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Speranza

Il documento tratta il tema della speranza nella prima Lettera di Pietro. Dopo una breve introduzione sul significato di speranza nel mondo greco-romano e nella Bibbia, esamina come la speranza è presentata nei vari passi della Lettera di Pietro, invitando i cristiani a testimoniare saldamente la propria speranza in Dio.
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Il documento tratta il tema della speranza nella prima Lettera di Pietro. Dopo una breve introduzione sul significato di speranza nel mondo greco-romano e nella Bibbia, esamina come la speranza è presentata nei vari passi della Lettera di Pietro, invitando i cristiani a testimoniare saldamente la propria speranza in Dio.
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Asprenas

STUDI 53 (2006) 349-376

«LA VOSTRA SPERANZA SIA FISSA IN DIO»


Aspetti della testimonianza nella prima Lettera di Pietro

GAETANO DI PALMA

SOMMARIO - 1. La “speranza” nel mondo greco-romano. 2. La speranza nella Bibbia


ebraica. 3. Il giudaismo ellenistico e la speranza. 4. Il Nuovo Testamento e la speranza. 5. La
speranza nella prima Lettera di Pietro: 5.1. 1Pt 1, 3-12: Dio ci ha rigenerati per una spe-
ranza viva; 5.2. 1Pt 1, 13-21: la speranza sia fissa in Dio; 5.3. 1Pt 3, 1-7: le sante donne che
speravano in Dio; 5.4. 1Pt 3, 8-22: pronti a rispondere a chi domandi ragione della speranza.
6. Testimoni saldi e coscienti della speranza. 7. La speranza nel terzo millennio.

Il tema della speranza è di grande attualità nella Chiesa italiana 1,


non esclusivamente in vista della missione e della testimonianza su Gesù
risorto, ma probabilmente anche perché si sta prendendo coscienza di
una certa percezione di declino, che fa sempre più breccia ai vari livelli
della società. I tempi nei quali si guardava con speranza verso il futuro
erano gli anni Sessanta, quando sembrarono schiudersi spazi di dialogo
tra l’Est, con i suoi oppressivi regimi comunisti, e l’Ovest, dove trionfa-
va il capitalismo opulento. Erano i tempi esaltanti della decolonizzazio-
ne, dell’utopia, della contestazione che immaginava un mondo nuovo.
In quel contesto, gravido di attese di carattere ambivalente, anche la
Chiesa cattolica volle declinare la sua speranza, quando Giovanni
XXIII indisse il Concilio Ecumenico Vaticano II. Indimenticabili sono
le parole che il papa pronunciò l’11 ottobre 1962, nel discorso di aper-
tura:
«At nobis plane dissentiendum esse videtur ab his rerum adversarum vatici-
natoribus, qui deteriora semper praenuntiant, quasi rerum exitium instet. In pre-
senti humanorum eventuum cursu, quo hominum societas novum rerum ordinem
ingredi videtur, potius arcana Divinae Providentiae Consilia agnoscenda sunt, quae

1 Ci riferiamo alla Traccia di riflessione in preparazione al IV Convegno Ecclesiale Nazio-


nale, dal titolo Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo, che si celebra a Verona.
350 Gaetano Di Palma

per tempora succedentia, hominum opera, ac plerumque praeter eorum expec-


tationem, suum exitum consequuntur, atque omnia, adversos etiam humanos ca-
sus, in Ecclesiae bonum sapienter disponunt» 2.

