L’Esistenzialismo è un umanismo
Il club Maintenant venne aperto a Parigi dopo la guerra come centro culturale e di scambio di idee. E’ in
questo luogo che Sartre tenne, nel 1945, la conferenza L’esistenzialismo è un umanismo, che fu seguita da
moltissime persone. Sartre sentì il bisogno di chiarire le critiche rivoltegli da cattolici e marxisti, che
accusavano gli esistenzialisti di mancare di solidarietà agli uomini e di essere chiusi in un’ottica di “io
isolato” e non collocato in una dimensione intersoggettiva.
I marxisti/comunisti erano dell’opinione che l’esistenzialismo fosse una filosofia contemplativa (borghese,
quindi un lusso) in quanto pensavano accentuasse gli aspetti negativi dell’uomo portandolo all’esasperazione
e all’incapacità di prendere decisioni; i cattolici credevano, invece, che l’incapacità di agire derivasse dalla
mancanza di un punto di riferimento e dal venir meno dell’assolutezza di valori e criteri di riferimento.
Sartre volle confutare queste critiche provando a mettere in evidenza come queste partissero da un
fraintendimento nel modo di concepire l’esistenzialismo, che era divenuto quasi una moda anche grazie al
suo romanzo della Nausea. Nella sua conferenza, Sartre voleva ridefinire l’esistenzialismo in tre punti:
QUESTIONE 1: al centro dell’esistenzialismo vi è l’uomo e la sua soggettività
QUESTIONE 2: l’esistenza precede l’essenza (visione tecnica del mondo)
QUESTIONE 3: non esiste una natura umana, l’uomo è ciò che si fa
Nelle prime
pagine Sartre enuncia quelle che sono le critiche rivoltegli da comunisti e cattolici.
Paragrafo 5: è difficile definire l’Esistenzialismo perché, essendo diventato una moda, l’uso del termine si è
tanto esteso da aver perso di significato. Inoltre, la dottrina viene ritenuta, a detta di Sartre, più scandalosa di
quanto non sia, a causa del fatto che il pubblico è acido di ulteriori scandali e sorprese. Il filosofo ritiene che
le dottrine d’avanguardia (come il surrealismo) abbiano suscitato scandalo tra l’opinione comune e che lo
stesso scandalo sia ora attribuito all’esistenzialismo, che, in realtà, non è “adatto” al pubblico ma a specialisti
e filosofi.
Paragrafo 6 a 8: Ciò che complica il discorso sull’esistenzialismo è che ne esistono, sommariamente, di due
tipi. Il primo è l’esistenzialismo cristiano, che include Jaspers e Marcel, mentre il secondo è un
esistenzialismo ateo, nel quale bisogna porre Heidegger, gli esistenzialisti francesi e Sartre stesso. Ciò che i
due filoni hanno in comune è il fatto che ritengono che l’esistenza dell’uomo preceda la sua essenza
(soggettività). Qui vi è un calzante riferimento a Platone e alla sua filosofia del mondo delle idee, ossia l’idea
che noi abbiamo del libro o del tagliacarte precede la loro realizzazione. Prima di costruire qualcosa,
l’artigiano deve avere ben chiaro il concetto di ciò che vuole realizzare. L’essenza (idea) degli oggetti,
perciò, precede l’esistenza (realizzazione): lo scopo degli enti è esplicito e loro stanno ad esso, e per fare ciò
devono coincidere in tutto e per tutto all’idea originale. L’esistenza degli uomini, tuttavia, precede la loro
essenza, poiché all’uomo non è attribuita una funzione (come agli oggetti) e poiché non c’è un “essenza-
uomo” unica e universale dalla quale in qualche modo prendono forma i singoli uomini, perché prima del
soggetto non c’è nulla. Dio è come un artigiano supremo: crea il mondo a partire da idee nella sua mente
mentre crea l’uomo a sua immagine e somiglianza.
