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Giovanna Maria Porrino, Il Grido D'abbandono Di Gesù, Un Mistero D'amore. Una Rassegna Del Tema Nel Pensiero Di Alcuni Autori Del XX Secolo (Tesi)

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Semestre invernale 2001/2002 UNIVERSITA di FRIBURGO

Facoltà di TEOLOGIA

IL GRIDO D’ABBANDONO DI GESÙ,

UN MISTERO D’AMORE
Una rassegna del tema nel pensiero di alcuni autori del XX secolo

Tesi di licenza
presentata da Giovanna Maria Porrino
sotto la direzione di
Padre Gilles EMERY, O.P.
Friburgo, 1 dicembre 2001
Introduzione
Il dolore, la sofferenza accompagnano la vita di ogni uomo. Il perché del dolore si incide
profondamente nel cuore di ciascuno, man mano che la vita scorre. Al confronto con
quest’ineluttabile realtà, un interrogativo si alza, da sempre, verso il Cielo: Perché il dolore?
Perché la sofferenza? Perché la morte?
All’età di 18 anni, la perdita improvvisa di un’amica carissima mi mette inesorabilmente
di fronte al dilemma che dolore e morte suscitano. Con un senso di rivolta profonda
nell’anima, grido a Dio: perché? A questo interrogativo sconcertante 1, non trovo risposta
alcuna. Qualche mese più tardi, in un incontro di giovani, un sacerdote mi parla di Dio Amore
e della croce, del grido d’abbandono di Gesù quale culmine dell’Amore di Dio per gli uomini.
Intuisco, per la prima volta, che la croce è il mistero più grande della vita di Gesù e anche
della mia. Conoscendo più da vicino la spiritualità del Movimento dei Focolari, il mistero di
Gesù che in croce grida l’abbandono del Padre mi si disvela in parte.
A qualche anno di distanza, questo grido risuona nuovamente e fortemente in me, prima di
fronte all’individualismo, alla scristianizzazione crescente, all’ateismo dilagante della società
europea d’Occidente, poi di fronte al collettivismo, all’ateismo programmatico e militante
della società europea d’Oriente, durante un mio soggiorno di cinque anni nella
Cecoslovacchia comunista. Un vescovo dei paesi dell’Est, affermava infatti: “La Chiesa del
silenzio è un grande Crocifisso che grida: Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?” 2.
Oggi, per le tante divisioni esistenti nell’umanità, per le lotte fratricide fra popoli e razze
diverse, per il crescente divario fra ricchi e poveri, per gli immani e tragici problemi della
nostra umanità alle soglie del terzo millennio, quel grido si alza nuovamente implorante verso
il Cielo. Ma di fronte a queste diverse problematiche che sembrano insolubili, un’intuizione
profonda, una certezza che diventa faro di luce nel più profondo e che devo al mio incontro
con Chiara Lubich e al carisma datole dallo Spirito Santo per la Chiesa di oggi, mi ha sempre
sostenuta: nel perché gridato dall’Uomo-Dio, nel mistero della passione e morte del Figlio di
Dio trovano risposta tutti i perché dell’uomo, come afferma Giovanni Paolo II: “Cristo
mediante la propria sofferenza salvifica si trova quanto mai dentro ad ogni sofferenza
umana”3.
Per tutti questi motivi - sofferenza personale di ogni uomo, sofferenze dell’umanità 4, che
oggi possiamo definire, secondo un’espressione di Giovanni Paolo II, come un accumulo
incomparabile di sofferenze, fino al punto da poter parlare di sofferenza del mondo5 - a
conclusione di questi anni di studi universitari di teologia, mi è nato ardente nel cuore il
desiderio di penetrare almeno un po’ il mistero d’Amore del Verbo Incarnato che “umiliò se

1 Il Santo Padre, Giovanni Paolo II, afferma, nella sua lettera apostolica Salvifici doloris, che solo l’uomo,
soffrendo, sa di soffrire e se ne chiede il perché. È questa una domanda difficile, molto affine ad un
altro interrogativo altrettanto difficile : perché il male ? Questi interrogativi sono posti dall’uomo a
Dio, in quanto Creatore e Signore del mondo (Salvifici doloris : lettera apostolica di Giovanni Paolo II
sul senso cristiano della sofferenza umana, 11 febbraio 1984, n. 9).
2 Jim GALLAGHER, Chiara Lubich: dialogo e profezia, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), 1999, p. 100.
3 Salvifici doloris, n. 26.
4 Fra i gravi problemi del mondo odierno, vi sono: il dissesto ecologico del pianeta, i problemi della pace
a livello nazionale e mondiale, il disprezzo dei diritti umani fondamentali, i problemi legati alla
mondializzazione, con la crescente povertà d’intere popolazioni.
5 Salvifici doloris, n. 8.

2
stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce”6 per redimerci ed essere la
risposta al dolore dell’umanità.
Nel XX secolo, per le terribili vicende storiche vissute dall’Occidente e dall’Oriente
cristiano, per le atrocità commesse contro intere popolazioni in un non lontano passato, il
paradosso della croce è riemerso al centro della riflessione teologica, con tutta la sua
sconvolgente attualità. Vari teologi, infatti, hanno colto l’importanza e la centralità del
misterioso grido di Gesù morente in croce, che manifesta lo scandalo di colui che si sente
abbandonato da Dio e lo scandalo del silenzio di Dio; in questo grido di dolore, culmine della
passione di Gesù, si può cogliere infatti “la manifestazione più alta di chi è Dio e lo svelarsi
più profondo di chi è l’uomo” 7.
Nel presente lavoro - partendo dall’intensità del grido di Gesù che manifesta la solitudine
radicale dell’Innocente per eccellenza, abbandonato dai suoi amici e, apparentemente, persino
da Dio che sembra rimanere sordo, muto o lontano 8 alla supplica del Figlio - mi propongo di
offrire una panoramica del tema, cogliendo da una parte i frutti prodotti dalla riflessione
teologica di alcuni autori, negli ultimi cinquant’anni, e ponendo dall’altra un’attenzione
particolare all’azione dello Spirito Santo, che suscita continui doni nella sua Chiesa e ciò
nell’intento di offrire una teologia viva, in cui speculazione e santità, dottrina e vita,
riflessione e contemplazione siano inscindibilmente unite 9. La panoramica inizierà con gli
scritti di tre teologi10 che hanno marchiato il secolo che si è appena concluso, presenterò in
seguito l’intuizione carismatica di una donna per, poi, concludere con l’insegnamento
dell’attuale pontefice.
Nel primo capitolo, il cardinal Charles Journet, grande ecclesiologo, discepolo di San
Tommaso, ci offre – nel suo piccolo libro, Les sept paroles du Christ en croix – una profonda
meditazione teologica sul grido d’abbandono. Nel secondo, ci avvicineremo al pensiero del
teologo riformato Jurgen Moltmann, in particolare al suo libro, Il Dio crocifisso. Non si
poteva, poi, lasciare nel silenzio un pensatore e un teologo come Hans Urs von Balthasar,
nonostante la difficile impresa di compendiare in poche pagine un pensiero poliedrico e
complesso: nel terzo capitolo, cercherò dunque di proporre una sintesi della cristologia
balthasariana, con una particolare attenzione al libro Teologia dei tre giorni. Nel quarto
capitolo presenterò le intuizioni su Gesù abbandonato di Chiara Lubich, fondatrice del
Movimento dei Focolari, uscendo dal campo specificatamente teologico per entrare in quello
della spiritualità. Ma le intuizioni della Lubich “manifestano, fin dagli inizi, l’irruzione di un
nuovo carisma nella storia” e “costituiscono un nuovo orizzonte di comprensione aperto alla

6 Fil 2,8. Le citazioni bibliche sono tratte dalla Bibbia di Gerusalemme, nona ed., Bologna, 1989.
7 Anna PELLI, «L'apporto di un carisma all'approfondimento teologico dell'abbandono di Gesù. Il
pensiero di Chiara Lubich», Nuova Umanità XVIII/2 (1996), p. 137.
8 Cf. Jean.-Noël ALETTI, «Mort de Jésus et théorie du récit», RSR 73/1(1985), p. 149.
9 Joseph RATZINGER ha scritto a questo riguardo: «Quello della connessione tra teologia e santità non è
un discorso sentimentale o pietistico, ma ha il suo fondamento nella logica delle cose e ha dalla sua
parte la testimonianza di tutta la storia. Non è pensabile Atanasio senza la nuova esperienza di Cristo
fatta da Antonio abate; Agostino senza la passione del suo cammino verso la radicalità cristiana;
Bonaventura e la teologia francescana del secolo XIII senza la nuova gigantesca riattualizzazione di
Cristo nella figura di san Francesco d'Assisi; Tommaso d'Aquino senza la passione di Domenico per il
vangelo e l'evangelizzazione». (Communio 87 [1986], p. 101, cit. da Elio GUERRIERO, in Hans Urs von
Balthasar, Cinisello Balsamo, 1991, p. 146).
10 Dati i limiti della ricerca, non mi sarà possibile volgere lo sguardo ad Oriente, per indagare il pensiero
di filosofi e teologi russi quali Paul Evdokimov e Sergej Bulkakov, che hanno anch'essi sviluppato
ampiamente il tema che ci interessa.
3
teologia su Gesù abbandonato” 11, che rimane ancora da sondare. Nell’ultimo capitolo,
percorreremo alcune pagine di Giovanni Paolo II, tratte da due sue lettere apostoliche, la
Salvifici doloris e la Novo millennio ineunte, che presentano brevemente il mistero
dell’abbandono vissuto da Gesù nel pensiero dell’attuale Pontefice.
L’interesse che porto alla questione dell’abbandono è essenzialmente cristologico, di
conseguenza la mia attenzione verterà principalmente sul mistero della passione di Gesù, il
Verbo di Dio fatto carne, culminante nel grido d’abbandono; essendo però tale mistero il
culmine della rivelazione del Dio trinitario nel suo amore assoluto per gli uomini 12, non potrò
non accennare al legame esistente tra il grido d’abbandono di Gesù e le sue implicazioni per
la teologia trinitaria, di cui mi limiterò ad indicarne gli aspetti essenziali, senza però
sviscerarne la difficile problematica che vi è connessa e che richiederebbe uno studio a parte.
Ovviamente questo lavoro non ha nessuna pretesa di esaustività, né di originalità: con esso
si vuole semplicemente aprire uno squarcio sul misterioso grido d’abbandono che rappresenta,
secondo un’espressione di Giovanni Paolo II, “la punta più drammaticamente lacerante di
tutta la passione”13. Essendo consapevole quanto le parole umane siano povere, limitate ed
incapaci di sondare l’abissale mistero del Figlio dell’Uomo, mi avvicino ad esso con tremore,
con trepidazione e con una grande umiltà, cosciente che ciò che si potrà cogliere di esso sono
soltanto briciole. La croce infatti nasconde, secondo un’espressione di Bernard Sesboüé, una
logica divina 14 che rimane e rimarrà un mistero accessibile solo al cuore. L’attitudine più
consona per penetrare negli abissi di Dio è infatti la contemplazione, ma la mente umana
desidera penetrare il mistero, vuole comprenderlo almeno un po’, vuole di esso balbettare
qualcosa e ciò non per superbia, ma per poter amare di più Colui che ci ha amati fino a dare la
sua vita per noi 15.
Con queste pagine desidero, inoltre, esprimere la mia profonda gratitudine a Chiara
Lubich che in tutti questi anni mi è stata maestra nell’insegnarmi a riconoscere il Volto
dell’Abbandonato ed ad amarLo nelle circostanze più varie della vita.
Ringrazio vivamente il professore Gilles Emery, o.p., che ha seguito questo mio lavoro,
dandomi preziosi consigli nel corso della sua elaborazione; il mio più sentito grazie va anche
a Mons. Mamie che mi ha concesso un profondo colloquio, in cui ho potuto conoscere alcuni
aspetti della vita e dell’opera del cardinal Charles Journet e che è stato un aiuto prezioso nella
redazione delle pagine a lui dedicate.
Cordiali ringraziamenti infine a tutti coloro – amici e parenti – che mi hanno sostenuto
con la loro preghiera e col loro amore.

11 A. PELLI, «L'apporto di un carisma …I», p. 138.


12 È quanto afferma Bernard SESBOÜE, Jésus-Christ l’unique médiateur, tome I: Problématique et relecture
doctrinale, “Jésus et Jésus Christ 33”, Paris, 1988, p. 145.
13 Allocuzione del mercoledì 3 febbraio 1988, n. 8.
14 B. SESBOÜE, Jésus-Christ l’unique médiateur, tome I, p. 29.
15 Cf. Gv 15,13.

4
Capitolo I
Il cardinale Charles JOURNET: Les sept paroles du Christ en croix
A. Introduzione
Les sept paroles de Jésus en croix font entrer dans le drame d’un Dieu
crucifié pour le monde. Chacune d’elles découvre un aspect de ce mystère
unique, passant toute parole, capable d’illuminer toutes les agonies des
hommes et des peuples. Entrer dans ce mystère par un peu de
contemplation silencieuse, c’est le seul moyen de l’honorer, et de donner,
à son âme à soi, la dimension de la profondeur.
Questo breve testo, scritto dal cardinale Charles Journet 16, nel Natale del 1951, fa da
prefazione all’opera che ci occuperà in queste pagine: Les sept paroles du Christ en croix. Si
tratta, senza dubbio, di conferenze tenute dal cardinale in occasione di un ritiro spirituale in
un monastero di contemplative, pubblicate successivamente 17.
La lettura di queste pagine ci fa scoprire le due vocazioni che Journet ha sempre portato
in sé: quella contemplativa e quella teologica. Dopo l’incontro con Caterina da Siena da cui
riceve un’illuminazione senza pari su cosa è la Chiesa in tutto il suo splendore 18, il giovane
seminarista si accosta ad un altro maestro: Tommaso d’Aquino.
Il padre Pierre-Marie Emonet, amico ed erede spirituale del cardinale, afferma in
proposito: “Entre sa forme d’intelligence et la pensée de l’Aquinate se révéla comme une

16 Nato a Meyrin, nei pressi di Ginevra, il 26 gennaio del 1891, Charles Journet fu ordinato sacerdote il
15 luglio del 1917 a Friburgo, dove ritornò nel 1924 come professore di teologia dogmatica, compito
che svolse fino al 1970. Il 6 luglio 1922, incontrò per la prima volta Jacques Maritain. L’amicizia con il
grande filosofo tomista, tenuta viva da vari incontri e tramite una corrispondenza continua, avrà un
influsso sul suo pensiero teologico. Nel 1926, fondò in collaborazione col futuro vescovo, Mons.
François Charrière, Nova et Vetera, rivista trimestrale di riflessione teologica, filosofica, spirituale e
culturale che dirigerà fino alla sua morte. In questa rivista, pubblicò, oltre i suoi studi sulla Chiesa,
degli articoli in cui - con coraggio - prendeva posizione in difesa dei diritti umani, nel periodo fascista
e durante la seconda guerra mondiale. Nel 1960, Giovanni XXIII lo nominò membro della
Commissione teologica che aveva il compito di preparare il Concilio e, il 22 febbraio del 1965, fu
eletto cardinale da Paolo VI. Partecipò, in seguito, alla 4a sessione del Concilio Vaticano II con degli
interventi importanti. La sua passione per la verità ha fatto di lui – sull’esempio del suo maestro, san
Tommaso d’Aquino – un grande teologo e un grande umanista attento ai problemi del suo tempo.
L’esperienza spirituale emerge in tutti i suoi scritti. Tra i principali citiamo: L’Eglise du Verbe Incarné,
Exigences chrétiennes en politique, Destinées d’Israël, La Messe, Entretiens sur la grâce, Le Mal. Morì a Friburgo il
15 aprile del 1975 e fu sepolto, per sua volontà, nel cimitero della Certosa della Valsainte, in Gruyère.
Le precedenti note biografiche sono state tratte da: P.-M. EMONET, Le cardinal Charles Journet, portrait
intérieur, “Veilleurs de la foi 1”, Chambray-les-Tours, 1984, p. 171-173; Ch. JOURNET, Dieu à la rencontre
de l’homme: la voie théologique, Fribourg, 1981, nota biografica di copertina; G. BOISSARD, Quelle neutralité
face à l’horreur? Le courage de Charles Journet, Saint-Maurice, 2000, p. 433-439.
17 Cf. Georges M.-M. COTTIER, « L’œuvre de Charles Journet », Nova et Vetera L/4(1975), p. 257. P.-M.
EMONET dice a proposito : “Le petit livre qui porte ce titre et qui contient cette méditation est
certainement son chef-d’œuvre” (Le cardinal Charles Journet…, p. 151).
18 Ibid., p. 13. Il cardinale Charles Journet ha elaborato, tra le due guerre, un progetto ecclesiologico
grandioso compendiato nella sua opera maggiore, L’Eglise du Verbe Incarné che comporta più di tremila
pagine e testimonia il suo amore immenso e appassionato per la Chiesa. In essa, l’autore dispiega una
teologia della Chiesa le cui sorgenti maggiori provengono dall’ampiezza della sua erudizione e dalla
profondità della sua vita contemplativa. La sua teologia avrà un influsso discreto ma profondo per il
rinnovamento dell’ecclesiologia al Concilio Vaticano II. Cf. E. LEMIERE, Charles Journet: l’aurore d’une
théologie de l’Eglise, tesi di dottorato presentata alla Facoltà di Teologia dell’Università di Friburgo, Saint-
Maur, 2000.
5
harmonie pré-établie. Le lycéen avait trouvé une Source. Il y buvait à longs traits. Jamais au
cours de sa longue vie cet attachement passionné à ce Maître ne connut d’éclipse” 19.
Journet ha saputo quindi fondere in una grande unità la vocazione contemplativa e
quella teologica sull’esempio del suo Maestro, in cui aveva visto realizzata l’unione delle
tre sapienze: la sapienza mistica, la sapienza teologica, la sapienza metafisica. Egli era
cosciente che la saggezza dell’amore è superiore alla teologia 20 e che la conoscenza
contemplativa 21 è di un valore inestimabile, quest’ultima ha orientato non solo la sua
teologia ma ha marchiato la sua personalità 22 fino al punto che, nei suoi scritti, la teologia
non è mai disgiunta dalla mistica 23.
La lettura di questa profonda meditazione del mistero della croce lascia trasparire
l’anima contemplativa e teologica di Journet: in un lirismo fuori del comune, la più
profonda teologia e un’attenta esegesi s’intrecciano con la mistica, con la poesia 24, con
l’arte. Il piccolo volume, pubblicato nella collezione “La vigne du Carmel”, mostra ad ogni
pagina la profonda conoscenza che l’autore ha della Scrittura, di Sant’Agostino, San
Tommaso, San Giovanni della Croce, cui si uniscono autori a lui contemporanei, quali
Jacques Maritain.
Concludo questa breve introduzione con un’eloquente definizione che il Padre Emonet ha
dato del cardinale: “Une méditation théologique qui s’achève dans un dialogue brûlant: voilà
Charles Journet” 25.

B. Le sette parole del Cristo in croce


Il cardinal Journet ci offre, in sette quadri, delle profonde meditazioni sulle parole
pronunciate da Cristo nell’ora suprema della sua passione: l’ora in cui è stato trafitto in croce.
Ognuna ci fa entrare profondamente nel cuore del mistero cristiano.
La struttura del libro è di per sé semplice: dopo un primo capitolo introduttivo intitolato
Les paroles du Verbe, seguono sette capitoli, ciascuno dedicato ad una parola pronunziata da
Gesù sulla croce. Sono pagine, come ho già detto, in cui spiritualità e teologia si uniscono in

19 P.-M. EMONET, Le cardinal Charles Journet…, p. 22.


20 Ibid., p. 24.
21 Nella sua opera maggiore, L’Eglise du Verbe Incarné, Journet esprime così il suo pensiero
sull’argomento : « Les âmes spirituelles sont savantes quand elles parlent des grâces par lesquelles le
Christ attire à lui et change en lui son Eglise, la rend Christo-conforme. A leur école, les théologiens
ont, croyons-nous, bien des lumières à découvrir » (L’Eglise du Verbe incarné, t. II, p. 632).
22 P.-M. EMONET, Le cardinal Charles Journet…, p. 18-20.
23 Ecco un testo in cui Journet tesse le lodi della teologia mistica: “La théologie mystique, avec une
souveraine liberté, tour à tour parle et se tait. Elle parle quand elle sort de Dieu; elle se tait quand
elle rentre en Lui. Elle peut célébrer dans sa poésie, en langue de prose ou de vers, toutes les
manifestations de l’immensité divine; elle se tait devant cette immensité. Elle est tour à tour la plus
silencieuse et la plus lyrique. Car elle ne parle que pour chanter l’ineffabilité divine dont la Création
est pleine. Elle ne peut écouter, aimer, goûter sous chaque bruit de l’univers, que les dimensions du
silence éternel” (Ch. JOURNET, Connaissance et inconnaissance de Dieu, p. 145, cit. in P.-M. EMONET, Le
cardinal Charles Journet, …, p. 147).
24 P.-M. EMONET afferma: « L’abbé Journet était un poète. Celui qui, pour le connaître, n’aurait lu que
les premières années de sa revue en aurait pu tirer même la conclusion qu’il était par-dessus tout un
passionné de l’art et de la poésie. La place qu’il y faisait à l’activité créatrice était en effet très grande.
C’est peut-être par la voie de l’art que Jacques Maritain et lui se sont reconnus si profondément
fraternels ». Nello stesso libro, troviamo un’altra affermazione : « … chez Charles Journet la théologie
entretient toujours une complicité avec la poésie » (Le cardinal Charles Journet…, p. 42 e p. 84).
25 Ibid., p. 79.

6
una profonda sintesi e bellezza, da cui scaturisce una luce segreta: la contemplazione del
Cristo in croce26.
1. Le parole del Verbo
Questo capitolo che fa da introduzione agli altri sette è una meditazione sul Verbo
incarnato: Et Verbum caro factum est27. Journet, in modo sintetico ed incisivo, offre, per
prima cosa, una bellissima pagina sul Verbo eterno, sulla generazione e relazione del Verbo a
Dio Padre:
“AU COMMENCEMENT ETAIT LE VERBE… Verbe signifie Parole. Dieu, qui est
transparent, en se connaissant, s’exprime nécessairement, éternellement, totalement,
dans une Parole intérieure à lui. Il y a Celui qui conçoit, engendre, profère la parole:
c’est le Père. Et il y a la Parole conçue, engendrée, proférée: c’est le Fils. Celui qui
engendre est distinct réellement de Celui qui est engendré, le Père est distinct
réellement de Celui qui est engendré, le Père est distinct réellement du Fils. Mais ce qui
est donné par le Père et reçu par le Fils, c’est toute la substance divine, toute la nature
divine, tout l’être divin. Celui qui est Père n’est pas Celui qui est Fils, mais ce qu’est
l’un, à savoir la divinité tout entière, l’autre l’est. L’un comme la donnant, l’autre
comme la recevant; l’un comme une éternelle Origine par rapport à l’autre Terme
éternel. Et le Verbe était relatif à Dieu, le Fils était relatif au Père, pure relation
subsistante au Père, et le Verbe était Dieu. Le Père est Dieu comme se disant, le Fils est
Dieu comme étant dit. D’où son nom de Verbe. Le Verbe est Parole dite par Dieu à
Dieu. Parole silencieuse. Elle contient l’infini silence de Dieu; le Silence qu’est
Dieu” 28.
Questa Parola silenziosa può essere ascoltata, essa è discesa fino a noi, si è fatta carne, in
una donazione totale, realizzatasi in due maniere:
a) la Parola sussistente, silenziosa, ineffabile, si è fatta carne per abitare in mezzo a noi;
b) il Verbo si è fatto carne per dirsi a noi nelle molteplici e fuggitive parole di una lingua
umana, che Journet chiama “parole di carne”.
Possediamo quindi tutto di Lui: la Parola che è Gesù e le parole di Gesù. Ogni sua parola
testimonia di Lui. La prima parola, pronunciata da Gesù al Giordano e che inaugura la sua
vita pubblica, è già una rivelazione. Accettando il battesimo di Giovanni per la remissione dei
peccati, Gesù, che è senza peccato, inaugura pubblicamente la missione del Servo di Jahve
annunciato da Isaia 29. Journet evidenzia due frasi della Scrittura, che si richiamano
vicendevolmente. Alla voce che scende dal cielo su Gesù dicendo: “Questi è il Figlio mio
prediletto, nel quale mi sono compiaciuto”30 fa eco quanto già annunciato in Isaia: “Ecco il

26 Cf. «Notes bibliographiques», RT 53 (1953), p. 652.


27 Gv 1,14.
28 Ch. JOURNET, Les sept paroles du Christ en croix, Seuil, Paris, 1998, p. 9-10. Corsivo nel testo. Il paragrafo
termina con una citazione di Giovanni della Croce: « Le Père n’a dit qu’une parole, qui fut son Fils, et
il la dit toujours en éternel silence, et c’est en silence qu’elle peut être écoutée de l’âme » (Maximes, ed.
Silverio, t. IV, p. 242).
29 Is 53,2. Anche B. SESBOÜÉ vede nell'episodio del battesimo di Gesù il suo manifestarsi nella
condizione di servitore, pur essendo Egli senza peccato. Con un atto di totale solidarietà, Gesù accetta
di prendere su di sé la condizione e il destino del peccatore, di assumere - nella sua persona - tutte le
conseguenze negative del peccato. Il teologo legge l'evento del battesimo alla luce della passione, che
rivela tutto il peso contenuto dal gesto di Gesù che inaugura il suo ministero evangelico (Jésus-Christ
l’unique médiateur, tome II: Les récits du salut, proposition de sotériologie narrative, “Jésus et Jésus-
Christ 51”, Paris, 1991, p. 155-156).
30 Mt 3,17.

7
mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio” 31. La profezia del Servo di
Jahve si compie, dunque, in tutta la sua pienezza, nel Figlio diletto. La continuità esistente tra
l’Antico e il Nuovo Testamento è in tal modo evidenziata da Journet, che ne rileva, inoltre, la
novità imprevedibile: il Verbo riprende delle parole già dette, ma con una solennità fino allora
sconosciuta.
I Vangeli ci hanno poi tramandato le parole che Gesù ha pronunciato durante la sua
passione. Le sette parole pronunciate da Gesù sulla croce sono le ultime parole della sua vita:
il dramma da esse contenuto è già stato annunciato nelle sette beatitudini. Le parole
pronunciate da Gesù sul monte Calvario sono viste, infatti, da Journet in stretta connessione
con quelle pronunciate sulla montagna delle beatitudini: l’avvenimento del Calvario è la
risposta al monte delle beatitudini. Si può esitare sul modo in cui far susseguire queste sette
parole32, però – afferma Journet – un ordine interno lega fra loro queste frasi: è l’ordine che si
deduce dallo svolgimento della passione redentrice. Esse rappresentano delle tappe
dell’approssimarsi del Cristo alla morte che, dando voce al suo dolore, ci fanno intravedere il
mistero da esso contenuto. Il dramma nasconde una luce : quella del Verbo “caché au cœur de
la croix sanglante” 33.
2. Le tre prime parole
Journet afferma che “LA LUMIÈRE infinie du Verbe brille au sein de la souffrance de
Jésus” 34 e ciò traspare dalle prime tre parole, che sono aperte sugli altri: con la prima Egli
perdona al mondo, con la seconda beatifica il ladrone, con la terza ci dà sua Madre. La Prima
parola del Cristo in croce è una parola d’immensa misericordia per il mondo, un’eco della

31 Is 42,1.
32 Mettendo in sinossi le parole pronunciate dal Crocifisso, così come ci sono tramandate dai vangeli, si
giunge ad una constatazione evidente: le tre tradizioni veicolate dai vangeli non hanno in comune
nessuna parola. Ecco la sinossi:
Marco/Matteo. Luca Giovanni
Dio mio, Dio mio perché mi hai Padre, perdona loro perché Donna, ecco tuo figlio.
abbandonato? non sanno quello che fanno. 23,34 Ecco la tua madre. 9,26s.
Mc 15, 34/Mt 27,46 In verità ti dico, oggi sarai con me Ho sete. 19,28
nel paradiso. 23,43 Tutto è compiuto. 19,30
Padre, nelle tue mani affido
il mio spirito. 23,46
Per tale motivo, la maggior parte degli esegeti rigetta il concordismo che sommava le diverse parole
lette nei Vangeli, giungendo alla conclusione che Gesù, storicamente, aveva pronunciato sette parole
in croce (Gérard ROSSÉ, Il grido di Gesù in croce, una panoramica esegetica e teologica, Roma, 1984, p. 37-62).
Non voglio entrare, per motivi di spazio, nella questione esegetica, ma mi limito a segnalare, la
posizione di Pierre BENOIT sull’atteggiamento da avere di fronte alle parole pronunciate da Gesù in
croce. Il noto esegeta, pur affermando che è difficile decidere quale parola sia stata realmente
pronunciata da Gesù, ribadisce quanto segue: “Il faut recevoir les évangiles comme il sont, chacun
selon ses traditions propres qui sont vraisemblables, les recevoir avec joie en renonçant à une
compréhension qui nous échappe. Toutes ces paroles autorisées par l’inspiration des écrivains sacrés
ont l’intérêt de nous donner autant d’aperçus divers, autant d’entrevues sur l’âme profonde du
Seigneur” (Passion et résurrection du Seigneur, “Lire la Bible 6”, Paris, 1966, p. 225-226). È l’attitudine che
mi sembra abbia assunto il cardinal Journet in questo libro, ed è con questa consapevolezza che mi
avvicino, in queste pagine, al misterioso grido d’abbandono, senza prediligere l’una o l’altra fonte
evangelica, tenendo conto delle diverse tradizioni tramandateci dai quattro evangelisti e della ricchezza
di accenti contenuta da ognuna.
33 Ch. JOURNET, Les sept paroles …, p. 18.
34 Ibid., p. 35.

8
beatitudine “Beati i misericordiosi…” 35. Con la seconda parola, dopo aver implorato dal
Padre il perdono per il mondo, Gesù perdona al ladrone, promettendogli il Paradiso. La terza
parola di Gesù in croce è anch’essa rivolta agli altri, a tutta l’umanità. Con essa, Gesù non
vuole gridare la sua sofferenza, ma introdurre la Madre nel cuore stesso del dramma della
redenzione del mondo 36.
Oramai, Gesù non ha più niente: dandoci la Madre, ci ha dato tutto.

C. La quarta parola: Eloï, Eloï, lama sabachtani?


Mentre le tre prime parole di Gesù manifestano l’infinita chiarità che brilla nella sua
immensa sofferenza, le due parole successive -“Mio Dio, Mio Dio…37 ” e “Ho sete38 ”-
esprimono l’intensità del suo dolore. Sono dei gridi, delle suppliche rivolte al Cielo. Il teologo
si propone di scrutare il mistero da esse contenuto, rifacendosi al racconto di Marco39 cui
integra dei dati forniti dall’evangelista Giovanni.
1. Parola che è scandalo
Il messaggio di Gesù, contrastando con tanti aspetti della religiosità giudaica, ha suscitato
una veemente reazione dei capi religiosi che, dopo un ulteriore miracolo operato da Gesù 40,
decidono di condannarlo a morte. Gesù ha dichiarato di essere il Messia, il Figlio di Dio, la
condanna a morte come bestemmiatore è dunque giusta, la causa dei difensori dell’ordine
costituito è pura, santa e benedetta da Dio. Gesù viene crocifisso e quelli che sorvegliano
l’esecuzione si fanno beffe di lui: “Ha salvato altri, non può salvare se stesso! Il Cristo, il re
d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo”41. Ai loro occhi, è ben visibile
che egli muore come un maledetto, come un abbandonato da Dio. A questo punto dalla croce
sale una supplica 42: Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?

35 Mt 5,7.
36 Ch. JOURNET, Les sept paroles …, p. 72-73.
37 Mc 15,34.
38 Gv 19,28.
39 Mc 15,33-35. Lo stesso racconto si ritrova in Mt 27,45-47.
40 Si tratta della risurrezione di Lazzaro. Cf. Gv 11,1-49.
41 Mc 15, 31-32.
42 Mgr. Pierre Mamie, vescovo emerito della diocesi di Losanna, Ginevra e Friburgo (dal 1970 al 1995),
allievo e poi segretario del Cardinal Journet e attuale presidente della Fondazione Charles Journet, in
un colloquio avuto con lui nel maggio scorso, ricordava che il cardinale dava una grande importanza
al fatto che la frase è riportata da Marco in aramaico, la lingua materna di Gesù. Il cardinale che
accompagnava spesso dei moribondi, aveva notato che negli ultimi istanti della vita, una persona parla
la sua lingua materna. Il cardinale vedeva nel fatto che Marco abbia riportato la frase in aramaico un
segno inconfondibile della sua autenticità storica.
Simon LÉGASSE afferma che il grido di Gesù è una preghiera: sono le prime parole del salmo 22
secondo la versione aramaica traslitterata poi in greco dall’evangelista: si tratta di un caso unico nel
vangelo di Marco in cui una frase della Scrittura è riprodotta in una lingua semitica (L’évangile de Marc,
tome II, “Lectio divina, commentaires 5”, Paris, 1997, p. 972-973). Anche Claude TRESMONTANT
afferma che il Rabbi ha gridato sulla croce la traduzione aramaica del salmo 22 (L'évangile de Marc,
Paris, 1988, p.466). P. BENOIT ne afferma l'autenticità: « Cette parole est authentique; jamais les
chrétiens n'auraient inventé une parole si tragique, si dure. Ne la craignons pas, elle jette une grande
lumière sur la souffrance de Jésus et le rend très proche de nos propres désolations » (Passion et
résurrection du Seigneur, p. 223).
Giovanni Paolo II, nell’allocuzione tenuta durante l’udienza del mercoledì 30 novembre 1988,
afferma : « Marco riporta le parole in aramaico. Si può supporre che quel grido sia parso talmente
caratteristico che i testimoni auricolari del fatto, quando narrarono il dramma del Calvario, abbiano
9
Questo grido non è forse una suprema confessione di Gesù? Non dà forse ragione ai suoi
nemici? Gesù è stato condannato dai capi religiosi e politici come sovversivo e
bestemmiatore; è stato fischiato dalla folla, consegnato agli stranieri, assimilato ai criminali,
tradito da un discepolo, rinnegato da un altro, abbandonato da quasi tutti. Ha poi come
distolto da sé coloro che gli avevano testimoniato suprema fedeltà: la Madre e il discepolo
prediletto. Gesù raggiunge così lo spoliamento totale. È questo, secondo Journet, il momento
che il Padre attende per la prova ultima: il peso di una desolazione interiore, di un’angoscia
indicibile incombe sulla sua anima.
“Alors, comme si l’épreuve était excessive et ses forces de résistance sur le point de se
rompre, il les rassemble et crie d’une grande voix: Mon Dieu, mon Dieu pourquoi m’as-
tu abandonné? Il ne dit plus ici: ‘Père’, comme au temps de la première parole; il dit:
‘Mon Dieu, mon Dieu…’ ”.
Journet, defindendo la parola d’abbandono come parola fatale, si interroga sullo scandalo
che essa suscita: come potranno i contemporanei di Gesù vedere, in quest’uomo sommerso
dal dolore, il Messia venuto a liberare il popolo dalle secolari umiliazioni? Il grido
d’abbandono, inoltre, nasconde per la fede di tanti uno scandalo ancor più grande, scandalo
che rimmarà tale fino alla fine del mondo: se Egli è Dio come può dire che il suo Dio
l’abbandona? Contemporaneamente, il cardinale definisce la quarta parola come parola
adorabile, poiché essa ci svela il fondo ultimo del mistero dell’Incarnazione, ci svela “les
anéantissements du Verbe fait chair” 43.
2. Parola che rivela uno scandalo più violento: l’Incarnazione
Se la creazione è uno scandalo 44, in quanto l’universo creato non aggiunge nulla
all’Assoluto, a Colui che è, l’Incarnazione nasconde uno scandalo ancor più violento: è il
mistero dell’Onnipotente che si fa debolezza, della Parola infinita che è questo bambino che
balbetta. Con parole forti, Journet esprime questo scandalo; la ragione umana sarà sempre
tentata di razionalizzare il mistero nell’alternativa tra “un Jésus, pur homme passible, et un
Jésus, pur Dieu inaccessible aux agonies”45.
Il cardinale mette in guardia, con una formulazione molto sintetica 46, contro i due secolari
errori che minacciano la cristologia: il docetismo che, affermando che Gesù è vero Dio, ne

trovato opportuno ripetere le parole stesse di Gesù in aramaico, la lingua parlata da lui e dalla maggior
parte degli israeliti suoi contemporanei. A Marco, esse potrebbero essere state riferite da Pietro, come
avvenne per la Parola ‘Abba’ = Padre (cf. Mc 14,36) nella preghiera del Getsemani ».
43 Ch. JOURNET, Les sept paroles …, p. 82-83.
44 Journet ha esposto il problema rappresentato dallo scandalo della coesistenza di Dio e del mondo, in
suo articolo dal titolo « Dieu; I. Paradoxes divins. II. L'Esprit sur les eaux», in Nova et Vetera
XXXIV/2 (1959), p. 133-150. Per approfondire il pensiero dell’autore sull’universo di creazione come
dono del primo amore e sull’universo di redenzione come dono del secondo amore, cf. anche
l’articolo « La Rédemption, drame de l’amour de Dieu », pubblicato in Nova et Vetera XLVIII/1-2
(1973), p. 46-75; 81-103; tr. it. 1975.
45 Ch. JOURNET, Les sept paroles …, p. 83.
46 Il testo è il seguente : « Ou bien […] Jésus est vrai Dieu, mais alors il est impassible et sa souffrance
n’est qu’apparente : et voilà l’erreur des docètes ; ou bien Jésus a vraiment souffert notre souffrance,
mais alors il n’est pas Dieu : et voilà l’erreur des nestoriens » (p. 83). La formulazione ci sembra
inesatta, probabilmente si è trattato di un lapsus e Journet aveva piuttosto presente l’eresia ariana. La
posizione di Nestorio è più complessa ; la sua preoccupazione è quella di opporsi ad ogni confusione
tra l’umano e il divino in Cristo. Il problema di Nestorio risiede particolarmente nel non riuscire a
salvaguardare del tutto l’unità delle due nature che avviene al livello della persona, del prósopon di
Cristo; ma questo prósopon tende a presentarsi, nella visione nestoriana, come un composto non ben
10
ribadisce l’impassibilità rigettando la sua sofferenza come apparenza; l’arianesimo e
l’adozianismo che negano la divinità di Gesù in quanto egli ha veramente sofferto. La ragione
umana, afferma Journet, sarà incapace fino alla fine dei secoli di sostenere da sola lo choc
della rivelazione dell’Incarnazione e cercherà di rifugiarsi in uno di questi due errori. Solo la
fede riconosce la vera identità di Gesù, “Celui par qui et pour qui tout a été crée, et qui
pourtant souffre si atrocement sur la Croix, qu’il s’écrie: Mon Dieu, mon Dieu, pourquoi
m’as-tu abandonné? ”47.
3. Beatitudine e sofferenza del Cristo
Il cardinale si propone, poi, di entrare nel cuore di un altro mistero: come è possibile che
in Gesù possa coesistere insieme alla beatitudine la più immensa sofferenza? Come è
possibile che Gesù “est heureux et il souffre atrocement. Il est Dieu et il est abandonné par
son Dieu”?
Gesù – vero Dio e vero uomo - è felice non solo come Dio ma anche come uomo. Come
Dio, egli è, unitamente al Padre e allo Spirito, “le pur Océan de la béatitude infinie”48. Come
uomo, possono coesistere in lui, in modo intenso, beatitudine e dolore. Il Vangelo ci mostra,
infatti, questi due aspetti dell’umanità del Cristo: l’aspetto glorioso sia nell’esultanza
profonda di Gesù allorquando esclama: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra,
perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai
piccoli”49, sia nella Trasfigurazione; l’aspetto doloroso allorquando la tenebra sommerge
l’umanità di Gesù ed egli sperimenta paura ed angoscia; la sua anima è triste fino alla morte,
fino al punto da supplicare il Padre di allontanare il calice 50. In questo apparente paradosso, si
cela l’aspetto più profondo del mistero dell’Incarnazione, che San Tommaso 51 ha cercato di
spiegare aprendo un varco: la parte superiore dell’anima è in Paradiso, mentre le parti inferiori
sono alla tortura 52. Di fronte a tale mistero, afferma il cardinale, non rimane che tacere e
adorare.

definito e per nulla unitario, di umanità e di divinità, dove non è sufficientemente chiaro che in Cristo
si realizza una vera unità, che ha come soggetto lo stesso Verbo del Padre. Cf. Mario SERENTHÀ, «La
cristologia di Nestorio», in Gesù Cristo ieri, oggi e sempre. Saggio di cristologia, 2a ed., Torino, 1986, p.
211-213.
47 Ibid., p. 84.
48 Ibid., p. 84.
49 Mt 11,25.
50 Cf. Mc 14,33-36.
51 III, qu. 46, a. 7 e 8. Per una presentazione del pensiero di San Tommaso cf. Jean-Pierre TORRELL, Le
Christ en ses mystères: la vie et l'œuvre de Jésus selon Saint Thomas d'Aquin, tome II, “Jésus et Jésus Christ 79”,
Paris, 1999, p. 330-339.
52 Segue, a questo punto, un brano di San Giovanni della Croce sulla quarta parola di Gesù nella Salita
del Monte Carmelo. Ne cito un passaggio che mi sembra più rispondente al tema che ci interessa : « È
evidente come, al momento della morte, Egli fosse annichilito anche nell’anima, senza alcun sollievo e
conforto, essendo stato lasciato dal Padre, secondo la parte inferiore, in un’intima aridità così grande
che fu costretto a gridare : “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato ?”. Quello fu l’abbandono
più desolante che avesse sperimentato nei sensi durante la sua vita e, proprio mentre ne era oppresso,
Egli compì l’opera più meravigliosa di quante ne avesse compiute in cielo e in terra durante la sua
esistenza terrena ricca di miracoli e di prodigi, opera che consiste nell’aver riconciliato e unito a Dio,
per grazia, il genere umano. Ciò dunque avvenne nel momento in cui Nostro Signore raggiunse il
massimo del suo annichilimento in ogni campo: nella reputazione degli uomini i quali, vedendolo
morire, invece di stimarlo, si burlavano di Lui; nella natura, nel cui confronto si annichilì morendo;
nell’aiuto e nel conforto spirituale del Padre che in quel momento lo abbandonò affinché pagasse fino
all’ultimo centesimo i debiti e unisse l’uomo con Dio. In tal modo Cristo rimase annichilito e ridotto
11
La pena, cui Gesù è sottoposto, è un continuo crescendo dal giardino del Gethsémani al
Golgota. La sofferenza interiore, derivante dall’opera immane della redenzione del mondo che
Gesù deve compiere, sottende in modo segreto tutte le sofferenze esterne della passione,
riapparendo con una violenza nuova allorquando Gesù in croce si rivolge con un grido al suo
Dio:
“A l’agonie, il supplie, il dit: Abba! Père! A ce moment de sa passion, il ne supplie pas,
il se plaint d’être abandonné, il dit seulement: Mon Dieu, mon Dieu! Comme si les liens
de la filiation ne se faisaient plus sentir. A l’agonie, «il lui apparut un ange du ciel pour
le fortifier»; à la Croix, le ciel, semble sourd à sa plainte…” 53.
4. Sofferenza luminosa
Anche se la desolazione che incombe sulle regioni inferiori dell’uomo-Dio non può essere
misurata, il cardinale afferma che “Jésus vit par le sommet de son âme dans la vision
bienheureuse”, definendo follia il tentativo di Calvino che, nella sua Institution chrétienne,
allorquando parla della Discesa agli inferi 54, pensa che il Cristo in questo momento della sua
agonia abbia sperimentato gli spaventosi tormenti dei dannati e dei perduti, che abbia temuto
la maledizione e l’ira di Dio, discendendo così agli inferi. Journet afferma fortemente che
Gesù non ha temuto per la salvezza della sua anima, né ha creduto che il supplizio impostogli
fosse una punizione di Dio, né ha provato il tormento dei dannati. La sofferenza di Gesù è la
sofferenza del Salvatore del mondo, non quella di un dannato: essa è riparazione, non
punizione. La sofferenza di Cristo è la sofferenza luminosa di un Dio che muore in croce per
noi, essa è più straziante della sofferenza di un dannato. Il cardinale sottolinea che solo una
tale sofferenza è capace di misurare l’abisso che separa il bene dal male, il cielo e l’inferno,
l’amore e l’odio, l’adesione a Dio o il rifiuto di Dio. Solo una tale sofferenza è capace di
assumere interamente tutto l’umano, riscattando dal male e operando la nuova creazione. La
sofferenza luminosa55 di un Dio che muore in croce è un nuovo aspetto del mistero
dell’Incarnazione: essa supera tutta la sofferenza dei dannati ed è la più intensa sofferenza che
sia stata mai vissuta.
5. Cristo, fatto maledizione, trattato da peccato
San Paolo ci dice che Cristo è divenuto “lui stesso maledizione per noi” 56, che “Colui che
non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo

quasi nel nulla , come dice Davide: Ad nihilum redactus sum et nescivi (Sal. 72,22) » (Salita del Monte
Carmelo, l. 2, c. 7, par. 11, in Opere, Roma, 1979, pp. 92-93).
53 Ch. JOURNET, Les sept paroles …, p. 88.
54 Institution chrétienne, libro II, chap. 16, n. 10-12.
55 Ch. JOURNET, Les sept paroles …, p. 90. Questa stessa idea è stata riproposta da Journet in un’altra sua
opera : la morte di Gesù, che è al contempo Dio e uomo, pur essendo luminosa è allo stesso tempo
molto più dolorosa della morte di un semplice uomo. Il suo dolore è, in qualche modo, infinito, ben
più grande della disperazione di Giuda e di quella di tutti i dannati. La sofferenza da lui provata per la
dannazione dei peccatori ostinati, non è la sofferenza di un semplice uomo, ma quella del Verbo fatto
carne : ecco la causa misteriosa dell’agonia al Getsemani e del grande grido, che manifestano il
dramma di un Dio inchiodato in croce, che supplica e muore per liberare il mondo dalla fatalità del
peccato e che soffre nel vedere che ci sarà chi rifiuterà definitivamente il suo Amore (Exigences
chrétiennes en politique, « Notes sur le tragique », éd. Saint Augustin, Saint-Maurice, 1991, p. 382-383).
56 Gal 3,13. Journet, a questo proposito, cita in nota un’osservazione fatta dall’esegeta M.-J. LAGRANGE :
San Paolo non dice che il Cristo è maledetto e peccatore, ma che è maledizione e peccato. Sostituendo
il nome concreto con quello astratto, l’apostolo ha inteso liberare da ogni responsabilità la personalità
concreta del Cristo (Ch. JOURNET, Les sept paroles …, p. 91).
12
diventare per mezzo di lui giustizia di Dio”57. Quale il significato di questi testi, di queste
terribili parole?
Il cardinale tenta una risposta, distinguendo i due sensi racchiusi nelle parole
dell’apostolo. Il primo, più evidente, è implicito nella condanna stessa alla morte di croce:
Gesù è stato condannato da parte dei suoi nemici alla maledizione divina. Il secondo è più
misterioso, esso nasconde un legame esistente tra il piano divino di salvezza del mondo e
l’apparente identificazione di Gesù con la maledizione ed il peccato. La rivelazione ci insegna
che l’uomo è stato creato in uno stato di felicità, ma a causa della caduta nel peccato, la sua
condizione è diventata drammatica fino alla fine del mondo. Gesù è sceso nella profondità di
tale dramma, prendendolo su di sé, fino alla morte di croce, identificandosi – lui che era senza
peccato – alla nostra condizione di maledizione e di peccato per riscattarci da essa. Cristo è
divenuto per noi peccato, perché noi diventassimo in lui santità 58.
6. Gesù ha conosciuto tutti i dolori
Gesù ha provato sulla croce i dolori più intensi59 e il cardinale, in una sintesi propria,
mostra con quale tenerezza il Dottore angelico ha cercato di scrutare le sofferenze di Gesù.
San Tommaso distingue i dolori corporali e quelli spirituali 60 affermando che Gesù sulla croce
ha provato: i più intensi dolori corporali: Egli infatti possedeva la più delicata sensibilità che
sia mai esistita, essendo stato il suo corpo formato miracolosamente dallo Spirito Santo nel
seno della Vergine; inoltre la vita che egli abbandonava era, per l’unione ipostatica, di un
prezzo inestimabile; i più intensi dolori spirituali: la sua anima era come dilaniata dalla
visione dell’infinita santità di Dio e dalla marea continua del male che sale dalla terra; Gesù si
è volontariamente precipitato sulla sofferenza per abbracciarne la quantità proporzionata
all’immensità del frutto che ne sarebbe conseguito, cioè la liberazione dell’uomo dal
peccato61.
7. Le due facce della quarta parola
Journet mette in luce, successivamente, un duplice aspetto della quarta parola. Essa è, allo
stesso tempo, il grido spontaneo di Gesù e la ripresa dell’inizio del salmo 2262 che descrive le
prove del giusto in modo così penetrante che sembra predire, in modo profetico, il supplizio
futuro del Giusto per eccellenza, del Messia. Il grido di Gesù è una domanda posta al Cielo
dal Giusto e una risposta data dal Giusto a coloro che lo perseguitano. È un lamento

57 2 Co 5,21.
58 Ch. JOURNET, Les sept paroles …, p. 91-93.
59 Ibid., p. 96.
60 III, qu. 46, a. 6.
61 Ch. JOURNET, Les sept paroles …, p. 96-97.
62 È da tener presente una spiegazione data da Journet in riferimento alle parole dell’Antico Testamento
citate nei testi evangelici. Infatti, a proposito del compimento delle Scritture in Gesù, il cardinale
afferma che Gesù non è venuto per adempiere le profezie dell’Antico Testamento, ma per fare la
volontà del Padre, ma, proprio facendo la volontà del Padre, Egli compie le profezie
veterotestamentarie in maniera così alta, così piena, così divina da superare in modo mirabile le attese
dello stesso Israele. Journet si rifà, inoltre, all’autorità di San Tommaso: affermare che Cristo abbia
chiesto da bere perché le Scritture l’avevano predetto, equivarrebbe a dire che il Nuovo Testamento è
ordinato all’Antico. Bisogna, invece, capovolgere la prospettiva e affermare che le predizioni sono
state fatte perché un giorno sarebbero state vissute da Cristo (Commentaire de saint Jean, XIX, 28).
Quando l’opera affidatagli dal Padre è compiuta e tutte le profezie sono realizzate, Gesù può dire :
Tutto è compiuto (Les sept paroles …, p. 113 e p. 139).
13
straziante che sale a Dio e un’accusa terribile che pesa sulla giustizia degli uomini 63. È un
grido di dolore, ma non di disperazione, che esprime lo sconforto dell’anima del Cristo. È un
grido d’angoscia, non di rivolta. È l’inizio di un canto della speranza messianica e allo stesso
tempo una supplica straziante che sale al cielo 64.
Gesù, prostrato dall’eccesso del suo dolore e della desolazione della sua anima, per
rivolgersi a Dio fa proprie le parole del salmo messianico e grida con forte voce: Mio Dio,
mio Dio, perché mi hai abbandonato? Ciò che la quarta parola ci rivela è quindi l’indicibile
agonia del Salvatore, nel momento in cui, sulla sensibilità e le regioni inferiori della sua
anima, scende la notte di una infinita desolazione 65, cui partecipano, senza saperlo, tutti gli
abbandonati, le vittime della notte, coloro che muoiono come reietti dell’esistenza terrestre 66.
Dopo aver descritto, alla luce della beatitudine “Beati i poveri in spirito...”, la povertà di
Cristo, povertà dalle cose esteriori, povertà terribile del dolore corporale, povertà più
spaventosa dell’agonia in croce, il cardinale conclude il capitolo sulla quarta parola con una
supplica, in cui chiede a Dio la grazia che il suo proprio dolore diventi corredentore, e il
privilegio di intuire, almeno per qualche istante, il mistero dell’abbandono e della notte
redentrice del Cristo67.