Con queste premesse, il Concilio stesso rappresentò un autentico ele-


mento di speranza per “l’aggiornamento” della chiesa e, in particolare,
del suo rapporto con il mondo, non più caratterizzato in primis da con-
trapposizione, sospetto e condanna, bensì dalla consapevolezza di esser-
vi inserita, al punto da riservare una costituzione a tale tema, la Gaudium
et spes.
Abbiamo voluto ricordare brevemente questo, anche perché sono
trascorsi poco più di quarant’anni dalla conclusione del Concilio e, no-
nostante i tremendi fatti di cronaca, la precarietà del lavoro e dell’econo-
mia, l’insipienza di tanti politici, il timore di essere soppiantati da altri po-
poli – che sembrano avere una vitalità a noi mancante – la minaccia del
terrorismo sotto la quale si vive, lo sfaldamento dei valori e il rifugiarsi
nel piccolo, nel locale e nell’individuale contribuiscano a dare l’impres-
sione di una società che annaspa, occorre ritrovare la speranza per avere
il coraggio di affrontare con energia e creatività la complessità del mon-
do. È qui e ora, e non altrove, che siamo chiamati ad ascoltare la parola
di Dio e a collocarne il seme di novità, affinché si aprano altri varchi alla
speranza 3, come non mancava di rammentare Giovanni Paolo II.

1. La “speranza” nel mondo greco-romano

Prima di trattare il tema che ci siamo proposti, ossia l’invito a spe-


rare che la prima Lettera di Pietro avanza, riteniamo utile proporre un
breve excursus sul modo di vedere la speranza nell’ambiente cultura-
le greco-romano per due motivi: innanzitutto, perché tale ambiente ci
appartiene per il notevole influsso che ha segnato sulla nostra visione
del mondo; in secondo luogo, perché la concezione della speranza nel

2 GIOVANNI XXIII, Allocutio in sollemni Ss. Concilii inauguratione (11-10-1962): EV 1,


41*-42*.
3 Non possiamo dimenticare i continui inviti alla speranza formulati da papa Giovanni
Paolo II. In particolare, ricordiamo il libro-intervista con V. MESSORI, Varcare le soglie della spe-
ranza, Milano 1994. Emblematico è anche il titolo di uno degli ultimi libri dedicatogli: G. WEIGEL,
Testimone della speranza. La vita di Giovanni Paolo II, Milano 2005.
Aspetti della testimonianza nella prima Lettera di Pietro 351

mondo biblico, e nella prima Lettera di Pietro in particolare, è quasi to-


talmente diversa da quella greco-romana.
Il nostro vocabolo “speranza” deriva dal latino spes, che a Roma
era anche il nome di una divinità che aveva un tempio che delimitava il
Forum olitorium 4. La dea della speranza era, quindi, la personificazio-
ne dell’attesa fiduciosa di lieti eventi, figurata come una ragazza in pie-
di con un fiore in mano 5. D’altronde, Spes ultima dea, come recita un
motto della tarda latinità, che ricorda il mito di Pandora, di cui faremo
cenno in seguito 6. È possibile che questo termine sia in rapporto con il
campo semantico dello spazio (spes/spatium), come per indicare che la
speranza rappresenta un campo aperto nel quale è possibile realizzare il
destino e le capacità degli uomini.
Anche nel mondo greco esisteva un corrispettivo, Elpìs 7, un demo-
ne femminile (raffigurato come una giovane donna che porta fiori tra le
braccia) che era stato rinchiuso insieme ad altri demoni da Zeus in un
vaso, che Pandora, la donna creata da Efesto e Atena, aprì per curiosità.
Tutti i demoni, che rappresentavano i mali, scapparono, ma soltanto
Elpìs non fuggì, rimanendo come consolazione per l’umanità 8. Giusta-
mente, Bianchi considera:

