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Il Mosaico Absidale Di San Clemente A Roma

Il documento descrive il mosaico absidale della chiesa di San Clemente a Roma, analizzandone la simbologia. Viene spiegato come l'opera medievale riprenda modelli paleocristiani per esprimere il mistero dell'Incarnazione. Il mosaico raffigura un albero della vita che rappresenta la Chiesa di Cristo e contiene reliquie dei santi.

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Il Mosaico Absidale Di San Clemente A Roma

Il documento descrive il mosaico absidale della chiesa di San Clemente a Roma, analizzandone la simbologia. Viene spiegato come l'opera medievale riprenda modelli paleocristiani per esprimere il mistero dell'Incarnazione. Il mosaico raffigura un albero della vita che rappresenta la Chiesa di Cristo e contiene reliquie dei santi.

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Il mosaico absidale di San Clemente a Roma: dalla fenditura della roccia all’albero della

vita

Inquadramento storico

La chiesa di San Clemente a Roma offre quattro distinti livelli archeologici tra cui un celebre mitreo
del sec. III e una chiesa paleocristiana già citata da San Girolamo nel 385. L’attuale basilica
superiore fu costruita invece all’inizio del sec. XII, sotto il pontificato di papa Pasquale II. Si tratta in
realtà di una “ricostruzione” a partire dai ruderi rimasti dopo la distruzione di Roma del 1084 ad
opera di Roberto il Guiscardo. Le fonti ci dicono che nel 1106 il cardinale Anastasio, titolare della
basilica, ha già messo mano all’opera. Nell’arco del decennio successivo viene eseguito il mosaico
absidale, sul modello di quello paleocristiano. Analizzando il tipo di preparazione delle tessere
dorate, alcuni critici hanno evidenziato il riutilizzo di pezzi dell’antico mosaico crollato.

Siamo dunque in presenza di un’opera medievale che tenta di


riproporre un modello dei primi
secoli. E in effetti l’impianto
paleocristiano è subito
riconoscibile. La struttura e i
simboli fondamentali fanno parte di
quella grammatica con la quale gli
artisti dei secoli III-VI hanno
saputo dare un nuovo significato
alle forme pagane per “dire Cristo”
all’uomo del tardo Impero. Questo
processo di “trans-significazione”
delle forme artistiche è una vera e
propria “inculturazione” e
appartiene alla dinamica stessa
dell’Incarnazione. Per i Padri, dal momento in cui la carne umana è
capace di “essere Dio”, allora ogni espressione della cultura dell’uomo
può essere utilizzata per esprimere il mistero del Dio incarnato.

Ma su una struttura paleocristiana, i mosaicisti del sec. XII inseriscono


a San Clemente degli elementi tipici del Medioevo, come p. es. Maria
e Giovanni che fiancheggiano il crocifisso, oppure i personaggi
“annidati” sulle volute della grande pianta di acanto che riempie
l’abside. Il risultato finale di queste integrazione fa del nostro mosaico un eminente esemplare
teologico della “riforma gregoriana”. Dalla metà del sec. XI, Gregorio VII, appoggiato da Cluny e da
grandi fondatori come Romualdo di Ravenna, si era fatto promotore di un ritorno creativo alle fonti
per un rinnovamento della Chiesa.

La scritta che scorre alla base del catino absidale fornisce infatti una chiave di lettura ecclesiale a
tutto il mosaico. Il testo segnato in tessere bianche su sfondo oscuro inizia con le parole:
“Ecclesiam C(h)risti viti simulabimus isti” (“a questa vite paragoneremo la Chiesa di Cristo”).
L’intero programma iconografico propone dunque l’immagine gregoriana della Chiesa come una
vite nata dalla croce di Cristo e dove si annidano gli uomini di ogni condizione e rango sociale.