L’esistenzialismo è quella dottrina che pone l’uomo al centro in quanto esistenza libera nel mondo, al quale
attribuisce un senso poiché questo non può distaccarsi o contrapporsi all’esistenza. L’umanesimo, invece,
inteso come periodo storico (da distinguersi dall’umanismo, che indica la dottrina) che va dalla fine del
Medioevo all’inizio del Rinascimento, pone l’uomo al centro in quanto tale e si interroga sulle sue
caratteristiche. Al centro di tale dottrina vi è una riscoperta dell’uomo rispetto a Dio (non al mondo), che nel
Medioevo veniva inquadrato all’ombra del Signore. Questo periodo è caratterizzato da un rinnovato interesse
nei confronti delle lettere antiche/classiche, la nascita dei comuni in Italia, ecc.
Un testo fondamentale dell’umanismo classico al quale Sartre fa riferimento è Discorso sulla dignità
dell’uomo di Pico della Mirandola, col quale possiamo notare sia analogie che differenze nei confronti del
pensiero di Sartre riguardo il concetto di Dio creatore. Nel testo, l’autore si mette nelle vesti di Dio, che ha
appena completato la sua opera di creazione e si rivolge a Adamo per chiedergli in che modo può renderlo
differente dagli animali. Essendo l’uomo dotato di una natura né celeste né terrena, a lui è data la scelta di
elevarsi e diventare divino e immortale come il suo creatore o abbassarsi al livello delle bestie mortali. A
differenza degli enti e delle cose, l’uomo è dotato di una natura illimitata e indefinita, in quanto è libero –
all’interno di una visione del mondo già data, poiché resta comunque un prodotto della creazione divina.
Sartre non è d’accordo sul fatto che l’esistenza dell’uomo preceda la sua essenza. Egli crede, infatti, che gli
individui non corrispondano ad un’idea precisa di uomo che poi si realizza nella realtà. E’ unicamente
all’uomo che è data la responsabilità di decidere della propria esistenza poiché è privo di idee che gli
fungano da modelli. Mentre nella Nausea Sartre traduce in negativo questo concetto, nella conferenza
l’uomo assume la responsabilità di essere contingente in modo positivo.
L’Esistenzialismo è un umanismo ha come tema anche il rapporto tra esistenza (uomo) e mondo (inteso come
qualcosa di creato e plasmato dall’uomo – non in senso cristiano, ma in quanto è grazie all’uomo che il
mondo ha un senso), ed entrambi vengono messi in discussione. Il primo filosofo pre-esistenzialista a parlare
dell’uomo in termini di esistenza intesa come possibilità connessa all’angoscia è Kierkegaard. Il suo pensiero
nasce dalla crisi del pensiero sistemico di Hegel, che voleva dare una spiegazione al reale partendo da un
principio unitario. Nietzsche, invece, dice che Dio è morto: l’esistenza fuori dell’esistenza è morta, e l’uomo
ha quindi la responsabilità di agire e cambiare la sua realtà.
Kant, invece, era dell’opinione che ogni singolo uomo sia una concreta realizzazione di un’idea generale, per
cui l’essenza dell’uomo precede la sua esistenza storica.