4 Cf. TITO LIVIO, Ab urbe condita XXI, 62. Il Forum olitorium era il mercato delle erbe e
delle verdure di Roma – come c’informa M. T. VARRONE, De lingua latina V, 146 – dove, oltre
a questo tempio vi si trovavano anche quelli dedicati a Pietas, Ianus e Iuno Sospita. I resti dei
templi di Ianus, Iuno Sospita e Spes sono attualmente sotto la chiesa di San Nicola in carcere
(zona del Teatro Marcello): erano tre templi affiancati e orientati verso il Forum olitorium. Si
ritiene che quello centrale – che era il più grande e aveva colonne ioniche – fosse dedicato a
Spes. Di un altro antico tempietto sull’Esquilino dedicato alla Spes Vetus ci parla TITO LIVIO,
Ab urbe condita II, 51, 2 (cf. anche DIONIGI DI ALICARNASSO, Antichità Romane IX, 24, 4), non-
ché l’Historia Augusta: Eliogabalo 13.
5 Essa faceva parte di quel gruppo di astrazioni personificate e divinizzate, come Fides,
Ops, Salus…; cf. D. FEENEY, Letteratura e religione nell’antica Roma, Roma 1999, 128-133; G.
DUMÉZIL, La religione romana arcaica, Milano 2001, 347-354.
6 Anche il poeta italiano Ugo Foscolo ricorda questo detto: «Anche la Speme, ultima
Dea, fugge i sepolcri» (I Sepolcri 15-16). Giacomo Leopardi, da parte sua, sembra esprimere
sfiducia in quest’ultima risorsa dell’animo umano: «A te la speme / Nego, mi disse, anche la
speme; e d’altro / Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto» (La sera del dì di festa 14-16).
7 Il senso etimologico del termine deriva dalla radice vel, la stessa del latino velle, volere,
e voluptas.
8 È il celebre mito di Pandora, narrato in ESIODO, Le opere e i giorni 94-104. Altre tradi-
zioni raccontano invece che il vaso racchiudeva i beni e non i mali. Aprendolo, Pandora avreb-
be fatto volare via tutti i beni, che tornarono tutti nelle dimore divine, ad eccezione della spe-
ranza: su questo mito e sulla sua interpretazione, cf. P. GRIMAL, Enciclopedia della mitologia,
Milano 1999, 478; U. BIANCHI, La religione greca, Torino 1992, 72-75; J.-P. VERNANT, Mito e
352 Gaetano Di Palma

«Si è disputato molto sul significato di questo rimanere della Speranza al-
l’interno della giara. È essa un bene, l’ultimo rimasto ai mortali, oppure un ma-
le, dato che essa è in fondo alla giara ove erano contenuti i mali in persona? La
risposta – ci sembra – non può che tener conto del complesso del pensiero esio-
deo, che si rivela in linea con il modo di pensare generalmente greco: la Spe-
ranza è insieme un bene e un male: il segno di una condizione umana, ormai ir-
rimediabilmente lontana dalla situazione di felicità in cui vivono gli dei, che non
hanno speranza, ma possesso di una vita felice; in quella stessa condizione uma-
na essa è un bene, perché è necessario sperare per lottare e vivere; l’Elpis non eli-
mina il male: lo rende sopportabile e aggredibile» 9.

Per l’uomo greco 10, la speranza è soltanto l’aspettazione del futu-


ro 11, perché l’uomo non può non sperare: «D’altra parte, noi siamo ca-
richi di speranze durante tutta la vita» («hJmei~" dè au\ dia; panto;" tou~
bivou ajei; gevmomen ejlpivdwn») 12. Tali speranze possono essere liete o
tristi, dal quale fatto proviene l’ambiguità del termine, che nella lingua
greca dev’essere generalmente specificato con un aggettivo: buona o
cattiva. Vi è, naturalmente, una forte vena pessimistica, che vede nella
speranza soltanto un fatto consolatorio 13; al massimo, costituisce un
sollievo nel pericolo 14, ma è parimenti pericoloso farvi eccessivo affi-
damento. Considera la speranza un elemento positivo qualcuno tra i
filosofi, tra cui Platone, il quale sostiene che essa nasce dal desiderio,
cioè da quell’e[rw" che è impulso verso il bene e il bello. Perciò, la
speranza intesa così trascende la vita attuale: infatti, il vero eu[elpi",
colui che sa nutrire buone speranze, è il filosofo, il quale non teme di
affrontare la morte; per tale motivo tanti, saggiamente a suo parere,

