'antico regime rigenera e ripoliticizza dal suo interno quelle forze sociali che aveva
neutralizzato con il suo monopolio del potere. Se la funzione del Leviatano era quella di
riassumere e assommare in sé i valori e le esigenze di tutti gli individui (individualismo) che
con la loro rinuncia e delega totale ne avevano creato il potere assoluto, se cioè la società si era
completamente annullata nello Stato, in seguito un'economia di mercato in espansione e nuove
forze sociali spingono per una revisione del patto tacito o implicito su cui si regge il potere
dello Stato. Con la Rivoluzione francese del 1789, quella concezione dello Stato in quanto
Stato di diritto, che come potenzialità era inscritta nella costituzione pattizia del Leviatano, si
affaccia sulla scena della storia nella forma dello Stato-nazione e poi dello Stato sociale. Essa
vive ancora oggi, in un contesto completamente mutato e in rapida trasformazione,
caratterizzato, nel processo di globalizzazione in corso, da una crisi dell'entità Stato di cui
attualmente è difficile prevedere gli sviluppi.

Brano di M. Terni in C. Galli, R. Esposito (a cura di), Enciclopedia del pensiero politico,
Laterza, Roma-Bari 2000

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HEGEL (1770-1831)
Hegel, Georg Wilhelm Friedrich. Filosofo tedesco. I suoi interessi politici furono precoci e
costanti. Dopo i primi entusiasmi per la Rivoluzione francese, affronta a Francoforte e poi a
Jena i temi della crisi tedesca, resa acuta dalle sconfitte subite ad opera dei francesi. Nella
Costituzione della Germania (1799-1802), muovendo dalla constatazione che la Germania
«non è più uno Stato», Hegel enuclea i fattori determinanti della statualità moderna,

170
rifacendosi a Machiavelli: l'unità politico-territoriale, l'universalismo concreto del diritto
pubblico contro il particolarismo dei privilegi, il monismo e l'assolutezza del potere (che
presuppone un'adeguata forza militare). Accanto a ciò, nel Sistema dell'eticità (1803) tiene
ferma l’immagine di un intero politico compatto, in grado di suscitare immediatamente
adesione nella coscienza dei cittadini, sul modello della polis greca («bella eticità»). Hegel
imposta anche, nell'articolo sul Diritto naturale (1802), la sua critica del giusnaturalismo
liberale. Lo stato di natura non è una condizione giuridica ma, hobbesianamente, di forza e
violenza: da esso non si può che uscire. Gli individui non sono titolari di diritti soggettivi
originari, prepolitici, che fondino e limitino il potere. In questa fase giovanile, Hegel affronta
il fondamentale rapporto tra libertà e destino, concetto indissolubilmente legato a ciò che è
'politico'. La libertà è essa stessa destino degli uomini, e questo rimanda a una dimensione
collettiva totalizzante, che consuma gli individui, superandoli. Nella Fenomenologa dello
Spirito (1807), Hegel tematizza la lotta tra le autocoscienze quale matrice della storia e
premessa della civilizzazione. Dal conflitto emergono la figura del servo, che è tale perché ha
tremato di fronte a un'altra autocoscienza, temendo la morte, e quella del signore, che può
permettersi di godere della natura, utilizzando il servo come strumento. Ma questi, attraverso
il lavoro, elaborando la natura esterna e la sua propria, si autonomizza e diviene soggetto
attivo della storia.
Sulla scia degli abbozzi jenesi del 1805/1806 e soprattutto dei corsi tenuti a Heidelberg, Hegel
pubblica nel 1821 a Berlino la sua opera politica fondamentale, i Lineamenti di filosofia del
diritto. La scienza filosofica del diritto ha per oggetto l'idea del diritto, cioè il suo concetto e
la sua realizzazione. Tale comprensione speculativa non si fissa su accidentalità esteriori e
opinioni del senso comune. La celebre formula della Prefazione ai Lineamenti, «ciò che è
razionale è reale, e ciò che è reale è razionale», indica da una parte la 'presenza' permanente
e stabile del 'razionale', dall'altra la natura irriducibilmente processuale della ragione. Essa è
tanto un fondamento ultimo, quanto un'assenza la quale spinge alla lotta per la sua
realizzazione. La Filosofia del diritto si situa, nel sistema, al livello dello spirito oggettivo,
quindi dopo l'organizzazione della coscienza soggettiva, e prima delle tre dimensioni assolute
dello spirito (arte, religione, filosofia). Il punto di partenza e luogo peculiare del diritto è la
volontà libera. Il diritto è mezzo e contenitore del processo di ispessimento della volontà, che
la conduce da una forma astratta e vuota alla sua strutturazione istituzionale.
La forza dello Stato moderno si radica proprio nella fonte della sua potenziale fragilità:
l'affermazione del principio della libertà soggettiva. Infatti, riesce a ricondurre a se stesso
l'autonomia individuale, pur riconoscendola pienamente (§ 260). I cittadini devono vivere una
vita anche universale e non da mere persone private, ma allo stesso tempo godono delle libertà
civili, perseguendo il loro interesse purché non metta a repentaglio quello dell 'intero.
Nonostante l'aspra critica al costituzionalismo — lo Stato è originario rispetto al cittadino —
la fiducia hegeliana nella conciliabilità di libertà soggettiva e oggettiva non è mai stata così
netta come nei Lineamenti. A lungo egli aveva dubitato della praticabilità di un'eticità
moderna. La quale implica sì un 'mondo' oggettivo di 'costumi' e 'istituzioni', ma mediato dalla
consapevolezza del soggetto.
La soluzione della Filosofia del diritto rivela un alleggerimento della nozione giovanile di
'etico', che perde in parte la sua assolutezza e i tratti quasi religiosi, arcaicizzanti che aveva
mantenuto fino ai primi anni di Jena. Hegel tenta di connettere un 'articolazione ascendente

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delle manifestazioni della libertà soggettiva con l'originarietà dello Stato politico. Uno dei
passaggi fondamentali di tale strategia è la nozione di 'società civile' (Bürgerliche
Gesellschaft), posta dopo la famiglia e distinta dallo Stato. La sua struttura è duplice. Si
compone del 'sistema dei bisogni', costruito sul paradigma dell'economia politica, in cui si
determina una 'dipendenza onnilaterale' dall'intreccio di attività legate alla produzione e al
soddisfacimento dei bisogni. Nell'industria il lavoro diviene sempre più astratto e diviso,
mentre cresce l'accumulazione e la concentrazione della ricchezza. Il risultato è
l'impoverimento di parte della popolazione lavoratrice, ridotta a 'plebe', le cui condizioni di
vita rendono impossibile il godimento dei «vantaggi spirituali della società civile» (§ 243).
Tale effetto non è ovviabile attraverso l'assistenza pubblica, scollegata dall'attività produttiva,
ma neppure con una accelerazione di quest'ultima, che genererebbe sovrapproduzione (§ 245).
Anche da tali paragrafi prenderà le mosse la critica marxista dell'economia politica. L'altro
versante della società civile è quello giuridico-istituzionale, legato alla tradizione del Diritto
territoriale Prussiano (frutto della stagione 'illuministica' federiciana) e alle riforme
modernizzatrici di Stein e Hardenberg. Nei ceti e nelle corporazioni (cui si deve accedere
liberamente) gli individui trovano il riflesso dell'etico, poiché vi si genera una forma di spirito
comunitario: interessi privati e sentimenti dell'onore e del dovere legati al ruolo si fondono.
Le istituzioni dello «Stato esterno», cioè dello Stato che opera sul terreno della società civile
per far fronte alle necessità che essa pone, assicurando l'applicazione della legge penale e la
cura dell'utilità comune, preparano il passaggio allo Stato politico, la cui logica ultima è però
autonoma, in sé fondata e autofinalistica.
Lo Stato realizza la dimensione politica dell'eticità. L'idea della libertà si fa bene concreto
politicamente nell'unione pubblica di diritto e dovere. Lo Stato non può essere confuso con la
società civile, perché non si riduce alla somma degli interessi dei singoli. Non può essere
derivato contrattualisticamente, perché non è costruibile a partire dall'arbitrio individuale. La
sua origine storica non interessa la considerazione filosofica, la quale tiene fermo il «concetto
pensato» (§ 258). La volontà generale è, per Hegel, il 'razionale' che è valido di per sé, e non
ha nulla a che vedere con la volontà 'comune'. Con la Rivoluzione francese, si è assistito
all'«immane spettacolo» di un nuovo inizio, contro i retaggi del particolarismo feudale. Tale
affermazione della ragione quale fonte di legittimità del diritto ha rappresentato una
«splendida aurora». Ma, come già sostenuto nella Fenomenologia, la pretesa di rifare «del
tutto da capo la costituzione di un grande Stato reale», subordinandola al consenso espresso
di ognuno, si è rivelata astratta, devastante. Solo il Terrore di Robespierre, monopolizzando
il potere attraverso la paura, ha ristabilito un ordine concreto, risultandone alla fine vittima.
Per Hegel la Costituzione (Verfassung) non può essere creata artificialmente: essa è il risultato
del processo storico, dal quale si distilla una razionalità istituzionale. Il moderno
«perfezionamento dello Stato a monarchia costituzionale», «argomento della storia universale
del mondo», supera l'antica partizione in monarchia, aristocrazia, democrazia (§ 273). Tali
forme, basate sul mero dato quantitativo, sono «abbassate a momenti» dell'organizzazione
statuale; la quale si articola in tre poteri differenziati, ma non opposti. Essi hanno la loro radice
ultima nell'unità statuale. La neutralizzazione moderna dei particolarismi è il tratto distintivo
della 'sovranità dello Stato'. Essa implica necessariamente il «potere del principe», che è sì
'uno' dei poteri, ma costituisce anche il vertice concreto dello Stato, il luogo della 'decisione
ultima', indisponibile. L'esecuzione della volontà statuale spetta al potere di governo: esso

172
riconduce quotidianamente gli interessi particolari a quello generale. L'applicazione della
legge e la cura amministrativa degli affari pubblici implicano un ceto di funzionari selezionati
sulla base del merito e dotati di «senso dello Stato». Nel potere legislativo sono attivi
innanzitutto gli altri due poteri; vi è poi l'elemento rappresentativo dei ceti (Stände), organo
mediatore tra governo e popolo grazie al quale l'opinione pubblica viene messa a parte delle
questioni politiche. L'individualità dello Stato trova nella «sovranità all'esterno» (incarnata
dal potere del principe) la sua manifestazione più diretta. Dal rapporto tra Stati indipendenti,
che si riconoscono l'un l'altro, sorge il diritto statuale esterno, pattizio. Il diritto delle genti
stabilisce che i trattati debbono essere rispettati; ma poiché essi dipendono da più sovrani, i
quali si trovano reciprocamente nello stato di natura, la vigenza del diritto interstatale è
rimessa alla loro libera determinazione. In caso di controversie non componibili, soltanto la
guerra può deciderle. Il diritto politico più alto viene amministrato dal tribunale della storia
del mondo, che è storia dello spirito, nelle sue fasi orientale, classica, cristiano-borghese.
Dopo la morte di Hegel, la sua sintesi speculativa si scisse in due filoni: la destra — Conradi,
Gabler, Erdmann —, che vi vedeva una fondazione dei dogmi essenziali del cristianesimo e
la difesa del principio monarchico, e la sinistra — Bauer, Ruge, Strauss, Feuerbach —, che
attaccava la religione e traeva dal metodo dialettico una critica politica radicale, da cui mosse
anche Marx. Il Novecento ha visto il conflitto tra una lettura liberale (fondata sul concetto di
'libertà moderna') e una marxista (centrata sul 'sistema dei bisogni' e sulla dialettica). Contro
lo stereotipo di un organicismo hegeliano tradizionalista e autoritario, addirittura precursore
del totalitarismo, la critica più avvertita ha inteso Hegel quale 'filosofo dello Stato moderno',
della sua razionalità istituzionale e delle sue contraddizioni. Ilting si è spinto a parlare di un
Hegel 'liberale' tout court, valorizzando le lezioni sulla Filosofia del diritto a scapito dei
Lineamenti, che sarebbero inficiati dal timore della censura.

Brano di G. Preterossi, in C. Galli, R. Esposito (a cura di), Enciclopedia del pensiero


politico, Laterza, Roma-Bari 2000

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SCHMITT
Schmitt, Carl (1888-1985). Giurista e teorico della politica tedesco. Insegnò diritto pubblico a
Greifswald, Bonn, Colonia, Berlino. Per la sua collaborazione con il nazionalsocialismo subì
una carcerazione e fu dimesso dall'insegnamento.
Obiettivi polemici di Schmitt, nella teoria giuridica, sono il giuspositivismo e il normativismo;
nella teoria politica, l’individualismo, il parlamentarismo, lo Stato liberale di diritto e la
giuridificazione e la neutralizzazione moderne della politica. Gli autori che più hanno
influenzato Schmitt sono — oltre che Hegel e Marx, privati dei loro aspetti dialettici —
Hobbes, Kierkegaard, Donoso Cortés, Sorel. Sono notevoli i punti di contatto con Weber,
Jünger, Strauss e Benjamin; costante è la polemica fra Schmitt e Kelsen.
Gli studiosi sono divisi su alcune questioni: se Schmitt sia un autore cattolico reazionario o
invece un esponente, di fatto, del nichilismo, di quel 'pensiero della crisi' a cui pure egli si
contrappone; se Schmitt abbia difeso o minato le fondamenta della repubblica di Weimar; se
la compromissione di Schmitt col nazismo sia determinata dalle caratteristiche del suo pensiero

173
o se invece la si debba ascrivere a personale opportunismo; se il pensiero di Schmitt sia tutto
legato al suo tempo o se contenga l'indicazione di regolarità politiche ancora attuali.
La critica dell'individualismo liberale è realizzata indirettamente in Romanticismo politico
come critica della 'discussione' e direttamente nel saggio sul Parlamentarismo del 1923, dove
alla pubblica opinione e al parlamento si oppongono il mito politico e la democrazia, che
Schmitt separa nettamente dal liberalismo. Schmitt individua nella dittatura sovrana (distinta
da quella 'commissaria') il filo rosso che dal giacobinismo giunge al leninismo. A fianco della
dittatura, in Teologia politica Schmitt coglie nella sovranità, definita come «decisione sul caso
d'eccezione», un'altra delle teorie politiche alternative a quelle borghesi: il sovrano non è il
garante supremo dell'ordinamento ma è colui che con la propria decisione lo crea a partire
dall'assenza di norme, dall'eccezione. Le esperienze politiche estreme, eccezionali, sono più
significative della normalità e della razionalità; il concreto è più vero dell'universale.
Anche la rappresentanza politica è criticata in Cattolicesimo romano e forma Politica, in cui
sul modello della Chiesa cattolica si definisce la rappresentanza non come parziale
trasferimento di poteri dai singoli alle istituzioni parlamentari, ma come costruzione dell'ordine
politico grazie a un rapporto con un'idea o un valore. In età moderna, questi sono «assenti», e
sono «resi presenti» dalla decisione sovrana, che è quindi decisione per la concreta
rappresentazione ordinativa di un'idea. Questa apertura alla trascendenza assente fa sì che i
principali concetti politici della modernità siano concetti teologici secolarizzati (Teologia
politica).
L'origine della politica sta dunque sia nella eccezione concreta sia nella decisione che a partire
di lì instaura un ordine; questa origine è definita da Schmitt anche il 'politico', cioè il rapporto
amico/nemico, ovvero la massima intensità dell'associazione e della dissociazione (Il concetto
di «politico»). Il 'politico' non è un ambito ben delimitato, ma è una polemicità, e al contempo
una spinta all'aggregazione, che si può presentare in ogni settore della vita associata: il politico
non può essere del tutto neutralizzato nello Stato e nella sua legge universale e astratta, ma
resta all'interno dell'ordine come potenziale 'eccezione' che sfida la sua pretesa stabilità, il suo
formalismo giuridico. Il diritto pubblico, quindi, per essere efficace, deve riconoscere la propria
concreta radice politica, ineliminabile e mai pienamente formalizzabile. Proprio l'eccesso di
formalismo rende lo Stato incapace di fronteggiare i conflitti politici che emergono dalla
società e che segnano la fine del progetto del pensiero politico moderno — nato con Hobbes
— di neutralizzare pienamente il disordine (le guerre civili di religione) nello Stato e nella
legge, prodotta prima dalla razionalità del sovrano (assolutismo), poi dalla discussione dei
cittadini (liberalismo), infine dagli automatismi della tecnica.
Alla struttura liberale e neutrale delle costituzioni moderne viene contrapposto in Dottrina
della Costituzione il potere costituente del popolo che crea la propria forma politica con una
«decisione fondamentale» (in ciò consiste per Schmitt la democrazia) la cui originaria
polemicità permane, come fonte della legittimità, all'interno della Costituzione a renderla
concreta Verfassung e non solo formale Konstitution: allo Stato neutrale di diritto si
contrappone Io Stato nato da una decisione e capace di individuare il proprio nemico interno.
Nella crisi finale di Weimar Schmitt propone, di conseguenza, che il presidente della repubblica
sia, secondo l'art. 48 Cost., il «custode della costituzione», che governi, forte della propria
elezione popolare, con una decretazione d'urgenza extra-parlamentare, capace di salvare —

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contro il nazismo e il comunismo — la legittimità originaria della costituzione anche al di là
della legalità formale, e di dar vita a uno «Stato totale per energia».
Alla vittoria del nazismo Schmitt vi aderisce — per qualche anno in posizioni di rilievo —
abbandonando il decisionismo per una politica che vede la società organizzata in corpi e in
«ordini concreti», mentre il partito (nazista) le fornisce dinamismo politico e lo Stato garantisce
la cornice burocratica. Passato dopo il 1938 a studi internazionalistici, Schmitt considera la
geopolitica mondiale organizzata non più in una pluralità di Stati sovrani né nelle forme
dell'universalismo giuridico della Società delle Nazioni, ma in «grandi spazi» imperiali.
Nel dopoguerra Schmitt elabora una teoria del nomos come 'diritto orientato'. Nessun ordine
spaziale è 'neutro', ma tutti sono originati e internamente percorsi dalla violenza
dell'appropriazione, della divisione e della produzione. L'ordine internazionale moderno si
fondava sulla differenza di rango fra Europa statualizzata e resto del pianeta, e sull'equilibrio
fra terra e mare (fra continente e Inghilterra). L'indifferenziata unità del mondo prodotta dal
liberalismo, dal capitalismo e dalla tecnica, non più tenuta a freno da alcun principio di forma
concreta né da alcuna apertura alla trascendenza, pone l'esigenza di un «nuovo nomos della
Terra».

Brano di C. Galli, in C. Galli, R. Esposito (a cura di), Enciclopedia del pensiero politico,
Laterza, Roma-Bari 2000.
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MARX (1818-1883)
Filosofo ed economista tedesco. La riflessione politica di Marx è contenuta non solo nelle sue
opere maggiori, ma anche negli scritti sulla storia politica della Francia, tra cui Il 18 brumaio
di Luigi Bonaparte, e in numerosi interventi occasionali sulle vicende politiche contemporanee.
È opportuno distinguere tra la sua produzione giovanile e quella matura. Gli scritti
(prevalentemente postumi) del giovane Marx costituiscono un confronto serrato con Hegel,
considerato la massima espressione del pensiero politico del primo Ottocento, e con esponenti
della sinistra hegeliana, tra cui M. Stirner e B. Bauer. In essi si possono individuare due
epicentri tematici: a) il rapporto tra società civile e Stato; b) il concetto di cittadinanza. Quanto
al primo nesso, in Per la critica della filosofia hegeliana del diritto Pubblico (1843) l'approccio
di Marx è impegnato a seguire polemicamente il discorso hegeliano sin nelle pieghe della
strutturazione del potere legislativo e della teoria della rappresentanza. L'immagine che Marx
ha della società civile concentra in essa i rapporti sociali e materiali ed espelle quei corpi
intermedi, politico-amministrativi, che essa ancora conteneva per Hegel. Entro la bipolarità
Stato/società civile, lo Stato politico mostra la propria separatezza rispetto alla società civile.
Esso, in quanto ha esistenza separata dalla società civile, è il frutto di una rappresentazione
«teologica». Dal confronto con Hegel, e in particolare con la sua Fenomenologia dello spirito,
nasce anche la teoria marxiana dell'alienazione nei Manoscritti economico-filosofici del 1844,
nel duplice senso di alienazione dell'operaio dal prodotto di lavoro e di alienazione dell'uomo
da se stesso.
Tutto ciò non impedisce al giovane Marx di avanzare rivendicazioni generalmente
democratiche e di schierarsi a favore del suffragio universale attivo e passivo. Al tempo stesso,
la riforma elettorale appare a Marx, in quella che è stata definita la sua fase di democratismo

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puro (C. Luporini), come istanza di scioglimento tanto della società civile quanto dello Stato
politico astratto, cioè come dissoluzione della loro separazione. L'astrazione politica è a
fondamento anche della distinzione tra bourgeois e citoyen quale si presenta in Sulla questione
ebraica (1843), cioè della differenza tra il livello materiale della condizione sociale e il livello
giuridico-formale della cittadinanza, il cui mistificante egualitarismo ha una funzione di
occultamento dei rapporti sociali reali. La questione ebraica è significativa, come si ricava
anche da La sacra famiglia (1844, scritto in collaborazione con F. Engels), perché dimostra
che l'emancipazione religiosa, l'emancipazione politica e l'emancipazione umana non
coincidono. Solo quest'ultima sarebbe in grado di risolvere anche la questione religiosa.
L'emancipazione politica, da sola, non indica una trasformazione reale ed è compatibile con la
scomposizione dell'uomo nel cittadino non religioso e nell'uomo privato religioso, cioè con la
trasformazione della religione in un affare privato.
Nella ricorrente polemica con P.-J. Proudhon (nella Miseria della filosofia, 184647, ma anche
nei Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, 1857-58) e con alcune
correnti del socialismo europeo, come pure nella sua attività politica militante, Marx espresse
una radicale avversione a progetti di riforma sociale fondati sull'ideale della giustizia. Tale
finalità evocava al massimo interventi sull'assetto della distribuzione della ricchezza sociale,
mentre a fondamento della rivoluzione proletaria poteva essere solo una trasformazione dei
rapporti di produzione: a questi ultimi, infatti, spetta una posizione dominante rispetto alla
circolazione, alla distribuzione e al consumo. Rivendicazioni improntate alla parola d'ordine
della giustizia erano perciò condannate a produrre programmi politici apparentemente
riformistici, ma in realtà illusori, perché incapaci di rimuovere la causa storica della diseguale
distribuzione della ricchezza: da un lato la produzione è socializzata, dall'altro l'appropriazione
del prodotto di lavoro è privata. Negli scritti sulla Francia e in altri brevi interventi politici il
pensiero politico di Marx viene tuttavia maggiormente articolandosi: egli percepisce la positiva
rilevanza delle libertà civili per la lotta del proletariato e la gravità dell'annullamento o del
ridimensionamento a cui soggiacciono, nelle fasi autoritarie o dittatoriali del potere
capitalistico, alcune conquiste democratico-borghesi (suffragio elettorale universale). La sfera
del diritto, pur non essendo irrilevante, può esprimere i mutevoli rapporti di forza tra le classi
o tra le fazioni della classe dominante, ma non può diventare punto di leva della trasformazione
rivoluzionaria dell'esistente. Irremovibile fu inoltre l'avversione di Marx a ogni forma
reazionaria o nostalgica di socialismo, cioè a ogni programma politico che propugnasse il
ripristino di condizioni sociali precapitalistiche e che non prendesse atto della funzione
civilizzatrice della borghesia.
Il pensiero politico del Marx maturo, caratterizzato dalla critica dell'economia politica, è
dominato dalla critica del falso universalismo giuridico-formale delle relazioni di mercato e
dalla sostituzione del concetto di rapporti di produzione a quello, molto presente
nell'elaborazione giovanile, di società civile. Mentre lo scambio tra forza-lavoro e capitale
avviene sulla falsariga dell'eguaglianza formale dei soggetti contraenti dando luogo all'«Eden
dei diritti innati dell'uomo», come scrive Marx nel primo libro di Il capitale (1867, 18732) in
polemica con J. Bentham, i rapporti capitalistici di produzione danno luogo allo sfruttamento
della forza-lavoro e all'estorsione di 'plusvalore'. Tali concetti non hanno alcuna connotazione
etica: essi esprimono la contraddizione storica tra il carattere sociale della produzione e il
carattere privato dell'appropriazione. Da un lato la libertà della forza-lavoro è un presupposto

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essenziale del modo capitalistico di produzione, dall'altro il processo di produzione segue leggi
proprie che vincolano la forza-lavoro alla potenza del capitale in quanto rapporto sociale e
rendono inevitabile lo sfruttamento. La controversa affermazione di Marx (nella Prefazione del
1859 a Per la critica dell'economia politica) sull'esistenza di una «sovrastruttura» giuridico-
politica destinata a trasformarsi, o a dissolversi, in corrispondenza con il mutamento della
corrispondente struttura sociale, tradisce forse il persistere, in Marx, di elementi meccanicistici.
Più rilevante è tuttavia l'attenzione prestata da Marx ai vari interventi dello Stato
nell'allungamento o nella riduzione della giornata lavorativa, nella determinazione dei salari
ecc.: vengono esaminate tra l'altro le misure introdotte dalla legislazione inglese sulle fabbriche
(1833-64), che migliorano le condizioni di lavoro. Al pomposo catalogo dei «diritti inalienabili
dell'uomo» — osserva polemicamente Marx — subentra la modesta Magna Charta di una
giornata lavorativa limitata dalla legge. Negli scritti e nei pronunciamenti (anche epistolari)
sulla Comune di Parigi e sulla «guerra civile in Francia», Marx, pur non attribuendo effetti
miracolosi all'allargamento del suffragio elettorale, mostra di apprezzare le innovazioni
istituzionali e amministrative — dalle nuove forme di rappresentanza politica all'egalitarismo
salariale e retributivo — introdotte dai rivoluzionari francesi. Non meno significativo è,
secondo Marx, il riconoscimento che la classe operaia può incontrare negli strati sociali
dell'artigianato, del piccolo commercio ecc., come pure il contributo concreto che essa può dare
all'emancipazione delle masse contadine da forme arcaiche di assentimento sociale.
Nella Critica del Programma di Gotha (1875, ma pubblicata da Engels nel 1891) viene
prefigurata una fase di transizione alla società comunista nella quale si utilizzano ancora criteri
di giusta distribuzione della ricchezza e nella quale lo Stato non può essere altro che la dittatura
rivoluzionaria del proletariato. Gli estensori del programma vengono accusati di considerare lo
Stato come un'essenza indipendente, invece di assumere la società esistente come suo
fondamento. Viene così ribadita l'impossibilità di una trasformazione politica che non sia
preceduta e fondata dal rovesciamento dei rapporti sociali di classe.

Brani tratti da C. Galli, in C. Galli, R. Esposito (a cura di), Enciclopedia del pensiero
politico, Laterza, Roma-Bari 2000.

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Karl Marx nacque a Treviri in Renania (allora sotto il dominio prussiano) il 5 maggio 1818 da
una famiglia di ebrei convertiti al protestantesimo. Il padre Hirshel era un brillante avvocato e
consigliere di giustizia, che nutriva simpatie per la cultura illuministica e liberale. Nell'ottobre
del 1835 Marx si recò all'università di Bonn per studiare giurisprudenza, ma dopo un anno si
trasferì a Berlino. Erano gli anni delle polemiche tra destra e sinistra hegeliana e Marx si era
avvicinato agli hegeliani di sinistra. Fra il 1839 e il 1841 preparò la sua tesi di laurea sulla
Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro, che inviò all'università
di Jena, dove nell'agosto del 1841 ottenne la laurea in filosofia. Marx avrebbe voluto dedicarsi
alla carriera accademica, ma il clima assolutistico, giunto al culmine con l'avvento di Federico
Guglielmo IV al trono di Prussia, gli rese impossibile intraprendere questa professione: il suo
principale referente nell'ambiente accademico, l'amico Bruno Bauer, fu esonerato
dall'insegnamento. Marx scelse allora la strada del giornalismo politico: dal 1842 scrisse per la

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«Rheinische Zeitung» («Gazzetta renana»), pubblicata a Colonia, cui collaboravano anche
Bauer e Max Stirner.
Nel marzo del 1843, stanco delle pressioni della censura prussiana, Marx lasciò la redazione
del giornale, poco prima che venisse soppresso dal governo. Nel giugno dello stesso anno sposò
Jenny von Westphalen, con cui era fidanzato dal 1836. A fine ottobre Marx si recò con la
moglie a Parigi, dove fondò la rivista «Deutsch-franzôsische Jahrbücher» («Annali franco-
tedeschi»), di cui uscì un solo numero nel 1844. Qui Marx pubblicò due importanti articoli,
l'Introduzione alla Critica alla filosofia hegeliana del diritto pubblico e Sulla questione
ebraica, dove sostenne l'insufficienza dell'emancipazione politica per l'emancipazione umana.
Nella stessa rivista uscì l'Abbozzo di una critica dell'economia politica di Engels: questo scritto
destò l'interesse di Marx, che nel 1844 intraprese un'intensa lettura degli scritti degli
economisti. Il frutto di tale ricerca furono i cosiddetti Manoscritti economico-filosofici del
1844, pubblicati per la prima volta soltanto nel 1932, che segnarono il passaggio al comunismo:
qui Marx cominciò quella critica dell'economia politica che trovò il suo compimento vent'anni
dopo nel Capitale.
Nel 1932 comparve a Mosca l'edizione di tre manoscritti di Marx con il titolo Manoscritti
economico-filosofici del 1844: in essi è contenuto l'abbozzo di un'opera più ampia, progettata
da Marx, che avrebbe dovuto comprendere anche la critica del diritto, della morale, della
politica e concludersi con un altro scritto, nel quale sarebbe stata stabilita la connessione tra
questi domini particolari e svolta una critica globale di essi. Nella parte effettivamente
composta, Marx indaga le relazioni dell'economia con lo Stato, il diritto, la vita civile. Il primo
manoscritto affronta le questioni del salario, del profitto del capitale, della rendita fondiaria e
si conclude con l'analisi del lavoro alienato. A differenza degli economisti classici, Marx non
intende descrivere una realtà economica fuori del tempo né assume la proprietà privata come
un fatto ovvio, ma cerca di spiegarla come conseguenza del lavoro espropriato nella precisa
situazione storica della produzione capitalistica.
Espulso da Parigi dietro richiesta del governo prussiano, Marx si recò a Bruxelles, dove avviò
con Engels una feconda collaborazione sul piano sia intellettuale (tra il 1845 e il 1846 scrissero
insieme La sacra famiglia e L'ideologia tedesca) sia rivoluzionario, coordinando le attività dei
socialisti francesi, tedeschi e inglesi.
L'Ideologia tedesca, composta tra la fine del 1845 e l'autunno del 1846, è il risultato di una
riflessione comune di Marx ed Engels, anche se quest'ultimo sostiene di avere contribuito in
misura minore. Essa nacque quando — raccontò Marx alcuni anni dopo nella prefazione a Per
la critica dell'economia politica (1859) — «decidemmo di mettere in chiaro, con un lavoro
comune, il contrasto tra il nostro modo di vedere e la concezione ideologica della filosofia
tedesca; di fare i conti, in realtà, con la nostra anteriore coscienza filosofica. Il disegno venne
realizzato nella forma di una critica della filosofia posteriore a Hegel». Per difficoltà editoriali
l'opera non fu pubblicata, sicché — prosegue Marx — «abbandonammo tanto più volentieri il
manoscritto alla critica roditrice dei topi, in quanto avevamo già raggiunto il nostro scopo
principale, che era di veder chiaro in noi stessi»: l'opera sarà pubblicata solo nel 1932. In buona
parte è una critica a Bruno Bauer e a Max Stirner, ma in generale ai giovani hegeliani e imputato
il fatto di credere che la vera rivoluzione avvenga nel pensiero, in una critica puramente teorica
delle istituzioni e dei pregiudizi: questa posizione è qualificata come «ideologia» (termine che
dapprima significava indagine sulle idee, in particolare sul modo in cui esse si formano). A ciò

178
Marx ed Engels obiettano, soprattutto nella prima parte dello scritto, rimasto incompiuto, che
le idee sono condizionate, nella loro formazione, dai rapporti sociali di produzione, attraverso
i quali gli uomini si procurano i mezzi per la loro sussistenza.  E questi rapporti non sono statici
o eterni, ma si sviluppano storicamente passando attraverso fasi caratterizzate da modi diversi
di produzione e correlative forme di proprietà. Su questi presupposti si costituisce la
«concezione materialistica della storia», a cui è strettamente legata una concezione della
rivoluzione come trasformazione della realtà storica, economica e sociale, e non come
rivoluzione e critica puramente intellettuale.
Engels e Marx aderirono alla Lega dei giusti — costituita soprattutto da piccoli artigiani —
all'interno della quale cominciavano a prevalere le tesi del socialismo scientifico. Nel congresso
della Lega tenuto a Londra nel giugno del 1847 si decise di cambiare il nome in Lega dei
comunisti; l'obiettivo dichiarato era di abbattere il dominio della borghesia per fondare una
nuova società senza classi e senza proprietà privata. Al motto precedente: «Tutti gli uomini
sono fratelli» venne sostituito il nuovo: «Proletari di tutto il mondo, unitevi!». Nel 1847 Marx
scrisse in francese la Miseria della filosofia, in polemica con la Filosofia della miseria di
Proudhon e tenne una serie di conferenze presso l'Associazione degli operai tedeschi di
Bruxelles, pubblicate nel 1849 col titolo Lavoro salariato e capitale. Alla fine del 1847 Marx
ed Engels furono incaricati di redigere il programma della Lega dei comunisti: nacque così il
Manifesto del Partito Comunista, pubblicato a Londra (in tedesco) nel febbraio 1848. [...] Esso
ha come destinatari in primo luogo i proletari, ai quali sono indicate le linee di un'azione
unitaria di lotta. Non si tratta però di un progetto utopistico, in cui il comunismo sia presentato
in termini puramente morali come ideale di giustizia e di uguaglianza. Il comunismo è anzi
descritto come l'esito di un processo storico che ha il suo asse portante nell'affermazione della
borghesia contro il vecchio mondo feudale e nell'instaurazione del modo capitalistico della
produzione industriale, che porta alla formazione di una sempre più ampia classe operaia e alla
conseguente lotta di classe. Ciò significa che proprio dalla vittoria della borghesia nascono le
condizioni per un nuovo passo in avanti nella storia del mondo, Ossia la costituzione della
classe destinata ad abbattere la borghesia stessa, per eliminare tutte le classi e dar luogo alla
società comunistica: una società contrassegnata proprio dalla scomparsa dei conflitti tra le
classi che sinora hanno dominato la storia.
Nel marzo dello stesso anno la rivoluzione dilagante in Europa raggiunse anche Colonia, ove
si trasferirono Marx ed Engels. In questa città fondarono il quotidiano «Neue Rheinische
Zeitung» («Nuova gazzetta renana»), diretto da Marx dal 1 giugno 1848 al 19 maggio 1849. ln
seguito alla vittoria della controrivoluzione, Marx fu costretto a riparare a Parigi, ma ulteriori
problemi con il governo francese lo spinsero a trasferirsi a Londra, dove 10 raggiunse la
famiglia. Dal 1851 al 1862 Marx collaborò al «New York Daily Tribune», commentando
soprattutto avvenimenti di politica internazionale. Marx riprese lo studio dell'economia e
lavorò intensamente a raccogliere dati alla biblioteca del British Museum di Londra,
riempiendo innumerevoli quaderni di estratti e annotazioni, che furono pubblicati (per la prima
volta nel 1939-41 e poi nel 1953) con il titolo Lineamenti fondamentali della critica
dell'economia politica (noti anche come Grundrisse). Una prima elaborazione di questo
materiale fu pubblicata nel 1859 con il titolo Per la critica dell'economia politica, ma il
risultato più cospicuo fu Il Capitale, il cui primo libro venne pubblicato nel 1867.

179
Dopo aver analizzato il concetto di merce, distinguendo tra valore d'uso e valore di scambio, e
aver studiato la funzione del denaro nel processo di circolazione delle merci, Marx affronta la
domanda cruciale, che è al centro del primo libro del Capitale, intitolato «Il processo di
produzione del capitale»: qual è la condizione affinché il denaro si trasformi in capitale? Di per
sé il denaro non è ancora capitale, può essere capitale mercantile o capitale usuraio, ossia non
investito in attività produttive che accrescano incessantemente il denaro. La trasformazione del
denaro in capitale non ha luogo nel processo di circolazione delle merci, bensì in quello della
loro produzione. Perché il denaro si trasformi in capitale occorre che sia Possibile acquistare
sul mercato un tipo particolare di merce, capace di produrre valore e quindi di generare profitto
per il capitalista. Marx rintraccia storicamente questo tipo di merce nella forza lavoro libera. 
Nel 1864 a Londra si costituì l'Associazione internazionale degli operai, nota anche come
Prima internazionale: in essa l'influenza di Marx fu predominante. Nel 1872 il Consiglio
generale — su proposta di Engels che temeva l'influenza di Bakunin — venne trasferito a New
York. In occasione del congresso di Gotha, che approvò la costituzione di un unico partito
socialdemocratico in Germania, Marx scrisse nel 1875 la Critica al programma di Gotha,
pubblicata da Engels nel 1891. Gli anni dell'esilio londinese furono segnati da gravi ristrettezze
economiche e dalla morte di tre figli piccoli; la scomparsa della moglie Jenny nel dicembre del
1881 e della figlia maggiore Jenny Caroline nel gennaio del 1883 furono gli ultimi durissimi
colpi. Malato di bronchite cronica, in seguito a un rapido peggioramento delle sue condizioni
fisiche, Marx si spense il 14 marzo 1883.