Paragrafo 9-10: In base al primo principio dell’esistenzialismo, l’uomo è capacità di auto-progettarsi ed è
legislatore di sé stesso. Egli è trascendenza, intesa non in senso religioso ma in senso esistenzialistico, come
la capacità di superarsi continuamente e migliorare attraverso le proprie azioni. Prima di esistere
concretamente l’uomo non è nulla, perché prima dello svolgersi della sua vita egli non “è” da nessuna parte:
la sua essenza non si trova in nessun luogo e neanche in Dio, poiché si è negata la sua esistenza. Non avendo
alle spalle alcuna indicazione che gli prescriva come essere e dove andare, l’uomo sartriano sarà
esclusivamente ciò che avrà deciso di essere (in ciò, per altro, Sartre fa consistere la superiore dignità
dell’uomo rispetto agli animali e agli oggetti). Sartre affronta anche il tema della libertà: egli distingue la
libertà come condizione originaria dell’essere umano dalla volontà che segue tale libertà e di essa è
manifestazione. L’uomo non potrebbe volere qualcosa, se non fosse detentore di una libertà primigenia che è
fondamento del suo stesso essere. La radicale libertà dell’uomo, però, implica anche responsabilità, alla
quale l’uomo non può sfuggire e che appare non solo come una ricchezza, quanto come un duro impegno,
anzi, una vera e propria condanna. Uno dei motivi per i quali la responsabilità di cui è gravato l’uomo ha un
grosso peso è il suo inevitabile ripercuotersi sugli altri: ogni scelta personale finisce per coinvolgere tutta
l’umanità. Evidenziare tale caratteristica permette a Sartre di respingere ancora una volta l’accusa di
individualismo da parte dei marxisti: il suo esistenzialismo si presenta, infatti, fortemente connotato in senso
interpersonale e sociale. Il singolo uomo è responsabile di tutti gli uomini. Le azioni individuali ricadono
sulla collettività, incluse le scelte di vita: ad esempio, se oggi è diffuso il concetto di monogamia nelle
società occidentali, è perché in passato un uomo ha deciso di sposarsi e inconsciamente ha dato il via a
questa tradizione. L’azione di ogni uomo è esemplare per tutti gli altri, che lo si voglia o meno. In ogni scelta
l’uomo decide anche per l’immagine di sé che va a trasmettere. Per di più, l’esistenzialismo ci porta a
pensare come un gesto estremo come il suicidio sia inconcepibile, in quanto l’uomo deve sempre pensare alla
collettività (poiché le nostre scelte si ripercuotono sugli altri) e non all’individuale. Sartre, quindi, non si
identifica più nella filosofia dell’io isolato, ma (influenzato dal contesto storico) in una filosofia più
impegnata, in cui la letteratura riveste un ruolo sociale, morale e politico.
Paragrafo 11: Sartre si sofferma sul concetto di angoscia, che è una delle parole chiave della filosofia
esistenzialista fin dalle sue origini. Sartre collega l’angoscia da una parte all’insensatezza ed insignificanza
della vita umana, e dall’altra alla responsabilità che l’individuo si assume compiendo una scelta. L’angoscia,
a differenza della nausea che provoca disperazione ed inattività nell’uomo, è alla base dell’attività e
dell’azione umane. Secondo il filosofo, tutti gli uomini sono angosciati nelle loro scelte: chi lo nega o
afferma di non avere l’angoscia, è in malafede, cioè mente agli altri e a sé stesso. Emerge il carattere
polemico del messaggio sartriano: dinanzi alla necessità di scegliere e all’angoscia nessuno può sfuggire.
Coloro che credono di potersela cavare rifugiandosi nel conformismo, nella banalità e nella menzogna prima
o poi dovranno fare i conti con l’inquietudine propria della loro esistenza.
Paragrafo 12 a 16: a Sartre sta a cuore dimostrare che l’esistenzialismo non è una dottrina di rassegnazione:
egli sa che non è facile coniugare angoscia e attività responsabile, ma sottolinea, attraverso la metafora del
capo militare, come le due siano strettamente legate tra loro. L’angoscia è la radice dell’agire (e quindi
l’opposto della nausea). Parla poi anche di abbandono, cioè del fatto che, dato che Dio non esiste, l’uomo è
da solo nel mondo e nel compiere le sue scelte.