pensiero presso i greci. Studi di psicologia storica, Torino 2001, 37-38; 58-63; ID., L’universo, gli
dei, gli uomini, Torino 2001, 61-68.
9 BIANCHI, La religione greca, 73-74.
10 Cf. R. BULTMANN, ejlpiv", in GLNT III, 507ss.
11 Essa ha come sinonimo, non a caso, la prosdokiv a : cf. C. M AURER , prosdokav w ,
prosdokiva, in GLNT XI, 294.
12 PLATONE, Filebo 39e, in PLATONE, Tutte le opere, Roma 1997, II, 278.
13 ESCHILO, Prometeo incatenato 250-253: «Prometeo: Ho fatto cessare agli uomini di
prevedere il loro destino (qnhtouv" g∆ e[pausa mh; prosdevrkesqai movron). Coro: Di che tipo
era il rimedio che hai trovato per quest’afflizione (to; poi`on euJrw;n th`sde favrmakon novsou)?
Prometeo: Ho fatto abitare cieche speranze tra gli uomini (tufla;" ejn aujtoi`" ejlpivda"
katwv/kisa). Coro: Un grande beneficio era questo che hai dato ai mortali (meg∆ wjfevlhma
tou`t∆ ejdwrhvsw brotoi`")».
14 T UCIDIDE , Guerra del Peloponneso V, 103 la definisce «consolazione al pericolo»
(kinduvnw/ paramuvqion).
Aspetti della testimonianza nella prima Lettera di Pietro 353

per incontrare nell’Ade i propri cari scelgono di andare incontro alla


morte 15.

2. La speranza nella Bibbia ebraica

Se per l’uomo greco la speranza s’identifica con ciò che è sperato,


per l’ebreo essa corrisponde principalmente all’azione dello sperare, co-
me acutamente fa osservare Rudolph Bultmann 16. Si tratta, natural-
mente, di modi diversi d’intendere un medesimo vocabolo, il cui signi-
ficato sembra il medesimo, ma che in contesti linguistici diversi esprime
delle differenze di vedute.
Nella lingua ebraica, la più importante radice che indica il concet-
to di speranza – presente anche in altre lingue semitiche, come l’accadi-
co, dove richiama l’idea dell’attendere, dell’aspettare, e il siriaco, in cui
c’è anche il senso di perseverare – è qwh. Da tale radice provengono i
vocaboli tiqwa-h e miqwœh, oltre al verbo qwh, il quale da vari studiosi
è ritenuto un denominativo del termine qaw, che significa corda 17: da
qui, la ragione per la quale il verbo qwh esprimerebbe il concetto di
essere teso 18. In quanto sinonimi di qwh, anche h.kh, śbr al piel e jh.l han-
no il senso di attendere e sperare 19.
Per la lingua ebraica, quindi, la speranza rappresenta un concetto
dinamico, la tensione, che si basa sul concreto fondamento della fiducia
(radice bth.) in colui in cui si spera. Ciò è dimostrato dal fatto che non