Brani tratti da U. Curi, Marx e la rivoluzione, Roma 2011

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Nel 1848 è stato pubblicato per la prima volta un piccolo libro che, in questa edizione
originaria, contava appena ventitré pagine. In apparenza, un piccolo libro inoffensivo che,
tuttavia, come forse si sarà intuito, ha in realtà cambiato radicalmente la storia del mondo.
Pubblicato in molti milioni di copie, tradotto non solo nelle principali lingue europee, ma nelle
lingue di tutto il pianeta, è un testo che ha suscitato controversie pressoché interminabili e ha
alimentato un dibattito che ha attraversato la seconda metà dell'Ottocento e tutto il Novecento.
Insomma, un piccolo libro che ha cambiato la faccia del mondo. Si consideri che nel corso
degli ultimi centocinquant'anni, assieme alla Bibbia, questo è il testo che ha goduto della
maggiore fortuna dal punto di vista editoriale, ed è stato più volte ristampato in moltissime
edizioni e versioni. Stiamo parlando del Manifesto del Partito Comunista, un testo che la Lega
dei comunisti, in occasione del suo primo congresso, svoltosi nel 1847, commissiona a Marx e
a Engels come manifesto programmatico di questo partito sorto dalle ceneri della Lega dei
giusti. Troviamo subito un piccolo dettaglio, probabilmente non irrilevante, che è opportuno
sottolineare. Non vi era possibilità economica per questa formazione politica di procedere alla
pubblicazione del libro, e si realizzò quindi una colletta che portò alla raccolta di venticinque
sterline, mediante le quali furono acquistati dei caratteri gotici tedeschi e si stampò la prima
edizione in mille copie, diffuse nel febbraio del 1848.
Di questo testo così influente e così decisivo per la storia del mondo, un rivoluzionario, Lenin,
scrive in maniera lapidaria: «Questo piccolo libretto pesa quanto interi volumi. Il suo spirito

180
anima e muove tutto il proletariato organizzato e in lotta del mondo civile». È il giudizio di
colui che fu il protagonista principale della prima rivoluzione proletaria vittoriosa, la
Rivoluzione d'ottobre, che portò i bolscevichi al potere. Ma un giudizio sostanzialmente non
dissimile, anche se più articolato e più specifico, ci viene anche da un filosofo italiano della
seconda metà dell'Ottocento, che a proposito del Manifesto del Partito Comunista scrive: «Col
Manifesto il comunismo cessa di essere ciò che era stato in precedenza per molti secoli, vale a
dire una speranza, un'aspirazione, un ricordo, una congettura o un ripiego, e diventa piuttosto
l'esito obiettivo di movimenti reali, il compimento di una legge storica, la legge della lotta di
classe». Insomma, il Manifesto del Partito Comunista, che molto spesso è stato anche stampato
con la titolazione più sintetica Manifesto Comunista, è destinato a influire in maniera
determinante sullo sviluppo della storia politica del mondo, soprattutto nel corso del
Novecento.
Occorre però fare subito una precisazione, che ci consente già di inoltrarci in quella storia lunga
e tormentata che prende inizio con la pubblicazione del Manifesto. Come abbiamo detto, il
titolo di quest'opera porta come aggettivo «comunista». In realtà, i suoi destinatari, coloro che
fecero riferimento a essa nell'impostazione e nello sviluppo delle loro lotte, furono soprattutto
le organizzazioni dei lavoratori di ispirazione socialista, e può quindi risultare sorprendente, se
non incomprensibile, che un testo destinato ad alimentare le lotte del movimento socialista si
sia chiamato Manifesto Comunista. In realtà, possiamo spiegare questo dettaglio, che peraltro
corrisponde a una delle questioni più dibattute dal punto di vista storiografico e teorico-politico,
alla luce di ciò che scrive in una delle molte prefazioni Engels — il sodale, intimo amico di
Marx, al quale era stata appunto affidata, in collaborazione con lo stesso Marx, la stesura del
Manifesto. Queste righe servono soprattutto a far capire la fondamentale differenza che resiste
dal punto di vista storico, oltre che teorico-politico, tra il movimento di ispirazione socialista e
quel movimento che, soprattutto nel corso del Novecento, si è chiamato «comunismo». Scrive
Engels: «Quando fu pubblicato, noi non avremmo potuto chiamarlo Manifesto Socialista», e
spiega subito perché. «Nel 1847 — sottolinea Engels con la parola "socialisti" si intendevano
due tipi di persone: da una parte i seguaci dei vari sistemi utopistici, che già allora si erano
rinsecchiti in pure e semplici sette, dall'altra parte — sentite la forza e il sarcasmo
dell'espressione engelsiana — i molteplici ciarlatani sociali che volevano eliminare con le loro
varie panacee e con ogni sorta di toppe gli inconvenienti sociali senza fare il più piccolo male
né al capitale né al profitto. In entrambi i casi, gente che stava fuori dal movimento operaio e
cercava anzi appoggio fra le classi colte», Insomma, sintetizza Engels, nel 1847 «socialismo»
indicava un movimento di borghesi, «comunismo» un movimento di operai. Il socialismo,
almeno nel vecchio continente, era ammesso nella buona società, mentre il comunismo era
proprio il contrario. Questa distinzione fra socialismo e comunismo, come prima ricordavo,
attraversa e innerva la storia delle organizzazioni politiche del movimento operaio lungo il
Novecento, anche attraverso un concetto discriminante, sul quale avremo occasione tra breve
di ritornare, cioè il riferimento al concetto di rivoluzione.
Per cercare di capire un po' meglio che cosa ci fosse di tanto esplosivo in un testo così breve,
apparentemente innocuo, credo possa essere utile riferirsi proprio all'esordio, alle prime parole
di questo Manifesto, perché, come vedremo, delineano non soltanto i punti principali di un
programma politico di un partito, quello della Lega dei comunisti, ma più ancora indicano

181
alcuni elementi teorici fondamentali che resteranno decisivi anche nello sviluppo
dell'elaborazione teorica di quello che sarà poi chiamato «marxismo».
Leggiamo il celebre incipit del testo del 1848: «La storia di ogni società esistita fino a questo
momento è storia di lotte di classe. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba,
membri delle corporazioni e garzoni, in breve oppressori e oppressi, furono continuamente in
reciproco contrasto e condussero una lotta ininterrotta, ora latente, ora aperta, lotta che ogni
volta — e questo è il succo di questa enunciazione programmatica — è finita o con una
trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta».
Questo esordio sintetizza bene il contenuto del Manifesto Comunista: tutta la storia e storia di
lotta di classi; secondo Marx ed Engels a metà dell'Ottocento la lotta di classe si esprime nella
forma ormai semplificata del conflitto aperto e insanabile tra borghesia e proletariato. I punti
essenziali di questo documento sono evidenti: da un lato, c'è una interpretazione complessiva
della storia come risultato di un conflitto originario che si ripropone, sia pure attraverso forme
storicamente diverse, ma che conserva un nucleo di antagonismo tra due soggetti contendenti.
Dall'altro lato, Marx abbozza qui un'interpretazione del significato del capitalismo molto
diversa da quella che, per esempio, una interpretazione successiva del marxismo ha teso ad
accreditare. Qui infatti Marx indica nel capitalismo un soggetto storico che ha avuto la forza e
— perché non dirlo? — anche il merito di aver permesso il superamento di quella zona d'ombra
rappresentata dal medioevo e di aver posto le condizioni per ipotizzare l'avvento del
proletariato al potere e, con esso, la cancellazione delle classi sociali. In qualche misura, questo
spunto ritornerà in maniera più esplicita, più analitica, io direi scientificamente più rigorosa,
anche nelle opere della maturità di Marx, ma già qui egli indica nel capitalismo una forza
intimamente progressiva, che tuttavia coltiva al suo interno una contraddizione dirompente,
dalla quale resta segnato lo stesso destino del capitalismo.
Come si è detto, questo testo ha cambiato il corso della storia, e, per arrivare a coglierne i
lineamenti principali più da vicino, domandiamoci quali ne fossero gli autori e quale ne fosse
il profilo, cercando soprattutto di capire meglio la personalità di Karl Marx.
Scrive Engels nel testo del discorso che pronunciò in occasione del funerale dell'amico:

«Il 14 marzo del 1883, alle 2:45 pomeridiane, ha cessato di pensare la più grande mente dell'epoca nostra. [...]
Così come Darwin ha scoperto la legge dello sviluppo della natura organica, Marx ha scoperto la legge dello
sviluppo della storia umana. Per lui la scienza era una forza motrice della storia, una forza rivoluzionaria, perché
Marx era prima di tutto un rivoluzionario, la lotta era il suo elemento. Egli ha combattuto con una passione, con
una tenacia e con un successo come pochi altri hanno combattuto». E conclude Engels: «Posso aggiungere senza
timore che poteva avere molti avversari, ma nessun nemico personale. Il suo nome vivrà nei secoli, e così la sua
opera».

E questo discorso funebre è suggellato da un brevissimo testo di Marx che risale alla metà degli
anni Quaranta, ma che resta a lungo inedito: «I filosofi hanno soltanto interpretato il mondo in
modi diversi; si tratta di trasformarlo». Questa celebre glossa o nota a Feuerbach, nota come
undicesima tesi su Feuerbach, ci dà in qualche modo il quadro della figura complessiva di
Marx: non solo un teorico, non solo quindi un uomo di cultura, un filosofo proteso
all'elaborazione di sistemi astratti, ma uno studioso che coniugava sistematicamente l'attività
della ricerca, l'invenzione e l'innovazione di carattere teorico, il lavoro come militante e
dirigente rivoluzionario. [...]

182
Nel 1841 Marx consegue la laurea in filosofia. Da notare che la dissertazione di laurea
rappresenta già un primo passo nella biografia intellettuale e scientifica dell'autore. Il titolo è
Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro. È un'analisi molto
rigorosa, anche dal punto di vista filologico e tecnico, del rapporto tra questi due esponenti
dell'Orientamento atomistico. Ma ciò su cui probabilmente conviene insistere di più è la
prefazione di questa dissertazione, perché essa si conclude con l'evocazione di una figura che
ritroveremo più avanti nello sviluppo della biografia intellettuale e politica di Marx. E davvero
il Marx giovane, ventitreenne, che esordisce nella sua attività di ricerca scientifica con questo
testo:

«La confessione di Prometeo — questi è il personaggio a cui io prima ho fatto cenno — "francamente io odio tutti
gli dèi" è la confessione propria della filosofia, la sua sentenza contro tutte le divinità, celesti e terrestri, che non
riconoscono come suprema divinità l'autocoscienza umana. Nessuno può starle a fianco. Alle tristi lepri marzoline
che gioiscono dell'apparentemente peggiorata condizione civile della filosofia, essa replica quanto Prometeo
replica al servo degli dèi, Ermete: "Io ti assicuro, non cambierei la mia misera sorte non dimentichiamo che
Prometeo, per via del suo sacrilegio, viene incatenato alle rupi del Caucaso — con la tua servitù. Molto meglio lo
stare qui ligio a questa rupe piuttosto che essere fedele messaggero di Giove"».

E poi chiude con un'espressione lapidaria, sulla quale avremo modo di ritornare: «Prometeo —
questo personaggio indocile, ribelle, indisciplinato, che non accoglie la tirannide di Zeus — è
il più grande santo e martire del calendario filosofico».
Questo esordio di Marx in chiave filosofica prelude agli sviluppi della sua ricerca teorica lungo
gli anni Quaranta. Nel 1844, durante il suo soggiorno a Bruxelles, Marx redige un'opera che
avrà un'importanza decisiva nella sua biografia intellettuale. Si tratta un'opera costituita da tre
manoscritti che in una certa misura anticipano come programma di lavoro quello che Marx
effettivamente svolgerà successivamente, soprattutto a partire dagli inizi degli anni Cinquanta,
quando si trasferirà, per stabilirvisi definitivamente, a Londra. Sono numerosissimi i temi di
grande rilievo filosofico ed economico che vengono affrontati in questo testo; in particolare,
va immediatamente sottolineato che Marx formula qui, nelle sue linee essenziali, quella teoria
che poi ha goduto di larga fortuna nelle riprese novecentesche, cioè la teoria dell'alienazione.
Leggiamo, anche per cogliere il sapore di questa elaborazione marxiana giovanile, che cosa
scrive Marx nei Manoscritti del 1844 a proposito dell'alienazione:

«Tutte queste conseguenze - Marx ha appena fatto un ragionamento sulla condizione in cui viene a trovarsi il
lavoratore nel contesto del sistema capitalistico di produzione — si trovano nella determinazione che l'operaio sta
in rapporto al prodotto del suo lavoro come a un oggetto estraneo, poiché è chiaro, per questo presupposto, che
quanto più l'operaio lavora, tanto più acquista potenza il mondo estraneo, oggettivo, che egli si trova di fronte, e
tanto più povero diventa egli stesso, il suo mondo interiore, e tanto meno egli possiede».

Qui Marx mostra cioè che, poiché il prodotto del lavoro dell'operaio è un prodotto che gli viene
confiscato perché è proprietà del capitalista, quanto più l'operaio lavora, tanto più si
impoverisce, tanto più perde della sua essenza, tanto più viene alleggerito di ciò che invece ne
rappresenta la grande potenzialità. Marx istituisce qui un paragone particolarmente
significativo che ha dato origine a un filone intero di interpretazioni del concetto di alienazione.
Egli afferma che quanto accade nel processo della produzione capitalistica, e cioè quanto
accade quando l'operaio si trova di fronte come una potenza estranea a lui il prodotto del suo

183
lavoro, è la stessa cosa che accade nella religione: «Più l'uomo mette in Dio e meno serba in se
stesso». E una posizione che come sappiamo, era già stata accennata da Feuerbach, l'idea cioè
che non è Dio il creatore dell'uomo ma, al contrario, è l'uomo che crea Dio, che oggettiva in
realtà presunta entità esterna rispetto a lui quelle che in realtà sono le proprie qualità. E il
paragone che Marx qui istituisce è, per l'appunto, tra l'ambito della religione e l'ambito
dell'organizzazione economico-sociale della produzione. Ne risulta, quindi, per quanto
riguarda la condizione dell'operaio, che quest'ultimo mette nell'oggetto la sua vita, e questa non
appartiene più a lui, bensì all'oggetto. Maggiore è questa sua facoltà, e più l'operaio diventa
senza oggetto. Insomma, per dirla nei termini con i quali questa stessa tematica verrà riproposta
da Marx e poi da un lungo filone di letteratura di ispirazione marxiana, siamo in presenza di
quella condizione per la quale l'operaio, attraverso il lavoro, anziché realizzare la propria
essenza, si impoverisce sempre di più e oggettiva le sue migliori qualità in una potenza che si
erge contro di lui estranea e sostanzialmente dispotica. Questi spunti, ancora non
organicamente sviluppati, costituiranno il punto di riferimento di quell'ampio e articolato
programma scientifico che Marx comincerà ad abbozzare all'inizio degli anni Cinquanta,
quando, abbandonando Parigi e Bruxelles, le due città in cui egli ha vissuto in esilio nella
seconda metà degli anni Quaranta, si stabilisce a Londra, città nella quale resterà fino alla
morte, intervenuta nel 1883.
È arrivato ora il tempo di entrare nel merito almeno di alcune delle grandi questioni di carattere
teorico che sono al centro dell'opera marxiana. Uno dei luoghi comuni più diffusi è quello che
riguarda quella concezione filosofica nota come «materialismo storico». Abitualmente, anche
nei manuali più in voga nelle scuole secondarie e perfino in quelli di livello universitario, si
attribuisce a Marx la «dottrina» — così viene chiamata del «materialismo storico». In una
parola, si tratterebbe di una concezione generale della storia, secondo la quale i fattori dinamici
che determinano l'evoluzione storica sono i rapporti sociali di produzione, cioè sono fattori di
carattere economico. Ebbene, è opportuno sottolineare che Marx non ha mai impiegato nei suoi
scritti l'espressione «materialismo storico». L'unico appiglio che potremmo avere per una
legittimazione, per la verità molto traballante, dell'attribuzione a Marx di una concezione
materialistica della storia è un passo della prefazione al testo pubblicato nel 1859 e intitolato
Per la critica dell'economia politica. In queste pagine Marx parla della storia e della base
materialistica di questa storia, ma l'espressione tecnica «materialismo storico» viene adoperata
per la prima volta da Engels nel contesto di una interpretazione complessiva della ricerca
marxiana che egli tra il 1883, l'anno appunto della morte di Marx, e il 1895 tenta di accreditare
e sviluppare. Convinzione esplicita da parte di Engels è che sia giunto il momento di conferire
alla ricerca marxiana, che, come ho accennato, si è articolata principalmente attraverso il
programma di critica dell'economia politica, il carattere di una vera e propria concezione
filosofica generale. Egli, cioè, tende a tradurre in sistema, in dottrina, in ideologia ufficiale, un
pensiero che invece Marx non ha mai voluto compendiare in una formula riassuntiva, rispetto
alla quale, anzi, egli ha più volte ha preso le distanze. [...] Da questo punto di vista, noi
potremmo dire che la vicenda di quel movimento di pensiero che si è chiamato «marxismo»
nasce veramente e poi decolla, fino a fare del marxismo l'ideologia ufficiale del movimento
operaio organizzato, dopo la morte di Marx per iniziativa di Engels, il quale ritiene sia giunto
il momento di far prevalere, all'interno della polemica e delle controversie di carattere teorico-
politico che attraversano e dividono il movimento operaio europeo, la linea di Marx. Secondo

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Engels, l'unico modo per realizzare tutto ciò è trasformare l'analisi marxiana dei meccanismi
di funzionamento della società capitalistica in una vera e propria concezione filosofica generale
denominata «materialismo storico». [...]
Tra i molti equivoci che tuttora persistono relativamente alla figura e al contributo teorico di
Marx vi è certamente un aspetto che riguarda quello che a lungo e stato considerato il concetto
cardine della ricerca teorica marxiana, e cioè il concetto di rivoluzione. Può essere utile
ricordare che il termine «rivoluzione» entra nel lessico politico sostanzialmente tra la fine del
Seicento e i primi decenni del Settecento con una provenienza molto specifica. Esso, infatti,
non nasce in un contesto politico, ma originariamente in un contesto di carattere scientifico.
Com'è noto, De revolutionibus orbium coelestium è il titolo dell'opera di Copernico comparsa
nel 1543, Revolutio vuol dire, per l'appunto, la descrizione del movimento ricorsivo di un corpo
celeste attorno a altro corpo. Quando il termine entra nel lessico politico, all'incirca un secolo
e mezzo dopo, porta con sé questo significato, per cui la rivoluzione, anche in senso politico,
non è, come noi possiamo immaginare, un processo di abbattimento dell'ordine esistente e sua
sostituzione con un nuovo ordine economico, politico e sociale. Essa conserva questa accezione
originaria di movimento retrogrado, mediante il quale certamente si esce dalla condizione
attuale, ma per ripristinare una condizione originaria dalla quale ci siamo allontanati. Sotto un
certo profilo, la rivoluzione in senso politico ha non solo un carattere di innovazione, ma
combina l'innovazione con il ripristino di una realtà precedente, originaria, alla quale si tratta
di ritornare. Ben diverso il significato del termine che abitualmente, invece, nel lessico politico
delle organizzazioni del movimento operaio veniva molto spesso impiegato per indicare
un'iniziativa politica più debole rispetto a quella della rivoluzione, e cioè il termine «riforma».
«Riforma» e «rivoluzione» sono stati per circa un secolo e mezzo i termini di confronto di due
diverse, e per certi aspetti perfino antagoniste, linee politiche: quella rivoluzionaria, che
dovrebbe essere più radicale, e la linea della riforma, che si immagina più gradualista, meno
pronta a instaurare nuovi ordini, più disposta al compromesso. In realtà l'accezione originaria
di «riforma» ci mostra come essa sia quel processo mediante il quale conferiamo una nuova
forma, e quindi nuove modalità organizzative complessive, all'insieme delle relazioni sociali e
politiche. Come si vede, dunque, questi termini hanno significati, almeno sotto il profilo
originario, molto diversi da quelli che si è soliti attribuire a essi.
Marx non fa mai riferimento al concetto di rivoluzione, anzi è nota una frase che egli ha ripetuto
più volte e che viene riportata anche nel carteggio con Engels, secondo la quale Marx rifiutava
di fornire ricette per le osterie dell'avvenire. Più che prefigurare quale sarebbe potuto essere
l'assetto futuro delle relazioni economiche, sociali e politiche, Marx preferiva l'analisi della
società del suo tempo, al cui interno egli coglieva le linee dinamiche dalle quali, a suo giudizio,
sarebbe potuto poi derivare un movimento di trasformazione radicale di cui il proletariato
sarebbe stato protagonista.
Il risultato di questa attività di ricerca particolarmente impegnativa protrattasi per decenni è
indicato da Marx, rivolto a Engels, in due fondamentali scoperte: «La prima e più importante
scoperta che riconosco di aver compiuto è l'origine del plusvalore indipendentemente dalle sue
forme particolari». La seconda grande scoperta che secondo Marx troviamo nel Capitale è il
duplice carattere del lavoro incorporato nelle merci.
Cominciamo con la prima delle due scoperte che Marx rivendica di avere compiuto, l'origine
del plusvalore indipendentemente dalle sue forme particolari. Marx è il primo, anche rispetto

185
agli economisti classici, che mostra il fondamento oggettivo dello sfruttamento capitalistico.
Lo sfruttamento dell'operaio da parte del padrone non è l'esito di una disposizione malvagia da
parte del padrone, non è l'effetto di un comportamento discrezionale, tale per cui si possa
immaginare un padrone «buono» che si astenga dallo sfruttare l'operaio. Lo sfruttamento è un
processo oggettivo, che scaturisce dalla realtà del processo capitalistico di produzione, il quale
è insieme processo lavorativo concreto, e cioè processo che produce delle merci che hanno uno
specifico valore d'uso, ma è anche processo di valorizzazione del capitale che compare nel
processo produttivo attraverso la forma del capitale fisso. In altre parole, questo carattere dello
sfruttamento non è revocabile, è immanente al modo di produzione capitalistico, e scaturisce
dal fatto che l'operaio lavora più di quanto serva per reintegrare il valore del salario che gli
viene elargito. Da un certo punto di vista, partendo dalla equivalenza tra lavoro e valore, si può
dire che l'operaio produca un neovalore, il plusvalore appunto, che è eccedente rispetto al
valore che egli produce come corrispettivo del salario che gli viene corrisposto. Da questo
punto di vista, esiste insomma una oggettività della origine del plusvalore che toglie ogni
censura moralistica relativa alla condotta del capitalista e mostra che soltanto nel superamento
del modo capitalistico di produzione sarà consentito superare anche lo sfruttamento del
lavoratore. Finché persisteranno le condizioni capitalistiche della produzione lo sfruttamento
resterà inevitabile.
Non meno importante è la seconda scoperta. Così come la merce è qualcosa di duplice — è
valore d'uso, ha un valore di scambio — allo stesso modo il processo lavorativo che produce
la merce è anch'esso duplice: è processo lavorativo che produce la merce come valore d'uso e
quindi è processo lavorativo concreto, ma è anche processo lavorativo che produce la merce in
quanto detentrice di valore di scambio, e allora è lavoro astratto, processo lavorativo astratto,
processo di valorizzazione. Insomma, in qualche misura Marx svela l'arcano della produzione
capitalistica, la sua intrinseca e ineliminabile duplicità, la sua costitutiva ambivalenza. [...]

Brani tratti da U. Curi, Marx e la rivoluzione, Roma 2011

LETTURE E VISIONI CONSIGLIATE


Il giovane Marx (2017, regia di R. Peck)
Miss Marx (2020, regia di S. Nicchiarelli)

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ROSA LUXEMBURG (1871 - 1919)


Questione e pratica dirimente nella vita politica di Rosa Luxemburg, la democrazia dei consigli
emerge nella storia in modo ricorsivo: rottura e creazione che interviene nei momenti di crisi
dell’ordine costituito e delle sue istituzioni. [...] La democrazia consiliare presenta alcune
fisionomie caratteristiche: nelle Rivoluzioni russe e in quella tedesca – che Rosa Luxemburg
ha presenti - si presenta nella forma dei Comitati, molto diversificati sulla base delle azioni
politiche cui sono connessi – esistono comitati di sciopero, di occupazione delle terre, o di
autogestione di corpi sociali specifici (ad esempio, l’esercito). Ma soprattutto i Comitati
emergono in relazione a luoghi e profili di produzione – Comitati di operai, contadini, militari,
cui si aggiungeranno i Comitati degli scrittori, degli artisti, etc. Ma, dicevo che la democrazia

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consiliare è una figura della generatività del conflitto di tipo ricorsivo: la ritroviamo nel 287
a.C., con la Lex Hortensia che riconosce il potere legislativo dei concili della plebe; nei Comuni
medievali; nei Cantoni contadini in Svizzera; nelle comunità originarie degli Stati uniti; nella
Comune di Parigi del 1871; passando per i soviet della Rivoluzione russa e i räte della
Rivoluzione tedesca del 1918-1919, fino ai consigli di fabbrica nell’Italia della fine degli anni
Sessanta che – riprendendo Muraro - condividono caratteristiche analoghe ai gruppi di
autocoscienza .
Ricorrono dunque alcuni elementi e motivi ispiratori:
- le soggettività che si fanno e fanno la democrazia attraverso i consigli sono quelli che
Rancière (L’odio della democrazia) definirebbe “i senza parte”, chi è fuori, non rientra nel
conto delle parti, rispetto ai circuiti di scambio e distribuzione.
- la spinta sorgiva è dunque sempre della scala di un rifiuto e rottura dell’ordine
costituito: la rivoluzione né precede né è l’esito della democrazia consiliare, la accompagna.
- la partecipazione è concepita nella sua forma più materiale e consistente, si presenta
come l’insieme di pratiche che emergono dalla riappropriazione delle condizioni di vita e di
attività
- partecipazione è dunque sinonimo di autogoverno, piena riappropriazione e
reimplicazione nei processi decisionali su tali condizioni. [...]
- La politica emerge come conoscenza intensiva. È una competenza materiale, fatta di
relazioni e delle loro vicende, di consistenza del quotidiano, di conoscenza di un contesto, un
territorio, spazio costituito dalle relazioni.
- La dimensione materiale data dallo spazio condiviso, rigenerato e riconfigurato dal
conflitto, scavalca le ristrettezze del “locale”. La rottura dell’ordine costituito che si traduce
nelle pratiche della democrazia consiliare riconfigura uno spazio singolare ma sulla scala dei
paradigmi. Non autogestione, non forma virtuosa di un’alternativa, bensì autogoverno,
ridefinizione dei criteri che determinano le relazioni nella produzione e riproduzione.
- Il consiglio, spazio rigenerato dall’azione dei senza parte, è il momento in cui
individualità frammentarie, dalle provenienze e biografie più disparate, si ridispiegano nella
condivisione, in una comunanza che conserva come propria tessitura le singolarità che l’hanno
inaugurato.
- La dimensione materiale dello spazio occupato convoca insieme le attività di
produzione e riproduzione. Lo spazio è ciò entro cui accade la riconfigurazione delle condizioni
del produrre e insieme non esiste se non per quel che ne viene costantemente rigenerato nelle
relazioni, nelle attività che lo riproducono, riproducendo le relazioni che gli danno consistenza
e contorni.
Articolare la democrazia dei consigli a partire da RL permette di individuare il plesso delle
pratiche che vanno sotto questo titolo. A premessa una breve formulazione del termine
“pratica”: un’azione, un comportamento condiviso, dotato dunque di proprie regolarità interne,
capace di nominarsi collettivamente, dotato della precisione prodotta dalla competenza
materiale da cui emerge, dotato dunque di quel grado di intelligibilità, di percepibilità che si
attribuisce a un gesto del corpo e che, infine, ha una natura processuale, varia secondo le
vicissitudini delle relazioni che la costituiscono. In una pratica, azione e nominazione sono
momenti indistricabili ma non coincidenti.

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Le prime indicazioni che vengono dai testi di Luxemburg riguardano il nesso tra democrazia e
rivoluzione. Il nesso che si configura oggi potrebbe risuonare con i termini di biopolitica e di
immanenza. La spontaneità è uno dei titoli maggiori della ricezione di RL sulla questione. Nei
testi il luogo più specifico si colloca nella discussione con Lenin sulla questione dello
spontaneismo. Secondo un approccio genealogico, a partire dalle lotte del presente faccio
alcune precisazioni. Perché, come spesso accade nella storiografia, l’ordine simbolico
dominante assegna nomi e posizioni. La spontaneità non è – nel binomio oppositivo:
spontaneità-organizzazione - la tesi sostenuta da RL. Come registra Paul Frölich, suo
contemporaneo e autore di una biografia politica, il termine ricorre raramente e non viene
assunto a titolo di una posizione teorica. È piuttosto Lenin che scrive a lungo polemizzando
sulla questione della spontaneità (Che Fare, capitolo II), prima della rivoluzione del 1905,
quando ha di mira lo stato di estrema frammentazione di ispirazione anarchica dei gruppi
politici esistenti. Lenin dunque insiste sulla necessità di una unificazione attraverso il ruolo
svolto dal partito. E sarà Stalin a squalificare RL proprio attraverso l’imputazione di
spontaneismo. In RL non si dà dunque una teoria della spontaneità, ma ciò che discute con
Lenin si può mettere sotto la questione più dirimente di caratterizzare cosa si intenda per agire
politico.
Ecco alcuni elementi che emergono dai testi:
- Nasce dal realismo, inteso come capacità di osservazione
- È legato all’esperienza diretta (cfr. le Lettere agli amici e Le lettere dal carcere, ed.
tedesca). È uno spirito dell’epoca, questo: il suo compagno Leo Jogisches – come Simone Weil
anni dopo – contempla come parte integrante dell’agire politico l’esperienza diretta del lavoro
di fabbrica. Ovviamente non si tratta di un moto di interesse per gli oppressi, ma del
potenziamento dell’intelligibilità politica che viene dalla competenza materiale e dalla
condivisione non solo verbale della materia della lotta.
- È legato a necessità vitali
- Riesce a cogliere e mettere al lavoro i movimenti di vita più infinitesimali
Va ricordato che Rosa Luxemburg studia botanica, etologia, oltre alla filosofia, e non sorprende
venire a sapere che in uno dei suoi periodi di incarcerazione è lettrice di Leibniz, teorico del
vivente nelle sue scale infinitesimali (questione che Deleuze riprende in La piega). Il vivente
non solo umano in Luxemburg è dunque cifra politica, non inclinazione caratteriale alla
compassione [...]
- Altro elemento interessante, soprattutto per le analisi più recenti: l’agire politico emerge dalle
condizioni di vita così come si configurano in un dato momento storico. Storia e condizioni
vita – umane e non - non si oppongono nella considerazione di Rosa Luxemburg. Si dà qui
un’assonanza con la recente nozione di “storia naturale”, già accennata da Deleuze, ma la penso
come riaggiornata da Chakrabarty (Le climat de l’histoire). Altro rimando d’obbligo è Carla
Lonzi e la sua “storia fatta di tracce deperibili” (Sputiamo su Hegel)
- È nell’agire politico che si generano insieme intelligibilità e vivere; agire e formazione
politica; inizio e ulteriore precisazione della lotta. In altri termini, forma dell’azione,
chiarificazione e lotta sono momenti coestensivi (Problemi di organizzazione), cioè
l’organizzazione si distende come un processo che varia quanto ai suoi campi di influenza.
Nelle parole di RL: “il contenuto del vivente è determinato dal suo corso” oppure “è nel bel
mezzo della lotta che impariamo come lottare” (GW, I).

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- La pratica dell’analisi, della “chiarificazione”, sarà dunque sempre dotata dell’autorità
che deriva dalla conoscenza materiale. “Non esiste uno schema bell’e fatto depositato in un
libro, in una teoria” (Centralismo o democrazia)

Posto di rilievo nell’agire politico occupano quel che si possono chiamare pratiche discorsive,
linguistiche.
- La presa di parola è dotata di singolarità, nel senso che ha sempre la precisione di
un’interlocuzione rivolta a un contesto specifico. Non si parla ovunque nello stesso modo
(Lettere agli amici; Discorsi scelti, ed. tedesca)
- Il discorso ha capacità descrittive e immaginative. Rosa Luxemburg auspica una parola
che abbia la vividezza del registro letterario e la capacità d’orizzonte del registro storico. È
discorso che sa connettere una situazione specifica, quando non un esempio, a un intero
orizzonte storico e politico. Così rileggerei la sua “socialismo o barbarie”: tutta la strategia in
ogni singolo momento.
Nei resoconti sul lavoro che Rosa Luxemburg svolge alla scuola politica della SPD a Berlino
nel 1906 emergono degli elementi interessanti quanto alla pratica discorsiva che connette
democrazia e rivoluzione.
- È dotata di semplicità. Non per banalizzazione ma per piena comprensione concreta
della situazione
- Procede per accenni, più che per una “piatta chiarezza”. In modo che la parola già
teorizzata non saturi, ma piuttosto lavori di sponda, per potenziamenti del sapere che va
emergendo
La composizione di chi la frequenta infatti è dei più diversi: giovani “ingenui” dal punto di
vista politico ma che si sono distinti nell’azione; vecchi operai; lavoratori dei mestieri più
diversi – fabbri, falegnami, tappezzieri, minatori, funzionari, casalinghe, intellettuali; lettori di
testi di propaganda ma non di quelli scientifici. Rosa Luxemburg li costringeva a elaborare da
soli le conoscenze, limitava al minimo il materiale di testo, attingeva alle conoscenze dei
frequentanti, in modo che le connessioni fossero stabilite a partire dalle competenze possedute.
Questa pratica di discorso permette di precisare uno dei significati di “tutta la strategia in ogni
momento”, rideclinando l’annoso problema dell’organizzazione nell’agire politico. Permette
anche di affrontare il fatto che in ogni agire e situazione politica si dà un differenziale di sapere
– vedi la composizione, ad esempio, di chi frequenta la scuola di Luxemburg: casalinghe,
giovani “ingenui” militanti, vecchi operai . Nel dibattito tra RL e Lenin, e nei successivi, la
soluzione è consistita nell’elaborazione del ruolo dell’avanguardia (il “blanquismo” di Lenin).
Sulla questione da RL si possono prelevare due indicazioni:
- Il differenziale di esperienza, sapere, competenza deve giocare di sponda – farsi
laterale, anche con “lievi accenni”, interlocutorio, pienamente contestuale e dunque materiale
- per potenziare la capacità di lettura e creazione e moltiplicazione di nuovi strumenti di chi è
implicato nell’azione politica.
Questa indicazione toglie da una doppia illusione: da una parte che il potenziamento dell’agire
politico possa passare da una trasmissione unilaterale, dall’altra che esista un’orizzontalità
livellante, surrogato della democrazia
- Nel momento dell’azione politica, come l’insurrezione, questo differenziale di sapere
agisce attraverso la figura del “consigliere”. Così Rosa Luxemburg definisce la posizione del

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quadro dirigente di partito rispetto alle insurrezioni del 1905 (L’ora della rivoluzione. E poi?
Ed. tedesca). Consiglio, postura interlocutoria, per l'appunto, laterale, sponda del divenire
dell’intelligenza che si sviluppa nell’agire.
Il contrario della postura dirigistica, condannata a svolgere un ruolo conservatore quando arriva
il momento dell’insurrezione (Sciopero generale, partiti, sindacati), presenza immersa
nell’azione che da dentro gioca di rimando per il potenziamento dell’azione stessa.

La democrazia consiliare è insieme autogoverno e momento di rottura, quotidiano e conflitto.


Nella sequenza che Rosa Luxemburg istituisce tra politica, vita, partecipazione e autogoverno
su una scala democratico-rivoluzionaria, si danno una pluralità di pratiche che desumo dai testi
La rivoluzione russa (1905) e L’ora della rivoluzione. E poi?
- Studio e ricerca
- Battaglie teoriche
- Formazione
- Conflitti contro il potere istituito
- Scioperi generali e parziali, economici (conseguimento di singole misure) e politici (sui
fondamenti delle condizioni della cittadinanza)
- Sabotaggi
- Rivolte
- Blocco dei trasporti
A cui potremmo oggi aggiungere le infinite pratiche che nelle occupazioni rigenerano le
condizioni di vita, di produzione e riproduzione. Ogni pratica è insieme azione e momento di
presa di coscienza – il “sorgere passo passo della partecipazione attiva che è crescente
educazione politica (Discorso sul programma).
Una notazione. Nulla di lineare ovviamente in questo processo: la contingenza, immanenza
potremmo dire, dello sviluppo dell’intelligibilità nell’agire, ricolloca anche il valore dell’errore
politico. Trattandosi di una “serie continua di atti creativi di una lotta spesso elementare che fa
i suoi esperimenti” (Discorso sul programma), l’errore è la prova che la sperimentazione è in
corso. L’errore è il segno che non si sta sviluppando uno schema pregresso, bensì che l’agire
politico va sviluppandosi individuando le nuove risorse che il contesto offre per l’agire politico.
Per dirla altrimenti, l’errore è uno dei segni che il differenziale di sapere non gioca un ruolo di
conservazione.
Concludo sulla questione dell’organizzazione dell’agire politico con due annotazioni.
La prima si pone sul piano dell’immaginario. Anziché pensare il problema del rapporto
organizzazione-azione secondo la metafora della testa e del corpo, Rosa Luxemburg parla di
ciascuna azione di lotta e creazione rivoluzionaria di democrazia come “un frammento di carne
e sangue unito per mille vene alla circolazione rivoluzionaria” (Sciopero generale). Togliendo
la metafora dalla retorica, ciò significa consegnarsi alla postura di osservazione per cogliere e
portare a parola i nessi tra realtà diverse, per potenziarli, sapendo soprattutto cogliere nella
singolarità di ciascun luogo e forma di azione la causa dell'intelligenza materiale, non un
inciampo.
La seconda annotazione: una volta messo l’accento su molteplicità e singolarità come risorse
materiali dell’intelligenza e azione politica, come fare perché questo non sia ridondanza di
rumore rispetto all’emergere di una fisionomia rivoluzionaria? Un’idea può svilupparsi

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facendo interagire l’approccio che RL stabilisce tra storia e agire politico – una “storia naturale”
– e uno spunto che riprendo dall’etnologo Jean Loup Amselle, che lavora sull’universalismo a
partire dalle culture africane.
Anziché pensare al “comune” come ciò che emerge dalla connessione tra singolarità, Amselle
dà indicazione per considerare ogni singolarità come già effetto di traduzione di qualcosa di
universale. In altri termini, qualcosa di comune – diverso dal comune generato dalle azioni,
dalle lotte - esiste già. Seguendo RL si tratterebbe di quelle “tendenze storiche” che stanno in
un rapporto circolare con le lotte, le generano e ne sono generate.
Anche in questo caso la capacità di osservazione è dirimente: si tratta di cogliere questo
qualcosa di comune, non preliminarmente bensì così come opera nelle singolarità quale effetto
di traduzione. Da vedere, nominare, potenziare, rinominare per moltiplicarlo.