D. Le tre ultime parole


La quinta parola, riportata da San Giovanni, esprime, come la quarta, l’estrema sofferenza di
Gesù: la quarta parola è un grido che esprime lo sconforto interiore, la quinta, ancor più umile, è
il grido dell’afflizione fisica. Nella quarta parola, c’è il dialogo tra Gesù e il suo Dio, nella
quinta non c’è che il lamento dovuto al supplizio provocato dalla sete. Ma eccoci, nuovamente
di fronte al mistero dell’Incarnazione, poiché colui che grida: Ho sete, è il Verbo divino. Come
la precedente, anche questa parola ha due facce: essa è un lamento estremo strappato a Gesù dal
dolore fisico, essa è la ripresa volontaria di un salmo messianico 68. Alla sete fisica che tortura
Gesù se ne aggiunge un’altra ancor più straziante: il suo desiderio di salvare il mondo. La sesta
e la settima parola – ossia le due ultime parole del Cristo in croce – fanno trasparire il dialogo
segreto e continuo che egli ha con il Padre. Esse esprimono “la maîtrise qu’il a de lui-même, et
la sérénité divine qui habite son cœur”69.

63 Ibid., p. 99.
64 J.-N. ALETTI, nel già citato articolo, afferma che, poiché il salmista si rivolge al suo Dio, che è l'unico
a poterlo salvare dal suo apparente abbandono, il grido del derelitto non può essere interpretato come
espressione di disperazione o di rivolta. Inoltre l'autore asserisce che il grido del supplicante, nel salmo
22,2, non è un grido di speranza, anche se il gridare verso Dio implica di per sé che si spera in lui, ma
piuttosto una domanda: infatti la forza dei versetti 2-11 del salmo sta nel fatto che essi si presentano
come una confessione d'incomprensione rivolta a Dio che implica l'esigenza di una risposta, non
soltanto sull'ingiusta sorte del salmista ma sulle stesse vie di Dio, quindi su Dio stesso. Per Aletti, la
domanda rivolta da Gesù a Dio, provocata dalla crescente progressione degli oltraggi cui è sottoposto,
deve rimane tale (Ibid, «Mort de Jésus …», p. 150-151).
65 Ch. JOURNET, Les sept paroles …, p. 104-105.
66 Il cardinale cita a proposito un brano di Jacques MARITAIN tratto da Bienheureux les persécutés, in Raison
et raisons, Paris, 1947, pp. 348-349.
67 Ch. JOURNET, Les sept paroles …, p. 109.
68 Secondo Journet, l’evangelista allude probabilmente a due salmi : al versetto 16 del salmo 22 , “È arido
come un coccio il mio palato, la mia lingua si è incollata alla gola” e al versetto 22 del salmo 69, “Hanno messo nel
mio cibo veleno e quando avevo sete mi hanno dato aceto”.
69 Ch. JOURNET, Les sept paroles …, p. 137.

14
La sesta parola è riportata da Giovanni: Gesù, dopo aver preso l’aceto, dice: Tutto è
compiuto. Sono compiute le profezie che annunciavano la venuta di Dio, la manifestazione
della sua santità, la venuta del re vittorioso, del figlio di Davide, del Principe della pace, del
Servitore di Jahvé, trafitto dai nostri peccati. Tutte queste figure convergono in modo
ammirabile e spontaneo in Gesù 70. Tutta la profezia concernente l’opera di Gesù è, quindi,
realizzata. Ma la frase pronunciata da Gesù ha un significato più segreto, più immediato: il
piano d’amore del Padre di salvare il mondo, attraverso l’obbedienza di Gesù, è adempiuto in
tutta la sua pienezza. Con la sesta parola, Gesù pervenuto al termine dell’itinerario terreno
rimette nelle mani del Padre la sua opera redentrice. Con la settima parola, conservata da
Luca, avendo compiuta la redenzione del mondo, Gesù pronuncia l’ultima parola: Padre,
nelle tue mani consegno il mio spirito. L’ultima parola di Gesù, come la quarta - Mio Dio,
mio Dio… - è la ripresa di un salmo: al momento di entrare nella morte, Gesù, che è Dio,
rimette al Padre il suo spirito, cioè la sua anima, creata ma immortale “le plus précieux, le
plus grave des dépôts qui aient jamais été mis en de telles mains” 71. Dopo aver detto queste
parole, “Gesù, chinato il capo, spirò” 72. Il Cristo è morto, la Chiesa nasce, il mondo è salvato.

E. Bilancio e conclusione
La conclusione concernente queste pagine, che hanno gettato una luce diffusa sul mistero
della croce e del grido d’abbandono di Gesù, verterà su due punti. In un primo tempo cercherò
di fare una sintesi del pensiero di Journet, mettendo in evidenza gli aspetti più salienti della
riflessione del nostro primo autore; in un secondo tempo vorrei brevemente rispondere ad una
domanda: la riflessione del cardinale su tale mistero ha tenuto presente la dimensione
trinitaria di esso?
1. Sintesi del pensiero di Journet sul grido d’abbandono
Il cardinale, in queste pagine luminose d’intensa spiritualità, offre anche una sintesi di
profonda teologia. Egli evidenzia, con delicatezza e con un rispetto adorante, alcuni aspetti
del grido d’abbandono, che resterà un mistero insondabile. Ne enumero quelli che mi
sembrano i principali, riassumendo il pensiero dell’autore.
a. La parola scandalosa dell’abbandono rivela lo scandalo dell’Incarnazione
La supplica, che sale dalla croce verso il Cielo, cela lo scandalo della kenosi del Verbo
fatto carne che il teologo definisce come gli annientamenti del Verbo. Di fronte a tale
mistero, la ragione umana – tentata dai due errori che da secoli minacciano la cristologia - ha
bisogno del sussidio della fede per riconoscere in Gesù, che soffre sulla croce fino a gridare
l’abbandono, Colui per mezzo del quale ogni cosa è stata creata. Il mistero dell’Incarnazione
percorre come una trama di fondo tutto lo scritto.
b. Beatitudine e sofferenza del Cristo abbandonato
Journet vuole penetrare un altro mistero abissale, legato al grido d’abbandono: Gesù è Dio
ed è abbandonato dal suo Dio, in lui coesistono la beatitudine e la sofferenza più immensa; è
questa una realtà che i Vangeli ci hanno tramandato mostrando l’aspetto glorioso e quello
doloroso dell’umanità di Gesù. Per far luce, almeno in parte, su tale mistero, il cardinale si
rivolge alla via aperta da San Tommaso: la fruitio beata era una prerogativa della parte

70 Ibid., p. 141.
71 Ibid., p. 162-164.
72 Gv 19,30.

15
superiore dell’anima del Cristo e la gloria che avrebbe dovuto inondare l’anima del Cristo e
da lì riflettersi sul suo corpo, era ritenuta in questa parte superiore dell’anima per una
disposizione dell’economia divina, in modo da non intaccare la verità dell’incarnazione e
lasciare all’umanità di Gesù la possibilità di una vera sofferenza 73. La ragione ha cercato di
dare una spiegazione, ma il mistero dell’Incarnazione sussiste, non rimane che tacere e
adorare.
c. La sofferenza del Cristo abbandonato è una sofferenza luminosa
Affermando ciò il cardinale contesta in modo forte la posizione di Calvino: pur essendo la
sofferenza dell’uomo-Dio smisurata, essa non può essere confusa con il tormento dei dannati.
Essa è la sofferenza luminosa di un Dio che muore per noi, essa sola può misurare pienamente
l’abisso che separa il bene e il male, il cielo e l’inferno. Essa sola può offrire a Dio il prezzo
della redenzione dal male. La sofferenza luminosa di un Dio che muore per noi è più intensa
d’ogni altra sofferenza e più straziante del dolore, provocato dalla disperazione. Ecco un
nuovo aspetto del mistero dell’Incarnazione.
d. Cristo, fatto maledizione, trattato da peccato
Il cardinale tenta di dare una risposta a queste due sconcertanti affermazioni dell’apostolo
Paolo e ne mette in luce due significati, uno più evidente, l’altro più misterioso. Il primo è più
evidente: senz’altro i nemici di Gesù lo hanno condannato alla maledizione 74, come
bestemmiatore, come peccatore. Ma questo primo significato ne nasconde un secondo, legato
al piano divino di salvezza: il Cristo si è identificato alla maledizione che la nostra condizione
umana comporta, per riscattarci da essa, perché noi potessimo portare la maledizione della
nostra condizione nella grazia del suo Spirito; il Cristo, senza peccato, si è identificato alla
condizione tragica in cui il peccato ci ha scagliati, affinché noi potessimo vivere riconciliati
con Dio.
e. Il Cristo ha conosciuto tutti i dolori
Journet, fondando sempre la sua argomentazione su San Tommaso, afferma che Gesù -
nella sua umanità, dotata di una sensibilità senza pari in quanto il suo corpo è stato formato
dallo Spirito Santo nel seno di Maria - ha conosciuto tutti i dolori, sia quelli fisici che quelli
spirituali, nel modo più intenso.
f. Il Cristo ha vissuto una desolazione infinita
La quarta parola ci rivela l’indicibile agonia del Salvatore, nel momento in cui la Divinità
lascia discendere sulla sua sensibilità e le regioni inferiori dell’anima la notte di un’infinita
desolazione. Al tempo stesso Journet sottolinea fortemente che il grido d’abbandono è un
grido d’angoscia e non di rivolta; è il grido spontaneo di Gesù ma anche la ripresa dell’inizio
di un salmo, ciò sta a significare, per il cardinale, che si tratta dell’inizio di un canto della
speranza messianica e, allo stesso tempo, di una supplica straziante che sale verso il cielo.
2. Il grido d’abbandono e il mistero trinitario
A questo punto possiamo chiederci se il cardinale ha considerato in chiave trinitaria
l’abbandono vissuto dal Cristo. Anche se l’autore non fa un riferimento esplicito ad

73 San Tommaso si rifà all’autorità del Damasceno il quale aveva affermato che la divinità del Cristo
permetteva alla sua umanità di fare e di patire ciò che le era proprio (De fide ortodossa, PG 94, cap. III
19, col. 1080). Per approfondire l’argomento, cf. « Souffrance et joie du Christ en croix », in J.-P.
TORRELL, Le Christ en ses mystères…, p. 330-339.
74 Cf. Dt 21,23.

16
un’interpretazione trinitaria dell’evento 75, tre indizi, rilevati dal testo, ci permettono di
affermare che la Trinità è presente e fa da sfondo a tutta la riflessione di Journet:
1) la meditazione iniziale sulla generazione del Verbo eterno da parte del Padre e la relazione
esistente tra il Padre ed il Figlio fa da introduzione all’intero libro: mi sembra questo un
indizio che ci orienta ad affermare che, con questa premessa, Journet abbia voluto dare
una chiave di lettura e di interpretazione trinitaria alla sua riflessione sulle sette parole;
2) durante la passione, l’interlocutore principale di Gesù è Dio stesso, al Getsemani come al
Golgota; al suo Dio egli rivolge la sua straziante supplica, anche se il cielo sembra sordo
alla sua preghiera 76; non lo chiama più Padre, come nella prima e nella settima parola, ma
Mio Dio come se i legami della filiazione non si facessero più sentire 77. Ma è pur sempre
il Dio d’Amore e non il Dio della collera 78. Il Dio, verso cui sale il grido d’abbandono, è
pur sempre il Padre, nelle cui mani Gesù rimetterà il suo spirito;
3) nelle ultime pagine del libro, il cardinale fa allusione ad un quadro di El Greco,
rappresentante la Trinità: il Padre, avendo udito il grande grido di Gesù prima di morire,
sembra sconvolto. Ecco le parole con cui Journet descrive la tela:
“Il y dans son regard une tendresse affolée. A le voir soutenir avec tant de pitié le
corps de son Fils entré dans la mort, et qui s’abandonne avec une étrange noblesse
entre ses mains, on dirait qu’il découvre maintenant l’excès de ses peines et qu’il
se repent de l’avoir envoyé à un tel martyre. Au-dessous, la Colombe de l’Esprit
verse sur le drame la lumière de la Trinité” 79.
Per penetrare, seppur brevemente, il pensiero di Journet a questo proposito è necessario
ricorrere ad un altro suo scritto. Si tratta di un articolo dal titolo “La Rédemption, drame de
l’amour de Dieu”, pubblicato nel primo numero della rivista Nova et Vetera del 1973. Questo
saggio, in cui teologia e spiritualità si intrecciano profondamente, mette in luce - articolandole
fra di loro - alcune problematiche teologiche; enumero quelle che mi sembrano essere le
principali: il rapporto di Dio con gli uomini, il vero concetto di amore di Dio, la possibilità di
una quasi sofferenza di Dio, il significato del male 80. L’articolo si compone di otto capitoli;
alla nostra ricerca interessano particolarmente i primi tre, di cui cercherò di presentare in
sintesi i punti salienti 81.

75 Sull'argomento, cf. “L'aspetto trinitario della croce di Gesù Cristo o il problema della «sofferenza di Dio»”, nel
documento Teologia-Cristologia-Antropologia della COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, in EV
8, 448-460.
76 Ch. JOURNET, Les sept paroles …, p. 88.
77 Ibid., p. 88.
78 La CTI ha asserito con forza che “la morte di Gesù non è l'atto di un Dio crudele che esige il
sacrificio supremo; non è un «ri-comprare» da qualche potere alienante che ha reso schiavi. È il tempo e
il luogo in cui un Dio che è amore e che ci ama si rende visibile. Gesù crocifisso rivela quanto Dio ci
ami e afferma che in questo gesto d'amore un essere umano ha dato un assenso incondizionato alle vie
di Dio” (CTI, Alcune questioni sulla teologia della redenzione, in EV 14, 1881).
79 Ibid., p. 175-176.
80 Il cardinale ha trattato del mistero del male, da un punto di vista teologico e filosofico nel suo libro :
Le mal, essai théologique, Bruges, 1961. Dopo aver posto il problema del male e delle sue forme, il
teologo affronta la questione centrale del libro : il male in relazione ad un Dio onnipotente e
infinitamente buono.
81 Per la sintesi del pensiero di Journet sviluppato in questo breve saggio, vedi l’introduzione alla
traduzione italiana dell’articolo citato, realizzata da Domenico CARADONNA, p. 5-12.
17
La linea generale che conduce il pensiero del cardinale e sottende tutto l’articolo è la
seguente: Dio che è essenzialmente Amore lo dimostra alla sua creatura in un primo tempo
attraverso la creazione, poi attraverso la redenzione realizzata per mezzo della croce. Il primo
capitolo presenta ciò che il cardinale chiama “l’universo di creazione o dono del primo
amore”82: Dio ha creato l’uomo per amore lasciandogli la libertà di accettare o rifiutare tale
amore. Avendo l’uomo scelto il male, ecco che Dio mette in opera un piano d’amore ancor
più grande: è “l’universo di redenzione o il dono del secondo amore”83, che l’autore non esita
a definire “le temps de la folie de l’Amour de Dieu” 84. Rifiutando, come una bestemmia,
l’idea dell’insensibilità di Dio, egli afferma:
“Nous voilà devant un profond mystère. Il y a en Dieu une indicible tristesse causée par
le spectacle de notre péché et de notre misère, consécutive à notre péché. Elle a son
contre-coup, elle trouve sa suprême expression visible dans l‘agonie terrible et la mort
de son Fils unique. Mais cette mystérieuse souffrance, cette quasi-souffrance, au lieu de
désagréger la divinité, révèle en elle l’existence d’une grandeur insoupçonnée; la
grandeur qui permet aux magnanimes de surmonter leurs souffrances dans la lumière en
est ici-bas quelque lointain reflet” 85.
Dio, offeso dal peccato dell’uomo, risponde con l’amore 86: quest’aspetto dell’amore è la
misericordia. Ma qual è il significato profondo della misericordia?
L’esigenza di un approfondimento della realtà della misericordia conduce Journet ad
ammettere in Dio l’esistenza di una quasi-sofferenza 87, intesa nel senso positivo di una
misteriosa perfezione che corrisponde a ciò che è, per la nostra realtà umana, la misericordia.
Ciò non impedisce a Dio di rimanere impassibile e immutabile, ma non nel senso “privativo”
che questa parola evoca per noi. In Dio l’impassibilità non è indifferenza, ma eccesso di
amore e di gioia che non può conoscere nessuna vicissitudine, ma che conosce le nostre
vicissitudini, poiché le vede con una lucidità infinita e in un amore infinito 88.
Journet, facendo proprio il pensiero di Maritain, sostiene che esiste in Dio una
compassione indicibile che commuove Dio non certo nella sua essenza, ma nel suo rapporto
con il nostro peccato e la nostra miseria, e che lo porta a venire in nostro aiuto con una bontà
infinita. Questa compassione non comporta in Dio un’alterazione, ma indica in Lui una

82 Ch. JOURNET , « La Rédemption, drame de l’amour de Dieu », Nova et Vetera XLVIII/1 (1973), p.46-
52.
83 Ibid., p. 52-60.
84 Ibid., p. 46.
85 Ibid., p. 55-56.
86 Per Journet, che ha trattato da un punto di vista teologico e filosofico il mistero del male, l’abisso
della miseria causato dal peccato suscita in Dio l’abisso della misericordia. Il cardinale ha parlato di
quest’aspetto in un altro suo articolo, pubblicato in Nova et Vetera, in cui egli afferma: «L'abîme de la
misère appelle l'abîme de la miséricorde. L'abîme des péchés appelle l'abîme des grâces» e ancora:
«… le spectacle de la misère des hommes est si intolérable à Dieu qu’il envoie pour les secourir, non
seulement les prophètes, mais son Fils unique, dans une crèche à Noël, à la croix le Vendredi
Saint»” (La miséricorde divine suprême recours de notre espérance, capitolo VI. dell'articolo «De l'espérance»,
Nova et Vetera XLV/3 [1970], p. 201 e 204).
87 Journet riprende il pensiero di due autori, André Molinié e Jacques Maritain, facendo riferimento al
libro di André MOLINIÉ, domenicano de Nancy, Le Mystère de la Rédemption, 1970, e all’articolo di
Jacques MARITAIN « Un grand problème », pubblicato in RT 69 (1969), p.14-27.
88 È questa la posizione di A. Molinié. Precedentemente Journet ha precisato, riportando un pensiero di
J. Maritain, che la colpa morale colpisce l’Increato non in se stesso, perché egli è assolutamente
invulnerabile, ma nelle cose, negli effetti che vuole ed ama, in questo senso si può dire che Dio è il più
vulnerabile degli esseri (Ch. JOURNET , « La Rédemption… », p. 53-54).
18
perfezione nascosta dietro le perfezioni per mezzo delle quali noi definiamo Dio come
l’Essere, la Verità, la Bontà, l’Amore. Essa è in Dio un titolo di nobiltà inimmaginabile, fa
parte della sua essenza, ma rimane per noi innominata e innominabile, essa corrisponde a
quella pietà che ci porta a soccorrere gli altri e che noi chiamiamo misericordia 89.
È dunque la follia dell’amore misericordioso di Dio che spiega il mistero della redenzione,
vista da Journet come “supercompensazione” data dall’amore innocente 90: la redenzione
attraverso la croce è l‘effetto supremo dell’amore di Dio nei confronti della creatura umana,
caduta nel peccato. Tale supercompensazione d’amore passa attraverso il mistero
dell’abbassamento di Cristo che per noi “diventa maledizione” affinché possiamo
comprendere la gravità del peccato e l’infinità dell’amore di Dio 91. Con Maritain, Journet
afferma che le sofferenze di Cristo non fanno altro che riflettere, in modo umano, il mistero
assolutamente divino dell’amore trinitario ferito dal nostro rifiuto92. Ritroviamo, inoltre, in
questo saggio il passaggio che fa riferimento al quadro di El Greco che Journet qualifica come
straordinario e in cui vede la rappresentazione del dramma della Redenzione 93. Possiamo
quindi affermare che il mistero dell’abbandono del Cristo in croce è contemplato dal cardinale
in relazione al mistero trinitario.
3. La croce, mistero di luce
Una profonda meditazione sulla Croce, divenuta oramai mistero di luce, conclude il libro
sulle sette parole del Cristo in croce. Essa ci mostra la Croce non più come un mistero di
dolore, ma piuttosto come un’insondabile mistero di luce, che diventa sorgente di speranza
per ogni cristiano e per ogni uomo 94.

89 Ibid. p. 57-58. In questo lavoro, mi limiterò soltanto ad accennare alla tematica trinitaria che sottende
il mistero del grido d'abbandono, senza svilupparla e ciò per mancanza di spazio. Per una
presentazione della posizione di J. Maritain, cf. Gilles EMERY « L’immutabilité du Dieu d’amour et les
problèmes du discours sur la “souffrance de Dieu’’ », Nova et Vetera LXXIV/1 (1999), p. 17-20.
90 Ch. JOURNET, « La Rédemption…», p. 61.
91 Ibid., p. 60-67. Il cardinale precisa, anche in queste pagine, che ciò non vuol dire accettare l’assurda
interpretazione di Lutero che pensava ad un Cristo divenuto realmente peccato e ad un Padre che
scarica su di lui il suo sdegno.
92 Ibid., p. 56.
93 Ibid., p. 67.
94 “La Croix est plus un mystère de lumière qu’un mystère de souffrance. La souffrance n’est pas
foncière, elle passera. La lumière est caché dessous: par moments, elle traverse le voile de la douleur et
irradie au dehors. La lumière est foncière, elle durera toujours. Mais, en passant par la souffrance, elle
se sera revêtue d’une étrange beauté, assumant en sa splendeur ce qu’il y a de dignité et de noblesse
dans l’aventure de notre terre et nos destinées humaines. «Le fardeau léger de notre affliction du
moment présent produit pour nous, d’une manière et pour une fin qui dépassent toute mesure, un
poids éternel de gloire» (2 Co 4,17-18; Ch. JOURNET, Les sept paroles …, p. 180).
19
Capitolo II
JÜRGEN MOLTMANN: Il Dio crocifisso
A. Introduzione
Il pensiero del teologo Jürgen Moltmann 95 ha radici profonde nella teologia dialettica, in
autori come Karl Barth, Adorno e Horkheimer, si ispira alla teologia di Lutero e alla filosofia
di Hegel. Egli sviluppa inoltre il suo pensiero tenendo conto del dibattito suscitato da teologi
contemporanei quali Bultmann, Pannenberg e Rahner. Una conoscenza approfondita
dell’entroterra culturale e teologico che ha formato l’humus in cui si è forgiata la riflessione
del teologo luterano sarebbe quindi necessaria, ma - data l’ampiezza del lavoro - non mi è
possibile allargare l’orizzonte ad altri autori, se non in modo circoscritto e frammentario.
Nell’analisi del pensiero di Moltmann, la mia attenzione si limiterà quindi alla
comprensione che il teologo ha dell’abbandono di Gesù riferendomi particolarmente al suo
libro Il Dio crocifisso96. In un primo tempo esporrò il pensiero del teologo sull’argomento e
solo in un secondo tempo ne presenterò un bilancio enunciando anche le perplessità suscitate
in me dalla lettura, anche se parziale, dell’autore.

B. Il Dio crocifisso
1. Introduzione
Il sottotitolo del libro - La croce di Cristo fondamento e critica della teologia cristiana -
ci fa già intravedere quanto la teologia della croce occupi un posto centrale in tutta la
riflessione teologica di Moltmann. L’autore vede in Gesù crocifisso il criterio interno di ogni
teologia e di ogni Chiesa che vogliano dirsi cristiane: egli vede nella “parola della croce” il
criterio della loro verità. Il Cristo crocifisso è la sfida lanciata alla teologia e alla Chiesa 97.

95 Jürgen Moltmann, teologo tedesco di tradizione riformata, è nato ad Amburgo nel 1926. Pastore a
Brema, professore a Wupental, Bonn e poi a Tubinga è divenuto celebre per il suo libro Teologia della
speranza (1964). Negli anni settanta si è molto interessato alla teologia politica, esercitando un profondo
influsso sulle teologie della liberazione. A partire dagli anni ottanta è diventato il porta-parola di una
teologia ecologica che rispetti l'uguaglianza tra gli esseri viventi e particolarmente quella tra l'uomo e la
donna. L'insieme delle riflessioni di Moltmann si iscrivono in un pensiero a sfondo trinitario. Tra le sue
opere ricordiamo: Teologia della speranza. Ricerche sui fondamenti e sulle implicazioni di una escatologia cristiana
(1964; tr. it. 1970), Il Dio crocifisso. La croce di Cristo fondamento e critica della teologia cristiana (1972; tr. it.
1982); Trinità e Regno di Dio. La dottrina su Dio (1980; tr. it. 1983); Jésus le Messie de Dieu: pour une christologie
messianique (1989; tr. fr. 1992). Questi dati biografici sono stati tradotti e adattati da un breve articolo di
J.Pierre THÉVENAZ, Encyclopédie du protestantisme, dir. d'edizione Pierre GISEL, Cerf, Paris/Labor et Fides,
Genève, 1995, p. 1012.
96 Nelle sue pubblicazioni successive – Trinité et Royaume de Dieu, Jésus, le Messie de Dieu, L’Esprit qui donne
la vie – Moltmann continua la sua riflessione, riprendendo sostanzialmente quanto già esposto in questo
libro sull’argomento. Per un’analisi critica del pensiero esposto da Moltmann in Trinité et Royaume de Dieu,
cf. Jean GALOT, «Le Dieu trinitaire et la passion du Christ», in Dieu en trois personnes, Saint-Maur, 1999,
pp. 165-187 e la recensione dettagliata a L’Esprit qui donne la vie, fatta da G. EMERY, RT 99 (1999), p.
553-556.
97 Jürgen MOLTMANN, Le Dieu crucifié. La croix du Christ, fondement et critique de la théologie
chrétienne, “Cogitatio fidei 80”, Paris, 1974, p.7-12. Non avendo potuto accedere alla traduzione in
italiano delle opere di Moltmann, ho usato la traduzione in lingua francese. Le citazioni riportate nel
lavoro sono state tradotte dall’edizione francese, tranne per alcuni passaggi citati da A. PELLI, nel suo
libro L’abbandono di Gesù e il mistero del Dio Uno e Trino: un’interpretazione teologica del nuovo orizzonte di
comprensione aperto da Chiara Lubich, “Collana di Teologia 31”, Roma, 1995.
20
Per Moltmann, non si tratta di una teologia della croce e della sofferenza astratta, ma di una
teologia del Crocifisso.
Dopo essersi interessato precedentemente alla teologia della speranza 98, l’autore, in
quest’opera, volge lo sguardo alla teologia della croce, che ne costituisce, come egli stesso
afferma, l’altra faccia della medaglia. La teologia della croce è vista da Moltmann come un
approfondimento della teologia della speranza.
Il libro99 si articola in otto capitoli. In essi l’autore, partendo dal suddetto criterio, sviluppa
successivamente una cristologia, una teologia, un’antropologia, un’ecclesiologia e una
politica cristiana. La mia attenzione si volgerà soprattutto alla cristologia e particolarmente
alla comprensione di Gesù in quanto “abbandonato da Dio” e, in modo più sommario, alle
conseguenze per la teologia trinitaria che Moltmann fa scaturire dalla croce di Cristo.
a. Identità e significato della fede100
Partendo dalla crisi d’identità della fede cristiana culminata nel XX secolo, Moltmann
afferma che essa non può comprendersi che come un atto di identificazione al Cristo
crocifisso: la teologia cristiana in quanto tale trova la sua identità nella croce del Cristo,
nell’imitazione del Crocifisso. In seguito, Moltmann stabilisce il metodo della sua ricerca che
si fonda sul principio della conoscenza dialettica:
“Applicato alla teologia cristiana, questo principio significa: Dio si rivela come Dio
nel suo contrario, nell’assenza di Dio e nell’abbandono di Dio. Concretamente, Dio
si rivela nella croce del Cristo abbandonato da Dio”; “Il principio della teoria della
conoscenza che sgorga dalla teologia della croce non può essere che un principio
dialettico: la divinità di Dio si rivela nel paradosso della croce” 101.
La teologia della croce comincia per Moltmann con la contraddizione.
b. Le resistenze poste dalla croce alle diverse interpretazioni di essa 102
In questo capitolo, Moltmann ripercorre le diverse interpretazioni della croce avvenute nei
secoli. Egli afferma che agli inizi del cristianesimo, la croce non era un simbolo religioso, né
un segno di vittoria o di trionfo per la Chiesa. La croce era percepita sia dagli ebrei che dai
pagani come scandalo, follia, maledizione. La fede dei primi cristiani nel Crocifisso era per i
Romani come per i Giudei una bestemmia. Per gli Israeliti, colui che è appeso al legno è
maledetto dal Dio della Legge 103 e Gesù è stato scomunicato ed escluso dalla comunità perché
condannato come bestemmiatore 104. Per i Romani, la crocifissione era il castigo più
ignominioso e presentare un Dio crocifisso cui si dovessero rispetto e adorazione non era
conforme all’idea di Dio contemplata nel Pantheon romano.
Di conseguenza Moltmann afferma:

98 Cf. J. MOLTMANN, Théologie de l’espérance. Etudes sur les fondements et les conséquences d’une
eschatologie chrétienne, “Cogitatio fidei 50 ”, Paris, 1978.
99 Per una visione sintetica dell’opera, cf. l’articolo di Paul RICOEUR, Le Dieu Crucifié de Jürgen Moltmann,
in «Le Christ, visage de Dieu», Les quatre fleuves 4 (1975), p. 109-114.
100 J. MOLTMANN, Le Dieu crucifié, p. 13-39.
101 Ibid., p. 37.
102 Ibid., p. 41-93.
103 Cf. Dt 21,23.
104 Cf. Gv 19,7.

21
“la nostra fede comincia in questo rigore e questa potenza che è la notte della croce,
dell’abbandono, della tentazione, del dubbio” 105;
“è proprio la passione di Dio nel Cristo rigettato e messo a morte nell’abbandono di
Dio che qualifica la nostra fede come fede”106.
Quindi, per l’autore, la fede cristiana è caratterizzata dalla fede nella croce ed è questa
peculiarità che la distingue dalle altre religioni come pure dalle ideologie, dalle utopie laiche e
dalla superstizione. Una fede cristiana radicale è per Moltmann un impegno senza riserve per
il Dio crocifisso. La religione della croce produce lo scandalo e attraverso di esso porta la
liberazione ad un mondo alienato. Essa è contraddizione in se stessa, perché il Dio crocifisso
è, in essa, contraddizione.
Successivamente, l’autore cerca di mostrare come nel cristianesimo, attraverso i secoli, si
è svolto un processo di superamento della croce, nel doppio senso di conservazione e di
annullamento. Questo processo si è attualizzato nelle varie forme, in cui il Crocifisso è stato
reso presente e cioè nel culto della croce, nella mistica della croce, nell’imitazione della croce,
nella teologia della croce. In questo capitolo, l’autore afferma ancora una volta che il
Crocifisso è il criterio interno di tutte le parole dette su di lui: “nel Crocifisso si nasconde una
realtà che non si lega a nessun logos e che possa essere superata da esso”107 .
c. Il processo storico di Gesù108
Dopo aver analizzato le diverse questioni su Gesù - Gesù è il vero Dio? Gesù è il vero
uomo? Sei tu Colui che viene? Chi dite voi che io sia? 109 - Moltmann affronta, nel capitolo
IV, il processo storico di Gesù. Egli vuol comprendere il Crocifisso prima di tutto alla luce
della sua vita e della sua azione che lo condussero alla crocifissione, in un secondo tempo, nel
capitolo V, tenterà un approccio del Crocifisso alla luce della sua risurrezione dai morti.
Moltmann vuole risolvere il dilemma moderno tra gesuologia e cristologia – cioè tra il
Gesù terrestre accessibile alla ricerca storica e il Cristo della fede e della Chiesa, oggetto di
predicazione - cercando di :
1) “cogliere il compito storico della presentazione della morte di Gesù nell’ambito della sua
vita come compito teologico, perché la sua vita, la sua predicazione e la sua azione, come
la sua morte, hanno un intrinseco significato teologico”;
2) “cogliere il compito teologico di presentazione e d’interpretazione della fede pasquale
come compito storico, nella misura in cui tutti gli enunciati della fede nella resurrezione e
esaltazione di Gesù da parte di Dio come anche le sue funzioni come Cristo, Kyrios e
Figlio di Dio si rapportano alla sua vita e alla sua morte” 110.

105 J. MOLTMANN, Le Dieu crucifié, p. 46-47.


106 Ibid., p. 48.
107 Ibid., p. 93.
108 Ibid., p. 129-180.
109 Ibid., p. 95-127. Per Moltmann, la vera domanda su Gesù è quella che troviamo sulla sua stessa
bocca : chi dite voi che io sia ? (Mc 8,29). Si tratta di una domanda sulla sua identità come Cristo, domanda
aperta al futuro di Gesù e della stessa fede. Peccato che Moltmann metta, in un certo senso, tra
parentesi le domande sulla divinità e l’umanità di Gesù che costituiscono un approfondimento teologico
di chi sia il Cristo.
110 Ibid., p.131.

22
2. La questione dell’origine della cristologia
In questa prima sezione, seguendo il cammino tracciato da M. Kähler, che voleva ingaggiare
la cristologia sulla stretta via della croce, Moltmann vuole trovare il fondamento permanente
della cristologia. La questione centrale dell’inizio della cristologia è la seguente:
“in che modo Gesù annunciatore è divenuto Gesù-Cristo annunciato? Perché e come il
“testimone della fede” è divenuto il “fondamento della fede”? Quale è la relazione del
messaggio cristiano primitivo sul Cristo al Gesù storico? Con quale diritto la comunità ha
annunciato Gesù come Cristo dopo la sua morte pubblica sulla croce?”111.
Per rispondere a questa domanda, formulata in diversi modi, Moltmann, propone di
percorrere tre momenti della tradizione cristologica, per cercare la verità storica di Gesù:
a) egli individua, già nel Nuovo Testamento, l’esistenza, di un processo per la verità di
Gesù; da esso sono nate le confessioni di fede; e il nome di Gesù diventa il fondamento
e la misura delle cristologie primitive;
b) all’epoca della Riforma, il processo per la verità di Gesù fu condotto sul terreno del
dibattito tra Scrittura e Tradizione. Il principio riformato della “sola scriptura” diventa il
criterio della vera predicazione della Chiesa di Cristo;
c) all’epoca moderna, la questione del Gesù storico nasce contemporaneamente al sorgere
del pensiero storico-critico, la cui pretesa è stata quella di liberare l’immagine del Gesù
storico dai ritocchi apportati dalle cristologie ecclesiali e precedentemente dal kerigma
post-pasquale, per incontrare il Gesù della storia; il principio riformato della conformità
alla Scrittura è stato sostituito dal canone scientifico del sapere storico-critico, che ha
messo il fondamento della fede nella libera soggettività.
Il pensiero storico-critico si è però urtato al problema della discontinuità temporale e della
differenza di contenuto tra l’annuncio del Regno fatto da Gesù e l’annuncio del Cristo fatto dai
primi cristiani, fino a sottolineare che la fede al Cristo della Chiesa ha poco da vedere con Gesù
di Nazareth. La critica storica volge il suo sguardo all’umanità di Gesù, visto come “maestro di
morale” e “fratello degli uomini”, “contro l’autorità del Cristo celeste nelle Chiese”112. Ciò ha
condotto a perdere di vista il legame esistente tra il kerigma pasquale e il Gesù storico.
Moltmann vuole superare questa discontinuità effettuando il lavoro storico come lavoro
teologico, cercando di cogliere così la relazione che il primitivo messaggio cristiano ha col
Gesù storico.
Dopo aver analizzato, seguendo Bultmann, l’importanza della predicazione di Gesù e
l’identificazione di Gesù con la sua parola, Moltmann afferma che la morte in croce di Gesù
segna un cambiamento nella sua stessa predicazione: “o la sua morte rappresenta anche la fine
della sua parola escatologica, o la sua parola deve essere predicata a partire da un fondamento
completamente diverso, cioè come ‘parola della croce’. La predicazione del Cristo da parte
della comunità primitiva è dunque la forma apostolica della predicazione del Regno fatta da
Gesù”113. Il Gesù annunciatore è divenuto il Cristo annunciato per la fede nella Resurrezione.
Di conseguenza, il kerygma del Cristo Crocifisso e Risorto “rende possibile la ‘gesuologia’

111 In tutto il libro, si ha l’impressione che Moltmann abbia talmente lo sguardo fisso sul Crocifisso, che
la realtà del Risorto scompaia dal suo orizzonte : in effetti, la comunità apostolica ha annunciato Gesù
come Cristo dopo la sua Resurrezione e non unicamente dopo la sua morte pubblica in croce.
112 Ibid., p. 137.
113 Ibid., p. 143.

23
come cristologia e la cristologia come ‘gesuologia’ ”114. Per Moltmann, il problema
fondamentale della cristologia e il suo inizio sono dunque da situare nello scandalo e nella
follia della croce.
3. Il cammino di Gesù verso la croce
In questa seconda sezione, Moltmann cerca di capire le causae crucis. Ne individua tre115.
a. Gesù e la Legge: il bestemmiatore
Il fatto che Gesù sia stato condannato come bestemmiatore è difficilmente contestabile,
dal punto di vista storico. Diverse sono le pretese che hanno condotto Gesù alla condanna; fra
esse, soprattutto il fatto che Egli pone la sua predicazione su Dio al disopra dell’autorità di
Mosè e della Legge e, perdonando i peccati, annuncia la giustizia di Dio che promette
paradossalmente il Regno ai peccatori. Per i custodi della Legge la bestemmia consisteva nel
fatto che Gesù, considerato da tutti il figlio del carpentiere di Nazareth, con le sue parole e il
suo agire si faceva Dio. La vita di Gesù fu dunque un conflitto teologico tra lui e il modo
predominante di comprendere la Legge. La sua morte in croce costituì per i giudei il
compimento della maledizione della Legge.
b. Gesù e il potere: l’agitatore politico
Gesù non ha subìto il castigo riservato ai bestemmiatori, cioè la lapidazione, ma è stato
crocifisso dal potere romano. Moltmann afferma che ciò è avvenuto non solo per dei motivi
politici che tendevano a mantenere la tranquillità a Gerusalemme, ma in nome degli dei
dell’Impero che garantivano la Pax Romana. Il vero processo fu dunque quello politico
davanti a Pilato116 e Gesù fu condannato come criminale politico. Dopo aver percorso i tratti
che potevano avvicinare la persona di Gesù alla corrente degli Zeloti e i tratti che invece lo
separano da essi, Moltmann afferma che “la libertà di Gesù e la sua predicazione del diritto di
Dio fondato sulla grazia non riguardava soltanto Farisei e Zeloti, ma anche e non di meno i
fondamenti culturali e politico-religiosi della Pax Romana, come pure le concezioni arcaiche
della giustizia di tutti gli uomini” 117 . Il Vangelo di Gesù e tutto il suo agire hanno avuto,
secondo il teologo luterano, un significato altamente politico. Questo aspetto politico del
Vangelo di Gesù è per Moltmann la seconda dimensione teologica che porterà Gesù alla
crocifissione come agitatore politico.
c. Gesù e Dio: l’abbandonato da Dio
Partendo dal presupposto che Gesù non ha avuto una morte come quella di Socrate o dei
martiri dello stoicismo e del cristianesimo e basandosi sul versetto di Mc 15,37, che attesta
che Gesù è morto dopo aver emesso un grande grido inarticolato 118, Moltmann vuole capire il

114 Ibid., p. 145.


115 Anche Ch. DUQUOC, nel suo saggio di cristologia, individua tre aspetti della passione del Cristo.
Gesù: è il condannato: perde il suo processo; Gesù è il crocifisso: muore come un malfattore; Gesù è
l'abbandonato: muore sotto il segno dell'abbandono di Dio (Christologie, essai de dogmatique, vol. II : Le
Messie, “Cogitatio fidei 67”, Paris, 1972, p. 19-51).
116 L’interpretazione di Moltmann del ruolo di Pilato nel processo e della responsabilità della condanna
di Gesù messa interamente sull’occupante romano mi sembra non faccia giustizia ai testi evangelici, in
particolare al Vangelo di Giovanni (J. MOLTMANN, Jésus, le messie de Dieu, “Cogitatio fidei 171”, Paris,
1993, p. 203-204; p. 233-234).
117 J. MOLTMANN, Le Dieu crucifié, p. 168.
118 Moltmann afferma che l’evangelista ha espresso questo grido di Gesù morente servendosi delle
parole del salmo 22,2: “Mio Dio perché mi hai abbandonato” ; per il teologo queste parole sono da attribuire
in modo sicuro all’interpretazione che la comunità post-pasquale ha avuto del grande grido.
24
mistero di questa morte, tenendo conto del contesto della vita e dell’agire di Gesù e mettendo
in rilievo il rapporto di comunione che Gesù aveva con Dio, che Egli chiamava “Padre mio”.
Il legame che univa Gesù a Dio non era più mediato dall’alleanza, dal popolo e dalla
tradizione, ma era immediato cioè senza mediazioni. Moltmann deduce ciò dalla pretesa di
Gesù di perdonare i peccati. Di conseguenza, Gesù che aveva vissuto e predicato nella
prossimità di Dio, del suo Regno e della sua grazia
“non poteva comprendere il suo abbandono alla morte maledetta della croce come una
semplice disgrazia, ma doveva provarlo come abbandono dallo stesso Dio che Egli
osava chiamare ‘Padre mio’. Se consideriamo la sua Passione e la sua morte senza
miracolo e senza aiuto, nel contesto della sua predicazione e della sua vita, il suo
‘sconforto che grida verso il cielo’ diventa comprensibile: è l’esperienza
dell’abbandono da parte di Dio in qualcuno che sa che Dio non è lontano, ma vicino,
che non è giudizio, ma grazia. Ed essere così abbandonato da Dio e consegnato alla
morte di reietto avendo la piena coscienza della prossimità benevola di Dio, è il
tormento dell’inferno” 119.
Il carattere particolare dell’abbandono di Gesù può essere capito, secondo Moltmann, solo
alla luce dell’abbandono da parte del suo Dio e Padre. Il tormento dei tormenti per Gesù è
stato questo abbandono di Dio. A partire da questa riflessione, Moltmann è condotto a capire
l’evento della croce come evento tra Gesù e il suo Dio e inversamente tra suo Padre e Gesù.
La sorgente della cristologia si situa dunque “nella storia tra Gesù e il suo Dio e tra questo
‘Padre’ e Gesù, così come si è espressa nella sua predicazione e nei suoi gesti, così come è
stata letteralmente annullata nell’abbandono che ha segnato la sua morte” 120.
Esaminando la relazione esistente fra Gesù e il suo Dio, alla luce dell’interpretazione delle
parole del salmo 22,2, Moltmann sottolinea che si tratta di un appello a Dio in nome di Dio.
Gesù si appella alla fedeltà del Padre in quanto Figlio:
“Con le parole ‘Mio Dio, perché mi hai abbandonato?’ non è in gioco soltanto
l’esistenza personale di Gesù, ma proprio la sua esistenza teologica, la sua intera
predicazione su Dio. Ma con tale abbandono sono allora fondamentalmente in gioco
anche la divinità del suo Dio e la paternità del Padre suo, che Gesù aveva reso
accessibili agli uomini. Se così stanno le cose, sulla croce non è in agonia soltanto
Gesù, ma anche colui per il quale Egli visse e predicò, cioè suo Padre (…) Egli invoca
la divinità e fedeltà di suo Padre, contro l’abbandono e la non divinità del Padre suo.
Caricando le tinte, si potrebbe dire che il grido di Gesù, formulato con le parole del
Salmo 22, non significa soltanto: ‘Mio Dio, perché mi hai abbandonato?’, ma
insieme: ‘Mio Dio, perché ti hai abbandonato?’. Fino a questo punto bisogna
sottolineare l’unità tra Gesù e Dio, quando si tiene presente il contesto teologico della
sua predicazione vissuta”121.
Per Moltmann, quindi, l’abbandono mette in gioco la divinità e la paternità del Dio di
Gesù. Il grido d’abbandono di Gesù esprime uno sconforto profondo quanto la comunione che
Egli aveva con il Padre. L’abbandono pone una domanda che mette in gioco Colui di cui Egli
parlava:
“Nel contesto teologico della sua vita e della sua predicazione, ciò che è in causa nella
sua morte non è il paradosso generale della fiducia in Dio nell’abbandono di Dio, ma
in modo particolare la divinità del suo Dio e di suo Padre. L’abbandono, espresso dal

119 Ibid., p. 173.


120 Ibid., p. 174-175.
121 Ibid., p. 179.

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grido che egli emette spirando e correttamente interpretato dalle parole del salmo 22,
deve essere strettamente capito come un evento tra Gesù e suo Padre e quindi come
evento tra Dio e Dio. L’abbandono sulla croce che separa il Figlio dal Padre è un
evento in Dio stesso, è dissenso in Dio – ‘Dio contro Dio’ – se si deve peraltro
mantenere che Gesù ha testimoniato e vissuto la verità di Dio. Non si deve nascondere
a sé stessi questa ‘inimicizia’ tra Dio e Dio non prendendo sul serio sia l’abbandono
di Gesù, sia il suo messaggio vissuto, sia il suo ultimo grido sulla croce”122.
Questa terza dimensione della vita di Gesù - l’essere abbandonato da Dio - è per
Moltmann la più importante: si tratta della dimensione propriamente teologica che distingue
la croce del Golgota da quelle degli altri condannati. Essa deve essere assunta con rigore dalla
teologia della croce. Moltmann vede l’abbandono di Gesù come un “processo teologico tra
Dio e Dio”. Egli afferma:
“La croce del Figlio separa Dio da Dio fino all’inimicizia e alla completa differenza.
La resurrezione del Figlio abbandonato da Dio unisce Dio a Dio nella comunione la
più intima” 123.
Cogliere Dio nel Crocifisso abbandonato esige, secondo il nostro autore, una rivoluzione
nell’idea stessa di Dio.
Dalla lettura di queste pagine, si ha l’impressione che Moltmann metta il Padre contro
Gesù. Moltmann parla di dissenso, di inimicizia, di differenza completa tra il Padre e il Figlio.
L’autore, interpretando il grido d’abbandono come una denuncia giuridica da parte del figlio,
conclude che la morte di Gesù mette in gioco la divinità del suo Dio e Padre. L’abbandono
rivela Dio contro Dio124.
4. Il processo escatologico di Gesù125
Dopo aver cercato di capire la morte di Gesù in croce nel contesto storico della sua vita e
del suo agire, Moltmann si propone di comprendere la vita e la morte di Gesù nel contesto
della sua resurrezione e della fede escatologica compito che espleta in tre tappe.
a. Escatologia e storia
In questa sezione Moltmann, dopo aver affermato l’identità tra il Cristo Risorto e il Gesù
storico, si pone la domanda seguente: la fede cristiana rende conto della vita e della morte di
Gesù o ha messo qualche altra cosa al suo posto?
Per capire e cogliere Gesù nella sua verità storica, secondo le testimonianze del Nuovo
Testamento, l’autore si propone di seguire due vie: leggere la storia di Gesù a partire dal suo
inizio e a partire dalla sua fine.
La fede cristiana primitiva ha letto la storia di Gesù a partire dalla sua fine: la sua croce è
capita alla luce della sua resurrezione che non è vista come un miracolo isolato che riguardava
la sola persona di Gesù, ma come l’inizio della resurrezione generale dei morti e come l’inizio
della trasformazione definitiva del mondo da parte del suo Creatore. La speranza pasquale
getta dunque luce sull’avvenire, ma anche sul passato, sulla persona di Gesù di Nazareth, il
Crocifisso. Per Moltmann - che non tenendo conto delle categorie filosofiche di natura umana
e natura divina preferisce parlare di persona storica, concernente Gesù di Nazareth, e di

122 Ibid., p. 177.


123 Ibid., p. 178.
124 Ibid. p. 175-177.
125 Ibid., p. 181-224.

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persona escatologica, cioè il Cristo Risorto - questa doppia dimensione storica ed escatologica
è molto importante per penetrare il mistero di Gesù, il Cristo.
b. La resurrezione dai morti
L’autore si domanda a questo proposito ciò che la fede pasquale dice e ciò che essa invece
non dice. La fede pasquale si fonda sul “vedere”. Rifacendosi alla tradizione profetica e
apocalittica e vedendo, nella vocazione e nella missione dei profeti, una rivelazione anticipata
dell’avvenire di Dio, Moltmann afferma che le apparizioni del Risorto hanno la struttura di
una visione con valore di anticipazione; si è trattato “di una visione della manifestazione del
Dio che viene sul volto del crocifisso e quindi dell’esperienza dell’essere presi dalla venuta
della trasformazione del mondo attraverso la gloria di Dio”126.
Cosa hanno visto i testimoni oculari?
“… i testimoni oculari (1) hanno visto la manifestazione della gloria a venire del
regno di Dio nella persona di Gesù e (2) hanno riconosciuto Gesù dai segni della
crocifissione” 127.
“I testimoni oculari hanno percepito il Gesù terrestre, crocifisso e passato nella gloria
del Dio che viene e ne hanno tirato le conseguenze nell’esperienza di una vocazione e
di una missione”.
Per Moltmann, ciò significa anche che “la gloria del Dio che viene è stata rivelata
nell’impotenza e nell’obbrobrio di Gesù crocifisso. Il giudizio definitivo è già stato
pronunciato nella sua esecuzione” 128. L’avvenire della nuova creazione è iniziato già nelle
sofferenze di Gesù.
L’autore viene poi a parlare di ciò che la fede pasquale non dice. Poiché non ci sono stati
testimoni oculari del processo della resurrezione di Gesù, il teologo si chiede come mai i
testimoni abbiano parlato di resurrezione. La risposta è la seguente: i testimoni oculari hanno
parlato di “resurrezione dai morti” - scegliendo così un simbolo apocalittico per esprimere
l’azione di Dio nella nuova creazione - perché la visione di Gesù risorto ha “la struttura
dell’anticipazione sulla base della manifestazione del suo avvenire nel Dio che viene”. Essa
esclude l’idea di una rianimazione del corpo di Gesù morto e designa “una vita
qualitativamente nuova che non conosce più la morte e non può essere una continuazione di
questa vita mortale”129.
Nell’apocalittica giudea si attende la resurrezione dei morti, nella fede pasquale si crede
alla resurrezione dai morti di Gesù. Ciò significa un cambiamento importante nel simbolo
stesso della resurrezione dei morti, perché in Gesù, la morte è già vinta, il mondo è stato
salvato. La resurrezione dai morti ha, per Moltmann, un significato d’anticipazione: “la fede
pasquale ha predicato la ‘fine della storia’, nella quale Dio si rivela lui stesso perfettamente,
come ‘anticipata’ in Gesù in virtù della sua resurrezione” 130 . Però, per l’autore, la
predicazione della resurrezione dai morti di Gesù ha senso solo nell’orizzonte della
resurrezione dei morti alla fine della storia. La manifestazione della resurrezione di Gesù ha
condotto immediatamente alla fede in lui, alla speranza certa della sua venuta e alla pratica

126 Ibid., p. 190.


127 Ibid., p. 190.
128 Ibid., p. 191.
129 Ibid., p. 192-193. Ambiguo il passaggio, in cui Moltmann afferma che la resurrezione dai morti
esclude l’idea d’una vita dopo la morte, venendo così a negare l’immortalità dell’anima.
130 Ibid., p. 195.