15 PLATONE, Fedone 64c, 67c-68b: PLATONE, Filebo, in Tutte le opere, Roma 1997, I, 154,
160-162.
16 Cf. BULTMANN, ejlpiv", 508 e 516. Sulla speranza nell’AT, cf. ancora P. A. H. DE BOER,
Étude sur le sens de la racine QWH, in Old Testament Studies 10 (1954) 225-246; D .A. HUB-
BARD, Hope in the Old Testament, in Tyndale Bullettin 34 (1983) 33-59; L. KOPF, Arabische Ety-
mologien und Parallelen zum Bibelwörterbuch, in Vetus Testamentum 8 (1958) 161-215; J. VAN
DER PLOEG, L’espérance dans l’Ancien Testament, in Revue Biblique 61 (1954) 481-507; C. WE-
STERMANN, Das Hoffen im AT, in Theologische Bibelwissenschaft 24 (1964) 219-265; W. ZIM-
MERLI, Der Mensch und seine Hoffnung im AT, Göttingen 1968.
17 Cf. BEYSE, qaw, in Theologisches Wörterbuch zum Alten Testament VI, 1223-1225. Oc-
-
corre, però, ricordare che anche tiqwah solo in Gs 2,18.21 vuol dire corda.
18 Cf. C. WESTERMANN, qwh, in E. JENNI - C. WESTERMANN, Dizionario Teologico del-
l’Antico Testamento, Casale Monferrato (Alessandria) 1982, II, 558-559; G. WASCHKE, qwh, in
Theologisches Wörterbuch zum Alten Testament VI, 1225-1226.
- -
19 Cf. C. BARTH, hakâ, in GLAT II, 968-974; ID., jahal, in ivi III, 704-712; B. KNIPPING,
. .
-
śabar, in Theologisches Wörterbuch zum Alten Testament VII, 1027-1040.
354 Gaetano Di Palma

poche volte speranza e fiducia nella Bibbia ebraica sono adoperate


come sinonimi 20. Anche senza voler scendere nei dettagli, è utile ac-
cennare al fatto che il verbo qwh ricorre 47 volte, di cui 28 con rife-
rimento a Dio e 19 no; tiqwah ricorre 32 volte e soltanto in Sal 62, 6
e 71, 5 si riferisce a Dio; infine, delle 5 volte che si trova miqwœh 3
riguardano Dio.
Di per sé, sperare indica il mirare a qualcosa di cui si avverte la man-
canza. A tal proposito, possiamo rinvenire un esempio in Gb 6, 19-20,
dove Giobbe paragona la propria situazione a quella delle carovane e
dei mercanti che, nel deserto, cercano con speranza un ruscello, ma ri-
mangono delusi: così egli aveva sperato di avere dagli amici conforto,
ma aveva ricevuto da loro solo parole di condanna. Perciò, affermò in
seguito: «Eppure aspettavo il bene ed è venuto il male, aspettavo la lu-
ce ed è venuto il buio» (30, 26) 21. Non a caso è nel Libro di Giobbe che
ricorre 13 volte il sostantivo tiqwa-h senza riferimento a Dio – tra le 30
di tutto l’AT – con una forte dose di pessimismo 22. Nella Bibbia, però,
a sperimentare la delusione non è soltanto l’uomo, ma persino Dio, il
quale si attendeva dal suo popolo il frutto buono della giustizia e della
rettitudine, mentre ricava il frutto acerbo dello spargimento di sangue e
delle grida di oppressi (Is 5, 2.4.7).
Il tema della speranza in Jhwh è particolarmente sviluppato nei Sal-
mi e nelle Lamentazioni, dove ricorrono 17 delle 33 volte in cui la radi-
ce qwh si riferisce a Dio. Tipica è, infatti, l’espressione di Sal 62, 6 e
71, 5 «tiqwa-ti-», «la mia speranza», oppure le 13 volte nelle quali c’è
«qiwwi-ti-», «io spero», e l’analogo «qiwta- nafši-», «l’anima mia spera» 23.
In Sal 27, 14 si riscontra un altro tipo di uso della radice nell’esortazio-
ne ad avere speranza: «Spera in Jhwh, sii forte, si rinfranchi il tuo cuo-
re e spera in Jhwh». In generale, l’uso che i profeti fanno della radice è