Brani da F. Giardini, La democrazia dei consigli attraverso Rosa Luxemburg

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SIMONE WEIL (1909 - 1943)

1.Premessa
Desiderare la verità è desiderare un contatto diretto con la realtà[1]
Esiste una difficoltà particolare che attende chiunque voglia compiere uno studio su un pensiero
quale quello di Simone Weil; una difficoltà inaggirabile, costante, che si fa maggiormente
concreta e vivida nel momento in cui si cerca di tradurre in semplici caratteri grafici ciò che si
è appreso. Ci si sente inadeguati, privi di un’esperienza di scrittura che sappia racchiudere in
sillabe e parole un pensiero vivido, debordante, impossibile da ridurre in una sequenza di frasi.
[...] Una delle maggiori difficoltà consiste nel trovare uno schema che cristallizzi una vita che
mai ha voluto irrigidirsi in schemi predefiniti, in dogmi assoluti, in verità preconfezionate.
Nessuna dottrina; il pensiero di Simone Weil è, innanzitutto, il rifiuto categorico di ogni dogma,
una riflessione libera che viene a librarsi in alto, al di sopra di ogni scuola di pensiero. La sua
vita è segnata dall’intransigente rifiuto di ogni compromesso intellettuale, che sfocerà in una
serrata critica del marxismo, nella conflittualità con l’ordine partitico e burocratico-statale, e
nel rapporto travagliato con i dogmi della chiesa, facendo sì che, nonostante la svolta religiosa
nel suo pensiero, rifiuti il battesimo fino al suo ultimo respiro. Ne nasce un pensiero fatto di
analisi radicate profondamente nella concretezza del quotidiano, che rifiuta la sistematicità. La
filosofia non si riduce per Simone Weil alla mera acquisizione di conoscenze o alla creazione
di sistemi filosofici coerenti. Il pensiero è un metodo per penetrare nel reale, per conoscerlo,
analizzarlo, per migliorarlo attraverso una prassi consapevole. [...] La Verità non si ritrova
nell’astrattezza di un sistema filosofico; essa risiede nel fecondo intreccio di pratica e pensiero,
nel coniugare le pratiche reali, tangibili, con una riflessione che si rivolga direttamente ad esse,
che si dedichi ad analizzarle e comprenderle, che si occupi dell’umano, della sua vita. [...] Da
questi presupposti, Simone Weil intraprese un cammino di vita e studio finalizzato in primo
luogo a quella che è divenuta nel tempo una delle sue riflessioni più conosciute, l’analisi delle
cause dell’oppressione sociale.

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2.Il Grande Animale e il soggetto
Come abolire un male senza aver visto chiaramente in che cosa consista?[4]
La bibliografia weiliana viene a contare un numero considerevole di saggi, articoli, lettere e
ricerche personali; movente e il filo conduttore di tale vasta e feconda produzione viene a
risiedere nella ricerca instancabile di una risposta chiara e valida all’unica questione che Simone
Weil riconosce come fondamentale, quella della giustizia sociale. I testi weiliani sono
impregnati di questa volontà di chiarificazione circa la possibilità di tale idea e in questo senso
Weil orienta tutte le proprie analisi alla descrizione eziologica dell’oppressione sociale
esercitata sugli individui fin dagli albori della società al fine di delineare un quadro teorico dal
quale emergano chiaramente i fattori che creano l’oppressione, cercando una strategia che possa
collocarsi al di là della modalità statale e burocratica, preservando l’unico valore riconosciuto
da Weil come fondamentale: il soggetto. [...] L’intento è quello di costruire una scienza della
società, volta a individuare la forma meno oppressiva di organizzazione sociale, poste
determinate condizioni materiali; definire in questo quadro la responsabilità e il potere d’azione
di ciascun individuo, onde evitare il cadere in meccanismi ambigui di emancipazione quali, ad
esempio, le rivoluzioni. [...] Per quanto necessario, e qualunque esso sia, l’ordine sociale è
essenzialmente cattivo. [...] Qualunque interpretazione che intenda leggere tale presa di
posizione come un’apologia della disobbedienza allo Stato o come un’incitazione all’illegalità
si trova ad essere decisamente fuoristrada. Difatti, in più di un punto della propria riflessione,
Simone Weil non manca di asserire l’assoluta importanza di una stabilità sociale garantita dallo
Stato. Al “grande animale” (termine che l’autrice mutua da Platone per indicare
l’organizzazione sociale) si deve obbedire, qualunque esso sia. “E poi occorre sempre che la
pressione dell’opinione pubblica si eserciti come uno stimolo che lo costringa ad uscire dalla
mediocrità; ma mediocre o no, l’obbligo di ubbidienza non muta.” L’obbedienza ai pubblici
poteri è garanzia di stabilità e di libertà, è un dovere sacro del cittadino che però, in ogni caso,
non deve trasformarsi in idolatria; la molla principale di tale relazione allo Stato non deve essere
la sottomissione, piuttosto l’obbedienza deve risiedere nel consenso [...]. La struttura di una
società è definita istante per istante da un equilibrio instabile fra la pressione dal basso e la
resistenza proveniente dall’alto, dalle funzioni di comando volte a difendere l’ordine della
società. In sintesi, il male per Weil non viene a risiedere nelle società in quanto tali, ma solo in
quelle che divorano le proprie anime anziché nutrirle. Lo Stato che sottomette le masse viene a
privare i suoi membri dei due attributi fondamentali necessari alla sua stessa nascita: la libertà
e l’obbedienza, mossa dal consenso, dei propri cittadini. Ad ogni modo, fatta eccezione per le
prime società, in cui le condizioni materiali impedivano di subire pressioni al di fuori di quelle
della stessa natura, l’oppressione è stata la caratteristica costante di tutte le forme di
organizzazione sociale che hanno avuto luogo nel procedere storico. Nelle società più semplici
[...] ogni fattore di costrizione sembrerebbe provenire esclusivamente dalla natura che lo
circonda e che ne indirizza e dirige le attività di sostentamento e i primi rudimentali lavori. Con
il passaggio a forme di economia più complesse si assiste a un progressivo affrancamento
dell’umano dalle necessità di tipo naturale per fare spazio all’iniziativa, alla libera scelta e
all’azione individuale, e a una contemporanea moltiplicazione degli sforzi produttivi di “utilità
indiretta”, non finalizzati al soddisfacimento immediato dei bisogni umani. In realtà, commenta
Weil, questo processo di emancipazione dalla natura, teso al dominio della stessa in nome della
libertà umana, non è altro che un inganno. Per l’umano, infatti, permane la necessità brutale che
lo costringe a sopportare l’oppressione, essa ha solo mutato la propria natura. L’umano
economicamente e tecnicamente avanzato, l’uomo moderno, spiega Weil, è ancora lì, sotto il
giogo della necessità, che non proviene più da un regno esterno, naturale, bensì dai suoi stessi
simili. [...] Non vi è, dunque, nel pensiero weiliano altra origine dell’oppressione sociale che
nell’umano stesso, in virtù di quella forza cieca, assolutamente indifferente al bene come al

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male, che è il tessuto originario di ogni rapporto umano e motore della storia. Conoscere questa
forza, violenta e cieca e che tocca tutti gli esseri umani senza alcuna distinzione, è distaccarsene,
rifiutarla, disprezzarla. L’analisi di Simone Weil viene a soffermarsi sulle cause oggettive
dell’oppressione che l’umano stesso produce sui propri simili, individuando come primo fattore
l’esistenza del privilegio, ossia quel monopolio della forza, della presunta verità – sia religiosa
che scientifica -, dell’oro, della moneta, delle armi, della coordinazione del lavoro dal quale
discende l’assioma per cui la prima legge dell’esecuzione viene ad essere l’obbedienza.
Alcune circostanze, che corrispondono alle tappe senza dubbio inevitabili dello sviluppo
umano, fanno sorgere delle forze intermedie tra il soggetto e le sue condizioni di esistenza, tra
lo sforzo e il frutto dello sforzo, le quali presto divengono monopolio di alcuni, dal momento
che non possono essere ripartite fra tutti; da quel momento i privilegiati, benché dipendano per
vivere dal lavoro altrui, hanno nelle mani il destino di coloro da cui dipendono e l’uguaglianza
svanisce.[12]
[...] Tuttavia, sottolinea l’autrice, la semplice esistenza di tali privilegi non basta da sola a dar
vita a una vera forma di oppressione sociale Secondo le analisi portate avanti dalla Weil, un
altro fattore fondamentale risiede nella lotta per il potere. La lotta per l’acquisizione del potere
si pone come fine ultimo delle azioni dell’uomo sociale, in una pericolosa inversione dell’ordine
dei mezzi e dei fini che risulta essere, in ultima analisi, il fattore più decisivo per la
determinazione dell’attuale regime oppressivo. “Ogni società oppressiva è cementata da questa
religione del potere, la quale falsa tutti i rapporti sociali.” Il potere difatti, oltre ad essere
costituito di strumenti, quali l’oro, le armi, segreti tecnici o magici (che risiedono sempre al di
fuori di colui che ne dispone e di cui può dunque esserne privato in qualunque momento – da
qui l’instabilità costitutiva di ogni potere), non è che uno strumento, un mezzo impropriamente
trattato come fine, per il quale si versa del sangue, si sacrificano vite umane. Fintanto che questa
inversione, ormai riversatasi su tutti gli aspetti della vita umana, non verrà destituita, sarà
impossibile realizzare una società in cui chi non detiene il potere non debba sopportare la doppia
padronanza della natura e della società. [...] Il “prestigio”, come lo denota Simone Weil è
dunque l’illusione essenziale intimamente legata al cuore della natura del dominio; essi sono
inscindibili. Non sono le sconfitte militari o le crisi economiche a determinare la perdita di un
potere, bensì la diminuzione o la perdita di tale prestigio protettivo, poiché il potere
dell’opinione pubblica è immenso, nella politica e nella guerra. La società di inizio secolo,
contemporanea a Simone Weil, rappresenta ai suoi occhi l’apice critico di tale orizzonte, un
mondo in cui nulla è posto a servizio delle esigenze del singolo, ma tutto è disequilibrio,
diseguaglianza, e il soggetto è solo davanti alla società, incapace di pensare, abbandonato in
una collettività cieca. Tutto, nel mondo moderno, è stato ridotto a burocrazia. Lo stesso pensiero
umano è stato subordinato e cristallizzato nei vasti meccanismi burocratici della società. I
giudizi di valore non hanno più luogo, l’individuo è completamente denudato dalla società,
perduto in una rappresentazione della realtà in cui tutto è mistero, tutto gli è precluso, e in cui
si ritrova ad essere completamente impotente. Tale sentimento d’impotenza, d’altronde, è
perfettamente funzionale alle politiche oppressive dei potenti. Instillare un senso di inferiorità
in colui che obbedisce contribuisce a far vivere all’oppresso la propria condizione sociale come
se questa fosse assolutamente naturale, dettata dalla propria mancanza di valore. Il trionfo
burocratico ha avuto come diretta conseguenza uno smisurato accrescimento del potere dello
Stato, “l’organizzazione burocratica per eccellenza”; grazie a un processo di accentramento del
potere, esso ha raggiunto ovunque, seppur in forme più o meno evidenti, una forma di
organizzazione sociale totalitaria, in cui esso viene ad esercitare il proprio potere in tutti i
settori, anche e soprattutto quello del pensiero. [...] In un simile orizzonte, il potere non è amato,
rispettato, ma semplicemente idolatrato. L’azione dello Stato uccide e abolisce ogni aspetto
sociale e della vita al di fuori di esso che possa mai essere oggetto d’amore e fedeltà; lo si ama
semplicemente perché non vi è nient’altro. In virtù di quest’idolatria senz’amore si assiste a un

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radicale sconvolgimento del concetto di patriottismo, legato ad una concezione assolutizzante
della Nazione, fino agli eccessi rappresentati dal nazionalsocialismo, dal fascismo e dalle
politiche imperialistiche delle potenze europee. In questo quadro, meritano delle considerazioni
a sé stanti le riflessioni weiliane sull’attività partitica in rapporto al soggetto libero. [...] Dal
momento in cui un’associazione partitica non si limita a coordinare semplicemente delle azioni
di lotta ma anche nel formulare e conservare l’unità di una dottrina inattaccabile, rende
inevitabilmente uno schiavo ogni suo singolo militante, nessuno escluso. Simone Weil non esita
a invocare l’abolizione dei partiti politici come provvedimento atto a garantire l’integrità di un
pensiero libero. D’altronde, come illustra l’autrice, la lotta dei partiti è una realtà nefasta ben
dimostrata dagli avvenimenti della Terza Repubblica mentre l’idea del partito unico
rappresenta, per un pensiero quale quello weiliano, un’aberrazione assoluta. Utilizzando
argomenti direttamente provenienti da Rousseau, Weil spiega che i partiti uccidono la
democrazia e la Repubblica. Gli uomini del 1789 “Non avrebbero mai creduto possibile che un
rappresentante del popolo potesse abdicare alla propria dignità al punto da diventare membro
disciplinato di un partito”. Continua Weil
Quella che è stata chiamata la libertà di associazione, in realtà è stata finora la libertà delle associazioni. Ma le
associazioni non debbono essere libere; sono strumenti, e quindi debbono essere asservite. La libertà conviene
solo all’essere umano.

[...] In questo quadro, le analisi di Simone Weil rilevano un legame strettissimo tra la
configurazione sociale e l’organizzazione della produzione. La costrizione sociale, difatti, ha
come proprio presupposto e contemporaneamente come proprio corollario la sottomissione
degli operai in fabbrica dovuta a una certa organizzazione della produzione. In questo mondo,
oppressione burocratica-statale e produttiva si compenetrano, raggiungendo livelli di intensità
mai realizzati prima.
3. Sradicamento e oppressione operaia
[...] Vi è per Weil un legame inscindibile tra l’oppressione di uno Stato tramutato in burocrazia
e quello all’interno di una struttura produttiva. Cogliendo questo nesso, ha voluto illustrarne
tutta la consistenza spingendosi a fondo nello studio dei modi di produzione e delle sue ricadute
sull’esperienza del lavoratore; la sua riflessione sulle tecniche di produzione e
sull’organizzazione delle fabbriche le avrebbe fornito la chiave interpretativa fondamentale per
la ricerca di un sistema produttivo in cui il singolo lavoratore potesse essere tutelato nella sua
integrità fisica e, soprattutto, morale. Fedele ai propri principi, non esitò a provare tale
oppressione direttamente sulla propria pelle, entrando in fabbrica come operaia nel 1934. [...]
Dal suo diario di fabbrica, e dai numerosi saggi e articoli scritti in questo periodo, emerge come
nonostante l’oppressione della classe operaia risieda su fattori materiali ed oggettivi, non solo
schiaccia il soggetto attraverso la penuria materiale, lo sforzo fisico e il degrado sociale, ma ha
ricadute nefaste soprattutto nella condizione morale degli operai, tramite l’annullamento del
senso di dignità e dell’esercizio del pensiero, rendendoli così irreparabilmente schiavi del
sistema sociale. [...] essi vengono indotti a una passività totale, a una penosa rassegnazione
grazie alla quale è più facile ridurli in una miseria inumana. [...] Come avviene ai livelli più
generali nella società, colui che obbedisce, nelle condizioni poste dalla taylorizzazione e dalla
fabbrica moderna, viene a sentirsi inferiore per natura, e il padrone, da parte sua, sente che egli
comanda perché l’altro è fatto per obbedire. In tal modo l’oppressione, man mano che si fa più
soffocante e gelida, non genera alcuna rivolta negli oppressi, ma solo un assoluto senso di
sottomissione. [...]
La razionalizzazione, il metodo “scientifico” d’organizzazione del lavoro elaborato da Taylor,
è stato uno dei maggiori punti d’interesse degli studi weiliani [...]. Esso si presenta come frutto
di un’elaborazione scientifica finalizzata non più all’utilizzazione delle forze naturali, ma

194
all’ottimizzazione, fino ai suoi limiti più estremi, della produzione sulla base dell’utilizzo della
forza umana del lavoro; in questo senso Weil parla di una seconda rivoluzione industriale che
sposta l’asse del metodo scientifico dalla materia naturale agli esseri umani. [...] La finalità
ultima di tale metodo, vanto principale del suo inventore, risiede nella possibilità di spingere la
cadenza degli operai sempre oltre, in modo sempre più intenso. Il taylorismo è stato concepito
come un metodo per utilizzare meglio gli uomini, in qualunque condizione. Il suo compito è far
lavorare di più, non meglio. Tale tipo di organizzazione finisce con il privare il lavoratore della
scelta di un proprio metodo di lavoro e dell’intelligenza per metterlo in pratica; inoltre produce
una netta ed improvvisa dequalificazione del lavoro operaio ed una conseguente perdita di ogni
abilità manuale e tecnica necessaria allo svolgimento dei propri compiti. Un’ulteriore
conseguenza del taylorismo è la frammentazione del corpo operaio allo stato molecolare, la
quale produce una solitudine che fa tutt’uno con la concorrenza tra gli operai e il richiamo ai
sentimenti più bassi, quali quello del guadagno. Sono le stesse condizioni di lavoro che
impediscono nel lavoratore qualsiasi altro movente che non si riduca al timore degli ordini, la
paura di un rimprovero, il terrore del licenziamento o il desiderio di guadagnare; i soldi
diventano un’ossessione. [...] Dunque i suoi unici stimoli saranno ridotti ad essere due: la paura
e l’appetito di guadagno. Per non soffrire, si ricorre al metodo più semplice ed immediato, si
abbassa tutta la propria anima, assieme al senso della propria dignità; ci si degrada, ci si
sdradica. La fame, la costrizione, il silenzio, tutto contribuisce al lento cadere del soggetto in
uno stato di incoscienza. [...] La conseguenza più significativa è la privazione dell’operaio del
suo stesso pensiero.[...] Il pensiero, nel momento del lavoro, non solo è ridotto esclusivamente
al rapporto tra i movimenti impressi agli strumenti posti innanzi al soggetto e il loro diretto
scopo, ma cosa ben più grave, l’operaio è privato della comprensione delle proprie azioni e
delle loro finalità, non rappresentando, in una fabbrica “razionalizzata”, altro che un nodo
isolato di un immenso processo di produzione di cui egli non conosce l’andamento, né il
prodotto finale. Si assiste al paradosso per cui un metodo “razionale” che dirige l’insieme delle
singole azioni, ripetute mille volte, dei lavoratori di una fabbrica, si ritrovi nei loro gesti e non
nel loro pensiero. Nulla è più essenziale all’umano quanto il bisogno di appropriarsi con il
pensiero dei luoghi e degli oggetti fra i quali spende la propria esistenza; questa esigenza è
negata all’operaio dalla stessa struttura della fabbrica. Il suo pensiero non può appropriarsi di
nulla. [...] Il pensiero si “rattrappisce”, ripiega sul solo presente, sull’azione monotona imposta
da un comando che non comprende. Durante il lavoro il pensiero deve essere costantemente
pronto a mantenere viva l’attenzione del lavoratore sulla monotonia dei propri gesti sempre
uguali, ossessionati dal proprio incedere incessante, nel caso in cui potesse verificarsi un
imprevisto durante l’esecuzione. Una tale compresenza di monotonia e attenzione è, commenta
l’autrice, un obbligo contraddittorio, impossibile, sfibrante. Nel settore del lavoro, vi è stata ai
danni della forza operaia una pericolosa inversione, per la quale la funzione essenziale viene ad
essere rivestita dal macchinario, e non dalla forza viva dell’operaio, la “macchina di carne”,
ingranaggio supplementare della macchina, che l’industria ha collocato accanto al macchinario
per far da intermediario tra esso e i pezzi a lui destinati; così, la funzione stessa del pensiero
sembrerebbe esser passata dal pensiero alle cose. [...]
4. Fallimento delle rivoluzioni e critica del marxismo
[...] Sarà a partire da questa analisi e dall’evidenza che i bisogni che sottendono alla fuoriuscita
da uno stato di oppressione non sono meramente riducibili ad una questione di tipo salariale o
esclusivamente materiale, che Weil dichiarerà l’inutilità di ogni tentativo di rivolgimento
sociale. La rivoluzione, parola per l’autrice tanto vaga quanto contraddittoria, non potrà
risolvere i problemi reali della società; l’abolizione di quanto opprime l’umano deve anzi
precedere ogni tentativo rivoluzionario. Difatti, spiega, ogni qualvolta nel corso della storia gli
oppressi si sono organizzati in una lotta capace di influire realmente sull’organizzazione

195
sociale, questi in realtà hanno riprodotto le stesse tare di quel regime che intendevano abolire.
La sostituzione violenta di un regime all’altro, non è una conquista emancipatoria, ma la
consacrazione di una trasformazione già silenziosamente completata sotto il regime precedente.
La lotta disorganizzata è destinata a cadere in ginocchio subito dopo aver alzato il capo, mentre
l’azione retta da qualsivoglia organizzazione porta inevitabilmente con sé i germi di un apparato
di direzione che, prima o poi, finirà per diventare oppressivo egli stesso[...]
Nessun rivolgimento politico, e tantomeno giuridico, potrà liberare gli oppressi dalla schiavitù
moderna. Essi sono incatenati dal regime stesso della grande industria, dalle sue regole di
funzionamento, e nulla potrà mai cambiare se non si agisce prima in quest’ambito.
L’oppressione non è un problema di proprietà, né un rapporto tra forze contrastanti, la chiave
di lettura della questione risiede nella struttura stessa dell’officina; nulla sarà risolto se prima
non si assisterà a una riorganizzazione della produzione riadattata al nuovo scopo di creare una
società libera dalla schiavitù.[...] È questo, d’altronde, l’argomento principale che porterà la
riflessione weiliana a distaccarsi infine dal pensiero marxista, e ad intraprendere una lunga
critica volta a smantellare tutto quello che in questa dottrina, nel tempo, è stato trasformato in
dogma acritico, senza che nessun teorico marxista, nessun militante, nessun capo comunista,
ne abbia mai messo alla prova le fondamenta. [...] Posto che la dialettica individuata da Marx
sembra essere un processo dubbio (come potrebbero mai i deboli, pur rimanendo deboli,
sconfiggere la classe dominante e diventare i più forti?), come potremmo astenerci dal dire che
in questo senso, le rivoluzioni non hanno altro scopo se non quello di emancipare le forze
produttive, anziché gli esseri umani? E in base a cosa, se non ad una illusoria mentalità di eredità
hegeliana, deve essere ricondotta la certezza di Marx per cui le forze produttive sarebbero
indefinitamente destinate ad accrescersi? La dottrina marxista non è altro che culto del
progresso, della produzione e della grande industria; messianismo, infondata teleologia, in cui
l’umano non è che lo strumento della Provvidenza, ovvero della Storia. Parimenti, prosegue
l’autrice, Marx dimentica di illustrare le ragioni che lo portano a dire che la divisione del lavoro
porta con sé necessariamente l’oppressione, cosa essa sia, e perché questa oppressione risulti
essere invincibile fintanto che ne deriva un’utilità; perché, in fondo, gli oppressi in rivolta non
siano mai stati in grado di edificare una società stabile e contemporaneamente non oppressiva.
[...] Le categorie economiche fissate dalla dottrina marxista, capitalismo e proletariato, non
sono sufficienti a rendere conto del fenomeno di burocratizzazione che ha trasformato l’URSS
stessa in una dittatura burocratica sui proletari, mentre in Germania ha portato alla morte di
milioni di operai. Marx, limitando le proprie ricerche al fattore economico, non poteva che
scorgerne l’importanza che in misera parte. Tutte le contraddizioni, le lacune, gli errori del
marxismo provengono per Simone Weil da un’unica causa: il desiderio di Marx di elaborare un
metodo che fosse, oltre che un’analisi, anche uno strumento per predire l’avverarsi delle sue
speranze riguardo la giustizia sociale. [...] Unendo scientismo e socialismo utopico egli ha
elaborato nient’altro che un’ipostatizzazione arbitraria della società, ha semplicemente
idolatrato “il grande animale”.
5. La società libera
[...] Una società senza oppressione è effettivamente possibile; l’oppressione può essere
eliminata sopprimendo innanzitutto quei fattori di monopolio e privilegio che creano
diseguaglianza sociale. Ma, se la risposta alla questione dell’oppressione sociale non può
venirci dalle rivoluzioni, dal marxismo, da alcun partito e assolutamente non dallo Stato, può
essere individuata nel lavoro, il quale per diventare attività degna di un soggetto libero deve
essere intrisa di pensiero, invenzione, giudizio. Ma l’industria, quanto la società, non può
sopravvivere, se privata dell’ordine. Si pone dunque all’organizzazione il problema di un ordine
nuovo, compatibile con la libertà umana e con la coscienza della dignità operaia; un ordine
fondato sul compromesso. L’errore da evitare, da parte dei lavoratori, è cadere nell’illusione

196
che il giogo della necessità produttiva venga a pesare esclusivamente sulla loro opera. [...] In
fabbrica, spiega Weil, si dovrebbe assistere ad un passaggio progressivo dalla totale
subordinazione ad una mescolanza tra una certa dose di tale subordinazione e di collaborazione,
pur lasciando la collaborazione pura e assoluta come ideale. Tappa fondamentale in questo
processo deve essere la divulgazione del meccanismo di produzione. Conoscere il meccanismo
della necessità che ci piega tende a rendere la nostra sofferenza meno schiacciante e degradante
e a concepire gli ordini che riceviamo come meno arbitrari e dispotici; gli operai devono essere
messi in condizione tale da essere in grado di poter comprendere in che proporzione tali ordini
corrispondono a delle necessità concrete. [...] Poiché inoltre il sentimento di inferiorità non è
favorevole allo sviluppo delle attitudini umane, gli operai dovranno sentirsi ed effettivamente
essere parte attiva del meccanismo di produzione, attraverso la loro diretta iniziativa, la ricerca
e la responsabilità dell’opera. Occorrerà dunque mutare la natura degli stimoli rivolti
all’operaio, il suo rapporto con i capi dell’industria e con i funzionari, il suo rapporto con la
macchina, l’utilizzazione del tempo di lavoro, il quale non deve ridursi più al mero presente
istantaneo; la percezione del lavoratore deve aprirsi all’avvenire, in modo che egli abbia la
sensazione concreta di avanzare nel tempo attraverso i suoi sforzi, fino al raggiungimento di un
obiettivo.
Finalizzata a questo mutamento, la stessa istruzione scolastica dovrebbe venire a subire una
trasformazione radicale, in modo da essere concepita in un modo assolutamente nuovo; essa
dovrebbe fornire al lavoratore le basi per poter comprendere il lavoro a cui partecipa.
D’altronde, l’accesso dei lavoratori alla cultura era da sempre stato stimato da Weil, fin dalla
sua esperienza giovanile con il Groupe d’education sociale, come il requisito fondamentale tra
le condizioni di una vera rivoluzione. Il lavoratore, difatti, spiega Weil, non deve disprezzare
la cultura come un prodotto della mentalità borghese; egli deve anzi farla propria, in modo da
appropriarsi dei suoi immensi poteri. La cultura, infatti, “è un privilegio che […] dà il potere
alla classe che la possiede”. Accanto a questi accorgimenti di natura strettamente tecnica, per
quanto riguarda l’organizzazione del rapporto lavorativo in fabbrica, e sociale, per ciò che
attiene all’accesso alla cultura, Simone Weil verrà a porre, in virtù della svolta religiosa subita
dalle proprie riflessioni, l’esigenza di un’apertura allo spirituale e a Dio che sani le piaghe
morali degli oppressi, schiacciati dal peso delle proprie macchine. Weil giungerà ad elaborare
la convinzione per la quale nulla potrà realmente sostenere i lavoratori, ad eccezione di quei
moventi trovati all’interno della contemplazione; l’unica cosa che potrebbe rendere ai lavoratori
l’orrore delle proprie condizioni meno asfissiante è la percezione della bellezza proveniente
dalla luce d’eternità. Una volta capaci di ritrovare il simbolismo divino attraverso le immagini
sensibili del proprio lavoro, garantiti nei loro bisogni materiali, i lavoratori potranno trovare la
libertà dall’oppressione tanto a lungo ricercata. Il loro cammino verso Dio è aperto loro proprio
dalla necessità da cui sono costretti; la loro vita è nuda, spogliata da ogni finalità. Ma proprio
questa assenza di finalità apre loro la strada alla sola verità che sia vera, Dio. Questo è il loro
privilegio. Nessun fine particolare fa loro da schermo con la trascendenza, essa è lì, “devono
solo alzare lo sguardo.”
Brani tratti da Simone Weil. Libertà di pensiero e intransigenza della pratica, di Federica
Castelli
LETTURE E VISIONI CONSIGLIATE
Tempi moderni (1936, regia di C. Chaplin)
Le stelle inquiete (2011, regia di E. Piovano)
S. Weil, Diario di fabbrica (1934-1935)

197
RIPENSARE LA POLITICA

HANNAH ARENDT (1906 - 1975)

l. Le condizioni strutturali della Vita activa


Il pensiero etico-politico di Arendt non può essere incasellato entro schemi tradizionali, in
quanto questa autrice è nello stesso tempo sia realista che idealista: non si fa illusioni sulla crisi
del suo tempo, intesa nel senso più ampio di fallimento della filosofia di fronte al culmine della
modernità, ma è ugualmente convinta dell'importanza di continuare a pensare politicamente e
ad agire liberamente. Ella non ha mai perduto la fiducia nella possibilità che l'uomo agente dia
l'avvio a qualcosa di nuovo che gli permetta di realizzare l'"improbabile" e l’"imprevedibile",
di cambiare le cose così come si presentano. Ma agire liberamente vuol dire agire insieme agli
altri, agire pubblicamente, collocarsi nello "spazio politico". Ed è qui che l'azione umana si
afferma nel suo significato più pieno e profondo ed acquista un nuovo spessore concettuale.
Si era sempre ritenuto che la più alta espressione delle capacità dell'uomo fosse raggiunta
dall'astrazione e dalla teoresi e che l'azione fosse un aspetto decadente del pensiero, un
passaggio alla pratica a partire da una teoria che ne rappresenta comunque la causa
determinante. Hannah Arendt, invece, riabilita con forza la funzione dell'azione e si oppone ad
una tradizione che ha Per anni dominato la filosofia. Nella sua opera Vita activa vuole giungere
a una definizione della condizione umana che non si basi né sul primato della conoscenza
scientifica perseguito dall'antropologia, né sul primato del pensiero filosofico, come indicato
da Husserl e Heidegger. Nel cercare una risposta alla domanda "chi è l'uomo?", nel provare a
definirne l'identità, Arendt fonda la sua indagine su un'analisi fenomenologica delle condizioni
dell'esistenza umana, delle attività che ad essa sono strettamente connesse e degli spazi in cui
queste ultime si svolgono.
Fin dalla loro nascita gli uomini entrano in rapporto con gli altri viventi (pluralità), trascorrono
la loro esistenza sulla terra trasformando il mondo naturale in mondo artificiale (mondanità),
che essi stessi si sono creati con la loro attività per rendere l'ambiente naturale più consono alle
loro necessità ed esigenze. Tutte queste condizioni e realizzazioni, che emergono da un'analisi
fenomenologica dell'esistenza umana, sono collegate con le attività proprie della Vita activa.
Si tratta di tre fondamentali 'modi di agire', o meglio di tre categorie specifiche: il 'lavoro',
l''opera' e l''azione', ognuna delle quali "corrisponde ad una delle condizioni di base in cui la
vita sulla Terra è stata data all'uomo".
Con il lavoro l'uomo provvede alla sua sussistenza; con l'opera crea un mondo "artificiale"
ricco di quei manufatti che compensano le carenze biologiche e facilitano la sopravvivenza,
infine con l'azione, pienamente umana, e in particolare con l'azione politica corrispondente alla
condizione della pluralità, si pone in relazione, entra in rapporto con gli altri e comunica con
loro. [...] Solo con l'azione e nell'azione, l'uomo si sottrae alla natura ed è libero di dare inizio
all'assolutamente nuovo, all'impensato, all'imprevedibile. Nella sfera politica non si producono
oggetti d'uso, ma relazioni tra uomini, rapporti non vincolati né dalle leggi di natura, né dai
caratteri tipici della specie, poiché nel genere umano l'identità si attenua a vantaggio della
singolarità e della irripetibilità di ogni individuo. Se nell'ambito del lavoro e dell'opera l'uomo
può soltanto manipolare ciò che è già dato, attraverso l'azione politica può realizzare i suoi
progetti critici e passare così dall'esistenza inautentica a un'esistenza autentica. Nel volume

198
Vita activa Arendt cerca di gettare le basi di una filosofia politica, fondata sulla sua concezione
dell'uomo e sulla conseguente teoria dell'agire. [...] La dimensione dell'agire è stata mortificata
e accantonata nel corso dei secoli dalla filosofia delle idee, dove l'essere e l'apparire erano
tenuti nettamente distinti. Non si può dire la stessa cosa per la politica, poiché in questo caso i
due corni del dilemma possono costituire un unico momento. Ma la complessità e
l'imprevedibilità delle azioni prodotte da una pluralità di uomini hanno spinto i filosofi a
costruire una "teoria del buon governo" o del "buon comandante" piuttosto che interessarsi
all'intricato fenomeno della partecipazione dei singoli alla vita collettiva. Alla pluralità degli
uomini liberi, diversi tra loro, imprevedibili e incontrollabili, si è preferito sostituire la
semplicità e la rapidità delle regole di un governo che legifera. Arendt ritiene, quindi, che il
pensiero politico attuale non sia più aderente alla sua natura originaria, perché non coglie più i
caratteri specifici e peculiari dell"'agire umano" ma li fa rientrare in un quadro dove ha la
prevalenza il sapere teorico. La filosofia non solo ha snaturato e frammentato la portata del
pensiero politico riducendo drasticamente la ricchezza e l'articolazione della pluralità, ma ha
anche instaurato la prassi di fondare il tutto partendo da una delle due facoltà, azione o pensiero,
ritenuta preminente. La cultura greca, infatti, prima di Platone, aveva basato sull'agire tutte le
sue conoscenze, mentre la scuola socratico-platonica aveva capovolto la situazione,
subordinando tutto al pensiero. Il Cristianesimo aveva svalutato entrambi i termini a favore
della contemplazione e la modernità aveva posto al vertice di ogni considerazione la
conoscenza scientifica; infine la cultura contemporanea aveva dato la preminenza al lavoro.
Arendt intende interrompere tale procedura e, invece di partire da categorie astratte, vuole
analizzare l'agire proprio dell'uomo, nel quale quest'ultimo manifesta la sua peculiarità più alta
e nobile, che gli consente una collocazione armoniosa con gli altri uomini, con se stesso, con
il mondo e il suo futuro. Essa ha cercato, quindi, di riportare al centro dell'attenzione quella
'condizione umana' che la filosofia aveva opportunisticamente emarginato ed allontanato,
perché troppo complessa, imprevedibile e non malleabile: l'azione intesa nel suo significato di
agire politico. Il suo scopo è di aprire la strada al ripristino della comprensione specifica della
originarietà e autenticità dell'agire quale determinazione fondamentale, o meglio, quale modo
di essere proprio del vivere umano, distinto dalle dimensioni necessarie della pura
sopravvivenza.

1a. Lavoro e natura


Il "lavoro" è l'attività con la quale l'umanità si garantisce la sopravvivenza. L'essere che lavora
a questo scopo con il suo corpo è definito da Arendt "animal laborans". Il lavoro costituisce
quindi l'atto indispensabile all'animale-uomo per assicurarsi l'esistenza e protrarla nel tempo.
Si tratta di un'attività connessa all'uomo come essere biologico, in stretta simbiosi con la natura,
la quale costituisce il primo dei contesti strutturali cui si accede producendo e consumando. Il
lavoro, dunque, si svolge esclusivamente all'interno del circolo dei processi naturali, poiché ha
come unico scopo la soddisfazione dei bisogni primitivi della vita e non lascia alcuna traccia di
sé, dato che il suo risultato si dissolve nel consumo quasi immediato del prodotto. Ogni lavoro
viene sempre ricominciato di nuovo, perché non si può sfuggire alla spirale produzione-
consumo se si vuol sopravvivere. [...] Lavorando l'uomo produce ciò che è necessario alla
conservazione della vita, ciò che serve a sostenere il processo vitale del suo corpo. Questo
processo, che conduce l'individuo dalla nascita alla morte lungo una progressione lineare di

199
decadimento, si svolge, tuttavia, secondo un movimento circolare ripetitivo che non si assesterà
mai, fintanto che durerà la vita.
A differenza dell''operare', che raggiunge il suo termine con la realizzazione dell'oggetto che si
aggiunge agli altri già compiuti, l'attività lavorativa percorre sempre lo stesso circolo prescritto
dall'organismo vivente. Il lavoro produce beni di consumo, questi ultimi sono i meno durevoli
tra tutte le cose materiali, in quanto deperiscono velocemente se non vengono utilizzati e
rientrano in quel ciclo vitale da cui hanno tratto origine. Sono le più naturali e necessarie tra
tutte le cose: vanno e vengono, sono prodotte e consumate, in analogia con il ritmo ricorrente
dei processi naturali. Possiamo quindi concludere con Arendt che il lavoro corrisponde alla
condizione strutturale della terra-natura e a quella esistenziale del possesso della vita.