La simbologia dei materiali

La stessa scritta alla base del catino prosegue indicando che nella rappresentazione del corpo di
Cristo sono state inserite, accanto alle tessere di mosaico, delle reliquie della santa croce e dei
santi Giacomo e Ignazio di Antiochia. Il mosaico si rivela allora non più come una semplice opera
d’arte ma come un vero e proprio reliquario. Osservare l’abside di San Clemente non è osservare

1
delle semplici rappresentazioni. Il credente si ritrova di fronte al legno reale della salvezza e a dei
corpi veri. Corpi di martiri che hanno testimoniato il Risorto e che hanno fatto nascere la Chiesa.
La contemplazione di questo mosaico coincide allora esattamente con la liturgia chiamata a
svolgersi in questo spazio. Essa rende il credente “realmente presente” al Golgotha, al legno della
croce. Ma questa “presenza reale” non è più vissuta nella disgregazione e nella paura del venerdì
santo bensì viene celebrata da testimoni del Risorto, radunati in Chiesa viva. La liturgia è presenza
reale della croce e al tempo stesso festa della Risurrezione. Ed è questa festa che costituisce la

Chiesa. Le reliquie dei martiri mischiate alle altre tessere del mosaico stanno a dire che sono solo
l’inizio di una lunga serie e che ognuna delle altre tessere rappresenta per ciascuno di noi la
promessa di diventare come loro.

In questo modo viene ripresa l’intuizione originaria del mosaico paleocristiano. Ricoprire la
superficie di un luogo sacro con delle tessere colorate e dorate è dare un’immagine della comunità
cristiana come di una comunione di “pietre preziose” di diversi colori che insieme formano la
“Gerusalemme celeste”, secondo la descrizione del capitolo 21 dell’Apocalisse.

Nella lingua ebraica, esiste un’assonanza fra la parola “pietra” (aven) e la parola “figlio” (b’n).
Parlare delle pietre di una casa diventa una metafora per parlare dei “figli” di un “casato”. Ogni
essere umano è così rappresentato come un “figlio prezioso”, scelto con cura proprio perché il suo
colore specifico è necessario per la bellezza dell’insieme. La stessa ricerca affannosa del
mosaicista che va a cercare le pietre rare a volte in cantiere lontanissimi diventa immagine della
corsa del Buon Pastore che va a prendere la pecora lontana, o immagine del desiderio di un Dio
che ha scelto i suoi figli con cura infinita. Inoltre rispetto ai mosaici lisci della classicità romana, il
mosaicista cristiano pone le sue tessere su una superficie di malta irregolare. Lo scopo è di
evidenziare ancora maggiormente che ogni tessera dorata riflette la luce in modo diverso. La
“vocazione” di ogni “pietra”, di ogni figlio, è di riflettere la luce secondo il modo suo specifico.

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Immagine della Pasqua

Si può interpretare il mosaico di San Clemente come un susseguirsi di “strati teologici” che rivelano
la storia della salvezza, sintetizzata nell’evento pasquale e presente nella liturgia eucaristica.

Il primo “strato” è lo sfondo oro. La tradizione dello sfondo dorato è tipica dell’arte medievale
bizantina e risale all’epoca paleocristiana. Lo sfondo dorato dei mosaici diventerà lo sfondo dorato
delle icone greche e russe, e segnerà ancora il ‘200 italiano.

L’oro richiama immediatamente la luce dello sguardo di Dio. In molte culture la luce è la prima
metafora del divino. Come Dio, la luce non si vede, ma è ciò che permette di vedere. La luce è ciò
che fa “apparire” le cose, tirate fuori dall’oscurità, così come Dio fa “essere” il creato, tirato fuori dal
“non-essere”. Dagli Inca agli antichi Egiziani, dal Budda agli Aztechi, è il raggio di luce solare che
unisce il cielo agli inferi. Esso è “materializzato” per esempio negli obelischi.

Attraverso la filosofia neoplatonica, questa metafora entra pienamente nella teologia cristiana, già
ben disposta da una tradizione biblica dove la luce è simbolo della Parola. “Lampada per i miei
passi è la tua parola, luce sul mio cammino”, canta il salmo 119 (Sal 119,105). E’ interessante
notare che le prime parole di Dio nella Bibbia sono “Sia la luce” (Gn 1,3). E Gesù stesso afferma
“Io sono la luce del mondo” (Gv 8,12). Per i Padri pregare è situarsi sotto la luce, lasciarsi
illuminare da Dio, lasciarsi “essere”. Pregare davanti al mosaico dorato è riconoscersi come una di
quelle tessere dorate che formano il grande quadro dell’intera creazione.

Ma l’oro è anche un
simbolo ancestrale di
fedeltà. Proprio perché
metallo resistente e
duraturo, esso è usato
nelle simbologie
dell’alleanza. Pregare
davanti a una superficie
dorata è pregare davanti
allo sguardo fedele del Dio
che fa alleanza. Questa
consapevolezza è la porta
di ingresso alla preghiera
per molti dei grandi maestri
spirituali di Oriente e
Occidente. Santa Teresa
d’Avila dirà: “quando
preghi, guarda con quanto
amore Egli ti sta
guardando; questa è la porta della preghiera”.