20 Cf. ad esempio 2Re 18, 19; Is 36, 4; Qo 9, 4; Gb 4, 6; Mic 7, 7; Lam 4, 17; Ger 29, 11; Pr
23, 18; 24 ,14. Questo emerge in particolare nella poesia biblica: cf. G. RAVASI, I canti di Israe-
le. Preghiera e vita di un popolo, Bologna 1986, 87-90.
21 Cf. anche Gb 3, 9; Sal 69, 21; Is 59, 9.11; Ger 8, 15; 13, 19; 14, 19.
22 Gb 7, 6: «I miei giorni sono stati più veloci di una spola, sono finiti senza speranza»;
14, 19: «Ohimé! Come un monte finisce in una frana e come una rupe si stacca dal suo posto,
e le acque consumano le pietre, le alluvioni portano via il terreno: così tu annienti la speranza
dell’uomo»; 19 ,10: «Mi ha disfatto da ogni parte e io sparisco, mi ha strappato, come un albe-
ro, la speranza».
-- -- -
23 In Sal 130, 5 vi sono entrambe le espressioni. Cf. Sal 25, 5: «’o tka qiwwi ti kol hajjo m»
(«in te ho sperato ogni giorno»).
Aspetti della testimonianza nella prima Lettera di Pietro 355

simile a quello dei Salmi. L’avere speranza in Dio costituisce certa-


mente qualcosa di nuovo, rispetto alle altre esperienze religiose con-
temporanee, che l’Antico Testamento testimonia circa la concezione
di Dio e il rapporto con lui. Infatti, quando la speranza non si riferi-
sce a Dio ma a un bene di qualsiasi natura, essa viene delusa, a diffe-
renza di quando si spera in Dio, che i beni materiali e spirituali può
concedere 24.

3. Il giudaismo ellenistico e la speranza

Non vogliamo soffermarci a discutere sulla terminologia che la ver-


sione dei LXX adopera per rendere i termini ebraici di cui abbiamo
parlato prima, per non scendere in dettagli troppo tecnici e che, in ogni
caso, si trovano trattati già nei lessici 25. Riteniamo più utile far notare il
genere di sensibilità che si manifesta in quest’epoca circa la speranza.
Infatti, negli scritti di questo periodo, pur permanendo la tipica idea,
sia in positivo che in negativo, che abbiamo già riscontrato nel testo
ebraico (cf. Sir 13, 6; 14, 2; PsSal 17, 2; Sap 3, 11.18; 5, 14; 13, 10; 16, 29;
Gdt 13, 19…), si aprono anche nuovi orizzonti.
A fondare tale speranza è la certezza nell’intervento salvifico di Dio
(Sir 34, 14-16; 1Mac 2, 61), che si basa sulle sue promesse; talvolta, si at-
tende anche un aiuto da parte divina in un momento particolare di bi-
sogno (2Mac 15, 7; Gdt 8, 20). Occorre, però, ricordare che, in questa
prospettiva, nascono varie aspettative in cui s’inquadra la speranza. In
primo luogo, c’è la speranza messianica, quale si può ravvisare, ad
esempio, in un celebre testo, come PsSal 17, 44 26; si fa sempre più for-
te, inoltre, nei testi apocalittici, quella escatologica – per la quale la sto-
ria, che è nelle mani di Dio, sarà da lui giudicata alla fine – e anche quel-
la della risurrezione dei morti, preclusa agli empi (Sap 3, 18) ma appor-
tatrice d’immortalità per i giusti (Sap 3, 4; 2Mac 7, 11.14.20).

24 Cf. WESTERMANN, qwh, 566-567.


25 Cf. BULTMANN, ejlpiv", 517-518; F. HAUCK, ujpomevnw, in GLNT VII, 49-51; WASCHKE,
qwh, 1227-1228.
26 La bibliografia in proposito, inutile dirlo, è sterminata e, inoltre, tale argomento non
è oggetto della nostra trattazione; rimandiamo per i riferimenti essenziali a G. DI PALMA, Sei
tu il Cristo? Tra gesuologia e messianicità, Roma 2005, 25-52. Inoltre, ci piace ricordare ai let-
tori il famoso saggio di P. GRELOT, La speranza ebraica al tempo di Gesù, Roma 1981.
356 Gaetano Di Palma