1b. Opera e mondo artificiale


L'"opera delle nostre mani", che Arendt, rifacendosi a Locke, distingue dal "lavoro dei nostri
corpi", fabbrica tutta quell'infinita molteplicità di manufatti che costituisce il nostro ambiente,
il mondo artificiale in cui viviamo. Non si tratta in questo caso di beni di consumo, ma di oggetti
d'uso, che permettono a quell'essere carente che è l'uomo di raggiungere la sicurezza e la
stabilità che non potrebbe trovare in un contesto esclusivamente naturale. Se al lavoro
corrisponde il consumo, all'opera corrisponde l'uso. Le cose prodotte dalle nostre mani sono
usate e non consumate; se il fine del pane è nell'essere consumato subito, altrimenti deperisce,
un paio di scarpe ha una maggiore durata e non si guasta se non viene usato.
E proprio in questa capacità di durare che le cose del mondo artificiale acquistano una relativa
indipendenza rispetto a colui che le produce; da ciò deriva il loro porsi come 'oggetti' di fronte
ai soggetti che ne fanno uso. Mentre il "lavoro" è svolto da un "animal laborans" in una natura
sempre uguale, l’"opera" è attuata dall''homo faber' in un mondo artificiale relativamente
stabile, ma nello stesso tempo aperto alle novità, soprattutto se utili. La civiltà deriva quindi
dall'umana capacità di operare e di fabbricare strumenti, attraverso i quali l'uomo può ergersi a
"signore e padrone della natura stessa nella misura in cui viola e distrugge parzialmente ciò che
gli è stato dato". Quando dalla "materia" che si trova in natura si passa al "materiale", è segno
che la mano dell'uomo è intervenuta a rimuoverlo dalla sua collocazione naturale, o perché
interrompe un processo vitale, come nel caso dell'albero che ci dà il legname, o perché si agisce
su prodotti naturali, come per il ferro, la pietra o il marmo che vengono estratti dal sottosuolo.
All'opera, dunque, corrisponde il mondo "artificiale" dei manufatti, stabilmente strutturati e
costruiti dagli uomini e la condizione esistenziale dell'essere-nel-mondo.
Arendt sottolinea la profonda differenza che sussiste tra lavoro ed opera rifacendosi all'antica
distinzione greca tra gli artigiani e gli schiavi. Mentre gli uni, grazie alla loro competenza e
abilità, creavano con le proprie mani qualcosa di nuovo, gli altri, con l'attività del loro corpo,
provvedevano alle necessità della loro vita e di quella dei loro padroni. Anticamente era diffuso
un certo disprezzo per il lavoro e alla base di questa considerazione negativa c'era la
consapevolezza che esso impediva di vivere pienamente la propria esistenza bloccandone gli
aspetti creativi e quindi più duraturi nel tempo. Inoltre si pensava che colui che opera è
sostanzialmente diverso da colui che lavora, perché lascia una traccia del suo agire, mentre a
chi vive per lavorare non rimane altro che la propria sopravvivenza. Nell'antica Grecia, in
particolare, il ruolo di colui che viveva per lavorare, lo schiavo o animal laborans, era
decisamente diverso da quello di colui che operava per produrre, l'artigiano o homo faber,

200
poiché solo chi non doveva preoccuparsi per la propria esistenza poteva incanalare le sue
energie verso la creatività (opera), verso la speculazione (pensiero) e verso la politica (azione).
Nell'età moderna si è verificato, secondo Arendt, un ribaltamento dei ruoli e della
considerazione tra l'attività lavorativa e l'opera della creatività. L'importanza del lavoro è stata
messa dapprima in luce da Locke, il quale aveva compreso come, alla base della costituzione
di ogni nuova proprietà, vi fosse sempre il lavoro. Questa elevata stima dell'impegno lavorativo
continuò con Adam Smith, che lo reputò sorgente di ogni ricchezza, e con Karl Marx, che indicò
nella "forza-lavoro" la causa della produttività e quindi il fulcro dell'essenza umana e la sorgente
della civiltà stessa. [...] La vera sconfitta dell'uomo nella società moderna discende quindi dal
dominio assoluto del lavoro e dall'arroganza dell"'animal laborans" sommerso nella vorticosa
spirale produzione-consumo, appiattisce e mortifica le altre due attività, opera e azione, proprie
dell'essere umano in quanto tale, che gli permettono di raggiungere l'equilibrio esistenziale.

1c. Azione e pluralità degli uomini


L' "azione", per Arendt, è l'attività con la quale gli uomini entrano in porto diretto tra loro senza
la mediazione di cose naturali, materiali, artificiali, e corrisponde alla condizione strutturale
della "pluralità", al fatto che sulla Terra ci siano uomini e non l' "Uomo".
Nell'agire, dunque, l'uomo si rivela e, benché possa essere in parte condizionato e motivato da
interessi contingenti e individuali, riesce a superarli e a trascenderli. [...] Se non è in grado di
trovare lo spazio per l'azione, l'uomo rimane nel suo isolamento, vittima di pregiudizi ed
egoismi che lo portano verso la sopraffazione e il conseguente rifiuto della vita intesa nel suo
significato più autentico, come auto-realizzazione, creatività e cultura. E la 'pluralità' che
promuove e favorisce la manifestazione dell'agire; mentre molte altre facoltà umane, come il
pensiero, la volontà, la creatività e l'amore, sono esercitabili anche nell'isolamento, l'azione è la
sola attività che "mette in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali".
[...] Tutto ciò equivale ad una "seconda nascita", in quanto, dopo essere entrati nel semplice
mondo della vita, ci inseriamo a pieno nel mondo umano. Questo inserimento non ci è imposto
dalla necessità come il lavoro, né dai bisogni o dai desideri come l'opera; esso è invece
incondizionato, il suo impulso sorge da quell'inizio rappresentato dalla nascita, a cui l'uomo
corrisponde con il dar avvio, di sua iniziativa, al nuovo e all'inatteso. Attraverso il recupero
dell'etimologia originaria del verbo "agire", Arendt vuole sottolineare la stretta connessione tra
azione e novità. [...] Esiste uno stretto legame tra azione ed inizio: agire significa dare l'avvio,
incominciare qualcosa. Da un punto di vista storico è l'azione che imprime una svolta, per
mezzo delle sue capacità innovative, al trascorrere ininterrotto e uniforme del tempo. Ed è
ancora l'azione che, nella pluralità degli esseri umani, fa sì che nessuno di noi sia uguale ad un
altro. [...] In tal modo Arendt, evidenziando la capacità dell'uomo di dar inizio al nuovo
attraverso l'azione, vuole porre in luce un criterio che differenzi l'esistenza a livello biologico
dall'esistenza propriamente 'umana'. L'uomo può superare la dimensione esclusivamente
'istintiva' legata alla sua sopravvivenza fisica assecondando quella forza interiore che lo dirige
verso gli altri uomini e che si distingue nettamente da tutte le altre spinte dettate dalla necessità
biologica. Mentre queste ultime hanno un'impronta prevalentemente egoistica, le altre sono
caratterizzate da una spiccata tendenza altruistica. [...] Arendt individua, perciò, nel recupero
dell'azione politica, quale componente primaria della vita attiva, il percorso attraverso cui è
possibile la ricomposizione della dimensione autentica e unitaria dell'uomo.

201
2. Agire, parlare, narrare
Analizzando la sua teoria dell'azione si può comprendere come Arendt sia riuscita ad attribuire
un significato profondo alla condizione umana, senza per questo proiettarla al di fuori della
realtà propria dell'uomo. Ella è riuscita ad andare oltre l'idea di un individuo isolato,
preoccupato unicamente della propria autoconservazione e in contrasto con una natura ostile
ed estranea; è riuscita a identificare nell'azione la suprema attività della condizione umana,
poiché con le sue caratteristiche di libertà, imprevedibilità e pluralità possiede la capacità di
dare vita ad un "nuovo inizio”. Attraverso le proprie azioni l'uomo può essere riconosciuto e
ricordato dagli altri; può trovare il significato della sua vita e la possibilità di raggiungere
l'immortalità nel ricordo, nonostante il trascorrere del tempo e la caducità dei fenomeni
mondani. Attraverso l'azione e il discorso ad essa collegato gli uomini appaiono agli altri non
come "esseri distinti", bensì come "esseri che si distinguono". [...] Azione e discorso sono così
intimamente connessi che non si può stabilire dove finisca l'uno e dove inizi l'altro. [...]
Discorso e azione sono correlati tra di loro a tal punto che la seconda senza il primo perderebbe
la sua identità, poiché verrebbe a mancare sia la caratteristica che rende ogni uomo unico nella
condizione umana della pluralità, sia la caratteristica della rivelazione, cioè della possibilità
che ogni uomo ha di manifestarsi proprio attraverso le parole. [...] L'azione, nel suo
manifestarsi, ha bisogno della pluralità, dell'essere con gli altri, di stabilire relazioni in
particolare attraverso il linguaggio; e tutto ciò si realizza pienamente soltanto nella sfera
pubblica. [...] Le azioni esisteranno finché ci saranno uomini che le raccoglieranno e le
racconteranno. E la raccolta e il racconto delle gesta compiute ci saranno finché esisteranno
altri uomini che ameranno sentirle narrare. E finché ci sarà il piacere di sentir raccontare le
azioni, significherà che gli uomini troveranno in esse le ragioni della propria esistenza. E le
azioni che saranno amate sono azioni portatrici di vita, di altruismo e carità, di armonia con
l'esistenza e con il suo mantenimento e sviluppo sulla terra. L'azione, quindi, produce' storie,
come l'opera costruisce strumenti artificiali; ma è la narrazione che costituisce l'atto conclusivo
dell'azione, la sua definitiva incoronazione. [...] Tuttavia, nonostante ciascun essere umano
inizi la propria vita inserendosi nel mondo attraverso il discorso e l'azione, "nessuno è autore o
produttore della propria storia"35, nel senso che le storie risultanti dall'azione e dal discorso
rivelano l'esistenza di un narratore che non ne è l'autore e non le ha prodotte. Nell'attività del
raccontare si riflette tutta l'imprevedibilità e la fragilità degli affari umani, e soltanto quando
l'azione si è conclusa, è possibile descriverla [...]. Così, sebbene le storie siano i risultati
inevitabili dell'azione "non è l'attore ma il narratore che comprende e 'fa' la storia"38. [...]
La connessione che Arendt stabilisce tra la fragilità degli affari umani e l'azione politica non
offre soltanto un filo conduttore per comprendere le peripezie del mondo moderno, ma un
principio normativo che permette di giudicare l'eclissi della politica in quanto espressione
suprema dell'azione libera e di condannare tutti i tentativi di dissolvere la politica in un'attività
tecnica. [...]

3. Etica e politica. Un rapporto da ripensare


L'azione libera, innovativa, discorsiva, che riscatta l'essere umano dalla mancanza di significato
propria della semplice vita biologica, è dunque l'azione politica. Si può vivere senza lavorare e
senza operare e non per questo si perde l'umanità, ma se si vive senza azione e senza discorso

202
si rinuncia ad apparire, ad identificarsi, ad esistere al di là della mera sopravvivenza; e la
specificità dell'umanità, rintracciabile esclusivamente nell'azione, verrebbe ad essere compressa
e soffocata. Il periodo storico in cui l'agire, così come è stato concepito da Arendt, ha avuto
modo di manifestarsi è quello della polis greca. [...] Nello spazio pubblico della polis è
protagonista la parola, e parlare vuol dire essere insieme, inter homines esse, poiché, se gli
uomini possono lavorare od operare in solitudine, non possono mai agire da soli. [...] L'antica
città greca, intesa come uno spazio politico fondato su un libero rapporto tra pari, è considerata
da Arendt un riferimento rispetto a cui evidenziare, per contrasto, il significato della modernità.
Nella nostra epoca si sono rovesciate le competenze e le caratteristiche del privato e del
pubblico, Infatti, diversamente dalla polis greca dove il lavoro era considerato una funzione
servile, ora la dimensione lavorativa si estende dall'ambito esclusivamente privato alla totalità
della vita. Si è raggiunta così una supremazia dell'animal laborans a cui si lega un esagerato
accumulo di beni prodotti e un conseguente loro utilizzo in un processo di consumismo sfrenato.
Un'incontrollata espansione della dimensione consumistico-vitale costituisce l'elemento più
evidente della moderna società di massa, a cui corrisponde, per altro verso, la decadenza della
sfera pubblica.
[...] L'espressione massima della libertà per l'animal laborans consiste nell'attività continua e
ripetuta per soddisfare le proprie esigenze, senza mai, tuttavia, riuscire ad appagarle
completamente. [...] È quindi perfettamente concepibile, secondo Arendt, che "l'età moderna -
cominciata con un così eccezionale e promettente rigoglio di attività umana — termini nella
più mortale e nella più sterile passività che la storia abbia mai conosciuto”. E all'interno di
questa passività può trovare spazio, come sappiamo, quella "banalità del male" che ha condotto
ad individui come Eichmann. In un'epoca in cui "l'azione è diventata un'esperienza per pochi
privilegiati", un barlume di speranza appare quando si fa riferimento al Pensiero che è "ancora
possibile e senza dubbio efficace, ovunque gli uomini vivano in condizione di libertà politica".
[...] Se con Le origini del totalitarismo Arendt giungeva ad ammettere il rischio di una completa
distruzione, con Vita activa ricerca quelle barriere che la condizione umana è in grado di
opporre a tale minaccia. E queste fanno riferimento al concetto antropologico di 'azione', che
si distingue da quello di lavoro e di opera, e al concetto politico di 'potere', da cui però deve
essere eliminata ogni traccia di dominio e di violenza; e permettono all'uomo di rispondere con
l'azione al semplice fatto di essere nato e di trovare nell'amor mundi la forza per andare avanti
dopo l'olocausto. [...]

brani tratti da M. Pansera, in C. Di Marco (a cura di), Percorsi dell'Etica Contemporanea,


Mimesis, Milano 1999, pp. 255-268

VISIONI E LETTURE CONSIGLIATE


Hannah Arendt (2012, regia di M. Von Trotta)
The Post (2017, regia di S. Spielberg)

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203
SOCIETÀ DI MASSA E SOCIETÀ DEI CONSUMI

[...] Una prima efficace analisi del rapporto stratificato e complesso tra individuale e collettivo
all’interno della massa totalitaria si ha con Elias Canetti (Canetti, 2010) il quale, operando uno
spostamento fondamentale sul piano della lingua – passando dai lemmi di «popolo» e di «folla»
al termine «massa» –, cerca di analizzare le dinamiche collettive a lui contemporanee con
sguardo libero dal pregiudizio morale e politico. Consapevole delle derive mortifere
dell’omologazione totalitaria a cui è costretto ad assistere, Canetti cerca di comprenderne la
natura recuperando la dimensione corporea e le sue potenzialità trasformative.
La massa si genera a partire dalla quotidiana e condivisa esperienza di paura della morte,
espressa sintomaticamente nella paura del contatto con l’altro e con l’ignoto, nel «timore di
essere toccati» che porta i soggetti all’isolamento nella vita individuale (ivi: 17). Tale
isolamento – che, vedremo, sarà un nodo fondamentale anche dell’analisi di Hannah Arendt –
riveste un ruolo centrale. È infatti a partire da una doppia fuga – contemporaneamente dalla
paura della morte e dall’isolamento – che si origina la massa, in cui l'individuo sente di aver
oltrepassato i confini della propria persona (ivi: 23): un capovolgimento del timore del contatto
con l’altro che si esprime nella perdita della propria differenza singolare. Per altri versi, la
massa tende naturalmente al proprio accrescimento, verso una crescita illimitata. Per questo
una massa aperta ne è la forma più spontanea e naturale, ma anche la più estrema, laddove una
massa chiusa, rinunciando alla crescita in nome della durata, ha bisogno di fissare i propri
confini e di sottoporsi a regole ferree, irrigidendosi in gruppi e istituzioni che oltrepassano il
momento del contatto fisico collettivo ed esponendosi così al rischio di ribellioni contro i riti e
le cerimonie che la delimitano.
La dimensione della massa aperta è per Canetti esperienza politica fondamentale, poiché il
momento del contatto collettivo tra corpi apre alla possibilità di trasformazione sociale e
politica, ponendo le condizioni per la creazione di nuove forme sociali. La massa è un luogo
non di annientamento e regressione, bensì di potenziamento, in cui i soggetti trovano la propria
liberazione nella condivisione degli intenti e nell’uguaglianza dei corpi. Nella massa si è tutti
uguali, non perché ogni razionalità individuale si dissolve nella collettività, ma per via
dell’estrema fisicità che la caratterizza. Infatti, nell’esperienza della massa densa, «in cui corpo
si addossa a corpo», la paura del contatto con l’altro, che segna le esperienze individuali
quotidiane, si rovescia nel suo opposto: ogni differenza singolare si annulla e sembra che tutto
avvenga «all'interno di un unico corpo» (ivi: 18). «Quanto più gli uomini si serrano
disperatamente gli uni agli altri, tanto più sono certi di non aver paura l’uno dell’altro» (ibi-
dem): nell’uguaglianza corporea della massa cadono le gerarchie, consce e inconsce, e i
soggetti, tutti insieme e contemporaneamente, si liberano delle loro distanze (ivi: 97). Né
individualistica né olistica, la visione di Canetti pone dunque il momento collettivo come unità
di parti che mantengono la loro eterogeneità.
In una prospettiva analoga, in riferimento all’esperienza totalitaria, la figura che contribuisce
in modo decisivo alla riapertura del dibattito sul rapporto tra individuale e collettivo, così come
sulle cause, le caratteristiche e gli effetti della massificazione totalitaria, è Hannah Arendt. In
molti dei suoi testi Arendt analizza la relazione tra singolarità e pluralità all'interno del contesto
collettivo della politica, che la porterà a una ridefinizione della politica a partire da una nuova
concezione dello spazio pubblico (così tradotto in Italia a partire dal public realm dell’originale

204
inglese. Arendt, 2009; 2005, 2004). Arendt si confronta con la questione nel suo celebre Le
origini del totalitarismo, scritto nel 1948, a ridosso della drammatica esperienza europea. In
queste pagine, la pensatrice si allontana dall’interpretazione ottocentesca, così come dalle
letture che considerano la massa totalitaria un gruppo disorganizzato, incostante, governato e
orientato dalla fama e dal carisma di un capo. Piuttosto, Arendt si sofferma sull’inedito livello
di abnegazione che caratterizza gli individui nella massa totalitaria, i quali sono disposti a tutto,
persino a sacrificare se stessi e i propri affetti (Arendt 2009: 425-427). Questa rinuncia non
avviene tanto in nome di un idealismo estremizzato, ma viene generata dall’impossibilità di
giudizio e di ragionamento condiviso e dalla distruzione della capacità di esperire il mondo,
provocate dal conformismo e dall’identificazione proprie dell’ordine totalitario. La massa,
«nuda forza numerica» (ivi: 427), indifferente agli affari pubblici, politicamente neutrale, lungi
dall’essere uno «sfondo inarticolato della vita politica nazionale», fa crollare le illusioni dei
procedimenti democratici, conducendo a un’apparentemente paradossale «abnegazione, non
come virtù, ma come senso della nessuna importanza del proprio io, della propria
sacrificabilità» (ivi: 437). Le differenze individuali vengono assimilate in uno stato di
risentimento generalizzato, in un’amarezza idiosincratica che non crea vincoli comuni, perché
non è basata su una comunanza di interessi, e che sfocia in un indebolimento dell’istinto di
autoconservazione. L’individuo si annienta non perché è dissolto nel momento collettivo, ma
perché, nell’assoluta frammentazione della società, dalla struttura estremamente competitiva,
l'individuo è solo, privo di relazioni sociali: «La principale caratteristica dell’uomo di massa
non era la brutalità e la rozzezza, ma l’isolamento e la mancanza di normali relazioni sociali»
(ivi: 439). Per Arendt, infatti, è la molteplicità dei posizionamenti e delle prospettive a fondare
la vita pubblica. Nella società di massa, invece, gli individui sono «imprigionati» nelle singole
esperienze personali, che non cessano di essere tali anche se moltiplicate infinite volte
dall’omologazione e dal conformismo. Scompare così la possibilità di un mondo comune tra
gli individui e la realtà comincia ad essere vista sotto un unico aspetto, a partire da un’unica
prospettiva (cfr. ivi: 649-655).
Se in Le origini del totalitarismo Arendt mette a tema l’inedita conformazione del rapporto tra
individuale e collettivo della massa totalitaria, in Vita Activa tale riflessione si sviluppa
ulteriormente, conducendo a una nuova concezione dello spazio della politica, che implica
anche l’importante spostamento di attenzione dalla massa alla pluralità. Per la pensatrice –
che eredita il riferimento alla cultura classica, in particolare quella greca e aristotelica, e che
dunque considera la dimensione politica in rapporto a uno spazio privato, da cui è distinta per
contrasto, come nell’opposizione tra oikos e polis – lo spazio pubblico è ambito di azione e
parola condivisa, di libertà e trasformazione della realtà. Non coincide necessariamente con la
sfera istituzionale, ma anzi è espressione della stessa condizione umana, che porta a
compimento. Lo spazio pubblico è spazio discorsivo e di azione condivisa, è l’essere in
presenza di un pubblico di pari, ed è l’essere in comune, essere nello spazio pubblico significa
accedere alla realtà come in-between, poiché è nell’azione di concerto che si costituisce il
nostro mondo.
Arendt si richiama alla distinzione tra ambito pubblico e privato, recuperando la visione greca,
poiché rintraccia la causa fondamentale dell’esperienza totalitaria nel fagocitamento di
entrambi gli ambiti da parte del sociale, su cui si innesta la perdita della dimensione singolare
degli individui nella massa totalitaria. Per Arendt ciò che ha condotto alla violenza omologante

205
della massa totalitaria è stata infatti la progressiva e inesorabile sostituzione del sociale al
politico, che ha portato al declino sia dell’ambito pubblico sia di quello privato. La distinzione
greca tra spazio pubblico e privato impediva alla polis di violare i limiti dell’oikos e
contemporaneamente tentava di istituire la dimensione politica come luogo di eguaglianza e
libertà. La politica per i greci era infatti possibile solo nella distanza con la dimensione del
privato, connotata come luogo di necessità, irrazionalità, che trovava il suo centro nella casa e
nella famiglia (oikia), dove gli esseri umani vivono assieme spinti dal bisogno. Per i greci il
privato è il luogo di una privazione, in cui gli esseri umani non possono esercitare le loro facoltà
più alte, l’azione e la politica, le quali si realizzano solo nel momento comune. Così è anche
per Arendt, per la quale la comunità politica e la comunità rappresentano una seconda vita. La
politica è libertà, e lo spazio pubblico è l’ambito dell’attività politica che va intesa come
specificità umana, come sua eccedenza rispetto alle logiche della produzione e della
riproduzione e rispetto alle dinamiche legate alla sussistenza della specie o alla produzione di
beni scambiabili. La politica,
in questo senso, non è né produttiva né riproduttiva: è totalmente improduttiva e si esplica nella
relazione sempre contingente tra soggetti (Giardini, 2017b: 74).
Nel privato si è individui nella specie, nella politica si è soggetti nella pluralità. Questa visione
dello spazio pubblico non cancella le singolarità, ma anzi dà spazio all’unicità dei soggetti
politici. Gli esseri umani sono animali sociali, come insegna Aristotele, e per agire nel mondo
hanno bisogno di una dimensione plurale (Aristotele, 2009: 1253a). Questo si lega innanzi tutto
alla peculiarità della dimensione dell'azione – che per Arendt è ciò che contraddistingue la
condizione umana – che ha bisogno di essere esercitata in presenza di altri, di apparire nello
spazio pubblico (Arendt, 2004: 128). Il discorso e l’azione, elementi fondamentali dell’agire
politico, avvengono sempre in una condizione plurale (ivi: 127).
La politica si dà come spazio comune, condiviso, plurale, in cui si rivela il chi del soggetto, la
sua unicità, tramite l’azione e il discorso. La politica permette l’unicità nella pluralità. La
dimensione plurale tiene assieme i caratteri dell’uguaglianza e della distinzione, rendendo
impossibile le derive dell'individualizzazione e della massificazione.
Il dominio del sociale non è privato né pubblico. Con l’ascesa del sociale, tale distinzione viene
anzi oscurata: popoli e comunità politiche confluiscono nell’immagine di una grande famiglia
le cui faccende quotidiane vengono gestite da una gigantesca amministrazione domestica. Con
l’avvento della società di massa il sociale giunge ad abbracciare e controllare tutti i membri in
una società unica, rendendo lo spazio pubblico pura amministrazione. La società assume le
sembianze di una «famiglia superumana»: ci si aspetta da ogni suo membro comportamenti
omogenei, normalizzati da regole, uniformati (Arendt, 2004: 22). Nell’uguaglianza del
conformismo, il comportamento si sostituisce all’azione, minando la possibilità stessa di
politica. Ciò che la società di massa ha prodotto è dunque per Arendt la simultanea distruzione
sia dello spazio pubblico, poiché l’ascesa del sociale ha ridotto la politica a pura
amministrazione, sia di quello privato, che finisce con il coincidere con la sfera dell’intimità e
dell’individualismo (Benhabib, 1993: 106).

Società di massa e società dei consumi


Il totalitarismo segna una rottura fondamentale e, come abbiamo visto, costringe molte autrici
e autori a un radicale ripensamento del rapporto tra soggetti e collettività. Questa

206
preoccupazione si riattiverà nelle elaborazioni immediatamente successive, nel quadro di un
nuovo tipo di massificazione, legato stavolta all’affermarsi della cosiddetta società dei
consumi. Sono gli anni in cui Jean-Paul Sartre designa la mas-sa come una serialità omologata,
un insieme passivo di individui senza alcun rapporto tra di loro, «mero collettivo»,
«molteplicità discreta» (Sartre, 1963: 383-393). La «serialità» individua una pluralità di
solitudini in cui gli individui si trovano aggregati solo in base a rapporti formali estrinseci che
determinano sia il fine, sia le regole e le funzioni del loro essere insieme. Tra soggetti non c’è
reciprocità; sono atomizzati, alienati. Ogni individuo nella serie è intercambiabile, un numero
in un meccanismo a lui trascendente, soggetto e oggetto di una serie di atti quotidiani ricorsivi
e obbligati.
Nei decenni successivi la società dei consumi di massa diviene elemento centrale di numerose
riflessioni, da quelle della Scuola di Francoforte, e in particolare di Adorno e Horkheimer, fino
a quelle di Debord e Baudrillard. I teorici della Scuola di Francoforte descrivono la società dei
consumi come un dominio spoliticizzato e spoliticizzante, prodotto dall’imporsi di una
razionalità tecnocratica, che integra i soggetti in una dimensione sociale divenuta
prevalentemente amministrativa; un dominio che costituisce masse acritiche e dormienti, con
l’ausilio dei mass media e di nuove tecniche di manipolazione, volte a garantire comportamenti
funzionali ai nuovi imperativi di accumulazione.
A differenza delle impostazioni precedenti, per i teorici della Scuola di Francoforte la società
dei consumi non è segnata da una progressiva e pericolosa assimilazione tra Stato e società,
bensì da un nuovo ordine autoritario che espropria ed esautora la stessa società civile.
Diversamente da Arendt, che lo considerava una forma inedita del politico, per i francofortesi
il totalitarismo appare come il compimento delle logiche sociali, politiche e metafisiche della
tradizione occidentale. Il dissolvimento della praxis nella poiesis, la tecnicizzazione e lo
svanire dell’azione umana, la mitologia razionalistica dell’unità e della totalità, che annulla la
dimensione plurale dei soggetti e delle a-zioni, diventano così gli ingredienti fondamentali,
intensificati dalle dinamiche del moderno, dell'esperienza totalitaria. È dunque necessario
ripensare criticamente il Moderno.
Questo approccio critico e genealogico porta Horkheimer e Adorno a riconsiderare
l’Illuminismo. Si tratta di un’epoca contrassegnata dal logos, da una mentalità razionalista, di
cui è portatore il soggetto che si emancipa; tale emancipazione si fa attraverso la recisione dei
propri legami con lo stato di natura e con la natura stessa, che diviene così ambito di esercizio
della tecnica, dell’appropriazione e del dominio (Adorno, Horkheimer, 2010). Dal dominio
sulla natura al dominio sull’altro, sull’umano inteso non come soggetto ma come specie, il
passo è breve. È attraverso questi passaggi che l’esperienza totalitaria si rivela essere non un
tradimento, ma il compimento della logica razionalista dell’Illuminismo e della sua violenza
intrinseca. Se è dunque vero che l’idea di libertà è inseparabile dall’Illuminismo e dal suo
lascito teorico e politico, è altrettanto vero che tale lascito contiene elementi di violenza e
dominio.
La società del secondo dopoguerra, reduce dal dramma totalitario, corre così incontro a un
nuovo tipo di totalitarismo, generato stavolta da quella che Horkheimer e Adorno definiscono
l’«industria culturale». Mentre l’espressione «cultura di massa» sembra suggerire ancora
un’idea di cultura nata dalle masse e a esse legata, «industria culturale» – sottolineano gli autori
– evidenzia la posizione non sovrana, non autonoma, né creatrice del soggetto che, in quanto

207
utente, viene da essa reso oggetto passivo. I nuovi mezzi di comunicazione diffondono «la voce
del padrone» attraverso la cultura e lo svago; non sono mezzi neutrali, ma veri e propri
strumenti ideologici, orientati a produrre negli individui un’accettazione passiva dell’esistente,
insieme all’omologazione e alla
paralisi mentale. Contemporaneamente, arte e cultura vengono integrate a mezzi del sistema di
dominio. Sotto la maschera della democratizzazione della cultura, sottolineano gli autori, si
cela il gioco che tramuta l’evasione propria del tempo libero in accettazione del tempo di
lavoro.
La cultura diviene così funzione del sistema, mentre la società si tramuta nell’oggetto passivo
di un completo e totale controllo da parte della gestione amministrativa, e nella vita pubblica il
pensiero viene ridotto a merce (ivi: 4). La cultura diviene celebrazione, apologia della società,
e la critica perde se stessa, riducendosi ad affermazione del pensiero dominante e cospirazione
con esso. Tutto è integrato nel sistema, in un circolo consumistico ininterrotto di manipolazione
dei bisogni, dove l’industria culturale defrauda continuamente di ciò che promette (ivi: 148).
Automobili, bombe e cinema assolvono tutti alla stessa funzione: tenere insieme il sistema.
Nel sistema «per tutti è previsto qualcosa perché nessuno possa sfuggire; le differenze vengono
inculcate e diffuse artificialmente» (ivi: 129). Tutto diviene identico: la concorrenza e la
possibilità di scelta non sono che apparenze illusorie. L’industria culturale alimenta in modo
sistematico il culto feticistico dell'individualità che trasforma i termini dell’individuazione
nell’imitazione degli altri, nell’omologazione, in gusti e scelte che esprimono la «libertà del
sempre uguale» (ivi: 181). Horkheimer e Adorno individuano allora una possibile via di
resistenza nel ritorno alle singolarità concrete e insieme nella lotta contro gli assoluti della
ragione. Niente categorie assolute: il soggetto deve imparare di nuovo a rapportarsi alla propria
alterità,
fuori dai dispositivi della concettualizzazione; deve imparare a non sublimare le proprie
pulsioni, prestando attenzione al concreto; deve lottare contro la rinuncia e il principio
prestazionale; deve affermare le passioni contro il logos, le pratiche contro la pura teoria (Galli,
2010: XIX).
I mutamenti sociali compendiati da Adorno e Horkheimer nella formulazione dell’«industria
culturale» assumono un ruolo centrale anche per il gruppo francese dei situazionisti, e in
particolare per Guy Debord, nel suo La società dello spettacolo (1967). Nello stile serrato che
lo ha reso celebre, Debord sostiene senza esitazioni che la rivoluzione, così come le speranze
sociali che incarnava, è definitivamente morta. La società dei consumi è divenuta l’unica cifra
della società. Nella società a lui contemporanea lo «spettacolo» ha il potere di assorbire tutto
ciò che vi si op-pone, e dilaga inglobando in sé ogni cosa, ogni vita. Nella società dello
spettacolo il carattere simbolico prende il sopravvento sui caratteri materiali della merce,
rendendola pura astrazione. In questo senso, esso è l’ultima proiezione della merce, privata del
suo valore intrinseco e ridotta a puro valore di scambio. Per questo motivo, il lavoro perde il
proprio ruolo produttivo per divenire consumo: il ruolo del lavoratore si riassume nel
consumare, prima ancora che produrre, beni materiali. «Lo spettacolo non è un insieme di
immagini ma un rapporto sociale tra individui mediato da immagini» (ivi: 4). «Spettacolo» non
va inteso come ornamento, velleità, distrazione, poiché lo spettacolo è l’espressione delle stesse
forze produttive in un contesto in cui la produzione è divenuta produzione di immateriale. Tale
progressiva smaterializzazione coinvolge la stessa società. Nella società dello spettacolo,

208
infatti, non c’è impatto diretto con la realtà delle cose: tutto è mediato e filtrato dallo spettacolo
e dunque tutto può essere messo in discussione, dichiarato falso. Tutto, tranne lo spettacolo.
Falsa scelta nell’ambito di un’abbondanza spettacolare, unificazione e banalizzazione, anche
dei luoghi, soppressione della strada, soppiantata dai mezzi di comunicazione: la società dello
spettacolo è una società di individui isolati assieme. L’io è annientato, assediato dal-la
presenza/assenza del mondo, in cui non sa più riconoscere i confini tra vero e falso. L’unica
azione possibile, commenta lapidario Debord, è il consumo. La società non è altro che una
continua accumulazione di spettacoli, dove tutto ciò che un tempo era vissuto è ora divenuto
rappresentazione. In questo senso, l’unica differenza riscontrabile tra i diversi tipi di regimi
politici è quella tra sistemi in cui lo spettacolo è concentrato, come nelle dittature e nei
totalitarismi, e sistemi in cui invece lo spettacolo si dà in forma diffusa, come nelle democrazie
occidentali, dominate dal consumismo.
La società dei consumi descritta da Baudrillard assume gli stessi inquietanti tratti individuati
da Debord: supremazia del valore di scambio su quello d’uso, l'oggetto che si muta in puro
segno (Baudrillard, 2010). Il sistema degli oggetti si trasforma in un sistema di segni, un
sistema di comunicazione generalizzata. Al ritmo incessante dei propri bisogni – creati e
moltiplicati artificialmente – gli individui perdono se stessi, alienandosi nella ricerca di oggetti
da cui vengono continuamente spossessati. Il consumo non crea nulla, riesce solo a divorare.
L’esperienza dell’impossibilità di ottenere quegli oggetti, che la società ci presenta in modo
seduttivo come facili da ottenere, conduce i soggetti alla perdita di una relazione semplice con
quegli stessi oggetti, alla perdita di un possibile rapporto felice con le cose. La società si
caratterizza così come insieme di individui alienati, spossessati, segnati dall’esperienza di una
incessante mancanza.