27
dell’apostolato131, ma egli afferma che la resurrezione di Gesù “non parla ancora ‘il
linguaggio dei fatti’, ma prima di tutto il linguaggio della fede e della promessa, cioè il
‘linguaggio della speranza’ ”; per Moltmann, “solo la nuova creazione in e per Cristo proverà
la novità della predicazione di Gesù e la novità della sua risurrezione dei morti anticipata”132.
Tutto è rinviato ad una “verifica escatologica”.
c. Il significato della croce del Risorto
La prima comunità cristiana, alla luce dell’evento di Pasqua, ha prima di tutto guardato in
avanti: la resurrezione investe Gesù di una missione e di una vocazione divine, espresse nei
titoli cristologici a Lui attribuiti. Ma la speranza suscitata dalla resurrezione getta anche una
luce retrospettiva sul mistero della Passione e Morte del Signore esaltato: che significato ha il
suo cammino verso la croce? Che significato ha la sofferenza del Cristo?
Dopo aver sottolineato il significato dell’affermazione paolina “Cristo è morto per noi”133
e dell’idea del sacrificio espiatorio, Moltmann, per poter capire veramente la croce come
croce del Cristo, propone ancora una volta di leggere la storia dal punto di vista escatologico:
“Nel senso della storia e del tempo che era il suo, Gesù è prima morto, poi è stato
risuscitato. Ma, nel senso escatologico del tempo, la realtà ultima diventa la realtà
primitiva: è come risorto che egli è morto ed è in quanto egli è Colui che viene che si
è fatto carne”134.
In quest’inversione il teologo trova la risposta ad una domanda che si era posto in
precedenza: che senso ha la caratteristica di anticipazione propria della resurrezione di Gesù
per tutti gli altri uomini?
“L’anticipazione in lui della resurrezione dai morti acquista il suo senso salvifico per
noi solo nel suo sacrificio per noi sulla croce” 135.
Per Moltmann:
“La teologia pasquale della speranza deve essere capovolta in una teologia della croce,
se essa intende essere in contatto con la realtà della morte del Cristo e della nostra
propria morte” 136.
Di conseguenza:
“La croce del Cristo modifica la resurrezione del Cristo, nel contesto della storia delle
sofferenze del mondo, per farne, di un semplice evento del futuro, l’evento dell’amore
liberatore”137.
Moltmann può affermare che solo la sua morte in croce rivela il significato della sua
resurrezione per noi, essa è da capire come prova della sua resurrezione.

131 Ibid., p. 196.


132 Ibid., p. 197.
133 Rm 5,8.
134 J. MOLTMANN, Le Dieu crucifié, p. 210. E’ difficile seguire Moltmann in questo pensiero. Mi sembra
che a noi in quanto uomini sia accessibile solo l’esperienza pienamente storica e umana fatta da Gesù, in
cui la morte in croce precede la Resurrezione pur costituendone il prodromo. Gesù non può morire in
quanto Risorto; infatti, una delle peculiarità del Risorto è quella di mostrare i segni della crocifissione.
135 Ibid., p. 211.
136 Ibid., p. 211.
137 Ibid., p. 212.

28
d. L’avvenire di Dio sotto il segno del Crocifisso
Moltmann conclude il capitolo riflettendo sul concetto di Dio che scaturisce dalla
resurrezione del Crocifisso e dalla croce del Risorto. Egli afferma che, nella storia
dell’evoluzione del kerigma primitivo, ci sono stati due tipi di processi.
1) Il messaggio pasquale contiene un nuovo messaggio su Dio: nella resurrezione di Gesù
è Dio che è all’opera: resuscitare è l’attributo caratteristico del Dio di Gesù Cristo; la
resurrezione di Gesù costituisce la filiazione divina di Gesù. La filiazione divina è in
seguito legata all’invio del Figlio da parte del Padre.
2) Il sacrificio del Figlio ha condotto all’interpretazione della sofferenza e della morte di
Gesù. Infatti una delle affermazioni più inaudite del Nuovo Testamento è che Dio
consegna il suo proprio Figlio138. Paolo e Marco, nelle loro teologie della croce e della
passione, hanno capito il Risorto in quanto Crocifisso: Dio si manifesta nella croce di
Cristo, Dio si rivela nel sacrificio di Gesù, nella sua passione e nella sua morte in
croce. La frase di Paolo “Dio era nel Cristo” (2 Cor 5,19), implica per Moltmann il
parallelo seguente: “Dio stesso ha sofferto in Gesù, Dio stesso è morto in Gesù per
noi”139.
La Resurrezione appare come la risposta di Dio al grido del Figlio agonizzante, ma nello
stesso tempo essa rende l’abbandono di Gesù enigmatico. Cosa ha fatto il Dio che ha
risuscitato Gesù durante la crocifissione del Figlio suo? Per rispondere a questa domanda,
Moltmann traspone in Dio la passione del Cristo. Partendo dalla domanda: Cosa ha fatto
dunque Dio nella crocifissione di Gesù? , Moltmann afferma che Dio non ha tenuto il silenzio,
non è rimasto senza agire, non era assente nell’abbandono di Gesù:
“Egli ha agito in Gesù, il Figlio di Dio: nello stesso tempo in cui gli uomini lo
tradivano e lo consegnavano alla morte, Dio stesso lo ha sacrificato. Nella passione
del Figlio, il Padre stesso soffre il dolore dell’abbandono. Nella morte del Figlio, la
morte colpisce Dio stesso e il Padre subisce la morte di suo Figlio nel suo amore per
gli uomini abbandonati. L’evento della croce deve di conseguenza essere capito come
un evento tra Dio e il Figlio di Dio. […]
La croce di Gesù, capita come croce del Figlio di Dio, rivela dunque in Dio un
capovolgimento, un’opposizione interna a Dio: ‘Dio è altro’. E quest’evento in Dio è
l’evento della croce. Nel cristianesimo, ciò è ridotto alla formula, semplice ma che
contraddice tutte le idee possibili che la metafisica e la storia del mondo hanno di Dio,
‘Dio è amore’ ” 140.
In questo testo Moltmann afferma che la Croce di Gesù è azione di Dio e passione di Dio
e che Dio agisce non solo in Gesù ma anche, in certo modo, su se stesso: poiché Dio è

138 Cf. a proposito la posizione di François-Xavier DURRWELL, Il Padre: Dio nel suo mistero, Roma, 1995,
p. 49-70 e particolarmente p. 57 : Dio consegna il suo Figlio generandolo in questo mondo : « … Dio
lo consegna diversamente dal modo in cui fanno i nemici, gli Atti degli apostoli attribuiscono la morte
di Gesù solo agli avversari. Secondo gli Atti, il ruolo di Dio nel dramma del quale Gesù è la vittima
non fu quello di condannare, come hanno fatto gli uomini, ma di riabilitare ‘’il Giusto’’, ‘’il Santo’’.
Certamente la passione di Gesù è conforme alla prescienza e al disegno di Dio (cf. At 2,23), ma Dio
entra in azione solo per glorificare colui che i capi del popolo hanno umiliato. Egli contraddice
solennemente il loro crimine … Dio non è compromesso nell’ingiusta opera di morte, la sua parte è
nella risurrezione ».
139 J. MOLTMANN, Le Dieu crucifié, p. 219.
140 Ibid., p. 220.

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simultaneamente nel Cristo, la croce del Figlio rivela un capovolgimento, un’opposizione
interna in Dio stesso.
Tutto questo processo è ricondotto all’affermazione: “Dio è amore” (1Gv 4,16), che, nel
capitolo successivo, è spiegata come un esistere di Dio nell’amore. Dio “esiste come amore
nell’evento della croce” 141.
Il teologo vuole ricercare una nozione di Dio capace di comprendere l’abbandono di Gesù
da parte di Dio stesso. Contemplando il Verbo in persona che soffre e muore sulla croce,
Moltmann si interroga su Dio stesso. Entriamo così nella teologia trinitaria dell’autore 142.
La domanda centrale cui Moltmann vuole rispondere è la seguente: cosa significa la croce
di Gesù per Dio stesso? Come abbiamo già messo in evidenza, la morte di Gesù sulla croce è,
per Moltmann, il centro di tutta la teologia cristiana: il Crocifisso rivela una “rivoluzione nella
nozione di Dio”143. Ciò è evidente nel brano che segue:
“Ciò che accade al Cristo in croce è cosa che accade a Dio stesso. Inversamente ciò
che accade a Dio è quella stessa cosa che accade alla croce del Risorto. Qui Dio non
ha soltanto agito verso l’esterno dal profondo della sua gloria e della sua eternità
inviolabili. Qui Egli ha agito in sé stesso e ha dunque sofferto in sé stesso” 144.
La croce deve essere quindi al centro della riflessione trinitaria, perché essa rivela le
relazioni di Gesù, in quanto Figlio, al Padre e viceversa:
“La croce si trova al centro, nell’essere trinitario di Dio, essa separa e unisce le
persone nelle loro relazioni reciproche e le fa vedere concretamente. Poiché la
dimensione teologica della morte di Gesù, …, è l’evento dell’abbandono e dell’offerta
tra Gesù e suo Padre nello Spirito. In queste relazioni è la persona di Gesù pensata
totalmente come Figlio ad essere in primo piano, e il rapporto della divinità e
dell’umanità nella sua persona indietreggia in secondo piano. Chi dice veramente
Trinità, parla della croce di Gesù e non specula su degli enigmi celesti”145.
L’abbandono provato da Gesù segna tra il Padre e il Figlio nello stesso tempo la
separazione la più profonda e l’unità la più intima:
“…ciò che arrivò alla croce fu un evento tra Dio e Dio. Ci fu una profonda divisione
in Dio stesso in quanto Dio abbandonava Dio e si contraddiceva, e, nello stesso
tempo, ci fu un’unità in Dio in quanto Dio era d’accordo con Dio e corrispondeva a
ciò che è lui stesso” 146.
Ciò conduce Moltmann ad affermare una stretta identità tra la croce e la Trinità:
“La dottrina della Trinità non è più allora una speculazione straordinaria e non pratica
su Dio, ma essa è nient’altro che un condensato del racconto della passione di Cristo
nel suo significato per la libertà escatologica della fede e per la liberazione di vite

141 Ibid., p. 282.


142 Ibid., p. 225-324.
143 Ibid., p. 231. Sarà nel libro successivo Trinità e Regno di Dio che il nostro autore approfondirà la
teologia trinitaria, stabilendo un legame dialettico molto stretto tra sofferenza e amore, facendo notare
che la capacità di soffrire scaturisce dalla capacità di amare. Per la critica al problema dei rapporti tra
amore e sofferenza in Dio, cf. J.-H. NICOLAS, «Aimante et bienheureuse Trinité», RT 78 (1978), 271-
292.
144 J. MOLTMANN, Le Dieu crucifié, p. 233. Questo testo pone il problema tanto dibattuto dell’impassibilità
di Dio, che non posso sviluppare in questo contesto e di cui parlerò brevemente nel paragrafo
concernente la critica volta al pensiero del teologo riformato.
145 Ibid., p. 235.
146 Ibid., p. 282.

30
oppresse. Essa protegge la fede sia contro il monoteismo che contro l’ateismo, perché
mantiene il credente ai piedi della croce. Il contenuto della Trinità è la croce di Cristo.
La forma del Crocifisso è la Trinità” 147.

B. Bilancio e conclusione
Dopo aver esposto, in sintesi, i punti salienti del pensiero del teologo riformato sul
significato della croce e del grido d’abbandono di Gesù, vorrei in questa seconda sezione
proporne un breve bilancio. In un primo tempo metterò in evidenza l’idea centrale e ciò che mi
sembra essere l’apporto originale di Moltmann, in un secondo tempo sottolineerò invece le mie
riserve nei confronti della riflessione teologica dell’autore.
1. L’idea centrale e l’apporto originale
Il cuore della teologia di Moltmann sta nel rimettere l’evento della croce e il grido
d’abbandono al centro della predicazione cristiana e di proporre, partendo da una profonda
riflessione sull’abbandono vissuto da Gesù in croce, un approccio rinnovato del mistero
trinitario. Moltmann ha quindi elaborato un’ampia e profonda teologia della croce148,
ponendo il Dio Crocifisso come fondamento e principio critico della teologia cristiana e
pensando la fede come atto di identificazione al Cristo crocifisso.
Un altro aspetto importante della teologia di Moltmann è l’aver messo in evidenza la
dimensione teologica della morte di Gesù come abbandonato da Dio. Il mistero
dell’abbandono di Gesù sulla croce ci svela l’amore di Dio, esso apre uno squarcio su un altro
mistero insondabile: quello del Dio Uno e Trino.
Però la riflessione teologica di Moltmann, nonostante la sua profondità e grandezza,
suscita tanti interrogativi, tante perplessità che cercherò di enumerare nei paragrafi successivi.
2. Riflessioni di carattere generale
La mia prima riflessione porta sul principio della teoria della conoscenza, su cui
Moltmann fonda tutto il suo discorso. Dopo aver affermato che il principio analogico è
unilaterale se non è allargato al principio dialettico, l‘autore sostiene che il principio che
scaturisce dalla teologia della croce non può essere che un principio dialettico: la divinità di
Dio si rivela nel paradosso della croce. Dio si rivela tale nel suo contrario, nell’assenza di Dio
e nell’abbandono di Dio149. La teologia della croce comincia per Moltmann con la
contraddizione e tutta la riflessione teologica dell’autore si fonda sul principio dialettico e,
oserei dire, sulla contraddizione stessa. Avendo posto la contraddizione come fondamento di
tutto il suo discorso su Cristo e su Dio, è difficile seguire l’autore in alcune sue conclusioni ed
aderire al movimento dialettico del suo pensiero. Cito ad esempio questo passaggio dal libro Il
Dio Crocifisso:
“Soltanto se ogni perdizione, abbandono di Dio, morte assoluta, maledizione senza
fine della dannazione e immersione nel nulla si trovano in Dio stesso, la comunione
con questo Dio sarà la salvezza eterna, la gioia che non conosce fine, l’elezione che
non verrà compromessa e la vita divina”.
Faccio mie le domande che si pone J.H. Nicolas, o.p., a proposito di questo brano:

147 Ibid., p. 284.


148 L’espressione è di J.-H. NICOLAS, o.p., in « Aimante et bienheureuse Trinité », p. 271.
149 J. MOLTMANN, Le Dieu crucifié, p. 37.

31
“S’agit-il de communier à Dieu dans la perdition même, dans la déréliction (de
Dieu?), dans la mort? (…) S’agit-il de trouver le salut au-delà de la perdition, la vie
au-delà de la mort, l’élection au-delà de la déréliction? Mais comment Dieu peut-il
faire pour nous sortir de la perdition et de la mort s’il y est enfoncé lui-même
réellement?”150.
Quindi, una delle mie principali perplessità nei confronti del discorso teologico sviluppato
da Moltmann si situa proprio a livello dell’incongruenza del linguaggio 151. Senz’altro
attraverso il paradossale grido d’abbandono di Gesù – Figlio dell’uomo e Figlio di Dio, segno
di contraddizione, pietra angolare scartata dai costruttori – Dio vuole mostrarci una logica più
grande della nostra, un amore che si nasconde nella debolezza, nella povertà, nell’umiltà,
nell’abbassamento. La croce e l’abbandono ci svelano il mistero d’amore che è Dio stesso, ma
non al prezzo di trasporre la contraddizione, il dissenso, l’inimicizia nel seno di Dio stesso. La
contraddizione semmai è nell’uomo, e deriva dalla sua condizione di peccatore.
Un’altra riflessione di ordine generale riguarda la posizione di rottura o di forte critica che
Moltmann assume in linea generale nei confronti della cristologia della Chiesa antica e della
cristologia speculativa, e particolarmente della dottrina cristologica del Concilio di
Calcedonia. La Tradizione non è da situare in opposizione alla Scrittura, come si ha
l’impressione che Moltmann faccia. Essa è un dato fondamentale e appartiene all’evento
Gesù, che ci è reso accessibile solo tramite una tradizione. Inoltre, bisogna considerare le
grandi categorie dogmatiche sempre in riferimento alla Scrittura, di cui esse sono
un’interpretazione152. Non sarebbe più fruttuoso per il lavoro teologico accogliere l’immenso
patrimonio elaborato dai Padri sia occidentali che orientali e metterlo come fondamento a
nuove elaborazioni teologiche, tenendo sempre conto che si è di fronte ad un mistero
ineffabile e che si arriva ad un punto “où la théologie devient doxologie, où les concepts
s’ouvrent en adoration”153 ?
3. L’esegesi che fonda il pensiero di Moltmann
Una prima critica più specifica che indirizzerei a Moltmann è quella di non effettuare, nel
libro in questione, un’esegesi approfondita del grido d’abbandono nel contesto dei racconti
della passione. La sua posizione a riguardo può riassumersi brevemente in due punti:

150 Nota 3 in J.-H. NICOLAS, « Aimante et bienheureuse Trinité », p. 272.


151 F.-X. DURRWELL, nel suo libro, Il Padre : Dio nel suo mistero, parlando dell’abbandono sulla croce così
come è concepito da J. Moltmann afferma : « Ci troviamo qui di fronte a un pensiero non solo
paradossale ma che, perlomeno a livello di linguaggio, si esprime in una contraddizione radicale.
Questa teologia del dissenso instaurata in seno a Dio non viene giustificata da nessun testo della
Scrittura, contraddice le ripetute affermazioni dell’amore indefettibile che il Padre ha nei confronti del
“suo Figlio diletto’’ » (p. 62-63). Cf. anche l’analisi critica di H. U. von BALTHASAR, Le Dieu crucifié
(trinitaire) selon Jürgen Moltmann, in La Dramatique divine, IV. Le dénouement, Namur, Culture et Vérité,
1983, p. 206-208.
152 Per una panoramica sulla situazione della cristologia contemporanea cf. B. SESBOÜE, Jésus-Christ dans
la tradition de l’Église : pour une actualisation de la christologie de Chalcédoine, “Jésus et Jésus-Christ 17”, Paris,
1982. Sesboüé denuncia un rischio della ricerca cristologica contemporanea, cioè quello di « revenir à
un nouveau type de scriptura sola et d’opérer une sorte de court-circuit entre la foi d’aujourd’hui et les
témoignages originels, que l’on entend restituer dans leur authenticité. Une telle attitude … véhicule
une sous-estimation, voire un oubli ou un procès, de la donnée massive de la tradition […]. Mais
l’oubli ou le procès, vise principalement le moment ecclésial de la tradition post-apostolique qui a
véhiculé jusqu’à nous la confession de Jésus comme Christ, c’est-à-dire la christologie des conciles et
du dogme » (p. 31- 43).
153 L'espressione è tratta dall'articolo di Paul VIGNAUX, Penser Dieu révélé en Jésus : philosophie et christologie ,
in «Le Christ, visage de Dieu», Les quatre fleuves 4 (1975), p. 75.
32
1) la parola d’abbandono e il grido di Gesù morente, riportato da Marco e da Matteo,
costituiscono per lui il nucleo storico più sicuro riportato dai racconti della passione: la
parola di abbandono è considerata come l’interpretazione più corretta della morte di
Gesù, altrimenti questo “grido di disperazione”154 così scioccante non avrebbe potuto
radicarsi nella cristianità primitiva;
2) nella storia dei racconti della passione, si è cercato di attenuare ciò che nel grido
d’abbandono poteva risultare come sconvolgente per i lettori ed infatti Luca e Giovanni
hanno sostituito il grido di abbandono con delle parole più accettabili, presentando la
crocifissione come martirio esemplare o come glorificazione vittoriosa 155.
Moltmann fonda quindi la sua interpretazione unicamente sul Vangelo di Marco, dando a
quest’ultimo una priorità esclusiva rispetto agli altri racconti evangelici della passione, e ciò
in nome di una concezione legata ad una esegesi storicizzante che sospetta gli altri racconti di
non essere autentici solo perché posteriori.
4. Perplessità suscitate dalla cristologia del teologo riformato
a. Il primato della croce e la resurrezione di Gesù
Pur avendo elaborato una profonda e ampia teologia della croce, la pretesa di Moltmann
che essa sia la “seule théologie chrétienne possible”156 va riequilibrata: dal primato esclusivo
che Moltmann dà alla croce – che egli pone come fondamento unico di tutto lo sviluppo del
suo pensiero sia cristologico che trinitario - scaturisce una visione teologica che mi sembra
troppo unilaterale.
Che il tema della croce sia centrale e importantissimo per la fede cristiana è innegabile,
però si ha spesso l’impressione che lo sguardo di Moltmann, nel suo libro Il Dio Crocifisso, si
limiti all’analisi della sola croce. Affermazioni come le seguenti - “La nostra fede comincia in
questo rigore e in questa potenza che è la notte della croce, dell’abbandono, della tentazione,
del dubbio” 157 oppure “E’ proprio la passione di Dio nel Cristo rigettato e messo a morte
nell’abbandono di Dio che qualifica la nostra fede come fede” 158 - non sembrano rispondere
alla realtà storica vissuta dai primi cristiani.
Il solo evento della morte in croce di Gesù non avrebbe di per sé dato origine alla fede
cristiana; la radice del cristianesimo è nella Resurrezione del Crocifisso 159 che illumina il
mistero salvifico della croce. Inoltre, mi sembra che nello sviluppare il suo pensiero

154 L’espressione è usata da Moltmann nel suo libro Trinité et Royaume de Dieu, p. 104 e 107.
155 Cf. D. JEANNERAT, Mon Dieu, mon Dieu, pourquoi m’as-tu abandonné ? Le cri d’abandon de Jésus dans
l’évangile de Marc et sa réception par H.U. von Balthasar et Jürgen Moltmann, Mémoire de licence,
Université de Fribourg, 1987, p. 88-89 ; G. ROSSE, Il grido di Gesù in croce, Paris, 1983, p. 37-62.
156 J.-H. NICOLAS, « Aimante et bienheureuse Trinité », p. 271.
157 J. MOLTMANN, Le Dieu crucifié, p. 46-47.
158 Ibid., p. 48.
159 Cf. Ac. 2, 22-36 ; 5, 29-39. Cf. B. SESBOÜE, Le Dieu du salut, « Histoire des dogmes 1 », Paris, 1994, p.
17-19 e p. 136-137. In un altro suo libro, Sesboüé afferma che il tema della redenzione costituisce
sempre una vera teologia della croce ; essa è sempre una teologia della croce luminosa e gloriosa che
non oppone il venerdì santo a Pasqua, né la theologia crucis alla theologia gloriae : il crocifisso è già il
Signore, il Risorto è sempre Gesù, il crocifisso (B. SESBOÜÉ, Jésus-Christ l’unique médiateur, tome I, p.
171). Cf. anche Ch. DUQUOC, Christologie …, p. 13. In questo suo saggio di cristologia, Ch. Duquoc
espone, inoltre, la riflessione teologica sulla Resurrezione di vari autori, fra cui R. Bultmann, K. Barth
e J. Moltmann, mettendo in evidenza la novità del loro pensiero ma anche mostrandone i limiti (p. 93-
162).
33
Moltmann non tenga sempre conto della sua stessa affermazione: la teologia della croce è
l’altra faccia della medaglia della teologia della speranza.
Il crocifisso diventa quindi per Moltmann il criterio interno e direi l’unico criterio di tutta
la teologia e di ogni parola che può essere detta sul Cristo. Questo criterio assunto da
Moltmann non tiene sempre conto del fatto che non si può scindere il Crocifisso dal Risorto.
Anche se Moltmann parla della croce del Risorto, sembra che non sempre tenga conto che
il Crocifisso sia realmente Risorto - anche se lo afferma - e che è questa la speranza dei
cristiani di tutti i secoli. Il criterio interno di ogni teologia e anche della teologia della croce
non si può limitare al Dio Crocifisso, ma deve contemplare realmente Gesù Crocifisso e
Risorto. Al Venerdì Santo – alla passione e morte di Gesù – è legato il mattino di Pasqua,
dove la tomba vuota attesta la Resurrezione del Crocifisso.
Per quanto riguarda poi la resurrezione di Gesù, Moltmann la presenta soprattutto nel suo
aspetto di anticipazione escatologica: la specificità della sua riflessione sta proprio nell’aver
stabilito, in modo irrecusabile, che la Resurrezione di Gesù è inseparabile dalla sua
dimensione escatologica 160. Egli parla della resurrezione come di un “simbolo apocalittico”.
La parola simbolo mi sembra non esprima, in tutta la sua realtà anche storica, l’esperienza che
gli apostoli e le donne hanno avuto del Crocifisso Risorto; sarebbe più giusto parlare di evento
accaduto nella storia degli uomini pur transcendendola. Tale evento trova un suo fondamento
nella tradizione apocalittica della resurrezione dai morti, arricchendola però di un contenuto
tutto nuovo.
Il teologo Piero Coda scrive:
“Il Cristo crocifisso/risorto, infatti, in quanto è la parola di Dio, non è presente a noi
semplicemente nel ricordo del passato; né semplicemente come garanzia del futuro
escatologico: nel senso che – secondo un’interpretazione riduttiva della sua parola
consegnata per iscritto nel Nuovo Testamento e dei suoi sacramenti (battesimo ed
eucaristia, prima di tutto) – Egli comunichi e applichi a noi una rivelazione e una
salvezza che, come tale, va solo creduta e percepita nel regime del segno, per essere
poi fruita come realtà nell’aldilà. La testimonianza della comunità post-pasquale è
unanime, pur nella differenza degli accenti che maggiormente la illuminano, nel
testimoniare la realtà del Cristo crocifisso/risorto in quanto presente come inclusiva
del passato storico-salvifico culminante nell’ephapax pasquale, e insieme come
prolettica (anticipatrice) del futuro definitivo”161.
Moltmann afferma inoltre che il mondo vecchio, il mondo non salvato, il mondo della
sofferenza, del peccato e della morte non è qualificato per provare questa nuova creazione
dove non ci saranno più né sofferenze, né gridi, né lacrime ; la stessa resurrezione di Gesù
potrà essere verificata solo alla fine dei tempi. Anche questa visione mi sembra non renda
giustizia ai germi di speranza posti nel cuore degli uomini dal messaggio cristiano: la verifica
della Resurrezione di Gesù è nella vita di ogni cristiano, nell’esperienza del Crocifisso Risorto
che ogni cristiano può fare nel quotidiano; la vita nuova, la nuova creazione ha avuto inizio

160Ibid., p.161.
161P. CODA, Teo-logia: la Parola di Dio nelle parole dell’uomo, “Sapientia christiana, manuali”, Pontificia
Università Lateranense, Roma, 1997, 194-195. Giovanni Paolo II, nella sua breve allocuzione, letta
durante l’udienza del mercoledì 1 marzo 1989, parla del valore storico e al temo stesso metastorico
della risurrezione, affermando che pur essendo un evento cronologicamente e spazialmente
determinabile la risurrezione trascende e sovrasta la storia. Il Santo Padre afferma che la risurrezione
di Cristo è il più grande evento nella storia della salvezza, che da senso definitivo alla storia
dell’umanità: croce e risurrezione costituiscono l’unico mistero pasquale nel quale la storia del mondo
ha il suo centro. Cf. anche Catechismo della Chiesa Cattolica, Città del Vaticano, 1992, 638-655.
34
« già » qui, su questa terra, pur rimanendo sempre nella dimensione del « non ancora ».
Soltanto in questa dinamica vitale, l’esistenza cristiana diventa una prassi che trasforma
l’uomo e le sue condizioni di vita come afferma lo stesso autore.
b. Il processo di superamento della croce
Moltmann vede il culto della croce, la mistica della croce, l’imitazione della croce, la
teologia della croce come un processo di superamento della croce stessa. Queste stesse realtà
possono invece esser viste non come un processo di superamento, ma come un
approfondimento, una comprensione sempre crescente del mistero di Gesù Crocifisso e Risorto
avvenuto nel corso dei secoli. Questa comprensione crescente del mistero - corrispondente alla
percezione che ne hanno avuto credenti di un determinato luogo e di una determinata epoca
storica - ha da una parte alimentato la vita dei fedeli e dall’altra, con l’approfondimento della
riflessione teologica, ha contribuito a penetrare sempre più il mistero insondabile del Cristo.
Che il Verbo di Dio Incarnato – con il mistero della sua morte in croce e la sua resurrezione -
non possa essere contenuto in parole umane e le trascenda è un dato di fatto; che l’uomo - nel
divenire della storia, nella fedeltà alla Tradizione e al Magistero - abbia voluto con parole
umane balbettare qualcosa dell’Indicibile ne è un altro. La molteplicità di queste parole, la
molteplicità degli sguardi posti sul Cristo lungo i secoli ce ne dicono l’ineffabilità e nello stesso
tempo ci fanno penetrare almeno un po’ nel Suo mistero d’amore. La Dei Verbum sottolinea:
“cresce la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la
riflessione e lo studio dei credenti, i quali le meditano in cuor loro (cf. Lc 2,19.51), sia
con la esperienza data da una più profonda intelligenza delle cose spirituali, sia per la
predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma
sicuro di verità. La chiesa, cioè, nel corso dei secoli, tende incessantemente alla
pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio”162.
c. La dottrina delle due nature e la sofferenza del Cristo 163
Moltmann indirizza una dura critica alla dottrina delle due nature 164, che lui considera
principalmente a partire dalle posizioni dei Riformatori, in particolare di Lutero che esprime
la scissione sopravvenuta nella coscienza dei cristiani di due aspetti : il primo concerne
l’identità o meglio l’ontologia del Cristo, il secondo invece concerne la sua missione salvifica.
La posizione di Lutero, che d’altronde segue la cristologia di Calcedonia, è “la première
expression de la scission entre christologie ontologique et christologie fonctionnelle”165.
Questa presa di coscienza ha creato una distanza pericolosa tra il linguaggio della fede e
l’esperienza del credente. Per i Padri di Calcedonia invece non c’è distanza tra ciò che Cristo
è e ciò che Cristo opera: le due realtà sono intimamente legate e una cosa dipende dall’altra.
Perciò i Padri a Calcedonia cercano di costruire un linguaggio coerente per esprimere
l’identità di Cristo.

162 DV 8.
163 Per approfondire l’argomento, cf. B. SESBOÜE, Jésus-Christ dans la Tradition de l’Eglise : pour une
actualisation de la christologie de Chalcédoine, “Jésus et Jésus-Christ 17”, Paris, 1982 ; B. SESBOÜE, « Le
procès contemporain de Chalcédoine : bilan et perspectives », RSR 65/1 (1977), 45-80 ; J.-M.
CARIERE, « Le mystère de Jésus-Christ transmis par Chalcédoine », NRT 101 (1979), 338-357. Cf.
anche la sintesi cristologica offerta dal documento elaborato dalla CTI, Questioni di cristologia, in EV 7,
631-694.
164 J. MOLTMANN, Le Dieu crucifié, p. 261-271.
165 B. SESBOÜE, Jésus-Christ dans la Tradition de l’Église, p. 144.

35
Moltmann muove in particolare due critiche alla dottrina delle due nature. Una è quella di
limitare l’esperienza della sofferenza solo alla natura umana: “Se si considera l’evento della
croce tra Gesù e il suo Dio nell’ambito della dottrina delle due nature, allora l’assioma
platonico della necessaria ‘apatheia’ di Dio eleva tanti ostacoli di fronte alla percezione della
sofferenza di Cristo 166, poiché un Dio sottomesso alla sofferenza come tutte le altre creature
non può essere ‘Dio’. Il Cristo Uomo-Dio non può dunque aver sofferto che ‘secondo la
carne’ e ‘nella carne’, cioè nella sua natura umana”167. L’altra sta nel fatto che la dottrina
delle due nature comprende l’evento della croce in modo statico 168, “come relazione e
scambio tra due nature qualitativamente differenti, la natura divina incapace di soffrire e la
natura umana capace di soffrire”169.
Moltmann afferma che “Lutero … ha preso sul serio il fatto che non si deve pensare a due
nature dello stesso valore nell’unica persona, ma che una persona divina ha assunto una natura
umana senza ipostasi. Per lui, nel Cristo Uomo-Dio, l’unità ha luogo ed è determinata
dall’azione della persona divina”. Perciò Moltmann può dire con Lutero che “la persona
divina soffre e muore nella sofferenza e nella morte di Cristo” 170.
Per salvaguardare il fatto che “una sola persona è uomo e Dio”171, sembra che Moltmann,
seguendo Lutero in un’interpretazione che tende al monofisismo 172, ponga un’ombra sulla
natura umana del Cristo. Questa dissolvenza della natura umana permette al teologo di
introdurre la sofferenza nel cuore di Dio stesso 173. Mi sembra che Moltmann isoli la formula
di Calcedonia non tenendo conto che essa presuppone tutto un cammino antecedente e anche

166 M.-J. RONDEAU, nel suo articolo « Et le Verbe s’est fait chair, la christologie à l’époque patristique :
logique de son développement », nella rivista Les quatre fleuves 4 (1975), afferma che la formula del
Concilio di Calcedonia « n’existe que comme réponse à des questions qui ont été suscitées par
l’Ecriture même avant d’être mises en forme à l’aide de catégories empruntées à la philosophie
païenne, et comme éclairage pour lire l’Ecriture. Mieux, cette réponse n’apparaît si “ philosophique ”
qu’à ceux qui ignorent l’ensemble de la déclaration de Chalcédoine : “Suivant les saints Pères, nous
enseignons tous unanimement un seul et le même Fils, Notre Seigneur Jésus-Christ, le même parfait dans sa divinité et le
même parfait dans son humanité, le même Dieu en vérité et homme en vérité, d’une âme raisonnable et d’un corps,
consubstantiel au Père selon sa divinité et, le même, consubstantiel à nous selon son humanité, semblable à nous en tout
hormis le péché, né du Père avant les siècles selon la divinité et, le même, dans les derniers temps, né de Marie la Vierge
Mère de Dieu pour notre salut selon l’humanité, un seul et même Christ, Fils, Seigneur, Monogène, reconnu en deux
natures sans mélange, sans transformation, sans division, sans séparation, sans que l’union supprime en rien la différence
des natures, mais chacune conservant sa manière d’être propre et rencontrant l’autre dans une unique personne et une
unique hypostase, lequel n’est pas partagé ou divisé en deux personnes, mais qui est l’unique et même Seigneur Jésus-
Christ, Fils, Monogène, Dieu Verbe, comme les prophètes l’ont jadis annoncé, comme Jésus-Christ lui-même nous l’a
enseigné et comme le symbole des Pères l’a transmis ”. La déclaration, on le voit, utilise très peu de termes
techniques, juste assez pour prévenir les ambiguïtés de formules traditionnelles, telle que ‘’vraiment
Dieu, vraiment homme’’, qui les colorent en retour. Elle situe la christologie par rapport au mystère
trinitaire et à l’économie du salut » (p. 40).
167 J. MOLTMANN, Le Dieu crucifié, p. 262.
168 Cf. J.-M. CARIERE, « Le mystère de Jésus-Christ transmis par Chalcédoine », NRT 101 (1979), 338-
357. L’autore aiuta a scoprire la dinamicità della formula di Calcedonia.
169 J. MOLTMANN, Le Dieu crucifié, p.283.
170 Ibid., p. 268-269.
171 Ibid., p. 268.
172 Cf. P. HENRI, «Kénose», DBS 5 (1950), col 138. Nell'articolo l'autore presenta il tema della kenosi dal
punto di vista esegetico e storico.
173 In una sua pubblicazione successiva - L’Esprit qui donne vie, Une pneumatologie intégrale, Suivi de
Mon itinéraire théologique, “Cogitatio fidei 212”, Paris, 1999 - Moltmann incorre nella stessa ambiguità,
attribuendo la sofferenza a ogni persona della Trinità. Cf. la recensione dettagliata del libro fatta da G.
EMERY, RT 99 (1999), 553-556.
36
un cammino successivo. La formula di Calcedonia, elaborata e conservata da una Chiesa per
la quale la Scrittura è sorgente e punto di riferimento della regola di fede, vuole affermare
l’unità di un solo e medesimo Figlio, salvaguardando pienamente l’umanità del Cristo accanto
alla sua divinità. La novità del concilio calcedonense consiste proprio nell’esprimere
l’umanità di Gesù attraverso delle formule parallele a quelle già divenute tradizionali e che
affermavano la sua divinità. Uno degli apporti specifici di Calcedonia sta quindi nel
proclamare la consustanzialità del Cristo con noi uomini per l’umanità (in essa è in gioco la
nostra salvezza), tenendo sempre presente che si tratta “di un solo e medesimo Figlio, il
Signore nostro Gesù Cristo, perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità, vero Dio
e vero uomo”174.
Calcedonia ci chiede di rispettare il momento concettuale della dualità in cristologia. Lo
stesso kerigma primitivo parla di Gesù fatto Signore e l’antica cristologia distingue due tempi:
“secondo la carne” e “secondo lo Spirito”175. Questa distinzione - fatta da Paolo nell’epistola
ai Romani – è già un’elaborazione teologica; essa afferma in nuce il mistero del Cristo ed ha
in sé in germe la questione cristologica che sarà esplicitata da Calcedonia:
“… il y a un seul Jésus Christ, doté d’un double mode d’existence, puisqu’il est à la
fois ‘selon la chair’ et ‘selon l’Esprit’, suivant une formule qui revient plusieurs fois
et que les historiens du dogme, […], considèrent comme l’élément fondateur de tout
développement christologique” 176.
D’altronde, lo stesso Moltmann parla, dal punto di vista storico, di Gesù di Nazareth e, dal
punto di vista della fede escatologica, del Cristo di Dio il “rappresentante del Dio che
viene”177.
L’insegnamento di Calcedonia, va inoltre interpretato unitamente ai concili successivi e
particolarmente al concilio di Costantinopoli II che vuole soprattutto dire come capire la
definizione di Calcedonia proponendo “une lecture logique très vigoureuse de l’union
hypostatique en deux natures” 178.
Per quanto riguarda la sofferenza del Cristo, l’insegnamento della Chiesa è costante nel
confessare che il Figlio di Dio stesso ha sofferto, nella sua carne e nella sua anima, per la
salvezza del mondo. Ciò vuol dire in altre parole che la persona del Figlio di Dio, anche se
impassibile nella sua natura divina, ha realmente sofferto nella sua umanità. La formula tanto
dibattuta “Unus de Trinitate passus est”179 sarà sanzionata dal secondo concilio di

174 DZ, 301.


175 Rm 1,3-4. B. SESBOÜE, « Le procès contemporain de Chalcédoine : bilan et perspectives », RSR 65/1
(1977), p. 69. Inoltre già nell’Antico Testamento possiamo scorgere due figure premonitrici della
dualità racchiusa nella persona del Cristo Gesù : quella del Servo di JHWH nel Deutero Isaia e quella
del Figlio dell’Uomo di Daniele; a questo riguardo Cf. L. SABOURIN, Rédemption sacrificielle, une enquête
exégétique, Paris, 1961, p. 192-301.
176 M.-J. RONDEAU, Et le Verbe s’est fait chair, la christologie à l’époque patristique : logique de son développement, in
«Le Christ visage de Dieu», Les quatre fleuves 4 (1975), p. 41.
177 J. MOLTMANN, Le Dieu crucifié., p. 185.
178 Per un approfondimento della questione cf. B. SESBOÜE, « Le procès contemporain de Chalcédoine,
bilan et perspectives », RSR 65/1 (1977), 45-80.
179 Cf. J. CHENE, « Unus de Trinitate passus est », RSR 53 (1965), p. 545-588. Nel documento sulla
teologia della redenzione, elaborato dalla CTI, leggiamo : “La redenzione… è un processo che coinvolge
sia la divinità che l'umanità di Cristo. Se egli non fosse divino, non potrebbe pronunciare il giudizio
efficace di Dio di perdono né potrebbe far partecipare alla vita trinitaria intima di Dio. Ma se non fosse
uomo, Gesù Cristo non potrebbe compiere opera di riparazione in nome dell'umanità per le offese
commesse da Adamo e dalla posterità di Adamo. Solo perché ha ambedue le nature egli ha potuto
37
Costantinopoli in questi termini nel canone 10 sul mistero dell’Incarnazione: “… il signore
nostro Gesù Cristo, crocifisso nella sua carne, è vero Dio, signore della gloria e uno della
santa Trinità…”.
P. Philippe de la Trinité, o.c.d., nel suo opuscolo intitolato A propos de la conscience du
Christ: un faux problème théologique, scrive:
“Jésus crucifié entre deux larrons était le Verbe de Dieu, ayant conscience de souffrir,
non dans sa nature divine, mais dans sa nature humaine… La foi nous donne
d’admettre que Jésus souffrant physiquement dans sa chair était la personne du Verbe
de Dieu ayant conscience de souffrir en homme… Cet homme est Dieu dans sa
personne : la personne du Fils de Dieu souffre dans sa chair et verse son sang pour
notre salut. Tel est le mystère des mystères, dépassant infiniment toute intelligence
créée”180.
Il Figlio di Dio, come uomo, ha dunque conosciuto realmente per esperienza le forme del
dolore e della sofferenza. Moltmann, rimettendo in questione la dottrina delle due nature che
limita la sofferenza del Cristo nell’ambito della natura umana, afferma che il grido
d’abbandono del Cristo in croce è da attribuirsi a tutta la persona divino-umana del Figlio181.
Quest’affermazione mi sembra accettabile nella misura in cui è mantenuta la distinzione che
tutta la Tradizione ci tramanda: il Figlio di Dio, in quanto uomo, ha subito realmente tutta la
passione, è stato realmente crocifisso e realmente ha gridato e sofferto l’abbandono.
Siamo di fronte al mistero insondabile che la persona di Gesù - Figlio dell’Uomo e Figlio
di Dio – racchiude, e i concetti umani saranno sempre inadeguati per poterlo esprimere.
L’enunciare una novità su di esso va espletato nella piena fedeltà alla Scrittura e alla
Tradizione, con la coscienza che in definitiva non rimane che la contemplazione.
5. La teologia trinitaria di Moltmann
Come già ho sottolineato precedentemente, un aspetto importante della teologia di
Moltmann è quella di aver messo in evidenza la dimensione teologica dell’abbandono di Gesù
e il suo intimo legame col mistero del Dio Uno e Trino. Questa intuizione è però da inserire
nella continuità dell’insegnamento che ci viene dalla Scrittura e dalla Tradizione. Nella
riflessione trinitaria del teologo riformato che egli sviluppa a partire dell’esperienza
dell’abbandonato mi sembra di cogliere alcuni punti deboli, che pongono il teologo in rottura
con la tradizione precedente; ne individuo principalmente tre:
1) il primo sta nel fatto che l’autore cancella la distinzione tra l’essere eterno della Trinità, la
Trinità immanente, e il suo agire nell’economia, la Trinità economica 182; da questo primo
punto, ne scaturiscono gli altri due;
2) l’annullamento della distinzione tra Trinità immanente e Trinità nell’economia sembra
condurre l’autore ad una pretesa e cioè voler capire cosa significhi la croce e l’abbandono
di Gesù in Dio stesso;
3) inoltre, la teologia trinitaria di Moltmann che scaturisce dalla sua teologia della croce -
non rispettando la suddetta distinzione e non accettando la distinzione delle due nature in

essere il capo rappresentativo che offre soddisfazione per tutti i peccatori e che dà loro la grazia” (CTI,
Alcune questioni sulla teologia della redenzione, in EV 14).
180 Citazione riportata da J. CHENE, nel suo articolo « Unus de Trinitate passus est », p. 583-584.
181 J. MOLTMANN, Le Dieu crucifié, p. 263.
182 Sull'argomento, cf. “La cristologia e la rivelazione della Trinità”, nel documento della CTI, Teologia -
Cristologia - Antropologia, in EV 8, 421-427.
38
Gesù - pone la croce, la sofferenza in Dio stesso, rimettendo in questione di conseguenza
l’immutabilità e l’impassibilità divina.
Moltmann sviluppa molto quest’ultimo punto. Egli introduce la croce e la sofferenza nel
cuore stesso della vita trinitaria 183: l’abbandono in croce è un evento che Moltmann situa in
Dio, è un dissenso, un’inimicizia in seno a Dio stesso: Dio contro Dio; la croce è un processo
teologico tra Dio e Dio. Pur parlando di dissenso, di rifiuto e persino di maledizione, il
teologo vuole mantenere un’eterna comunione tra Padre e Figlio. Secondo Durrwell,
Moltmann, pur rifiutando l’interpretazione giuridica della morte di Gesù tipica della
tradizione luterana, sembra suo malgrado invischiato in essa e addirittura ne rinforza il
linguaggio184. E’ difficile seguire Moltmann in questa sua interpretazione dell’abbandono di
Gesù: “il s’agit d’une théologie , profondément pensée et élaborée à partir du drame de la
souffrance, mais trop personnelle, trop peu fondée sur l’Ecriture, trop manifestement contraire
à la Tradition pour qu’on puisse la tenir pour vraie”185. L’idea di un conflitto tra il Padre e il
Figlio è infatti completamente estranea ai Vangeli.
Dalla teologia di Moltmann scaturiscono altre problematiche connesse, mi limito ad
elencare almeno due:
1) come conciliare la concezione biblica che presenta sempre la sofferenza e la morte come
conseguenze del peccato con la concezione di Moltmann che introduce la sofferenza in
Dio stesso affermando che se Dio è incapace di soffrire, è anche incapace di amare?
2) da questa prima problematica ne scaturisce una seconda, quella della salvezza
dell’uomo: come può Dio salvare l’uomo dalla morte, dalla maledizione, se Egli stesso è
implicato realmente in esse?
6. Conclusione
Il pensiero di Moltmann, seppur avvincente e profondo, suscita più interrogativi che
risposte. Mi limito a ricordare le principali questioni sollevate dalla riflessione del teologo:
a) si è notato nell’autore un pensiero che accorda un primato unico e quasi esclusivo alla
teologia della croce, che sembra lasciare nell’ombra la realtà della resurrezione;
b) discutibile è sembrata la posizione dell’autore che considera il culto della croce, la
mistica della croce, l’imitazione della croce come un processo di superamento di essa e
non come una comprensione crescente del mistero della passione, morte e resurrezione
del Cristo;
c) inaccettabile è sembrata anche la posizione così dura nei confronti della tradizione e in
particolare la critica che il teologo muove alla dottrina delle due nature così come è stata
elaborata a Calcedonia;
d) si sono inoltre riscontrati dei punti deboli nella teologia trinitaria di Moltmann, in
particolare l’annullamento della distinzione tra Trinità immanente e Trinità economica;
l’aver introdotto la croce nel cuore della Trinità fino alla rottura della Trinità stessa, cioè
la croce vista come processo teologico fra Dio e Dio, che pone Dio contro Dio.
Della riflessione teologica di Moltmann, colgo principalmente due aspetti da lui messi in
evidenza e cioè la dimensione teologica dell’abbandono di Gesù e la rivelazione del mistero

183 A questo proposito vedi l’eccellente articolo di J.-H.. NICOLAS, « Aimante et bienheureuse Trinité »,
p. 271-292.
184 È quanto afferma F.-X. DURRWELL nel suo libro Il Padre : Dio nel suo mistero, nota 37, p. 62.
185 J.-H. NICOLAS, « Aimante et bienheureuse Trinité », p. 290.

39
trinitario che scaturisce dalla croce di Gesù186, non accettandone però le conseguenze
estreme cui egli giunge.

186 J. GALOT sottolinea, nella riflessione di Moltmann, il merito di una ricerca teologica che si è sforzata
di approfondire nello stesso tempo il senso del mistero trinitario unitamente al mistero della croce.
L’autore così si esprime : «Ce qu'il importe de retenir de cette réflexion, c'est l'engagement de la
Trinité dans la souffrance de la croix. La Trinité y demeure ce qu'elle est, avec toute sa transcendance,
mais s'engage vraiment dans le drame rédempteur en vertu du libre amour que le Père, le Fils et
l'Esprit vouent à l'humanité. Par là, le mystère trinitaire, si élevé en soi, s'approche au maximum des
hommes et illumine plus particulièrement le problème de la souffrance humaine» (Dieu en trois
personnes, Saint-Maur, 1999, p. 187).
40
Capitolo III
Hans Urs von BALTHASAR: Teologia dei tre giorni
A. Introduzione
Hans Urs von Balthasar187 è fra i più celebri e fecondi pensatori del Novecento. Il nostro
autore ha lasciato una vastissima opera per la quale gli è stato conferito, il 23 giugno 1984, il
Premio Internazionale Paolo VI, patrocinato dall’Istituto Paolo VI. La motivazione del Premio
evidenzia pienamente la specificità dell’opera e della figura del teologo svizzero, dicendo tra
l’altro:
“La vastità e la profondità della cultura, la multilateralità e l’ampiezza della sua opera,
l’originalità e l’audacia delle sue concezioni hanno oggettivamente meritato al teologo
svizzero Hans Urs von Balthasar un ruolo di preminente rilievo nell’ambito delle figure
dominanti nella teologia di questo secolo. Già indiscutibilmente apprezzato per il suo
intrinseco valore, il pensiero di von Balthasar è certo destinato a diventare un “classico”
della tradizione teologica e della nuova sistematica cattolica in particolare. Egli è di fatto
l’unico teologo contemporaneo che abbia osato – da solo – la formidabile impresa di una
summa teologica : la quale per unità di concezione e grandiosità di impianto può essere a
buon diritto collocata nella linea delle grandi sintesi che hanno segnato il cammino della
teologia occidentale”188.
Hans Urs von Balthasar è stato quindi un grande scrittore, colto, poliedrico, versatile, dotato
di un grande carisma spirituale e intellettuale e sostenuto da una capacità impressionante di
lavoro. Henri de Lubac (1896-1991) che è stato il suo maestro di studi patristici e amico
carissimo così lo ha definito come l’uomo “più colto del suo tempo”189. Ciò basta per farci
comprendere che ci troviamo di fronte ad un gigante della cultura contemporanea, di cui
bisogna anche accennare il ricco itinerario spirituale: infatti senza la molteplice trama di
relazioni con molti pensatori – fra cui ricordiamo Erich Przywara, Henri de Lubac, Adrienne
von Speyr, Karl Barth - con cui Balthasar si è incontrato e confrontato non è possibile capire la
sua vita e la sua vasta opera190. Si tratta di un’opera sinfonica, immensa e complessa che si

187 “Hans Urs von Balthasar, nato nel 1905 a Lucerna, conseguì la laurea di dottorato in germanistica e
filosofia a Zurigo (con una tesi sul problema escatologico nella letteratura tedesca moderna); entrato
nella Compagnia di Gesù nel 1929, studiò filosofia a Pullach e teologia a Lione; determinanti per la
sua vita e il suo pensiero furono gli incontri con Przywara, De Lubac, Barth e A. von Speyr; dal 1950,
divenne guida spirituale della Comunità di San Giovanni (per la quale esce, con grande sofferenza,
dalla Compagnia di Gesù), editore (Johannesverlag), scrittore di teologia (con sede a Basilea), fu
impegnato in molteplici attività di conferenziere e predicatore. Dopo il Vaticano II, cui non partecipò,
divenne membro della Commissione Teologica Pontificia. Morì nel 1988, poco dopo essere stato
eletto cardinale”.
Le precedenti indicazioni biografiche sono tratte dal libro di A. TONIOLO, La theologia crucis nel contesto
della modernità : il rapporto tra croce e modernità nel pensiero di E. Jüngel, H.U. von Balthasar e
G.W.F. Hegel, Pubblicazione del Pontificio Seminario Lombardo in Roma, 1995, p. 85.
188 ISTITUTO PAOLO VI, “Hans Urs von Balthasar. Premio Internazionale Paolo VI – 1984”, in Notiziario
n. 8 (1984) 25.
189 H. de LUBAC, “Un testimone del Cristo nella Chiesa : Hans Urs von Balthasar “, in Paradosso e Mistero
della Chiesa, Milano 1980, p. 137.
190 Per una panoramica dell’itinerario spirituale di Balthasar, cf. G. MARCHESI, La cristologia trinitaria…, p.
23-73.
41
articola su quattro grandi direttrici: la filosofia, le traduzioni 191, le opere spirituali e la riflessione
teologica. Di fronte ad un tale uomo, di fronte alla vastità della sua opera, tentare una sintesi in
poche pagine che pur si limita ad un unico aspetto, è un’impresa ardua. Cosciente delle
difficoltà, mi accingerò, nelle pagine che seguiranno, a presentare brevemente l’esperienza di
abbandono e di morte vissuta dal Figlio di Dio così come è capita ed esposta dal teologo
svizzero, prendendo in esame particolarmente l’opera “Teologia dei tre giorni: Mysterium
Paschale”, integrando stralci sull’argomento tratti da altre opere 192.
Poiché “il mistero di Cristo, morto e risorto, ha costituito come il cantus firmus dell’opera
vastissima e sinfonica che Balthasar ha prodotto nella sua lunga vita di scrittore e teologo” 193,
spero di riuscire a indicarne gli aspetti più salienti in una breve presentazione, che non ha la
pretesa di essere esaustiva. In un primo tempo, evidenzierò alcuni aspetti peculiari della
cristologia di Balthasar che ci aiuteranno, in un secondo tempo, a penetrare nella visione
balthasariana del mistero della croce e dell’abbandono di Gesù.