Sartre afferma che la sua posizione è più radicale di quella della morale laica, costruita nell’Ottocento da
alcuni esponenti del positivismo e naturalismo, alla quale si contrappone. La morale laica si basa sul
presupposto che, anche se Dio non esiste, l’uomo ha a disposizione dei valori a priori e delle idee predefinite
sulla base delle quali orientare le proprie azioni. Sartre è dell’opinione che la morale laica, così facendo,
rinuncia a Dio ma senza assumersi le conseguenze di tale scelta, ossia il fatto che l’uomo, una volta perso
Dio, non ha più una morale alla quale aggrapparsi, mentre è così per l’esistenzialismo, per cui l’uomo
costruisce il proprio destino sfruttando la sua libertà, che deriva dall’abbandono da Dio e da un sistema di
valori certo e universale. Sartre cita poi Dostoevskij: “se Dio non esiste tutto è permesso”, per far notare
ulteriormente come l’ateismo conduce inevitabilmente verso un totale relativismo etico. Se Dio non esiste,
tutto è lecito all’uomo, perché egli è libero.
Paragrafo 18 a 25: Sartre fornisce un esempio pratico al suo discorso riportando della volta in cui un suo
allievo gli chiese consiglio riguardo una delicata questione: partire per la guerra o restare con la madre sola.
Il contesto storico è quello dell’occupazione nazista della Francia nel maggio 1940, quando i soldati francesi
ribelli al governo di Vichy fuggono in Inghilterra per rispondere all’appello alla resistenza lanciato dal
generale De Gaulle. Il giovane è indeciso tra il restare con la madre per aiutarla, dato che ha già perso un
figlio in guerra e che è in conflitto col marito per divergenze politiche (lui supporta il nazismo), oppure se
rispondere all’azione. Sartre mette in luce la drammaticità (incertezza e rischio onnipresente) legata alla
responsabilità dell’uomo di scegliere. Per dimostrare come in ogni situazione in cui l’uomo si trova manca
un criterio universale affidabile che rende ogni scelta difficile e non più legittimabile in assoluto, il filosofo
dà all’allievo cinque risposte:
1. La dottrina cristiana di devozione e sacrificio per l’altro può aiutarci a scegliere? La risposta è no,
perché l’”altro”, il “prossimo” potrebbe essere sia la madre (che ha bisogno della presenza del
figlio) che i soldati al fronte (che hanno bisogno di vincere la guerra). Chi vale di più?
2. La morale kantiana può aiutarci a scegliere? Sartre si rifà alla seconda formula dell’imperativo
categorico: agisci in modo tale da trattare l’umanità, sia nella tua persona che negli altri, sempre
anche come fine e non solo come mezzo. Ciò significa che bisogna agire in modo tale da rispettare la
dignità umana (nostra e altrui) senza utilizzare le persone per raggiungere uno scopo – che è
permesso unicamente con gli oggetti, poiché le persone vanno rispettate in quanto tali. Ciò non vuol
dire che le persone non possano essere usate come mezzo (è inevitabile “usare” le persone, anche se
solo fino ad un certo punto), ma che debbano essere trattate soprattutto come fini. In ogni caso,
anche questa morale non può risolvere il problema in quanto, restando a casa o andando in guerra, la
parte che viene “scartata” (i soldati o la madre) resterà solo un mezzo per raggiungere un fine e non
verrà considerata come fine essa stessa.
3. Lasciarsi guidare dall’empatia e dal sentimento neanche è la risposta giusta, in quanto il valore del
sentimento può essere colto solo dopo l’azione. Per di più, il sentimento non offre una base
oggettiva per giudicare i vari comportamenti e scelte umane.
4. Rivolgerci ad un consigliere: nel momento in cui io scelgo il profilo del consigliere al quale chiedere
una mano, ho già scelto inconsciamente cosa fare. Se vado da un prete rivoluzionario o da un prete
collaborazionista (in riferimento ai diversi atteggiamenti del clero francese durante l’occupazione
nazista), posso già immaginare il tipo di risposta che mi darà, e quindi saprò cosa devo fare.