A San Clemente, l’oro ricopre tutta la superficie, che è immagine del creato. Un modo per dire che
la bellezza di Dio ricopre tutta la creazione. Lo sguardo di chi entra in chiesa, attratto dal luccichio
dell’abside può ripercorrere tutta la superficie musiva e trova luce. “Alla tua luce vediamo la luce”,
dice il Salmo 35. Il luccichio delle creature riflette l’invisibile luce del Creatore. Ogni singola
creatura riflette questa Luce. C’è però un’eccezione. Nel centro geometrico del mosaico si staglia
una superficie del tutto diversa. Essa contrasta brutalmente con l’oro della Creazione. E’ la croce. I
mosaicisti la rappresentano con un colore blu oscuro. E’ una sorta di abisso. Ed esso coincide
esattamente con l’asse centrale del mosaico, cioè con l’area dove lo sguardo finisce per
concentrarsi seguendo la “pendenza” della curva absidale. Questo abisso della croce “rompe” la
superficie uniforme del mosaico e cattura lo sguardo come una sorta di “buco nero”.

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Nel suo studio su “Lo
spirituale nell’arte”
(Monaco 1910), Vassily
Kandinsky ha evidenziato
come il colore giallo-oro
richiami istintivamente la
fisicità e la vicinanza. Il
suo opposto è il blu
oscuro che conferisce un
senso di astrattezza e di
allontanamento. Una
superficie blu oscura “si
ritrae”, evoca
l’inafferrabile senza fondo.
Applicato al nostro
mosaico possiamo dire
che l’intera creazione è
“fisicità” di Dio, esprime la
sua vicinanza. Nel centro
della creazione però,
come una ferita profonda,
si delinea un abisso, una
crepa a forma di croce. E’
l’emblema del male, il
luogo dove la creazione è
“rotta”. E’ il luogo dove il
creato non riflette più la
luce di Dio. Ed è proprio
quel luogo dove il nostro
occhio si fissa, attratto
irresistibilmente dal male.
Lo “scandalo del male” è il
punto focale del mosaico.
Il “buco nero” dello spirito.

“Il mio peccato mi sta


sempre dinanzi” dice
Davide nel Sal 51. Il
peccato, il male, è ciò
“risucchia” tutte le energie
spirituali dell’uomo.
L’abisso blu oscuro
cattura lo sguardo del cuore e impedisce di contemplare l’oro della creazione. In questa “crepa
della creazione” si nasconde l’uomo ferito e peccatore, come la colomba del Cantico, nascosta
“nella fenditura della roccia”. Nel Cantico la colomba è lo sguardo dell’amata (Ct 1,15; 4,1) ma è
anche l’amata stessa (Ct 6,9). Perciò i mosaicisti di San Clemente hanno posto dentro a questo
abisso dodici colombe. Esse rappresentano i dodici apostoli e le dodici tribù d’Israele. L’intero
popolo. Il suo sguardo attratto dall’abisso lo ha fatto precipitare nella fenditura della roccia e
adesso non può più uscire. Allora l’innamorato chiama: “O mia colomba, che stai nelle fenditure
della roccia, nei nascondigli dei dirupi” (Ct 2,14a).

La voce di Dio arriva fino agli abissi del peccato e come dicono i Padri “va a disturbare la solitudine
del peccatore”, che vorrebbe rimanere solo nel suo nascondiglio. Questa voce dell’Amore è la
Parola stessa. Essa chiama il peccatore a ritrovare la sua dignità: “mostrami il tuo viso, fammi
sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo viso è incantevole” (Ct 2,14b). Ma il
peccatore non esce dalla sua vergogna. Allora l’innamorato decide di entrare egli stesso nella

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vergogna, nell’abisso del male, pur di ritrovare la comunione con l’amata. E’ la storia di Gesù di
Nazareth. La storia di un Dio che entra nella morte, per restituire all’uomo un volto e una voce.

Si può dire che nel versetto del Cantico la chiamata dell’Innamorato copre la distanza infinita fra
Dio e il peccatore. Si tratta di una chiamata di una tenerezza infinita. E’ l’amore stesso. Questa
chiamata non è un semplice fiato di voce. Questa chiamata è una Parola fatta carne. E’ Gesù
Cristo. Egli è il Dio che copre ogni distanza e che penetra negli abissi della morte per stare con le
“sue colombe”. E’ la storia di un Dio “fatto peccato” (cf. 2Cor 5,21) pur di ristabilire la comunione
con il peccatore.