B. L’unicità irripetibile della Figura di Gesù Cristo194


1. La scoperta della “Gestalt”
Balthasar ha costruito il primo pannello della sua Trilogia, Gloria (Herrlichkeit), su un
postulato fondamentale: la capacità di percepire Gesù Cristo - nella sua totalità e nella sua
piena armonia - come la Gestalt195, come la figura centrale della rivelazione di Dio e della
sua contemplazione da parte dell’uomo. La figura di Cristo è vista da Balthasar “quale
archetipo e modello sia della rivelazione di Dio, sia della possibilità data all’uomo per grazia,
di conoscere l’Inconoscibile, di potersi avvicinare all’Inaccessibile, di entrare in comunione di
vita col mistero stesso del Dio trinitario” 196. Per il teologo svizzero, Gesù Cristo è, quindi, la
Figura per eccellenza della rivelazione di Dio. Egli è il Patto diventato Persona, è
l’incarnazione dell’alleanza e delle sue esigenze tra Dio e l’uomo.
2. Gesù Cristo, la Figura assolutamente unica
Ciò che contraddistingue Gesù, rispetto a tutte le altre personalità della storia umana -
compresi i grandi inviati di Dio, come i fondatori di religione o i profeti – è che Egli in
persona è il Verbo di Dio fatto uomo. In questa singolarità di Gesù Cristo, uomo-Dio, si rivela
la profondità di Dio stesso. Alcuni elementi importanti, fanno emergere l’unicità della Figura,

191 L’opera di traduzione di H.U. von Balthasar è iniziata già durante gli studi giovanili ed è proseguita
fino alla morte; essa abbraccia traduzioni di opere dei Padri della Chiesa, dei moderni poeti e scrittori
francesi, dei teologi e pensatori, medievali e moderni, dei mistici e degli spirituali.
192 Per una comprensione più globale della cristologia di Balthasar, vedi il libro di G. Marchesi: “La
cristologia trinitaria di Hans Urs von Balthasar. Gesù Cristo pienezza della rivelazione e della salvezza” che ne
offre una eccellente sintesi. Per una breve presentazione dell'opera del teologo, rimando il lettore alle
sintesi realizzate da E. GUERRIERO, Hans Urs von Balthasar, Cinisello Balsamo, 1991; Angelo SCOLA,
Hans Urs von Balthasar: uno stile teologico, Milano, 1991; Mgr Philippe BARBARIN, Théologie et sainteté,
Introduction à Hans Urs von Balthasar, Saint-Maur, 1999.
193 G. MARCHESI, La cristologia trinitaria..., p.11.
194 Per trattare l’argomento, mi ispiro a G. MARCHESI, La cristologia trinitaria …, p. 191-321.
195 L’idea di Gestalt, Balthasar, da germanista, la trova in Goethe; egli stesso, in un’intervista, afferma:
“... Una figura, una forma, la si può abbracciare, le si può girare attorno e vederla da tutte le sue parti. Ogni volta si
contempla qualcosa di diverso e tuttavia si vede sempre la stessa cosa” (M. ALBUS [ed.], Geist und Feuer. Ein
Gespräch mit Hans Urs von Balthasar, in HK 30 [1976], p. 75ss.; cit. in G. MARCHESI, La cristologia
trinitaria…, p. 17).
196 G. MARCHESI, La cristologia trinitaria…, p. 193.

42
propria di Cristo. La figura di Cristo è, infatti, inserita “in un insieme di verità che
costituiscono il contenuto della predicazione di Gesù e lo situano sia storicamente sia
dogmaticamente in varia maniera; in un insieme di avvenimenti che in parte condizionano la
persona storica di Gesù e in parte vengono da essa condizionati e provocati; in un insieme di
verità ecclesiali mediatrici che si presentano come causate da lui e a lui vogliono rimandare,
come alla loro origine” 197.
La figura di Cristo tocca l’apice della rivendicazione del suo essere assolutamente unico e
irripetibile, allorquando Gesù dà un’audace definizione di se stesso: “Io sono la via, la verità
e la vita” e ancora: “Io sono la risurrezione e la vita” 198; queste due affermazioni
costituiscono una provocazione unica nella storia umana, in quanto Gesù, attraverso di esse,
afferma la sua identità. Altre due rivendicazioni, proprie della figura del Cristo e che ne
sottolineano l’unicità, sono la sua morte per noi e la sua risurrezione. Infine, l’unicità della
Figura di Cristo è determinata dal fatto che in essa appare la gloria di Dio: in Gesù, Verbo
fatto carne, morto e risorto, non è solo una parte della divinità che si manifesta, ma è il Dio
trinitario che appare nel suo mistero più profondo.
3. Gesù Cristo, la figura centrale della Rivelazione
Più volte Balthasar afferma l’unicità della Figura del Cristo la cui autenticità e credibilità
scaturiscono dall’intimo della sua essenza. Il Cristo è la figura centrale della rivelazione di
Dio, sia sul piano dell’essere e dell’uomo, sia soprattutto nella storia biblica di salvezza. Il
teologo svizzero evidenzia alcuni criteri interni dell’unicità del Cristo Gesù.
a. La semplicità di Gesù
Tutta la sua vita, la sua parola e la sua azione sono un dispiegamento continuo di
quell’unità, semplicità e sintesi che è Cristo in se stesso; il nucleo di questa semplicità è
indicato da Balthasar nel mistero dell’unione ipostatica. In Cristo non c’è complessità perché
egli è vita nella trasparenza, nella quale “il Verbo-Dio e l’uomo-espressione-di Dio sono
diventati inscindibili” 199.
b. L’amore come qualifica essenziale del dispiegamento della figura di Gesù
Balthasar definisce il Cristo come “identità di essere e di amore” 200; l’amore è l’essenza
della figura del Cristo, esso fonda e garantisce la sua credibilità. Balthasar afferma con forza:
solo l’amore è credibile201.
c. L’accordo tra missione e Colui che è mandato
Balthasar fonda questo elemento sull’affermazione di Gesù in Gv 6,38: “Io sono disceso
dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato”; questo
termine non vuole semplicemente esprimere la semplice esecuzione obbediente della volontà

197 H. U. von BALTHASAR, Herrlichkeit. Eine Theologische Ästhetik, Bd I. : Schau der Gestalt , 1961;
trad. it. Gloria. Una estetica teologica, vol. I: La percezione della forma. Milano, 1994, p. 191. Per una sintetica
presentazione di quest'opera, cf. E. GUERRIERO, Hans Urs von Balthasar, Cinisello Balsamo, 1991, p.
253-296.
198 Gv 14,6; 11, 25-26.
199 H1, p. 471.
200 H. U. von BALTHASAR, Glaubhaft ist nur Liebe, Einsiedeln, 1963; trad. it. Solo l'amore è credibile, Roma,
1977, 35-37.
201 GL, 55, 67. La frase completa di Balthasar è la seguente: “Solo l’amore è credibile davanti all’uomo
che soffre, che piange, che ha fame”.
43
paterna; “esso significa che tutto l’essere del Padre è volto a mandare il Figlio, che è
costitutivo del Figlio, già in seno alla Trinità, di essere l’Inviato del Padre” 202.

d. La perfetta corrispondenza tra missione divina di Gesù e sua esistenza umana


Intendendo con questo termine la vita di Dio calata e immersa nella temporalità e nella
storicità, di cui la passione e la croce fanno parte essenziale. Gesù proprio “in quanto uomo è
identico con la missione del Padre” 203. La missione consiste nella pienezza di potere e
nell’autorità, conferite al Cristo dal Padre. Il punto d’incontro della missione divina e
dell’esecuzione umana è costituito dall’obbedienza di Gesù, elemento strutturale e
fondamentale nella cristologia del teologo.
e. L’identità tra missione e dottrina, tra dottrina e vita
L’origine divina della missione del Cristo conferisce ai discorsi di Gesù “incomparabilità
assoluta” e “trascendenza” 204, con quest’ultimo termine Balthasar intende il carattere unico ed
irripetibile della parola di Cristo: essa è sia la parola di Dio, la sua espressione adeguata, sia la
totalità della parola umana.

C. Incarnazione e rivelazione trinitaria di Gesù Cr isto205


La visione cristologica di Balthasar è profondamente trinitaria: il mistero del Verbo
incarnato è continuamente visto in relazione alla rivelazione della Trinità di Dio. L’umanità
del Cristo, assunta dal Verbo, è “espressione” visibile di Dio. Gesù è “la lingua”,
“l’interprete”, è “l’esegesi” del Padre.
1. Gesù Cristo: il Verbo di Dio divenuto carne
Il concetto centrale della cristologia del teologo svizzero non è il Logos eterno, ma Gesù
Cristo, Parola di Dio fatta carne206. L’orientamento fortemente cristocentrico della teologia
di Balthasar si fonda da una parte sul Vangelo di Giovanni (Verbum-Caro) e dall’altra sulle
lettere di S. Paolo, da cui risulta evidente l’identificazione del Figlio eterno col Figlio
incarnato. Il Verbum Caro è il punto di partenza della teologia cristiana e la centralità
dell’incarnazione del Verbo nella fede cristiana, nella teologia della Chiesa costituisce uno dei
punti fermi della riflessione balthasriana.
2. L’incarnazione: rivelazione della Trinità
L’incarnazione ha per il nostro autore un duplice senso: è un atto propriamente trinitario ed
è, al contempo, rivelazione di tutta la Trinità. Gesù è l’Inviato del Padre, Egli è venuto nel
mondo “dall’alto” 207. L’incarnazione è vista come movimento discendente208 dell’iniziativa di

202 G. MARCHESI, La cristologia trinitaria …, p. 270, corsivo nel testo.


203 H1, 451.
204 H. U. von BALTHASAR , Verbum Caro. Skizzen zur Theologie I, Einsiedeln 1960, tr. it. Verbum Caro. Saggi
teologici I, Brescia, 1968, 54-55; cit. in G. MARCHESI, La cristologia trinitaria …, p. 275.
205 Cf. G. MARCHESI, La cristologia trinitaria …, p.323-404; E. GUERRIERO, Hans Urs von Balthasar …, p.
200-206.
206 Gv 1,14.
207 H. U. von BALTHASAR, Theologik. Bd. II: Wahrheit Gottes, 1987; tr. it. Teologica. vol. II: Verità di Dio,
1990, p. 247, cit. in G. MARCHESI, La cristologia trinitaria …, p. 353.
44
Dio, del suo infinito amore per noi peccatori: l’evento dell’incarnazione non ha altra origine che
in sé stesso e, quindi, nella decisione trinitaria. Balthasar accentua fortemente il primato del
movimento discendente dell’incarnazione e ciò significa da parte della creatura riconoscere la
trascendenza di Dio e allo stesso tempo l’unicità irripetibile di Gesù.
La contemplazione balthasariana dell’incarnazione - oltre che alla dinamica
dell’incarnazione espressa dalla teologia giovannea e dall’inno cristologico della lettera ai
Filippesi209, che mette in luce l’obbedienza filiale fino all’annichilimento di sé - si ispira anche
all’interpretazione teologica della Scuola alessandrina 210.
Per Balthasar, la kenosi dell’incarnazione – che abbraccia tutta la vita di Gesù, fino alla
morte di croce e alla resurrezione – è nello stesso tempo cristologica e trinitaria. Il teologo
individua, infatti, una prima kenosi o kenosi primordiale (Ur-kenose) del Padre che consiste
nella sua “auto-donazione” nella generazione del Figlio consustanziale al Padre. Questa auto-
donazione, che Balthasar chiama anche “auto-espressione del Padre nella generazione del
Figlio” o “auto-disappropriazione”, “auto-dedizione”, consiste nel separarsi da tutto ciò che è
proprio, senza ritenere niente per sé, donando tutto se stesso come puro amore 211. In questa
kenosi primordiale, Balthasar radica la possibilità delle altre kenosi di Dio: la seconda kenosi
riguarda allo stesso tempo la libertà donata alle creature ed il Patto di Dio con Israele; la terza
kenosi è quella cristologica dell’incarnazione orientata alla croce 212.
3. La croce, fine e termine dell’incarnazione del Verbo
L’affermazione centrale del Mysterium Paschale, ripresa poi nella cristologia di Gloria è la
seguente: “Chi dice incarnazione, già con questo dice croce” 213. La domanda sul motivo
dell’incarnazione del Verbo214, si trasforma per Balthasar in un’altra: perché la passione del
Figlio di Dio?

208 Il movimento discendente dell’incarnazione del Verbo fonda e orienta tutto il movimento
ascendente dell’uomo verso l’alto: la discesa del Verbo di Dio nell’abisso dell’abbandono, della
solitudine e della morte, si trasforma nell’ascesa di tutti dallo stesso abisso, in cui gli uomini sono
sprofondati a causa del peccato (H. U. von BALTHASAR, Theologie der Geschichte. Neue Fassung, 1959; tr.
it. Teologia della storia, Brescia, 1964, p. 4-15; Teologia dei tre giorni, Mysterium Paschale, Brescia, 1990, p.
161). Balthasar afferma: “in Cristo, che è Dio e uomo, Dio si è aperto al mondo e ha stabilito in
questo movimento di discesa il senso di qualunque ascesa dell’uomo verso di lui. Cristo è l’unica ed
esclusiva misura concreta tra Dio e l’uomo, tra la grazia e la natura, tra la fede e la ragione, e Cristo,
sebbene abbia una natura umana, è una Persona divina” (VC, p. 174).
209 Fil 2,6-11.
210 Origene, Cirillo, Massimo il Confessore. Cirillo afferma che « l’incarnazione è per se stessa un
abbassamento », « l’abbassamento di ciò che è alto » (S. CIRILLO DI ALESSANDRIA, Ad Reginas, 2, 19
[PG 76, 1,360 B]). Per approfondire l’apporto patristico alla teologia balthasariana, cf. E. GUERRIERO,
Hans Urs von Balthasar …, p. 41-82.
211 H. U. von BALTHASAR, Theodramatik, III. Die Handlung, 1980; tr. it. Teodrammatica, vol IV: L'Azione,
1986, p. 303; Theodramatik, IV. Das Endspiel, 1983; tr. it. Teodrammatica, vol V: L'ultimo atto, 1986, p.
73-78. Per Balthasar, questa kenosi primordiale tra il Padre e il Figlio si realizza da sempre in relazione
alla processione dello Spirito Santo, comunicazione e dono dell’amore tra il Padre e il Figlio. Per una
breve sintesi su quest’aspetto del pensiero del teologo svizzero, cf. G. MARCHESI, La cristologia trinitaria
…, p. 526-531.
212 Balthasar deve l’idea di una gradualità della kenosi (Teologia, creazione, croce) a S. Bulgakov, idea
che egli sviluppa cercando di liberare l’intenzione fondamentale del teologo russo “dai suoi
presupposti sofiologici” (MP, p. 45) ; Cf. l'articolo di G. EMERY « L’immutabilité du Dieu d’amour …
», p. 23.
213 MP, p. 142.
214 Cur Deus homo ? È questo il titolo di un’opera di sant’Anselmo d’Aosta e presenta un interrogativo
che in epoche passate ha appassionato grandi teologi, che si proponevano di capire il rapporto tra
45
Interrogando la Scrittura e poi la Tradizione, il teologo afferma che tutta la vita di Gesù
deve essere compresa come un cammino verso la croce e che “la croce è il primo e ultimo fine
dell’incarnazione, e ogni partecipazione al gaudio della risurrezione non può sostituire l’obbligo
di essere redenti attraverso la croce, partecipando in modo insondabile alla condivisione della
stessa passione”215.
4. La necessità del molto patire e l’ora della croce
Balthasar approfondisce l’orientamento di tutta l’esistenza del Verbo incarnato verso la
croce alla luce di due dati complementari dei Vangeli: il dei216 dei Sinottici, cioè la necessità del
molto patire e l’ora giovannea. Già i Sinottici sottolineano la necessità che il Figlio dell’uomo
deve molto patire: il cammino di Gesù verso la passione è ritmato dalle sue predizioni della
morte in croce217. Gesù è consapevole del suo destino di passione e di morte. Nei Sinottici, il
termine ora designa il tempo destinato alla passione di Gesù 218. Giovanni evangelista usa la
parola ora per indicare l’evento cristologico della glorificazione del Figlio di Dio e Figlio
dell’uomo attraverso la croce e la risurrezione 219. Da questi dati scritturistici, Balthasar deduce
che la croce è la misura dell’intera esistenza del Cristo: Gesù vede tutta la sua vita in
prospettiva di quest’ora oscura della passione. Nell’ora si riassume il senso della sua missione:
“là è il peso e il centro, là è la prova del fuoco della sua missione” 220. Facendo appello a questi
dati scritturistici, Balthasar può affermare che l’incarnazione non ha altra finalità che la croce,
essa è ordinata ultimamente alla croce, cioè al pro nobis salvifico dell’intera missione di
Gesù221.

D. Il mistero pasquale: l’azione salvifica del Figlio di Dio222


1. Introduzione
In continuità con questa presa di coscienza dell’ordinamento dell’incarnazione alla croce,
il mistero pasquale “costituisce il centro di polarizzazione e di irradiazione” 223 di tutta la

l’incarnazione, la nascita e la morte in croce di Gesù. Nel XIII secolo, si erano delineate due tendenze
che facevano capo alle due scuole teologiche più importanti del medioevo : tomisti e scotisti. Secondo
questi ultimi, Dio avrebbe deciso l’incarnazione del Verbo indipendentemente dalla caduta del
peccato originale e prescindendo dalla missione redentrice del Cristo. L’altra ipotesi, della scuola
tomista, asseriva che senza la caduta dell’uomo, il Verbo di Dio non si sarebbe incarnato. Nella
teologia moderna la questione ha perso la radicalizzazione dei secoli precedenti, per una più forte
connessione tra cristologia e soteriologia. Balthasar, secondo G. Marchesi, si pone al di là della
prospettiva tomista o scotista, poiché l’oggetto principale della sua teologia è « la persona
concretissima del Verbo incarnato, sofferente ‘’per me’’, ‘’per noi’’, discendente agli inferi e
risorgente » (MP, p. 154).
215 VC, 120.
216 Cf. Mc, 8,31 ; Mt 16,21; Lc 9,22; 17,25; 24,7.26.44; Gv 3,14; 12,34; 20,9; At 17,3.
217 Mc 8,15 ; 9,30-31; 10,12-13 e par.
218 Mc 14,35.41; Mt 26,45; Lc 22,53.
219 Gv, 12,23; 13,31.
220 TD IV, p. 216; cf. G. MARCHESI, La cristologia trinitaria …, p. 366.
221 B. Sesboüé parla a questo riguardo di “unité indéchirable de l’incarnation et du mystère pascal”,
affermando che allorquando i Padri parlano dell’incarnazione non si preoccupano soltanto della
concezione verginale del Verbo di Dio o della nascita di Gesù, ma pensano a tutto ciò che costituisce
la persona del Cristo per tutta la durata della sua esistenza in quanto uomo e nel pieno compimento di
tutti i suoi misteri (Jésus-Christ l’unique médiateur, tome I, p. 215).
222 Per la trattazione di questa sezione mi riferisco all’opera di BALTHASAR Teologia dei tre giorni, Mysterium
Paschale, Queriniana, Brescia, 1971.
46
riflessione balthasariana. Bisogna però tener conto che la meditazione del teologo svizzero su
temi quali la passione, croce e discesa agli inferi ha subito l’influsso delle esperienze mistiche
di Adrienne von Speyr, di cui Balthasar è stato per 27 anni guida spirituale, consigliere,
confidente e redattore degli scritti. L’incontro, il carisma e l’opera di Adrienne sono
inscindibili dall’intelligenza della fede del teologo per quanto riguarda il tema che ci
interessa. Sarebbe quindi necessario conoscere a fondo l’esperienza mistica della von Speyr
per delimitare la riflessione propria di Balthasar dalle intuizioni mistiche di Adrienne. Mi
limito qui semplicemente a segnalare questa influenza, non potendo spingere oltre, per
mancanza di tempo e spazio, la ricerca sull’argomento 224.
Prima di immergerci nella riflessione balthasariana del Mysterium pa schale, vorrei
sottolineare alcuni aspetti del Verbum Caro messi in evidenza dal teologo, in altre opere, e
che conducono al Triduum mortis.
a. Gesù Cristo: Parola, Non-Parola, Superparola
Mentre Giovanni è la voce di colui che grida nel deserto, Gesù è la Parola, il Verbum caro
factum. Balthasar nel volume Nuovo Patto della Herrlichkeit sottolinea tre aspetti del Verbum
Caro. Il primo aspetto è costituito dall’autorità di Gesù di giudicare tutta la Legge, mettendo
così la sua autorità al di sopra di quella di Mosè. Tale autorità è però affermata in una assoluta
povertà, nella rinuncia del potere umano e di ogni bene terrestre. La povertà di Gesù non è
soltanto un’esigenza e una prescrizione ma è soprattutto solidarietà: è l’incarnazione della
solidarietà di Dio con i poveri che avrà per Gesù una conseguenza tragica. La Parola incarnata
viene considerata, poi, in un terzo aspetto: l’abbandono. La Parola assume un’esistenza
umana limitata, un’esistenza votata alla morte poiché legata alla temporalità, alla precarietà,
alla vanità. La Parola, abbreviata nel grido della croce, si fa silenzio, si fa non-parola, in una
dimensione d’abbandono senza riserve 225.
Nel silenzio della morte, la Parola si fa «Non -Parola» (Nichtwort) e - restando centro
della rivelazione di Dio - diventa essa stessa la «Super-Parola» (Überwort) di Dio all'uomo:
pur in modo nascosto ma eloquente, sulla croce si attua la rivelazione suprema dell'amore che
intercorre trinitariamente tra Padre e Figlio nella missione dello Spirito Santo 226.
b. Il Cristo obbediente fino alla morte e alla morte di croce
In diversi suoi scritti, Balthasar evidenzia l’obbedienza totale e filiale di Gesù al Padre.
L’obbedienza di Cristo è per sua natura amore; Balthasar individua un rapporto molto stretto
tra obbedienza e amore trinitario. Il Figlio lascia al Padre la libertà di disporre perfino della
propria morte, e il Padre lascia al Figlio la libertà d’essere obbediente sino alla croce.

223 G. MARCHESI, La cristologia trinitaria …, p. 493.


224 Lo stesso Balthasar, nel suo libro Il nostro compito, Milano, 1991, scrive: « Sia notato … che tutti i temi
fondamentali dell’opera di Adrienne fin qui descritti non hanno parte alcuna alle mie conferenze o nei
miei libri prima del 1940, per quanti Padri della chiesa o anche teologi potessi aver letto. Se questi temi
affiorano dopo il 1940 nelle mie opere e conferenze, avviene per riporto di quanto imparato da
Adrienne… Voler chiaramente separare in queste mie opere successive ciò che è mio e ciò che è suo
dovrebbe essere una impresa senza prospettive ». Quest’affermazione esprime l’autocoscienza che il
teologo ha circa la relazione del carisma di Adrienne von Speyr con la propria opera teologica. Per
l’argomento, cf. P. MARTINELLI, La morte di Cristo come rivelazione dell’amore trinitario, Milano, 1996, pp.
53-75.
225 H. U. von BALTHASAR, Herrlichkeit. Eine Theologische Ästhetik, Bd. III/2, 1. Teil: Neuer Bund, 1966,
tr. fr. La gloire et la croix : les aspects esthétiques de la révélation, vol III/2 : Nouvelle Alliance, Paris, 1975, p.
31-140.
226 Gv 19,30. Cf. G. MARCHESI, La cristologia trinitaria …, p. 477-478.

47
L’obbedienza di Gesù al Padre è assoluta, egli obbedisce al Padre in tutto, anche
nell’esperienza di morte, quando il Figlio, nella “debolezza estrema”, si abbandona alla
“potenza del Padre”227.
c. La “struttura eucaristica” dell’esistenza di Gesù228
L’Ultima Cena rivela che tutta l’esistenza di Gesù – caratterizzata da una donazione di se
stesso senza uguali - ha una struttura eucaristica, che viene espressa chiaramente dalla sua
coscienza di dare la propria vita in sacrificio 229. La natura eucaristica del Verbo incarnato
raggiunge il suo vertice nell’istituzione eucaristica, le cui parole indicano chiaramente la
crocifissione e ne spiegano anticipatamente il significato salvifico universale. Nell’Eucaristia,
Gesù dona tutto se stesso anticipando l’evento violento della passione.
d. Il mistero della kenosi
Abbiamo già visto precedentemente quanto l’affermazione “chi dice incarnazione, già con
questo dice croce” sia uno dei pensieri ricorrenti della riflessione cristologica balthasariana.
Per Balthasar l’incarnazione del Figlio di Dio è avvenuta in vista della redenzione
dell’umanità attraverso la croce di Cristo. Essa ha comportato per Dio l’assunzione
dell’uomo, il farsi carico del fardello di peccato e di miserie, del suo destino di morte,
d’allontanamento da Dio, fino a sperimentare l’abbandono di Dio. Tutto ciò costituisce il
mistero della kenosi del Verbo incarnato che non si limita all’evento dell’incarnazione, ma
accompagna la vita intera del Verbum Caro. L’agonia di Gesù nell’Orto degli ulivi, il suo
grido d’abbandono sulla croce, la sua morte e la conseguente discesa agli inferi costituiscono
per il teologo i momenti culminanti della condizione kenotica del Verbo incarnato.
Tutta l’esistenza di Gesù è una “esistenza nella kenosi come obbedienza fino alla morte di
croce” 230. Un ultimo aspetto della kenosi del Verbo incarnato è costituito dalla rivelazione
trinitaria che in essa si realizza: nel mistero della croce, nella carne mortale, umiliata e
crocifissa del Verbum Caro, si svela la più grande rivelazione della Trinità.
2. Il Triduum mortis
Il primo contributo sistematico del teologo sul Triduum mortis è costituito dal saggio
inserito nell’opera collettiva Mysterium salutis con il titolo Mysterium paschale che è stato
poi pubblicato successivamente in un volume autonomo sotto il titolo Teologia dei tre
giorni231 del 1968. Lo stesso autore ha affermato essere uno scritto compilato “in fretta”,
dovendo egli rimpiazzare l’indisposizione di un altro autore 232.

227 THG, p. 43; MP, p. 274.


228 Cf. G. MARCHESI, La cristologia trinitaria …, p. 514-516.
229 Cf. allocuzione del Santo Padre nell’udienza del mercoledì 5 ottobre 1988 : La consapevolezza di Gesù
Cristo della sua vocazione al sacrificio redentivo, che presenta in una breve catechesi i diversi momenti della
vita di Gesù, da cui traspare la sua coscienza circa la sua sorte futura ed il senso definitivo della sua
missione e della sua vita.
230 MP, p. 185. Per approfondire la riflessione balthasariana sul mistero della kenosi che non posso
trattare in tutta la sua ampiezza cf. MP, 35-47; G. MARCHESI, La cristologia trinitaria …, p. 516-535; H.
DANET, Gloire et croix de Jésus-Christ, “Jésus et Jésus-Christ 30”, Paris, 1987, p 83-133.
231 Per una breve recensione del saggio, cf. M.-V. LEROY, «Christologie», RT 76 (1976), p. 641-644.
Interessante anche il già citato libro di H. DANET, Gloire et croix de Jésus-Christ, che offre una
presentazione della meditazione balthasariana del mistero pasquale. Balthasar ha nuovamente trattato
l’argomento, in modo più sintetico, nel volume Nuovo Patto della Herrlichkeit, pubblicato nel 1969.
232 P. MARTINELLI, La morte di Cristo come rivelazione dell’amore trinitario, Milano, 1996, p. 82.

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Balthasar vuole offrire in questo studio una rassegna sulla “teologia della passione, della
discesa agli inferi e della risurrezione”, essa ha come oggetto principale “la personalità
concretissima del Verbo incarnato, sofferente ‘per me’, ‘per noi’, discendente agli inferi e
risorgente” 233. Il testo rivela una massiccia presenza dell’esperienza di Adrienne von Speyr, in
particolare per l’ampio spazio dato al mistero del Sabato Santo. Il saggio si articola in cinque
capitoli:
1) incarnazione e passione;
2) la morte di Dio, luogo originario della salvezza, della rivelazione e della teologia;
3) il cammino verso la croce (venerdì santo);
4) il cammino verso i morti (sabato santo);
5) il cammino verso il Padre (Pasqua).
La mia attenzione si volgerà soprattutto ai tre capitoli centrali, che toccano da vicino
l’argomento che ci interessa, avendo già trattato in precedenza, anche se in modo succinto, le
tematiche sviluppate nel primo capitolo.
a. La morte di Dio, luogo originario della salvezza, della rivelazione, della
teologia
1) Lo iato
L’esperienza della morte, vissuta da Gesù, è designata da Balthasar col termine iato; con
tale parola il teologo vuole indicare quel giorno in cui il Figlio muore e Dio è inaccessibile. Il
trionfo del Figlio di Dio “si compie nel grido dell’abbandono di Dio nelle tenebre (Mc 15,33-
37), nel ‘bere il calice’, nel ‘ricevere il battesimo’ (Mc 10,38), nella morte e nell’inferno” 234.
È la morte della Parola di Dio. Nella morte dell’uomo Gesù, Verbo incarnato, la
manifestazione e la comunicazione di Dio s’interrompe. Per Balthasar questa interruzione è
“la caduta del «maledetto» (Gal 3,13) lontano da Dio, del «peccato » personificato (2 Cor
5,21) nel luogo dove viene «scagliato» (Apc 20,14) perché si «autodistrugga» (Apc 19,3)”. Lo
iato della morte costituisce, nella riflessione balhtasarina, un “paradosso assoluto” da
conciliare con la realtà del Risorto, per la continuità esistente tra Colui che era morto e adesso
vive235.
2) Il ponte sullo iato
Il ponte sullo iato della morte si situa nell’assoluta identità del Crocifisso col Risorto.
Gesù, nel vangelo di Giovanni, proclama se stesso come la vita, la risurrezione poiché “egli
solo può essere l’identità di ciò che per Dio soltanto (che non muore) e per l’uomo soltanto
(che non risorge) sarebbe una pura contraddizione” 236. Balthasar sottolinea l’assoluta identità
tra il Crocifisso e il Risorto, identità che nei vangeli è espressa dal gesto di mostrare le mani e
i piedi, il fianco ferito: Egli “ha … assunto lo iato nella sua continuità”. Il contenuto
dell’annuncio cristiano deve rappresentare “la chiusura dello iato stesso, cioè la salvezza, a
partire da Dio, dell’uomo irreparabilmente frantumato nella morte del peccato; l’annuncio
deve cioè essere evento esso stesso” 237.

233 MP, p. 47.


234 Ibid., p. 53.
235 Gal 5,11.
236 Cf. Gv 11,25; MP, p. 67. Corsivo nel testo.
237 Ibid., p. 68. Balthasar mostra, poi, la possibilità – data da Dio alla Chiesa – di annunciare sia lo iato,
sia il suo ricongiungimento in Gesù e ciò avviene in triplice modo. In Marco, la narrazione del
sepolcro vuoto e l’annuncio di un’apparizione futura in Galilea lasciano sussistere l’identità della
risurrezione e della parusia; “l’annuncio della sutura del crepaccio” (la risurrezione) viene fatto “a partire
49
3) Approccio esperienziale allo iato
Balthasar cerca poi di cogliere il significato dello iato stesso, momento in cui «Dio è
morto». Nel vangelo di Marco le uniche parole di Gesù sulla croce sono il grido d’abbandono
e il grido della morte, cui bisogna aggiungere la scena d’angoscia nell’orto degli ulivi, dove
Gesù sperimenta l’abbandono dei discepoli che dormono, dove l’unione con il Padre è
rappresentata dal calice che egli deve bere e che vorrebbe fosse allontanato. Il legame con Dio
che nel giardino degli ulivi è espresso dalla frase: «non come voglio io, ma come vuoi tu» 238,
sulla croce viene sperimentato come abbandono da parte del Padre:
“ «Con un grande grido», nella ‘tenebra’, egli sprofonda nel mondo dei morti, dal quale
non si sente più alcuna sua parola. La solitudine, anzi l’assoluta unicità di questa
sofferenza sembra impedire qualsiasi ingresso nel suo intimo: nel migliore dei casi è
possibile solo un’ ‘assistenza’ silenziosa «da lontano» (Mc 15,40)” 239.
b. Il cammino verso la croce (venerdì santo)

del crepaccio stesso” (il sepolcro vuoto), con una forte sottolineatura del suo carattere escatologico. Il
secondo modo è da trovarsi nella parola di Gesù allorquando spiega espressamente la sua morte e
risurrezione: si tratta della necessità (dei) del molto patire, legato all’annuncio della risurrezione. È
Gesù stesso che spiega, prima ai discepoli di Emmaus (Lc 24,26), poi agli apostoli riuniti (24,46), la
necessità del dei, dimostrando l’identità di tutta la parola di Dio con lui stesso, il Risorto. In Giovanni,
il ponte sullo iato è gettato già nel discorso di addio, allorquando Gesù, che è in procinto di iniziare il
suo cammino verso il Padre, annuncia ai suoi un vuoto, durante il quale i discepoli lo cercheranno
invano, e che egli chiama un poco (la parola ricorre sette volte in Gv 16,16-19). Per il tempo dello iato,
Gesù deposita tutto ciò che ha in parte presso i discepoli (la sua pace, le sue parole, il suo amore fino
alla morte, la sua gioia, etc.), in parte presso il Padre (i discepoli che rimangono nel mondo, affinché
Egli li custodisca e li conservi nell’unità) [Ibid., p. 70-71].
238 Mc 14,36.
239 Ibid., p. 72. Balthasar si chiede, in seguito, se è possibile un approccio a questa dimensione del
dramma, e ricerca nell'Antica Alleanza e nel tempo della Chiesa delle esperienze di abbandono.
Nell’Antica Alleanza, la sofferenza del Cristo è stata, secondo l'autore, non solo predetta, ma anche
vissuta in anticipo ed in maniera molteplice. Israele ha potuto sperimentare l’abbandono da parte di
Dio proprio perché ha conosciuto una presenza unica e autentica di Dio. L'esperienza d’abbandono,
fatta dal popolo eletto, è duplice. Vi è l’abbandono del singolo che è possibile riscontrare nella figura di
Mosè, in Geremia, nei salmi di lamento (Sal 22,2) ed in Ezechiele fino a Giobbe e al Deuteroisaia. Vi
è, al contempo, l’abbandono del popolo da parte di Dio, allorquando Dio lascia il tempio e la città santa a
causa dell’idolatria. Le varie immagini, con cui viene descritto questo stato di abbandono (pozzo
dell’abisso [Sal 55,24; 140,11], luogo della perdizione [Sal 88,12; Gb 26,6; 28,12; Prov 15,11; Ap 9,11], essere
incatenati e murati [Sal 142,8; 88,9; Lam 3,7; Gb 19,8; ecc.], fuoco eterno dell’ira [Ger 21,12]), vogliono
esprimere la coscienza della perdita della grazia dell’alleanza, la gravità del peccato d’infedeltà e ciò in
modo più vivo e carico di conseguenze che non il semplice sprofondare nel regno dei morti.
Successivamente, Balthasar concentra la sua attenzione su quelle esperienze carismatiche di notte e di
abbandono avvenute nel tempo della Chiesa, di cui offre in una rapida rassegna. Il teologo parte dalla
consapevolezza che lo Spirito – colui che guida alla verità tutta intera (Cf. Gv 16,13) - introduce,
attraverso i secoli, ad una maggiore comprensione delle indicibili profondità della croce e della discesa
agli inferi. In Oriente, s’incontrano esperienze carismatiche di notte e d’abbandono già nei monaci e
nei mistici greci. Massimo il Confessore, riprendendo le considerazioni di Diadoco ed Evagrio, parla
di quattro specie d’abbandono da parte di Dio: 1) quello conosciuto da Cristo; 2) quello inflitto come
prova; 3) quello imposto in vista di una purificazione; 4) quello che costituisce una punizione, come
nel caso dei giudei. Queste quattro specie di abbandono sono tutte ordinate alla salvezza. Anche in
Occidente, si ritrovano esperienze d’abbandono e Balthasar enumera i vari santi che nel corso dei
secoli hanno avuto simili sofferenze d’inferno, descritte dettagliatamente da Giovanni della Croce.
Balthasar ritrova in esse un riflesso delle esperienze veterotestamentarie: “solo chi ha «posseduto»
veramente Dio nell’alleanza, sa cosa significa essere realmente da lui abbandonato”. Ma esse sono
solo “accenni lontani all’inaccessibile mistero della croce, in quanto come è unico il Figlio di Dio
altrettanto è incomparabile il suo abbandono da parte del Padre” (MP, p. 79).
50
1) La vita di Gesù tende alla croce
Balthasar - che ha mostrato in precedenza quanto la vita di Gesù, secondo la Scrittura e la
tradizione, sia un cammino verso la croce – presenta in seguito l’evento del venerdì santo
sotto diversi aspetti.
Il primo aspetto della vita di Gesù che il teologo evidenzia è la sua esistenza nella kenosi
come obbedienza fino alla morte di croce. Infatti, tutta l’esistenza umana di Gesù è
contrassegnata dall’obbedienza, vista da Balthasar come la “traduzione kenotica del suo
amore eterno di Figlio davanti al Padre” 240. Un secondo aspetto è rappresentato dal fatto che
la vita di Gesù è un’esistenza nella consapevolezza dell’ora che viene. Il teologo rileva, quale
ultimo aspetto, che la vita di Gesù è un’esistenza nella condivisione, soprattutto con coloro
che ha scelto per seguirlo. Ma il suo cammino verso la passione è essenzialmente irripetibile:
soltanto dopo iato della morte, dopo il compimento dell’opera redentiva, i discepoli saranno in
grado di seguirlo come testimoni, anche fino alla morte. Gesù chiama i discepoli a seguirlo in
un cammino “che lui solo può indicare, per aprire solamente attraverso se stesso, ossia
attraverso la sua croce portata fino in fondo, un accesso alla propria persona” 241.
2) Il giardino degli ulivi
Balthasar rileva tre aspetti vissuti da Gesù nell’agonia del giardino degli ulivi.
Il primo elemento è la solitudine del Cristo. Nel vangelo di Marco, la passione vera e
propria inizia nell’intimo di Gesù che si trova: “solo di fronte a Dio che si allontana, ma che
non è ancora scomparso”; “solo di fronte ai discepoli che prende con sé”, ma che sono
incapaci “di sostenere Gesù, nella lotta solitaria, con la preghiera” 242.
Il secondo elemento è l’ingresso nel peccato. Nel giardino degli ulivi, i diversi fattori che
annunciano la passione – l’angoscia che isola, il turbamento, la preghiera per superare l’ora, il
fatto di bere il calice – si manifestano “come l’ingresso del peccato del mondo nell’esistenza
personale, corporale-psichica del nostro rappresentante e mediatore” e l’autore vede
nell’unione ipostatica la “condizione della possibilità di una reale assunzione del peccato
degli uomini” 243. Balthasar s’interessa, per illustrare il suo punto di vista, ad autori del
Medioevo e particolarmente alle speculazioni medievali sul modo in cui l’unicità della
sofferenza di Cristo era condizionata dall’unicità della sua unione ipostatica. Fondandosi sulla
distinzione introdotta da Bonaventura sul patire e com-patire244, Balthasar vede l’angoscia,
vissuta da Gesù nell’orto degli ulivi, come un com-patire con i peccatori: il Dio fatto uomo
assume su di sé, nella forma di timor gehennalis, la perdita reale di Dio (poena damni) che

240 Ibid., p. 85.


241 Ibid., p. 88-89.
242 Ibid., p. 93-94.
243 Ibid., p. 94.
244 Bonaventura introduce questa distinzione, dopo aver dimostrato che la visione beatifica non
costituisce un ostacolo alla sofferenza anche della parte spirituale dell’anima di Cristo, poiché è l’uomo
nella sua integralità di anima e corpo a dover essere salvato. Il patire concerne le sofferenze sensibili
legate al corpo, il com-patire invece la parte spirituale. Bernardo e Ugo orientano questa distinzione in
due direzioni opposte: il dolore fisico spinge l’anima di Cristo al com-patire, ma il dolore spirituale per
i nostri peccati si tira dietro anche il corpo per cui egli piange sui nostri peccati. Il com-patire è molto
più intenso del patire per due motivi: 1) il motivo del dolore spirituale si radica nell’offesa fatta a Dio
che ha avuto come conseguenza la separazione da lui; 2) l’inclinazione a soffrire era maggiore nel
Cristo a causa della sovrabbondanza del suo amore (MP, p. 96).
51
minaccia gli uomini. Gesù, carico dei peccati del mondo, non distingue più il proprio destino
da quello dei peccatori, sperimentando così al loro posto angoscia e terrore 245.
Il terzo elemento che emerge dal racconto evangelico è l’obbedienza: infatti, la lotta
espressa dalla preghiera nel giardino degli ulivi si concentra tutta nel sì alla volontà di Dio.
Ciò trova una conferma nell’interpretazione della vita di Gesù alla luce della teologia del
servo di Dio nei primi discorsi degli apostoli, mentre l’inno di Fil 2 e la lettera agli Ebrei
estendono questa obbedienza fino alla preesistenza. Per entrambi i testi, tutta la vita di Gesù
tende verso un vertice: l’agonia del Gethsemani e la morte di croce 246. Nel giardino degli
ulivi, è preclusa qualsiasi prospettiva in avanti, verso la glorificazione. Tutto è “ridotto
all’umile preferenza della volontà del Padre per se stessa”. Secondo Balthasar, Gesù ha
percorso il suo cammino, fino alla fine, senza la prospettiva sull’aldilà della morte
vergognosa.
3) ‘Consegnato’
Balthasar analizza, poi, il concetto fondamentale espresso dal verbo tradere. Di questa
consegna il Nuovo Testamento parla più volte, nella forma passiva e con il Figlio dell’uomo
come soggetto. La forma passiva indica che è Dio colui che agisce “con l’inesorabilità e la
irrevocabilità (dei) di un atto di giudizio”, anche se le tradizioni più recenti del Nuovo
Testamento mettono in risalto “il dono che Gesù fa di se stesso” 247.
Accanto al Padre che consegna, al Figlio che si auto-consegna, appare anche Giuda come
“colui che consegna”. Per Balthasar la teologia della “consegna” può essere capita fino in
fondo solo in senso trinitario 248: la consegna che il Padre fa del Figlio è segno del suo amore
per noi, e l’amore assoluto del Padre si rende manifesto nel libero dono che Cristo fa di sé 249.
4) Processo e condanna
Il teologo vuole qui trattare del contenuto teologico delle grandi scene del processo sotto
un triplice aspetto.
Cristiani, giudei e pagani come autori della condanna. L’autore rileva una triplice catena
di consegna rappresentata da Giuda, uno dei dodici, colui che consegna in senso vero e
proprio; dai giudei cui Giuda consegna Gesù; questi ultimi lo consegnano poi a Pilato,
rappresentante dei pagani. In loro Balthasar vede raffigurata tutta l’umanità: i pagani, i giudei,

245 Ibid., p. 97. Balthasar spiega in seguito che «la possibilità di una siffatta assunzione dello stato di
peccato di tutti i peccatori deve essere compresa a partire da un triplice punto di vista: 1) dal fatto che
tutta la coscienza umana del Cristo è determinata dal Lógos e dal suo eterno amore per il Padre; 2) dalla
disponibilità assoluta, implicita in questa determinazione, della natura umana ad essere lo spazio di
questo genuino (com-)patire […]; 3) dalla comunicazione (solidarietà) reale della natura umana
assunta con tutta l’umanità concreta ed il suo destino escatologico».
246 Cf. Eb 5,7s.; 10,5-10; Fil 2,8.
247 Ibid., p. 100-101.
248 Balthasar riporta a proposito una citazione estratta dal libro di W. POPKES, Christus traditus. Eine
Untersuchung zum Begriff des Dahingabe im NT, Zurigo 1967, pp. 286-287: Che Dio ‘consegni’ il Figlio
suo « appartiene alle affermazioni tra le più inaudite del Nuovo Testamento ; noi dobbiamo intendere
il ‘consegnare’ nel suo senso più pieno e non dobbiamo edulcorarlo con un ‘inviare’ o un ‘donare’.
Qui è accaduto ciò che Abramo non ebbe bisogno di fare con Isacco: Cristo venne abbandonato con
assoluta premeditazione dal Padre al destino della morte: Dio lo ha spinto in braccio alle potenze della
corruzione, sia che queste prendano il nome di uomini o della morte… ‘Dio ha reso il Cristo peccato’
(2 Cor 5,21), Cristo è il maledetto di Dio… Qui viene espressa una theologia crucis della quale è
impossibile pensarne una più radicale ». Balthasar poi aggiunge che questo aspetto, messo in rilievo da
Popkes, va completato dalla consegna attiva che Cristo fa di se stesso.
249 MP, 102.

52
i cristiani, tutti implicati nella colpa per la morte di Gesù. Egli evidenzia anche il modo con
cui i vari colpevoli tentano di sottrarsi alla colpa: Giuda che restituisce il denaro, i giudei che
non mettono il denaro nel tesoro del tempio, il gioco vicendevole tra Pilato ed Erode, la
condanna emessa da Pilato sotto una fortissima pressione politica, di cui però declina ogni
responsabilità morale. “Nessuno vuole essere responsabile e proprio così vengono tutti
convinti di colpa” 250.
L’atteggiamento della Chiesa. Il teologo sottolinea qui due elementi: l’assenza della
chiesa gerarchica e degli uomini (tradimento di Pietro e fuga degli altri discepoli), l’apparire
della chiesa delle donne, “molte” secondo Marco 251, accanto alle tre che nomina. Il vangelo di
Giovanni parla della presenza di una chiesa dell’amore sotto la croce, rappresentata
principalmente dalla Mater dolorosa e dal “discepolo che egli amava” 252.
L’atteggiamento di Gesù. La piena spontaneità della consegna che Gesù fa di se stesso
viene qui sottolineata: questa auto-consegna è da una parte obbedienza al Padre e dall’altra
decisione di non difendersi 253. Balthasar rileva il silenzio insistente di Gesù, “silenzio che
suscita stupore e che Marco pone senza dubbio (15,14s.) sullo sfondo di Is 53,7: l’agnello non
apre bocca”. La scena dell’ Ecce Homo è per il teologo una “sintesi che presenta, come in un
quadro, colui che è ‘consegnato’ come l’‘uomo qui’ posto sulla scena del mondo e, nell’Ecce
Homo, l’Ecce Deus” 254.
5) Crocifissione
L’evento della crocifissione è anch’esso presentato sotto tre aspetti.
La croce come giudizio. Balthasar afferma di voler dare solo una risposta parziale alla
questione dei rapporti tra croce e giudizio, percorrendo il cammino che dall’Antico
Testamento porta a Paolo e da quest’ultimo a Giovanni. Nell’Antico Testamento, Dio è il
giudice e custode del suo diritto istituito col patto stipulato con Israele. Ma l'uomo è venuto
meno al patto e la domanda che emerge è: chi sarà capace di “restaurare il diritto di Dio”, che
l’uomo ha distrutto?
Nella Nuova Alleanza è “Dio stesso che assicura le due facce del patto, quella divina e
quella umana, e realizza in quanto Dio-uomo tutta la sua giustizia”255. È questo il “vangelo di
Paolo” che nella croce e nella risurrezione di Gesù vede il compimento di tutta l'Antica
Alleanza. Dio, incarnandosi in Cristo, passa dalla parte dell'uomo per difendere la causa di
Dio. Con una radicalità che supera quella di Paolo, anche Giovanni mostra il carattere di
giudizio della croce. Elevazione e glorificazione costituiscono per Giovanni un unico evento e
l'ora è al tempo stesso giudizio e glorificazione 256.
Le parole di Gesù sulla croce. Balthasar mette al primo posto il grido d'abbandono che in
Marco è l'unica parola della croce; si tratta “di una parola che ‘punta’ intenzionalmente su
Gesù e nient'affatto dell'inizio della recita di un salmo che finisce con la glorificazione del
sofferente e dovrebbe essere interpretato nel contesto del salmo stesso” 257. Delle restanti
parole, l'autore ricorda quella sulla sete in Giovanni: è la sorgente d'acqua viva che essendosi

250 Ibid., p. 104-106.


251 Mc 15,41.
252 MP, p. 107-108.
253 Cf. Gv 18,11; Mt 26,53.
254 MP, p. 108-109.
255 Ibid., p. 110-111.
256 Cf. Gv 12,20-36.
257 MP, 114.

53
totalmente profusa si è essa stessa esaurita; quella che affida la madre al discepolo contenente
un significato teologico: la sua partecipazione alla croce del Figlio 258. Dopo aver ricordato le
varie parole riportate da Luca, Balthasar afferma che la sostituzione del salmo 22,2 col salmo
31,6259 interpreta l'abbandono nel senso di Giovanni che conosce la «resa dello spirito» e il
compimento dell'opera 260.
Gli avvenimenti della croce. Il teologo fa qui una riflessione sui vari avvenimenti che
accompagnano la morte di Gesù: la lacerazione del velo del tempio, che in Marco significa
soprattutto l'abolizione della legge e del culto antichi e, in Matteo, la lacerazione del vecchio
eone; l'ottenebramento del cosmo cha sta ad indicare non solo la partecipazione cosmica al
dolore di Cristo ma la tristezza di Dio stesso261; seguono il terremoto, le rocce che si
spezzano, i sepolcri che si aprono. E’ l’aspetto escatologico dell’evento della croce
interpretato apocalitticamente dai sinottici. La testimonianza di Giovanni sull’apertura del
fianco di Gesù rimanda allo stesso contesto apocalittico, come anche la parola profetica “Essi
guarderanno a colui che hanno trafitto”262 riportata in Gv 19,37, in cui giunge a compimento
anche la teologia del serpente innalzato 263. Giovanni riporta anche il racconto dettagliato sul
perché a Gesù non furono spezzate le gambe, con riferimento all’agnello pasquale le cui ossa
non potevano essere rotte; inoltre, secondo Giovanni, Gesù venne crocifisso alla stessa ora in
cui nel tempio venivano sgozzati gli agnelli pasquali. “Per questo – afferma Balthasar – Gesù
non poteva essere lapidato. La legislazione rabbinica prescriveva invece: «All'agnello
sgozzato si apra il cuore e si lasci colare il sangue»” 264.
6) Croce e Trinità
Dopo una riflessione sul legame profondo esistente tra Croce e Chiesa - dalla croce di
Cristo nasce il mondo nuovo, nasce la Chiesa - Balthasar rileva un altro aspetto di
quest’evento unico: la croce come rivelazione suprema dell'amore trinitario, nell'impotenza
del Crocifisso si è manifestata l'onnipotenza di Dio, nel silenzio della croce è risuonata la
Parola eterna di Dio. Balthasar vede nella croce l'azione del Dio trinitario, in quanto Colui che
agisce per primo è Dio Padre 265. La croce di Cristo diventa così luminosa, quale mezzo di
riconciliazione tra il Padre e noi. Il Crocifisso è, quindi, l’espressione trinitaria dell'amore di
Dio.
c. Il cammino verso i morti (sabato santo)
Balthasar prosegue con una lunga riflessione sul sabato santo 266: il movimento della
kenosi raggiunge il suo apice nello iato della morte del Figlio di Dio267. Mi limito qui a
presentare una breve sintesi di tre elementi evidenziati dal teologo.