5. Affidarsi a dei segni, infine, non è la risposta finale in quanto essi non costituiscono un
orientamento sicuro, dato che la loro interpretazione è soggettiva e variabile. Sartre spiega il
concetto attraverso l’esempio del gesuita, un prigioniero che lui stesso aveva conosciuto in passato:
la vita dell’uomo era un fallimento dopo l’altro (delusione d’amore, morte del padre, scartato dalla
leva militare), e lui interpretava questi eventi come segni del destino. Alla fine, decide che la vita
terrena non fa per lui e si iscrive all’ordine dei gesuiti. In realtà, se non avesse interpretato i segni
come indicatori della sua inadeguatezza, egli avrebbe potuto intraprendere altre professioni:
l’interpretazione del segno è arbitraria.
In conclusione, la risposta al dilemma non è né dentro di me (emozione) né fuori di me (morale
precostituita), perciò l’uomo è condannato alla libera scelta e all’abbandono assoluto: egli può scegliere chi
vuole essere e chi vuole diventare.
Paragrafo 28 a 33: Più avanti, Sartre afferma che non è possibile appigliarsi all’idea generale e universale di
uomo per agire. La conseguenza di ciò non è l’abbandono al quietismo e all’inazione, ma l’essere privo di
speranza: agire senza speranza vuol dire agire senza aspettative e accettarne le conseguenze (fino ad un certo
punto): non si possono trovare scuse o giustificazioni per le nostre azioni attribuendole alle circostanze
sfavorevoli, poiché la responsabilità del nostro agire e delle sue conseguenze è solo nostra. Cartesio era
dell’opinione che, per non restare delusi dalla realtà, sapendo che essa è variabile, bisogna adattare i propri
pensieri e desideri (quindi noi stessi) ad essa: noi possiamo cambiare noi stessi, ma non possiamo cambiare
la realtà. Così la pensa anche Sartre. Per di più, agire senza speranza non vuol dire cadere nella disperazione,
ma essere consapevoli che tutti i nostri atti, nonostante non abbiano la certezza di avere buon fine, sono
fondati sulla libertà dell’uomo: l’uomo è l’insieme dei suoi atti. Il genio dell’uomo va misurato in base a ciò
che egli concretamente realizza, non a ciò che progetta di realizzare. Così si misurano anche la bontà e la
cattiveria dell’uomo: non esiste un uomo vile per nascita/natura, ma egli lo è in base a come si comporta, e lo
stesso vale per chi è definito un “eroe”. L’uomo viene gettato in determinate situazioni ma ciò che conta è
l’impegno nel reagire appropriatamente a quella situazione: è questo che distingue i vili dagli eroi – anche se
ciò che risulta veramente importante non sono gli atti singoli relativi ad una situazione specifica, ma sempre
il progetto globale che ognuno fa in merito alla propria vita.
Paragrafo 34 a 48: Sartre considera il cogito cartesiano l’unico principio veramente basilare dal quale poter
prendere le mosse per qualsiasi discorso sull’uomo. Sartre non intende rinunciare al piano della coscienza
che caratterizza l’individuo perché sa bene che se ciò accadesse non sarebbe più possibile tornare indietro – e
lo stesso avviene con la verità. Per questo è importante conservare un po’ di soggettività e partire dalla
concezione dell’io penso cartesiano, cioè conservare un piano in cui è possibile intendersi e distinguere ciò
che è vero da ciò che è falso. Se si abbandona il piano della soggettività si abbandona anche quello della
verità. La scoperta di sé, ottenuta grazie al cogito, diventa subito scoperta dell’altro. Poi, dopo la partenza, il
pensiero di Sartre differisce da quello cartesiano, in quanto si inizia a parlare di soggettività, che richiama
non il solipsismo, bensì l’intersoggettività. In ciò sta la differenza tra la concezione sartriana e quella
cartesiano-kantiana. L’uomo ha bisogno che non solo sé stesso, ma anche gli altri lo delimitino e riconoscano
come tale – ogni decisione circa sé stesso è una decisione circa gli altri. A questo punto Sartre arriva alla
conclusione che non c’è una natura umana predefinita (che richiama alla mente l’idea di un’essenza
universale), ma tutti gli uomini sono accomunati dalla medesima condizione umana (che fa pensare piuttosto
a una serie di situazioni che concorrono a determinare la vita concreta dell’uomo). Per condizione si intende
l’insieme dei limiti a priori che delineano la situazione fondamentale dell’uomo nell’universo, ecc. I limiti
sono oggettivi perché accomunano tutti gli uomini; sono soggettivi perché non sono nulla se l’uomo non li
vive.