Interessante è la maniera di considerare la speranza da parte di Fi-


lone d’Alessandria. Egli, infatti, usa il termine ejlpi" non solo secondo
la tipica accezione greca, ma anche secondo il suo specifico modo di ve-
dere l’essere umano impegnato a perfezionarsi. Precisando, Filone con-
sidera la speranza come prosdokiva, ossia l’attesa di ciò che è buono 27,
una pregustazione gioiosa che si contrappone alla paura 28. Non manca
l’idea della speranza come consolazione nelle necessità. Ma il filosofo
dà ben più risalto alla speranza orientata al perfezionamento dell’uomo:
«Qui la Scrittura [Gen 15, 7] paragona a un forno l’anima di chi ama il sa-
pere e spera nella perfezione (ejlpivda teleiwvsew" e[conto"), perché l’una e l’al-
tro sono recipienti di cibo cotto, l’uno per il cibo composto di elementi corrutti-
bili, l’altra per il cibo fatto di virtù incorruttibili» 29.

Inoltre, per Filone chi non spera in Dio non è un vero uomo, perché
l’uomo non può non sperare in lui ed è “connaturale” farlo: egli prende a
esempio Enos (nome che per lui significa “uomo”) figlio di Set, del qua-
le in Gen 4, 26 secondo la LXX si dice: «ou|to" h[lpisen ejpikalei`sqai
to; o[noma kurivou tou` qeou`», e commenta: «Infatti, che cosa potrebbe es-
sere più appropriato a un uomo, che sia veramente tale, che la speranza
e l’aspettativa di ottenere dei beni dal Solo che è benefico, da Dio? E
questo è, se devo dire la verità, la sola generazione degli uomini in sen-
so proprio, in quanto gli esseri che non sperano in Dio non partecipano
della natura razionale» 30. Probabilmente, la cosa più significativa che
Filone afferma è il far emergere quelle tre virtù, la fede (pivsti"), la spe-
ranza (ejlpiv") e l’amore (cavri"), che diventeranno successivamente le
virtù teologali del pensiero teologico cristiano 31.

27 Cf. FILONE DI ALESSANDRIA, Le allegorie delle leggi II, 43: G. REALE - R. RADICE - C.
KRAUS REGGIANI (curr.), Filone di Alessandria. La filosofia mosaica, Milano 1987, 152-153.
28 Cf. FILONE DI ALESSANDRIA, Il malvagio tende a sopraffare il buono 140: C. MAZZAREL-
LI - R. RADICE (curr.), Filone di Alessandria. Le origini del male, Milano 1984, 278; ID., Il mu-
tamento dei nomi 163: G. REALE - C. KRAUS REGGIANI (curr.), Filone di Alessandria. L’uomo e
Dio, Milano 1986, 363.
29 FILONE DI ALESSANDRIA, L’erede delle cose divine 311: G. REALE - R. RADICE (curr.),
Filone. L’erede delle cose divine, Milano 1994, 202 (testo greco) e 203 (traduzione).
30 FILONE DI ALESSANDRIA, Il malvagio tende a sopraffare il buono 138 (cf. anche 139):
MAZZARELLI - RADICE, Le origini del male, 277 (278).
31 La fede e la speranza compaiono insieme in ID., Le allegorie delle leggi III, 164: REALE -
RADICE - KRAUS REGGIANI, La filosofia mosaica, 207-208. Sulle tre virtù in Filone, cf. A. MAD-
DALENA, Filone Alessandrino, Milano 1970, 381-395.
Aspetti della testimonianza nella prima Lettera di Pietro 357