258 Ibid., p. 115-116.


259 Cf. Lc 23,46a.
260 Cf. Gv 19,30.
261 Balthasar fonda la sua interpretazione su due testi dell’Antico testamento : Am 8,9-10 e Zc 12,10.
262 Zc 12,10.
263 MP, p. 118.
264 Ibid., 119.
265 Il teologo fonda questa affermazione su 2Co 5,18s.: “Tutto ha origine da Dio Padre che ci ha riconciliati con
sé attraverso il Cristo ed ha affidato a noi (apostoli) il ministero della riconciliazione. È stato Dio, infatti, che in
Cristo si è riconciliato il mondo”.
266 Questo punto cardine del contributo della von Speyr è espresso da Balthasar nei seguenti termini:
« Dopo il Venerdì Santo, in cui l’amore del Figlio rinuncia ad ogni sensibile contatto con il Padre, per
esperire in se stesso l’alienazione dei peccatori da Dio – e nessuno può essere più abbandonato dal
Padre del Figlio, perché nessuno lo conosce e tanto vive di Lui come il Figlio – segue l’ultimo passo, il
54
1) La solidarietà nella morte
Il teologo sottolinea la solidarietà di Gesù, morto in croce, con tutti gli altri uomini morti
nello sheol veterotestamentario: il cadavere è messo nella terra e l'anima è presso i morti 268.
Cristo dovette quindi soggiornare tra i morti nell'Ade per tutto il tempo che il suo corpo restò
nel sepolcro, per espiare tutta la pena imposta ai peccatori, in una solidarietà con i morti che
significa “trovarsi nella stessa solitudine” 269. Cristo, il Redentore, sperimenta la poena damni,
“la pena inflitta all'umanità ‘precristiana’ a motivo del ‘peccato originale’ ” 270, che consiste
nella privazione della visione di Dio In Cristo, Dio tocca tutte le profondità del mondo
sotterraneo.
2) L'esser morto del Figlio di Dio
Il teologo trae dalla riflessione precedente una conseguenza necessaria: il Redentore, nella
totale solidarietà con i morti, ha preso su di sé tutta l’esperienza della morte. In questo modo,
“egli si dimostra l’unico che, andando al di là della comune esperienza della morte, ha
misurato le profondità dell'abisso” 271.
Balthasar rifiuta una teologia della morte che limiti la solidarietà di Gesù con i peccatori
all'atto di donazione dell'intera esistenza nell'istante della morte, “affinché la morte di Cristo
possa essere inclusiva, deve nello stesso tempo essere esclusiva e unica nella sua forza di
espiazione sostitutiva”. Il teologo propone tre diversi approcci di tale teologia. Gesù fa
l’esperienza della seconda morte; essa per il teologo svizzero, che si fonda su uno scritto di
Niccolò Cusano, consiste nella discesa all'inferno dell'anima di Cristo dove si ha la visione
della morte.
Gesù fa l’esperienza del peccato in quanto tale. Cristo appartiene ormai ai refā’īm, a
coloro che sono senza forza: secondo il teologo, Egli non può né condurre una lotta attiva
contro le forze dell’inferno, né trionfare. Gesù, nella sua debolezza estrema fa l’esperienza di
ciò che Balthasar chiama la seconda morte, che è da lui identificata con il puro peccato, non
più il peccato dell’uomo singolo, ma “il peccato astratto da questa individuazione,
contemplato nella sua nuda realtà, in quanto peccato” 272.
La discesa agli inferi è un evento trinitario. L'essere del Redentore con i morti “è l'ultima
conseguenza della missione ricevuta dal Padre. È quindi un essere nell'obbedienza

più paradossale e misterioso di questa obbedienza d’amore : la discesa agli inferi, il che nella nuova
esperienza ed interpretazione dell’ « inferno » di Adrienne esattamente significa : discesa in quella
realtà di peccato, che la croce ha separato dall’uomo e dall’umanità, realtà che è ciò che è eternamente
e definitivamente da Dio riprovato e gettato via dal mondo, ciò in cui Dio non può mai e mai più
essere, e attraverso cui il Figlio morto, per ritornare al Padre, deve passare in una estrema obbedienza
cadaverica, per imparare a conoscere anche questo estremo limite, questa estrema alienazione da Dio,
questo pozzo nero del mondo, causato dalla abusata libertà umana » (Il nostro compito, p. 45s., cit. in P.
MARTINELLI, La morte di Cristo come rivelazione dell’amore trinitario, Milano, 1996, p. 56).
267Cf. M. JÖHRI, Descensus Dei : teologia della croce nell’opera di Hans Urs von Balthasar, Roma, Libreria ed.
della Pontificia Università Lateranense, 1981, p. 60.
268 MP, p. 143-144. Ne riporto uno stralcio significativo: «Lo stato di morte comporta tenebra […];
anche eterna […], polvere […]; silenzio[…]. Non c'è ritorno possibile[…]; non c'è attività[…], gioia
[…], conoscenza di ciò che accade sulla terra […]. Ivi non si loda più Dio[…]. Privati di forza e di
vitalità […], i morti vengono chiamati refā’īm, i senza forza, essi sono come se non esistessero […], si
trovano nel paese dell'oblio [..]” e il teologo conclude citando J. Nelis: “Anche Cristo dopo la sua
morte è disceso in questo luogo» (p. 143).
269 Ibid., p. 146-147.
270 Ibid., p. 147.
271 Ibid., p. 150.
272 Ibid., p. 154.

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estrema”273. Questo inabissarsi del Figlio di Dio nell'inferno più profondo “ha trasformato ciò
che era un ‘carcere’ in una ‘via’ ” 274; Cristo ha aperto così agli eletti la strada per il cielo. Il
cammino verso i morti, essendo un evento trinitario, è necessariamente un evento salvifico;
infatti, l’evento del sabato santo ha una portata soteriologia inaudita in quanto la salvezza è
offerta a tutti, anche ai morti.
d. Il cammino verso il Padre (Pasqua)
Il libro si conclude con un capitolo sulla resurrezione, dal titolo “In cammino verso il
Padre”. Dell’evento pasquale l’autore sottolinea: l’affermazione teologica fondamentale, la
situazione esegetica dell’evento stesso, lo sviluppo degli aspetti teologici contenuti nelle
diverse rappresentazioni di esso 275. Balthasar mette in luce, in questa ultima sezione,
l’originalità unica della resurrezione, la sua forma propriamente trinitaria, il suo contenuto
concreto presentato sotto forma di racconto, che è una confessione di fede 276.

E. Bilancio e conclusione
Tentare un bilancio del pensiero di Balthasar mi è molto difficile, soprattutto perché - per
poter differenziare i molteplici influssi sulla sua teologia di autori passati e contemporanei e
offrire una sintesi più articolata della riflessione balthasariana – sarebbe stato necessario uno
studio integrale delle opere del teologo che sarebbe andato aldilà di quanto richiesto a questo
lavoro. Mi limiterò quindi a rilevare ciò che mi sembra l'apporto specifico del teologo, ma
anche qualche perplessità suscitata in me da alcune sue affermazioni. La lettura di vari
passaggi dell’opera balthasariana ha, infatti, provocato in me sia un’adesione entusiasta, sia
un sentimento di smarrimento e di delusione, o di esitazione che mi ha spinta ad analizzare
più in profondità alcune asserzioni di Balthasar.
1. Originalità della riflessione cristologica balthasariana
La riflessione sul mistero del Cristo Gesù offertaci da Batlhasar è una riflessione originale
e appassionante, inseparabilmente legata ad un approccio del mistero del Dio Uno e Trino,
che “si è manifestato e si è offerto come dono d’amore, di vita e di salvezza” 277 in tutta
l’esistenza terrena del Verbum Caro. Tutto il mistero del Cristo è colto da Balthasar in
un’accentuata dimensione trinitaria: “la specificità teologica della cristologia di Balthasar è
che essa è trinitaria 278 dall’inizio alla fine: incarnazione del Verbo, vita pubblica di Gesù, suo
nascondimento o kenosi, crocifissione, risurrezione e definitiva glorificazione” 279. Inoltre, con
il suo contributo per il terzo volume di “Mysterium salutis”, Balthasar ha inteso mettere in
evidenza il ruolo centrale del Triduum Mortis per tutta la teologia 280. Tre mi sembrano i punti
salienti che caratterizzano la cristologia trinitaria di H. U. von Balthasar che ho cercato di
presentare nelle pagine precedenti.

273 Ibid., p. 156.


274 Ibid., p. 157.
275 Ibid., p. 166.
276 Per un'analisi più dettagliata, cf. M.-V. LEROY, «Christologie», p. 641-644.
277 G. MARCHESI, La cristologia trinitaria …, p. 605.
278 In questa mia sintesi, non ho dato spazio per esigenze di brevità al ruolo che lo Spirito Santo occupa
nella riflessione cristologica di Balthasar. Nella visione trinitaria dell’opera presa in analisi, il ruolo
dello Spirito è quello di condurre il Figlio lungo il suo cammino di obbedienza; esso viene spirato dal
Figlio morente. Cf. M. JÖHRI, Descensus Dei …, p. 89.
279 G. MARCHESI, La cristologia trinitaria …, p. 616, corsivo nel testo.
280 Cf. M. JÖHRI, Descensus Dei …, p. 22.

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Gesù Cristo, Verbum Caro. Nell’opera del teologo svizzero il mistero dell’incarnazione
occupa un posto centralissimo. Nel Verbo di Dio fatto carne si rivela tutta la Trinità. Come
afferma G. Marchesi, la realtà dell’incarnazione “è l’asse portante della cristologia
balthasariana” 281, da essa scaturisce una profonda riflessione sull’unicità irripetibile della
figura del Cristo e sulla sua centralità nell’opera della rivelazione e della salvezza. Il mistero
dell’incarnazione ha il suo culmine nel mistero della croce.
Gesù Cristo, obbediente fino alla morte e alla morte di croce. La cristologia elaborata dal
teologo svizzero è “una cristologia fortemente obbedienziale”282. Un elemento della kenosi di
Cristo è, infatti, per Balthasar l’obbedienza filiale, obbedienza assoluta alla volontà del Padre
“fino alla morte di croce”; obbedienza che è abbandono senza limiti al Padre. Essa è un
elemento fondamentale e costitutivo della cristologia del teologo svizzero e si manifesta nella
povertà di Gesù, nel suo non voler disporre di sé per aderire pienamente alla volontà di Colui
che lo ha inviato, in una totale disponibilità, in un perfetto abbandono a lui. Il Verbum Caro
vive il suo nascondimento, la sua kenosi fino al silenzio della croce, fino al grido
d’abbandono che “sono in se stessi rivelazione e manifestazione dell’amore di Dio in Gesù
Cristo, ed egli è essenzialmente espressione visibile dell’amore trinitario” 283.
È, dunque, nel mistero pasquale che Balthasar evidenzia particolarmente l’obbedienza
filiale e la totale disponibilità di Gesù al Padre, la struttura eucaristica della sua esistenza,
l’abbandono sulla croce che è per il teologo l’essenza della kenosi. Il termine può significare
essere abbandonato da e abbandonarsi a ed entrambi i momenti fanno parte della passione di
Gesù: dalla terribile esperienza d’agonia al grido inarticolato sulla croce. L’esperienza
d’abbandono fatta da Gesù è unica e assoluta. Balthasar afferma: “Solo chi ha «posseduto »
veramente Dio nell’alleanza, sa cosa significa essere realmente da lui abbandonato […] come
è unico il Figlio di Dio altrettanto è incomparabile il suo abbandono da parte del Padre” 284.
Per Gesù, uomo-Dio, l’essere abbandonato dal Padre ha costituito la prova suprema,
infinitamente più grave che qualunque altra esperienza umana. Quest’esperienza d’abbandono
è unica e assoluta poiché nessuno come il Figlio sa che cosa sia il Padre e cosa significhino il
suo amore, la sua vicinanza, la vita con Lui, il riposo presso di Lui, il servizio per Lui.
L’abbandono significa per Gesù: solitudine, agonia, angoscia mortale. Il figlio dell’Uomo
porta su di sé il peccato del mondo, facendo dal di dentro l’esperienza più profonda della
lontananza da Dio285.
Gesù Cristo, Crocifisso e Risorto. Il punto di congiunzione tra umiliazione e
glorificazione, tra abbassamento ed esaltazione è situato da Balthasar nell’assoluta identità del
Crocifisso col Risorto. L’evento della resurrezione ha una dimensione profondamente
trinitaria: Cristo è “glorificato dal Padre e dallo Spirito Santo, Spirito che è comune al Padre e
al Figlio” 286. Il teologo evidenzia ampiamente l’iniziativa del Padre nella glorificazione del
Figlio: è il Padre, verso cui è orientata tutta l’esistenza di Gesù fino alla morte di croce, il
primo agente della glorificazione del Figlio. Essa è la risposta del Padre alla totale obbedienza
del Cristo287.

281 G. MARCHESI, La cristologia trinitaria …, p. 612.


282 L'espressione è di. M. JÖHRI, Descensus Dei …, p. 89, corsivo nel testo.
283 G. MARCHESI, La cristologia trinitaria …, p. 521, corsivo nel testo.
284 MP, p.79.
285 G. MARCHESI, La cristologia trinitaria …, p. 584.
286 Ibid., p. 585.
287 Ibid., p. 587.

57
2. Alcuni elementi della cristologia balthasariana che suscitano perplessità
Mi limiterò qui ad evidenziare alcuni aspetti 288 del pensiero di H.U. von Balthasar che
hanno suscitato in me titubanze e perplessità, fondando la mia argomentazione su articoli di
teologi che discutono la pertinenza di alcuni concetti teologici ampiamente sviluppati da
Balthasar.

a. Il concetto di sostituzione vicaria


L’idea di sostituzione appartiene alle categorie fondamentali della rivelazione biblica 289.
Nell’Antico Testamento il concetto acquista il suo punto culmine nella figura di Mosé, così
come ci viene presentata nel Deteuronomio, e nei canti del Servitore di Dio del Deutero-Isaia;
il Servitore diventa, poi, la luce che illumina i pagani, la salvezza che egli apporta arriva ai
confini della terra; la stessa linea di pensiero si ritrova nell’uomo trafitto di Zaccaria 290, la cui
morte è il punto di partenza della salvezza del popolo. Nel Nuovo Testamento, tutte queste
idee trovano il loro compimento nella figura di Gesù, il Cristo. Con grande probabilità, la
riflessione cristologica più antica aveva il suo fulcro in una cristologia del Servitore di Yahvé
e la profezia del Servitore sofferente sembra aver avuto un ruolo importante nell’intelligenza e
la predicazione primitiva della passione291. L’idea di sostituzione sembra essere, dunque, uno
dei dati primitivi della testimonianza biblica.
Con la Riforma, il concetto di sostituzione ha assunto una particolare interpretazione.
Infatti, negli scritti dei primi Riformatori, si possono distinguere varie affermazioni che
precisano l’idea di sostituzione in quanto sostituzione penale:
“le Christ a été regardé comme pécheur par Dieu lui-même; il a été condamné par une
condamnation qui atteignait notre péché; il a été puni par Dieu en raison de nos
fautes; il a subi la peine de l’enfer ou une peine équivalente à celle du dam” 292.

288 Per l'aspetto esegetico, mi limito a segnalare che la teologia di Balthasar, per quanto riguarda il grido
d'abbandono e la morte di Gesù, implica una scelta esegetica comune a quella fatta da Moltmann vale
a dire quella di preferire la tradizione di Mc e Mt. Bisogna però anche aggiungere che il teologo
svizzero non ignora né la tradizione lucaniana, né quella giovannea. Cf. G. REMY, « La déréliction du
Christ : terme d’une contradiction ou mystère de communion ? », RT 98 (1998), p. 88. L’autore
presenta le diverse posizioni di due teologi sul grido d'abbandono: quella di Hans Urs von Balthasar e
quella di François-Xavier Durrwell.
289 J. RATZINGER, art. « Substitution », in Encyclopédie de la foi, sous la direction de H. FRIES, tome IV,
Paris, Cerf, 1967, p. 267-277. Secondo B. SESBOÜÉ, invece, la categoria della sostituzione non è
biblica, anche se bisogna riconoscere ad essa un certo legame scritturistico. Nel suo saggio sulla
redenzione e la salvezza, egli sottolinea che la salvezza degli uomini è l'opera dell'unico mediatore, il
Cristo Gesù la cui mediazione si realizza seguendo due movimenti: uno ascendente che va da Dio verso
gli uomini, in Gesù, l'altro discendente che, attraverso il Cristo, ristabilisce la relazione di comunione tra
Dio e l'uomo. L'autore sviluppa una soteriologia della mediazione, passando in rassegna le diverse
categorie, che sono state usate per esprimere la teologia della redenzione secondo i due movimenti di
essa. Per la mediazione discendente, vengono presentate le categorie di rivelazione, redenzione,
liberazione, divinizzazione, giustificazione; per la mediazione ascendente, le categorie di sacrificio,
espiazione-propiziazione, soddisfazione, sostituzione e solidarietà. L'insieme è ricapitolato in una bella
riflessione sulla riconciliazione (B. SESBOÜÉ, Jésus-Christ l’unique médiateur, tome I). Cf. anche Ch.
DUQUOC, Christologie, essai de dogmatique, vol II , p. 171-226, in cui viene presentata una valutazione
critica delle varie teologie della Redenzione.
290 Zc 12,10ss.
291 Cf. M.-J. NICOLAS, «Pour une théologie intégrale de la Rédemption», RT 81 (1981), p. 41.
292 J. GALOT, La rédemption mystère d'alliance, Paris, 1965 p. 250.

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Vi è quindi sostituzione nella colpa, nella condanna, nel castigo, nel tormento infernale 293.
Una tale interpretazione del concetto di sostituzione, particolarmente caro alla teologia
protestante, suscita nell’odierna riflessione teologica molte riserve da parte di esegeti e teologi
cattolici. M.-J. Nicolas, allorquando parla del concetto di sostituzione, fa una giusta
osservazione:
«pour appliquer au Christ un pareil concept, il faut se garder de l’idée antique de
l’animal immolé et offert à a place des hommes, détournant sur lui colère et châtiment,
du « bouc émissaire » concentrant sur lui la colère suspendue sur la tête de tous. Il
s’agit bien plutôt d’une solidarité entre le Christ et les hommes» 294.
Anche J. Galot critica la teoria della sostituzione penale, in quanto essa non tiene conto
sufficientemente della santità del Cristo e perché si appoggia sulla concezione di una
redenzione espressione della collera divina 295. Ma per Galot, il concetto di solidarietà non
basta per rendere conto interamente del ruolo avuto dal Cristo nel suo sacrificio; egli accetta
la solidarietà, ma una solidarietà che va fino alla sostituzione 296. L’autore precisa:
“La substitution ne doit donc être admise que dans certaines limites ou suivant certaines
modalités. Le Christ ne s’est substitué à nous dans le sacrifice que pour nous rendre
aptes à y prendre part. Dès lors, loin de nous dispenser d’un concours à la Rédemption,
la substitution a pour but de le promouvoir. Elle implique une exigence de
collaboration. Le Christ n’a tenu notre place devant le Père dans la satisfaction que pour
entraîner l’humanité dans le mouvement de son offrande” 297.
Altri teologi, come ad esempio P. Ternant, rigettano, invece, in modo forte il concetto di
sostituzione298: la morte di Cristo, vista come sacrificio non implica di per sé l’idea di
sostituzione penale e nemmeno di sostituzione oblativa; l’autore afferma che il concetto di
solidarietà è più adatto per spiegare il mistero della sofferenza e della morte in croce di Gesù
senza cadere nelle ambiguità cui dà adito il concetto di sostituzione.
Nel pensiero di Balthasar, il tema della sostituzione vicaria – già presente nel Mysterium
paschale e sviluppato ampiamente nella Teodrammatica - occupa un posto centralissimo, esso
è legato ad un’interpretazione drammatica dell’abbandono di Cristo e ad una visione
altrettanto drammatica della salvezza e della storia del mondo 299. Il concetto ricorre, come un
leitmotiv, al punto tale da costituire una componente essenziale dell’edificio teologico
costruito dall’autore300. Il limite più evidente mi sembra sia l’aver utilizzato un unico

293 Questi diversi aspetti sono presentati e criticati da J. GALOT nell’opera citata, p. 250-280.
294 M.-J. NICOLAS, «Pour une théologie intégrale…», p. 42.
295 Cf. J. GALOT, La rédemption …, p. 262-280.
296 Ibid., p. 268.
297 Ibid., p. 278.
298 Il teologo afferma che : «… “la substitution” de l’innocent aux coupables est bien présente dans le
quatrième poème du Serviteur ; mais c’est une idée païenne, développée dans un discours attribué aux
rois païens, et ni le prophète hébreu qui les fait parler, ni son traducteur grec alexandrin, ni les auteurs
du Nouveau testament ne la reprennent à leur compte » (P. TERNANT, Le Christ est mort pour tous : du
serviteur Israël au serviteur Jésus, Paris, 1993, p. 12).
299 Cf. G. REMY, « La déréliction du Christ … », p. 40.
300 Per un’analisi del concetto teologico di sostituzione nell’opera di H. U. von Balthasar, cf. G. REMY,
«La substitution: pertinence ou non –pertinence d’un concept théologique», RT, 94 (1994), 559-600.
59
concetto, per penetrare nel mistero della croce e dell’abbandono 301, legandolo intimamente
all’idea di una teologia dell’ira di Dio, difficile da accettare. M.-J. Nicolas, infatti, nel suo
articolo “Pour une théologie de la Rédemption”, spiega che il pericolo di ogni riflessione
teologica che tratti del mistero della Redenzione è quello di concepire un sistema di pensiero
che ruoti intorno ad un’idea unica che di per sé è incompleta. È invece necessario, per una
comprensione integrale del mistero della salvezza, “faire droit à tous les aspects du mystère,
les ordonner entre eux, et laisser pourtant dans l’au-delà de la pensée définie l’immense
horizon de l’inconnu, de l’incompréhensible, du pressenti” 302. La tradizione della Chiesa
primitiva per cercare di spiegare il mistero della croce di Gesù, la fede nella potenza di
salvezza della sua sofferenza e della sua morte, si è servita di diversi concetti teologici
parlando quindi di sacrificio, di redenzione, di espiazione, di riconciliazione, di purificazione,
di riscatto303, di vittoria sul nemico. È necessario quindi far ricorso all’intero mosaico che
questi concetti compongono, per spiegare il mistero della sofferenza e della morte del Cristo.
Essi hanno però bisogno “d’être purifiés, approfondis, étayés les uns par les autres, traités
avec toute les ressources de l’analogie et situés dans tout l’ensemble de l’économie chrétienne
et de son esprit” 304.
In Balthasar il concetto di sostituzione, oltre ad avere un posto essenziale e centrale
nell’opera, è legato ad un’interpretazione drammatica dell’abbandono di Cristo compreso
come rottura305. Per la nostra comprensione, invece, l’abbandono e la morte di Cristo in croce
sono essenzialmente rivelazione d’amore 306: rivelazione dell’amore di Cristo che accetta la
morte di croce per obbedienza filiale alla missione di salvezza ricevuta da Dio e per amore
verso noi uomini; contemporaneamente la croce è rivelazione dell’amore di Dio Padre come
afferma Giovanni nella sua prima lettera:
“In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato i suo unigenito
Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui. In questo sta l’amore: non siamo

301 G. EMERY afferma nel suo articolo già citato: «Les vues de Balthasar apparaissent, à certains égards,
grandioses. Le problème central réside cependant dans sa compréhension de la substitution et de la
déréliction du Christ» (« L’immutabilité du Dieu d’amour … », p. 24).
302 M.-J. NICOLAS, «Pour une théologie intégrale …», p. 38. Nell’articolo l’autore presenta le due vie
d’accesso al mistero della Redenzione che hanno permesso alla riflessione cristiana di spiegare in che
modo la morte di Cristo ci ha salvato dalla morte e dal peccato. La prima via, chiamata anche teoria
fisica della Redenzione, tratta della redenzione della natura umana in quanto è stata assunta dal Verbo;
la salvezza che l’uomo riceve dalla morte di Cristo ha il suo fondamento nella solidarietà tra il Cristo e
gli uomini che scaturisce dall’Incarnazione. La Redenzione appare prima di tutto come “acte de Dieu
par et sur l’humanité”; è il cammino di Dio verso l’uomo. Questa concezione ha svolto un grande
ruolo nella teologia dei Padri. La seconda via potrebbe essere chiamata morale in quanto non è più
considerata la natura ma la libertà degli atti umani: viene qua considerato il valore dell’offerta fatta a
Dio, il valore della vita e della morte umana del Cristo. La Redenzione appare come atto dell’uomo
che si rivolge a Dio: sono gli atti liberi di Gesù che, per il loro valore morale e spirituale, hanno la
potenza di inclinare il cuore del Padre verso gli uomini e di operare così la loro salvezza.
303 L’idea di riscatto costituisce il fondamento di una interpretazione più elaborata, quella della
soddisfazione, tematizzata da Sant’Anselmo d’Aosta, vescovo di Canterbury (1033-1109) nel suo
trattato Cur Deus homo? Per una breve, ma chiarificante sintesi sull’argomento, cf. J.-H. NICOLAS, «Le
Christ est mort pour nos péchés selon les Ecritures», RT 76 (1976), 209-234 e B. SESBOÜE, Jésus-Christ
l’unique médiateur, tome I, p. 325-345.
304 M.-J. NICOLAS, «Pour une théologie intégrale …», p. 36.
305 Cf. G. REMY, « La déréliction du Christ … », p. 39-40.
306 Cf. P. TERNANT, Le Christ est mort pour tous…, p. 169-175.

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stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come
vittima di espiazione per i nostri peccati” 307.
b. Il concetto di “Urkenose” o kenosi primordiale
Come abbiamo visto tutta la riflessione cristologica del nostro autore è intimamente legata
alla profondità del mistero trinitario. La kenosi economica del Verbo è capita alla luce di una
kenosi primordiale: nell’amore del Padre che genera il Figlio da tutta l’eternità il teologo
individua una rinuncia assoluta di essere Dio per se stesso, un abbandono della divinità per
amore. Le kenosi di Dio nell’alleanza e nella croce hanno il loro fondamento in questa kenosi
primordiale. Di conseguenza, la passione e la morte di Cristo non solo toccano la persona del
Figlio nella sua natura umana, ma anche nella sua relazione col Padre, introducendo così il
dramma della sofferenza nelle processioni eterne della Trinità. E’ questa interpretazione così
radicale della kenosi e dell’abbandono di Gesù in croce, intimamente legato all’idea di
sostituzione penale, che mi sembrano problematici in quanto “… Balthasar – avec Adrienne
von Speyr – va jusqu’à signifier que, au Vendredi-Saint, la Trinité qui prend part à l’abandon
du Fils se trouve comme « détruite » (zerstört) en elle-même” 308.
c. La personificazione del peccato
La morte di Gesù è presentata da Balthasar come “la caduta del «maledetto» (Gal 3,13),
lontano da Dio, del «peccato» personificato (2 Cor 5,21) nel luogo dove viene «scagliato»
(Apc 20,14) perché si «autodistrugga» (Apc 19,3)”. Il teologo parla di una seconda morte la
cui essenza sta nel fatto che “ciò che è stato maledetto e scacciato definitivamente da Dio nel
«giudizio» (Gv 12,31) sprofonda là dove deve cadere” 309. Queste affermazioni - che mi
sembra scaturiscano dal fatto che l’autore abbia incentrato tutta la sua riflessione sul concetto
di sostituzione vicaria - non possono a mio avviso essere accettate. Ci troviamo di fronte ad
una teologia della contraddizione310, da cui scaturiscono diversi interrogativi: cosa intende
l’autore quando parla di peccato in sé311? In che modo Gesù ha potuto identificarsi col
peccato, e come conciliare quest’affermazione del teologo con la sfida di Gesù lanciata agli
ebrei in Gv 8,46? Quale immagine di Dio scaturisce da questa teologia, in cui “la figure
paternelle de Dieu s’efface derrière celle da la justice vindicative” 312?
d. La discesa agli inferi
Questo mistero della fede cristiana è lontano dall’orizzonte culturale del mondo
contemporaneo e, forse proprio per questo motivo, nel ventesimo secolo la riflessione

307 1 Gv 4,9-10.
308 Per una breve analisi di quest’aspetto del pensiero di Balthasar, cf. G. EMERY, « L’immutabilité du
Dieu d’amour … », p. 22-24. La mia critica a quest’aspetto della riflessione balthasariana, si fonda
sull'articolo citato.
309 MP, p. 54.
310 L’espressione è usata da G. REMY, « La déréliction du Christ … », p. 47.
311 Sembra più realista e accettabile la posizione di F.-X. DURRWELL : “Quant au péché, il faut le redire :
Jésus n’en est pas solidaire. Car il ne l’a pas commis (2 Co 5,21) … Mais il est solidaire de l’humanité.
Or, celle-ci est pécheresse, et combien pécheresse ! S’il ne porte pas en lui le péché, il porte cependant
tous les pécheurs en lui. Il les porte, parce que tous sont créés dans le Fils. Il les porte en raison de sa
filiation, et donc de sa sainteté et non pas en raison du péché. Les portant en son être filial, il a charge
de les « filialiser », de les « expier » tous, au sens biblique du terme, c’est-à-dire de les ramener de la
rupture qu’est le péché à la communion en laquelle il meurt vers le Père” (Jésus fils de Dieu dans l’Esprit
Saint, “Jésus et Jésus Christ 71”, Desclée, Paris, 1997, p. 71-72).
312 G. REMY, « La déréliction du Christ … », p. 77. L’autore tratta l’argomento nello stesso articolo da p.
64 a p. 78.
61
teologica è tornata a “riappropriarsi” 313 del tema della discesa agli inferi, anche se in modo
piuttosto discreto. Balthasar ha dato un contributo consistente e significativo
all’interpretazione di quest’articolo di fede. Infatti, le tematiche del Venerdì e Sabato Santo
costituiscono, come abbiamo visto, il momento centrale della profonda riflessione del nostro
autore. Per il teologo, la discesa agli inferi del Cristo esprime anzitutto ed essenzialmente la
solidarietà di Gesù con gli uomini nella morte: il cardine dell’interpretazione balthasariana sta
proprio nel sottolineare la “solidarietà più estrema di Cristo con gli uomini nella morte e con i
morti di ogni tempo, ai quali viene aperto il cammino verso il Padre”314. Ma la riflessione
balthasariana sul sabato santo – così come viene esposta nel saggio Mysterium Pascale – ha
degli aspetti sconcertanti ed è oscura in molti punti; essa presuppone una concezione
escatologica propria al teologo: Gesù è con i morti, in una solidarietà che significa essere
nella solitudine come gli altri, partecipare dal di dentro alla passività assoluta che comporta
l’essere morto e all’assenza di comunicazione di questo stato. Tutto ciò implica che Gesù,
privato della visione di Dio, soffre anch’egli la poena damni315. Affinché la salvezza sia
offerta a tutti, Cristo ha dovuto penetrare in tutte le profondità dell’inferno e contemplare “la
pura sostanzialità dell’inferno, come ‘peccato in sé’ ” 316.
Nella concezione balthasariana della discesa agli inferi, due idee mi sembrano
inaccettabili: la passività assoluta di Cristo ed il fatto che anch’egli soffra la poena damni.
Faccio mie le domande che si pone M.-J. Nicolas, nel suo libro “Théologie de la
Résurrection”:
“Les pages assez extraordinaires dans lesquelles von Balhasar développe sa pensée, en
rassemblant des textes patristiques ou théologiques saisissants, mettent en lumière la
portée sotériologique de la Descente aux Enfers comme participation de l’«âme» de
Jésus à l’état de « mort» que le «Shéol» symbolise. Mais, dans cet état, son âme est-elle
déjà glorieuse, annonçant le salut aux morts et à toutes les puissances infernales, ou au
contraire y continue-t-elle sa passion en ce qu’elle a de plus dramatique, de plus
rédempteur? Faut-il voir dans la Descente aux Enfers l’accomplissement même du
Mystère rédempteur, la déréliction sur la Croix n’y suffisant pas et ne pouvant atteindre
une pareille profondeur d’expérience du «Mal»? ” 317.
L’interpretazione di Balthasar di quest’articolo della fede cristiana 318 sembra contrastare
con i dati neotestamentari. Infatti, la dottrina della discesa agli inferi, così come ci è riportata
dai testi del Nuovo Testamento 319 e come è stata recepita dalla Tradizione, pur facendo
appello ad una realtà che rimane nel mistero, è molto semplice e può essere ricondotta ad
alcune idee fondamentali 320:

313 L'espressione è di Giovanni ANCONA, che nel suo saggio, storico e sistematico, offre una panoramica
delle interpretazioni dell'articolo di fede (Disceso agli inferi: storia e interpretazione di un articolo di fede,
“Contributi di teologia 26”, Roma, 1999, p. 85).
314 Ibid., p. 111.
315 Cf. M.-V. LEROY, «Christologie», p. 643. Balthasar si appoggia a materiale offerto dalla tradizione e
particolarmente all'interpretazione di Nicolò Cusano.
316 MP, p. 155.
317 M.-J. NICOLAS, Théologie de la résurrection, Paris, 1982, p. 233, note 13.
318 In Occidente, l'articolo sulla discesa agli Inferi è stato introdotto nel Credo nel IV e secolo,
probabilmente sotto l'influsso orientale. Una tradizione costante attesta però l'affermazione della
discesa agli inferi già nel II secolo. Cf. J. GALOT, La rédemption mystère d'alliance, Paris, 1965, p. 285.
319 Ac 2,31; Rm 10,6-7; Ep, 4, 8-10; Ap. 1,18; 1 P 3,18-20; 4,6.
320 Oltre al già citato saggio di G. ANCONA, da cui traggo le idee fondamentali contenute dall'articolo di
fede, cf. sull’argomento: J. CHAINE, «Descente du Christ aux enfers», DBS 2 (1934), col. 395-431; H.
62
il descensus , così come viene interpretato nell’intera storia della tradizione, è un
avvenimento soteriologico; esso va interpretato nella dinamica salvifica dell’intero evento
pasquale;
il descensus annuncia la realtà-verità della morte di Gesù e afferma che, tra il momento
della morte e quello della resurrezione, l’anima di Cristo è andata nel soggiorno dei morti; il
Catechismo della Chiesa cattolica afferma che il senso primo dato dalla predicazione
apostolica alla discesa di Gesù agli inferi sta proprio in questa verità: Gesù ha conosciuto la
morte come tutti gli uomini e li ha raggiunti con la sua anima nella dimora dei morti 321;
il descensus annuncia la realtà-verità della resurrezione di Gesù, la cui solidarietà non è
solo dentro la morte, ma oltre la morte; l’annuncio della discesa agli inferi è un annuncio della
salvezza universale che abbraccia tutte le potenze cosmiche e tutti gli uomini da Adamo in
poi322; il CCC sottolinea che Gesù è sceso agli inferi come Salvatore, proclamando la Buona
Novella agli spiriti che vi si trovavano prigionieri 323.
Nell’articolo di fede due sono gli aspetti messi in rilievo da tutta la Tradizione: la
liberazione dei giusti - Gesù infatti non è disceso agli inferi per liberare i dannati, né per
distruggere l’inferno della dannazione, ma per liberare i giusti che l’avevano preceduto e per
aprir loro le porte del cielo, ed il pieno compimento dell’annunzio evangelico della salvezza,
che rappresenta la fase ultima della missione messianica di Gesù, cioè l’estensione dell’opera
redentrice a tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi 324. Nella discesa agli inferi viene
quindi espressa, come anche Balthasar sottolinea, la solidarietà di Cristo con gli uomini di
tutti i tempi – “Cristo è disceso nella profondità della morte, affinché i morti udissero la voce

QUILLIET, «Descente de Jésus aux enfers», DTC 4 (1939), col. 565-619; CCC, 631-635; J. GALOT, «La
glorification du Christ dans la mort», in La rédemption mystère d'alliance, Paris, 1965 p. 285-308 ; «Il est
descendu aux enfers», Lumière et vie 87 (1986); Ch. DUQUOC, «Il est descendu aux enfers», in
Christologie, vol II, p. 51-69; Ilarion ALFEEV, « La discesa di Cristo agli inferi nei primi testi cristiani »,
La Nuova Europa, 2/2001, 49-61.
321 Cf. CCC, 632.
322 Ricca di significato è l'antica Omelia sul Sabato Santo, riportata nel saggio di G. ANCONA, Disceso agli
inferi…, p. 123-124: «… il Dio fatto carne si è addormentato e ha svegliato coloro che da secoli
dormivano. Dio è morto nella carne ed è sceso a svuotare il regno degli inferi. Certo egli va a cercare il
primo padre, come la pecorella smarrita. Egli vuole scendere a visitare quelli che siedono nelle tenebre
e nell'ombra di morte. Dio e il Figlio suo vanno a liberare dalle sofferenze Adamo ed Eva che si
trovano in prigione. Il Signore entrò da loro portando le armi vittoriose della croce. [E Cristo disse ad
Adamo]: Io sono il tuo Dio, che per te sono diventato tuo figlio; che per te e per questi, che da te
hanno ricevuto origine, ora parlo e nella mia potenza ordino a coloro che erano in carcere: Uscite! A
coloro che erano nelle tenebre: Siate illuminati! A coloro che erano morti: Risorgete! A te comando:
Svegliati, tu che dormi! Infatti non ti ho creato perché rimanessi prigioniero dell'inferno. Risorgi dai
morti. Io sono la vita dei morti. Risorgi, opera delle mie mani! Risorgi mia effigie, fatta a mia
immagine! Risorgi, usciamo di qui! Tu in me e io in te siamo infatti un'unica e indivisa natura» (PG
43,439).
323 Cf. 1 Pt 3,18-19; CCC, 632. I Padri hanno polarizzato la loro attenzione soprattutto intorno a due
temi: quello dalla liberazione e quello della predicazione. Il primo ha soprattutto marchiato l'Occidente: il
Cristo ha liberato i giusti dell'Antico Testamento. La discesa agli inferi è legata ad un'attività vittoriosa
del Cristo, con essa si realizza la salvezza per gli uomini che sono vissuti sotto l'Antica Alleanza. Cf.
Ch. DUQUOC, «La descente du Christ aux enfers, problématique théologique», Lumière et vie 87 (1986),
p. 52.
324 Cf. CCC, 633-637.

63
del Figlio di Dio e, ascoltandola, vivessero”325 -, ma anche il trionfo del Cristo risorto che ha
ormai “potere sopra la morte e sopra gli inferi” 326.
Per concludere, possiamo affermare con G. Rossé, che “nella concezione di von Balthasar
sulla Discesa agli inferi manca l’elemento di risurrezione”327.
e. Abbandono e discesa agli inferi
La teologia della kenosi, sviluppata da Balthasar, non si limita alla morte in croce, essa
viene condotta fino all’esperienza dell’inferno, alla sopportazione della poena damni. Sembra
quasi che Balthasar prolunghi l’abbandono di Cristo nella discesa agli inferi: come nella sua
passione Gesù è stato abbandonato da Dio, così nella sua esperienza dell’esser morto, egli ha
conosciuto un abbandono senza misura nella perdita di ogni luce spirituale proveniente dalla
fede, dalla speranza, dalla carità. Come allora interpretare la frase di Gesù riportataci da
Giovanni: Tutto è compiuto? 328 Mi sembra quindi difficile seguire Balthasar in quest’idea di
una durata dell’abbandono nella discesa agli inferi del Cristo, che significa per Gesù esperire
la dannazione329.

325 CCC, 635.


326 Ap 1,18. Charles Perrot afferma che la discesa di Gesù nell'Ades può essere compresa solo in
funzione della sua risalita dall'Ades stesso: “Le sens profond de la descente aux enfers, c'est la
remontée des enfers, c'est-à-dire le triomphe du Christ ressuscité” («La descente du Christ aux enfers
dans le Nouveau Testament», in Lumière et vie 87 [1986], p. 28).
327 G. ROSSÉ, Il grido di Gesù in croce, p. 109-115. La frase citata è situata alla p. 114, il corsivo è nel testo.
328 Gv 19,30.
329 Per una critica di quest'aspetto della teologia di Balthasar, cf. la recensione di B. SESBOÜÉ all'opera
Herrlichkeit, in RSR 59 (1971), p. 88-89, l'autore solleva vari interrogativi che possono scaturire
dall'interpretazione balthasariana del descensus, fra cui la prospettiva dell'apocatastasi.
64
Capitolo IV
Chiara Lubich : L’unità e Gesù abbandonato
A. Introduzione
“Il libro di luce, che il Signore va scrivendo nella mia anima, ha due aspetti: una
pagina lucente di misterioso amore: Unità. Una pagina luminosa di misterioso
dolore: Gesù Abbandonato. Sono due aspetti di un’unica medaglia” 330.
Queste brevi righe sono tratte da una lettera di Chiara Lubich 331 del 1948 ed esprimono con
semplicità la sua esperienza di vita e l’ispirazione avuta da Dio su questi due elementi della
spiritualità cristiana, che richiamano alla memoria due momenti decisivi della vita di Gesù: la
sua preghiera per l’unità 332 ed il grido d’abbandono sulla croce 333. Questi due elementi nel
pensiero della Lubich, e ancor più nella vita e nella spiritualità che lo Spirito Santo le ha
elargito, sono legati da una inscindibile reciprocità 334 e sono, direi, onnipresenti nell’opera
che la Lubich ha tessuto in sessant’anni di servizio alla Chiesa.

330 Chiara LUBICH, L'unità e Gesù Abbandonato, Roma, 1984, p. 66-67.


331 Chiara Lubich, fondatrice e attuale presidente del Movimento dei Focolari o Opera di Maria, è figura a
noi contemporanea ormai molto nota, sia nell'ambito della Chiesa che al di fuori di essa, per il suo
originale e notevole contributo di vita e di dottrina, che è stato più volte riconosciuto da Paolo VI e da
Giovanni Paolo II. Nata a Trento il 22 gennaio 1920, la giovane ha una prima intuizione della sua
particolare chiamata all'età di 19 anni: l'insegnamento come maestra, lo studio della filosofia
all'università, l'impegno nell'Azione Cattolica nel terz'ordine Francescano non le bastano più e matura
in lei il desiderio di una totale consacrazione a Dio. Negli anni della seconda guerra mondiale, mentre
la città è bombardata, invita alcune compagne a leggere il Vangelo e a vivere insieme; propone loro
una spiritualità nuova, mirante a ripristinare l'unità fra tutti gli uomini. Il successo è immediato: al
fascino della chiamata cristiana rispondono donne e uomini da ogni parte del paese, suscitando un
vasto movimento di spiritualità che ha coinvolto, nel mondo intero e in più di cinquant’anni di vita,
sacerdoti, religiosi, giovani, famiglie, laici, con ripercussioni notevoli anche nell’ambito economico
(Economia di Comunione) e politico (Movimento dell’Unità). Il Movimento, fondato da Chiara
Lubich, ha avuto il primo riconoscimento diocesano da mons. Carlo De Ferrari, nel 1947, e la prima
approvazione pontificia da Giovanni XXIII, nel 1962. L'ultima approvazione dell'Opera di Maria e
dei suoi Statuti generali, rivisti e aggiornati, è avvenuta il 29 giugno 1990, con Decreto della Santa
Sede. Chiara ha partecipato come uditrice al Sinodo Straordinario dei Vescovi del 1985, al Sinodo
Ordinario del 1987 sulla vocazione e missione dei laici nella Chiesa, e al II Sinodo speciale per
l’Europa del 1999. L'impegno di Chiara raggiunge l'intero mondo cattolico, ma non si ferma ad esso.
Vi è il dialogo ecumenico con ortodossi (iniziato già con il patriarca Athenagoras nella seconda metà
degli anni sessanta), evangelici, anglicani e riformati, ma vi è anche il dialogo interreligioso con ebrei,
buddisti, islamici. Sono stati assegnati alla Lubich, nel 1977, a Londra, il Premio Templeton per il
“Progesso della Religione”; nel 1987, a Siena, la “III Targa Cateriniana”. Nel 1996, l’UNESCO le
conferisce, a Parigi, il Premio per l’Educazione alla pace e, nel 1998, il Consiglio d’Europa le ha assegnato
il Premio Diritti Umani per la sua opera “in difesa dei diritti individuali e sociali”. A Chiara Lubich sono
stati inoltre conferiti diversi riconoscimenti per il suo indefesso lavoro in favore dell’ecumenismo, del
dialogo interreligioso e vari dottorati honoris causa da varie università italiane ed estere in varie
discipline, fra cui il dottorato in teologia dalla Pontificia Università Santo Tomás di Manila, nelle
Filippine (1997).
Tra le varie pubblicazioni esistenti sulla vita e l’opera di Chiara Lubich, mi limito a segnalare: F.
ZAMBONINI, Chiara Lubich: l’avventura dell’unità, Alba (Cuneo), 1991; M. BELLINI, G. DE CARLI, Quando
la Chiesa è donna, Milano, 1996, p. 93-102; J. GALLAGHER, Chiara Lubich: dialogo e profezia, Cinisello
Balsamo (Milano), 1999.
332 Gv 17.
333 Mt 27,46; Mc 15,34.
334 L’espressione è di Jésus CASTELLANO CERVERA, ocd, docente di teologia presso il Teresianum di
Roma che così si esprime nell’introduzione al libro di Chiara Lubich che esamineremo in queste
65
L’incontro con l’Amato, il Crocifisso, che sulla croce grida: «Dio mio, Dio mio, perché mi
hai abbandonato?», rappresenta il punto focale, il centro di tutta l’esperienza di Chiara
Lubich335 sì da diventare “il criterio ermeneutico del suo pensiero” 336. Non potendo in poche
pagine presentare la ricca e feconda opera della fondatrice dei Focolari, che comporta più di
una trentina di titoli, senza tener conto dei moltissimi discorsi pronunciati nelle occasioni le
più varie, mi limiterò a presentare un suo libro dal titolo L’unità e Gesù abbandonato, edito
nel 1984, in cui l’autrice espone il suo pensiero sul tema che c’interessa, completandolo con
stralci tratti dall’ultimo libro pubblicato sull’argomento 337.
Il libro - L’unità e Gesù abbandonato - si suddivide in tre sezioni. Nella prima, l’autrice
parla della meravigliosa scoperta del Testamento di Gesù con l’intuizione soprannaturale di
esser nata per realizzare questa pagina del Vangelo: portare l’unità nel mondo sarà da quel
momento la sua chiamata e il suo anelito più profondo; ma perché l’unità non rimanga mera
utopia, è necessario che qualcuno ne indichi la via: ed è Gesù crocifisso e abbandonato,
l’autore ed il modello dell’unità fra Dio e gli uomini e degli uomini fra loro. La seconda
sezione, partendo soprattutto da stralci di lettere che risalgono alla seconda metà degli anni
quaranta, si concentra sul mistero di Gesù Crocifisso e Abbandonato, visto come chiave
dell’unità con Dio. Nell’ultima parte del libro, l’autrice mostra come Gesù, nel momento
dell’abbandono è divenuto, non solo chiave dell’unità con Dio, ma chiave dell’unità con i
fratelli, ponte fra Cielo e terra.
Una premessa, che ritengo necessario fare, è che non ci troviamo di fronte ad un libro di
speculazione teologica, ma di fronte a delle pagine che veicolano un’esperienza cristiana
limpida, che racchiude in sé una novità. Accanto all’approccio razionale del mistero è sempre
emerso, nel corso dei secoli, la contemplazione del mistero stesso nell’apporto
imprescindibile di santi o di persone depositarie di carismi per il bene di tutta la Chiesa 338, mi
sembra che Chiara Lubich rientri in questa scia e che si possa parlare, anche nel suo caso, di
conoscenza contemplativa 339, destinata poi a veicolare una penetrazione teologica sempre più
profonda340 del mistero racchiuso nel grido d’abbandono di Gesù.

pagine : « L'unità e Gesù abbandonato, nella loro inscindibile reciprocità, costituiscono una assoluta
novità nella spiritualità cristiana; sono una rivelazione, un carisma, un dono per la Chiesa del nostro
tempo, tanto aperta al mistero dell'unità e tanto bisognosa, in un mondo come il nostro, di scoprire il
volto ed il cuore di Gesù Abbandonato, presente nell'umanità. Quali parole altissime del Vangelo,
l'unità e Gesù Abbandonato, sono una rivelazione del Verbo Incarnato, di Gesù, l'unico Maestro; ma
una rivelazione di Dio che è Amore nell'unità trinitaria che Egli vuole comunicare al mondo,
nell'abisso dell'identificazione con l'umanità che ci svela il grido dell'Abbandonato. Come vette
dell'esperienze di Gesù, non sono semplici aspetti della spiritualità cristiana da mettere accanto ad
altri, ma vertici del Vangelo nei quali splende tutta l'originalità del messaggio di Cristo» (Ch. LUBICH,
L'unità e Gesù Abbandonato, p. 9).
335 Cf. la prefazione del Card. Paul POUPARD al libro, Il grido, p. 6.
336 A. PELLI, «L'apporto di un carisma …I», p. 146.
337 Ch. LUBICH, Il grido: Gesù crocifisso e abbandonato nella storia e nella vita del Movimento dei Focolari dalla sua
nascita, nel 1943, all'alba del terzo millennio, Roma, 2000.
338 Il teologo G. GRESHAKE afferma che i santi e i carismatici «non vivono di una dottrina, ma è proprio
la loro vita a produrre una dottrina» (L'uomo e la salvezza di Dio, in AA.VV., Problemi e prospettive di
teologia dogmatica, Brescia, 1983, p. 301, cit. in A: PELLI, «L'apporto di un carisma …I», p. 140).
339 L’espressione è del cardinale Journet, già citata a p. 6 del presente lavoro.
340 A. PELLI, L'abbandono di Gesù e il mistero del Dio Uno e trino …, p. 251.