Allora chi fissa lo sguardo sul fondo del catino absidale di San Clemente, proprio perché “catturato
dal peccato”, si scopre di fronte al Salvatore. L’Amore ha preso il posto del peccato. Egli ha
riempito l’abisso. L’esperienza cristiana è proprio questa: ricordare il proprio peccato e al posto di
vederci il peccato scoprirci l’Amore di Dio. Proprio perché l’uomo guardava sempre al proprio
peccato, Dio ha deciso di entrare nel peccato per essere sempre guardato dall’uomo. Scoprire la
croce di Cristo è scoprire Dio nell’abisso del proprio peccato. Lì dove uno vorrebbe sprofondare, lì
dove uno si vergogno, ebbene proprio lì Egli manifesta la Sua Signoria.

Questo messaggio forte del mosaico di San Clemente è ribadito dalla simbologia che scopriamo ai
piedi della croce. Nel luogo stesso dove è “piantato” l’asse verticale della croce, sotto il cespuglio
di acanto che nasconde la sua base, i mosaicisti hanno rappresentato un minuscolo cervo il cui
muso sfiora una sorta di nastro rosso a forma di serpente. Si tratta probabilmente della ripresa di
una simbologia paleocristiana il cui significato preciso non è più evidente per i mosaicisti del sec.
XII. Il cristianesimo antico aveva codificato nel libro del Physiologus la valenza allegorica di molti
animali, spesso riprodotti nell’arte figurativa dei primi secoli. Una di queste allegorie era quella del
cervo. L’uomo dell’antichità pagana era colpito dalla sete di questo animale, capace di ingurgitare
enormi quantità di acqua. Era nata così la convinzione pseudo-scientifica che il motivo di questa
sete fosse il fatto che i cervi mangiavano i serpenti e che il veleno dei serpenti esigeva grandi
quantità di acqua per essere neutralizzato. La tradizione simbolica cristiana aveva ripreso questa
convinzione interpretandola in modo allegorico: noi tutti siamo come i cervi perché noi tutti
abbiamo inghiottito il serpente del peccato che ci avvelena la vita; ma proprio questo veleno ci
spinge a cercare l’acqua che è la grazia, che è Cristo stesso. Il primo cristianesimo aveva
interpretato così il Sal 42 che inizia con le parole: “Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così
l’anima mia anela a te, o Dio”. Proprio questo Salmo dava inizio alla liturgia battesimale, quando
nella notte di Pasqua i catecumeni avanzavano in processione verso l’acqua del battesimo che è la
grazia a cui anelano.

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Nel primitivo
mosaico
paleocristiano di
San Clemente, ciò
che adesso è una
ghirlanda rossa il
cui senso non è
decifrabile, era
molto
probabilmente un
serpente, inghiottito
dal cervo
rappresentato
proprio in asse ai
piedi della croce.
Numerosi sono i
paralleli iconografici
paleocristiani che
mostrano i cervi
inghiottire un
serpente e/o bere
all’acqua della vita.
La croce del nostro
mosaico è dunque piantata esattamente nel punto dove si compie il peccato, nel punto dove il
cervo inghiotte il serpente velenoso. E allora non è un caso se appena sotto vediamo due cervi di
dimensioni maggiori, posizionati simmetricamente, che bevono a quattro corsi d’acqua che
sembrano sgorgare dai piedi
della croce. Sono i quattro
fiumi del paradiso, secondo il
racconto di Gen 2. Proprio il
luogo del peccato diventa
luogo della grazia. E proprio
perché il cervo ha inghiottito
il serpente esso beve
adesso dai quattro fiumi del
paradiso. La croce di Cristo
ha trasformato il luogo del
peccato in paradiso.