Ciò dimostra ulteriormente come a definire l’uomo non è una natura universale, bensì il progetto che egli fa
nella sua vita. Un progetto deve risultare comprensibile ad ogni uomo, perciò universale – al di là delle
differenti situazioni all’interno dei quali esso avviene; cioè, le scelte e le azioni del singolo uomo sono
universalizzabili. Sartre discute nello specifico tre tipi di accuse: da un lato si accusa l’esistenzialismo di
anarchia, cioè di non avere alcun principio sul quale orientarsi; dall’altro lo si accusa per l’impossibilità di
giudicare i progetti altrui, per cui non c’è ragione di preferire un progetto all’altro; ancora, lo si accusa di
dare ad una mano ciò che è stato tolto da un’altra, nel senso che si può affermare che è tutto gratuito ciò che
si sceglie, cioè non ci sono giustificazioni per le proprie azioni.
1. La prima obiezione: non è vero che per l’esistenzialismo qualsiasi scelta è possibile perché appunto
vi è una scelta impossibile, che è quella di non scegliere. Io posso sempre scegliere ed anche quando
non scelgo, scelgo comunque: in qualsiasi situazione si trovi, il soggetto è sempre chiamato a
scegliere, e la sua scelta coinvolgerà sempre tutta l’umanità. A partire da questo concetto di
situazione Sartre prova a criticare la scelta dell’atto gratuito di Gide (scrittore contemporaneo). Nella
filosofia di Gide non c’è il concetto di localizzazione dell’azione, per cui l’atto è sempre gratuito,
cioè non si giustifica e soprattutto non si delimita alla situazione in cui esso avviene. La pura gratuità
ed il capriccio dell’azione sono invece estranei all’esistenzialismo, in quanto sappiamo che ogni atto
compiuto dall’uomo è intriso di responsabilità e va a coniugarsi con un impegno che riguarda non
solo il soggetto, ma tutta l’umanità.
Più avanti, si afferma che l’azione morale è azione e va compresa a partire dalla comprensione
dell’azione artistica. Secondo l’artista non ci sono dei valori estetici a priori: così come nell’opera
d’arte non si applica un principio generale prima della sua realizzazione (ma questa è del tutto
originale), allo stesso modo anche l’azione morale non deriva dall’applicazione di regole morali ed
universali, ma è creazione. Arte e morale appartengono al regno dell’invenzione, di ciò che si fa via
via e che non è dato una volta per tutte. Ritornando all’esempio dell’allievo, Sartre crede che egli
avrebbe dovuto inventare la propria morale: non era possibile dargli regole generali di
comportamento da seguire perché appunto la sua azione doveva essere inventata da lui stesso.
L’uomo è ciò che si fa: inventando sé stesso inventa anche l’altro.
2. Seconda obiezione: secondo Sartre è possibile esprimere un giudizio sul progetto altrui perché
innanzitutto è possibile esprimere un giudizio nei confronti dell’errore e della verità – quindi si può
dire che un uomo è in malafede e che è in malafede qualsiasi uomo che rinuncia alla libera scelta. Il
giudizio non è di carattere morale ma non c’è ombra di dubbio che la malafede sia un errore: non si
può sfuggire ad un giudizio di verità e la malafede è una menzogna perché dissimula la totale libertà
dell’impegno, come qualsiasi azione che nasce dalla negazione o giustificazione della propria libertà:
a partire dalla mancanza di libertà io agisco in malafede. L’atteggiamento coerente per Sartre è
quello della buona fede: in questo caso sono possibili i giudizi morali. L’unico criterio che può
orientarci nel giudicare un’azione piuttosto che un’altra è la libertà, chi la nega agisce nel falso. E
poiché la libertà del singolo dipende anche dalla libertà degli altri, cioè è garanzia degli altri, essa
diviene il valore assoluto al quale orientarsi e dal quale far derivare la propria scelta e decisione. La
libertà va garantita non soltanto a sé stessi ma anche agli altri, essendo l’uomo impegnato in una
situazione intersoggettiva. Sartre bolla con vili e sporcaccioni coloro che non accettano la verità
sull’esistenza umana e che si nascondono dietro giustificazioni per mascherare la loro vigliaccheria o
l’assurda pretesa di essere stati investiti di una missione.