66
B. L’Unità
L’unità è vista dall’autrice come la vocazione specifica del Movimento dei Focolari da lei
fondato; essa è la parola sintesi della spiritualità 341 elargitale dallo Spirito Santo. L’autrice
ricorda il momento in cui, come una fiamma, l’unità si è accesa nel suo cuore e in quello delle
sue prime compagne:
“È la guerra. Siamo – alcune giovani ed io – in un ambiente buio, forse una cantina.
Leggiamo al lume di candela il Testamento di Gesù. Lo scorriamo tutto. Quelle parole
difficili sembrano illuminarsi, ad una ad una. Abbiamo l’impressione di comprenderle.
Avvertiamo, soprattutto, la certezza che quella è la ‘magna charta’ della nostra nuova
vita e di tutto ciò che sta per nascere attorno a noi. Qualche tempo dopo, consce della
difficoltà, se non della impossibilità di mettere in pratica un tale programma, ci
sentiamo spinte a chiedere a Gesù la grazia di insegnarci il modo di vivere l’unità.
Inginocchiate attorno ad un altare, offriamo a Lui le nostre esistenze perché con esse –
se crede – Egli la possa realizzare. È – a quanto ci ricordiamo – la festa di Cristo Re. Ci
colpiscono le parole della liturgia di quel giorno: « Chiedi a me, ti darò in possesso le
genti e in dominio i confini della terra»342.
Abbiamo fede e chiediamo. […]. Nel nostro cuore una cosa è chiara: l’unità è ciò che
Dio vuole da noi. Noi viviamo per essere uno con Lui e uno fra noi e con tutti. Questa
splendida vocazione ci lega al Cielo e ci immerge nella fraternità universale. Niente di
più grande. Per noi, nessun ideale supera questo” 343.
Un appunto, assai sintetico, probabilmente del ’46, parla dell’unità vista come realizzazione
della fratellanza universale nell’unico Padre; in esso si legge:
“L’anima deve, sopra ogni cosa, puntare sempre lo sguardo nell’unico Padre di tanti
figli. Poi guardare tutte le creature come figlie dell’unico Padre. Oltrepassare sempre,
col pensiero e con l’affetto del cuore, ogni limite posto dalla vita (semplicemente)
umana e tendere costantemente e per abitudine presa alla fratellanza universale in un
solo Padre: Dio”.
L’appunto continua descrivendo l’umiltà, virtù necessaria alla realizzazione dell’unità: è
l’umiltà che unisce l’anima a Dio, essa presuppone l’annullamento totale di sé; anche l’unità
con i fratelli si raggiunge grazie all’umiltà, che significa mettersi al servizio del prossimo.
Colui che desidera realizzare l’unità ha un solo diritto: servire tutti, perché in tutti serve Dio:

341 La spiritualità dell’unità, elargita dallo Spirito Santo a Chiara Lubich, è una spiritualità con una
spiccata dimensione comunitaria, che viene vissuta da più persone insieme, ma che indica in ogni
fratello, in ogni prossimo, la strada per arrivare a Dio. Essa affonda le sue radici in parole del Vangelo,
che si illuminano reciprocamente inanellandosi una nell’altra. Ecco alcuni dei suoi punti fondamentali:
la vitale scoperta di Dio come Amore (1 Gv 4,8.16) e Padre della famiglia umana; la volontà di Dio (Mt
7,21), vista come via di santità per ogni uomo e come risposta al Suo Amore; l’amore al fratello (Mt
7,12; 22,34-40), Parola in cui è riassunta tutta la legge e i profeti e regola d’oro di ogni religione; l’amore
reciproco (Gv 13,34; 15,12; 1 Gv 2,7s), comandamento nuovo di Gesù, cuore del Vangelo; la presenza
di Gesù in mezzo ai suoi (Mt 18,20), promessa a coloro che sono uniti nel suo nome; Gesù crocefisso e
abbandonato (Mc 15,34; Mt 27,46), contemplato nel culmine del suo dolore e che realizza l’unità (Gv
17), con Dio e fra gli uomini; Maria (Gv 19,26-27), contemplata nella sua desolazione ai piedi della
croce e come madre dell’unità, imitata come modello d’amore per l’umanità; lo Spirito Santo, che con i
suoi doni invade l’anima del cristiano (cf. i vari testi paolini che parlano dello Spirito); la passione per la
Chiesa e la fedeltà alla gerarchia (Mt 10,40; Lc 10,16).
342 Sal 2,8.
343 Ch. LUBICH, L'unità e Gesù Abbandonato, p. 28.

67
“Come San Paolo: da liberi farsi servi di tutti per guadagnare a Cristo il maggior
numero. L’anima che vuol portare l’unità deve mantenersi costantemente in un abisso
d’umiltà, così da perdere a favore e nel servizio di Dio nel prossimo anche l’anima sua.
Non rientra in sé se non per trovarvi Dio e pregare per i fratelli e per sé”344.
Ma cos’è l’unità? In una lettera del ’47, la Lubich, non trovando parole adeguate per definire
questa realtà inenarrabile, esclama:
“Oh! L’unità, l’unità! Che divina bellezza! Non abbiamo parole umane per dire che
cosa sia! È Gesù”.
La ricchezza contenuta dall’unità viene espressa dall’identificazione di essa con la stessa
persona di Gesù. In un’altra lettera del ’48 si legge:
“… L’unità! Ma chi potrà azzardarsi a parlare di essa?
È ineffabile come Dio.
Si sente, si vede, si gode ma… è ineffabile!
Tutti godono della sua presenza,
tutti soffrono della sua assenza.
È pace, gaudio, amore.
Ardore, clima di eroismo, di somma generosità.
È Gesù fra noi” 345.
L’unità è, dunque, quella particolare presenza del Risorto fra i suoi, secondo la sua
promessa: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”346. Per la Lubich,
l’unità è una delle presenze di Cristo nella sua Chiesa , accanto a quella nell’Eucaristia, nella
sua Parola, in chi deve governare la comunità, nei poveri in cui Cristo si nasconde347. In
un’altra lettera del medesimo anno, si scopre tutto l’ardore con cui la giovane fondatrice dei
Focolari trasmetteva ad altri questo suo struggente anelito all’unità:
“Fratelli che tutto cada. L’unità mai! Dov’è l’unità ivi è Gesù!…
E non temete di morire. Già l’avete sperimentato che l’unità esige la morte di tutti
per dar la vita all’UNO! Sopra la vostra morte viva la Vita!
La Vita che a vostra insaputa vivifica molte anime. L’ha detto Gesù: ‘Pro eis,
santifico me ipsum!’, ‘per gli altri santifico me stesso’ 348. Per fare l’unità (della
vostra città) e del mondo, state uniti fra di voi. Quell’unità, in cui vive l’Amore, vi
darà forza di affrontare ogni disunità esteriore e di riempire ogni vuoto…” 349.
La chiamata che Chiara Lubich ha sentito nel più profondo - agli albori del vasto
movimento di spiritualità che andava formandosi attorno a lei – è stata dunque quella di
concorrere alla realizzazione del testamento di Gesù, l’ut omnes unum sint 350. “Non c’è
dubbio che una soprannaturale sapienza, un carisma dello Spirito Santo, sia stato alla base di
una scoperta così nuova e così alta, … inedita fino a questo momento nella Chiesa, anche se
intuita e predicata nella spiritualità cristiana. Si può affermare di trovarsi qui davanti ad un
carisma nato da una pagina del Vangelo che questa volta non è la pagina della povertà, della

344 Cf. 1 Cor 9,19; Ibid., p. 29-30.


345 Ibid., p. 33-34. Nel libro, l’autrice cita vari stralci di lettere, che rappresentano i più numerosi
documenti rimasti di quell’epoca. Le lettere erano indirizzate alle compagne, ai genitori ed altri parenti,
a sacerdoti e religiosi.
346 Mt 28,20.
347 Ch. LUBICH, L'unità e Gesù Abbandonato, p. 34.
348 Gv 17,19.
349 Ch. LUBICH, L'unità e Gesù Abbandonato, p. 38.
350 Gv 17,11.

68
preghiera o delle opere di misericordia, ma quella che rivela il mistero dell’unità, lo scopo
stesso della venuta di Cristo fra gli uomini, della sua morte e della sua risurrezione” 351.

C. Gesù Abbandonato, chiave dell’unità con Dio


Chiara Lubich afferma che lo stesso Spirito Santo, mentre ha indicato sin dall’inizio al
nucleo del movimento nascente l’unità come loro caratteristica via spirituale, ha anche
rivelato contemporaneamente la chiave per poterla realizzare:
“… ancor prima di avere idee sul modo di realizzare l’unità, ci è stato proposto un
modello, una figura, una vita: quella di Colui che ha saputo veramente ‘farsi uno’ 352 con
tutti gli uomini che furono, che sono e che saranno; che ha operato l’unità pagandola
con la croce, il sangue ed il suo grido; Colui che fruttato alla Chiesa la sua presenza
come Risorto per tutti i giorni, sino alla fine del mondo: Gesù crocifisso e
abbandonato” 353.
La Lubich parla, in un primo momento, della scoperta della realtà vissuta da Gesù nel suo
abbandono, come il culmine della sua sofferenza qui in terra, poi mostra come Gesù abbia
operato, col suo abbandono, la riunificazione degli uomini con Dio.
1. Gesù crocifisso e abbandonato agli albori del Movimento dei Focolari
a. La scoperta
L’incontro con Colui che Chiara Lubich chiamerà lo Sposo avviene il 24 gennaio del
1944, in casa di un’amica ammalata 354 che così racconta l’avvenimento:
“Si andava a trovare i poveri e da questi, probabilmente, avevo preso un’infezione al
volto. Ero piena di piaghe e le medicine non fermavano il male… Faceva freddo, e
uscire in quelle condizioni poteva essere dannoso. Poiché i miei me lo proibivano,
Chiara chiese ad un padre cappuccino di portarmi la Comunione. Mentre facevo il
ringraziamento, quel sacerdote domandò a Chiara qual era stato, secondo lei, il
momento nel quale Gesù aveva sofferto di più durante la sua passione. Ella rispose
d’aver sempre sentito dire che era stato il dolore patito nell’orto degli ulivi. Ma il
sacerdote: ‘Io credo, invece, che sia stato quello in croce, quando ha gridato: Dio mio,
Dio mio, perché mi hai abbandonato?’. Appena il Padre se ne andò, avendo udito le
parole di Chiara mi rivolsi a lei, sicura di una spiegazione. Mi disse invece: ‘Se il più
grande dolore di Gesù è stato l’abbandono da parte del Padre suo, noi lo scegliamo
come Ideale e lo seguiamo così’… Da quel giorno Chiara spesso, anzi sempre, mi parlò
di Gesù Abbandonato. Era il personaggio vivo della nostra esistenza” 355.
b. Una scelta unica, radicale

351 È quanto afferma J. CASTELLANO CERVERA, ocd, nell'introduzione al libro (Ch. LUBICH, L'unità e
Gesù Abbandonato, p. 12).
352 Cf. sviluppo dell’argomento a p. 76.
353 Ch. LUBICH, L'unità e Gesù Abbandonato, p. 50-51.
354 Si tratta di Doriana ZAMBONI, una delle prime compagne della Lubich. L'autrice ricorda, nel libro Il
grido, che l'incontro con quel sacerdote fu una circostanza esterna, in cui ha in seguito visto la risposta
di Dio ad una loro preghiera, allorquando, affascinate dalla bellezza del suo Testamento avevano
chiesto a Gesù d'insegnar loro a realizzare l'unità, per la quale Egli aveva pregato il Padre, prima di
morire (p. 34).
355 Ch. LUBICH, L'unità e Gesù Abbandonato, p. 52.

69
Le letterine, che la Lubich scriveva in quell’epoca alle sue compagne, rivelano la
decisione di una scelta unica e radicale: Gesù Abbandonato; ne riporto gli stralci più
salienti356:
“Dimentica tutto,… anche le cose più sublimi; lasciati dominare da una sola Idea, da un
solo Dio, che ha da penetrare ogni fibra del tuo essere: da Gesù crocifisso” 357.
“Conosci la vita dei santi?… Essa era una sola parola: Gesù crocifisso; … le piaghe di
Cristo, il loro riposo; il sangue di Cristo, il bagno salutare della loro anima; il costato di
Cristo, il cofanetto che si riempiva del loro amore. Chiedi a Gesù crocifisso, per il suo
straziante grido, la passione della sua passione… Lui deve essere tutto per te” 358.
“Ma soprattutto istruisciti in un libro solo… nel crocifisso Gesù, che fu da tutti
abbandonato! Che grida: ‘Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?’. Oh! Se quel
volto divino contratto dallo spasimo, quegli occhi arrossati, ma che (ti) guardano con
bontà, dimenticando i peccati miei e tuoi, che l’hanno così ridotto, fossero sempre
davanti al tuo sguardo!…”359.
La scelta di Dio che aveva caratterizzato la vita delle prime focolarine, nella Trento
bombardata durante la seconda guerra mondiale, si andava precisando in un frase densa di
significati, trasmessa poi alle generazioni successive: scegliere Dio in Gesù abbandonato360:
“È in Lui il Dio-Amore che abbiamo scelto, è in Lui la volontà di Dio su di noi, è in Lui
la possibilità d’attuazione del Comandamento Nuovo, della misura cioè dell’amore che
esso richiede. È Lui la Parola per eccellenza, che Gesù ha seminato sulla terra quando
ha suscitato il Movimento. È Gesù Abbandonato vissuto la possibilità, l’unica
possibilità per avere Gesù fra noi. È amando Lui che riusciremo ad esser «altra Maria».
Amando Lui concorreremo efficacemente a realizzare il Testamento di Gesù. Con Lui
vivremo veramente la Chiesa. Con l’amore a Lui daremo spazio nel nostro cuore e in
quello di molti allo Spirito Santo” 361.
c. Gesù abbandonato, vertice d’amore
Gesù, contemplato nel mistero dell’abbandono, è “l’unico libro” 362 in cui Chiara Lubich e
le sue prime compagne vogliono leggere. Ma cosa lo Spirito Santo faceva leggere loro in quel
libro?

356 Ibid., p. 54-55. Le date delle lettere saranno indicate in nota.


357 21.7.1945.
358 21.7.1945.
359 30.1.1944.
360 Come non ricordare qui la predicazione di San Paolo ai Corinti, tutta incentrata sull’annuncio di
Cristo crocifisso, « scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani ». Ma l’apostolo afferma che « ciò che è
stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini » (1 Cor 1, 18-25).
Sul mistero della croce come scandalo e follia, cf. B. SESBOÜÉ, Jésus-Christ l’unique médiateur, tome I, p.
28-29.
361 Ibid., p. 56-57.
362 Nel libro Il grido, la Lubich riporta uno stralcio di una lettera del 1944 che riporta proprio questo
concetto:
«Vi mando un pensiero, che sintetizza tutta la nostra vita spirituale: Gesù crocifisso!
Ecco tutto. È il libro dei libri. È il sunto di ogni sapere.
È l'amore più ardente. È il modello più perfetto.
Proponiamocelo come unico ideale della vita.
Fu lui a trascinare san Paolo a tale santità…
L'anima nostra, bisognosa d'amare, se lo metta davanti sempre in ogni attimo presente.
Non sia sentimentalismo il nostro amore.
70
“S’è contemplato in Lui immediatamente il vertice del suo amore363 perché culmine del
suo dolore. In Gesù abbandonato è rivelato infatti tutto l’amore di un Dio” 364.
Una lettera del gennaio del ’44, la Lubich afferma che l’abbandono quale culmine del dolore
di Gesù rappresenta il vertice dell’amore.
In un altra lettera, l’autrice ribadisce: “… lì è tutto. È tutto l’amore di un Dio”365.
d. Da Gesù abbandonato sgorgano fiotti di luce
La Lubich, scorrendo gli scritti rimasti di quell’epoca, ricorda questo periodo come
un’inondazione di luce:
“Questo amore a Gesù Abbandonato è entrato, è penetrato, è esploso nel nostro cuore
come un fuoco che tutto divora, che nulla salva, come una passione divina che travolge
e coinvolge cuore, mente, forze; e come una folgore che illumina. Si vedeva. Si capiva.
Erano fiumi di luce” 366.
Ecco alcune comprensioni, squarci nel mistero divino, che sgorgavano nell’anima della
Lubich dalla contemplazione dell’abbandono di Gesù.
Gesù abbandonato illumina il dolore. Una delle illuminazioni, avute dalla Lubich in quel
periodo, riguardava il posto che il dolore ha nell’economia divina. Nell’immenso dolore del
Cristo abbandonato, la Lubich e le sue prime compagne scorgevano l’amore nella sua
espressione più alta, l’amore totalmente dispiegato; ciò le conduceva a valorizzare ogni
dolore personale quale espressione del proprio amore per il Cristo crocifisso e a diventare,
con Lui e in Lui, correndentori.
“Lui m’ha infuso nel cuore una grande passione: è Lui crocifisso e abbandonato!
Lui che dall’alto della croce mi dice: ‘… tutto ho fatto tramontare del mio … tutto! Non
son più bello; non più forte; qui non ho più pace; quassù la giustizia è morta; la scienza
non si sa; la verità scompare. Resta solo il mio Amore, che ha voluto versare per te le
mie ricchezze di Dio…’. Così mi dice e mi chiama… a seguirlo… È Lui la mia

Non sia compassione esterna.


Sia conformità (a lui)» (p. 33).
363 Più tardi, la Lubich illustrerà maggiormente il suo pensiero sull'Abbandonato, vedendo in Lui la
Parola definitiva del Padre, «la Parola pienamente dispiegata» (La vita, un viaggio, Roma, 1984, p. 88), il
vertice della rivelazione, la sintesi del Vangelo. Per la Lubich, Gesù nell'abbandono può ripetere in sé
tutte le beatitudini: «Gesù abbandonato è il modello perfetto di un povero di spirito: è così povero che
non ha, per così dire, nemmeno Dio che lo abbandona. […]. È lì soprattutto che si mostra
sommamente misericordioso, che versa tutta la sua misericordia; che si mostra affamato e assetato di
giustizia; è lì che appare perseguitato misteriosamente persino dal Cielo; dove lo ammiriamo mite e
mansueto, staccato anche da ciò che ha di più sacro e divino. Gesù abbandonato è il modello del
rinnegamento di sé e della mortificazione evangelica. Egli infatti non è solo mortificato in ogni senso
esterno, perché crocifisso, ma anche mortificato nell'anima: nell'anima rinuncia in certo modo a ciò
che ha di più caro: la sua unione con Dio. […] Il Vangelo dice: “Se il chicco di grano non cade in terra
e vi muore, resta solo; ma se muore porta molto frutto” (Gv 12,24). Gesù abbandonato è veramente
la figura del chicco di grano che muore ma che non resta solo, perché porta come frutto il Popolo di
Dio, la Chiesa. Gesù abbandonato è il modello di colui che confida: “Confidate - aveva detto - io ho
vinto il mondo!” (Gv 16,33). Infatti nessuno ha avuto una fiducia più grande di Lui che, abbandonato
da Dio, si fidò di Dio; abbandonato dall'Amore, si affidò all'Amore. Gesù abbandonato è il modello
di chi vuole dar gloria a Dio: Egli, nell'abbandono, annullando completamente se stesso, afferma, con
i fatti, che Dio è tutto» (Ch. LUBICH, «Frutti ed effetti della Parola», in A. Raggio [Ed.], Nuova
evangelizzazione e parrocchia. Una proposta di vita, Roma, 1992, p. 32-33).
364 Ch. LUBICH, L'unità e Gesù Abbandonato, p. 59.
365 07.06.1944.
366 Ibid., p. 60.

71
Passione!”. “Dinanzi a Lui ogni dolore mi sembra un nulla ed attendo il dolore piccolo
o grande come il più grande dono di Dio, giacché è quello la prova del mio amore per
Lui!” 367.
In Gesù abbandonato è il segreto della santità . In Gesù crocifisso e abbandonato si
contemplava, per l’esempio dato dai santi, il segreto per raggiungere la santità:
“Ricordi santa Rita? Nello sfondo oscuro della sua cameretta, dove dormivano i suoi
due fanciulli, c’era l’Uomo-Dio crocifisso. Fu Lui il segreto del suo amore. Lui e Lui
solo. Da quella croce scendeva a lei l’esempio della pazienza, del perdono, dell’amore
durevole e tenace fino alla morte e alla morte abbandonato! Fu Lui che la guidò per le
vie più alte della santità, perché Rita amava prima di tutti Gesù crocifisso…”368.
Gesù abbandonato è la perla preziosa. Poiché, nell’Abbandonato, la Lubich andava
scoprendo tante ricchezze, ecco che ella lo vede, in uno scritto del 1948, come la perla
preziosa che Dio offriva loro:
“Oh! Abbiamo trovato, sì, l’abbiamo trovata la perla preziosa!
Oh! Il nostro Amore! Oh! Quell’uomo, quel ‘verme della terra’, … È ‘nostro’!
L’anima, che l’ha trovato, lascia tutto per abbracciare Lui! E, come la Sposa dei
Cantici, anch’essa va in cerca del suo tesoro e Lo ama e Lo adora!
Simile amore quale amante non attirerà a sé? Io vorrei correr per il mondo e
raccoglierGli cuori e avverto che tutti i cuori del mondo non bastano per un Amore
grande come Dio!”369.
2. Gesù abbandonato, chiave dell’unità con Dio
a. Gesù abbandonato, segreto e garanzia dell’unità
Col passar del tempo, la Lubich - sentendosi chiamata da Dio a portare nel mondo l’unità -
intuisce che Gesù abbandonato ne è il segreto: Lui è la condizione per attuare la preghiera, il
testamento del Cristo riportato da Giovanni nel suo vangelo. In alcune lettere del 1948,
indirizzate ad un religioso, la Lubich comunica una sua convinzione e cioè che l’unità è
veramente compresa da colui che ama Gesù Abbandonato:
“… Sono convinta che l’unità nel suo aspetto più spirituale, più intimo, più profondo, non
può essere capita che da quell’anima che ha scelto per sua porzione nella vita… Gesù
Abbandonato che grida ‘Dio mio, perché mi hai abbandonato?’ ”.
Successivamente, la Lubich afferma che Gesù, nel suo abbandono, è il segreto e la garanzia
dell’unità: ogni luce sull’unità scaturisce da quel grido370. Nella stessa lettera si afferma, già da
allora, la consapevolezza che due sono i cardini della spiritualità nascente: l’Unità e Gesù
abbandonato, che la Lubich definisce come due facce d’una stessa medaglia 371. Gesù
Abbandonato era definito in quell’epoca come il grande Potato, che né terra né Cielo
sembravano volere: perché sradicato dalla terra e dal Cielo, Egli portava all’unità i “tagliati”, gli
sradicati da Dio, era la via obbligata all’unità. Per realizzare l’unità, lo Spirito Santo indicava
un’unica strada: accogliere Gesù Abbandonato nella disunità 372. È ciò che testimonia questo
scritto del 1949:

367 Ibid., p. 60-61.


3681948. Ibid., p. 62.
369 Ibid., p. 62-63.
370 Ibid., p. 66.
371 Cf. cit. all’inizio del capitolo.
372 Ibid., p. 67-68.

72
“E non è stato ancora compreso… che l’Ideale più grande che un cuore umano possa
desiderare – l’unità – è un vago sogno ed una chimera se chi lo vuole non pone nel suo
cuore come unico tutto: Gesù da tutti abbandonato, anche dal Padre suo? […]
È solo a forza di abbracciare con tutto il cuore Gesù Abbandonato, tutto una piaga nel
corpo e tutto una tenebra nell’anima, che vi formerete all’unità… Lì è il segreto del più
grande ed ultimo sogno del nostro Gesù: ‘Ut omnes unum sint!’. E voi e noi, fatti
partecipi di questo infinito Dolore, contribuiremo effettivamente all’unità di tutti i
fratelli!” 373.
b. Gesù Abbandonato realizza l’unità con Dio
Quest’amore a Gesù, contemplato nel suo abbandono, spingeva la Lubich e le sue prime
compagne a cercare il suo Volto dappertutto 374: lo trovavano nel cuore d’ogni uomo, nelle
persone abbandonate a se stesse a causa della guerra, nella nostalgia per i genitori lontani, nei
dolori e nelle incomprensioni che incontrava il movimento nascente, nei poveri, negli
ammalati, nei carcerati, in chi aveva errato. Colpite dall’amore di Cristo nell’abbandono,
nasceva nel cuore della Lubich il desiderio di consolarlo375, condividerne il dolore, imitarlo,
preferirlo. L’amore a Gesù Abbandonato, incontrato in ogni prossimo, in ogni circostanza,
portava dolcezza all’anima, era consolazione, compagnia, pienezza, serenità, amore:
“Quando nella vita tutto ti scomparisse, ritroverai Lui fedelmente fedele: Lui, il tradito,
per consolare tutti i traditi; il fallito per consolare tutti i falliti; il vuoto per riempire
ogni vuoto; il malinconico, che rasserena ogni malinconia; il non amato, che sostituisce
– divinamente – ogni amore perduto o non trovato. Amalo nella cella interiore del tuo
cuore che è e rimarrà tutta e sempre sola sua…” 376.
Vivendo così, si sperimenta il gaudio pieno:
“Preferire fra tutti gli attimi (della giornata) quelli dolorosi (specie gli abbandoni che si
provano nell’anima) perché lì è Gesù crocifisso e abbandonato che ‘sposa’ l’anima.
Questa preferenza, che è sempre dapprima di volontà, ben presto diventa affettiva ed
allora ci si butta in un mare di dolore e ci si trova in un mare di amore, di gaudio pieno.
[…]Sempre più ho luce su questa possibilità di vincere la morte dell’anima (cioè
privazione di amore o di luce, di gaudio, o di pace), con la vita che è CRISTO CROCIFISSO
E ABBANDONATO!” .
377

373 17.02.1949. Ibid. p. 68.


374 A. PELLI così commenta questo slancio di Chiara e delle sue prime compagne: « Gesù abbandonato -
l'Uomo dei dolori, il Dolore - riconosciuto e accolto nelle infinite sfaccettature dei dolori personali e
altrui, diviene, per la Lubich, luogo della presenza di Dio e dell'incontro con Lui e, quale manifestazione
somma di Lui Amore, si fa modello, “stile d'amore”» (A. PELLI, «L'apporto di un carisma
all'approfondimento teologico dell'abbandono di Gesù. Il pensiero di Chiara Lubich. II», Nuova Umanità
XVIII/3-4 (1996), p. 343).
375 Chiara Lubich precisa il senso di queste parole : « Il verbo consolare, che ricorre in queste lettere,
questo atteggiamento da assumere nei confronti di Gesù Abbandonato, potrebbe apparire oggi come
preso dalla pietà popolare, come assunto da qualche spiritualità tradizionale ancora un pò medievale. Si
può osservare, infatti, che Gesù, ora in Cielo alla destra del Padre, non ha bisogno della nostra
consolazione. Ma, se analizziamo bene questi scritti, ne possiamo intendere il senso preciso. Se Gesù
storico nel momento del suo abbandono era così vivo nel nostro cuore da sembrare presente, tuttavia
Egli non era mai considerato disgiunto dal Gesù che alzava il suo grido d’abbandono nel Corpo mistico,
nell’umanità di quel tempo ed aveva veramente bisogno del nostro aiuto, della nostra consolazione »
(L'unità e Gesù Abbandonato, p. 73-74).
376 20.08.1949. Ibid., p. 77.
377 23.8.1948. Ibid., p. 78.

73
Il gaudio che riempie l’anima, dopo aver abbracciato il Volto dell’Abbandonato in un
dolore, è come un ingresso trionfale di Dio in essa, una vera Pasqua:
“… solo nell’estrema povertà dell’anima, che si perde per amore, Iddio fa il suo
ingresso trionfale con la pienezza del gaudio. Ecco perché Pasqua fu per noi
‘passaggio’ ad una vita, che è gioia, che mai tramonterà, finché vivremo conforme
all’ideale scelto. Vuoi ora il nostro Modello Eterno? Gesù crocifisso e abbandonato.
L’anima sua di Uomo-Dio ripiena del più grande dolore che Cielo e terra conoscano, il
dolore d’un Dio abbandonato da Dio, non esita un attimo ad offrirlo al Padre Suo:
‘Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito’ 378. Così sempre anche noi. E sai che
risponderà Gesù alla tua offerta? Tutto ti darà, tutta la pienezza del suo gaudio…” 379.
Come appare da questo testo, anche nel pensiero della Lubich, l’abbandono è visto nel suo
duplice significato di “essere abbandonato da” e “abbandonarsi a”, con l’invito ad imitare
Gesù, rivolto ad ogni uomo. All’offerta del dolore, Gesù risponderà con la pienezza del
gaudio. Da tale esperienza, la Lubich penetra nel mistero della redenzione: è dal dolore del
Crocifisso, culminante in quel grido, che sgorga la redenzione, la santificazione, la
deificazione:
“ ‘Al di là della piaga’380 si capiva veramente cos’è l’Amore, ci si fondeva con l’amore e
si partecipava della sua luce: la luce dell’Amore. Era questo un modo per esprimere la
vocazione che si sentiva di passare attraverso l’abbandono, per trovare Dio, l’Amore” 381.
I frutti straordinari che scaturiscono da questa vita, da questo amore per Gesù crocifisso e
abbandonato sono: vita soprannaturale, virtù, dolcezza, fuoco, riposo, pace, serenità, luce
dell’Amore, Amore, Gesù, Dio. In una pagina del 1949 si legge:
“Gesù Abbandonato abbracciato, serrato a sé, voluto come unico tutto esclusivo,
consumato in uno con noi, consumati in uno con Lui, fatti dolore con Lui Dolore: ecco
tutto. Ecco come si diventa (per partecipazione) Dio, l’Amore” 382.
La teologa Anna Pelli, che ha approfondito questo aspetto dell’abbandono negli scritti
della fondatrice dei Focolari, così si esprime a proposito. “L’ora del grido di Gesù – culmine
del suo dolore da Lui trasformato in amore -, essendo l’ora della sua offerta suprema, è anche
l’ora della redenzione: proprio a quel Padre, la cui presenza sembra vanificarsi, Egli offre sé
ed, in sé, quel mondo che in Lui trova la sua rigenerazione” 383. È del 1959 questo stralcio
della Lubich che formula la convinzione che il grido d’abbandono è l’urlo del parto divino
degli uomini a figli di Dio:
“Proprio quando il Cielo tacque e Cristo provò il supremo abbandono sul Golgota,
allora avveniva la redenzione del mondo che significò: vita. Il grido di Gesù era l’urlo
del parto divino degli uomini a figli di Dio” 384.

378 Lc 23, 46.


379 15.4.1945. Ch. LUBICH, L'unità e Gesù Abbandonato, p. 80-81.
380 Con quest’espressione, usata da Chiara Lubich agli inizi, si voleva indicare l’amore che si aveva per
Gesù crocefisso e abbandonato, sì da trovarsi al di là del dolore, nell’amore.
381 Ch. LUBICH, L'unità e Gesù Abbandonato, p. 82.
382 Ibid., p. 83.
383 A. PELLI, «L'apporto di un carisma … II», p. 339.
384 Ch. LUBICH, « Natale in Occidente », in Città Nuova 3 (1959), 23, p. 2. Questa stessa convinzione è
espressa con parole diverse ma altrettanto suggestive in un altro scritto:
74
Gesù abbandonato, il Redentore, proprio perché si è annientato fino alla morte e alla
morte di croce, fino all’abbandono, è il Mediatore fra Dio e gli uomini, è “varco che apre la
nostra anima all’unione con Dio” 385.
c. Gesù Abbandonato e il dono dello Spirito
Dai frutti – consolazione, pienezza, serenità, riposo, ardore, pace, amore, gioia 386 - che
scaturiscono nell’anima dall’amore al Crocifisso abbandonato, la Lubich intuisce che c’è
un’intima relazione fra Gesù crocifisso e abbandonato e il dono dello Spirito Santo. Gesù ci ha
procurato lo Spirito tramite la croce. Ma, essendo l’abbandono il vertice dei dolori che il Cristo
ha sperimentato sulla croce, vi è di conseguenza una profonda relazione fra Gesù crocifisso e
abbandonato e lo Spirito Santo. Attraverso l’amore al Cristo crocifisso e abbandonato, lo
Spirito Santo può effondere, pienamente, i suoi frutti non solo alla comunità, ma anche ad ogni
singola persona, dal cui seno sgorgheranno fiumi di acqua viva 387. L’Abbandonato diviene, per
gli uomini, fonte dello Spirito d’amore.

D. Gesù abbandonato, chiave dell’unità con i fratelli


Gesù crocifisso e abbandonato, nella visione di Chiara Lubich, non è soltanto via, chiave
per l’unità di ogni uomo con Dio, Egli è anche chiave dell’unità con ogni prossimo; in un
altro scritto, l’autrice parlerà di Lui come “vincolo d’unità” degli uomini fra loro 388. Lo
Spirito Santo, nelle linee di luce che andava suggerendo, aveva tra l’altro spinto la Lubich e le
sue prime compagne a realizzare nella loro vita quotidiana il comandamento di Gesù: “ Vi do
un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri”. Modello di questo amore è Lui
stesso poiché ha aggiunto: “come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri” 389,

«Per Te, sceso dalla Trinità in terra, era volontà del Padre ritornarvi, però non hai voluto tornarvi da
solo, ma con noi. Ecco dunque il lungo tragitto: dalla trinità alla Trinità, passando per i misteri di vita
e di morte, di dolore e di gioia » (Scritti spirituali/4. Dio è vicino, 2a ed., Roma, 1995, p. 21).
385 ID., «Anche la vita!», in Città Nuova 36 (1992), 9, p. 32.
386 ID., L'unità e Gesù Abbandonato, p. 76-81. Tra i frutti che lo Spirito Santo elargisce a colui che scorge
nel dolore un Volto dell’Abbandonato e lo ama, la Lubich individua particolarmente la gioia: «dopo
ogni incontro con Gesù abbandonato amato e accettato, trovavamo Dio in modo nuovo, più faccia a
faccia, più aperto, in una unità più piena.. Tornavano la luce e la gioia e con la gioia, la pace che è
frutto dello Spirito » (« Il punto di contatto », in Gen 18 (1984), p. 5. Al tema della gioia, la Lubich
dedica ampio spazio, ne riporto qui solo un breve stralcio: «La gioia! […] la gioia è un effetto
dell'amore a Gesù Abbandonato, sempre perché frutto dello Spirito: la gioia che manifesta spesso altri
frutti, che li riassume, che li corona: la gioia fiore dell'amore, espressione di vita, di pienezza, di
consolazione, di felicità, di beatitudine; quella gioia che testimonia la luce nell'anima…». La gioia del
cristiano è la gioia promessa da Gesù “Che abbiano in sé la pienezza della gioia” (Gv 17,13), «non
solamente la gioia serena dei bimbi, non certamente l'allegria dei giovani semplicemente umana; non il
buon umore, non la felicità terrena… Gesù ha la ‘sua’ gioia, come ha la ‘sua’ pace » (L'unità e Gesù
Abbandonato, p. 91-92).
387 Cf. Gv 7, 37-38. L’autrice cita a proposito il cardinale J. Ratzinger, che afferma : « La fonte dello
Spirito è Cristo il crocifisso. Ma, grazie a questi, è fonte di Spirito ogni cristiano » (J. RATZINGER,
« Lo Spirito Santo come ‘communio’ », in La riscoperta dello Spirito Santo, Milano, 1977, p. 258). La
Lubich ha presente anche l’insegnamento della Chiesa, in particolare la Mystici Corporis in cui si
legge: “Cristo, col versare il proprio sangue, ci meritò in croce questo Spirito…”. “Dopo che Cristo
fu glorificato in croce, il suo spirito si comunica alla Chiesa con abbondantissima effusione” (PIO
XII, Mystici Corporis, Roma, 1948, n. 30 e 54).
388 «Perché gli uomini, per Gesù crocifisso, hanno potuto ristabilire il dialogo con Dio, ne è scaturito il
dialogo anche fra di loro: Gesù crocifisso è il vincolo di unità anche fra gli uomini» (Ch. LUBICH,
«L'uomo del dialogo», in Città Nuova 26 [1982], 10, p. 30).
389 Gv 13,34. Ch. LUBICH, L'unità e Gesù Abbandonato, p. 101.

75
dandone anche la spiegazione: “nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i
propri amici”390. Da questo semplice ragionamento tirato dal Vangelo, la Lubich conclude:
“Sì: Gesù crocifisso e abbandonato è il modo di amare i fratelli. La sua morte in
croce, abbandonato, è l’altissima, divina, eroica lezione di Gesù su cosa sia
l’amore”391.
1. Farsi uno
L’amore per il prossimo richiede, quindi, la disponibilità a “dare la vita”, cha può tradursi
quotidianamente in un atteggiamento di servizio; l’autrice afferma, infatti, che non c’è modo
migliore di servire che “farsi uno” con i prossimi. Con quest’espressione, Chiara Lubich, fin
dagli inizi della sua esperienza spirituale, ha indicato quel particolare atteggiamento d'amore
verso il prossimo, espresso in modo così incisivo da San Paolo: «Mi sono fatto debole con i
deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo
qualcuno» (1 Cor 9,22). Il “farsi uno” esige che il cristiano sia povero di spirito: solo così è
possibile l’unità. Per imparare quest’arte d’esser poveri di spirito, arte che porta il Regno di
Dio, il regno dell’amore nell’anima secondo la promessa evangelica 392, si guarda a Gesù
Abbandonato:
“Nessuno è più povero di Lui: Egli, dopo aver perso quasi tutti i discepoli, dopo aver
donato la madre, dà anche la vita per noi e prova la terribile sensazione che il Padre
stesso lo abbandoni. Guardando Lui, si comprende come tutto va dato o posposto per
amore dei fratelli: vanno donate o posposte le cose della terra e anche – se occorre – in
certo modo, i beni del Cielo” 393.
2. Gesù abbandonato aiuta a ricomporre l’unità
Gesù Abbandonato è via all’unità con i fratelli anche perché aiuta a ricomporre l’unità,
allorquando essa viene infranta. L’amore reciproco vissuto nella comunità cristiana porta la
presenza del Risorto394 fra due o più con i suoi frutti caratteristici di gioia piena, pace, luce,
ardore, ma ecco che un atto di superbia, d’orgoglio, un moto d’egoismo possono infrangere
l’unità costruita. Allorquando il disagio invade l’anima perché “manca Lui che aveva reso
piena la nostra vita, colmato la nostra gioia”, il ricordo del nero abbandono in cui l’anima di
Gesù era piombata può essere di luce:
“… turbati ora nell’anima dalla piccola o grande disunità, consci di partecipare un po’ a
quella sua agonia, si va in fondo al cuore e si abbraccia il nostro dolore e poi … si corre
dal fratello a ricomporre la piena armonia. E Gesù torna fra noi e con Lui di nuovo la
forza e la felicità” 395.

390 Gv 15, 13. In un altro scritto della Lubich si legge: “Egli aveva insegnato che nessuno ha maggior
carità di colui che pone la vita per gli amici suoi. Egli, la Vita, poneva tutto di sé. Era il punto culmine,
la più bella espressione dell’amore. Amava da Dio! Con un amore grande come Dio” («Mistero
d’amore », in Gen 18 [1984], p. 3).
391 Ch. LUBICH, L'unità e Gesù Abbandonato, p. 104.
392 Cf. Mt 5,3.
393 Ch. LUBICH, L'unità e Gesù Abbandonato, p. 105.
394 Cf. Mt 18,20.Un aspetto molto forte del pensiero della Lubich, che non viene abbastanza in rilievo
nel libro che ci occupa è l'intima identità tra l'Abbandonato ed il Risorto; mi limito a riportare uno
stralcio di un articolo: « non si può separare la croce dalla gloria, non si può separare il Crocifisso dal
Risorto. Sono due aspetti dello stesso mistero di Dio che è Amore » (« Il Crocifisso-Risorto », in Città
Nuova 27(1983), 24, p. 8).
395 Ch. LUBICH, L'unità e Gesù Abbandonato, p. 108-109.

76
Gesù Abbandonato è quindi sempre la chiave di ogni unità ricomposta 396.
3. “Quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me”397
In tutti coloro che soffrono, la Lubich ha sempre scorto il Volto dell’Abbandonato, una
sua qualche sembianza398:
“Lo si vede negli afflitti, negli sconsolati, negli abbandonati, nei falliti, nei traditi, negli
emarginati, in chi subisce insuccessi o si trova in situazioni senza via d’uscita, nei
disorientati, in chi è senza difesa o è disperato o è sommerso dalla paura… Lo si vede
anche nel peccatore, perché Egli s’è fatto per noi peccato, maledizione. In tutti questi e
in tutti coloro che soffrono pene nell’anima e nel corpo, non è difficile ravvisare il suo
volto. E perché si vede il suo volto, lo si ama. Così la sua figura, che queste creature nel
dolore ricordano, è causa del nostro amore. Gesù Abbandonato è la via all’unità con
loro. Ed esse, poi, amate, il più delle volte amano a loro volta. Ed ecco ancora
l‘unità” 399.

4. I dialoghi
Chiara Lubich, fin dagli inizi, ha intravisto che il Movimento nascente aveva per scopo di
concorrere a realizzare il Testamento di Gesù nel mondo. La sua vita è scorsa alla ricerca delle
sembianze dell’Abbandonato nei mille volti di una umanità sofferente, smarrita, disunita 400. La
fondatrice dei Focolari ha individuato e realizzato, con una sensibilità profetica in anticipo sullo

396 La Lubich parla di Lui anche come medicina di ogni dolore dell’anima e sollievo di ogni dolore del
corpo (Il grido, p. 49).
397 Gv 12,32.
398 Ecco un altro stralcio dal libro, Il grido, che esprime in altre parole la stessa realtà:

«Ci attirava a sé, lo si scopriva in ogni dolore fisico, morale o spirituale: erano un'ombra del suo
grande dolore. Sì, perché Gesù abbandonato è la figura del muto: non sa più parlare, non sa che altro
dire: “et nescivi”: e non capivo (Sal 73 [72], 22).
È la figura del cieco: non vede; del sordo: non sente.
È lo stanco che si lamenta.
Sembra rasenti la disperazione.
È l'affamato… d'unione con Dio.
È figura dell'illuso, appare fallito, del tradito.
È pauroso, disorientato.
Gesù abbandonato è la tenebra, la malinconia, il contrasto, figura di tutto ciò che è strano, indefinibile,
che sa di mostruoso perché è un Dio che grida aiuto!… » (p. 43).
399 Ch. LUBICH, L'unità e Gesù Abbandonato, p. 110-111. Nel libro Il grido, la Lubich ribadisce questo
stesso concetto: «Lo vedevamo poi in ogni fratello sofferente. Allora, avvicinando quelli che a Lui
somigliavano, parlavamo loro di Gesù abbandonato. E a quanti si vedevano simili a Lui e accettavano di
condividere con Lui la sua sorte, ecco che Egli risultava: al muto la parola, a chi non sa, la risposta, al
cieco la luce, al sordo la voce, allo stanco il riposo, al disperato la speranza, all’affamato la sazietà,
all’illuso la realtà, al tradito la fedeltà, al fallito la vittoria, al pauroso l’ardimento, al triste la gioia,
all’incerto la sicurezza, allo strano la normalità, al solo l’incontro, al separato l’unità, all’inutile ciò che è
unicamente utile. Lo scartato si sentiva eletto. Gesù abbandonato era per l’inquieto la pace, per lo
sfollato la casa, per il radiato il ritrovo. Così, con Lui le persone si trasformavano e il non senso del
dolore acquistava senso. […] Gesù abbandonato l’abbiamo amato specialmente nei peccatori. Egli,
fattosi maledizione, peccato seppur non peccatore, per tutti noi, era il punto di contatto con chiunque
si chiama uomo. Egli è il piano inclinato per tutti gli uomini, anche i più miserevoli. […] E Gesù
abbandonato appariva veramente la perla preziosa per tutti gli uomini che, in fondo, sono tutti
peccatori» (p. 45-46).
400 A. PELLI, «L'apporto di un carisma …. II», p. 350.

77
stesso Vaticano II e poi all’unisono con esso401, i tre principali scopi dell’Opera di Maria,
attraverso tre grandi dialoghi 402: il dialogo con i fratelli cristiani di altre confessioni; il dialogo
con membri di altre religioni; il dialogo con i non-credenti, che la Lubich ama chiamare “amici
di convinzioni diverse”. Gesù, nel suo abbandono, è visto come la possibilità di ogni dialogo:
“Il divino eterno Dialogo fra Padre e Figlio nello Spirito Santo, che è la vita della
Santissima Trinità, non appariva forse sospeso, quando Gesù emise il grido, quando
sembrò che in Dio l’unità si spezzasse per poi ricomporsi? Era in Gesù abbandonato che
si riabbandona al Padre, quindi, la possibilità di ogni dialogo fecondo” 403.
Questi dialoghi hanno il loro fondamento nella vita evangelica, o in quei valori
profondamente umani che creano un consenso tra le persone delle più diverse convinzioni.
a. Il dialogo ecumenico
Fin dagli inizi degli anni sessanta, questo dialogo si è aperto con fratelli appartenenti ad altre
Chiese o Comunità ecclesiali404. Chiara Lubich ha l’intima convinzione che è stato per l’amore
a Gesù crocifisso e abbandonato che si è potuto costruire qualcosa in questo campo:
“… la sua figura sfigurata l’abbiamo sempre scorta nel mondo cristiano chiamato alla più
perfetta unità ed ora suddiviso in centinaia di Chiese. È per Lui, per il suo grido che
s’eleva da tanti traumi, divisioni, separazioni, che il Movimento si sente mobilitato a
lavorare per ricomporre l’unità nella Chiesa”405.
b. Il dialogo interreligioso.

401 Ibid., p. 351.


402 La Lubich, oltre ai tre summenzionati dialoghi, si è impegnata ad incrementare una profonda e viva
comunione con le varie forme associative e le diverse vocazioni in seno alla Chiesa cattolica,
intessendo rapporti di stima e di aiuto spirituale e concreto. Il Movimento ha collaborato e collabora,
su richiesta dei Vescovi, per l’organizzazione di grandi manifestazioni mondiali, come i Giubilei e le
Giornate per le famiglie e per i giovani. Il 30 maggio 1998, vigilia della Pentecoste, il Santo Padre,
Giovanni Paolo II, ha convocato i Movimenti ecclesiali e le nuove comunità, in piazza S.Pietro. È
stato un incontro storico. In risposta al desiderio del Papa, Chiara Lubich gli ha assicurato l’impegno
di contribuire a realizzare la comunione tra i Movimenti ecclesiali. Da allora si sono susseguiti vari
incontri tra i fondatori e responsabili di Movimenti e Nuove Comunità proprio allo scopo di
incrementare la comunione; ricordo particolarmente l’incontro tenutosi a Speyer in Germania il 7-8
giugno 1999, cui hanno partecipato 41 rappresentanti di Movimenti e Nuove Comunità da vari paesi
d’Europa.
403 Cf. Ch. LUBICH, Il grido, p. 88.
404 La Lubich racconta : « … durante il pontificato di Paolo VI, ho avuto l’avventura di conoscere e di
amare un Volto di Gesù abbandonato specialissimo, portatore non di dolore da abbracciare, ma
unicamente di intensissimo amore : quello che splendeva nel grande Athenagoras I, Patriarca Ecumenico
di Costantinopoli. La Provvidenza, infatti, ha voluto che mi trovassi ad essere tramite ufficioso fra lui
e il Santo padre Paolo VI; che conoscessi il suo pensiero, il suo struggente anelito all’unità della Chiesa
ortodossa con la nostra Chiesa, che diventassi per anni ambasciatrice del suo tenero, delicato amore per
il papa. Ed infine latrice delle risposte del papa a Lui. Athenagoras era un grande carismatico, il più
grande da me conosciuto al di là della Chiesa cattolica. E, come tale, anche un profeta, per cui vedeva
l’avvenire e soffriva che il presente fosse solo attesa. Mi diceva: “Giorno verrà…, il sole salirà alto, gli
angeli canterano e danzeranno e noi tutti, vescovi e patriarchi, attorno al papa, a celebrare nell’unico
calice” » (Il grido, p. 91-92). Per una breve panoramica del lavoro ecumenico della Lubich cf. J.
GALLAGHER, Chiara Lubich: dialogo e profezia, p. 130-144.
405 Ch. LUBICH, L'unità e Gesù Abbandonato, p. 116-117.

78
Per la diffusione mondiale del Movimento, si è venuti in contatto con fedeli di altre
religioni: ebrei, musulmani, buddisti, taoisti, sikhs, induisti, ecc. Con tutti si è trovato un motivo
d’aggancio406:
“Se agli ebrei ci unisce il patrimonio, senza prezzo, dell’Antico Testamento, ed i
musulmani trovano interessante – per il concetto che loro hanno della vita religiosa – il
nostro vivere la fede non solo come singoli, ma come comunità, con i fedeli delle
Religioni Orientali ci lega in modo speciale Gesù Abbandonato. Anche gli altri ne sono
incuriositi: abbiamo sentito più volte degli ebrei affermare – dopo aver conosciuto questo
culmine della Passione di Gesù -: « Allora, Egli era veramente Dio» 407. Ma sui fedeli
delle Religioni Orientali quel tipico dolore di Gesù, che l’ha portato all’annientamento
totale, suscita un fascino tutto particolare. Essi, infatti, spesso cercano quella «energia» -
così la chiamano – che a tutto sottostà, o Dio, che amano a volte come persona, attraverso
la mortificazione dei sensi e di ogni desiderio. Ed è ammirabile la loro ascetica, che li
porta tanto in alto da poter avere una certa percezione della vita soprannaturale cristiana,
quando incontrano cristiani autentici. È l’«essere», infatti, che ha valore per loro. E
quando qualcuno muore a se stesso per ‘farsi uno’ con loro e lascia con ciò vivere Cristo
in sé, o quando vengono a contatto col Risorto in mezzo a cristiani uniti, frutto anch’esso
dell’amore alla croce, sanno distinguere quella luce e quella pace, effetti dello Spirito, che
irradiano dal loro volto; ne sono attratti e chiedono spiegazione. Di qui il parlare della
nostra religione, il dialogo che diventa evangelizzazione” 408.
c. Il dialogo con il mondo ateo.
Si può affermare che esso è il primo dialogo nato in seno al Movimento, fin dagli anni
quaranta, per la consapevolezza che i più disgraziati, i più miseri non sono coloro che muoiono
di fame, ma coloro che hanno respinto Dio. Ciò ha spinto Chiara ad inviare focolarini nel blocco
comunista dell’Europa dell’Est fin dagli inizi degli anni sessanta, per esser messaggeri
dell’amore di Dio, in un mondo in cui si è cercato per decenni di bandire il nome di Dio dal
cuore degli uomini. Il libro si conclude con il richiamo ad amare, ad amare tutti gli uomini, a
vivere in sorta che tutti conoscano cos’è l’amore e si amino a vicenda come Gesù desidera.
Ecco l’anelito profondo che anima la Lubich:
“vivere all’unisono con la Chiesa attuale e poter perseguire con essa il suo scopo di
oggi e di sempre: attuare il Testamento di Gesù: «Che tutti siano uno»” 409.