E allora è facile capire


l’ultimo “strato” di questa
narrazione iconografica.
Proprio dai piedi della croce
nasce un cespuglio le cui
volute riempiono tutto lo
spazio disponibile, tutta la terra. Nel mosaico originario paleocristiano si tratta senza dubbio di una
pianta di acanto. L’acanto era nella simbologia pagana antica la pianta della vittoria. Le sue spine
richiamavano le sofferenze del combattimento e il suo profumo intenso richiamava il piacere della
vittoria. Essa è poi una pianta sempre verde usata in particolare nella decorazione dei capitelli
corinzi per significare il “giardino dell’eterna primavera”. Il cristianesimo primitivo ha ripreso in
chiave pasquale questa simbologia. L’acanto è la pianta della morte (spine) e della Risurrezione
(profumo). Nel testo greco del Vangelo, la corona del Cristo crocifisso è una corona di “akanthos”
(cf. Gv 19,2).

Per i nostri mosaicisti, il Cristo morto e risorto ha trasformato tutta la creazione, frantumata dal
peccato, in giardino della vittoria. Le volute sono esattamente 50, in greco “Pentecoste”. E’ la cifra
del compimento, dello Spirito che riempie tutto lo spazio e porta la Chiesa fino agli ultimi confini. E’
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che la liturgia stessa è prima di tutto un’effusione dello Spirito. Sul pane e sul vino, certo. Ma
anche sull’assemblea e addirittura sul mondo intero. Per i Padri, l’eucaristia è la porta attraverso
cui tutta la Creazione diventa (o ri-diventa) presenza reale di Dio. Il mosaico di San Clemente
descrive così la liturgia eucaristica come quella Nuova Creazione operata dallo “Spirito Creatore”.

Cinquanta è anche la cifra biblica dell’anno giubilare, l’anno della remissione dei debiti e del ritorno
alla terra, l’anno della liberazione degli schiavi. Il Nuovo Testamento presenta Gesù come “l’anno
di grazia del Signore” (Lc 4,19), l’anno giubilare definitivo, la Pentecoste eterna.

Ma soprattutto queste cinquanta volute fanno della croce un albero che riempie l’universo. La
croce è diventato albero della vita. Piantato nel centro del giardino, esso regge adesso l’universo,
unisce il cielo e la terra. Vale a dire che tutto lo spazio della creazione è il luogo per fare
un’esperienza sorprendente: ciò che era stato il peccato di Adamo, cioè il mangiare dell’albero in
mezzo al giardino, diventa adesso la massima comunione con Dio, dal momento che Cristo stesso
è diventato quel frutto appeso all’albero. Già nel sec. III leggiamo in un testo attribuito a Ippolito
Romano (Omelia sulla Santa Pasqua, 50s.):

«Questo legno mi appartiene per la mia salvezza eterna. Me ne nutro,


ci pascolo, mi consolido nelle sue radici. [...] Fiorisco con i suoi
fiori; i suoi frutti mi procurano un godimento perfetto, frutti che
raccolgo, preparati per me dall’inizio del mondo. Per la mia fame ci
trovo un alimento delicato; per la mia sete, una fontana; per la mia
nudità, un vestito; le sue foglie sono Spirito vivificante [...]. Ecco la
scala di Giacobbe dove gli angeli salgono e scendono e in cima alla
quale sta il Signore [...]. Questo albero che si stende così lontano
fino al cielo, sale dalla terra al cielo. Pianta immortale, si erge nel
centro del cielo e della terra: fermo sostegno dell’universo, legame
di tutte le cose, appoggio di tutta la terra abitata, intreccio cosmico
che comprende in se tutta la diversità della natura umana»

E contemporaneo del mosaico paleocristiano di San Clemente, un testo anonimo attribuito a


Giovanni Crisostomo (Omelia sui Salmi 1)riprende:

«Egli poi è anche l’albero piantato presso i corsi delle acque, che il
Padre ha generato – senza nessun mediatore – fecondo, abbondante
di frutti, rigoglioso, dall’alta chioma, dai bei rami. [...]
Vuoi vedere anche il frutto che questo [albero] ha dato a suo tempo?
Guarda questo frutto crocifisso e il suo fianco trafitto, da cui è
zampillato sangue e acqua, il sangue per indicare il martirio, l’acqua
come simbolo del battesimo. Poiché infatti un fianco trafitto
rovinò Adamo, era necessario che un fianco trafitto lo rigenerasse.
Un legno verde abbattè l’uno, un legno secco risollevò il mondo.
L’aver mangiato di quello generò la morte, il mangiare di questo fa
rinascere la vita. Di quelli fu detto: Non ne mangerete; di questo
invece: Gustate e vedete che il Signore è buono. [...] È bello come
un melo, dolce come vino, fertile come ulivo, specioso come melograno,
fruttifero come palma, maturo come uva. Gustate e vedete.
Il frutto è sulla croce: fiorì nei patriarchi, sbocciò nei profeti, diede
profumo nella venuta, maturò nella passione, viene mangiato dopo
la risurrezione. Gustate e vedete com’è dolce, com’è vigoroso, com’è
maturo, com’è florido, com’è pieno di ogni bellezza»