Brani tratti da F. Castelli, Lo spazio pubblico, Ediesse, Roma 2019

LETTURE E VISIONI CONSIGLIATE


G. Perec, Le cose, 1965

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Il termine [decolonizzazione] definisce eventi diversi e un processo storico complesso. Parola


di uso recente, diventa comune solo dopo il 1960 per definire le lotte di indipendenza e di
liberazione dalle potenze coloniali. Nonostante si sia parlato di colonialismo e
decolonizzazione anche in relazione ad altre epoche, ci si riferisce qui al processo iniziato con
la Seconda Guerra Mondiale e proseguito sino alla seconda metà del Novecento, che ha portato
alla dissoluzione dell'assetto coloniale in buona parte del mondo. Il termine risulta
indissolubilmente connesso a quelli di colonialismo e colonizzazione, intesi come il controllo,
l'insediamento e l'imposizione di un paese su un altro o su un territorio specifico, distinto per
collocazione geografica, politica, culturale e linguistica.
L' Oxford English Dictionary definisce la decolonizzazione come «ritiro di una potenza
coloniale dalle ex colonie e acquisizione dell'indipendenza politica o economica di tali
colonie»; era anche sinonimo di «trasferimento di potere», una definizione più limitata per
indicare la «cessazione della sovranità politica e del controllo esercitati dalla madrepatria su

209
un territorio da essa dipendente, [. . .] questa fase di transizione poteva concludersi con una
completa emancipazione delle ex colonie dai molteplici aspetti della loro dipendenza, ma
poteva anche non giungere a tanto, almeno a breve termine» (voce «Decolonizzazione»,
Enciclopedia Treccani).
Quello che dalle definizioni dei differenti dizionari sembra un passaggio, un cambiamento di
gestione economico-politica, fu uno dei grandi spartiacque del secolo scorso che ridisegnò
completamente la geografia e gli assetti mondiali; non fu affatto un semplice trasferimento o
cessione di potere ma un processo perlopiù violento, le cui conseguenze arrivano sino ai nostri
giorni, con profonde implicazioni sociali e culturali.
Caratteristiche distintive della decolonizzazione, che segue la Seconda guerra mondiale, sono
la nascita di nuovi Stati-Nazione e la presenza delle Nazioni Unite. Queste ultime, fondate nel
1945, contavano all'epoca 51 Stati membri rispetto agli attuali 193; quelli ammessi lungo
questo lasso di tempo sono per la maggior parte nati dal crollo dei regimi coloniali e hanno
quello che per lungo tempo è stato definito il Terzo Mondo. Già con la Carta Atlantica del
1941, gli alleati proclamavano il diritto di tutti i popoli a scegliere la propria forma di governo,
sostenendo quel principio di autodeterminazione che ha attraversato il Novecento e viene
rivendicato anche oggi. Il principio dell'autodeterminazione divenne norma universale e «i
nuovi stati furono messi col tempo nella grande 'famiglia delle nazioni' che, a livello
istituzionale si concretizzò nelle Nazioni Unite» (KENNEDY 2017). Ci furono vari tentativi di
pensare e creare qualcosa di diverso (panafricanismo, panarabismo, ecc,) ma alla fine la
decolonizzazione «immaginò» la Nazione (ANDERSON 1983); mentre le narrazioni nazionali
raccontano la forma Stato-Nazione come eterna, le cui origini si perdono nel tempo, Anderson
ci riporta alla genesi dell'identità nazionale e del suo peculiare modo di descriversi e, appunto,
di immaginarsi. I concetti di Nazione e nazionalismo sono dunque dei prodotti culturali e per
poterli interpretare è utile considerare come sono nati storicamente, in quale modo sono
cambiati nel corso del tempo, come gli individui e le comunità hanno pensato sé stesse […].
La risposta concreta e simbolica della decolonizzazione affonda quindi le sue radici non solo
nelle vicende storiche ma anche nelle parole che nutrirono tali eventi e che definirono linguaggi
che ancora appartengono alla contemporaneità. Il colonialismo si dotò infatti di un proprio
ordine del discorso, atto principalmente alla definizione dell'altro, e quindi di sé, da cui
scaturirono le idee sulla superiorità occidentale nei confronti del resto del mondo dominato o
da conquistare, e la conseguente necessità di civilizzare i popoli inferiori. Con il termine
«orientalismo» Edward Said sottolinea lo stretto rapporto esistente tra il vasto sapere
sull'Oriente, che diventa simbolo dell'alterità, e il colonialismo: estendendo la nozione
foucaultiana di discorso all'analisi dei rapporti tra l'Occidente e gli «altri», l'autore fa emergere
una rappresentazione culturale rigida, che reifica le società, le culture e gli individui a queste
appartenenti (SAID 1978).
Nella risposta nazionalista data alle soffocanti dicotomie prodotte dal linguaggio delle potenze
coloniali, oltre alla pragmaticità di rispondere a uno Stato nazionale attraverso la creazione di
un nuovo Stato, si gioca an quella che Homi Bhabha chiama «imitazione ironica» (mimicry)
(BHABHA 1994), in cui il colonizzato compie un atto mimetico, riproducendo le forme
culturali imposte ma dando vita a soluzioni inedite e inaspettate. Questa appropriazione dei
modelli dominanti è, secondo lo stesso Bhabha, uno dei punti deboli del discorso coloniale,
poiché prevede un recupero della propria identità da parte della subalternità che produce, in chi

210
esercita il potere, una notevole destabilizzazione. L'opera di civilizzazione, il diritto delle
potenze europee all'espansione, la Nazione come paradigma sono parte di una logica che viene
riproposta dall'effetto delle lotte di liberazione facendo in modo che il colonialismo stesso fosse
infine «considerato una violazione della dichiarazione universale dei diritti umani» e,
analogamente, l'autodeterminazione, così come prevista dal diritto internazionale, finì per
essere interpretata quale diritto a essere riconosciuti come Stati-Nazione (KENNEDY 2017).
L'immaginario nazionale occidentale viene sussunto e riformulato dalla subalternità
colonizzata che rivendica per sé gli stessi diritti del colonizzatore, attraverso una forma politica
di governo precedentemente subita.
Gli squilibri prodotti dai governi coloniali non si sono ancora esauriti, troviamo infatti rinnovati
rapporti di dipendenza, dove la questione del potere, dell'autodeterminazione effettiva e le
parole usate del colonialismo definiscono il presente, facendo da sostegno alla nuova dicotomia
prodotta dalla decolonizzazione, che divide il mondo in paesi sviluppati e paesi in via di
sviluppo, Primo e Terzo Mondo, centro e periferia. La difficoltà e la complessità legate al
fenomeno coloniale si ripercuotono con immediatezza anche nella narrazione che è seguita alla
decolonizzazione: nei paesi colonizzatori, nel decidere se e come raccontare una determinata
pagina della propria storia, si sono date molto spesso forme di oblio differenti, basti pensare
alla negazione della vicenda coloniale italiana che ancora non entra a far parte della narrazione
nazionale in quanto «patrimonio scomodo» da riconoscere (FIORLETTA 2019).
Gli studi postcoloniali mostrano e denunciano, da diversi approcci disciplinari, come i rapporti
coloniali non si siano esauriti, così come non lo sono gli effetti, le conseguenze e le categorie
interpretative. L'inferiorizzazione delle popolazioni colonizzate e il ritenerle incapaci di
autodeterminazione come popoli e come singoli individui si trascina sino ad oggi ed è visibile
in quella «linea del colore» (DU BOIS 1903) che attraversa ancora l'Europa e non è
oltrepassabile in alcun modo, Il concetto di bianchezza, introdotto dai Whitness Studies, ci
aiuta a vedere la capacità del colonialismo bianco di porsi come soggetto neutro che definisce
il colore degli altri; un approccio che fa emergere la definizione della razza, il razzismo e la
continua impresa di razzializzazione, che accompagnano l'identità occidentale.
La persistenza di tale immaginario in Occidente ha ripercussioni in diversi ambiti e relazioni,
dalle migrazioni alle lotte di liberazione delle donne nel mondo. Quest'ultimo aspetto è un altro
perno attorno al quale hanno ruotato colonizzazione e decolonizzazione: le donne «altre» sono
sempre state viste come oppresse da liberare, dalle prime colonizzazioni europee sino alle
guerre e ai conflitti odierni. Cambia il racconto, a seconda delle epoche e dei luoghi, ma le
colonizzate sono bellissime, mostruose, misteriose, bestiole da domare, ipersessualizzate,
comunque da civilizzare e liberare dal giogo di società inferiori che le opprimono. Questo
discorso arriva sino a noi: «disvelare» le donne è ancora il segno della superiorità occidentale
e dell'inettitudine culturale di altre società e paesi. Il corpo delle donne è un confine culturale
sul quale si giocano potere e identità. Non a caso l'immagine della Nazione è quasi sempre
«Donna».
Evidente diventa l'incapacità di autodeterminazione delle donne «altre» che necessitano ancora
di civiltà e valori emancipatori occidentali per essere libere sino in fondo, persino
dall'oppressione occidentale. Il paradosso doloroso dell'ex colonizzatore (e ahimé, ex
colonizzatrice) che si ritiene fondamentale per la stessa decolonizzazione delle donne «altre»
è in atto. Non è un caso che a parlare della necessità di una decolonizzazione delle menti e delle

211
pratiche siano state in particolar modo le femministe e gli studi di genere. Le riflessioni dei
femminismi, e sul femminismo, hanno dato avvio ogni volta, nel corso del tempo, a un modo
nuovo di costruire e interrogare diversi campi del sapere, portando in superficie le dinamiche
di potere soggiacenti, anche tra donne. A partire dagli anni Settanta, il cosiddetto femminismo
nero porta alla ribalta la questione, nutrendo ulteriormente il dibattito attraverso prospettive e
categorie di analisi che si aggiungono a quella di genere, quali «razza», classe, orientamento
sessuale, appartenenza religiosa e così via, definendo inoltre nuovi approcci di analisi che
possono essere intersezionali, postcoloniali e decoloniali. Indubbiamente sono i femminismi
«altri» che contestano, spostano e riscrivono la narrazione dominante, denunciando
l'atteggiamento coloniale di un femminismo occidentale descritto come bianco, borghese e
incapace di riconoscere le differenze al proprio interno. Questi femminismi mettono in
discussione il concetto di «Donna» come categoria universale, che darebbe per «scontata» una
sorellanza globale. La non compiuta decolonizzazione si esprime attraverso la difficoltà,
quando non l'impossibilità, della soggettività subalterna di esistere, parlare e descrivere sé
stessa, in un vortice di «violenza epistemica» (SPIVAK 1988), che arriva a impedire la
possibilità di alleanze transnazionali. Le donne non occidentali sono ricondotte alla irriducibile
«differenza del Terzo Mondo», ovvero «qualcosa di immobile e astorico che sembra opprimere
la maggior parte, se non tutte, le donne di questi paesi», tanto che ognuna conduce «un'esistenza
essenzialmente monca a causa della sua appartenenza al genere femminile (vale a dire,
sessualmente non libera) e del suo essere del 'Terzo Mondo' (cioè ignorante, povera, non
istruita, legata alla tradizione, costretta alla vita domestica, dedita alla famiglia, vittimizzata,
ecc.)» (MOHANTY 2003). La subalternità di alcune soggettività e lotte rispetto all'egemonia
bianca e coloniale rende chiara quanto la fase postcoloniale non si sia mai conclusa e la
necessità tuttora attuale della decolonizzazione, non solo di paesi, economie, pensieri ma anche
di quegli ambiti che si considerano liberi da tale potente condizionamento.
Decolonizzazione è quindi gesto e parola, qualcosa ancora in atto, a cui si resiste o per cui si
lotta, un termine generico per un fenomeno ampio che ha avuto caratteristiche specifiche a
seconda del tempo e dei luoghi in cui è avvenuta, che intende indicare la fine del colonialismo
e la sua capacità di rinnovamento, è logica feroce dell'ordine di un discorso, è narrazione
imprevista che sovverte.

S. Fiorletta, “Decolonizzazione”, in F. Castelli, F. Giardini, F. Raparelli, Conflitti.


Filosofia e politica, Le Monnier 2020

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Il Novecento è un secolo intenso scandito da lotte, mutamenti e acquisizioni fondamentali per


le donne, e che mette in questione lo sguardo che la società elabora sulle loro vite per crearne
uno nuovo, dai contenuti mobili, contingenti, a partire da sé. Questo intero secolo di lotte, per
comodità, viene solitamente suddiviso in due momenti fondamentali (a cui poi se ne aggiunge
un terzo, sul finire) spesso rappresentati come distinti e opposti, senza interconnessioni,
scambi, sbavature. Secondo questa distinzione da una parte troviamo il femminismo
dell’emancipazione, le suffragiste, Simone de Beauvoir; la richiesta di inclusione e
partecipazione politica, di riconoscimento dei diritti; la libertà che passa per l’indipendenza

212
economica e l’accesso al lavoro. Una postura secondo la quale la parità di diritti e
l’indipendenza economica sono alla base della fuoriuscita dalla posizione seconda che segna
l’oppressione delle donne. Un femminismo per cui occorre divenire uguali agli uomini, essere
incluse nel loro mondo. Dall’altra, c’è il femminismo della liberazione, che mette al centro
l’autodeterminazione delle singole attraverso un processo di lotta collettiva. Un femminismo
portato avanti da quelle donne, spesso colte e provenienti dal ceto medio, che durante gli anni
settanta si sono accorte che l’emancipazione non le aveva rese più libere e che l’“essere uguali
agli uomini”, da solo, non era abbastanza. Per diventare “uguali”, infatti, avevano dovuto
aderire a una norma eteronoma, sostituendo la precedente situazione di inferiorità
discriminante con un’integrazione mutilante, che assumeva e rafforzava la misura maschile.
Rifiutando l’omologazione che cancella interi pezzi di esperienza e di vita, queste donne
spostano lo sguardo sui propri vissuti, sulla materialità delle loro esperienze quotidiane, che
diventano il punto da cui ripartire facendo vuoto, rompendo i legami con la tradizione
occidentale patriarcale. Il piano si sposta dalla questione dell’indipendenza materiale a quello
dell’autodeterminazione che passa per la sottrazione dalla cultura elaborata dal patriarcato
verso mondi e forme nuove, verso un modo altro di fare politica, basato sulle relazioni e su
nuove pratiche condivise.
Tradizionalmente si riconducono a questi due momenti la distanza tra emancipazione e
autodeterminazione. Nella realtà dei fatti è difficile separare nettamente le due posture, se non
a rischio di riprodurre il gioco patriarcale del pensare per opposizioni. Occorre dunque far
saltare le categorie e cominciare a pensare i due momenti come due posizionamenti: differenti,
sì, a volte in contrasto, ma legati e intrecciati, in un andirivieni contaminato e inaddomesticato.
Un buon modo per fare disordine in questi due cassetti così ordinati è partire da Il secondo
sesso, tradizionalmente riconosciuto come il testo fondamentale del femminismo
emancipazionista e che invece deborda continuamente dal suo perimetro. Nel suo testo del
1949, infatti, Beauvoir traccia un filo dall’indipendenza – economica, giuridica –
dell’emancipazione alla liberazione collettiva, mettendo al centro un’idea di libertà sì nutrita e
legata alle circostanze ma fatta attraverso le relazioni con le altre. Il secondo sesso, a partire da
un confronto serrato con tutti i saperi che nel corso dei secoli hanno elaborato un sapere sulle
donne arrivando a definirle senza via di scampo, descrive l’oppressione femminile e rielabora
con finezza l’idea esistenzialista di libertà a partire da un punto di vista sessuato e legato alla
dimensione che Beauvoir stessa definisce «dei mezzi concreti». L’oppressione, sostiene, pone
le donne in una posizione inautentica rispetto al mondo, a partire dalla quale non possono agire
né essere libere. Postulandole come “l’Altro” dell’uomo, la società lascia loro poco spazio per
una reale scelta e azione. Possono essere madri, mogli, sante, narcisiste, isteriche, prostitute,
mistiche, ma non possono essere davvero soggetti di libertà. Ogni soggetto comprende se stesso
e supera la propria immanenza nel rapporto con l’alterità, ma gli uomini, spiega, pongono la
donna sempre come intermediario, l’Altro assoluto, con cui non è prevista reciprocità. Come
Luce Irigaray e il pensiero della differenza sessuale sottolineeranno, ci sono diversi modi per
immaginare un rapporto con la propria alterità, e questi sono sempre sessuati. Allo stesso
tempo, queste relazioni sessuate possono essere immaginate fuori dalle dicotomie
gerarchizzanti e oppositive su cui si è strutturato il pensiero occidentale.
La stessa rappresentazione del mondo in cui le donne sono immerse, sostiene Beauvoir, è opera
degli uomini, che lo descrivono dal proprio punto di vista, confondendolo con la verità assoluta.

213
Le donne, dunque, sognano attraverso i sogni degli uomini, guardandosi con occhi maschili.
La Donna è stata inventata: tutto quello che la società ci insegna sull’essere donne ha a che fare
con il mondo creato dagli uomini, a partire dai loro sogni e dai loro desideri. Per questo “Donna
non si nasce, lo si diventa”. La non aderenza della realtà a questa immagine statica che
trascende e ingloba tutti i vissuti reali, decreta paradossalmente la non-femminilità delle donne
e non, invece, l’inadeguatezza dell’immagine costruita.
La privazione di esteriorità e di mezzi concreti per agire sul mondo assoggetta
permanentemente ogni donna a un altro, un uomo che può, lui sì, entrare in relazione attiva con
il mondo. Ma se è vero e immediatamente riscontrabile nelle parole dell’autrice che il primo
passo per fuoriuscire da questa posizione seconda, segnata da oppressione e inautenticità, è
riprendere in mano la possibilità di agire un progetto di vita e operare delle scelte autonome
grazie innanzitutto a una indipendenza economica e giuridica, è anche vero che per divenire
pienamente soggetti di libertà, le donne devono svincolarsi dalla funzione di puro Altro in cui
il maschile le ha confinate, il cui destino è modellabile a seconda dei desideri e delle urgenze
della psicologia maschile. Quando avrà compiuto anche questo spostamento le alterità saranno
infine due: l’uomo per la donna e la donna per l’uomo. Ecco dunque che le istanze
tradizionalmente attribuite in maniera netta ed esclusiva alla postura emancipazionista o al
femminismo di liberazione si trovano così intrecciate, si richiamano l’una con l’altra. Inoltre,
questo spostamento coinvolge la donna immediatamente su un piano collettivo, così come
suggeriscono le ultime pagine del testo: «Certamente, non bisogna credere che basti modificare
la sua [della donna] condizione economica perché possa trasformarsi […] Bisogna che si faccia
una pelle nuova e si tagli da sé i suoi vestiti. Non può arrivare a questo se non attraverso
un’evoluzione collettiva».
Quello stesso «Donne non si nasce, lo si diventa»62 può essere letto anche come espressione,
creazione, autodeterminazione: non esiste una differenza e una natura femminile prestabilita,
radicata nella sua biologia. Le differenze tra uomini e donne esistono certamente, sul piano
morfologico e sessuale, e spesso hanno un peso nelle loro vite, ma queste non bastano da sole
a giustificare la dominazione patriarcale e l’oppressione delle donne, la loro esclusione dalla
società e dalla possibilità di una vita piena e autentica.
Per le donne degli anni settanta Il secondo sesso è stato un testo fondamentale, che ha dato alle
donne gli strumenti per prendere coscienza della propria oppressione, per oggettivare la
questione e situare le difficoltà senza interiorizzarle, scoprendo di non essere isolate, facendo
emergere la coscienza di essere gruppo sociale, di avere delle sorelle.
A partire dagli anni sessanta la situazione delle donne in Nord America e in Europa muta
rapidamente. Scoprono la dimensione del collettivo, delle assemblee, delle piazze; assieme ai
compagni uomini, avanzano una critica radicale al boom economico e all’idea di libertà che
passa per il consumo, sperimentando le contraddizioni di una lotta comune in cui i rapporti di
genere non siano elemento di riflessione. Ne faranno un punto politico fondamentale, mettendo
al centro i corpi, il desiderio, la sessualità e creando nuove pratiche, come quella dei piccoli
gruppi, dell’autocoscienza, del separatismo. Dall’America all’Europa, agiranno forme
conflittuali espressive, potenti, molto distanti dalle modalità di conflitto tradizionali: dalla
contestazione di Miss America del 1968, allo sciopero delle donne del 26 agosto 1970

62
Simone de Beauvoir, Il secondo sesso, il Saggiatore, Milano 2008, p. 694.

214
organizzato in 90 città americane (e in solidarietà al quale le donne parigine danno vita
all’azione sulla tomba del Milite Ignoto con la quale si fa coincidere convenzionalmente la
nascita del Mouvement de libération des femmes); dal funerale della “Femminilità
Tradizionale” al cimitero di Arlington del 1968, alla lotta attraverso i processi pubblici (come
nel caso, in Italia, del processo a Gigliola Pierobon, o delle 263 donne messe sotto accusa a
Trento nel 1974 per aborto clandestino cui 2500 italiane risposero firmando una petizione
nella quale dichiararono di aver abortito anche loro); dalle piazze gremite fino all’uso
del manifesto come pratica politica (tra cui ricordiamo Manifesto SCUM di Solanas, Ma-
nifesto Bitch di Joreen, il Manifesto delle Redstockings, il Manifesto di Rivolta femminile).
In Italia nascono numerosi gruppi, molti dei quali si concentrano sulla libertà di scelta e la
liberalizzazione dell’aborto (come il Comitato romano aborto e contraccezione e i gruppi
clandestini a esso collegati); vi sono poi associazioni come l’Unione donne italiana (UDI),
legata al PCI; il collettivo del Pomponazzi, legato alla tradizione marxista; il Collettivo di lotta
femminista (poi Movimento femminista romano) di via Pompeo Magno; il Movimento di
liberazione della donna; il Centro italiano femminile, di area cattolica; le Nemesiache a Napoli,
Lotta femminista a Padova, i collettivi che si dedicano alla didattica e lottano per l’inserimento
dell’educazione sessuale nelle scuole, tra cui il Collettivo scuola movimento femminista
romano; il Gruppo femminista per la salute della donna, che praticava il self-help; La
Maddalena, prima associazione culturale interamente gestita da donne; il Centro culturale
Virginia Woolf, conosciuto anche come Università delle donne, del ’79; inoltre, nascono in
questo periodo tantissime riviste femministe, consultori autogestiti, collettivi di quartiere nelle
periferie.
In Francia, sotto il nome comune di Mouvement de libération des femmes (mlf) troviamo
tantissime donne e posizionamenti, come le Féministes révolutionnaires, che si proclamano
“radicali”, organizzano scioperi delle donne, rifiutano i partiti politici; il Cercle Dimitriev; le
comuniste rivoluzionarie che si riuniscono attorno alla rivista “Les Pétroleuses”; i gruppi non
organizzati come Spirale (1972), per la ricerca di una cultura delle donne, Écologie et
féminisme, il Movimento per la libertà di aborto e contraccezione (MLAC) del 1973 e Choisir,
Musidora (1973), che raggruppa circa 150 cineaste, i Gruppi di lotta delle donne (Glf) che dal
1974 in poi nascono in tutta la Francia; vi è poi la Ligue du droit des femmes, guidata da
Beauvoir, dal cui gruppo giuridico nasce S.O.S.-Femmes-Alternatives, che combatte la
violenza sulle donne creando case rifugio e di autonomia; il Front Lesbien, il Glife (Groupe de
liaison et d’information femmes et enfants) e molti altri.
In questa costellazione di pratiche e gruppi ricorrono alcuni nodi: la questione dell’aborto e
dell’autodeterminazione, l’attenzione alla materialità dei condizionamenti imposti dal potere
patriarcale (come nel caso delle americane Redstockings), la questione del rapporto con gli
uomini. Da una parte, vi è chi, come le Redstockings o Solanas, individua tutti gli uomini come
oppressori, e ogni uomo come nemico; dall’altra c’è la spinosa questione del rapporto con i
compagni uomini per donne che fino a poco prima abbracciavano lotte e riflessioni della
controcultura e della sinistra radicale. Inoltre, il corpo a corpo con il marxismo accomuna le
riflessioni di numerosi gruppi come il Cercle Dimitriev (dal nome della comunarda fondatrice
dell’Union des femmes), il gruppo Féminin masculin avenir (poi Féminisme marxisme action),
di cui fece parte anche Christine Delphy, il gruppo padovano di Lotta femminista e molti altri.
In modi diversi, questi gruppi evidenziano il legame tra patriarcato e sfruttamento capitalista,

215
contestando l’idea che l’oppressione di classe sia la sola a pesare sulle loro vite e che le donne
– tutte le donne – subiscono un’oppressione specifica legata al loro genere. Come sottolineerà
il gruppo italiano del Cerchio spezzato, da un lato la coscienza di classe non parifica la
condizione uomo-donna; dall’altro, sono le condizioni materiali che creano i presupposti
dell’oppressione femminile. Abolire il capitalismo non equivale ad abolire il patriarcato. Allo
stesso modo questi gruppi criticano la divisione sessuata del lavoro e portano avanti lotte
“contro/al” salario domestico.63 Non meno burrascoso è il rapporto con i partiti. Basti pensare
alla sorte dell’italiano Movimento di liberazione della donna, federato del Partito radicale,
contestato al suo primo congresso del ’71 da Rivolta femminile, il Cerchio spezzato e il Fronte
italiano di liberazione femminile che richiedono l’espulsione degli uomini dall’aula e tutti i
gruppi femministi abbandonano la sala.
A differenza di alcune associazioni – come la now (National Organization of Women) di Betty
Friedan, l’Uff (Union des femmes françaises), la Ligue du droit des femmes e l’UDI in Italia –
molti di questi collettivi chiudono i conti con la cosiddetta “questione femminile” e, nell’idea
che nel sistema etero-patriarcale non è possibile alcuna uguaglianza, portando avanti una critica
serrata alla lotta per l’inclusione, come nel caso del gruppo Demau (Demistificazione
autoritarismo patriarcale) e di Rivolta femminile. Occorre definire da sole i termini della
propria lotta, come affermava il Westside Group, il primo gruppo femminista radicale di
Chicago.
Come sottolinea anche il Manifesto di Rivolta femminile, l’inclusività è un paradigma
opprimente, che costringe le donne ad aderire a una norma eteronoma che ne cancella
esperienze e vissuti. Occorre invece procedere per tagli, rotture, sottrazioni, allontanandosi
dalle posizioni già attribuite dal maschile, dai valori e dalle misure del patriarcato. In questo
spostamento i corpi e i desideri sono la leva per una nuova postura politica, radicata nel partire
da sé e nell’idea che il personale sia politico. Il posizionamento sessuato porta a nuove pratiche
e a una nuova idea di politica, che non coincide più con l’ambito istituzionale, e che non può
essere ideologica, né avere contenuti fissi, che è antiautoritaria, libertaria e che, abbiamo visto,
entra in rotta di collisione con le logiche dell’organizzazione partitica e dei movimenti
rivoluzionari. Il potere è rifiutato, così come le categorie su cui si fonda (in primo luogo la
distinzione pubblico/privato), che non hanno alcun legame con l’esperienza reale delle donne,
in cui tutto è intriso di politicità e politicamente normato. Allo stesso modo, la loro lotta non è
riconducibile ai modi classici della democrazia rappresentativa. Fondamentale, per molti di
questi gruppi, è l’esperienza di una pratica politica separata che, lungi dal veicolare l’idea di
una spartizione del mondo, ha aperto alle donne la possibilità di ripensare e regolare i propri
rapporti in assenza del maschile, elaborando mediazioni femminili impreviste all’interno del
sistema dei rapporti sociali tradizionali. Attraverso la pratica dell’autocoscienza (a cui si
rifanno, ad esempio, gruppi come Rivolta femminile o Anabasi in Italia), le donne possono

63
Il contributo più conosciuto sul tema è il testo del 1975 Wages Against Housework di Silvia Federici, laddove,
invece, altri collettivi, come i gruppi di Lotta femminista e di Salario al lavoro domestico di Modena e Ferrara,
reclamano appunto una lotta per il salario al lavoro domestico. Il punto sollevato dal testo di Federici si può
riassumere nell’idea che reclamare un reddito per le attività domestiche non sia una questione esclusivamente
economica, ma politica e rivoluzionaria («l’unica prospettiva rivoluzionaria da un punto di vista femminista»,
Silvia Federici, Salario contro il lavoro domestico, in Deborah Ardilli (a cura di), Manifesti femministi, Morellini-
Vanda, Milano 2018, p. 93) capace di demistificare e sovvertire il ruolo in cui la società capitalista ha relegato
storicamente le donne.

216
operare una centratura sulla propria esperienza e sulle contraddizioni che vivono
individualmente e collettivamente. Qui la parola condivisa, incarnata e in relazione, si fa
portatrice di un movimento tra dentro e fuori, interiorità e società.
La differenza femminile diviene per molte pratica politica, una modalità per situare lo sguardo,
una postura per elaborare nuove visioni della realtà. In Francia, il gruppo Psychanalyse et
politique, di cui fece parte Antoinette Fouque, fa del separatismo e della differenza sessuale
due cardini fondamentali. La differenza sessuale, che per Wittig e Delphy è un prodotto sociale
inseparabile dalla gerarchia che opprime le donne, per le donne di Psychanalyse et politique
esiste a prescindere dalla società. Negata dall’ordine simbolico fallocentrico va riportata alla
luce attraverso la psicanalisi, facendola “accadere” nella relazione tra donne.
Mettere al centro la differenza sessuale significa abbattere l’illusione che esista un soggetto
neutro e universale che parli per tutte le soggettività; significa pensare e agire tenendo conto
della propria esperienza di soggetti incarnati, esperienza sessuata che dispone una differenza
costitutiva, a partire dalla quale è possibile ripensare la politica, i saperi, le relazioni. In Italia,
durante gli anni Ottanta, il gruppo filosofico Diotima ha denunciato la mancanza di
elaborazione del pensiero occidentale sulla questione della differenza sessuale, sempre
soffocata nel neutro in una mossa “semplificatrice” in cui si cancellano ed escludono saperi,
esperienze, soggetti. In questo processo, come già individuato da Beauvoir, la donna è resa
superficie passiva su cui l’orizzonte simbolico patriarcale si fonda e si riflette, uno specchio
muto a partire dal quale è possibile il pensiero astratto e universale. In questo senso Speculum
(1974), di Luce Irigaray, avanza una critica al pensiero occidentale e alla sua fondamentale
tendenza all’Uno, che si struttura sulla differenziazione, specularizzazione e assorbimento delle
differenze, opportunamente naturalizzate in un sistema di dicotomie e contrarietà. Dal dato
della differenza sessuale alla tassonomia gerarchica tra soggetti: un processo in cui le
costruzioni sociali e culturali sul maschile e il femminile vengono fatte risalire alla natura
biologica del maschio e della femmina, e così non possono essere contestati. Ma queste,
appunto, non sono che costruzioni culturali e sociali. Non vi sono caratteristiche fisse, naturali,
che rendono differenti i soggetti sessuati, così come non c’è un’essenza o natura femminile
contrapposta a quella maschile. La differenza non ha contenuto fisso e non è gerarchica: è un
gioco tra il Sé e l’Altro, è dinamica e si fa nelle vicende delle relazioni; è contingente e in
mutamento. È possibile dunque immaginare una modalità diversa di rapporto all’alterità, che
non sia quella del fallologocentrismo (che pone l’alterità come speculare e la nega nel discorso)
e che non conduca all’assimilazione, alla negazione, alle gerarchie. Questo modo di rapportarsi
all’altro a partire dalla propria differenza, commenta Irigaray, preserva dall’alienazione e apre
alla possibilità di relazioni che sappiano tener conto delle differenti alterità che costellano il
mondo attuale. Così la differenza sessuale è un’occasione per un pensiero e una politica che
sappia relazionarsi all’alterità rinunciando all’universale e che apra a una nuova epoca della
storia, in cui si è sempre (almeno) due.

brani tratti da F. Castelli, “Emancipazione, autodeterminazione, differenza. Lotte e


pratiche politiche inaddomesticabili”, in F. Castelli, R. Carocci, Femminismi. Idee,
movimenti, conflitti, NovaDelphi, 2021

217
LETTURE E VISIONI CONSIGLIATE
S. de Beauvoir, Memorie di una ragazza perbene (1958)
B. Evaristo, Ragazza, donna, altro (romanzo), BigSur, 2019
Vogliamo anche le rose (2007, regia di A. Marazzi)

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MANIFESTO DI RIVOLTA FEMMINILE (1970)


“Le donne saranno sempre divise le une dalle altre? Non formeranno mai un corpo unico?”
(Olympe de Gouges, 1791).
La donna non va definita in rapporto all’uomo.
Su questa coscienza si fondano tanto la nostra lotta quanto la nostra libertà.
L’uomo non è il modello a cui adeguare il processo della scoperta di sé da parte della donna.
La donna è l’altro rispetto all’uomo. L’uomo è l’altro rispetto alla donna. L’uguaglianza è un
tentativo ideologico per asservire la donna a più alti livelli.
Identificare la donna all’uomo significa annullare l’ultima via di liberazione. Liberarsi per la
donna non vuol dire accettare la stessa vita dell’uomo perché è invivibile, ma esprimere il suo
senso dell’esistenza.
La donna come soggetto non rifiuta l’uomo come soggetto, ma lo rifiuta come ruolo assoluto.
Nella vita sociale lo rifiuta come ruolo autoritario.
Finora il mito della complementarietà è stato usato dall’uomo per giustificare il proprio potere.
Le donne sono persuase fin dall’infanzia a non prendere decisioni e a dipendere da persona
“capace” e “responsabile”: il padre, il marito, il fratello…
L’immagine femminile con cui l’uomo ha interpretato la donna è stata una sua invenzione.
Verginità, castità, fedeltà, non sono virtù; ma vincoli per costruire e mantenere la famiglia.
L’onore ne è la conseguente codificazione repressiva.
Nel matrimonio la donna, privata del suo nome, perde la sua identità significando il passaggio
di proprietà che è avvenuto tra il padre di lei e il marito.
Chi genera non ha la facoltà di attribuire ai figli il proprio nome: il diritto della donna è stato
ambito da altri di cui è diventato il privilegio.
Ci costringono a rivendicare l’evidenza di un fatto naturale.
Riconosciamo nel matrimonio l’istituzione che ha subordinato la donna al destino maschile.
Siamo contro il matrimonio.
Il divorzio è un innesto di matrimoni da cui l’istituzione esce rafforzata.
La trasmissione della vita, il rispetto della vita, il senso della vita sono esperienza intensa della
donna e valori che lei rivendica.
Il primo elemento di rancore della donna verso la società sta nell’essere costretta ad affrontare
la maternità come un aut-aut.
Denunciamo lo snaturamento di una maternità pagata al prezzo dell’esclusione.
La negazione della libertà d’aborto rientra nel veto globale che viene fatto all’autonomia della
donna.
Non vogliamo pensare alla maternità tutta la vita e continuare a essere inconsci strumenti del
potere patriarcale.
La donna è stufa di allevare un figlio che le diventerà un cattivo amante.

218
In una libertà che si sente di affrontare, la donna libera anche il figlio e il figlio è l’umanità.
In tutte le forme di convivenza, alimentare, pulire, accudire e ogni momento del vivere
quotidiano devono essere gesti reciproci.
Per educazione e per mimesi l’uomo e la donna sono già nei ruoli nella primissima infanzia.
Riconosciamo il carattere mistificatorio di tutte le ideologie, perché attraverso le forme
ragionate di potere (teologico, morale, filosofico, politico), hanno costretto l’umanità a una
condizione inautentica, oppressa e consenziente.
Dietro ogni ideologia noi intravediamo la gerarchia dei sessi. Non vogliamo d’ora in poi tra
noi e il mondo nessuno schermo.
Il femminismo è stato il primo momento politico di critica storica alla famiglia e alla società.
Unifichiamo le situazioni e gli episodi dell’esperienza storica femminista: in essa la donna si è
manifestata interrompendo per la prima volta il monologo della civiltà patriarcale.
Noi identifichiamo nel lavoro domestico non retribuito la prestazione che permette al
capitalismo, privato e di stato, di sussistere.
Permetteremo quello che di continuo si ripete al termine di ogni rivoluzione popolare quando
la donna, che ha combattuto insieme con gli altri, si trova messa da parte con tutti i suoi
problemi?
Detestiamo i meccanismi della competitività e il ricatto che viene esercitato nel mondo dalla
egemonia dell’efficienza.
Noi vogliamo mettere la nostra capacità lavorativa a disposizione di una società che ne sia
immunizzata.
La guerra è stata da sempre l’attività specifica del maschio e il suo modello di comportamento
virile.
La parità di retribuzione è un nostro diritto, ma la nostra oppressione è un’altra cosa.
Ci basta la parità salariale quando abbiamo già sulle spalle ore di lavoro domestico?
Riesaminiamo gli apporti creativi della donna alla comunità e sfatiamo il mito della sua
laboriosità sussidiaria.
Dare alto valore ai momenti “improduttivi” è un’estensione di vita proposta dalla donna.
Chi ha il potere afferma: “Fa parte dell’erotismo amare un essere inferiore”. Mantenere lo status
quo è dunque un suo atto di amore.
Accogliamo la libera sessualità in tutte le sue forme, perché abbiamo smesso di considerare la
frigidità un’alternativa onorevole.
Continuare a regolamentare la vita fra i sessi è una necessità del potere; l’unica scelta
soddisfacente è un rapporto libero.
Sono un diritto dei bambini e degli adolescenti la curiosità e i giochi sessuali.
Abbiamo guardato per 4.000 anni: adesso abbiamo visto!
Alle nostre spalle sta l’apoteosi della millenaria supremazia maschile.
Le religioni istituzionalizzate ne sono state il più fermo piedistallo.
E il concetto di “genio” ne ha costituito l’irraggiungibile gradino.
La donna ha avuto l’esperienza di vedere ogni giorno distrutto quello che faceva.
Consideriamo incompleta una storia che si è costituita sulle tracce non deperibili.
Nulla o male è stato tramandato della presenza della donna: sta a noi riscoprirla per sapere la
verità.

219
La civiltà ci ha definite inferiori, la Chiesa ci ha chiamate sesso, la psicanalisi ci ha tradite, il
marxismo ci ha vendute alla rivoluzione ipotetica. Chiediamo referenze di millenni di pensiero
filosofico che ha teorizzato l’inferiorità della donna.
Della grande umiliazione che il mondo patriarcale ci ha imposto noi consideriamo responsabili
i sistematici del pensiero: essi hanno mantenuto il principio della donna come essere aggiuntivo
per la riproduzione della umanità, legame con la divinità o soglia del mondo animale; sfera
privata e pietas.
Hanno giustificato nella metafisica ciò che era ingiusto e atroce nella vita della donna.
Sputiamo su Hegel.
La dialettica servo-padrone è una regolazione di conti tra collettivi di uomini: essa non prevede
la liberazione della donna, il grande oppresso della civiltà patriarcale.
La lotta di classe, come teoria rivoluzionaria sviluppata dalla dialettica servo-padrone,
ugualmente esclude la donna.
Noi rimettiamo in discussione il socialismo e la dittatura del proletariato. Non riconoscendosi
nella cultura maschile, la donna le toglie l’illusione dell’universalità.
L’uomo ha sempre parlato a nome del genere umano, ma metà della popolazione terrestre lo
accusa ora di aver sublimato una mutilazione.
La forza dell’uomo è nel suo identificarsi con la cultura, la nostra nel rifiutarla.
Dopo questo atto di coscienza l’uomo sarà distinto dalla donna e dovrà ascoltare da lei tutto
quello che la concerne.
Non salterà il mondo se l’uomo non avrà più l’equilibrio psicologico basato sulla nostra
sottomissione.
Nella cocente realtà di un universo che non ha mai svelato i suoi segreti, noi togliamo molto
del credito dato agli accanimenti della cultura.
Vogliamo essere all’altezza di un universo senza risposte.
Noi cerchiamo l’autenticità del gesto di rivolta e non la sacrificheremo né all’organizzazione
né al proselitismo.
Comunichiamo solo con donne.