E. Bilancio e conclusione
Il carisma di Chiara Lubich, di cui in queste pagine si è cercato di evidenziare i due
cardini fondamentali, Gesù abbandonato e l’unità, porta in sé un’intuizione fondamentale: il
mistero dell’abbandono di Cristo in croce, visto come il momento culmine410 della vita e della

406 La Lubich vede possibile il dialogo con le altre religioni, soprattutto perché, in queste altre fedi, si
possono cogliere i semi del Verbo, come ad esempio la cosiddetta regola d’oro, comune a tutte le
principali religioni. Cf. ID., Il grido, p. 90.
407 Cf. Mc 15, 39.
408 Ch. LUBICH, L'unità e Gesù Abbandonato, p. 117-118.
409 Ibid., p. 119. Si ritrova lo stesso anelito nel libro, Il grido, in cui l'autrice così si esprime: “E quale il
mio ultimo desiderio ora e per ora? Vorrei che l'Opera di Maria, alla fine dei tempi, quando, compatta,
sarà in attesa di apparire davanti a Gesù abbandonato-risorto, possa ripetergli - facendo sue le parole
che sempre mi commuovono del teologo belga Jaques Leclercq: «… il tuo giorno, mio Dio, io verrò
verso di Te… Verrò verso di Te, mio Dio (…) e con il mio sogno più folle: portarti il mondo fra le
braccia » Padre, che tutti siano uno!” (p. 129-130).
410 In un testo inedito, la Lubich afferma : « Mai Gesù è Parola più viva di quando là in croce gridò :
“Dio mio, Dio mio…”. Là parla l'Amore, esprime l'Amore, l'Amore che è Dio. Gesù abbandonato ci
79
missione di Gesù, costituisce il ponte, la chiave che realizza l’unità degli uomini con Dio,
rendendoli partecipi dell’Amore uni-trinitario, e che rende capace ogni uomo di buona volontà
di costruire, in Cristo, l’unità della famiglia umana. Non si tratta, come si è accennato
nell’introduzione di un approccio speculativo del tema, ma di un’illuminazione dello Spirito
Santo che ha generato una spiritualità 411, una vita evangelica, che contiene in sé, seppur in
germe, una dottrina 412. La Lubich esprime del resto la consapevolezza, che da sempre l’ha
accompagnata, della presenza di “una luce” nella sua vita. La dottrina spirituale della Lubich
poggia quindi su due pilastri, che sono due aspetti del “libro di luce” che il Signore ha scritto
nella sua anima e nella sua vita: la “pagina lucente di misterioso amore”: l’unità, culmine e
sintesi dell’insegnamento di Cristo; la “pagina luminosa di misterioso dolore”: Gesù
abbandonato, culmine e sintesi dei suoi dolori. Questi due aspetti sono nel pensiero della
Lubich inscindibili l’uno dall’altro, sono le due facce di uno stesso mistero che racchiude in
sé una “straordinaria densità esistenziale e dottrinale” 413.
1. L’unità è Gesù
Nel pensiero della Lubich, il concetto di unità è un crescendo continu o fino
all’identificazione con lo stesso Gesù. L’unità è la chiamata a concorrere alla realizzazione
del Testamento di Gesù “che tutti siano uno” 414. L’unità è tendere costantemente alla
fratellanza universale in un solo Padre. L’unità è lo scopo stesso della venuta di Cristo fra gli
uomini, della sua morte e della sua risurrezione. L’unità è Gesù, cioè quella particolare
presenza del Risorto fra i suoi secondo la sua stessa promessa “io sono con voi tutti i giorni
fino alla fine del mondo” e “dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a
loro” 415, presenza ineffabile che scaturisce dalla realizzazione del comandamento per
eccellenza lasciatoci dal Cristo, alla veglia della passione: “questo è il mio comandamento:
che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati”416. La misura di questo amore è il “dare la

era apparso come la Parola per eccellenza, la Parola tutta spiegata, la Parola aperta completamente».
Questo stralcio è riportato nell'articolo di Fabio CIARDI, «Ogni parola di vita contiene il Verbo», in
Nuova Umanità XVIII/5 (1996), p. 533.
411 Chiara Lubich, in un suo articolo così si esprime a proposito: «Dal cuore squarciato di Gesù
Abbandonato è sgorgata quella spiritualità particolare-universale (come il suo dolore è uno dei tanti
della passione, ma tutti li riassume) che genera l'unità. Quella spiritualità che ci insegna ad essere uno
con Dio e fra noi, come Gesù è uno col Padre; quella spiritualità che, vissuta dal singolo, accresce la
sua unione con Dio e, vissuta da più, stabilisce la sua presenza in mezzo a loro; quella spiritualità
sociale che tanto si addice al giorno d'oggi, perché epoca della socialità, la quale - portando Cristo
nelle case, nelle fabbriche, nelle scuole, negli ospedali, nelle parrocchie, nei congressi - consolida la
fede vacillante, fa sprigionare dalle coscienze turbate la voce di Dio, toglie ai dogmi la loro rigidezza
(perché li comprende di più e li ama), avvicina l'uomo a Dio perché Dio s'avvicini di più a lui»
(«Maestro d'unità», in Gen 18 [1984], p. 5, cit. in A. PELLI, «L'apporto di un carisma … I», p. 138).
412 L'originale e rilevante contributo di vita e di pensiero della Lubich è stato più volte riconosciuto da
Paolo VI e da Giovanni Paolo II, che - in occasione della sua visita al Centro Internazionale dei
Focolari il 19 agosto 1984 - ha collocato fra i «tanti radicalismi dell'amore », che, scaturiti dal «
supremo radicalismo di Cristo Gesù », hanno costellato la storia della Chiesa - come quelli di san
Francesco, di sant'Ignazio di Loyola, di Charles de Foucauld - il « radicalismo evangelico dell'amore di
Chiara ». Cf. «Al Movimento dei Focolari: colmate il vuoto d'amore del mondo», in Insegnamenti di
Giovanni Paolo II, VII/2 (1984), p. 223-225, cit. in A. PELLI, L'abbandono di Gesù e il mistero del Dio Uno e
trino…, p. 250.
413 Cf. A. PELLI, «L'apporto di un carisma …. II», p. 352.
414 Gv 17,21.
415 Mt 28,20; 18,20.
416 Gv 15,12.

80
vita per i propri amici”417 e la virtù necessaria a realizzare l’unità è l’umiltà più eroica,
l’annullamento totale di sé. L’unità si realizza lasciando vivere Cristo in noi 418 e realizzando il
suo comandamento di amarci reciprocamente.
2. Gesù abbandonato, modello per realizzare l’unità
La Lubich afferma che, contemporaneamente all’intuizione della chiamata all’unità, lo
Spirito Santo le ha anche mostrato il modello, la figura per poterla realizzare: l’unità è stata
pagata da Gesù, tramite la sua croce, il suo sangue, il suo grido d’abbandono. L’abbandono di
Gesù in croce è contemplato come vertice dell’amore di Gesù perché culmine del suo dolore:
nel dolore del Cristo abbandonato si scorge la più alta espressione dell’amore, l’amore
totalmente dispiegato. Gesù abbandonato viene inoltre contemplato come il segreto per
raggiungere la santità, come la perla preziosa offerta da Dio agli uomini.
3. Gesù abbandonato, chiave dell’unità degli uomini con Dio
Gesù abbandonato è quindi il segreto, la garanzia, la chiave per attuare la preghiera, il
testamento di Gesù: Colui che la Lubich vede come il grande Potato è la via obbligata 419
all’unità. L’amore al Cristo abbandonato, di cui si scorge il Volto in ogni dolore, in ogni
prossimo, in ogni circostanza, riempie l’anima di gaudio: “solo chi passa per il gelo del
dolore, arriva all’incendio dell’amore” 420. Il dolore del Crocifisso, che culmina
nell’abbandono, ci ha ottenuto la redenzione, la santificazione, la deificazione. In un altro
scritto del 1949, la Lubich evidenzia il motivo più profondo della morte del Cristo, la nostra
salvezza:
“Padre, Gesù, Maria, noi. Il Padre permise che Gesù si sentisse abbandonato da Lui per
noi. Gesù accettò l’abbandono del Padre e si privò della Madre per noi. Maria condivise
l’abbandono di Gesù e accettò la privazione del Figlio per noi. Noi dunque siamo messi
al primo posto. È l’amore che fa queste pazzie” 421.
Il Cristo muore abbandonato, percorrendo e misurando tutto il peso dell’infinita
distanza scavata dal peccato tra l’uomo e Dio per annullare con l’infinito dono di sé ogni
peccato e per riaprire all’uomo la comunione con Dio 422. Il Verbo, facendosi in Gesù
nostro fratello, ci ha fatti partecipi della sua Divinità, ci ha resi per il suo Amore simili a

417 Gv 15,13.
418 Cf. Gal 2,20; Fil 1,21; 2 Cor 4,10.
419 H. BLAUMEISER, ha approfondito questo aspetto del pensiero di Chiara Lubich che concerne il ruolo
di mediatore del Cristo : Egli che è Tutto si fa nulla per amore, ricongiungendo, senza diaframma
alcuno, Dio e l’umanità («Un mediatore che è nulla: prospettive teologiche alla luce di alcuni scritti di
Chiara Lubich», Nuova Umanità XX/3-4 [1998], 385-407).
420 Ch. LUBICH, Scritti spirituali/1. L’attrattiva del tempo moderno, 4a ed., Roma, 1997, p. 233. Nel pensiero
della Lubich è presentissimo il tema della fecondità del dolore, che porta all’unione con Dio; nello
stesso libro, si legge:
«Non è tanto vero che colui che ama la croce, perché Cristo gliel’ha comandato, trovi il dolore. Colui
che si butta generosamente fra le sue dure braccia trova piuttosto l’amore, trova Dio» (p. 132).
«Una croce nuda, vette tempestose, bufere… Ma se tutto questo è amato come unico tutto, di là
troveremo un sole senza tramonto: Dio amore che ci ha chiamati, prediligendoci» (p. 141).
«“Beati voi che ora piangerete…”. Non amiamo il dolore soltanto quando altro non possiamo fare
perché esso ci visita, ma preferiamolo sempre per arrivare all’unione divina. “… Perché riderete” » (p.
235).
421 ID., Scritti spirituali/4. Dio è vicino, 2a ed., Roma, 1995, p. 204.
422 Cf. A. PELLI, «L'apporto di un carisma … I», p. 150.

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Lui423 in tal modo che possiamo dire di essere – e lo siamo realmente - figli di Dio, cui
possiamo dire: “Abbà, Padre”424.
4. Gesù abbandonato, chiave dell’unità con i fratelli
Con la croce, Gesù ci ha mostrato la misura dell’amore: dare la vita per i propri amici. Per
la Lubich, la morte in croce che culmina nell’abbandono è l’altissima, divina ed eroica lezione
su cosa sia l’amore. Amare il prossimo richiede un atteggiamento di servizio che la Lubich
definisce “farsi uno”, che richiede una grande povertà di spirito, il cui modello è ravvisato
ancora una volta nell’Abbandonato, che dopo averci donato la madre, dà per noi anche la sua
vita, fino alla prova suprema, l’abbandono del Padre. Gesù abbandonato è visto come la
chiave di ogni unità ricomposta e, in ogni uomo che soffre la Lubich ha sempre scorto un
Volto di Lui. L’amore per l’Abbandonato ha spinto la Lubich ad andare lì dove la disunità ha
provocato divisioni o scissioni, dando così origine ai grandi dialoghi, in una visione profetica
che ha precorso il Vaticano II: il dialogo ecumenico, il dialogo interreligioso, il dialogo con il
mondo ateo.
5. Gesù abbandonato svela l’amore del Padre
Nel pensiero della Lubich, Gesù abbandonato si manifesta come porta d’accesso al
mistero di Dio. Questo aspetto però non appare esplicitamente, nel libro che ci ha interessati
in queste pagine, bisogna ricorrere ad altri scritti per evidenziarlo. Abbiamo già visto come
l’abbandono è contemplato come vertice dell’amore di Gesù per gli uomini: nell’abbandono
Gesù si dà totalmente divenendo così espressione dell’indicibile amore del Padre per gli
uomini:
“Gesù sulla terra… Gesù nostro fratello… Gesù che muore fra ladri per noi: Lui, il
Figlio di Dio, accomunato con gli altri. […]
Se sei venuto fra noi è perché la nostra debolezza ti ha attirato, la nostra miseria ti ha
ferito a compassione.
Certo non c’è madre o padre terreno che attendano un figlio perduto e facciano ogni
cosa per il suo ritorno come il Padre celeste” 425.
Nel libro Il grido, la Lubich evidenzia come l’abbandono di Gesù, che ci disvela il mistero
del suo amore che opera la salvezza degli uomini 426, è da capirsi alla luce della sua intima
unione con Dio, cui Egli si rivolge col nome di Abbà:
“Il dolore dell'abbandono di Gesù da parte del Padre, mistero dell'amore di Gesù per gli
uomini, così intenso, così acuto, incominciava a penetrarci, a farsi un po’ conoscere, ad
attrarci, a farsi amare. Era bello questo Uomo-Dio ridotto per amore a cencio, a vergogna,
‘al nulla’, secondo il detto del salmista: ‘Ad nihilum redactus sum…’ (Sal 73 [72], 22
Vulg.), estromesso dalla terra e dal cielo, per introdurci nel Regno, coeredi con Lui, pieni
della sua luce, del suo amore, della sua potenza, ricolmi di dignità, altissimi.

423 Ch. LUBICH, Scritti spirituali/1, p. 65.


424 Cf. Rm 8,15.
425 Ch. LUBICH, Scritti spirituali/1, 4a ed., Roma, 1997, p. 54-55.
426 Quest’idea è altrove così precisata dall’autrice: «Gesù abbandonato non sembra operare, non ha
miracoli da compiere, né discorsi da fare. Ha il suo corpo e la sua anima per soffrire con noi tutti
lontani da Dio, e perciò per amare. Egli lì non parlava d’amore; era l’Amore che nascondeva la sua
divinità per essere come noi miserabili. E proprio lì ha compiuto il suo più grande miracolo, la sua più
grande opera: la salvezza del’umanità intera. Proprio lì ha fatto la sua più eloquente predica» (In
cammino col Risorto, Roma, 1987, p. 56).
82
Aveva dato tutto. Una vita accanto a Maria nei disagi e nell'obbedienza. Tre anni di
predicazione rivelando la Verità, testimoniando il Padre, promettendo lo Spirito Santo e
facendo ogni sorta di miracoli d'amore. Tre ore di croce, dalla quale ha dato il perdono ai
carnefici, ha aperto il Paradiso al ladrone, ha donato a noi la Madre e, finalmente, il suo
Corpo ed il suo Sangue, dopo averceli dati misticamente nell'Eucaristia.
Gli rimaneva la divinità. La sua unione col Padre, la dolcissima e ineffabile unione con
Lui, che l'aveva fatto tanto potente in terra, quale Figlio di Dio, e tanto regale in croce,
questo sentimento della presenza di Dio doveva scendere nel fondo della sua anima, non
farsi più sentire, disunirlo in qualche modo da Colui col Quale aveva detto di essere uno:
‘Io e il Padre siamo una cosa sola’ (Gv 10,13). L'amore in Lui era annientato, la luce
spenta, la sapienza taceva”427.
È la prova dell’annichilimento totale del Figlio, che manifesta la totale obbedienza al Padre.
La Lubich parla di un abbandono reale per l’umanità di Gesù, perché Dio la lascia nel suo stato
senza intervenire e di un “abbandono irreale per la sua divinità, perché Gesù, essendo Dio, è
Uno col Padre e con lo Spirito Santo e non può dividersi; semmai può distinguersi. Ma questo
non è più dolore: è amore”. L’abbandono è visto dalla Lubich come un’operazione di
distinzione che il Padre opera verso Gesù: “sussulto di nuova gioia in Dio-Amore sempre
nuovo. Grido di infinito dolore nell’umanità del Cristo: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?»” 428. L’abbandono è visto come “il vertice della spoliazione esteriore, ma
soprattutto interiore” 429 dell’Uomo-Dio che apre l’accesso alla più intima realtà di Dio che è
Amore430. L’abbandono del Cristo è per la Lubich rivelazione dell’amore trinitario, esso “si
manifesta come la chiave interpretativa per eccellenza del mistero di Dio rivelato nella
storia”431.
Il mistero pasquale sta a testimoniare che “Gesù è vita che vince la morte, luce che rompe le
tenebre, pienezza che annulla il vuoto” 432. Per il dono dello Spirito Santo effuso dalla croce di
Cristo, all’uomo è dato di partecipare a questa dinamica di morte-vita, tenebre-luce, di rivivere
in sé lo stesso mistero del Crocifisso-Risorto, fino a partecipare – come è possibile già da questa
terra - alla vita di ineffabile unità tra il Padre e il Figlio nello Spirito 433.

427 ID., Il grido, p. 37-38.


428 Ibid., p. 19-20.
429 Statuti dell’Opera di Maria, parte I, cap. I, art. 10, Roma, 1962.
430 Cf. A. PELLI, «L'apporto di un carisma …I», p. 153.
431 A. PELLI, «L'apporto di un carisma … II », p. 339.
432 Ch. LUBICH, Scritti spirituali/1, p. 98.
433 Cf. A. PELLI, «L'apporto di un carisma … II », p. 341.

83
Capitolo V

Il grido d’abbandono nell’insegnamento di Giovannni Paolo II

A. Introduzione
L’intento di questo capitolo è quello di scrutare, nell’insegnamento di Giovanni Paolo
II434, alcune piste di riflessione sul grido d’abbandono offerte dal Pontefice. La nostra
attenzione verterà su due lettere apostoliche del Santo Padre: la Salvifici doloris, sul senso
cristiano della sofferenza umana, scritta dal Pontefice nel febbraio del 1984 in occasione
dell’Anno della Redenzione, e la Novo millennio ineunte, pubblicata al termine del grande
giubileo del 2000, nella solennità dell’Epifania del 2001.

B. Salvifici doloris
La lettera apostolica Salvifici doloris è il primo documento del Magistero a trattare, in
modo tematico ed organico, del problema della sofferenza, argomento che ha avuto tanta parte
nel pensiero e nella tradizione della Chiesa e che è stato affrontato da molti pontefici. Una
trattazione organica del tema fu richiesta al Papa alla fine del XVI Congresso Mondiale delle
Associazioni dei Medici Cattolici 435, tenutosi a Roma nell’ottobre del 1982. In risposta a tale
richiesta, nella ricorrenza liturgica della Madonna di Lourdes, l’11 febbraio 1984, il Santo
Padre rese pubblica la lettera apostolica Salvifici doloris con l’intento di vivere quell’anno
dedicato alla Redenzione436, “in speciale unione con tutti coloro che soffrono” 437. La mia
attenzione si soffermerà particolarmente su tre capitoli della lettera apostolica, che toccano il
tema che ci interessa: il terzo capitolo, che cerca di dare una risposta all’interrogativo sul
senso della sofferenza, il quarto che si sofferma sulla figura di Gesù Cristo, in cui la
sofferenza è vinta dall’amore, il quinto che prende in analisi la sofferenza umana, resa
partecipe, grazie alla Redenzione, delle sofferenze di Cristo.

434 Ritengo superfluo dare delle informazioni biografiche concernenti la vita e l’opera di Giovanni Paolo
II, mi limito ad indicare tre libri che possono dare al lettore ampie informazioni sia biografiche, sia
concernenti il pensiero del Santo Padre : Bernard BALAYN, Jean-Paul II le Grand, prophète du III millénaire,
Hauteville (Suisse), 2000, contenente una ricca tavola cronologica dei vari avvenimenti della vita del
Pontefice e degli eventi ecclesiali dei suoi ventidue anni di pontificato; Rocco BUTTIGLIONE, Il pensiero
dell’uomo che divenne Giovanni Paolo II, Milano, 1998 ; André FROSSARD, Portrait de Jean-Paul II, Paris,
1988.
435 Nella mozione finale del Congresso infatti si legge: “… consapevoli che malattia e sofferenza sono
condizioni che non negano l'uomo ma che in lui manifestano «le opere di Dio», si osa chiedere al
Santo Padre una Enciclica o altro suo documento sulla malattia e la sofferenza nella vita dell'uomo,
con indicazioni e riflessioni: storica, teologica, pastorale e sociale, a dimostrazione della loro valenza
nella vita dei singoli e dei popoli”. Questo stralcio è citato da Salvino LEONE, nel suo libro Oltre il
dolore: la qualità della vita alla luce di una rinnovata teologia della sofferenza, Palermo, 1992, nota 2, p. 83.
L'autore presenta sinteticamente le linee generali della lettera, rintracciabili in un modello di
«circolarità ermeneutica» che ha il suo punto di partenza nella sofferenza umana e ad essa ritorna,
dopo un fruttuoso percorso. Le varie tappe di questo itinerario si possono così schematizzare:
sofferenza umana, il perché della sofferenza, la risposta in Gesù Cristo, partecipi delle sofferenze di
Cristo, Vangelo della sofferenza, Buon samaritano, sofferenza umana (cf. p. 84-84).
436 Nel 1984, il pontefice aveva indetto l’Anno della Redenzione come giubileo straordinario della
Chiesa.
437 Salvifici doloris, n. 31.

84
1. Il perché della sofferenza
Giovanni Paolo II, con questo documento che è un vero trattato teologico, biblico,
catechetico e umano della sofferenza umana 438, si propone di penetrarne “il senso
salvifico” 439. La sofferenza, afferma il Pontefice, sembra appartenere alla trascendenza
dell’uomo, sembra contenere la grandezza di uno specifico mistero440. Dopo aver operato una
distinzione tra sofferenza fisica, come dolore del corpo e sofferenza morale come dolore
dell’anima 441, il Santo Padre si rivolge alla Sacra Scrittura, che definisce come il grande libro
sulla sofferenza 442, per scrutare tale mistero particolarmente nell’esperienza di Giobbe, che
pone il problema della sofferenza dell’uomo innocente 443. Il libro di Giobbe, che è in un certo
modo un annuncio della passione di Cristo 444, “pone in modo acuto il «perché» della
sofferenza”, soprattutto allorquando essa colpisce anche l’innocente; ma in esso non viene
data “la soluzione al problema”445.
Per trovare la vera risposta al perché della sofferenza, Il Pontefice volge poi lo sguardo
“verso la rivelazione dell’amore divino”, verso il Cristo che “ci fa entrare nel mistero e ci fa
scoprire il «perché» della sofferenza”. La risposta a tale interrogativo “è stata data da Dio
all’uomo nella Croce di Gesù Cristo” 446. La lettera ci fa quindi entrare nel mistero del dolore
redentore del Cristo, nella sua missione di riscatto dell’umanità. In Gesù, per la sua passione,
morte e resurrezione, la sofferenza è vinta dall’amore, ed essendo stata legata all’amore, essa
entra in una dimensione completamente nuova, per cui ogni uomo può diventare partecipe
della sofferenza redentiva di Cristo.
2. Gesù Cristo: la sofferenza vinta dall’amore 447
a. L’amore salvifico
Secondo le parole rivolte da Gesù a Nicodemo 448, l’evangelista Giovanni ci introduce nel
centro dell’azione salvifica di Dio, che ha dato il suo Figlio al mondo per liberare l’uomo dal
male, dalla sofferenza, dalla morte. In ciò si manifesta l’amore infinito sia del Padre sia del
Figlio, che è amore che salva.
Giovanni Paolo II fa notare che ci troviamo qui in una dimensione completamente nuova
del tema trattato: la dimensione della Redenzione. Precedentemente si era cercata una risposta
chiudendo la ricerca del significato della sofferenza entro i limiti della giustizia, invece le
parole di Gesù a Nicodemo riguardano la sofferenza nel suo senso fondamentale e definitivo:
“Dio dà il suo Figlio unigenito, affinché l’uomo «non muoia», e il significato di questo «non
muoia» viene precisato accuratamente dalle parole successive: «ma abbia la vita eterna»” 449.

438 Cf. Bernard BALAYN, Jean-Paul II le Grand , p. 538.


439 Salvifici doloris, n. 1.
440 Ibid., n. 4.
441 Ibid., n. 5.
442 Ibid., n. 6.
443 Ibid., n 11.
444 Ibid., n. 11.
445 Ibid., n. 12.
446 Ibid., n. 13.
447 Ibid., n. 14-18.
448 Cf. Gv 3,16.
449 Ibid., n. 14.

85
In ciò consiste la missione del Figlio: vincere il peccato con la sua obbedienza fino alla morte
e vincere la morte con la sua risurrezione.
b. Cristo ha assunto su di sé la sofferenza umana
Nella sua attività messianica, Gesù “si è avvicinato incessantemente al mondo dell’umana
sofferenza”, guarendo gli ammalati, consolando gli afflitti, liberando gli uomini da ogni sorta
di male; ma ancora più Egli ha assunto questa sofferenza su di sé. Cristo è consapevole delle
sofferenze e della morte che lo attendono e, nella piena coscienza che ha da compiere proprio
così la sua missione, va incontro alla sua passione e morte. È per mezzo della croce che Cristo
compie l’opera della salvezza; Gesù si incammina verso la propria sofferenza, consapevole
della sua forza salvifica, in obbedienza al Padre e unito a lui nell’infinito amore verso l’uomo.
c. L’Uomo dei dolori
La passione di Cristo è illustrata dal Santo Padre alla luce del quarto carme del Servo di
Jahvé, che descrive in modo espressivo e toccante l’Uomo dei dolori 450. Colpisce
particolarmente la profondità del sacrificio di Cristo, che pur innocente, si addossa le
sofferenze di tutti gli uomini, proprio perché prende su di sé i peccati di tutti. Il peccato
dell’uomo, in tutta la sua estensione e profondità, è la vera causa della sofferenza del
Redentore che è sofferenza sostitutiva, ma soprattutto redentiva. L’Uomo dei dolori descritto
da Isaia è veramente quell’«agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo»451:
“Nella sua sofferenza i peccati vengono cancellati proprio perché egli solo come Figlio
unigenito poté prenderli su di sé, assumerli con quell’amore verso il Padre che supera
il male di ogni peccato; in un certo senso annienta questo male nello spazio spirituale
dei rapporti tra Dio e l’umanità, e riempie questo spazio di bene”.
Appare qui “la dualità di natura dell’unico soggetto personale della sofferenza redentiva ”.
La lettera continua sottolineando alcuni aspetti di tale mistero:
1) Colui che con la sua passione e morte sulla croce opera la Redenzione, è il Figlio
unigenito che il Padre ha dato al mondo;
2) Il Figlio consostanziale al Padre soffre come uomo: la sua sofferenza ha dimensioni
umane che raggiungono però una profondità ed un’intensità, uniche ed
incomparabili nella storia dell’umanità, proprio perché l’Uomo che soffre è in
persona lo stesso Figlio unigenito;
3) Soltanto il Figlio unigenito, dunque, è capace di abbracciare la misura del male
contenuta nel peccato dell’uomo “secondo le dimensioni dell’esistenza dell’umanità
sulla terra”452.
d. La sofferenza di Gesù al Getsemani e al Golgota
In questi due luoghi, si è adempiuto il Carme del Servo sofferente, che si addossa quelle
sofferenze in modo del tutto volontario 453. Cristo, innocente, soffre volontariamente,
accogliendo con la sua sofferenza quell’interrogativo espresso in modo radicale da Giobbe.
Egli porta con sé la stessa domanda, ma al tempo stesso porta anche “il massimo della
possibile risposta a questo interrogativo”, e ciò non soltanto col suo insegnamento, ma prima

450 Segue la citazione dei versetti di Is 53, 2-6.


451 Cf. Gv 1,29.
452 Salvifici doloris, n. 17.
453 La lettera continua riportando il seguito del carme, Is 53,7-9.

86
di tutto con la sua sofferenza. La parola della Croce 454 “è l’ultima, sintetica parola”
dell’insegnamento di Cristo.
Le parole di Gesù al Getsemani sull’accettazione della volontà del Padre provano la verità
dell’amore, che il Figlio dà al Padre nella sua obbedienza, e attestano la verità della sofferenza
e la sua incomparabile profondità ed intensità, che si rivelano “davanti agli occhi dell’anima
di Cristo”455.
Anche le parole del Golgota testimoniano questa profondità della sofferenza, unica nella
storia del mondo. Riporto qui integralmente il testo del Pontefice sul grido d’abbandono:
“Quando Cristo dice: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», le sue parole
non sono solo espressione di quell’abbandono che più volte di faceva sentire
nell’Antico Testamento, specialmente nei Salmi e, in particolare, in quel Salmo 22
[21], dal quale provengono le parole citate 456. Si può dire che queste parole
sull’abbandono nascono sul piano dell’inseparabile unione del Figlio col Padre, e
nascono perché il Padre «fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti» 457 e sulla traccia
di ciò che dirà San Paolo: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da
peccato in nostro favore» 458. Insieme con questo orribile peso, misurando «l’intero»
male di voltare le spalle a Dio, contenuto nel peccato, Cristo, mediante la divina
profondità dell’unione filiale col Padre, percepisce in modo umanamente
inesprimibile questa sofferenza che è il distacco, la ripulsa del Padre, la rottura con
Dio. Ma proprio mediante tale sofferenza egli compie la Redenzione, e può dire
spirando: «Tutto è compiuto» 459.
Si può anche dire che si è adempiuta la Scrittura, che sono state definitivamente
attuate nella realtà le parole di detto Carme del Servo sofferente: «Al Signore è
piaciuto prostrarlo con i dolori» 460. L’umana sofferenza ha raggiunto il suo culmine
nella passione di Cristo. E contemporaneamente essa è entrata in una dimensione
completamente nuova e in un nuovo ordine: è stata legata all’amore, a quell’amore
del quale Cristo parlava a Nicodemo, a quell’amore che crea il bene ricavandolo
anche dal male, ricavandolo per mezzo della sofferenza, così come il bene supremo
della redenzione del mondo è stato tratto dalla croce di Cristo, e costantemente prende
da essa il suo avvio. La Croce di Cristo è diventata una sorgente, dalla quale sgorgano
fiumi d’acqua viva 461”.
Quattro elementi emergono da questo bellissimo stralcio della Salvifici doloris:
1) le parole d’abbandono di Gesù nascono sul piano dell’inseparabile unione del Figlio
col Padre, perché il Padre ha fatto ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti, secondo la
profezia del Servo sofferente;
2) oppresso dal peso del peccato del mondo, Cristo, mediante la divina profondità
dell’unione filiale, percepisce in un modo umanamente inesprimibile, la sofferenza del
distacco dal Padre, la rottura con Dio;
3) proprio mediante l’abbandono, Cristo compie la Redenzione;
4) di conseguenza, la sofferenza umana che ha raggiunto il suo culmine nella passione di
Cristo, è entrata in una dimensione nuova, è stata legata da Cristo a quell’amore

454 Cf. 1 Cor 1,18.


455 Salvifici doloris, n. 18.
456 Sal 22 [21],2.
457 Is 53,6.
458 2 Cor 5,21.
459 Gv 19,30.
460 Is 53,10.
461 Cf. Gv 7, 37-38. Salvifici doloris, n. 18.

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capace di trarre il bene dal male; la croce di Cristo è diventata sorgente da cui
sgorgano fiumi d’acqua viva.
3. Partecipi delle sofferenze di Cristo
I versetti successivi del Carme del Servo sofferente462 gettano una luce sulla sofferenza
umana, che, con e per la passione di Cristo, viene a trovarsi in una nuova situazione. Nella
Croce di Cristo non solo si è compiuta la redenzione, ma la stessa sofferenza umana è stata
redenta 463. Infatti, avendo Cristo operato la Redenzione tramite la sofferenza, il dolore di ogni
uomo è stato elevato da Cristo a livello di redenzione, per cui ogni uomo “ha una sua
partecipazione alla redenzione”, ciascuno di noi è “chiamato a partecipare a quella
sofferenza, mediante la quale si è compiuta la redenzione” Ogni uomo, nella sua sofferenza,
può diventare partecipe della sofferenza redentiva di Cristo 464.
4. L’eloquenza della Croce e l’eloquenza della risurrezione
Il Pontefice afferma che l’eloquenza della Croce e della morte viene completata con
l’eloquenza della resurrezione, in cui l’uomo trova “una luce completamente nuova che lo
aiuta a farsi strada attraverso il fitto buio delle umiliazioni, dei dubbi, della disperazione e
della persecuzione”465. Il mistero della passione è dunque racchiuso nel mistero della
risurrezione, che ha, infatti, rivelato la gloria di Cristo, completamente offuscata, nella Croce,
dall’immensità della sofferenza. La Risurrezione, che è, prima di tutto, ma nifestazione della
gloria di Cristo, mette in evidenza due aspetti inscindibili della Croce: lo spogliamento di
Cristo agli occhi degli uomini, la sua elevazione agli occhi di Dio. Sulla croce, Gesù realizza
in pienezza tutta la sua missione: nella debolezza si è manifestata la sua potenza e
nell’umiliazione la sua grandezza messianica 466.

C. Novo Milennio ineunte


Il giorno della chiusura del grande Giubileo del 2000, il 6 gennaio 2001 - nella solennità
dell’Epifania - Giovanni Paolo II, dopo aver chiuso la porta santa della basilica di San Pietro,
ha firmato pubblicamente la sua ultima lettera apostolica, Novo Millennio Ineunte. La lettera
apostolica, indirizzata a vescovi, sacerdoti, diaconi, religiosi e religiose e a tutti i fedeli laici,
si divide, sotto il profilo tematico, in tre parti. La prima ricorda i momenti più importanti del
Giubileo appena concluso; nella seconda, il Santo Padre invita il popolo cristiano a
contemplare sempre il volto di Cristo; nella terza, sono trattati i problemi e le sfide che la
Chiesa deve affrontare alle soglie del nuovo millennio per far risplendere anche davanti alle
generazioni future il volto di Cristo 467. Nella parte centrale della lettera, dedicata alla
contemplazione del volto di Cristo, il Santo Padre accenna nuovamente al mistero del grido
d’abbandono di Gesù. La mia attenzione verterà particolarmente su questa seconda parte della

462 Is, 53,10-12.


463 Il Santo Padre cita successivamente gli apostoli Pietro e Paolo che parlano del prezzo della Nuova
Alleanza stipulata nel sangue di Cristo. Cf. 1 Pt 1,18-19.; Gal 1,4; 1 Cor 6,20.
464 Salvifici doloris, n. 19.
465 Ibid., n. 20.
466 Ibid., n. 22.
467 Cf. l'editoriale «Concluso il Giubileo, la Chiesa “riparte da Cristo”, la lettera apostolica “Novo
millennio ineunte”» della rivista La Civiltà Cattolica, n° 3614 del 20 gennaio 2001, 123-135.
88
lettera apostolica, evidenziandone le linee generali e soffermandoci particolarmente ai
paragrafi che trattano il tema del “Volto dolente” 468.
1. Un volto da contemplare469
Nella lettera, il Pontefice sottolinea il compito primordiale della Chiesa: riflettere la luce
di Cristo, in ogni epoca della storia; per far ciò, ogni cristiano è chiamato ad essere
contemplatore del suo volto. Dai Vangeli emerge “con sicuro fondamento storico” il volto del
Nazareno470, ma solo la fede può aiutarci a varcare il mistero di quel volto e permetterci di
raggiungerne la profondità, per confessare con Pietro: “Tu sei il Cristo, il figlio del Dio
vivente”471.
2. La profondità del mistero 472
La profondità del mistero offertaci da tale Volto sta nell’identità stessa di Cristo che
consta “nell’unione intima e indissociabile” di due polarità: “il Verbo e la carne, la gloria e la
sua tenda tra gli uomini”473. Il Pontefice accenna qui all’insondabile mistero
dell’Incarnazione: “Il Verbo si è fatto carne”. Con questa affermazione, irrinunciabile per la
Chiesa, si vuole asserire con forza che il Verbo “ha assunto tutte le dimensioni dell’umano,
tranne il peccato” 474. Il Santo Padre vede l’Incarnazione come “una kenosi, uno «spogliarsi»,
da parte del Figlio di Dio, di quella gloria che egli possiede dall’eternità” 475. Questo
abbassamento del Figlio di Dio tende però “alla piena glorificazione di Cristo, anche nella sua
umanità”.
3. Volto del Figlio476
L’identità divino-umana del Cristo “emerge con forza dai Vangeli”; essi ci offrono vari
elementi che ci introducono in quella che il Pontefice chiama l’auto-coscienza di Cristo477.
Già dalle prime parole di Gesù dodicenne, nel tempio di Gerusalemme, traspare la sua
consapevolezza di essere in una relazione unica con Dio, quella propria del Figlio 478. Varie
frasi di Gesù, riportate sia dai sinottici che da Giovanni, dicono a diverse riprese la profondità
del mistero che avvolge la persona di Gesù. Il Pontefice asserisce con forza: “Nella sua auto-
coscienza Gesù non ha alcun dubbio: «Il Padre è in me e io nel Padre» 479”.

468 Novo Millennio Ineunte, lettera apostolica di Giovanni Paolo II, 06.01.2001, n. 25, 26, 27.
469 Ibid., n. 16-19.
470 Il Santo Padre precisa che i Vangeli non pretendono di essere una biografia completa di Gesù
secondo i canoni della moderna scienza storica.
471 Mt 16,16.
472 Novo Millennio Ineunte, n. 21-23.
473 Vi è qui un'esplicita allusione alla formulazione del Concilio di Calcedonia: una persona in due
nature.
474 Cf. Eb 4,15.
475 Cf. Fil 2,6-8; 1 Pt 3,18.
476 Novo Millennio Ineunte, n. 24.
477 Sull’argomento, cf. il testo della CTI, «La coscienza che Gesù aveva di se stesso», EV 10, 681-723, in
cui si afferma la coscienza che Gesù aveva d’essere il Figlio unico di Dio e la conoscenza che egli
aveva della sua missione: annunciare il Regno di Dio, rendendolo presente nella sua persona, tramite
la sua vita e le sue parole, per riconciliare il mondo con Dio.
478 Cf. Lc 2,49. J. GALOT fa notare che, nel Cristo, tutte le attività della natura umana, così come sono
descritte nei Vangeli, portano il marchio di una personalità filiale. Il soggetto di tutta la vita umana è la
persona del Figlio (Dieu en trois personnes, p. 47).
479 Gv 10,38; cf. anche Mt 11,27; Lc 10,22.

89
Gesù, quindi, già nella sua esistenza storica, ha la consapevolezza della sua identità di
Figlio di Dio. La sua coscienza umana sarà sottoposta a dura prova al Getsemani ed al
Golgotha, “ma nemmeno il dramma della passione e morte riuscirà a intaccare la sua certezza
di essere il Figlio del Padre celeste” 480.
4. Volto dolente481
La contemplazione del volto di Cristo, afferma il Pontefice, ci fa avvicinare all’aspetto più
paradossale del suo mistero così come emerge nell’ora della Croce. È un mistero nel mistero:
l’uomo non può che “prostrarsi in adorazione” davanti al Volto dolente di Cristo.
a. Nell’orto degli Ulivi
Il Papa volge lo sguardo alla scena dell’agonia nell’orto degli Ulivi: Gesù oppresso dalla
prova che lo attende, invoca Dio “con la sua abituale e tenera espressione di confidenza:
«Abbà, Padre»”, chiedendo di allontanare da lui il calice della sofferenza.
“Per riportare all’uomo il volto del Padre, Gesù ha dovuto non soltanto assumere il
volto dell’uomo, ma caricarsi persino del «volto» del peccato” 482.
b. Eloì, Eloì, lemà sabactàni?
Questa frase esprime l’abisso di un mistero che non si finirà mai di indagare e che il Santo
Padre commenta come segue:
“È tutta l’asprezza di questo paradosso che emerge nel grido di dolore, apparentemente
disperato, che Gesù leva sulla croce: « Eloì, Eloì, lemà sabactàni?, che significa: Dio
mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34). È possibile immaginare uno
strazio più grande, un’oscurità più densa? In realtà, l’angoscioso «perché» rivolto al
Padre con le parole iniziali del Salmo 22, pur conservando tutto il realismo di un
indicibile dolore, si illumina con il senso dell’intera preghiera, in cui il Salmista unisce
insieme, in un intreccio toccante di sentimenti, la sofferenza e la confidenza. Continua
infatti il Salmo: «In te hanno sperato i nostri padri, hanno sperato e tu li hai liberati […]
Da me non stare lontano, poiché l’angoscia è vicina e nessuno mi aiuta» (22[21],
5.12)”.
c. Preghiera del Figlio che offre la sua vita al Padre per la salvezza di tutti
Il Santo Padre afferma che il grido di Gesù sulla croce “non tradisce l’angoscia di un
disperato”, ma è “la preghiera del Figlio” che offre la sua vita al Padre nell’amore, per la
salvezza di tutti:
“mentre si identifica col nostro peccato, «abbandonato» dal Padre, egli si «abbandona»
nelle mani del Padre. I suoi occhi restano fissi sul Padre. Proprio per la conoscenza e
l’esperienza che solo lui ha di Dio, anche in questo momento di oscurità egli vede
limpidamente la gravità del peccato e soffre per esso. Solo lui, che vede il Padre e ne
gioisce pienamente, misura fino in fondo che cosa significhi resistere col peccato al suo
amore. Prima ancora, e ben più che nel corpo, la sua passione è sofferenza atroce
dell’anima”483.

480 Novo Millennio Ineunte, n. 24.


481 Ibid., n. 25-27.
482 Segue la citazione di 2 Cor 5,21.
483 Ibid., n. 26.

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d. Beatitudine e abbandono
La lettera presenta poi una questione che la tradizione teologica si è posta: in che modo
Gesù ha potuto “vivere insieme l’unione profonda col Padre, di sua natura fonte di gioia e di
beatitudine, e l’agonia fino al grido dell’abbandono”?
La comprensione di queste due dimensioni apparentemente inconciliabili – afferma il
Pontefice – è in realtà radicata nella profondità insondabile dell’unione ipostatica 484. Per
capire questo mistero, in cui coesistono beatitudine e abbandono, un aiuto rilevante può
venire da quel grande patrimonio della Chiesa, costituito dalla teologia vissuta dei Santi, i
quali - sia per un dono ricevuto dallo Spirito Santo sia perché hanno vissuto dei terribili
momenti di prova che la tradizione mistica descrive come notte oscura – ci “consentono di
accogliere più facilmente l’intuizione della fede” relativa a tale mistero. I Santi, infatti,hanno
a volte vissuto “qualcosa di simile all’esperienza di Gesù sulla croce nel paradossale intreccio
di beatitudine e di dolore”.
Il Santo Padre cita a proposito due stralci: uno è tratto dal Dialogo della Divina
Provvidenza, in cui “Dio Padre mostra a Caterina da Siena come nelle anime sante possa
essere presente la gioia insieme alla sofferenza”; l’altro è invece tratto dagli scritti di Teresa di
Lisieux, in esso si può notare come la santa viva “la sua agonia in comunione con quella di
Gesù, verificando in se stessa proprio il paradosso di Gesù beato e angosciato” 485. Ecco i due
testi:
“E l’anima se ne sta beata e dolente: dolente per i peccati del prossimo, beata per
l’unione e per l’affetto della carità che ha ricevuto in se stessa. Costoro imitano
l’immacolato Agnello, l’Unigenito Figlio mio, il quale sulla croce era beato e
dolente” 486.
“Nostro Signore nell’orto degli Ulivi godeva di tutte le gioie della Trinità, eppure la sua
agonia non era meno crudele. È un mistero, ma le assicuro che, da ciò che provo io
stessa, ne capisco qualcosa” 487.
Queste testimonianze dei santi sono – afferma il Pontefice – illuminanti. D’altronde, gli
stessi evangelisti hanno dato “fondamento a questa percezione ecclesiale della coscienza di
Cristo”, allorquando ricordano che “pur nel suo abisso di dolore, egli muore implorando il
perdono per i suoi carnefici (cfr Lc 23,34) ed esprimendo al Padre il suo estremo abbandono
filiale: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46)”488.
5. Volto del Risorto
Ma la contemplazione del volto insanguinato di Cristo, che la Chiesa commemora il
Venerdì ed il Sabato santo, “non può fermarsi all’immagine di lui crocifisso”. Infatti il
Crocifisso è Risorto! E la Chiesa oramai guarda a Lui. La risurrezione è stata “la risposta del
Padre” 489all’obbedienza del Figlio.
Nel volto di Cristo, Crocifisso e Risorto, la Chiesa, sua Sposa, contempla ancora oggi “il
suo tesoro e la sua gioia” e annuncia al mondo Colui che «è lo stesso ieri, oggi e sempre» 490.

484 Ibid., n. 26.


485 Ibid., n. 27.
486 Dialogo della Divina Provvidenza, n. 78.
487 Ultimi colloqui. Quaderno giallo, 6 luglio 1987: Opere complete, Città del Vaticano, 1997, 1003.
488 Novo Millennio Ineunte, n. 27.
489 È quanto afferma Pietro, nel suo primo discorso riportato in At 2,22-24.
490 Eb 13,8. Cf. Novo Millennio Ineunte, n. 28.

91
D. Bilancio e conclusione
Nel pensiero di Giovanni Paolo II, ritroviamo varie intuizioni incontrate negli autori
precedenti, enunciate in una profonda sintesi, che abbraccia come ho già detto una riflessione
biblica, teologica, catechetica ed antropologica. In questa breve conclusione, mi propongo di
mettere in luce i diversi elementi che emergono dalla riflessione del Santo Padre, articolando
fra loro le varie peculiarità della passione e del grido d’abbandono, così come vengono
presentate nelle due lettere apostoliche.
Le due lettere sono state scritte a quasi vent’anni di distanza l’una dall’altra; ognuna ha la
sua specificità e vuole rispondere a delle esigenze e a delle problematiche completamente
diverse. Nella Salvifici doloris, l’intento principale, come abbiamo visto, è quello di penetrare
il senso salvifico della sofferenza dell’uomo, il perché della sofferenza umana. La risposta a
tale interrogativo, afferma il Pontefice, è stata data da Dio all’uomo nello specifico mistero
dell’Uomo dei dolori, che ha assunto su di sé la sofferenza umana per compiere, per mezzo
della sua Croce, l’opera della salvezza dell’intero genere umano. Nella Novo millennio
ineunte, dopo aver passato in rassegna i momenti salienti del Giubileo del 2000, con lo
sguardo fisso al Volto del Crocifisso-Risorto, Giovanni Paolo II presenta degli orientamenti,
delle linee491 che devono guidare la Chiesa alle soglie del terzo millennio; non si tratta
d’inventare un nuovo il programma: esso c’è già, è quello di sempre, raccolto dal Vangelo e
dalla viva Tradizione: “Cristo da conoscere, amare, imitare per vivere in lui la vita trinitaria e
trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste” 492.
Pur in una così grande diversità di intenti, le due lettere apostoliche ruotano su un unico
centro, da cui emerge una luce che illumina il cammino dell’umanità e della Chiesa: Cristo,
Signore, nel mistero della sua vita, passione, morte e resurrezione. La parola della Croce è al
centro della riflessione del Pontefice, essa rappresenta l’ultima, sintetica parola
dell’insegnamento di Cristo. Nella Salvifici doloris, tutta la passione di Cristo è illustrata alla
luce del quarto carme del Servo di Jahvé, nell’ultima lettera apostolica, la riflessione del
Pontefice si incentra su un Volto da contemplare così come esso emerge dai Vangeli: il Volto
del Nazareno che racchiude un profondo mistero accessibile solo alla fede e che si manifesta
come Volto del Figlio, Volto dolente, Volto del Risorto.
La riflessione del Santo Padre sull’abbandono del Cristo in croce, così come emerge dalle
due lettere, poggia su alcuni punti cardini, che possiamo riassumere come segue.

1. Il mistero dell’Incarnazione
I Vangeli ci offrono un Volto da contemplare che racchiude un profondo mistero; è la fede
che ci aiuta a penetrare la profondità del mistero che sta nell’identità di Cristo stesso, vale a
dire l’intima ed indissociabile unione del Verbo e della carne, della gloria e della sua tenda fra
gli uomini. Nell’Uomo dei dolori appare, dunque, la dualità dell’unico soggetto personale

491 Il Santo Padre parla, nella lettera, di santità, preghiera, eucaristia, sacramento della riconciliazione,
primato della grazia, ascolto e annuncio della Parola, testimonianza dell’amore, spiritualità di
comunione (Novo Millennio Ineunte, n. 30-45).
492 Cf. Novo Millennio Ineunte, n. 29.

92
della sofferenza redentiva. Nelle due lettere apostoliche, il Santo Padre è molto sintetico a
riguardo. Troviamo un’esplicazione ulteriore del pensiero del Pontefice sull’argomento, in
un’allocuzione tenuta durante l'udienza del mercoledì 19 ottobre 1988.
All’interrogativo - chi è colui che pende dalla croce? chi è questo sofferente? - viene data
una chiara risposta: è il Figlio di Dio, uomo vero, ma anche Dio vero, come emerge dai
Simboli della fede493. Il Concilio di Efeso ha offerto, poi, una sintesi mirabile del grande
mistero del Verbo incarnato, precisando “Dei Verbum passum carne”494: le sofferenze umane
del Cristo Gesù appartengono sì alla natura umana, ma devono essere attribuite, come ogni
sua azione, alla persona divina.
È questa, afferma Giovanni Paolo II, una verità sconvolgente: in Cristo si ha un Dio che
soffre. Nel proclamare il mistero dell’Incarnazione, la teologia ha precisato che ciò che non
possiamo attribuire a Dio in quanto Dio, se non per una metafora antropomorfica che ci fa
parlare della sua sofferenza, Dio stesso lo ha reso possibile nel suo Figlio, il Verbo che ha
assunto la natura umana in Cristo. Egli è Dio che soffre nella natura umana, come vero uomo
nato da Maria e sottoposto alle vicende e ai dolori di ogni figlio di donna, nello stesso tempo
Egli come Verbo, una persona divina, dà un valore infinito alla sua sofferenza e alla sua
morte, toccando senza scalfirla la gloria e la felicità della Trinità. Dio, nella sua essenza,
rimane al di sopra dell’orizzonte della sofferenza umano-divina, ma con l’Incarnazione, il
Figlio di Dio, con la sua passione e morte, ha voluto penetrare, riscattare e nobilitare tutta la
sofferenza umana, in una solidarietà senza pari con l’umanità, che Egli ha aperto alla
comunione con Dio, nella fede e nell’amore.
2. Il Volto del Figlio
L’identità divino-umana di Gesù emerge fortemente dai Vangeli; vari elementi mostrano,
infatti, l’autocoscienza di Gesù di essere in una relazione unica con Dio, quella propria del
Figlio: Gesù è consapevole della sua identità di Figlio di Dio. È, quindi, il Figlio
consustanziale al Padre che soffre come uomo, sì da divenire l’Uomo dei dolori. Ma proprio
perché l’Uomo che soffre è in persona lo stesso Figlio unigenito, la sua sofferenza raggiunge
una profondità ed intensità incomparabili nella storia dell’umanità. Tramite la sofferenza
dell’Uomo dei dolori, dell’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo, vengono cancellati
tutti i peccati, proprio perché solo lui, in quanto Figlio unigenito, ha potuto assumerli con
quell’amore verso il Padre che supera il male di ogni peccato. Per riportare all’uomo il volto
del Padre, Gesù ha dovuto non soltanto assumere il volto dell’uomo, ma caricarsi del “volto”
di peccato.

3. Il grido d’abbandono
a. L’asprezza di un paradosso
Le parole del Golgota testimoniano della profondità, unicità e intensità della sofferenza di
Cristo; il grido d’abbandono, apparentemente disperato, esprime l’abisso di un mistero
insondabile, da cui emerge l’asprezza di un paradosso: “Mio Dio, mio Dio perché mi hai
abbandonato?”. Il grido d’abbandono contiene uno strazio e un’oscurità inimmaginabili.

493 Il Pontefice accenna al concilio di Nicea che proclama Cristo “Dio vero da Dio vero… che per noi
uomini e per la nostra salvezza è disceso, si è incarnato e… ha sofferto” (DZ 125).
494 “Il Verbo di Dio ha sofferto nella carne” (DZ 263).