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E’ interessante notare che i mosaicisti medievali hanno
trasformato questo albero, da acanto paleocristiano in vite. Se le
foglie alla base della croce richiamano ancora l’acanto, le volute
hanno sì il fiore dell’acanto ma il gambo della vite. Viene ripresa
così un’immagine che nell’Antico Testamento simboleggia
Israele (p. es. in Is 5) e nel
Nuovo Testamento rappresenta
Cristo stesso e la sua Chiesa. Il
brano di riferimento, a cui si
ispira l’iscrizione commentata all’inizio, è Gv 15. Quando Cristo
dice ai suoi discepoli “Io sono la vite, voi i tralci” (Gv 15,5), Egli
sottolinea l’unione vitale fra se stesso e la sua comunità. Ed è
questa intima unione a Cristo che la Chiesa del sec. XII vuole
ritrovare.

La Chiesa di Gregorio VII si


trova nella situazione di dover
“tagliare i tralci secchi”. Ma essa vede anche crescere grappoli
generosi, nello studio teologico, nel rinnovamento della vita
religiosa, nella stessa organizzazione della vita quotidiana del
cristiano. Perciò i mosaicisti del
sec. XII hanno rappresentato a
mo’ di grappoli le più svariate
figure della società medievale,
dal monaco studioso alla contadina, dal pastore al viandante. Ma
anche: Maria madre della Chiesa, il discepolo amato, i dottori della
Chiesa, la fauna simbolica, gli
uccelli del cielo,… L’intero
albero della croce è diventato
così un’immagine della parabola del granello di senape a cui
Cristo paragona il Regno di Dio: “Esso è il più piccolo di tutti i
semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante
dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo
vengono a far nido fra i suoi rami” (Mt 13,32).

Da notare infine che questo seme porta frutto abbondante proprio perché muore. “Se il seme
caduto a terra non muore…” (cf. Gv 12,24). E proprio perché muore riceve il premio della vittoria e
la Signoria su tutto l’universo. Proprio in questa sua capacità di dare la vita consiste la sua
Signoria cosmica. E’ quanto ci indica la cima del catino absidale. Questa parte del mosaico
rappresenta un cielo aperto e una tenda allargata alla misura dell’intera creazione. “Ecco la tenda
di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro”, dice l’Apocalisse quando descrive la Gerusalemme
celeste (Ap 21,3). Lo spettacolo descritto fino adesso dal mosaico absidale di San Clemente si
rivela in ultima analisi come una reinterpretazione della Gerusalemme celeste. La Chiesa,
simboleggiata dalla chiesa, è quella tenda del “Dio con noi”, che coincide con l’intera creazione.
Per i Padri, come per alcuni testi del Nuovo Testamento (cf. Col 1,15-20), la Chiesa è lo scopo
finale della Creazione intera.

Esattamente al di sopra della croce, nello spazio di “cielo aperto” tra la superficie dorata e la “tenda
del cielo”, possiamo distinguere la mano del Padre che porge sul figlio una corona. Si tratta di uno
schema iconografico ben conosciuto nell’arte paleocristiana. Esso sta a sottolineare che “Dio ha
risuscitato Gesù”, secondo la formula forse più antica nell’annuncio del mattino di Pasqua. La
corona significa vittoria, vittima sacrificale, ma anche divinità stessa. In ultima analisi la corona è il
rapporto che intercorre fra Padre e Figlio, cioè la Spirito. Allora questo schema inquadra l’intera
opera in una cornice trinitaria. L’intera Creazione, come l’intera Chiesa nasce dalla relazione fra
Padre e Figlio di cui la Pasqua è la massima celebrazione e l’eucaristia la sua “tenda”, la sua “casa
di pietre preziose”.

8
Jean-Paul Hernández SJ
Bologna, marzo 2012

Per approfondire la relazione fra


arte, liturgia e Trinità:

- J. Danielou, Bibbia e
liturgia, Milano 1961

- J. P. Hernández, Nel
grembo della Trinità, Milano 2005

- T. Verdon, Vedere il mistero, Milano 2003

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