Sartre discute la posizione di Kant, che nemmeno è condivisibile. Egli, infatti, sosteneva che non è
importante stabilire cosa bisogna fare, ma stabilire come agire, e definiva l’azione morale
quell’azione che viene compiuta soltanto per il senso di dovere e finalizzata ad una sua
realizzazione. Ciò secondo Sartre non è sufficiente per costruire una morale. Nessun criterio per
quanto formale può giustificare l’agire se non la libertà stessa. L’azione morale è sempre
caratterizzata dall’invenzione e ciò che interessa a Sartre è sapere se tale invenzione avviene in nome
della libertà.
3. La terza obiezione: Sartre analizza il senso ed il significato dei valori. Gli esistenzialisti erano stati
accusati di aver criticato l’esistenza di valori universali ma attribuiscono a loro stessi la capacità di
creare dei valori, ipocritamente. In realtà Sartre afferma che il problema è nell’universalità dei valori,
consiste nel fatto che è l’uomo nella condizione di creare i propri valori e quindi di autogiustificare
la propria scelta, mentre tutti i valori che si fondano nell’esistenza di un dio estraneo all’esistenza
devono essere messi in discussione. Sartre dice che la vita non ha senso a priori ma dev’essere il
soggetto a creare i valori per condurre la propria esistenza. Tuttavia, anche se esistesse Dio, per
l’uomo non cambierebbe nulla, in quanto rimarrebbe per lui immutato il compito di realizzarsi
nell’impegno e nella responsabilità. Ciò significa rendere l’uomo l’unico padrone di sé e
protagonista della propria vita.
Sartre conclude il discorso spiegando perché l’esistenzialismo è da considerarsi un umanismo. Sartre
parte dalle critiche che gli vengono mosse relativamente alla Nausea, romanzo nel quale aveva
anticipato vari temi dell’esistenzialismo, e nel quale aveva mosso forti critiche nei confronti
dell’umanismo ridicolizzando la figura dell’Autodidatta. Roquentin si era contrapposto alla difesa
dell’umanismo da parte dell’Autodidatta evidenziando proprio la priorità dell’esistenza sull’essenza
e criticando la natura umana. Sartre vuole mettere in evidenza che esistono più tipi di umanismo e
che lui criticava la posizione umanistica dell’Autodidatta. Infatti, egli critica l’umanismo come
dottrina che considera l’uomo come stupefacente e straordinario, come fine e come valore superiore.
Secondo Sartre ciò non è accettabile perché nessuno può dire all’uomo di essere stupefacente se non
l’uomo stesso. L’esistenzialista non intende considerare l’uomo come un fine perché egli è sempre
da farsi. La concezione che assume l’uomo come fine di tutto non è la concezione umanistica alla
quale Sartre si riferisce nel momento in cui egli dice che l’esistenzialismo è un umanismo. Lui lo
intende nel senso che deriva dalla consapevolezza che l’uomo è sempre fuori sé stesso e viene inteso
come progetto, auto-superamento, trascendenza, un continuo inventarsi, farsi, divenire. Questa
condizione di trascendenza e di soggettività come costitutive dell’uomo è ciò che noi chiamiamo
umanismo esistenzialista.