93
Queste parole, infatti, non sono solo espressione di quella desolazione che si riscontra
nell’Antico Testamento, ma esse nascono sul piano dell’unione inseparabile del Figlio col
Padre, poiché il Padre “fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti” e lo trattò da peccato in
nostro favore, lui che non aveva conosciuto peccato. Nell’abbandono, Cristo, mediante la
divina profondità dell’unione filiale col Padre, percepisce la sofferenza che scaturisce dal
distacco, dalla ripulsa del Padre, la rottura con Dio. La passione di Cristo oltre ad essere
sofferenza del corpo è prima di tutto atroce sofferenza dell’anima.
In un suo discorso 495, il Santo Padre ha illustrato maggiormente in cosa consista
quest’atroce sofferenza dell’anima. Gli avvenimenti esterni sembrano manifestare l'assenza e
il silenzio del Padre, che lascia crocifiggere suo Figlio, senza intervenire per impedire tale
supplizio. Il silenzio di Dio grava sul morente come la pena più pesante, tanto più che gli
avversari di Gesù considerano quel silenzio come una sua riprovazione 496. Nella sfera dei
sentimenti e degli affetti, questo senso dell'assenza e dell'abbandono di Dio è stata la pena più
pesante per l'anima di Gesù, che ha reso più dure tutte le altre sofferenze. Quella mancanza di
conforto interiore è stata il maggior supplizio sperimentato da Gesù.
Il “perché” rivolto a Dio da Gesù crocifisso esprime, infatti, il suo «dolente stupore» per
una tale sofferenza che non ha una spiegazione semplicemente umana, ma costituisce un
mistero di cui solo il Padre possiede la chiave. La domanda nasce dalla memoria del salmo,
letto o recitato nella sinagoga, ma, allo stesso tempo, racchiude un significato teologico in
relazione al sacrificio, mediante il quale Cristo, in piena solidarietà con l'uomo peccatore,
sperimenta in sé l'abbandono di Dio. In quel “perché” rivolto al cielo, Gesù stabilisce, inoltre,
un nuovo modo di solidarietà con noi, che così spesso leviamo gli occhi al cielo, per
esprimere a Dio il nostro lamento.
b. La preghiera del Figlio
L’angoscioso perché di Gesù, pur conservando tutto il realismo di un indicibile dolore, si
illumina con le successive parole del salmo, che unisce sofferenza e confidenza; il grido
d’abbandono non esprime, infatti, l’angoscia di un disperato. Nel “perché” di Gesù non c'è
alcun risentimento che porti alla rivolta, o che indulga alla disperazione; non c'è ombra di un
rimprovero rivolto al Padre. Il grido di Gesù è l'espressione dell'esperienza di fragilità, di
solitudine, di abbandono a se stesso, fatta da Gesù al posto nostro497. Il Santo Padre vede nel
grido d’abbandono la preghiera del Figlio che offre la sua vita al Padre nell’amore, per la
salvezza di tutti gli uomini; il grido d’abbandono è caratterizzato da un doppio movimento:
mentre Cristo si identifica col nostro peccato e percepisce l’abbandono dal Padre, nello stesso
tempo si riabbandona nelle mani del Padre. Gli occhi di Gesù rimangono fissi sul Padre.
c. Beatitudine e abbandono
Facendo appello alle illuminanti esperienze dei santi, il Santo Padre afferma che, per la
profondità insondabile dell’unione ipostatica, coesistono in Cristo due dimensioni
apparentemente inconciliabili: Gesù ha potuto vivere, nello stesso tempo, la profonda unione
col Padre, fonte di gioia e di beatitudine, e l’agonia fino al grido d’abbandono. Il Santo Padre
ha ribadito ulteriormente questo concetto, fornendo la ragione teologica di tale affermazione.
Anche se Gesù prova il sentimento di essere abbandonato dal Padre, Egli sa di non esserlo. In
Giovanni, Gesù ha affermato di essere una sola cosa con il Padre e, parlando della futura

495 Allocuzione del mercoledì 30 novembre 1988.


496 Cf. Mt 27,43.
497 Ibid.

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passione, ha affermato “Io non sono solo perché il Padre è con me”498. Nel momento
dell’abbandono, Gesù sulla cima del suo spirito ha netta la visione di Dio e la certezza
dell’unione col Padre, ma, nelle zone a confine con la sensibilità, e quindi più soggette alle
ripercussioni delle esperienze dolorose interne ed esterne, l’anima umana di Gesù è ridotta ad
un deserto: Egli non sente più la presenza del Padre, facendo la tragica esperienza della più
completa desolazione499.
Ma questo primo e tremendo momento di desolazione, in cui Gesù si è sentito
abbandonato persino da Dio, viene superato dall’affidamento di sé nelle mani del Padre, la cui
presenza, amorosa e immediata, Gesù avverte nella struttura più profonda del proprio io,
giacché anche sulla croce egli è nel Padre come il Padre è in lui. Con la frase “Padre, nelle tue
mani rimetto il mio spirito”500, Gesù dà al suo abbandono tra le mani del Padre un accento di
fiducia filiale. Gesù muore da figlio ed in perfetta conformità al volere del Padre. Nel primo
grido, Gesù ha posto a Dio un “perché”, per lo sgomento suscitato da una tale morte; il
secondo grido è invece l’espressione dell’abbandono fiducioso nelle braccia del Padre 501.
La coesistenza in Gesù, nel momento più tragico della sua esistenza, di beatitudine e
abbandono, rimane per la ragione umana un ineffabile mistero che ha la sua radice nella
“profondità insondabile dell’unione ipostatica”.
4. Sofferenza redentiva di Cristo
È tramite l’indicibile sofferenza dell’abbandono che Gesù, addossandosi il male totale del
peccato, compie l’opera della Redenzione, e può dire prima di morire: “Tutto è compiuto”.
Nella passione di Cristo, la sofferenza umana raggiunge il suo culmine ed entra in una nuova
dimensione: essa viene legata dal Cristo all’amore, che crea il bene ricavandolo dal male, per
mezzo della sofferenza. La croce di Cristo diventa così sorgente da cui sgorgano fiumi
d’acqua viva. La sofferenza umana, inoltre, tramite la sofferenza di Cristo, viene elevata a
livello di redenzione, per cui ogni uomo può diventare partecipe della sofferenza redentiva di
Cristo.
5. Eloquenza della Croce ed eloquenza della Risurrezione
Sono due aspetti inscindibili dello stesso mistero: il mistero della passione, infatti, è
racchiuso nel mistero della risurrezione, che rivela la gloria di Cristo, completamente
offuscata nella Croce dall’immensità della sofferenza 502. La Croce, che agli occhi degli
uomini rappresenta lo spogliamento di Cristo, è stata agli occhi di Dio la sua elevazione: sulla
croce, Cristo - compiendo la volontà del Padre - ha raggiunto e realizzato in tutta pienezza la
sua missione. Al volto insanguinato del Crocifisso, sussegue il Volto del Risorto. La
Risurrezione è stata, dunque, la risposta del Padre all’obbedienza incondizionata del Figlio.

498 Cf. Gv 10,30 ; 16,32.


499 Cf. Allocuzione del 30 novembre 1988. Ritroviamo, riformulata, la spiegazione di San Tommaso.
500 Lc 23,46. Per l'unità tra il Padre e il Figlio, cf. Gv 10,38 ; 14,10s.
501 Allocuzione del mercoledì 7 dicembre 1988.
502 Nel discorso tenuto durante l'udienza del 30 novembre 1988, Giovanni Paolo II spiega in cosa
consiste quest'immensità della sofferenza di Cristo. Essendo il peccato separazione da Dio, Gesù
doveva provare nella crisi della sua unione con il Padre, una sofferenza proporzionata a tale
separazione. Ma l'esperienza dell'abbandono è una pena passeggera, che cede il posto alla liberazione
personale e alla salvezza universale. Tale prospettiva, nell'anima afflitta di Gesù, ha certo alimentato la
speranza; infatti, egli ha sempre presentato la sua morte come un passaggio alla risurrezione, come la
sua vera glorificazione. Proprio al culmine del dramma della croce, l'ora della vittoria è vicina.
95
Nella croce di Cristo vi è “la fonte genuina della salvezza, la rivelazione suprema
dell’amore di Dio e la radice profonda della comunione con Dio e fra di noi”, poiché “in
Cristo crocifisso ed abbandonato il male ed il peccato sono definitivamente sconfitti, e viene
resa possibile la piena unità dell’umanità col Padre e degli uomini fra loro” 503.

503Cf. Lettera del Santo Padre ai partecipanti al Convegno spirituale dei Vescovi amici del Movimento
dei Focolari, del 14.02.2001.
96
CONCLUSIONE GENERALE

Eccoci arrivati al termine di questa carrellata che ci ha permesso di scrutare il grido


d’abbandono, nel pensiero di vari autori e da molteplici punti di vista, facendocene scoprire
l’infinita ricchezza e fecondità.
Durante l’intero percorso, si è costatato quanto la riflessione sul grido d’abbandono debba
fondarsi solidamente sulla testimonianza della Scrittura e sull’immenso patrimonio elaborato
dall’intera Tradizione. Nella novità dell’oggi, suscitata dall’incessabile operare dello Spirito
Santo, c’è sempre racchiusa la ricchezza dell’antico: nova et vetera, come soleva affermare il
cardinale Journet. La mia comprensione del mistero racchiuso nel grido d’abbandono ha
cercato di muoversi secondo questa regola ermeneutica.
In questa conclusione, mi propongo semplicemente di riassumere, in alcuni punti, il
cammino percorso per raccogliere l’abbondante messe, dispiegata in queste pagine.
1. “La punta più drammaticamente lacerante di tutta la passione”
È Giovanni Paolo II che definisce il grido d’abbandono come “la punta più
drammaticamente lacerante di tutta la passione”. L’abbandono è una parola che desta
scandalo, è il vertice dei dolori di Gesù, poiché ne esprime l’atroce sofferenza dell’anima. Il
lamento straziante di Gesù in croce è la ripresa delle parole di un salmo, ed è stato visto come
la realizzazione più alta delle beatitudini.
a. Una parola che è scandalo, da cui appare l’asprezza di un paradosso
Lo scandalo della croce, lo scandalo dell’abbandono è stato rilevato da tutti i nostri autori
con gli accenti più vari. Mi limito qui a riassumere il pensiero di alcuni.
Per Journet, Gesù è stato condannato alla crocifissione come bestemmiatore, avendo
dichiarato di essere il Messia, il Figlio di Dio: egli muore dunque come un malfattore, un
maledetto, un abbandonato da Dio. Una domanda, che non può non provocare uno scandalo,
emerge dal suo grido: Se egli è Dio, come può dire che il suo Dio l’abbandona? Per il
cardinale, il grido d’abbandono nasconde il dramma di un Dio inchiodato in croce, che
supplica e muore per liberare il mondo dall’impurità e dalla fatalità del peccato; esso
manifesta l’indicibile agonia del Salvatore, nel momento in cui il Verbo divino lascia
scendere sulla sua sensibilità e le regioni inferiori della sua anima, la notte di una infinita
desolazione.
Il Santo Padre, da parte sua, afferma che nel grido di dolore, apparentemente disperato,
emerge tutta l’asprezza di questo paradosso: è impossibile immaginare uno strazio più
grande, un’oscurità più densa.
b. Gesù sulla croce ha conosciuto tutti i dolori
Journet, fondando sempre la sua argomentazione su San Tommaso, afferma che Gesù -
nella sua umanità, dotata di una sensibilità senza pari in quanto il suo corpo è stato formato
dallo Spirito Santo nel seno di Maria - ha conosciuto, nel modo più intenso, tutti i dolori, sia
quelli fisici che quelli spirituali. Il Santo Padre afferma che prima ancora e ben più che nel
corpo, la sua passione è sofferenza atroce dell’anima.
c. La sofferenza del Figlio
Per quanto riguarda la sofferenza di Cristo, l’insegnamento della Chiesa afferma che è il
Figlio di Dio stesso che ha sofferto, nella sua carne e nella sua anima per la salvezza del
mondo. Il Figlio di Dio come uomo ha realmente conosciuto tutte le forme del dolore e della
sofferenza, fino ad esperire l’abbandono. Ed è Giovanni Paolo II che con forza ribadisce
97
ulteriormente che è proprio il Figlio Unigenito, consostanziale al Padre che soffre nella natura
umana. La sua sofferenza ha dimensioni umane, che sono però uniche nella storia
dell’umanità: essa raggiunge una profondità ed intensità tali, da poter abbracciare la misura
del male contenuta nel peccato dell’uomo, secondo le dimensioni dell’esistenza dell’umanità
sulla terra.
d. Le due facce del grido d’abbandono
È Journet che ha messo particolarmente in rilievo questi due aspetti della quarta parola: da
una parte è un grido spontaneo di Gesù al suo Dio, dall’altro la ripresa dell’inizio di un salmo
che descriveva in modo profetico le prove del Giusto. È una domanda posta al Cielo dal
Giusto e una risposta data dal Giusto a coloro che lo perseguitano, è un lamento straziante che
sale a Dio e un’accusa terribile che pesa sulla giustizia degli uomini. Il grido d’abbandono è,
quindi, un grido d’angoscia, una supplica straziante che sale verso il Cielo e, al tempo stesso,
l’inizio di un canto della speranza messianica.
Anche la riflessione del Pontifice si muove alla luce del salmo 22: l’angoscioso perché
rivolto da Gesù al Padre, con le parole iniziali del salmo, pur conservando tutto il realismo di
un indicibile dolore, s’illumina con il senso dell’intera preghiera, in cui il salmista unisce
sofferenza e confidenza.
Balthasar e Chiara Lubich hanno messo in rilievo altri due aspetti del grido d’abbandono.
Per Balthasar la parola abbandono ha un duplice significato: essere abbandonato da e
abbandonarsi a ed entrambi questi momenti fanno parte della passione di Gesù. Per la
Lubich, Gesù è il modello di colui che confida: nessuno ha avuto una fiducia più grande di
Lui che, abbandonato da Dio, si fidò di Dio, abbandonato dall’Amore, si affidò all’Amore.
Ritroviamo quest’ultimo aspetto anche nel pensiero di Giovanni Paolo II, allorquando egli
afferma che, al primo e tremendo momento di desolazione, in cui Gesù si è sentito
abbandonato persino da Dio, segue l’affidamento di sé nelle mani del Padre, la cui presenza
amorosa Egli avverte nella struttura più profonda del proprio essere.
e. Il monte delle beatitudini
La corrispondenza tra il monte delle beatitudine e il monte Calvario, l’abbiamo riscontrata
in Journet e in Chiara Lubich.
Journet vede il monte Calvario come la risposta al monte delle beatitudini: le sette parole
di Gesù in croce, le ultime della sua vita terrena, offrono un insegnamento: dal dramma
spaventoso della croce una luce ci è data attraverso di esse. Il cardinale non ci dice di più, ed è
nel pensiero della Lubich che troviamo un passo ulteriore.
A differenza di Balthasar che vede nell’abbandono di Cristo, la Parola che si fa silenzio,
che si fa non-parola, la Lubich guarda all’abbandono come alla Parola definitiva detta dal
Padre, la Parola pienamente spiegata, il vertice della rivelazione, la sintesi del vangelo,
perciò Gesù, nell’abbandono, può ripetere in sé tutte le beatitudini. Egli è, infatti, il modello
perfetto dei poveri di spirito, dei misericordiosi, degli assetati di giustizia, dei miti. Gesù
abbandonato è figura del chicco di grano che muore ma che non resta solo, perché porta come
frutto il popolo di Dio, la Chiesa.
2. Il grido d’abbandono, espressione ultima del mistero dell’Incarnazione
L’abbandono è apparso, poi, come l’espressione ultima del mistero dell’Incarnazione;
esso ci rivela, in un certo qual modo, l’ultima tappa dell’esistenza kenotica del Figlio di Dio
fatto uomo.
a. La kenosi del Verbo
98
Per Journet, il mistero dell’Incarnazione nasconde uno scandalo: l’Onnipotente che si fa
debolezza, la Parola infinita che balbetta in un neonato, Gesù che contemporaneamente è Dio
che esaudisce e uomo che supplica. La parola dell’abbandono ci rivela tutta la profondità del
mistero dell’Incarnazione, ciò che il cardinale chiama gli annientamenti del Verbo fatto carne.
Abbiamo, poi, visto quanto il mistero dell’Incarnazione occupi un posto centralissimo
anche nella riflessione balthasariana, di cui abbiamo evidenziato soprattutto due elementi:
l’Incarnazione come rivelazione di tutta la Trinità, il mistero del Dio Uno e Trino si è, infatti,
manifestato come dono d’amore, di vita e di salvezza in tutta l’esistenza terrena del Verbum
Caro; la croce come primo e ultimo fine dell’Incarnazione. Questo secondo aspetto manifesta
un’altra peculiarità della vita di Gesù: la sua obbedienza fino alla morte di croce. La
cristologia elaborata da Balthasar è dunque una cristologia fortemente obbedienziale, che
sviluppa il motivo dell’obbedienza filiale di Cristo alla volontà del Padre: obbedienza che va
fino alla morte e alla morte di croce, obbedienza che è abbandono senza limiti al Padre. Ed è
nel mistero pasquale che Balthasar evidenzia particolarmente l’obbedienza filiale e la totale
disponibilità di Gesù al Padre, fino all’abbandono sulla croce.
Anche per la Lubich l’abbandono è la prova dell’annichilimento totale del Figlio, che
manifesta così la sua totale obbedienza al Padre. Per il Santo Padre, l’incarnazione è
veramente una kenosi, uno spogliarsi da parte del Figlio di Dio di quella gloria che egli
possiede dall’eternità. Quest’abbassamento del Verbo tende però alla piena glorificazione di
Cristo, anche nella sua umanità e che si realizzerà pienamente nella persona del Cristo
Risorto.
b. La dottrina delle due nature e il grido d’abbandono
Nella critica indirizzata alla riflessione teologica di Moltmann, che muove una dura critica
alla cristologia di Calcedonia, abbiamo visto quanto sia importante, per non incorrere in gravi
errori, fondare una riflessione cristologia sui dati che emergono dalla Scrittura e che sono stati
sviluppati dalla Tradizione. La fede cristiana dovrà, dunque, fino alla fine dei secoli,
mantenere l’unità inscindibile che si realizza nella persona di Gesù, vero Dio e vero uomo.
La definizione di Calcedonia, pur insistendo sull’unità della persona del Figlio, ne
distingue la dualità delle nature: “all’unanimità noi insegniamo a confessare un solo e
medesimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo, perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua
umanità, vero Dio e vero uomo” 504. Calcedonia ha messo quindi l’accento sull’ontologia del
Cristo, per spiegare il mistero legato alla persona di Gesù, il Figlio incarnato, che rimarrà
sempre per l’intelligenza umana “il mistero dei misteri”.
Tutta la riflessione del Santo Padre, così come l’abbiamo potuta cogliere nelle due lettere
apostoliche, si fonda, anche se spesso in maniera solo implicita, sulla dottrina delle due
nature: la profondità del mistero della persona di Gesù sta proprio nella sua identità che consta
nell’unione intima ed indissociabile di due polarità: il Verbo e la carne, la gloria e la sua tenda
tra gli uomini.
Il grido d’abbandono va dunque interpretato, mantenendo fermo l’insegnamento di
Calcedonia: è, nella sua natura umana, che l’unigenito Figlio di Dio ha sperimentato quel
dolore definito dal cardinal Journet come la notte di una infinita desolazione.
La dottrina delle due nature ci permette, inoltre, di interpretare l’affermazione paolina,
Cristo trattato da peccato, fatto maledizione 505: attraverso l’umanità di Gesù, l’unica Persona

504 DZ, 301.


505 Cf. 2 Co 5,21; Gal 3,13.
99
del Verbo ha preso su di sé i nostri peccati ma è per la divinità di Gesù che il male non ha
vinto e l’abisso del peccato è stato colmato d’Amore 506. Come afferma Journet, Gesù è sceso
nella profondità del nostro dramma, della nostra tragedia; lui, senza peccato, si è identificato
alla nostra condizione di maledizione e di peccato, per riscattarci da essa: Cristo è diventato
per noi peccato, perché noi diventassimo in lui santità.
c. Beatitudine e abbandono
Sia Journet che il Santo Padre hanno sottolineato un altro scandalo e cioè la coesistenza in
Gesù, di due dimensioni apparentemente inconciliabili: la profonda unione col Padre, fonte di
gioia e di beatitudine, e l’agonia fino al grido d’abbandono. Questi due aspetti, glorioso e
doloroso, dell’umanità di Cristo emergono dalla testimonianza evangelica. Siamo sempre
nell’insondabile mistero dell’Incarnazione. La coesistenza di beatitudine e abbandono
costituisce, infatti, l’aspetto più profondo di tale mistero. Per rendere intelligibili questi due
aspetti di per sé incompatibili, il cardinale si avvale della soluzione offerta da San Tommaso.
L’Aquinate, operando una distinzione tra l’essenza dell’anima e le sue potenze o parti,
afferma che, secondo l’essenza, tutta l’anima di Cristo ha patito e che invece, secondo le
potenze, l’anima di Cristo ha patito nella parte inferiore, mentre, sulla cima del suo spirito,
Gesù ha la netta visione di Dio e la certezza dell’unione col Padre.
Prevale la consapevolezza che di fronte all’ineffabile mistero dell’Uomo-Dio, non rimane
che il silenzio e l’adorazione.
Anche per il Pontefice, la comprensione di questi due aspetti della vita di Cristo si radica
nell’insondabile profondità dell’unione ipostatica; per spiegarli, il Santo Padre non si avvale
solo della ragione teologica di tale affermazione offerta da San Tomaso, ma anche
dell’esperienza mistica dei santi, che hanno in qualche modo vissuto qualcosa di simile
all’esperienza di Gesù sulla croce, nel paradossale intreccio di beatitudine e dolore.
3. La Croce, mistero di luce
È un’affermazione che abbiamo trovato in quasi tutti i nostri autori, in bellissime pagine in
cui teologia e spiritualità si sono inscindibilmente unite. Due i concetti principali messi in
evidenza: il grido di Gesù non è un grido di disperazione; l’assoluta identità del Crocifisso col
Risorto getta, sul mistero del dolore della croce e dell’abbandono, una luce indicibile.
a. Sofferenza luminosa e non grido di disperazione
Nella tradizione riformata, il grido d’abbandono è stato interpretato come un grido di
disperazione: Gesù sulla croce, temendo la maledizione e l’ira di Dio, ha sperimentato il
tormento dei dannati e dei perduti. Journet non accetta la posizione di Calvino, affermando
che Gesù non ha esperito il tormento dei dannati: la sua è la sofferenza del Salvatore del
mondo, non quella di un dannato: è un dolore infinito più grande della disperazione di tutti i
dannati, è una sofferenza chiara, profonda e struggente in quanto non è la sofferenza di un
semplice uomo, ma la sofferenza del Verbo incarnato. È la sofferenza luminosa della
redenzione. Anche la riflessione del Santo Padre si muove nella stessa direzione. Il Pontefice
afferma, infatti, che il grido di Gesù non tradisce l’angoscia di un disperato, ma è la preghiera
del Figlio che offre la sua vita al Padre nell’amore, per la salvezza di tutti.
Il perché di Gesù gridato sulla croce non è un grido di divisione, ma di unità.

506 Cf. H. BLAUMEISER, «Un mediatore che è nulla… » , p. 396-397.

100
La posizione di Balthasar che sembra prolungare l’abbandono di Cristo in croce nella
discesa agli inferi ci è sembrata, invece, ambigua e poco conforme alla Tradizione e a quanto
il Nuovo Testamento ci permette di affermare in proposito; il merito della riflessione
balthasariana su quest’articolo di fede sta nell’aver sottolineato la solidarietà del Cristo con gli
uomini di tutti i tempi.
b. La croce, mistero di luce: il Crocifisso è il Risorto
Che la croce, culminante nel grido d’abbandono, sia un mistero di luce, lo abbiamo
ritrovato in varie pagine dei nostri autori: Journet afferma in modo forte questa realtà. La
sofferenza passa, la luce in essa nascosta rimane: traversando il velo del dolore, essa irradia e
durerà per sempre, nel suo splendore. In Moltmann, questo aspetto ci è sembrato poco
presente: la sua theologia crucis è sembrata così assoluta, da non tener sempre presente che il
Crocifisso è il Risorto. Non così, invece, in Balthasar che afferma fortemente l’assoluta
identità del Crocifisso col Risorto ed evidenzia ampiamente l‘iniziativa del Padre nella
glorificazione del Figlio, come risposta alla sua totale obbedienza.
Anche nel pensiero di Chiara Lubich, questi due aspetti sono intimamente legati, come le
facce di un’unica medaglia: da una parte l’Unità - cioè la presenza del Risorto fra i suoi,
pagina lucente di misterioso amore – e, dall’altra, Gesù crocifisso e abbandonato, pagina
luminosa di misterioso dolore. Non si può separare la croce dalla gloria, il Crocifisso dal
Risorto, afferma la Lubich, sono due aspetti dello stesso mistero di Dio che è Amore.
Per il Pontefice, l’eloquenza della Croce e della morte viene completata con l’eloquenza
della resurrezione. La resurrezione ci rivela la gloria di Cristo che, nella croce, era
completamente offuscata dall’immensità della sofferenza. Non ci si può fermare, infatti, alla
contemplazione del volto insanguinato di Cristo, poiché il Crocifisso è Risorto. La Chiesa
contempla oramai il Volto del Risorto e annuncia al mondo Colui che è lo stesso ieri, oggi e
sempre.
4. Sofferenza di Cristo e sofferenza degli uomini
Alcuni dei nostri autori hanno sottolineato questo aspetto delle sofferenze si Cristo. Per
Journet, tutti gli abbandonati, tutte le vittime della notte, coloro che muoiono come dei
riprovati, partecipano pur senza saperlo alla desolazione del Cristo che grida: Mio Dio, perché
mi hai abbandonato? Per la Lubich, dalla contemplazione dell’abbandono di Gesù
scaturiscono dei fiumi di luce: è Lui che, contemplato nel suo abbandono, dà senso al dolore
di ogni creatura illuminandolo; è Lui il segreto della santità, la perla preziosa; è Lui il segreto
e la garanzia dell’unità.
La riflessione del Santo Padre ci ha condotti a costatare quanto, nella passione di Cristo
l’umana sofferenza abbia raggiunto il suo culmine, ma contemporaneamente essa è entrata in
una dimensione completamente nuova: essa è stata legata all’amore, a quell’amore che crea il
bene ricavandolo dal male. Cristo, operando la redenzione tramite la sofferenza, ha elevato la
stessa sofferenza umana a livello di redenzione, per cui ogni uomo, nella sua sofferenza, può
diventare partecipe della sofferenza redentiva di Cristo.
5. Il grido d’abbandono e la Trinità: un mistero d’amore
Tutta la vita terrena del Verbo incarnato ci rivela il mistero di Dio, ci svela l’amore del
Padre, ci rende partecipi, attraverso la passione, morte e risurrezione del Figlio Unigenito,
della vita trinitaria. Ecco i punti salienti emersi nel presente studio.
a. Gesù abbandonato, vertice d’amore

101
È la Lubich che ha dato particolare rilievo a quest’aspetto: il grido d’abbandono è il
culmine del dolore di Gesù ed è al tempo stesso il vertice del suo amore: in lui abbandonato è
rivelato tutto l’amore di un Dio. Nel dolore del Cristo abbandonato, la Lubich scorge la più
alta espressione dell’amore; l’abbandono è l’altissima, divina eroica lezione di Gesù su cosa
sia l’amore: dare la vita per i propri amici.
b. Gesù abbandonato svela l’amore del Padre
Gesù abbandonato si manifesta, particolarmente nel pensiero della Lubich, come porta
d’accesso al mistero di Dio. Nell’abbandono, Gesù si dà totalmente divenendo espressione
dell’indicibile amore del Padre per gli uomini. L’abbandono è visto come vertice della
spoliazione esteriore, ma soprattutto interiore dell’Uomo-Dio, che apre l’accesso alla più
intima realtà di Dio: l’Amore. Nell’abbandono, si scopre quindi tutto l’amore di Dio per gli
uomini.
c. La Trinità e il mistero della passione e morte di Gesù
In tutti gli autori che abbiamo passato in rassegna, c’è un’affermazione comune ed
univoca: il mistero della passione ci svela il volto del Dio trinitario. L’evento dell’abbandono
è evento trinitario507: Gesù abbandonato ci rivela Dio Amore. Lo stesso Dio che ha creato
l’universo, come dono del suo primo amore, dopo il rifiuto dell’uomo, mette in opera un
piano d’amore ancora più grande che Journet chiama l’universo di redenzione o il dono del
secondo amore che non esita a definire come il tempo della follia dell’Amore di Dio. Tutta la
Trinità è all’opera nella creazione, tutta la Trinità è nell’opera nella redenzione.
d. L’abbandono del Padre
L’abbandono del Padre è emerso fortemente nella riflessione di tutti gli autori che ci
hanno interessato in questo studio. Per Journet, mentre nel giardino degli ulivi, Gesù si rivolge
a Dio, pur nella supplica di risparmiargli il calice, con la parola Abbà, Padre, sulla croce grida
l’abbandono chiamandolo “Mio Dio”, sembra quasi che i legami della filiazione non si fanno
più sentire. Alla croce, il cielo sembra sordo al suo lamento. È questa la desolazione immensa
delle regioni inferiori del suo essere, ma sulla cima del suo spirito Gesù vive nella visione
beatifica. Sulla croce, la Divinità si nasconde, ma, allo stesso tempo, una luce straordinaria
riappare nella pace e nella maestà serena delle due ultime parole di Gesù 508.
Balthasar ha affermato che per Gesù, uomo-Dio, l’essere abbandonato dal Padre ha
costituito la prova suprema, infinitamente più grave di qualsiasi esperienza umana;
l’esperienza dell’abbandono vissuta dal Cristo è unica e assoluta, poiché nessuno come il
Figlio sa cosa sia il Padre, cosa significhino il suo amore, la sua vicinanza, la vita con Lui. Il
Figlio dell’Uomo porta su di sé il peccato del mondo, facendo dal di dentro l’esperienza più
profonda della lontananza da Dio.
Gesù nell’abbandono, secondo la Lubich, si priva della sua unione col Padre; il sentimento
di filiazione, la presenza di Dio nel fondo della sua anima non si fa più sentire, fino ad essere,
in un certo qual modo, disunito da Colui col Quale aveva detto di essere una cosa sola. Anche.
nella riflessione della Lubich, all’abbandono segue l’affidamento nelle mani del Padre.
Per il Santo Padre, le parole dell’abbandono nascono sul piano dell’inseparabile unione
del Figlio col Padre: Cristo, mediante la divina profondità dell’unione filiale col Padre,
percepisce in modo umanamente inesprimibile questa sofferenza che è il distacco, la ripulsa

507 È il teologo Piero Coda che, parlando dell'abbandono di Cristo, lo definisce un evento trinitario:
«L'abbandono di Gesù. Per una cultura dell'unità», in Nuova Umanità XXI/2 (1991), p. 163.
508 Ch. JOURNET, Les sept paroles …, p. 89 ; 157.

102
del Padre, la rottura con Dio509. Il silenzio di Dio grava sul morente come la pena più pesante:
questo senso dell’assenza e dell’abbandono di Dio è stato il maggior supplizio per l’anima di
Gesù. Essendo il peccato separazione da Dio, Gesù doveva provare nella crisi della sua
unione con il Padre, una sofferenza proporzionata a tale separazione. Questo primo e
tremendo momento di desolazione viene superato dall’affidamento di sé nelle mani del Padre,
poiché anche sulla croce Gesù è nel Padre, come il Padre è in lui. Gesù muore da figlio ed in
perfetta conformità al volere del Padre. L'esperienza dell'abbandono è una pena passeggera,
che cede il posto alla liberazione personale e alla salvezza universale. È proprio tramite tale
sofferenza che Cristo compie la Redenzione.
e. Una quasi-sofferenza in Dio
Si pone qui il problema dell’immutabilità e della sofferenza in Dio, tema tanto discusso
dall’odierna teologia la cui trattazione richiederebbe uno studio specifico. Mi limito qui a
ricapitolare i punti essenziali emersi nel presente lavoro, che ha toccato l’argomento senza
però sviscerarne tutti i contenuti.
Per Journet, che fa sua la riflessione di Maritain, c’è in Dio una indicibile tristezza,
causata dallo spettacolo del nostro peccato e della nostra miseria, essa trova la sua suprema
espressione visibile nella terribile agonia e nella morte del Figlio unigenito. Quest’indicibile
compassione non comporta in Dio un’alterazione, ma indica piuttosto una perfezione
nascosta. Questa questa quasi sofferenza – che è in realtà la compassione attiva in Dio - intesa
nel senso di una misteriosa perfezione che rimane per noi innominabile, rivela in Dio una
grandezza insospettata, essa è in Dio un titolo di nobiltà inimmaginabile: essa corrisponde a
quella pietà che ci porta a soccorrere gli altri e che chiamiamo misericordia. Per il cardinale,
ciò non impedisce a Dio di rimanere impassibile ed immutabile, in quanto questi due concetti,
in Dio, non esprimono un’indifferenza, ma un eccesso d’amore e di gioia infiniti. Le
sofferenze di Cristo non fanno altro che riflettere, in modo umano, il mistero assolutamente
divino dell’amore trinitario ferito dal nostro rifiuto.
Le posizioni di Moltmann sono parse inaccettabili, in quanto la sua riflessione conduce ad
introdurre la croce e la sofferenza nel cuore stesso della vita trinitaria: l’abbandono di Gesù in
croce diventa un evento da situare in Dio, un processo, un dissenso, un processo: Dio contro
Dio. Anche la riflessione balthasariana, che non abbiamo però approfondito, sembra condurre
ad una rottura in Dio stesso.
Non abbiamo ulteriormente approfondito il pensiero della Lubich 510 che interpreta
l’abbandono come un’operazione di distinzione che il Padre opera nei confronti del Figlio. La
Lubich parla d’abbandono reale per l’umanità di Gesù perché Dio la lascia nel suo stato senza
intervenire e d’abbandono irreale per la sua divinità, perché Gesù, essendo Dio, non può
dividersi dal Padre, ma distinguersi: quest’operazione di distinzione è sussulto di nuova gioia
in Dio Amore, ma grido d’infinito dolore nell’umanità del Cristo. Ci sembra questa una pista
di riflessione che potrebbe aprire nuovi orizzonti alla trattazione del tema.
f. Gesù abbandonato e lo Spirito Santo

509 Nel discorso tenuto durante l’udienza del mercoledì 3 febbraio 1988, Giovanni Paolo II ha affermato
che le parole di Gesù “Eloì, Eloì, lema sabachtàni?”sono un’espressione dell’abbandono provato da
Gesù nella sua vita terrena; con esse Gesù esprime il supremo strazio della sua anima e del suo corpo,
comprendente la misteriosa sensazione di un momentaneo abbandono da parte di Dio. Cf. n. 8.
510 Poiché una buona parte degli scritti di Chiara Lubich sull’argomento sono ancora inediti, non mi è
stato possibile offrire una sintesi esaustiva del suo pensiero su questo aspetto del grido d’abbandono.
Cf. a proposito Marisa CERINI, Dio Amore nell'esperienza e nel pensiero di Chiara Lubich, Roma, 1991.
103
Questa tematica è apparsa solo in filigrana. Essa è presente in quasi tutti gli autori che ci
hanno interessato in questo percorso, ma per i limiti imposti al presente lavoro, non è stata
approfondita. Mi limito qui a riassumere il pensiero di Jürgen Moltmann e di Chiara Lubich.
Per Moltmann, come si è visto, la croce costituisce l’avvenimento supremo della “tragedia
in Dio”, in cui la relazione del Padre e del Figlio è infranta. Lo Spirito Santo interviene allora
come la potenza per la quale il Padre ed il Figlio si sacrificano: “Il sacrificio comune del Padre
e del Figlio si effettua tramite lo Spirito Santo, che lega e unisce il Figlio nel suo abbandono
col Padre”511. Secondo Moltmann, lo Spirito Santo è paradossalmente l’autore della rottura e
dell’unione del Padre e del Figlio. Recentemente, Moltmann ha sviluppato la sua concezione
dello Spirito Santo alla passione, proponendo una pneumatologia crucis: il Padre soffre nel
Figlio per l’inabitazione dello Spirito Santo nel Figlio. Per Moltmann esiste quindi una kenosi
dello Spirito Santo che partecipa personalmente alla sofferenza e all’abbandono del Figlio.
Quindi, per il teologo riformato, è lo Spirito Santo che rende conto della sofferenza trinitaria
alla Croce. Moltmann ha applicato allo Spirito Santo la kenosi che aveva precedentemente
attribuita al Figlio, poi al Padre512. Quest’interpretazione, che non ha un solido fondamento nel
Nuovo Testamento, suscita le stesse riserve già formulate in precedenza: essa è inaccettabile in
quanto introduce la sofferenza nel seno della vita trinitaria, comprendendo la passione come un
processo dialettico di separazione e di unione.
La realtà dello Spirito Santo, per la Lubich, è il libero sovrabbondare dell'amore nel dono
reciproco di sé tra Padre e Figlio, è il loro vincolo d'amore: è vita sempre nuova, traboccante di
gioia, di luce, di amore, di unità, di libertà e ciò sia nel cuore delle relazioni intratrinitarie, sia
nelle operazioni d'amore della Trinità, con le quali Essa si comunica nella creazione e nella
redenzione divinizzatrice dell'umanità.
Dai frutti che scaturiscono nell’anima dall’amore al Crocifisso abbandonato, la Lubich
intuisce, inoltre, che c’è un’intima relazione fra Gesù crocifisso e abbandonato e il dono dello
Spirito Santo: la Lubich vede nel grido di Gesù la più perfetta realizzazione dell’amore umano
del Verbo incarnato e nell’abbandono il segno dell’amore spirante da cui procede lo Spirito 513.
Di conseguenza, attraverso l’amore al Cristo crocifisso e abbandonato, lo Spirito Santo può
effondere, pienamente, i suoi frutti non soltanto alla comunità, ma anche ad ogni singola
persona. È lo Spirito Santo - mutuo Dono tra il Padre e il Figlio - che compie la divinizzazione
dell'uomo; è lo Spirito Santo - Vincolo d'Amore, Unità tra il Padre e il Figlio - ad operare
quindi la stessa unità fra l'uomo e Dio. L’Abbandonato diventa, quindi, per ogni uomo, fonte
dello Spirito d’amore. Sulla croce, come spiega San Tommaso 514, il Padre ispira al Figlio la
carità di morire per la salvezza del mondo. Lo Spirito Santo è presente come Dono d’amore del
Padre al Figlio ed è da questo dono che sgorga la salvezza del mondo.
Per il dono dello Spirito effuso dalla croce di Cristo, ad ogni uomo è, quindi, dato di
partecipare a questa dinamica di morte e vita, di tenebre e luce; ciascun uomo può rivivere in
sé il mistero del crocifisso-Risorto, fino a partecipare – com’è possibile già da questa terra –
alla vita d’ineffabile unità tra il Padre ed il Figlio nello Spirito. È per lo Spirito Santo che i
credenti sono uno fra loro, formando la famiglia dei figli di Dio, destinata ad estendersi a tutta
l'umanità. Come il Padre ed il Figlio amandosi, similmente a due legni incrociati, mandano
un'unica fiamma, lo Spirito Santo, così noi, amandoci, “bruciando come tanti legni

511 MOLTMANN, J., Trinité et Royaume de Dieu, p. 111.


512 MOLTMANN, J., L’Esprit qui donne vie, p. 101-105.
513 Ch. LUBICH, L'unità e Gesù Abbandonato, p. 87-88.
514 IIIa, q. 47, a. 3.

104
sovrapposti, dalla nostra morte totale sprigioneremo un'unica fiamma: lo Spirito Santo, lo
Spirito del Risorto in mezzo a noi” 515.
6. Gesù abbandonato, chiave d’unità
Questo aspetto del grido d’abbandono emerge, in modo forte e direi unico, nella
riflessione di Chiara Lubich, che ha messo in luce due aspetti racchiusi in questo momento
culmine della vita di Gesù.
a. Gesù abbandonato, chiave dell’unità dell’anima con Dio
In Gesù abbandonato, la Lubich vede il vertice dell’amore, proprio perché culmine del
dolore: nell’abbandono di Gesù in croce è rivelato tutto l’amore di un Dio.
Il grido d’abbandono è il culmine del suo dolore trasformato in amore. È l’ora dell’offerta
suprema in cui apparentemente la presenza del Padre sembra vanificarsi, ma è anche l’ora
della redenzione: proprio nel momento in cui Gesù offre tutto se stesso al Padre, compie la
rigenerazione del mondo. Per la Lubich, la redenzione avviene proprio quando il Cielo tace e
il Cristo prova il supremo abbandono; il suo grido significa vita: è l’urlo del parto divino degli
uomini a figli di Dio.
Dal dolore del Crocifisso che culmina in quel grido sgorga la redenzione, la
santificazione, la deificazione per gli uomini di tutti i tempi. Gesù abbandonato diventa
Mediatore tra Dio e gli uomini, Egli è il varco che apre l’anima di ogni uomo all’unione con
Dio. In Lui e per Lui, ogni uomo può sperimentare l’alchimia divina vissuta da Gesù:
trasformare il dolore in amore e fare già in questa vita terrena l’esperienza della Pasqua, vale a
dire l’esperienza della pienezza del gaudio, segno dell’ingresso trionfale di Dio nell’anima.
b. Gesù abbandonato è chiave d’unità con i fratelli
Gesù abbandonato è visto dall’autrice anche come vincolo d’unità con i fratelli, giacché
nella sua morte in croce fino all’abbandono, Egli ci ha dato l’estrema prova del suo amore,
divenendo per ciascuno di noi modello da imitare. L’amore verso ogni fratello in umanità
deve avere, infatti, la stessa misura dell’amore di Cristo.
Un tale amore, che racchiude in sé la disponibilità a dare la vita per l’altro, si concretizza
in un atteggiamento che la Lubich chiama “farsi uno”; tale atteggiamento richiede la più
grande povertà di spirito per poter costruire l’unità con ciascun uomo, secondo l’affermazione
paolina di 1 Cor 9,22.
Gesù abbandonato, le cui sembianze si scoprono nell’immensa e molteplice sofferenza
dell’umanità, diventa così il punto di contatto con chiunque uomo, per costruire con ciascuno
rapporti nuovi che partendo dalla solidarietà realizzano la reciprocità dell’amore, che porta la
presenza del Risorto fra due o più.
L’indefesso lavoro della Lubich per concorrere all’unità, sia nel campo ecumenico, che
nel capo interreligioso e con non credenti, trova la sua origine e trae la sua forza proprio in
questa profonda convinzione: il grido d’abbandono di Gesù alla croce ci fa figli del Padre e
fratelli fra noi.

515 Ch. LUBICH, In cammino col Risorto, p. 75-77. Cf. M. CERINI, Dio Amore.., p. 88.
105
Siamo giunti a termine del nostro lungo itinerario, attraverso cui abbiamo cercato, in
qualche modo, di penetrare il mistero d’Amore che la persona di Cristo racchiude in sé e che
si è rivelato insondabile e indicibile nel grido d’abbandono; ed ora, davanti al mistero della
croce, non ci rimane, sull’esempio del centurione, che da esclamare:
“Veramente quest’uomo era il Figlio di Dio!” 516.

516 Mc 15,39.
106
SIGLE E ABBREVIAZIONI

1. Sigle delle opere di H. U. von Balthasar

GL Glaubhaft ist nur Liebe, Einsiedeln, 1963, 35-37, trad. it. Solo l'amore è
credibile, Roma, 1977.
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1961; tr. it. : Gloria. Una estetica teologica, vol. I: La percezione della forma.
Milano, 1975, 1994.
HNB Eine Theologische Ästhetik, Bd. III/2, 1. Teil: Neuer Bund, Einsiedeln, 1966; tr.
fr. La gloire et la croix : les aspects esthétiques de la révélation, vol III/2 :
Nouvelle Alliance, Paris, 1975. tr. it. Gloria. Una estetica teologica, vol. VII:
Nuovo patto, Milano, 1977.
MP Teologia dei tre giorni, Mysterium Paschale, Brescia, 1990.
TD IV Theodramatik, III. Die Handlung, Einsiedeln, 1980; trad. it. Teodrammatica, vol
IV: L'Azione, Milano, 1986.
TL II Theologik. Bd. II: Wahrheit Gottes, Einsiedeln, 1987; trad. it. Teologica. vol. II:
Verità di Dio, Milano, 1990.
THG Theologie der Geschichte. Neue Fassung, Einsiedeln, 1959; trad. it. Teologia
della storia, Brescia, 1964.
VC Verbum Caro. Skizzen zur Theologie I, Einsiedeln 1960; trad. it. Verbum Caro.
Saggi teologici I, Brescia, 1968.

2. Altre abbreviazioni
CCC Catechismo della Chiesa Cattolica
CTI Commissione Teologica Internazionale
DBS Dictionnaire de la Bible Supplément
DZ H.DENZONGER – P. HÜNERMANN (ed.), Enchiridion Symbolorum
Definitionum et Declarationum de Rebus Fidei et Morum, Bologna, 1995.
EV Enchiridion Vaticanum
NRT Nouvelle Revue Théologique
PG Patrologia Graeca
RSR Recherches de Science Religieuse
RT Revue Thomiste

3. Indicazioni bibliografiche
(ed.) editore
ed. edizione
Ibid. stesso autore, stessa opera
ID. stesso autore, opera differente

107
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110
INDICE
Introduzione 2
Capitolo I - Il cardinale Journet : Les sept paroles du Christ à la croix 5
A. Introduzione 5
B. Le sette parole del Cristo in croce 7
1. Le parole del Verbo 7
2. Le tre prime parole 9
C. La quarta parola: Eloï, Eloï, lama sabachtani? 9
1. Parola che è scandalo 9
2. Parola che rivela uno scandalo più violento: l’Incarnazione 10
3. Beatitudine e sofferenza del Cristo 11
4. Sofferenza luminosa 12
5. Cristo, fatto maledizione, trattato da peccato 13
6. Gesù ha conosciuto tutti i dolori 13
7. Le due facce della quarta parola 14
D. Le tre ultime parole 15
E. Bilancio e conclusione 15
1. Sintesi del pensiero di Journet sul grido d’abbandono 16
2. Il grido d’abbandono e il mistero trinitario 17
3. La croce, mistero di luce 20
Capitolo II - Jurgen Moltmann: Il Dio crocifisso 21
A. Il Dio crocifisso 21
1. Introduzione 21
2. La questione dell’origine della cristologia 23
3. Il cammino di Gesù verso la croce 25
a. Gesù e la Legge: il bestemmiatore 25
b. Gesù e il potere: l’agitatore politico 25
c. Gesù e Dio: l’abbandonato da Dio 25
4. Il processo escatologico di Gesù 27
a. Escatologia e storia 27
b. La resurrezione dai morti 28
c. Il significato della croce del Risorto 29
d. L’avvenire di Dio sotto il segno del Crocifisso 30
B. Bilancio e conclusione 32
1. L’idea centrale e l’apporto originale 32
2. Riflessioni di carattere generali 32
3. L’esegesi che fonda il pensiero di Moltmann 34
4. Perplessità suscitate dalla cristologia del teologo riformato 34
a. Il primato della croce e la resurrezione di Gesù 34
b. Il processo di superamento della croce 36
c. La dottrina delle due nature e la sofferenza di Cristo 36
5. La teologia trinitaria di Moltmann 40
6. Conclusione 41
Capitolo III - H.-U. von Balthasar: Teologia dei tre giorni 42
A. Introduzione 42

111
B. L’unicità irripetibile della Figura di Gesù Cristo 43
1. La scoperta della Gestalt 43
2. Gesù Cristo, la Figura assolutamente unica 44
3. Gesù Cristo, la Figura centrale della Rivelazione 44
C. Incarnazione e rivelazione trinitaria di Gesù Cristo 45
1. Gesù Cristo: il Verbo di Dio divenuto carne 45
2. L’Incarnazione, rivelazione della Trinità 45
3. La croce, fine e termine dell’Incarnazione del Verbo 47
4. La necessità del molto patire e l’ora della croce 47
D. Il mistero pasquale: l’azione salvifica del Figlio di Dio 48
1. Introduzione 48
a. Gesù Cristo: Parola, Non Parola, Superparola 48
b. Il Cristo obbediente fino alla morte e alla morte di croce 49
c. La struttura eucaristica dell’esistenza di Gesù 49
d. Il mistero della kenosi 49
2. Il Triduum mortis 50
a. La morte di Dio, luogo originario della salvezza e della rivelazione
della trinità 50
b. il cammino verso la croce (venerdì santo) 52
c. il cammino verso i morti 56
d. il cammino verso il Padre (Pasqua) 58
E. Bilancio e conclusione 58
1. Originalità della riflessione cristologia balthasariana 58
2. Elementi della cristologia balthasariana che suscitano perplessità 60
a. Il concetto di sostituzione vicaria 60
b. Il concetto di Urkenose o kenosi primordiale 63
c. La personificazione del peccato 63
d. la discesa agli inferi 64
e. abbandono e discesa agli inferi 66
Capitolo IV - Chiara Lubich: L’unità e Gesù Abbandonato 67
A. Introduzione 67
B. L’unità 69
C. Gesù Abbandonato, chiave dell’unità con Dio 71
1. Gesù crocifisso e abbandonato agli albori del Movimento dei Focolari 71
a. la scoperta 71
b. una scelta unica, radicale 71
c. Gesù Abbandonato, vertice d’amore 72
d. da Gesù Abbandonato sgorgano fiotti di luce 73
2. Gesù Abbandonato, chiave dell’unità con Dio 74
a. Gesù Abbandonato, segreto e garanzia dell’unità 74
b. Gesù Abbandonato realizza l’unità con Dio 74
c. Gesù Abbandonato e il dono dello Spirito Santo 76
D. Gesù Abbandonato, chiave dell’unità con i fratelli 77
1. farsi uno 77
2. Gesù Abbandonato aiuta a ricomporre l’unità 78
3. Quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me 78

112
4. I dialoghi 78
a. dialogo ecumenico 79
b. dialogo interreligioso 80
c. dialogo con il mondo ateo 80
E. Bilancio e conclusione 81
1. L’unità è Gesù 82
2. Gesù abbandonato, modello per realizzare l’unità 82
3. Gesù abbandonato, chiave dell’unità degli uomini con Dio 82
4. Gesù abbandonato, chiave dell’unità con i fratelli 83
5. Gesù abbandonato svela l’amore del Padre 83
Capitolo V - Il grido d’abbandono nell’insegnamento di Giovannni Paolo II 85
A. Introduzione 85
B. Salvifici doloris 85
1. Il perché della sofferenza 86
2. Gesù Cristo: la sofferenza vinta dall’amore 86
a. L’amore salvifico 86
b. Cristo ha assunto su di sé la sofferenza umana 87
c. L’Uomo dei dolori 87
d. La sofferenza di Gesù al Getsemani e al Golgota 87
3. Partecipi delle sofferenze di Cristo 89
4. L’eloquenza della Croce e l’eloquenza della risurrezione 89
C. Novo Milennio ineunte 89
1. Un volto da contemplare 90
2. La profondità del mistero 90
3. Volto del Figlio 90
4. Volto dolente 91
5. Volto del Risorto 92
D. Bilancio e conclusione 92
1. Il mistero dell’Incarnazione 93
2. Il Volto del Figlio 94
3. Il grido d’abbandono 94
4. Sofferenza redentiva di Cristo 96
5. Eloquenza della Croce ed eloquenza della Risurrezione 96
Conclusione generale 97
1. “La punta più drammaticamente lacerante di tutta la passione” 97
2. Il grido d’abbandono, espressione ultima del mistero dell’Incarnazione 99
3. La Croce, mistero di luce 100
4. Sofferenza di Cristo e sofferenza degli uomini 101
5. Il grido d’abbandono e la Trinità: un mistero d’amore 102
6. Gesù abbandonato, chiave d’unità 104
Tavola delle sigle e abbreviazioni 106
Bibliografia 107
Indice generale 110

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