Roma, luglio 1970

220
HABERMAS (1929 -)
Il ritorno della società civile: Öffentlichkeit e opinione pubblica
[...] Habermas elabora una nuova visione della relazione tra soggetti e collettivo, arrivando a
descrivere quella che, in una discussa scelta di traduzione a cui si è già accennato, verrà chiamata
in Italia «sfera pubblica»: uno spazio di eguali, di libera interazione discorsiva, in cui l’interesse
comune viene raggiunto tramite il medium della comunicazione razionale. Per Habermas la sfera
pubblica è spazio libero in cui il soggetto può entrare in contatto con prospettive e visioni del mondo
diverse dalle sue e in cui può far interagire i propri interessi particolari con quelli degli altri
attraverso la discussione razionale, aprendosi alla possibilità che questi raccolgano consenso da
parte degli altri individui, o che escano profondamente modificati dal confronto.
La sfera pubblica habermasiana è strettamente connessa alla capacità di linguaggio umana. L’idea
di interazione razionale, infatti, pone il linguaggio come elemento centrale. E questo non solo
perché grazie al linguaggio è possibile esercitare una specifica pressione sulle parti in discussione,
portando al consenso e all’azione coordinata (Joas, Knöbl, 2009: 209), ma anche in virtù del fatto
che per Habermas l’argomentazione razionale viene a modellarsi sul principio dialogico di un
discorso mirante all’intesa. Nella comunicazione linguistica è incorporato un telos di intesa
reciproca e per questo nel momento in cui l’individuo all’interno della sfera pubblica produce un
enunciato che non viene accettato o riconosciuto come vero, ecco che nasce il discorso, e che si
avvia la pratica discorsiva (Habermas, 1986; 2008). In questo senso la comprensione all’interno
della sfera pubblica va letta a partire dall’accettazione reciproca di enunciati o pretese di validità.
Il consenso comunicativo che segue il confronto si basa su argomenti esposti, argomentati nel
quadro di un processo – sostiene Habermas – che viene a strutturarsi in virtù di una «razionalità
comunicativa». Gli atti linguistici, in cui l’altro e l’io si comprendono reciprocamente sulla base di
ragioni ben dimostrate e in cui il consenso è basato sulla comprensione reciproca, sono dotati così
di forza illocutiva e performativa. Attraverso questa rinnovata concezione linguistica e discorsiva
della razionalità viene a definirsi uno spazio di interazione in cui tutte le soluzioni vengono date e
valutate in base a criteri razionali e linguistici. L’agire comunicativo porta così a ridurre ciò che
appare e può essere valutato all’interno dello spazio pubblico sulla base di ciò che rientra nei
parametri della valutazione e valutabilità razionale.
Mentre per Arendt la dimensione dell’agorà incarna il compimento dello spazio pubblico come
spazio della politica – con la perdita della quale la civiltà occidentale si è avviata verso un lento
declino, ad opera del progressivo inglobamento dello spazio pubblico e di quello privato nel sociale
–, Habermas recupera un’idea di dimensione pubblica coincidente con la società civile. Gli spazi
di discussione pubblica non sono persi una volta per tutte con l’agorà, possono riemergere, come
è avvenuto in forma nuova e particolare nel corso dell’Illuminismo. Per Habermas è infatti tra il
XVIII e il XIX secolo – e in particolare con la nascita del salotto borghese – che ha origine la sfera
pubblica (Habermas, 2008). Nella sua tesi postdottorale del 1962 – Storia e critica dell’opinione
pubblica – Habermas svolge uno studio storico e sociologico sull’idea filosofico-politica di sfera
pubblica e sulla sua istituzione in età borghese. La nascita della sfera pubblica si lega
all’improvviso incremento di circolazione – della stampa come delle merci – che in epoca
illuminista arriva a definire nuove modalità del rapporto tra pubblico e privato. Per l’autore, in
questo periodo l’opinione pubblica si sviluppa in ambienti inizialmente non politici – come i caffè,
i salotti, i circoli letterari – e, con l’aiuto della diffusione della stampa di quotidiani e giornali, si
politicizza velocemente, a mano a mano che gli individui cominciano a riflettere sulle proprie

221
istituzioni, politiche e non politiche. Ma nonostante questo avvio situato, la sfera pubblica non
coincide per Habermas con nessun luogo determinato. Diversamente dall’agorà, l’opinione
pubblica non coincide con uno spazio fisico, ma è piuttosto uno spazio concettuale fatto di idee,
opinioni e dibattiti circa argomenti di interesse comune. Per giocare con i termini chiave di questo
testo, potremmo dire che i caffè e i salotti sono gli spazi pubblici in cui la sfera pubblica prende
vita (Neal, 2009).
Riprendendo sia la tradizione illuministica, sia l’impostazione hegeliana, Habermas riformula
dunque la società civile come sfera pubblica, come spazio di esercizio del pensiero critico,
composta da persone private che si uniscono in una dimensione più ampia. Questa idea poggia su
una concezione della politica come politica deliberativa, la cui forza e legittimità derivano dalla
struttura discorsiva della formazione dell’opinione pubblica. La sfera pubblica riveste infatti un
ruolo fondamentale nella legittimazione degli stati democratici, in quanto ambito di partecipazione
e consenso vitale alle istituzioni politiche. La sfera pubblica emerge come terza dimensione, al di
là della dicotomia tra il privato della casa e il potere pubblico; è l’ambito della società civile, la
quale non coincide né con un’associazione tra privati, né con la società politica istituzionale. La
sua specificità consiste nel fornire l’infrastruttura per l’elaborazione dell’opinione pubblica
attraverso il dibattito pubblico, ossia un dibattito di interesse generale su questioni comuni, a cui
partecipano i cittadini sulla base di regole razionali. Partecipazione e deliberazione sono aspetti
cruciali, secondo criteri universali o universalizzabili di accessibilità da parte di tutti.
Nel corso del XX secolo si assiste però a una sorta di «rifeudalizzazione», che porta alla crisi della
sfera pubblica: da una parte, nuovi attori privati, ad esempio le grandi aziende, attraverso il
controllo e la manipolazione della comunicazione e dei media promuovono i propri interessi privati,
entrando così in collisione con la logica della sfera pubblica. Dall’altra, interviene l’erosione della
distinzione tra società politica e società civile, la trasformazione dei cittadini in consumatori che
comporta la perdita di interesse verso il bene comune e la partecipazione diretta (Brighenti, 2010a:
13).
Teoria dell’agire comunicativo rappresenta in un certo senso il culmine della riflessione
habermasiana sulle pratiche discorsive nella sfera pubblica. Nel testo – assieme a una forte presa
di posizione contro i «teorici del postmoderno» – Habermas formula una teoria organica della
razionalità critica e comunicativa, fondata sulla dialettica tra agire strumentale e comunicativo,
sistemi e mondo della vita. Allontanandosi dalle posizioni della Scuola di Francoforte, a cui spesso
è stato ricondotto, Habermas propone un’idea di razionalità non esclusivamente strumentale od
orientata al dominio. La razionalità comunicativa mira infatti al consenso e alla discussione su
problemi di interesse comune, non al controllo, non si esaurisce nell’agire orientato a un fine –
come nelle teorie utilitaristiche e neo-utilitaristiche – né si dissolve nell’ideologia e nel potere
(come, secondo Habermas, affermano i pensatori del postmoderno). L’agire comunicativo non mira
a fini specifici ma, piuttosto, sospende la validità dei fini predeterminati all’interno di una
discussione aperta mirante a un’intesa; è un tipo di azione non teleologica che necessita di altri
attori, capaci di impegnarsi in una discussione.
Per Habermas, tra agire comunicativo e agire strumentale c’è una distanza incolmabile, legata
soprattutto ai diversi tipi di razionalità che incarnano: da una parte, il piano dell’individuo isolato
– proprio dell’agire strumentale e strategico –, dall’altra, la sfera intersoggettiva, il «mondo della
vita», la relazione con il mondo e i suoi fatti, con le alterità e la socialità, tra il soggetto e la sua
interiorità: una razionalità il cui fine non è la manipolazione (di oggetti o soggetti), bensì la
comprensione. Habermas individua una costante dialettica tra il «sistema», caratterizzato dall’agire
strumentale e corrispondente allo Stato, ai suoi apparati e all’organizzazione economica, e il

222
«mondo della vita», segnato dall’agire comunicativo, e che tiene insieme la sfera dei valori
individuali e collettivi.
[...] Habermas pone la sfera pubblica come medium tra le vite individuali e le procedure giuridico-
formali della democrazia. [...] Questo rapporto dicotomico e complesso tra sistemi di potere e sfera
pubblica troverà negli anni sistemazione in Tra fatti e norme, dove la legge (il Parlamento) è quel
«pubblico forte» che rende disponibili gli spazi per i discorsi emancipatori che contestano il
contenuto empirico delle norme, provenienti da una sfera detta «pubblico debole» (Habermas,
1996). In questo modo, alla tensione tra razionalità strumentale e comunicativa, sistema e mondo,
pubblico forte e pubblico debole, sembra infine corrispondere una tensione tra fatticità e validità.

Brani tratti da F. Castelli, Lo spazio pubblico, Ediesse, Roma 2019

223
L’ETÀ GLOBALE E LA “NUOVA RAGIONE DEL MONDO”

La fine delle grandi narrazioni: postmoderno, biopolitica, globalizzazione e spatial turn


La prospettiva habermasiana contribuisce a spostare il termine pubblico dal nesso
folla/individui verso l’accezione più ampia di «società civile». Tra gli anni Ottanta e la fine del
XX secolo si comincia a presagire la crisi di tale categoria e della nozione di sfera pubblica a
essa legata. Anche se questo processo giungerà a compimento solo con il passaggio al nuovo
secolo e i suoi radicali mutamenti, già negli anni Ottanta i presagi di frammentazione della
sfera pubblica si fanno sempre più forti e vividi. Questi anni sono infatti segnati da dinamiche
e mutamenti politici che, accompagnati da veri e propri rovesciamenti teorici, complicano
l’idea di sfera pubblica e obbligano a un ripensamento su più piani.
Come vedremo nel corso di queste pagine, sulla scia di mutamenti strutturali provocati dalla
crisi della società industriale, dalla progressiva smaterializzazione dell’esperienza umana del
mondo nella società dell’informazione e dai processi di decolonizzazione e globalizzazione,
intorno alla fine degli anni Settanta, alcuni elementi fondamentali della modernità – quali la
fiducia nella possibilità di una spiegazione onnicomprensiva e universalmente valida della
realtà, l’idea di storia come percorso teleologicamente orientato verso un progressivo
miglioramento, il ruolo attribuito all’azione umana nel suo rapporto con la natura, il primato
della razionalità scientifica rispetto ad altre forme di razionalità – entrano in crisi. Gli effetti di
questa crisi si compendiano nell’adozione del concetto di postmoderno, inteso non tanto come
posteriorità o superamento della modernità, quanto invece come diagnosi della fine o del
compimento di quest’ultima (Jameson, 2007; Beck, 1999). Queste riflessioni si articolano
attorno ad alcuni elementi fondamentali: la sfiducia nei saperi onnicomprensivi e legittimanti;
la proposta di forme di razionalità «instabili» e «deboli» sulla base dell’idea che non esistano
fondamenti ultimi e immutabili; il passaggio dall’univocità alla molteplicità dei paradigmi di
analisi; la proposta di un’etica pluralista, basata sul principio della tolleranza in risposta ad una
società sempre più complessa e composita.
In La condizione postmoderna (1979) Lyotard analizza le trasformazioni della società nel
passaggio dalla società industriale alla società dell’informazione, in cui il sapere ha assunto il
ruolo di fulcro della produzione. Nel quadro di questa progressiva smaterializzazione e
informatizzazione, sostiene Lyotard, cadono le pretese universali e metafisiche proprie della
modernità ed entrano in crisi tutti quei dispositivi narrativi a partire dai quali il potere e le
comunità politiche strutturano se stesse (Lyotard, 1981; 1987). Queste narrazioni, che creano
rappresentazioni legittimanti a pretesa universale, giustificano il potere e l’ambito del politico
regolando e normando l’immaginario sociale: «da una parte questi racconti consentono [...] di
definire i criteri di competenza propri delle società in cui sono raccontati, dall’altra di utilizzare
tali criteri per valutare le prestazioni che in essa si realizzano o possono realizzarsi» (Lyotard,
1981: 40). Narrazioni potenti, che generano inclusione ed esclusione, definendo l’ambito del
politico e di ciò che è legittimo. «La legittimità […] è assicurata dal dispositivo narrativo […].
Il racconto è l’autorità stessa. Esso autorizza un noi infrangibile, fuori dal quale ci sono dei
loro» (Lyotard, 1987: 42).
Nel moderno queste «metanarrazioni» si presentano come sintesi teoriche a carattere
universale: Illuminismo, idealismo, marxismo, cristianesimo, capitalismo sono le grandi
narrazioni filosofico-politiche legittimanti, potenti e performative, che orientano l’azione e

224
creano senso di appartenenza (Lyotard, 1981: 43) e a cui è sempre sottesa l’idea di
emancipazione e progresso. Ma i mutamenti che hanno accompagnato il «secolo breve»
(Hobsbawn, 1995) rendono impossibile, sostiene Lyotard, procedere ancora alla crea-zione di
tali macrostorie. La modernità è giunta al termine, poiché ha esaurito la possibilità di
ricostituire una «grande narrazione», una storia della civiltà com-prensiva e complessiva, che
pretenda di dire tutto della società. Occorre dunque abbandonare tali pretese di universalità,
che vorrebbero comporre l’umanità in un gruppo omogeneo, dotato di ragione e orientato al
progresso. L’umano non è universale, bensì frammentato in una pluralità non ricomponibile, e
la razionalità – lungi dall’essere garanzia di progresso – ha spesso portato l’umanità verso esiti
violenti e distruttivi.
In questo senso va letta la critica avanzata da Lyotard ad Habermas, accusato di voler creare,
con la sua idea di razionalità discorsiva, una nuova e ulteriore metanarrazione, una «narrazione
emancipativa» più astratta e generale del metaracconto freudiano e marxiano. A questa critica
Lyotard affianca l’accusa di insufficienza dell’idea habermasiana di consenso quale «accordo
fra uomini in quanto intelligenze cognitive e libere volontà ottenuto attraverso il dialogo»,
come criterio di validazione all’interno della questione della legittimazione del sapere. Il
consenso è, sostiene Lyotard, uno stato delle discussioni e non un fine (Lyotard, 1981: 110 e
119-120. Cfr. anche Rorty, 1985: 161-175). A questa critica Habermas risponderà sostenendo
la modernità come progetto incompiuto (Habermas, 2015), soprattutto nelle sue istanze
emancipatorie, e accusando l’approccio postmoderno di postura conservatrice, che occulta le
condizioni di alienazione e le contraddizioni sociali della società.
Un altro, fondamentale, contributo teorico che contribuisce a spostare i termini della relazione
tra società e potere è l’analisi portata avanti in questi anni dal filosofo francese Michel
Foucault sulla modernità e sui mutamenti sociali da essa innescati, in cui individua categorie
per noi oggi fondamentali, quali quelle di governo, governamentalità, biopolitica (Foucault,
2005a; 2005b), evidenziando la genesi di un nuovo sapere politico orientato verso la
dimensione della popolazione e verso i meccanismi capaci di assicurarne la regolamentazione.
Con la governamentalità Foucault individua un’estensione diffusiva dell’ordine costituito
(Giardini, 2017b: 99), che attraverso istituzioni, procedure, analisi e strategie, esercita una
nuova e specifica forma di potere incentrata sulla popolazione e che si rifà all’economia politica
come forma privilegiata di sapere e ai dispositivi di sicurezza come strumento tecnico
fondamentale (Foucault, 2005c: 88). Il potere non è più concentrato nelle prerogative statuali,
ma si fa diffuso, plurale, capillare, investendo gli ordinamenti molteplici che articolano il
quotidiano vivere associato. Il governare diviene così un insieme di tecniche che si esercitano
sulla sfera del comportamento umano (Foucault, 1997: 81). Il piano del politico si sposta dal
piano del potere del sovrano fin negli spazi minuscoli del privato, attraverso il governo e la
gestione della vita portata avanti dal potere (2005a). Dal macro al micro, il potere si diffonde
ovunque, non ha un centro ma, strutturato attraverso dispositivi più o meno grandi, pervade
ogni dimensione umana. Nell’individuare un legame tra capitale e biopolitica, e un progressivo
spostamento dal governo alla governamentalità, Foucault rintraccia nel moderno anche i
termini dello spostamento dallo Stato territoriale allo stato di popolazione, ossia dalla sovranità
sul territorio alla gestione e regolazione delle popolazioni (2005b). A partire da questo
spostamento gli individui riuniti nello Stato non formano più un «popolo», ma divengono,
appunto, «popola-zione». Da un lato, dunque, la governamentalità coinvolge nell’esercizio del

225
potere sovrano le condotte e le vite degli individui; dall’altro, la popolazione, ora investita di
naturalità, assieme alla ricchezza, diviene oggetto privilegiato della nuova ragion di Stato.
Sotto il profilo economico e sociale, gli ultimi anni del XX secolo sono segnati da mutamenti
che mettono in discussione le categorie moderne legate allo Stato-nazione, aprendo la via per
un ripensamento della sfera pubblica, lontano dall’accezione critico-comunicativa di Habermas
messa in crisi dalla disarticolazione del nesso pubblico/società civile. Questi mutamenti sono
in parte, si vedrà, gli stessi che portano Michel Foucault a definire questi anni «l’epoca dello
spazio» (Foucault, 2002: 19). La fine delle grandi narrazioni annunciata da Lyotard si
accompagnerà, infatti, a una proliferazione di nuove realtà sociali e di nuove dimensioni del
pubblico e il racconto dell’egemonia europea cederà il passo all’avvento dell’età della
globalizzazione. La globalizzazione produce mutamenti drastici, che sembrano portare a pieno
compimento lo scompaginamento degli assetti politici e sociali della modernità. Da un lato, si
presenta come una mondializzazione dell’economia, segnata da una sempre maggiore
interdipendenza sovranazionale dei mercati e dalla deterritorializzazione della produzione:
tramonta la centralità della fabbrica fordista tipica della fase economica precedente e le città
assumono conformazioni inedite in virtù di una nuova centralità legata ai processi produttivi.
Dall’altro, si delineano flussi transnazionali – economici, umani, culturali – che mettono in
crisi, ridefinendole, le coppie fondanti della modernità, prima fra tutte quella politico-spaziale
di Stato-nazione; si assiste inoltre a una compressione spazio/temporale operata dalle reti di
comunicazione globale e dai nuovi mezzi tecnologici; si avvia, con l’introduzione di nuove
tecnologie e mezzi di comunicazione di massa, una diffusione, e in alcuni casi
omogenizzazione, di costumi e immaginari su scala globale. Come vedremo nel corso delle
prossime pagine, il senso e la portata della globalizzazione è stato oggetto di numerosi dibattiti,
che hanno coinvolto numerosi autori e autrici a livello internazionale. Nel quadro di questo
volume sottolineare i mutamenti legati ai processi di globalizzazione riveste un ruolo
estremamente importante poiché, come vedremo, es-si interrogano direttamente le categorie
politiche del moderno e l’idea di spazio pubblico a esse collegate.
Nel contesto dei mutamenti legati alla globalizzazione prende corpo l’abbandono di una lettura
storicistica del mondo, fondata sull’idea della Storia in quanto progresso umano e universale,
a favore di un approccio «geografico», topologico. Questo nuovo approccio si libera del
retaggio anti-spaziale delle filosofie della storia, modellate a partire dal primato assegnato al
tempo, e lo spazio guadagna centralità, come condizione di possibilità ed elemento costitutivo
dell’agire e dell’essere-nel-mondo, che si dà innanzitutto come corporeità (Marramao, 2013).
L’individuazione di questa svolta epistemologica, detta spatial turn, viene comunemente fatta
risalire al geografo Edward W. Soja, il quale, a sua volta, ne individua gli iniziatori in Henri
Lefebvre e in Michel Foucault (Soja, 1989). La spatial turn viene presentata come l’esito di
una serie di svolte profonde che hanno costellato il XX secolo – la svolta linguistica, la svolta
culturale, la svolta postmoderna, a cui Soja aggiunge la svolta postcoloniale aperta da Said,
Spivak, Bhabha e Appadurai (Warf, Arias, 2009; Marramao, 2013). La «svolta spaziale», che
dà centralità alle forme di vita e di azione dei soggetti in un mondo non-euclideo, è la chiave
di accesso per pensare la globalizzazione nei suoi rapidi mutamenti e contraddizioni da
un’angolatura che permette di riprendere le questioni relative ai rapporti tra spazio e politica.
Infatti, se il mondo globale, come sostiene David Harvey, è segnato dal fenomeno della
«compressione spazio-temporale» (Harvey, 1991), la globalizzazione è contemporaneamente

226
«compressione spaziale» delle culture, degli attori sociali e delle forme di vita e «diaspora
temporale», in riferimento ai diversi modi in cui tali soggetti fanno esperienza del tempo.
Questa paradossale coesistenza conduce alla cristallizzazione identitaria di alcune forme di
appartenenza – sociali, culturali, ideologiche, religiose – nei diversi gruppi sociali, portando
sulla scena nuove ed esplosive conflittualità. Il territorio diviene dimensione fondamentale,
luogo di assemblaggio di pratiche e interazioni sociali, culturali, tecnologiche, economiche,
politiche. Lo spazio non è più «un mero riflesso passivo delle tendenze sociali e culturali», ma
un loro fattore costitutivo (Warf, Arias: 10). Mentre la coppia Stato-nazione non riesce più a
contenere le dinamiche esplosive e di frammentazione prodotte dalla circolazione globale, lo
sguardo si sposta dal livello statuale verso il territorio, come intreccio poroso, storico e
mutevole di azioni e conflitti tra enti e potestates diverse. La città assume un ruolo
fondamentale, in quanto territorio e luogo di conflitti, azioni, intrecci tra globale e locale, reti,
connessioni, concatenamenti tra progetti diversi ed eterogenei.
Queste dinamiche evidenziano il venir meno della distinzione netta tra dentro e fuori, sia a
livello politico – nella crisi e ridefinizione di categorie come Stato, nazione, popolo – ma anche
e soprattutto a livello spaziale, dove si assiste contemporaneamente a fenomeni di
deterritorializzazione e riterritorializzazione. Su questo punto insiste l’analisi portata avanti da
Sassen in Città globali (1997). Nel testo l’autrice evidenzia come nel corso degli anni Settanta
e Ottanta il modello fordista abbia progressivamente lasciato il posto a nuove dinamiche di
transnazionalizzazione delle proprietà e delle attività produttive, dando luogo a un’espansione
del sistema finanziario che si accompagna a una nuova centralità del territorio urbano come
dimensione produttiva ed economica. Nel passaggio al transnazionale globale nascono le città
globali, luoghi della produzione di prodotti finanziari e di servizi altamente specializzati e
fortemente internazionalizzati. Elementi di un unico sistema funzionale, relativamente separate
dal contesto della crescita economica della nazione, le città globali mutano la loro
organizzazione in base al nuovo ruolo assunto nel contesto globale. Vengono prodotti nuovi
ordinamenti spaziali, così come nuove categorie di esclusi, mentre crescono mercati di lavoro
informali e occasionali e forme di sfruttamento e isolamento su base razziale o nazionale.
Con l’avvento della globalizzazione il centro della società non è più la standardizzazione e il
consumo di massa, ma la diffusione e flessibilizzazione dei modelli di consumo che produce
un riallineamento delle classi sociali, nuovi modelli di consumo e la perdita di centralità della
fornitura dei beni pubblici e del welfare state. Si assiste a una progressiva ascesa della finanza,
radicata nella rete delle città globali. Si assiste alla rottura dei confini esterni e al moltiplicarsi
dei confini interni allo spazio pubblico. Lo spazio viene frammentato, sorvegliato, diviene
mosaico di identità isolate, anonime, mimetizzate, che si installano come enclaves tra uno
spazio di esclusione e l’altro.
Gli anni Ottanta e Novanta del Novecento originano dunque un nuovo scenario economico,
politico e sociale, globale. La globalizzazione apre scenari nuovi non solo sul piano economico-
tecnologico ma in riferimento alle diverse forme dell’azione umana – la cultura, la società, le
relazioni – divenendo fenomeno totalizzante, un mutamento verso nuove antropologie e nuove
modalità della politica. Alcuni, come Martin Albrow, considerano la globalizzazione un tratto
caratteristico del postmoderno, una rottura improvvisa che rende obsolete le categorie politiche
classiche di Stato, popolo e sovranità (Albrow, 1996). Per altri, invece, la globalizzazione non
è che l’ultima di una serie di trasformazioni del moderno (Giddens, 2004; Sen, 2002). Sul senso

227
e la portata della globalizzazione si delineano due fronti contrapposti, riconducibili in parte alle
opposte letture di Francis Fukuyama e Samuel Huntington (Fukuyama, 1996; Huntington,
1997). Per il primo, il fenomeno della globalizzazione produce un’omologazione
individualistico-mercantile all’interno del dominio della tecnica e del mercato: la
globalizzazione viene letta come processo di omologazione universale in un pensiero unico,
una «occidentalizzazione del mondo». Contrariamente alla tesi dell’omologazione per
occidentalizzazione, la globalizzazione per Huntington è scontro di civiltà, scenario di un
conflitto interculturale planetario, che di fatto Huntington riduce a scontro tra Occidente e
Islam. Altri autori hanno descritto la globalizzazione come un «passaggio a Occidente»
(Marramao, 2003), oppure hanno avanzato l’idea di glocal, compresenza di locale e globale
(Robertson, 1999). Contro questa lettura, Bauman ha cercato di declinare nuovamente il
rapporto tra locale e globale nel senso di una produzione di località, in cui non vi è
contemporaneità ma mutua implicazione di omogeneizzazione ed eterogeneizzazione
(Bauman, 1999). Lontano anche dalle posizioni di Huntington, Bauman non legge la relazione
tra le diverse civiltà nel contesto globale come una contrapposizione tra blocchi, proponendo
invece una visione del contesto mondiale come produzione globale di località in un mondo
transnazionale e deterritorializzato, in cui non vi è solo interdipendenza tra globale e locale ma
anche cortocircuito.
Lo scompaginamento delle categorie politiche del moderno prodotto dai nuovi assetti globali
corrisponde per Ulrich Beck a una «collocazione del politico fuori dal quadro categoriale dello
Stato-nazione» (Beck, 1999: 13), che porta l’autore a definire la globalizzazione come quel
«processo in seguito al quale gli Stati nazionali e la loro sovranità vengono condizionati e
connessi trasversalmente da attori transnazionali, dal-le loro chance di potere, dai loro
orientamenti, identità, reti» (ivi: 24). Per Beck il paradigma del globale è rintracciabile in una
«presenza dell’assente»: un contesto esteso in cui lo spazio sociale non coincide più con la
localizzazione e non è più definito dalla presenza fisica in un luogo determinato. Con la
globalizzazione prossimità fisica e vicinanza sociale si divaricano, e la «convivenza tra assenti»
non viene più resa possibile dalla «comunità immaginaria della nazione», bensì
dall’annullamento delle distanze prodotto dalla tecnologia. Questo scenario non rappresenta
però per Beck la fine del moderno, bensì un passaggio da una prima a una seconda modernità.
Tale visione tiene conto sia della discriminante socioeconomica – laddove la modernità veniva
individuata come riflessiva, dominata dalla tensione tra imperativi interni alla modernità stessa,
ad esempio industriale/postindustriale – sia sociopolitica, nel passaggio alla «società del
rischio» (Beck, 2000) e al paradigma dell’incertezza, e nella nascita di una società civile
globale.
Secondo altre analisi, nel contesto globale la forma imperiale viene sganciata
dall’imperialismo: la rete del potere non ha vertice né centro (Hardt, Negri, 2001). Per Negri e
Hardt, si realizza così l’Impero: senza confini, a tempo indefinito, strutturato
sull’amministrazione generalizzata del biopotere. Da questo sfondo non emerge alcuna nuova
forma di sovranità – di fatto inconciliabile con le premesse della globalizzazione – ma una
nuova configurazione del politico, un sistema multilivello in cui si assiste a una grande
proliferazione delle identità e alla nascita di una pluralità di potestates sovrane (Marramao,
2000).

228
In questo quadro trova anche spazio la teoria del «Sistema-Mondo» che, facendo riferimento
principalmente a Immanuel Wallerstein, individua nei nuovi processi che investono il pianeta
un insieme di meccanismi di distribuzione e redistribuzione delle risorse economiche, a partire
da un «centro» (i paesi ideologicamente individuati come «sviluppati») verso le «periferie» (i
paesi «in via di sviluppo» o «non sviluppati»), passando per delle «semi-periferie», e che
distribuiscono secondo questa connotazione «topologica» la produzione e la ricchezza in modo
ineguale, producendo sfruttamento. Il centro è luogo industrializzato, connotato da un alto
livello di sviluppo tecnologico, e produce oggetti di fattura complessa, mentre la periferia è
luogo di materie prime, prodotti agricoli, manodopera a basso costo, da sfruttare e far confluire
nel centro, dove vengono tramutate in vera ricchezza (Wallerstein, 1978; 1982; 1995). Tra i
due poli esiste uno scambio continuo: la periferia compra i prodotti dal centro, a prezzi alti,
mentre vende i propri al centro a prezzi molto bassi, rinforzando così disuguaglianze e disparità.
Non si tratta più dunque di un «Primo» o di un «Terzo» mondo, così come una certa visione,
ideologicamente orientata, del rapporto tra sviluppo ed economia ha voluto per anni: per
Wallerstein il mondo è uno, regolato da complesse dinamiche economiche. Il centro e la
periferia non corrispondono infatti in modo determinato e definitivo a specifiche aree
geografiche del mondo, ma possono mutare il proprio status, come dimostra l’esistenza delle
semi-periferie.

Sfere pubbliche in conflitto: ragione e differenze


In questi anni la «sfera pubblica» appare frammentata, esplosa in una serie di sfere più piccole,
o diasporiche, come suggerisce Appadurai il quale, sostenendo l’idea di una relativa autonomia
tra cultura ed economia glocale, individua degli ethnoscapes, paesaggi di persone in
movimento, la cui irrequietezza fisico-geografica finisce per essere la fonte di tutti gli impulsi
al mutamento della politica interna e globale. Questi paesaggi dinamici si distinguono in
technoscapes, movimenti legati alle tecnologie; financescapes, movimenti di mercato;
mediascapes, costituiti dalla produzione e diffusione di immagini elettroniche; ideoscapes,
produzione di immagini al servizio di ideologie e idee dello Stato. Oltre al movimento di
deterritorializzazione previsto dalla globalizzazione, questi flussi mettono in discussione la
distinzione tra centro e periferia rispetto all’esercizio del potere politico (Appadurai, 2001).
Tali sfere, frammentate e diasporiche, sono tuttavia fortemente individuate e proliferano
incessantemente, conducendo a crisi e a conflitti tra valori. Una tendenza, questa, che era stata
anticipata negli anni Settanta da Robert Alan Dahl e dalla sua «teoria della poliarchia», in cui
l’autore avanza una nuova idea di democrazia, che non coincide né con l’allargamento massimo
del consenso politico – perché altrimenti comprenderebbe anche il totalitarismo – né con
l’esistenza di un’opposizione al governo e dunque della pluralità partitica. Piuttosto, il senso
della democrazia risiede nella capacità di rispondere alle diverse, molteplici ed eterogenee
«preferenze» dei cittadini. Le poliarchie reali non sono che approssimazioni di questo sistema
democratico ideale, in cui competizione e inclusività vengono a declinarsi assieme. Si dà
poliarchia in presenza di un sistema politico compatibile non solo con la molteplicità di etnie,
culture, religioni, ma anche connotato da un alto grado di variabilità di credenze in merito al
potere politico (Dahl, 1990).
In questi anni il dibattito internazionale affronta il problema della composizione eterogenea
delle società del nord del mondo e il multiculturalismo e il conflitto di valori diventano temi

229
centrali del dibattito teorico e politico. La questione del pluralismo dei valori viene ad
affiancare quella del pluralismo di interessi, caratteristico dei dibattiti precedenti, in relazione
all’insorgenza di soggetti culturalmente differenziati per i quali la cultura è fattore identificante.
Il conflitto tra sfere pubbliche differenti mette in scacco il paradigma utilitaristico, così come
le idee di un criterio univoco e di un comportamento razionale secondo un modello standard.
Il nuovo scenario è quello, apparentemente insolubile, di etiche in contrasto tra loro,
nell’irriducibilità e incommensurabilità dei conflitti di valore.
Da questo scenario si sviluppano due diverse risposte, entrambe estremamente interessanti per
seguire le evoluzioni del dibattito su sfera pubblica, giustizia e inclusività: da una parte, a fronte
dell’ormai inaggirabile questione del pluralismo delle identità, la categoria di differenza
diviene la chiave per identificare le nuove logiche di dominio e per individuare nuove modalità
dell’essere insieme nello spazio sociale; dall’altra, si intensifica il dibattito sulla democrazia
deliberativa come fonte di legittimazione politica, in un tentativo di recupero della dimensione
dell’agency in termini diversi rispetto al contrattualismo illuminista. Una «teoria della
giustizia» e le forme del rapporto tra individui e organizzazione sociale sono problemi attorno
ai quali si definiscono due direzioni teoriche opposte: da una parte, la proposta di una politica
universalistica dell’identità, inclusiva perché astratta dalle differenze concrete e particolari;
dall’altra, la ricerca di politiche e strategie antiuniversalistiche basate proprio su tali differenze,
a partire dalle quali riconsiderare le interrelazioni tra le questioni relative alla giustizia e quelle
relative alla buona vita. Questa, in breve, la distanza che separa gli autori liberali, sostenitori
del primo approccio, da teoriche femministe, comunitari e fautori delle etnopolitiche.
In Una teoria della giustizia (1982) Rawls aveva rilanciato la teoria contrattualista come
alternativa al modello utilitaristico proponendo un ritorno al contratto sociale, ritenuto più
adeguato all’idea di giustizia come imparzialità. Nel tentativo di definire una società giusta,
Rawls affermava che la giustizia si dà quando i principi che guidano le istituzioni di una società
e la sua distribuzione di oneri e vantaggi sono stati scelti liberamente e razionalmente in una
situazione di scelta vincolata, ossia in un’ipotetica «posizione originaria» caratterizzata da un
«velo di ignoranza» in cui nessuno dei membri conosce la posizione che occuperà nella società.
Questo, sostiene l’autore, produce imparzialità della scelta, non condizionata da motivazioni
egoistiche o utilitaristiche. Si tratta di una teoria che mette al centro la scelta razionale, e la
ragione come ragione pubblica, la quale prescrive di scegliere, in una situazione di incertezza,
in cui gli esiti non sono noti, l’insieme migliore degli esiti peggiori, per assicurare stabilità ed
efficienza.
Gli elementi fondamentali del suo approccio, e di quanti si rifaranno a Rawls, sono dunque la
ragione pubblica, il consenso per intersezione (basato sul fatto che le differenti concezioni del
bene dei cittadini abbiano un nucleo comune) e un’idea di libertà fondamentale come
inviolabile e prioritaria, la cui diminuzione non può essere giustificata da nessun aumento di
benessere economico. Insieme a Rawls, i sostenitori del liberalismo politico – come Nagel e
Nozick – individuano nella sfera pubblica il luogo dell overlapping consensus, della rational
choice e del comportamento razionale standard. In questo senso, descrivono la sfera pubblica
come luogo abitato dalla ragione, in cui la razionalità, l’individualismo e l’universalismo fanno
tutt’uno. Queste teorie si centrano su un individualismo metodologico che guarda ai soggetti
sganciandoli dalle loro contingenze storiche e sociali, guardando invece alle strutture astratte e
universali, verso un modello di giustizia oggettivo e universalmente valido.

230
All’opposto, i comunitari danno precedenza alla questione delle identità, ponendo ragione e
razionalità in secondo piano. L’esponente più noto di questo approccio è Alasdair MacIntyre,
affiancato da autori come Michael Sandel, Robert Bellah, Robert Booth Fowler, Michael
Walzer, Alan Wolfe e Charles Taylor. I riferimenti teorici di questo orientamento possono
essere rintracciati nell’Aristotele dell’Etica e della Politica, in Hegel, in Tocqueville, nel
marxismo e nel pragmatismo di Dewey e James. La loro idea di sfera pubblica si muove su un
piano di netto anti-universalismo, dando centralità al contesto relazionale dei soggetti e delle
identità nella convinzione per cui le appartenenze sociali e culturali, i valori e le tradizioni della
comunità giocano un ruolo fondamentale nella costituzione del Sé. In questo senso, il
comunitarismo si pone in netta antitesi al liberalismo, avanzando contro di esso obiezioni che
si muovono seguendo tre linee fondamentali: 1) a partire dalla nozione di Sé (Self) e il concetto
di persona, porta avanti una critica alla teoria liberale e alla teoria contrattualistica, poiché
entrambe avanzano un’idea irrealistica di individuo disincarnato, «vuoto», ridotto al proprio
essere razionale, tralasciandone invece l’esistenza emotiva e comunitaria; 2) critica l’idea di
una neutralità della giustizia avanzata da Rawls, per il quale la «giustizia come equità» tende a
collocarsi in uno spazio totalmente neutrale, al di là delle diverse concezioni morali di ogni
gruppo sociale e individuo; 3) critica il ruolo centrale e prioritario assegnato dal liberalismo ai
diritti (cfr. Pirni, 2002: 37-38). Il liberalismo promosso da Rawls e dai suoi sostenitori,
commentano questi autori, avanza un’idea irrealistica di società neutrale, fatta di individui
disincarnati e intercambiabili, in cui lo Stato ricopre un ruolo puramente procedurale e neutrale
nei confronti dei suoi stessi cittadini. Inoltre, aggiungono, perseguire scopi pubblicamente
condivisi non implica necessariamente una concezione neutrale della politica. Senza rinunciare
all’autodeterminazione dei soggetti, i comunitari rilevano come la libertà e
l’autodeterminazione degli individui si so-stanzino all’interno di pratiche sociali determinate.
Nel sostenere la pluralità delle sfere di giustizia, Walzer ne afferma l’autonomia: ogni sfera
distributiva è autonoma rispetto alle altre, dal momento che è regolata da principi propri.
Impossibile dunque raggiungere, come vorrebbero i liberali, l’ideale di un’eguaglianza
nell’uniformità. Occorre abbandonare i metodi e i modi delle dottrine novecentesche sulla
giustizia, così come l’approccio del liberalismo – poiché, sostiene l’autore, non è possibile
assumere una prospettiva neutrale circa le questioni distributive, dal momento che il significato
dei beni sociali è eminentemente con-testuale – e reimpostare i termini del discorso,
abbracciando l’idea di un’eguaglianza nei fatti complessa e l’idea di una giustizia pluralistica
nei suoi principi.
Contemporaneamente, Charles Taylor sostiene che la teoria liberale delle identità, oltre a
essere troppo astratta, non coglie l’elemento comunitario in cui l'umano è sempre gettato
(Taylor, 1993; 1994). «Animale comunitario» – laddove Aristotele lo definiva «politico» (zôon
politikòn) – l’essere umano può essere colto solo in relazione al contesto e alla sua differenza
culturale. Le differenze non possono essere colte da un punto di vista puramente normativo ma
vanno lette nella concreta relazione del soggetto con la sua dimensione di appartenenza. La
visione di Taylor si pone a distanza sia da Rawls che da Habermas, entrambi fautori di un’etica
procedurale, dietro alla quale – sostiene l’autore – si cela un posizionamento filosofico
naturalista circa la questione morale. «L’obiettivo di tale filosofia morale è quello di stabilire
che cosa è giusto fare, anziché che cosa è giusto essere; di definire il contenuto dell’obbligo,
anziché la natura della vita buona» (Taylor, 1993: 3). Tale paradigma tende a considerare solo

231
ciò che tocca tutti gli esseri umani allo stesso modo, in maniera universale, coincidendo dunque
con procedure astratte, universali, controllabili, e tralasciando la materialità delle esperienze
degli individui, i loro valori, il loro contesto. Rispetto a tale impostazione, Taylor cerca un
paradigma alternativo, schierandosi a favore di un’etica «sostantiva» o «teleologica», che
guarda non alla dimensione procedurale ma ai contenuti e ai valori del singolo (ivi: 19).
A partire da questo posizionamento teorico, la prospettiva universalista e la ragione
comunicativa vengono giudicate etnocentriche. Le comunità e le identità, sostiene Sen,
vengono prima della ragione (Sen, 2000). Per questo, la questione della giustizia non va
ricondotta a uno schema distributivo unico e universalmente valido, ma all’articolazione di una
pluralità di principi e criteri impossibili da cogliere se non in relazione ai contesti storico-sociali
di appartenenza. La giustizia, dunque, ha a che fare con la dimensione intersoggettiva e con la
formazione di valori, convinzioni e consuetudini morali all’interno delle comunità. Essa va
intesa non come insieme di vincoli procedurali e astratti, bensì sostantivi, ossia legati all’agire
sociale.
Diverse analisi hanno nel tempo tentato di mostrare come entrambe le posizioni presentino
degli elementi contraddittori. La critica più frequentemente mossa ai comunitari è quella
dell’affermazione della comunità come «a priori fattuale» (Karl Otto Apel, citato in Marramao,
2003: 121), unico soggetto trans-individuale che rischia di condurre a contraddizioni che vanno
dal rischio di reificazione dei contesti culturali, viste come entità e non come processi dinamici
e conflittuali, fino al contrappasso per cui la comunità giunge infine ad assumere i tratti
atomistici dell’individuo liberale (Marramao, 2008: 58-64).
All’interno del dibattito sulla giustizia, libertà individuali e collettive e inclusività nella sfera
pubblica si inserisce anche il provocatorio scritto di Susan Moller Okin, femminista liberale
americana, Diritti delle donne e multiculturalismo, e la ricca discussione che le sue posizioni
hanno originato (Okin, 2007). Nel tentativo di una riconfigurazione e appropriazione creativa
dei valori liberali volta a rintracciare continuità tra la libertà dei soggetti del liberalismo e la
libertà delle donne del femminismo, Okin avanza una critica sia ai difensori di un liberalismo
ridotto ai soli principi dell’individualismo e dell’interesse personale, sia ai teorici del
multiculturalismo che, nel tentativo di proteggere gli individui all’interno di culture
minoritarie, postulano «diritti di gruppo» che di fatto, dichiara l’autrice, rischiano di legittimare
l’oppressione delle donne nella sfera privata. Partendo dalla domanda «cosa fare quando le
istanze e le culture delle religioni delle minoranze collidono con la norma dell’uguaglianza di
genere che, almeno formalmente, è promossa dagli stati liberali?» (Okin, 2007: 3) Okin
sottolinea una costante tensione tra le lotte femministe e l’approccio del multiculturalismo,
dichiarando che l’alleanza tra le due impostazioni è solo apparente ed è rischiosa per le stesse
donne. Will Kymlicka, uno dei maggiori esponenti del multiculturalismo, replica all’accusa ai
diritti di gruppo: certamente è opportuno valutare attentamente le disuguaglianze interne a un
determinato contesto – in particolare quelle di genere – quando si prende in esame la legittimità
dei diritti di gruppo per le minoranze, poiché tali disuguaglianze violano l’autonomia degli
individui e creano ingiustizia (Kymlicka, 2007: 29). Tuttavia, è opportuno distinguere i diritti
di gruppo secondo due linee fondamentali: una, interna, che valuti le oppressioni e le ingiustizie
interne al gruppo; e una, di «tutela esterna» che garantisca che i membri di una minoranza
abbiano le stesse possibilità di promuovere i propri interessi della maggioranza (ivi: 30).
Inoltre, le libertà individuali non sono da interpretare in modo formale o legalistico (ibidem).

232
Proprio su questo punto si innesta la critica dell’autore, il quale trova «deplorevole» opporre
femminismo e multiculturalismo, dal momento che entrambi denunciano l’inadeguatezza della
giustizia puramente formale proposta dalla visione liberale, basata esclusivamente sui diritti
individuali – il femminismo infatti sottolinea come non basti avere lo stesso corredo di diritti
di un uomo affinché ci sia reale uguaglianza e il multiculturalismo afferma che non può esserci
uguaglianza tra i vari gruppi etnoculturali semplicemente garantendo alle minoranze lo stesso
corredo di diritti della maggioranza – condividono spesso gli stessi strumenti, immaginando gli
stessi rimedi, e hanno un comune interesse a combattere contro i «compiacimenti liberali» (ivi:
32)
Il testo di Okin solleva punti interessanti rispetto al dibattito sulla sfera pubblica, contestando
la «mappatura ideologica degli spazi» che separa artificiosamente l’ambito pubblico da quello
privato, così come l’equazione tra sfera domestica e privato, e contestando l’obiettivo della
sola inclusione delle donne nella sfera pubblica. Okin attacca il disinteresse verso l’ambito del
privato, considerato dalle teorie della giustizia uno spazio separato di cui i poteri pubblici non
devono interessarsi, e dichiara pericolose tutte le teorie politiche basate su criteri di giustizia
egualitaria astratti e presunti neutri, perché così ignorano le soggettività femminili.
Tuttavia il testo solleva numerosi problemi e critiche proponendo una visione riduttiva di cosa
davvero sia il multiculturalismo e la proposta diritti di gruppo (Kymlicka, 2007); una visione
monolitica e stereotipata di cosa siano le culture (Bhabha, 2007; Honig, 2007); un approccio
fondamentalmente colonialista, basato sull’omogenizzazione delle differenze, e radicato in uno
sguardo comparativo e valutativo (Bhabha, 2007) che non riconosce la possibilità di
autodeterminazione delle culture e le pratiche di resistenza nate all’interno delle culture
chiamate «minoritarie» (Bhabha, 2007: 92; Sassen, 2007), né le diverse sfumature assunte dal
regime patriarcale all’interno di ogni specifica cultura (Honig, 2007: 35). Nella proposta di
Okin è assente l’idea che il patriarcato sia qualcosa di trasversale alle culture, portando così
l’autrice a una visione fondamentalmente etnocentrica che pone le società liberali come più
avanzate rispetto alle culture «altre», considerate come arretrate; una visione a cui manca
completamente la consapevolezza del-la pervasività e della varietà delle forme assumibili dal
patriarcato anche nel contesto occidentale (Bhabha, 2007; Honig, 2007: 37) e che non considera
che tutte le culture impongono di fatto particolari ruoli di genere, e non solo alle donne. Inoltre,
Okin pone il genere come unico asse in base al quale leggere l’oppressione, senza tenere conto
dell’intersezione tra appartenenza etnica, la classe, il luogo di provenienza, il lignaggio (Honig,
2007: 38; Sassen, 2007. Cfr. infra).
Il dibattito acceso dal testo di Okin ci porta dunque a riflettere di nuovo sulla questione
fondamentale: come intendere l’uguaglianza in un mondo costituito da molteplici differenze
umane, inserite in contesti e dinamiche di potere differenti, che originano differenti e molteplici
condizioni di vita, individuali e collettive?

Le politiche della differenza e la ridefinizione femminista del pubblico


La questione della differenza viene portata avanti anche su un altro, decisivo, fronte. Le
teoriche femministe e del pensiero della differenza sessuale fanno della questione della
differenza sessuata un nodo fondamentale, a partire dal quale portare avanti una serrata critica
all’idea di politica, alle modalità istituzionali, all’idea di eguaglianza e al paradigma
distributivo delle teorie liberal-democratiche della giustizia (Cfr. Diotima, 1987; Irigaray,

233
2010; Libreria delle donne di Milano, 1987; Lonzi, 1974; Rivolta Femminile, 1977; Young,
1996). In particolare, il pensiero e le pratiche nate sul territorio italiano contribuiranno in modo
specifico a un radicale ripensamento dell'idea di politica e di potere, facendo saltare dicotomie
e polarizzazioni, prima fra tutte quella fra pubblico e privato, personale e politico (Castelli,
2015).
Nel clima acceso del dibattito su globalizzazione, diritti giuridici e diritti culturali collettivi e
della critica ai paradigmi moderni, Iris Marion Young affronta le questioni del dibattito tra
comunitari e liberali a partire da un posizionamento teorico di tipo femminista, sostenendo, nel
suo Politiche della differenza, che nessuna trasformazione sociale è pensabile e praticabile
all’interno di istanze di lotta per l’uguaglianza se questa viene intesa come semplice
assimilazione delle differenze (Young, 1996). Giustizia e uguaglianza sono un binomio da
mettere in questione: occorre, infatti, pensare una giustizia diversa, radicata in una prospettiva
di lotta per la differenza stessa; solo in questo modo è possibile pensare un modello di sfera
pubblica davvero eterogeneo. Lo stesso concetto di eguaglianza nella sfera pubblica va dunque
ripensato e riformulato: l’i-dea di un trattamento eguale e paritario, senza distinzioni di razza,
genere, classe, per tutti e tutte, è infatti inefficace, poiché basata su un modello di inclusione
che procede per assimilazione e omologazione. Allo stesso modo, nel modello di Rawls,
commenta l’autrice, pur presupponendo che vi sia pluralità, le con-dizioni della scelta razionale
escludono le differenze dei soggetti coinvolti e qualunque discussione politica che le metta a
tema (ivi: 128-129). Il velo di ignoranza circa il posizionamento individuale, centrale
nell’esperimento contro-fattuale rawlsiano della posizione originaria, procede a cancellare ogni
caratteristica individuale portatrice di differenza, al fine di garantire un procedimento razionale
e universale radicato di fatto in assunti identici elaborati a partire dal medesimo punto di vista.
In questa contrattazione le differenze, le quali richiederebbero una discussione politica,
vengono dunque rimosse. Come è possibile articolare, all’interno di una sfera pubblica così
connotata, questioni quali l’oppressione, lo sfruttamento, la marginalizzazione dei soggetti e
delle culture?
La prospettiva di inclusione proposta da Young, tenendo ferma l’idea di differenza, propone
un trattamento differenziato per ciascun gruppo di individui. Lungi dall’essere discriminatoria,
questa idea di inclusività della sfera pubblica non guarda alle differenze come a imperfezioni
di un piano più ampio ed evoluto e, diversamente dall’idea di inclusione tramite assimilazione,
non riproduce dinamiche di dominazione di un gruppo (che include) sull’altro (che deve essere
incluso). L’azione positiva (affirmative action) del riconoscimento delle differenze, sostiene
l’autrice, non nega l’accesso universale ai diritti, né conduce a un pluralismo radicale e
relativista, bensì apre alla possibilità di ridefinire lo stesso concetto di giustizia. Young propone
così un passaggio a politiche sensibili alla differenza, per la differenza e della differenza, che
tengano conto dei nessi e degli intrecci tra universale e particolare, diritti e pratiche, tra corpi
e città (Perrone, 2016).
Al centro della sfera pubblica Young, e con lei molte donne della teoria e del movimento
femminista, pone i corpi, la loro materialità e la dimensione politica della loro esistenza,
ponendosi così in netto contrasto con quella parte della tradizione politica moderna che nella
sua pretesa di neutralità ha prodotto gerarchie ed esclusioni a partire da polarizzazioni op-
positive che escludono i corpi, le loro specificità e differenze (Castelli, 2015). Tale
focalizzazione sui corpi permette a Young di evidenziare gli effetti discriminatori ed escludenti

234
della divisione in ambiti pubblici e privati. La vita urbana rappresenta il luogo dell’alternativa
tra l’idea di sfera pubblica e di giustizia proposta dai liberali e l’ideale comunitario, di cui
Young condivide molti punti, ma che considera imprigionato nella logica delle identità e troppo
vicino al rischio della cancellazione delle differenze.
[...] Differenza, giustizia, genere, corpi si intrecciano nelle cosiddette «politiche della
differenza», le uniche, sostiene Young, in grado di mirare al contenimento delle dinamiche di
dominio e oppressione determinate dai processi istituzionali.
In un articolo degli stessi anni Nancy Fraser elabora una rilettura critica dell’idea di sfera
pubblica habermasiana, evidenziando l’urgenza di una sua rimessa in discussione alla luce dei
mutamenti strutturali delle società tardo-capitaliste. Infatti, sostiene Fraser, la teoria di
Habermas coincide con una forma storica definita e limitata della società, risultando per molti
versi inapplicabile al contemporaneo. Occorre avviare una riflessione critica capace di
evidenziarne i limiti e di ricollocarne i termini all’interno di una società mutata e in mutamento,
non più coincidente con la società borghese, verso una versione alternativa e post-borghese
della sfera pubblica (Fraser, 1990: 56-58). Il complesso di critiche rivolte alla formulazione
habermasiana evidenzia come l’idea di sfera pubblica sia essenzialmente basata su esclusioni,
producendone a sua volta. Essa infatti esclude dal proprio ambito tutto ciò che non è razionale,
politico, e che è in tal senso considerato «privato»; inoltre ha connotazioni di genere precise e
ratifica le oppressioni, i rapporti di dominazione, le stratificazioni sociali. Letta a partire da un
posizionamento femminista, la sfera pubblica habermasiana risulta dunque particolarmente
debole. Le distinzioni su cui si radica collocano il potere all'interno dei confini del politico e
della burocrazia, tralasciando tutto ciò che avviene nella sfera del sociale, ritenuta non politica,
e depoliticizzando tutto quello che non rientra nell’attività razionale e discorsiva. Esistono
invece, sottolinea Fraser, diversi piani e sfere di potere, così come diversi livelli di interazione
e combinazione tra di essi. La prospettiva habermasiana e la sua rigida distinzione tra ciò che
è pubblico e ciò che non lo è (in particolare il mercato e la famiglia) riproducono la vecchia
divisione tra la sfera domestica, a cui sono state storicamente destinate le donne, e l’ambito
politico – maschile – della sfera pubblica. Inoltre, sottolinea l’autrice, mettere tra parentesi le
differenze non solo non equivale ad eliminarle nella realtà, ma non crea alcuno spazio di
possibilità omogeneo.
Si suppone che gli individui nella sfera pubblica agiscano «come se» fossero tutti uguali.
Questo è davvero possibile? La risposta dell’autrice è negativa. In-fatti possono darsi
impedimenti informali alla partecipazione anche in un contesto in cui formalmente e
legalmente si è ammessi (ivi: 73), e la deliberazione razionale può portare avanti forme
mascherate di dominazione. La democrazia politica, per essere reale, deve fondarsi su una reale
eguaglianza sociale. Inoltre, possiamo davvero dire che la sfera pubblica sia davvero una e
omogenea? Esiste davvero la possibilità di una sfera pubblica razionale e non conflittuale?
Quella habermasiana è una sfera pubblica idealizzata e storicamente connotata, che risulta
problematica nelle società multiculturali e nelle società stratificate. La storia dimostra come
nei gruppi sociali subordinati si siano spesso creati dei subaltern counterpublics, sfere
alternative e parallele in cui vengono prodotti e fatti circolare contro-discorsi con funzione
essenzialmente di contestazione. In ognuna di queste sfere le identità vengono negoziate e
plasmate nell’interazione stessa. La partecipazione reale a uno scenario democratico trova

235
dunque maggiore possibilità di attuazione in una dimensione di molteplicità dei pubblici,
anziché in uno solo (ivi: 65-70).
In generale, il contributo femminista è stato determinante nel ridefinire l’idea di sfera pubblica,
proponendo una visione nuova e più ampia delle modalità in cui l’ambito della giustizia e la
vita buona debbano essere messe in relazione tra loro (Lara, 2003: 109). Di particolare interesse
è il lavoro di Sheyla Benhabib che, sviluppando il suo discorso sulla sfera pubblica a partire
dalla ripresa di Habermas e della sua etica del discorso, pone tuttavia un’istanza di cautela circa
le ipotesi sviluppate dalle teorie liberali e dalle etiche procedurali in relazione a ambiti pubblici
e privati (Benhabib, 1992; 1994a; 1994b). Benhabib propone una concezione allargata degli
spazi pubblici che eviti l’esclusione a priori di alcune questioni o realtà da ciò che viene ritenuto
tema di interesse pubblico. Poiché riconoscimento ed eguaglianza non vanno lette in senso
astratto e kantiano e la questione dell’autodeterminazione deve essere considerata legata a
quella dell’auto-realizzazione, le questioni relative alla «vita buona» non devono essere escluse
dall’interesse pubblico. Il femminismo universalista, aggiunge Benhabib, ha dimostrato che il
riconoscimento è una forma basilare di solidarietà e che la giustizia non può derivare dalla
distinzione netta tra interessi della vita pubblica e interessi privati.
La teoria femminista ridefinisce il senso di termini come riconoscimento e uguaglianza nella
sfera pubblica. Durante gli anni Settanta e poi negli Ottanta, il pensiero della differenza avanza
un’idea di inclusione diversa e opposta a quella proposta dal femminismo cosiddetto
emancipazionista. Per questa nuova elaborazione essere incluse nello spazio presunto neutro
del sociale corrisponde nei fatti a una perdita della portata singolare dei soggetti e della loro
differenza sessuata. La libertà immaginata dalla postura emancipazionista porta a coincidere
con l’adesione a un modello eteronomo, costringendo a uniformarsi a modelli e quadri giuridici
dati, creati da qualcun altro per qualcun altro, cancellando così l’esperienza individuale e
soggettiva. L’idea di uguaglianza tra uomini e donne viene dunque smascherata nei suoi esiti
omologanti, violenti, e politicamente improduttivi. Rifiutando l’uguaglianza a favore di una
pratica politica orientata dalla differenza, le femministe si spostano dal piano dell’inclusione,
che presuppone l’adesione a un modello eteronomo, a quello dell’autodeterminazione, che
permette l’espressione delle differenze e la creazione di nuovi immaginari. Mentre il
femminismo emancipazionista vede nelle differenze di genere un rischio di sessismo ed
esclusione, il femminismo della differenza rifiuta la misura dell’eguaglianza – non utilizzabile,
poiché concettualizzata dal maschile – proponendo un recupero delle specificità e qualità
incarnate dalla differenza sessuale. […]
Sullo sfondo di questo spostamento si muove un’ulteriore critica di Fraser, la quale rimprovera
al dibattito femminista su eguaglianza e differenza di non saper far riferimento, come invece
dovrebbe, sia alle ingiustizie portate avanti sul piano economico-sociale sia a quelle culturali,
tenendo così insieme la questione della redistribuzione e quella del riconoscimento (Fraser,
1996; Fraser, Honneth, 2007). Redistribuzione e riconoscimento hanno scopi differenti – il
primo lotta per l’uguaglianza, il secondo è collegato alla differenza – e realizzano modalità di
lotta diverse. Allo stesso modo, le ingiustizie contro cui si muovono i due criteri sono differenti,
eppure spesso intrecciate. Il femminismo dunque, continua Fraser, se ha avuto il merito di
formulare un nuovo linguaggio di giustizia, proponendo un modello adeguato per pensare non
solo le problematiche di genere, ma anche quelle di razza, etnia, sessualità, nazionalità, non è
però riuscito ad elaborare modelli che permettessero di distinguere le identità democratiche da

236
quelle antidemocratiche, a distinguere tra differenze giuste e ingiuste. Entrambi i sensi del
femminismo, tra uguaglianza e differenza, hanno tralasciato le questioni della redistribuzione
e del riconoscimento per concentrarsi esclusivamente sull’ingiustizia della valutazione
culturale che invece, secondo l’autrice, può essere affrontata solo nel momento in cui ci si trovi
davanti a una reale eguaglianza sociale (ibidem).
La decostruzione della dicotomia pubblico/privato portata avanti dai femminismi conduce
all’idea di performatività nella sfera pubblica e a una visione dell’agency che si sposta con
decisione dalle categorie habermasiane. In questo senso, non si può non fare riferimento
all’elaborazione di Judith Butler (Butler, 1996; 2013; 2014) e alla lettura della performatività
dell’azione politica proposta da Bonnie Honig (Honig, 1995b).
Judith Butler avanza una proposta, teorica e politica, che mira a spostare la questione delle
differenze sessuali verso una concezione storica che guarda al genere non come qualcosa di
essenzialmente e naturalmente derivante dalla sessuazione biologica, ma come il sistema
attraverso cui hanno luogo la produzione e la normalizzazione del maschile e del femminile.
Le norme di genere esistono e persistono nella misura in cui vengono agite nella pratica sociale.
Gli «atti di genere», agiti e reiterati, creano un contesto normativo che precede i soggetti e li
determina, rendendoli socialmente «leggibili» e riconoscibili. La performatività del genere
incontra così la performatività dell’azione politica condivisa: il genere infatti non viene
«performato» dai soggetti in maniera meccanica o automatica, ma è «una forma di
improvvisazione su una sorta di palcoscenico, il quale ha le sue regole ben precise» (Butler,
2014: 31; cfr. anche Butler, 2016). È un fare che non si dà mai in solitudine e che è legato a
condizioni che ci precedono, a una socialità che non ha mai un singolo autore.
Questa performatività di genere permette ai soggetti di essere visibili e riconoscibili all’interno
della sfera pubblica. Preso in questo sistema di produzione dei parametri della soggettività, l’io
è sempre costituito da norme che lo precedono e che sono alla base del suo riconoscimento ed
è dipendente da esse; tuttavia questo non esclude che si possa vivere mantenendo con quelle
norme un rapporto critico e trasformativo (Butler, 2014: 34). L’agency si trova così ad essere
colta in una dimensione paradossale: i soggetti che la incarnano sono costruiti socialmente, ma
questo dà loro la possibilità di contestare le norme che li determinano in quanto soggetti. Il Sé
è dunque costruito a partire da un mondo sociale che preesiste a esso e che non può essere
scelto, ma proprio questa condizione rende possibile l’azione trasformativa del mondo stesso.
La lettura di Honig dell’agency come modalità di azione e presenza nello spazio pubblico si
struttura a partire da una rilettura di Hannah Arendt, di cui l’autrice tenta un recupero a partire
da quella «problematica» separazione tra pubblico e privato: una distinzione, sostiene Honig,
che è come un segno sulla sabbia, ossia esiste per essere continuamente contestata, accresciuta
e corretta (Honig, 1995b: 146). L’idea di unicità nella pluralità, così come l’idea di natalità –
per la quale ogni essere umano è portatore di un nuovo inizio nel mondo e l’entrata nello spazio
pubblico corrisponde a una nuova nascita alla politica – e, soprattutto, l’idea di politica come
«agonistica e performativa» risultano, sostiene Honig, fondamentali alla luce dei mutamenti
strutturali che accompagnano gli ultimi anni del ventesimo secolo. Lo spazio pubblico di
Arendt è uno scenario mondano di attività performativa e intervento agonistico: in questo senso
è l’azione performativa che rende possibile il «noi», il soggetto dell’azione politica. Per Honig
non c’è un sé indipendente o precedente l’azione, la quale va intesa come luogo di atti
performativi e interventi illocutivi. In questo senso l’«agonismo» proprio dello spazio pubblico

237
non coincide con performance individualistiche, né può esaurirsi nell’adesione a una
prospettiva estetizzante di intervento. Significa invece, arendtianamente, azione di concerto,
pratiche condivise e pubbliche che aprono e istituiscono nuovi spazi per l’agire politico. [...]

La miseria del mondo. Muri, esclusioni, recinzioni


Il neoliberismo porta al centro della scena sociale la miseria (Bourdieu, 2015). Una miseria,
afferma Pierre Bourdieu, che non va intesa come povertà assoluta, condizione oggettiva, ma
come «miseria di posizione», che nasce e si sviluppa in uno spazio fisico e sociale precario,
degradato, in cui si viene inseriti senza possibilità di fuga. La miseria è dunque una categoria
intermedia, differente dalla povertà: è relativa alle relazioni sociali, alla percezione che gli
individui hanno di se stessi, ed è figlia della desertificazione sociale che segue il venir meno
delle istituzioni del welfare e della cosiddetta «società del benessere». Assenza di possibilità,
costrizione dell’umano in una posizione di inefficacia, inesistenza e inutilità, miseria non è il
contrario di «vita opulenta», bensì di «vita realizzabile». Nella miseria, violenza e intolleranza
si intrecciano in una serie di continue classificazioni e violenze simboliche che gli individui
subiscono e agiscono quotidianamente, portando la società a polarizzarsi, producendo i suoi
esclusi e le sue «vite di scarto».
A seguito della crisi economica del 2008 le politiche di stampo neoliberista hanno agito in
modo sempre più rilevante secondo logiche di austerità e spossessamento. Persone migranti,
povere, straniere sono progressivamente divenute il punto focale su cui si giocano le politiche
governative e di organismi trans-nazionali, in un clima di crescente intolleranza e creazione di
nuove enclosures. Sassen ha rilevato un progressivo e sempre più violento emergere di logiche
di espulsione, prodotto sia di precisi orientamenti politici che di alcune chiare realizzazioni
economiche e tecnologiche (Sassen, 2015). Più che semplici diseguaglianze, la globalizzazione
del capitale e l'impetuoso sviluppo delle capacità tecniche producono vere e proprie espulsioni
dai sistemi economici, politici, sociali, ambientali: «espulsioni delle persone, dai progetti di
vita, dall’accesso ai mezzi di sussistenza, dal contratto sociale, cardine delle democrazie
liberali» (ivi: 37), tramutandosi in veri e propri processi di selezione sociale e in veri e propri
processi di espulsione dallo spazio pubblico. Gli strumenti di tali espulsioni includono una
molteplicità di livelli, che vanno da «semplici provvedimenti a istituzioni, sistemi e tecniche
complesse che richiedono conoscenze specializzate e complicati intrecci organizzativi», che
variano a seconda dei contesti sociali e fisici in cui avvengono (ivi: 8-9). Le forme di queste
espulsioni sono molteplici e la loro brutalità cresce con la maggiore complessificazione dei
processi economici e, per questo motivo, riescono a coesistere tranquillamente con l’idea
classica di crescita economica. Quando infatti, sostiene Sassen, i meccanismi di accumulazione
del profitto non poggiano più sulla produzione di massa spostandosi verso la finanza, vengono
meno le ragioni per la richiesta di riconoscimento di diritti, lasciando il campo a espulsioni e
annullamento per incorporazione. Assistiamo, spiega Sassen, a un restringimento dello spazio
economico, in cui gli oppressi sono sempre più lontani dai loro oppressori, e l’oppressore in
realtà non è un gruppo ma un sistema complesso, privo di centro, che combina persone, reti,
macchine. Esistono, però, nelle stesse città globali, luoghi dove tutto si ricompone e da cui è
possibile ripartire per rovesciare tali dinamiche. Gli spazi degli espulsi, infatti, non sono luoghi
di assenza ma presenze tangibili, «sono potenzialmente i nuovi spazi in cui agire, in cui creare
economie locali, nuove storie, nuovi modi di appartenenza» (ivi: 238).

238
Il tema delle recinzioni e della produzione globale di miseria è stato per molto tempo al centro
della riflessione di Silvia Federici, la quale ha sottolineato, con Marx, come lo stesso sviluppo
capitalista, fin dai suoi albori, si radichi nella distruzione di relazioni e proprietà comuni
(Federici, 2018: 173). L'accumulazione originaria di cui parla Marx nel § 24 della VII sezione
del I libro del Capitale (Marx, 2017: 514-548), atto di nascita del proletariato e del capitalismo,
non è – sostiene Federici – un evento irripetibile, collocato in un dato spazio e momento della
storia, ma è un processo durato nei secoli e che arriva fino ai nostri giorni. È, anzi, la strategia
migliore a cui ricorrere in tempo di crisi del capitalismo, dal momento che non esistono mezzi
migliori dell’espropriazione dei lavoratori e dell’aumento della forza lavoro per ristabilire il
giusto equilibrio di classe (Federici, 2018: 174). La globalizzazione, sostiene l’autrice, non è
altro che un processo di accumulazione originaria su scala globale (ivi: 25). Trasposto su scala
globale, il meccanismo di produzione delle nuove recinzioni rimane invariato, ponendo fine al
controllo comune sui mezzi di sussistenza (ivi: 36) e continuando a basarsi sull'accumulazione
del lavoro e sulla produzione di miseria e pe-nuria, costruendo nuove gerarchie e divisioni
sociali in base al genere, alla razza, all’età (ivi: 29). Nell’epoca del neoliberismo e della
globalizzazione tale strategia si è fatta norma, divenendo un processo permanente, che –
radicalizzandosi – si estende ad ogni ambito dell’esistenza: non più sola appropriazione di terre,
di foreste e mezzi di sussistenza, ma estensione a tutti gli aspetti della vita dei soggetti,
«dall’acqua che beviamo alle cellule del nostro corpo» (ivi: 174) Lo smantellamento dello stato
sociale, la precarizzazione del lavoro e liberalizzazione della vita economica hanno avuto
effetti simili all’esproprio della terra, rendendo i soggetti «mutanti e migranti» (ivi: 38). In un
quadro in cui il lavoro mobile è la forma dominante di lavoro, «il capitalismo ci tiene
costantemente sulla strada, separandoci dai nostri paesi, dalle nostre terre, case e luoghi di
lavoro, perché ciò è garanzia di bassi salari, di disorganizzazione sul piano comunitario e
massima vulnerabilità di fronte a tribunali e forze di polizia» (ivi: 37).
Per questo motivo, se da una parte i confini si moltiplicano all’interno dello stesso tessuto
urbano – attraverso chiusure, privatizzazioni, esclusioni, segregazioni, processi di espulsione –
, dall’altra le frontiere tornano a essere una questione centrale del panorama geopolitico
mondiale, rendendo il ripensamento delle nozioni di frontiere e di confini un’urgenza teorica e
politica. Wendy Brown ha elaborato una cartografia geopolitica delle fortificazioni, dei muri,
delle barriere e delle chiusure del mondo globale nel suo Stati murati. Sovranità in declino
(Brown, 2013). I muri, le gated communities, le recinzioni che segnano il nostro
contemporaneo, spiega l’autrice, tentano di fortificare le comunità come dei sé autocentrati,
facendo luce in realtà sul rapporto ambivalente e paradossale tra Stati e sovranità in declino,
rivelato anche dall’intreccio tra dominio economico-finanziario neoliberista e revival
teologico-politico del neofondamentalismo. Lo scivolamento costante tra la sovranità dello
Stato e la sovranità del popolo si lega per Brown all’inesorabile e inarrestabile disgiunzione di
Stato e sovranità: gli Stati sono oggi attori non sovrani e la sovranità si è spostata in ambiti che
lo Stato-nazione avrebbe dovuto limitare e contenere: l’economia e la religione (ivi: 8-11). La
globalizzazione, sostiene Brown, ha aperto campi di tensione sempre più netti tra network
globali e nazionalismi locali, potere virtuale e potere fisico, processi di privatizzazione e open
sourcing, segretezza e trasparenza, territorializzazione e deterritorializzazione. Queste tensioni
si rivelano in modo evidente se si guarda al difficile e intricato rapporto tra interessi nazionali

239
e mercato globale, e dunque – dice Brown – tra nazione e Stato, e tra sicurezza dei soggetti e
movimenti dei capitali (ivi: 4).
Entrando in un paradossale cortocircuito con un discorso politico che vuole andare «oltre i
confini», oltrepassando le frontiere – come fa il discorso politico più neoliberista ma anche i
cosmopolitismi e gli umanitarismi delle sinistre attiviste –, gli Stati-nazione creano muri ed
erigono barriere al fine di proteggersi da attori transnazionali e non statuali («postvestfaliani».
Ivi: 8). La particolare commistione di universalismo ed esclusione, potere virtuale e barriere
fisiche, diviene lo sfondo su cui si stagliano, immobili e stolidi, i muri e le segregazioni del
nostro contemporaneo. Persistenza dell’arcaico nell’ipermoderno, il muro, nella sua stolida
fisicità è il paradosso premoderno all’interno del contesto virtuale, reticolare, fluido del
capitalismo globale. A fronte dei flussi transnazionali del capitalismo globale – che
rappresentano un’inedita forma di «sovranità senza soggetto» – e della crescente mobilità di
capitale, lavoro, cultura, dati e soprattutto persone, i muri, «eretti freneticamente» (ivi: 4),
assumono la funzione «teatrale», tutta simbolica, di icone della sovranità in erosione dello
Stato-nazio-ne. Cristallizzano l’ansia del soggetto – individuale e collettivo – di fronte al venir
meno dei confini e delle frontiere tradizionali, le sue fantasie di purificazione e contenimento.
Lungi dall’essere un trionfo dello Stato e della sua sovranità, della sua forza e capacità di
controllo, la costruzione di muri sorvegliati e presidiati non fa dunque che rivelare la sua crisi
ed erosione simbolica sotto l’impatto della globalizzazione. [...] Ormai incapaci di contenere
flussi di merci, di capitali, di informazioni e persone, gli Stati ricorrono ai muri come a una
«difesa psichica della nazione», meccanismi di rassicurazione contro un «fuori» che assedia e
minaccia l’homo munitus, l’umano barricato. Questo è il motivo per cui oggi, commenta
Brown, il legame tra globalizzazione e neoliberismo da una parte, e ritorno di nazionalismi e
xenofobia dall’altro è tanto stretto (Cfr. anche Zappino, 2016).

brani tratti da F. Castelli, Lo spazio pubblico, Ediesse, Roma 2019

LETTURE E VISIONI CONSIGLIATE


L’Odio (1995, regia di M. Kassovitz)
Io, Daniel Blake (2016, regia di K. Loach)

240
MOSTRI, CYBORG, ALGORITMI: POLITICHE DEL POSTUMANO

Post-democrazia, algoritmi, big data


In questo nuovo quadro tecnocratico la sovranità si disperde in bolle di micro-sovranità, che
coesistono con le dinamiche macroscopiche dell’economia finanziaria, delle crisi
demografiche, istituzionali, ecologiche e migratorie (ivi: 18). Quanto alla concezione
novecentesca della politica, la crisi dell’omogeneità e continuità dell’appartenenza territoriale
che fonda l’esercizio della rappresentanza viene definita da Colin Crouch «postdemocrazia»
(Crouch, 2012). Il forte mutamento del senso della cittadinanza, la posizione subalterna del
politico rispetto alle lobby economiche e il crollo del Welfare State sono per Crouch elementi
fondamentali dell’attuale crisi della democrazia. A questi elementi vanno inoltre aggiunti la
progressiva personalizzazione della comunicazione politica e il ruolo – massificato, passivo e
apatico, ma soprattutto disinteressato e disilluso – assunto dai cittadini, che si limitano, spiega
Crouch, a reagire alle proposte calate loro dall’alto attraverso lo strumento – ormai
depotenziato e vuoto – del voto elettorale. Nonostante la politica, sostiene Crouch, si sia
trasformata per via degli effetti deterritorializzanti degli interessi privati delle lobby
economiche e delle multinazionali, le procedure democratiche rimangono in vigore, ma
svuotate di senso e di efficacia. Se, da un lato, la democrazia sostanziale si sposta su un altro
piano – quello dell’attivismo al di fuori dalla sfera statuale – dall’altro, i partiti tendono a
legittimarsi in quanto «movimenti» che si oppongono ai «politicanti di mestiere» (ivi).
La crisi della democrazia si articola ulteriormente considerando gli effetti politici della «svolta
digitale» (digital turn). Manuel Castells ha definito questa nuova fase nei termini di un
«capitalismo informazionale» (Castells, 2004). Una fase inedita, caratterizzata dal fatto che
l’unità economica operativa non è più l’azienda, bensì la rete tecnologica che collega
un’impresa ai suoi segmenti, e dal fatto che queste tecnologie siano oggi tutte essenzialmente
guidate da relazioni sociali. La svolta digitale implica un ridimensionamento della funzione
socializzante dell’intrattenimento di massa e della costruzione generalista di una audience, a
favore sia della personalizzazione diversificata dei contenuti sia della concentrazione del
sistema multimediale in oligopoli. L’assunto viene sviluppato dal gruppo italiano Ippolita, che
sottolinea inoltre come «i dispositivi tecnologici portino iscritto nel co-dice che li anima le
convinzioni, le credenze e ideologie di chi li costruisce; nessuna tecnologia è neutra, tanto
meno quelle digitali, nelle quali l’ergonomia del-le relazioni è cruciale» (Ippolita, 2017: 108).
Su questo punto si concentra anche l’analisi di Silvia Federici sul capitalismo globale e le nuove
forme assunte dal processo di accumulazione originaria (Federici, 2018) che sottolinea come
la tecnologia non sia mai in sé neutra ed evidenzia come, da un lato, nel campo del lavoro, la
digitalizzazione del lavoro abbia prodotto non una liberazione ma anzi abbia portato i soggetti
a «farsi macchina», interiorizzando «i piani del capitale» e, dall’altro, sul piano delle relazioni
sociali, la ricerca di illimitata connettività abbia prodotto un nuovo tipo di isolamento e nuove
forme di separazione (ivi: 214): «le tecnologie non sono mai riconducibili a particolari
dispositivi materiali, ma incorporano e producono specifici sistemi di relazioni sociali, specifici
regimi disciplinari e cognitivi che si infiltrano in ogni aspetto delle nostre vite e non tollerano
alternative» (ivi: 213).
Come sottolinea Tiziana Terranova, gli sviluppi tecnologici nel campo dell’informazione e
della comunicazione e il crescente sodalizio tra capitale e valorizzazione dei dati prodotti in

241
rete conducono a una gestione algoritmica delle relazioni e interazioni sociali ed economiche,
«dalla produzione, alla circolazione, dalla logistica industriale alla speculazione finanziaria,
dalla pianificazione urbanistica e il design urbano alla comunicazione sociale» (Terranova,
2014). Con il diffondersi di app, social network e nuove forme di «cultura digitale», gli
algoritmi sono all’opera nella vita quotidiana di ciascuno. Un fenomeno che è espressione di
una più generale coestensività delle tecniche computazionali e dei processi di produzione,
distribuzione e consumo. Anche quando non siamo direttamente connessi ai dispositivi che
creano ed elaborano dati, siamo immersi in una dimensione che continuamente rileva, archivia,
analizza i dati prodotti dalle nostre attività. L’automazione digitale si struttura in reti,
connessioni – elettroniche e nervose – di cui gli utenti non sono che nodi, collegamenti semi-
automatici all’interno di continui flussi di informazione (ivi). Nella «crescente entropia del
flusso dei dati, altrimenti nota come Big data», quantità infinite di informazioni interferiscono
e riprogrammano gli algoritmi, producendo nuovi dati e nuove regole, garantendo così la
profilazione degli utenti necessaria all’evoluzione ed espansione del mercato (Ippolita, 2017:
29-46). Il termine profilazione viene ripreso dagli schemi e gli assunti propri dell’approccio
criminologico, dal profiling criminale, promettendo agli utenti una maggiore libertà (pubblicità
contestualizzata, personalizzata, ecc.). Quel che conta e produce valore (e soggettività), infatti,
non è la gigantesca mole di dati in sé, bensì le relazioni tra dati che gli algoritmi permettono di
cogliere, produrre, riprodurre. Nel caotico flusso di dati in cui siamo immersi «gli algoritmi
stanno attenti per noi e ci sollecitano a socializzare nel modo corretto» (ivi: 41-42).
Quantificano le nostre relazioni, comunicazioni e, attraverso processi di gamification – ossia
l’utilizzo di elementi mutuati dai giochi e delle tecniche di game design in contesti esterni ai
giochi – costituiscono la stessa interpretazione di noi stessi. Le interfacce dei nostri dispositivi,
in questo senso, sono leggibili come veri e propri strumenti di addestramento di massa, che
producono soggettivazione e assoggettamento (ivi: 80). Sono veri e propri sistemi di
apprendimento basati su l'addestramento tramite risposte indotte, per creare automatismi
performativi e sfruttamento integrale del Sé e delle sue reti di relazione (ivi: 104). Si pensi, ad
esempio, all’onnipresente «a cosa stai pensando?» in cima alla nostra homepage di Facebook.
Gli algoritmi non sono più solo insiemi omogenei di istruzioni da seguire o di tecniche, ma una
forma di «capitale fisso», che non ha di per sé valore ma che, tra le altre cose, ha il compito di
codificare quantità di sapere sociale. Non si limitano a essere mezzi di produzione finalizzati
al guadagno economico. Il loro valore strumentale non ne esaurisce il valore, poiché un
algoritmo non esprime solo un valore d’uso ma anche valori estetici, esistenziali, sociali ed
etici (Terranova, 2014), cosa che ha portato a parlare di «algocrazia» (Ippolita, 2017: 107).
In questo quadro cambia il senso del sapere e della conoscenza, portati a coincidere interamente
con le certezze dei dati, con le correlazioni statistiche e algoritmiche tra cose e persone. Nel
sogno della data-driven society, i soggetti del discorso non sono più gli esseri umani (ivi: 40).
È oggi disponibile un’inedita ed enorme quantità di informazioni sui fenomeni e sui
comportamenti sociali, sia al livello macroscopico degli andamenti finanziari e delle scelte
aziendali, sia nel microscopico del quotidiano individuale – gusti, interessi, spostamenti,
informazioni biografiche. Questa enorme quantità di dati raccolti assume un ruolo
fondamentale sia dal punto di vista del controllo sociale, sia dal punto di vista dell’analisi e
controllo dei desideri di mercato. L’eterogeneità di dati permette inoltre di creare previsioni in
qualunque ambito del sociale. Questi mutamenti hanno portato alcuni, come Benjamin H.

242
Bratton (2016), all’idea dell’emergenza di un nuovo nomos della terra, che tiene insieme le
vecchie intersezioni geopolitiche dei poteri sovrani territoriali e le nuove forme di sovranità
elaborate e prodotte nello spazio elettronico. Governi nazionali, istituzioni transnazionali e
grandi aziende come Google, Apple e Amazon si trovano così intrecciati in una nuova forma
di dominio che collega tecnologia, natura e umano, il Black Stack (ibidem).
Tali trasformazioni toccano i soggetti direttamente nel loro quotidiano dal momento che, nelle
vite di ognuno, tramite il sistema delle app e dei social network, viene a stabilirsi una relazione
sempre più intima tra corpi e tecnologia (Griziotti, 2014). Questa nuova, intensa relazione
modifica i rapporti tra corpi e spazio: le tecnologie ci aderiscono, rispondono al contatto con la
nostra pelle (è il caso, ad esempio, dei dispositivi touchscreen) e contemporaneamente creano
attorno ai nostri corpi spazi codificati, intessuti di informazioni, capaci di localizzarci e di
localizzare gli spazi attorno a noi. Queste modalità vanno molto oltre il sistema dello
spedire/ricevere proprio delle mailing list e dei forum online, poiché appunto mettono al centro
la relazione sociale stessa. Azioni quotidiane come un like su Facebook, l’essere taggati o
seguire un hashtag sono operazioni che in un certo modo trans-individuano il sociale. Queste
azioni diventano oggetti tecnici discreti che, collegati a strutture di dati e algoritmi, non
lasciano gli individui soli, isolati nel loro privato, bensì li circondano di socialità, di gruppi e
aggregazioni, basate non più su di uno slancio politico, un’empatia condivisa, una relazione
incarnata, bensì sui loro gusti, abitudini e usi in quanto consumatori e utenti privati. Sulla base
di calcoli e algoritmi le persone vengono soggettivate dall’esterno in base a parametri
configurati dalla logica neoliberista; gli aggregati di dati che derivano dalle loro azioni come
consumatori sono assunti a caratteristiche degli individui stessi. Si ha così un’aggregazione
passiva, non soggettivante.
Queste dinamiche hanno portato alcuni, come Eli Pariser, a parlare di «fine della sfera
pubblica» (Pariser, 2012). I meccanismi di controllo e autocontrollo della rete, così come la
sua organizzazione effettiva da parte di pochi grandi soggetti (Google, Microsoft e Facebook),
producono per l’autore una scomparsa della sfera pubblica e una progressiva chiusura dei
soggetti in identità chiuse e autoriferite, senza alcun dialogo tra loro. Un isolamento
impercettibile dietro alla maschera dei gruppi e delle reti che si muovono e si aggregano dietro
gusti e idee comuni, e che trova spazio in virtù delle operazioni di filtraggio dei contenuti che
dal 2009 procedono alla personalizzazione delle ricerche e dei contenuti su Internet. Grazie a
questo sistema, digitando la stessa domanda sul motore di ricerca, non tutti vediamo gli stessi
risultati, non tutti abbiamo accesso alle stesse informazioni. In breve, sostiene Pariser, non si è
più tutti uguali nella rete.
I filtri nascono per concentrare e selezionare le informazioni rilevanti per ciascun utente a
fronte del sovraccarico di dati e contenuti a cui la rete ci espone. L’effetto però è la
frammentazione e la personalizzazione, che isolano gli individui e rendono la politica in senso
tradizionale impossibile. Da un lato, Internet si fa dispositivo di controllo e depoliticizzazione,
e strumento per raccogliere i nostri dati personali tramite gli algoritmi, riducendo ogni utente a
potenziale consumatore; dall’altro, avvia un processo di omologazione sulla base di
microcosmi o microcomunità: ci confrontiamo solo con chi ha i nostri stessi gusti e le nostre
stesse idee. Il confronto è dunque limitato e viene meno la possibilità di un reale spazio di
discussione e scambio a partire da punti di vista differenti. Questo scenario riduce il nostro

243
orizzonte esperienziale e la nostra capacità di pensare criticamente, caratteristiche essenziali
dell’agire politico.
Il teorico sudcoreano Byung-Chul Han scorge in questi mutamenti l’occasione per un
ripensamento della politica fuori dalla forma tradizionale, lontano dall’agire comunicativo di
Habermas, a partire dalle nuove forme di vita sociali (e asociali, come nel caso degli
hikikomori, ossia quei soggetti che si ritirano dalla vita sociale, isolandosi e vivendo reclusi
nella loro stanza senza alcun contatto con l’ambiente esterno) nate dalla Rete (Han, 2014). La
fine della dimensione intersoggettiva prodotta dall’isolamento dei soggetti e dalla
personalizzazione dei contenuti, che porta l'insieme degli individui ad assumere i tratti di una
serie di ego isolati che non trascendono mai in un «noi», offre, sostiene Han, importanti risorse
per una politica nuova, lontana dagli schemi tradizionali. Un vero e proprio cambio di
paradigma, in cui la politica può essere pensata fuori dalle categorie di dialogo, comunicazione
e consenso.
Se per Habermas senza sfera pubblica non c’è politica, per Han è proprio la mancanza di sfera
pubblica e l’isolamento a offrire una nuova modalità del «non-stare» insieme. Se è vero,
sostiene l’autore, che dopo la caduta del muro di Berlino si è entrati in una fase post-ideologica,
negli ultimi anni questo processo di de-ideologizzazione si è fatto più radicale, poiché assieme
alle ideologie sono spariti anche i partiti nelle loro forme tradizionali. È dunque il momento
per quella che Han chiama la «democrazia dello sciame»: una nuova forma di democrazia senza
opinione pubblica, priva di agire comunicativo e di dimensione plurale, in cui la singolarità è
garanzia di eguaglianza. Per Han, infatti, la razionalità digitale è più egualitaria rispetto alla
razionalità discorsiva, in virtù della forza centrifuga e decentralizzante della Rete. In questo
senso l’autore recupera Rousseau, fautore di una politica pre-comunicativa, e la sua idea di
Volontà Generale, che non prevede enunciazione né argomentazione, sostituendo le nuove
«asocialità» nate da Internet ai cittadini della visione rousseauiana ed equiparando il ruolo
svolto dalla matematica nella teoria di Rousseau agli algoritmi delle grandi aziende che
gestiscono la rete (Rousseau, 2006b). Attraverso gli algoritmi si accede alla possibilità di
matematizzare il comportamento umano tramite la sua registrazione e analisi nell’unificazione
in un ordine algebrico e formale che produce un nuovo inconscio collettivo, «lo sciame». Tale
sciame non è però da intendersi come massa, avvisa Han, poiché se nella massa il singolo non
possiede un profilo personale e si disperde in essa, nello sciame ci sono tanti singoli ego che
non si costituiscono secondo una forma politica, ma possono generare schemi (patterns). Nella
sua visione, dunque, l'estrazione dei data (data mining) tramite gli algoritmi può portare a
compimento l’ideale della società trasparente. [...]

brani tratti da F. Castelli, Lo spazio pubblico, Ediesse, Roma 2019

LETTURE E VISIONI CONSIGLIATE


Mr. Robot (prima stagione, 2015 regia di S. Esmail)
Black Mirror (2011-2019; in particolare gli episodi: 15 milioni di celebrità, Vota Waldo!,
Caduta Libera)

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244
Ecodipendenti e interdipendenti

L’economia femminista ed ecologica affondano le proprie radici nella piena consapevolezza


della materialità dell'esistenza umana. Gli esseri umani vivono incarnati in un corpo che deve
alimentarsi e nutrirsi e questo, a sua volta, è inserito in un ambiente naturale. Il capitalismo
eteropatriarcale si è sviluppato come se le persone e le loro società potessero vivere
separatamente dalla corporeità e dall'iscrizione nella natura, ma questa finzione può essere
sostenuta soltanto nascondendo e sottovalutando i contributi della natura e delle relazioni tra le
persone. […] Siamo esseri ecodipendenti. […]
Oltre ad essere iscritti nella natura, gli esseri umani vivono incarnati in corpi vulnerabili,
contingenti e limitati. Assumere la nostra corporeità, ci porta alla consapevolezza
dell'immanenza di ogni vita umana e della necessaria interdipendenza tra le persone. Dal
momento in cui nasciamo al momento in cui moriamo, dipendiamo fisicamente ed
emotivamente dal tempo di lavoro e dalla dedizione che altre persone ci dedicano. Durante
tutta la vita, ma soprattutto in alcuni momenti, le persone non potrebbero sopravvivere se non
fosse per il tempo e l’energia che altri esseri umani impiegano per prendersi cura dei loro corpi.
E questo lavoro, nelle società patriarcali, è invisibile e svalutato. […] L'invisibilità
dell’interdipendenza, la svalutazione della centralità antropologica dei vincoli e delle relazioni
tra le persone e la subordinazione dell’empatia alla ragione sono le caratteristiche essenziali
delle società patriarcali, «tanto più sono svalutati nel discorso sociale i vincoli e le emozioni,
tanto più la società è patriarcale» (Hernando, 2012: 136). […] Il fatto di non affrontare
economicamente la divisione sessuale del lavoro nelle società patriarcali, porta a legittimare e
naturalizzare il fatto che le conseguenze materiali della corporeità umana ricadano in modo
sproporzionato sulle donne e altri gruppi oppressi e sfruttati. [...]
Possiamo sottolineare che l'economia convenzionale vive a prescindere dall'ecodipendenza e
dall'interdipendenza e ignora i limiti o le limitazioni che questi impongono alle società. Il fatto
che gli esseri umani possano vivere ‘emancipati’ dalla natura, dal proprio corpo o dalle
relazioni con altre persone non è altro che una finzione culturale. Sono le donne, i beni e i cicli
naturali, altri territori e altri popoli che mantengono e sostengono le conseguenze ecologiche,
sociali e quotidiane di questa presunta vita indipendente.
La finzione dell’ ‘uomo indipendente’ ignora l'inevitabile esistenza di esseri corporei e il modo
in cui lo spazio sociale e il tempo si costruiscono (Mellor, 1997). L'incapacità di prendere in
considerazione la corporeità umana consente di ignorare le conseguenze sociali e politiche del
fatto di essere dei viventi iscritti nella natura. Solo una minoranza di uomini, e ancora meno di
donne, sono in grado di operare in modo indipendente per un certo tempo, esternalizzando
obblighi economici e sociali. L’impossibile universalizzazione di questo privilegio non
impedisce che «il mondo pubblico sia organizzato come se questi soggetti fossero il soggetto
universale» (Mellor, 1997: 222). In queste società il mondo umano è stato costruito sopra e
contro la natura e le donne, concependo entrambe come qualcosa di «esterno, subordinato e
strumentale» (Mellor, 1997: 122).
[...] Se siamo d'accordo sul fatto che abbiamo bisogno di un'identità ecologica basata non
sull'alienazione del mondo naturale – corpo e terra – ma sulla connessione con esso, la
scommessa consiste nel riorientare il metabolismo sociale in modo da poter schivare – o almeno
adattarci a – le conseguenze distruttive del modello attuale, cercando di evolvere verso una

245
visione antropologica che riconosca i limiti fisici naturali e umani e l'immanenza come tratti
intrinseci dell'esistenza umana.

Brani tratti da Y. Herrero, “Ecodipendenti e interdipendenti. Limiti e immanenza come


caratteristiche intrinseche della vita umana”, in F. Giardini, S. Pierallini, F. Tomasello,
La natura dell’economia. Femminismo, economia politica, ecologia, DeriveApprodi 2020

LETTURE E VISIONI CONSIGLIATE


L. Conti, La lepre con la faccia da bambina, 1978
Principessa Mononoke (film, regia di H. Miyazaki – 1997)

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Attori umani e non umani

L’esperienza della pandemia pone in evidenza la necessità di interrogare l'attualità delle


dicotomie che nel tempo hanno definito e delimitato lo spazio pubblico.
Contemporaneamente, il concetto di stasis ci invita a immaginare la politica al di fuori di
queste stesse delimitazioni.
Occorre ripensare la politica a partire dai suoi soggetti “imprevisti”, riconoscendo agency a
quegli elementi, forze, dinamiche che il racconto politico occidentale ha nel tempo teso a
relegare, come ci ha indicato Loraux, tra i suoi esclusi. In questo modo è possibile recuperare,
al di là del discorso ideologico dell'Atene del V secolo su cui ci siamo soffermate, il senso
diffuso di politica in Grecia, quello che ci viene suggerito non solo dai racconti cosmogonici
e dall'epopea mitica, ma anche dalle riflessioni dei suoi filosofi. In Grecia, infatti, la politica
è considerata come ambito certamente umano, ma in costante connessione al cosmo (come
nella teoria dei cicli di governo platonica) e non riducibile alle sole azioni degli uomini: esiste
l’ambiente e le circostanze di queste azioni, che le influenzano e determinano l'efficacia (tema
poi ripreso da Machiavelli ne Il Principe). In questo quadro, l’azione umana si sviluppa in
connessione con forze che umane non sono, e la politica è intesa come spazio di interazione
e tensione tra umano e altro da sé. L’essere umano fa i conti con forze che non controlla e con
le quali negozia. Il pensiero antico, dunque, ci dà gli strumenti per pensare l'azione umana
come una parte che interagisce con altre dimensioni: distruggendone o modificandone alcune
muteranno le condizioni di vita per la stessa specie umana.
Nel tempo, questo pensiero della dipendenza e dell'interrelazione sembra essersi perduto, in
un'idea di soggetto elaborata e diffusa prima da Cartesio e poi dalla riflessione illuminista.
Tale perdita costituisce anche uno dei capi di accusa che Adorno e Horkheimer rivolgono
all'Illuminismo (Adorno, Horkheimer, 1944), tracciando una linea tra l'idea di Uomo da esso
propugnata - e in particolare il suo rapporto strumentale con l'ambito naturale, fatto di
manipolazione, dominio ed estrazione – e gli orrori dei campi di concentramento nazisti. Va
inoltre sottolineato che, anche se le tesi kantiane in Idea di una storia universale dal punto di
vista cosmopolitico del 1784 sembravano orientate a evidenziare la coappartenenza tra umano
e cosmo/natura in una visione secondo cui l'umanità è specie tra le specie e le sue azioni
seguono le leggi universali della natura, l'attribuzione kantiana della ragione al solo ambito

246
umano porta il testo, tesi dopo tesi, a una visione profondamente antropocentrica, in cui il
cosmo coincide con il mondo umano e il compito della natura è quello di produrre, infine,
l'Uomo (Giardini, 2013).
Oggi, le teorie femministe ci permettono di pensare nuovamente i soggetti al di là della
prospettiva antropocentrica e delle sue derive violente e ideologiche. Così, impariamo a
pensare al di là dell'umano, abbracciando una teorica critica postumana (Braidotti 2006, 2013,
2017), che mette al centro relazioni post-antropocentriche in un processo di de-
familiarizzazione che ci conduce verso un sapere e un'etica non lineari, nomadici (Braidotti,
2006) e tentacolari (Haraway, 2016); un pensiero in cui il soggetto si forma nelle intersezioni
tra forze relazionali esterne, è un concatenamento, in una modalità rizomatica che contesta lo
schema delle opposizioni dualiste.
Se Gilles Clément (2002) e Sarat Colling (2013) ci avevano già indirizzato verso un'idea di
agentività non soltanto umana (in un rapporto controverso e a volte oppositivo con il profitto
e con l'idea di ordine e decoro su cui si centra l'idea di umano come essere “civile”), Anna
Tsing (2015), con la sua riflessione sui funghi matsutake ci porta ancora più in là, verso
un'etica della cura trans-regno e trans-specie e verso un'idea di agency simpoietica, che si
schiude a partire dalla constatazione di una precarietà comune a tutti gli esseri, siano essi
biologici o geologici, che ci rende non autonomi, esposti, in relazione, proprio come,
relativamente al campo delle “soggettività incarnate” le teorie femministe avevano già
individuato.
Creature mortali, interconnesse in molteplici configurazioni, necessitiamo l'alterità. Presi in
intricati processi di con-vivere e con-morire (Haraway, 2016) siamo tutti olobionti legati da
processi simbiogenetici (Margulis, 1991). Il nostro, e quello dell'altro-dall-umano, è un con-
fare: il mondo con-diviene, in un processo incessante in cui “specie compagne”,
ontologicamente eterogenee, si infettano a vicenda, e co-producono quel che chiamiamo
“natura” (Haraway, 2016). «Nessuna specie agisce da sola, neanche una specie arrogante
come la nostra, che finge di essere fatta da bravi individui che agiscono in base ai copioni
della cosiddetta modernità occidentale. Sono gli assemblaggi di specie organiche e di attori
abiotici a fare la storia, sia quella dell'evoluzione che tutte le altre» (Ivi: 143). Una visione,
questa, che si incentra sull'interazione tra forme viventi, sul co-abitare e co-costituirsi, a
partire dalla quale stringere relazioni fuori dalla logica dell'appropriazione, dello
sfruttamento, del dominio, ed è possibile aggregarsi in coalizioni orizzontali, lontane dalle
gerarchie di sesso, classe, razza, specie (Balzano, 2019). In questo quadro, in cui l'umanità è
specie tra le specie, decadono le narrazioni umanistiche incentrate sulla libertà umana e sulla
sua dimensione storico-politica.
Questa postura ci permette di cogliere l'entanglement di natura e cultura, e di farne saltare
l’opposizione dicotomica che da sempre pesa sul nostro reale, mettendo in questione la stessa
idea di natura come dominio separato dall'umano, riconoscendola come costruzione storico-
discorsiva che ha orientato e permesso una relazione alle altre specie di tipo reificante e
neutralizzante (Haraway, 2016). Così, impariamo a pensare a un'alterità
inappropriata/inappropriabile e a cogliere la lezione politica che ci viene dalla deviazione, del
fallimento, dalle teratologie (Haraway, 1992). Impariamo a pensare in termini di Antropocene,

247
Capitalocene, Piantagionocene, Chthulucene64. In sostanza, impariamo a pensare in termini
di ecologie politiche e di cosmopolitica (Stengers, 2005).

Brano tratto da F. Castelli, Città impreviste: soggettività incarnate, conflitti e catastrofi


per uno spazio pubblico multispecie, in “Tracce Urbane”, 9, 2021

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DONNA HARAWAY (1944-)

L'opera di Haraway può essere letta nella cornice della filosofia continentale, in particolare
perché si colloca in quella tradizione francese del materialismo corporeo che sostiene, con
Georges Canguilhem, che ogni teoria della soggettività di questo nome debba prendere in
considerazione la struttura incarnata e organica del soggetto. Al contrario di Bruno Latour,
Haraway rinnova una tradizione di pensiero che accentua l'importanza del soggetto in termini
di responsabilità etica e politica. […] Il suo progetto è alle prese con le complessità dell'epoca
della postmodernità avanzata, è consapevole non solo del fatto che il vero concetto di "umano"
viene destabilizzato dalle relazioni sociali mediate tecnologicamente del mondo globalizzato,
ma anche del fatto che esso viene ridefinito in modo contraddittorio in base a ciò che di volta
in volta conta come "umano". Haraway, in modo simile a Deleuze e Guattari (1996, 2006),
prende in considerazione anche le/gli attrici/ori non umane/i in una prospettiva al contempo
geopolitica ed eco-filosofica. […]
Haraway continua a insistere, con approccio femminista, sulla linea della materialità del corpo,
anche se parla il linguaggio della scienza e della tecnologia piuttosto che quello della filosofia
postmetafisica. Anche se non si definisce tale, io la intendo come una pensatrice postumana
assolutamente non nostalgica, perché il suo universo concettuale è il mondo ad alta tecnologia
dell'informatica e delle telecomunicazioni. Sotto questo profilo concettuale, ella è parte della
stessa tradizione epistemologica di Bachelard, per cui la ratio scientifica non è necessariamente
nemica dell'approccio e dei valori umanistici. Inoltre, in questa linea di pensiero la pratica e la
della scienza non è vista come intrinsecamente razionalista, piuttosto è inquadrata in una
definizione più ampia in grado di comprendere il ruolo dell'inconscio, dei sogni e

64
Provando a sintetizzare un dibattito davvero molto ricco e complesso: il termine Antropocene attribuisce
impatto geologico all'azione umana, ponendo l'umanità come specie tra le specie (Giardini, 2017); Capitalocene
assegna tale potere al Capitale, alle sue logiche e ai meccanismi capitalisti di accumulazione e produzione di
valore; Piantagionocene sposta l'attenzione sulle trasformazioni invasive create a partire dall'estrazione delle
risorse, dall'alienazione e dallo sfruttamento del lavoro degli schiavi nelle piantagioni. Il sistema schiavistico viene
riconosciuto come il modello ispiratore del sistema della fabbrica, chiave di volta dell'antropocene, che continua
ad agire oggi nei sistemi di allevamento intensivo e nell'industria agroalimentare basata sulle monoculture (o nelle
grandi sostituzioni di colture, come nel caso dell'olio di palma). Donna Haraway propone di leggere il presente
(ma anche il passato e il futuro) come Chthulucene: “storia terza”, temporalità continua e tentacolare di una Terra
simpoietica e sinctonica, in cui non vi è un attore principale (sia esso l'Anthropos o il Capitale) ma storie
multispecie e pratiche del con-divenire in cui «i poteri biotici e abiotici della Terra sono la trama principale del
racconto» (Haraway, 2016: 85). Tutte queste denominazioni individuano mutamenti radicali che investono piani
al di là dell'esistenza “geostorica” umana: il rapporto tra umani e non umani, l'agency non umana, il conflitto e le
alleanze tra attori bio-geo-tecnologici, la dimensione multispecie dei cambiamenti climatici e tecnoscientifici.

248
dell'immaginazione nella produzione del discorso scientifico. Seguendo Foucault (1978, 1998),
Haraway torna a insistere sulla costruzione e manipolazione di corpi docili e conoscibili
all’interno del nostro attuale sistema sociale. […] Due punti, qui, sono degni di nota. In primo
luogo, Haraway analizza la rivoluzione scientifica contemporanea in termini più radicali di
quanto faccia Foucault, soprattutto perché può basare la sua analisi su una conoscenza diretta
delle attuali tecnologie (è importante ricordare che è biologa e sociologa della scienza, prima
ancora di essere filosofa). Al confronto con l'opera di Haraway, l'analisi di Foucault sul
disciplinamento dei corpi appare già retrodatata, oltre che intrinsecamente androcentrica.
Haraway solleva un punto che Deleuze (2002b) aveva già notato nella sua analisi dei
diagrammi foucaultiani, ovvero che essi mettevano a fuoco quello che avevano già smesso di
essere; come tutte le cartografie anche quelle di Foucault funzionano e spesso non riescono a
rendere conto della situazione "qui e ora". Mentre l’analisi di Foucault si ferma a una visione
novecentesca del sistema di produzione, Haraway inscrive la sua disamina della condizione
delle donne all’interno di un più ampio esame critico del sistema post-industriale di produzione.
Nello spiegare che il patriarcato capitalista di razza bianca si è evoluto fino a diventare
“informatica del dominio", Haraway precisa che le donne possono essere cannibalizzate dalle
nuove tecnologie e di conseguenza scomparire dal campo degli attori sociali visibili. Il sistema
post-industriale rende sempre più urgente la creazione di nuove politiche basate su
un'interpretazione più adeguata del funzionamento delle soggettività contemporanee. I cyborg
di Haraway installano un sapere capace di opposizione al centro del dibattito sulle società
tecnologiche che oggi si vanno articolando, in modo tale da mettere in evidenza le questioni
del genere e della differenza sessuale, inserendole nella più ampia discussione su
sopravvivenza e giustizia sociale. Al tempo dell'informatica del dominio diventa più impellente
che mai interrogarsi sui rapporti di forza e sulla resistenza etica e politica. […] Pertanto, con la
sua critica della logica espropriatrice delle tecno-scienze occidentali, Haraway solleva una
lunga serie di questioni cruciali. La prima riguarda il potere inteso come rete dinamica di
interconnessioni o contaminazioni ibride, come principio di non-purezza radicale. La seconda
riguarda il rifiuto di cadere nel classico errore della divisione tra natura e cultura: non c'è alcun
ordine o telos naturale, indipendente dalla mediazione tecnologica. Allo scopo di ri-articolare
la nostra relazione collettiva con il nuovo composto natura/cultura proprio delle attuali tecno-
scienze, Haraway ci invita a tessere un innovativo sistema di parentele, che sia radicalmente e
concretamente ancorato ai legami affettivi con le/gli altre/i non umane/i.
Haraway (1992) ritiene che le dicotomie soggetto/oggetto e natura/cultura risalgono alle
narrazioni patriarcali, edipiche e familiste. Contro di esse ella ci esorta a mobilitarci per un più
ampio senso di comunità, basato sull'empatia, la responsabilità e il riconoscimento. Nel suo
orizzonte concettuale, infatti, queste non sono prerogative esclusive dell’umano, in quanto
estese agli agenti e ai soggetti non umani, come gli animali, le piante, le cellule, i batteri e la
Terra nella sua totalità.
[…] Deleuze e Haraway rifiutano di sottovalutare le contraddizioni e le discontinuità tra
l'ambiente umano e quello non umano. Inoltre rifiutano di romanticizzare l'interazione che ha
luogo tra essi. L'esaltazione sentimentalista della prossimità tra umani e animali è
particolarmente problematica nella cultura contemporanea, soprattutto se si pensa al clima
sociale caratterizzato dal risorgente determinismo socio-biologico e dal culto degli animali
domestici. […]

249
In quanto corpo ibrido e corpo macchina, il cyborg, o la specie da compagnia, funziona come
un connettore; è una figurazione che esprime interrelazionalità, ricettività e comunicazione
globale e fa deliberatamente saltare ogni distinzione categorica (uomo/ macchina;
natura/cultura, maschio/femmina; edipico/anedipico). […]
Nella mia lettura, la funzione di figurazioni quali il cyborg o le specie da compagnia non è
astratta, al contrario è politica. Il loro fine è spingerci a cercare possibili modalità per ripensare
l'unità dell'essere umano. Ci occorrono nuove forme di alfabetizzazione per decodificare il
mondo di oggi. Le figurazioni implicano anche il ricorso all'etica discorsiva: perché non si può
davvero conoscere e neppure iniziare a comprendere qualcosa per cui non proviamo affinità.
L'intelligenza critica, per Haraway, è una forma di simpatia.
[…] Allo stesso modo, il progetto cyborg-femminista di Haraway mira a far decadere le
narrazioni edipiche dalle loro posizioni culturalmente egemoni e quindi a diminuire il loro
potere sulla costruzione dell'identità. Fermamente collocata nel ventre della bestia della tecno-
cultura contemporanea e nel suo immaginario sociale mutante o ibrido, Haraway contrattacca
ricorrendo alle sue figurazioni affermative e potenzianti, per diffondere nuove, e fondamentali
per la nostra epoca storica, modalità di interazione con animali, mutanti e macchine. […]
Haraway, non diversamente dalle mie soggettività nomadi, preferisce la molteplicità e le
identità frammentate e multicollocate. Diventano per lei priorità l'assenza di linearità e staticità
e le soggettività non-unitarie: donne, migranti, popoli espropriati e abusati, escluse/i, tutte/i
coloro che sono "altro" rispetto ai corpi high-tech sani ed efficienti propinati dalla cultura
contemporanea. […]
Donna Haraway propone di iniziare a problematizzare la nostra condizione storica in modo più
pragmatico e positivo, partendo dalla figurazione dell’oncotopo, in quanto primo animale
brevettato al mondo e organismo transgenico creato per soli fini di ricerca. L'oncotopo è il
tecno-corpo per eccellenza: è stato generato da laboratori e mercato, con il solo scopo di
ottenere più profitti, e si muove tra gli uffici per brevetti e i banchi di ricerca. Riferendosi
all’oncotopo con l’espressione «mio fratello/mia sorella minore», Haraway illustra con acume
il modo in cui lui/lei si trova a essere al contempo vittima e capro espiatorio, figura simile a
Cristo, sacrificata per trovare cure per il cancro al seno e salvare la vita di molte donne: un
mammifero che salva altri mammiferi.
L’oncotopo inquina la purezza della riproduzione: è una figura spettrale mai morta che
contamina l’ordine naturale, essendo una figura semplicemente fabbricata e mai nata. Lui/lei
è, per me, un apparato cyborg-tecnologico che sconvolge i codici istituiti e destabilizza il
soggetto: un dispositivo nomade. […]
I cyborg di Haraway, le specie da compagnia e le altre sue figurazioni, considerate insieme ai
rizomi di Deleuze, suggeriscono quanto sia diventato cruciale inventare schemi concettuali che
ci permettano di pensare l’unità e l’interdipendenza dell’umano, del corporeo e delle sue alterità
storiche, proprio nel momento in cui le/gli altre/i tornano a scuotere dalle fondamenta la visione
del mondo umanistica.
Occorre volgere lo sguardo a generi minori, per non dire marginali e ibridi, come la
fantascienza e il cyberpunk, per trovare illustrazioni culturali adeguate ai cambiamenti e alle
trasformazioni che interessano le forme delle relazioni vigenti nel nostro presente postumano.
I generi culturali minori, come la fantascienza, sono fortunatamente privi di pretese ambiziose
— di tipo estetico o cognitivo — e pertanto risultano essere una rappresentazione più accurata

250
e onesta di altre della cultura contemporanea, un genere "figurativo" più autocosciente. La
ricerca di rappresentazioni sociali e culturali positive dell'alterità ibrida, mostruosa, abietta e
aliena, perseguita sovvertendo la costruzione e il consumo delle differenze peggiorative, rende
il genere fantascientifico un terreno di coltura ideale per analizzare il nostro modo di rapportarci
a ciò che Haraway (1992) descrive affettuosamente come "le promesse dei mostri".
[…] In nessun luogo la forza potenziante di Haraway è tanto visibile quanto nelle sue
riflessioni sull'alterità animale, macchinica, mostruosa e ibrida. Profondamente immersa nella
cultura contemporanea, fantascienza e cyberpunk compresi, Haraway è affascinata dalla
differenza incarnata dalle/i altre/i fabbricati, mutanti o modificate/i. I suoi tecnomostri sono
forieri di attraenti promesse circa possibili re-incarnazioni e differenze attualizzate. Molteplici,
eterogenei, incivili, ci mostrano la via di accesso a diverse possibilità virtuali. Il cyborg, il
mostro, l'animale, i classici diversi dall'umano, sono quindi emancipati dalla categoria della
differenza peggiorativa e ci si presentano ora in una luce più positiva. L'intima conoscenza di
Haraway della tecnologia è lo strumento che facilita questo salto di qualità; di fatto lei è una
vera e propria esperta di cyborg-teratologia.
L'iper-realtà della condizione postumana nomade e cyborg non spazza via il politico né la
necessità della resistenza, al contrario rende più urgente che mai impegnarsi per una radicale
ridefinizione dell'azione politica. Inoltre, la materialità incarnata postumana è inscritta nei
rapporti economici, come anche Chela Sandoval (1999) ha sottolineato. Il cyberspazio è uno
spazio sociale altamente controverso, che esiste parallelamente a realtà sociali sempre più
complesse. L'esempio più lampante dei poteri sociali di queste tecnologie è il flusso di denaro
nelle borse valori governate da computer, che lavorano sempre e non dormono mai, ovunque
nel mondo. Questo puro flusso di dati segna il declino delle di narrazioni del modernismo,
eppure, come osserva acutamente Bukatman (1993), costituisce anche una sorta di grande
narrazione a sé stante, che segna il declino dell'umanesimo e l'inizio dell'epoca della post-
umanità.
Come se non bastasse, il capitale cerca e riduce a merce i fluidi corporei: il sudore e il sangue
a buon mercato della forza-lavoro a disposizione in tutto il Terzo Mondo; ma anche i fluidi del
desiderio dei consumatori del Primo Mondo che riducono a merce la loro esistenza
trasformandola in uno stato confusionale iper-saturato. L’iper-realtà non cancella i rapporti di
classe: semplicemente li intensifica. La postmodernità poggia su di un paradosso, essendo
caratterizzata da un processo che punta simultaneamente a mercificare e uniformare le culture
e che in realtà acuisce le disparità così come le disuguaglianze strutturali.
Un aspetto importante di questa situazione è l'onnipotenza dei mezzi di comunicazione visiva.
La nostra epoca ha trasformato la visualizzazione nell'ultima forma di controllo. Ciò
contraddistingue la fase finale della commercializzazione del visivo, ma ha come conseguenza
il trionfo della vista su tutti gli altri sensi. Tale primato della vista è di particolare interesse in
una prospettiva femminista, perché tende a ripristinare una gerarchia tra le diverse modalità
della percezione corporea, che sovrastima la vista rispetto ad altri sensi, soprattutto il tatto e
l’udito. La supremazia della vista è stata messa in discussione dalle teorie femministe, che
hanno elaborato efficaci critiche della scopofilia, vale a dire l'approccio al pensiero, alla
conoscenza e alla scienza centrato sulla vista. Nella cornice psicoanalitica, tali questioni hanno
assunto la forma di una critica ai pregiudizi fallologocentrici articolati intorno alla vista, che
Irigaray (2010) collega ai poteri pervasivi del simbolico maschile.

251
Fox Keller (1992) parla, invece, di una spinta avida alla penetrazione intellettiva del "segreto
della natura", esplicitando così il collegamento diretto tra la costruzione sociale e psichica della
mascolinità. In una cornice più socio-politica, Haraway (1995) attacca la priorità che la nostra
cultura riconosce alla comprensione logocentrica della visione disincarnata, il cui miglior
emblema è il satellite/occhio nello spazio. Ella vi oppone una ridefinizione incarnata, e quindi
responsabile, dell'atto del vedere, inteso come una forma di connessione all'oggetto della
visione, processo da lei descritto in termini di "distacco appassionato". […]
Qualcosa di analogo a questo ascetismo è all'opera nella scelta di Donna Haraway della
figurazione della "testimone modesta" per descrivere l’attività del pensiero critico. Tenendo
fede alla sua preferenza per le forme di sapere situate e parziali, Haraway (2000b) ricorre al
concetto di modestia come forma di responsabilità, dialogo aperto, pensiero critico finalizzato
a comprendere, non a giudicare. Ella specifica non solo che il concetto femminista di modestia
non è allergico al potere, ma anche che fornisce una ampia definizione di obiettività scientifica
come risultato locale, parziale e nondimeno valutabile. Haraway spiega (2000b, 160):
«L'approccio che sto cercando di elaborare è strettamente impegnato a testare e attestare, a
capire che si tratta sempre di un impegno interpretativo coinvolto, contingente e fallibile. Non
è mai un approccio disimpegnato».
Consapevole di essere «affascinata dalla riconfigurazione materializzata» (2000a, 55),
Haraway ripensa la posizione della ricercatrice e del pensatore critico in termini di empatia e
affinità. La "testimone modesta" non è distaccata e indifferente, bensì è una figura di confine
che tenta di ricontestualizzare la propria pratica in un presente i cui orizzonti sociali cambiano
velocemente. Accettare il tecno-presente senza cadere vittima della sua brutalità; bramare
sapere e profondità in una cultura dell'info-intrattenimento che consuma tutto all'istante;
desiderare giustizia sociale in un mondo di disparità: questi sono alcuni dei valori etici incarnati
nella concezione del soggetto di Haraway. Rifiutare le posizioni egemoniche, al contempo
denunciando le ingiustizie evidenti in materia di accesso ai diritti e mezzi per esercitarli, è un
modo per riformulare la questione del sapere nel mondo tecno-scientifico. Le virtù principali
consistono in modestia e potente immaginazione.
La dimensione profetica è più che mai viva nell'opera di Donna Haraway, che esige rispetto
epistemologico e politico per il pensiero critico, la cui creatività sarebbe inimmaginabile senza
un carburante visionario o spirituale. Questo è il pensiero post-secolare al suo apice. Le menti
profetiche, nomadi e visionarie sono pensatrici del futuro. Il futuro, in quanto oggetto attivo
del desiderio, ci esorta a muoverci oltre. Dal futuro possiamo trarre forza e motivazione per
attivarci nel qui e ora di un presente bloccato tra il "non più" e il "non ancora", tipico della post-
modernità avanzata. Il presente è già sempre un futuro: si può lasciare traccia di una differenza
positiva nel mondo. Solo il desiderio di un futuro sostenibile rende vivibile il presente.
L'anticipazione della resistenza, come il senso di poter rimandare a un possibile "domani",
traspone nuovamente le energie dal futuro al presente. Così la sostenibilità mette in circolo
modalità creative di divenire, grazie a modelli non-entropici di flusso energetico, e quindi di
trasferimento del desiderio (Braidotti 2003, 2008, 2014a). Trarre energia dalla pensabilità del
futuro significa cercare di capire in che misura i nostri desideri sono sostenibili, fino a che
punto permettono le condizioni di pensabilità del futuro stesso. A questo fine, la posizione che
più conviene assumere è quella del flusso nomade e multi-stratificato. Non c'è in ballo un atto
di fede, ma una trasposizione attiva, una profonda trasformazione, un cambiamento di cultura

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simile a una mutazione genetica, ma registrato anche a livello etico. In questo progetto, cyborg
e soggetti nomadi sono specie da compagnia che persistono.

Brani tratti da R. Braidotti, Per una politica affermativa, Mimesis, Milano 2017

LETTURE E VISIONI CONSIGLIATE


Raised by wolves (serie, 2020-)
Westworld (serie, 2016-)
Bjork - All is full of love (videoclip, C. Cunningham - 1999)

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