4. Il Nuovo Testamento e la speranza

Il modo di concepire la speranza nel NT in senso religioso non si


discosta sostanzialmente da quello che abbiamo già visto nell’Antico;
tuttavia, quando talvolta si parla della speranza in senso profano, rie-
merge l’aspetto di “attesa” di un bene, tipico della mentalità greca 32. An-
che quando si riferisce ai rapporti tra persone, l’attesa assume l’aspetto
di fiducia che abbiamo precedentemente riscontrato nell’AT (cf. per esem-
pio 2Cor 1, 7 e 10, 15).
Quando la speranza è rivolta a Dio, vengono contemplati tre aspet-
ti: l’attesa del futuro, la fiducia e la perseveranza dell’attesa. Basta pren-
dere in esame Eb 11, 1, dove la connessione tra speranza e fiducia è mol-
to evidente: « E [ stin dev pivsti" ejlpizomevnwn uJpovstasi", pragmavtwn
e[legco" ouj blepomevnwn». In realtà, il versetto non è di facile lettura,
specialmente a causa della traduzione di vocaboli come uJpovstasi" ed
e[legco". Il primo termine, infatti, ricorre anche in Eb 1, 3 e 3,14, con
una connotazione prevalentemente filosofica. Non ci soffermiamo sullo
status quaestionis in merito, ma ci sembra molto pertinente, come ha ri-
cordato uno studioso, l’interpretazione che, sulla scorta della prece-
dente tradizione, ne dà Dante Alighieri in Paradiso 24, 64-65: «fede è
sustanza delle cose sperate e argomento de le non parventi» 33. Tradur-
re uJpovstasi" con “sostanza” rappresenta la soluzione migliore.
Il secondo termine è un apax legomenon nel NT 34, il cui senso non
può che essere “prova”. Quindi, Eb 11, 1 è una definizione in cui «il
punto principale non sta nel fatto che se uno crede in qualcosa dimo-
stra la realtà di ciò in cui crede. Come stanno a indicare gli esempi pre-
sentati, la Lettera sostiene piuttosto che un risultato dell’atto o della te-
nacia della fede è che le realtà invisibili alle quali essa è correlata rice-
vono una conferma, in parte perché le speranze sono realizzate e in par-
te perché, come sosterrà esplicitamente il versetto seguente, i credenti

32 Ciò si verifica in casi come Lc 6, 34, 23, 8; 24, 21, Rm 15, 24, 1Cor 9, 10, 2Cor 8, 5, 2Tm
3, 14, 2Gv 12…
33 Per questo, rimandiamo all’esaustivo commento di H. W. ATTRIDGE, La Lettera agli
Ebrei. Commento storico esegetico, Città del Vaticano 1999, 509-512. Per il richiamo dantesco,
cf. ivi 511.
34 Nel NT, però, troviamo il verbo ejlevgcw (18 volte, tra cui Eb 12, 5, nella citazione di Pr
3, 2), il sostantivo e[legxi" (2Pt 2, 16) e l’aggettivo ejlegmov" (2Tm 3, 16). Cf. F. BÜCHSEL,
ejlevgcw, in GLNT 389-398.
358 Gaetano Di Palma

stessi ricevono una attestazione divina» 35. Questo è un tipo di ragiona-


mento che ricorda quanto Paolo, il vero teologo della speranza tra gli
autori del NT, afferma in Rm 8, 24-25: «Poiché nella speranza noi siamo
stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti,
ciò che uno vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo
quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza». Natural-
mente, l’apostolo non sta sviluppando un generico discorso sulla spe-
ranza in quanto tale, ma si riferisce alla speranza «della partecipazione
alla gloria (cf. Rm 5, 2) e della figliolanza iniziata con il dono dello Spi-
rito» 36. È indubitabile, però, che Paolo sottolinea il fatto che tale spe-
ranza, pur radicata nella fede, s’identifica con ciò che non si vede, ri-
chiedendo ai credenti perseveranza nell’attendere la gloria 37.
Sempre in questa prospettiva si può leggere Rm 4, 18, con la cele-
bre espressione riferita ad Abramo: «Egli ebbe fede sperando contro
ogni speranza ( }O" par∆ ejlpivda ejp∆ ejlpivdi ejpivsteusen)». È un clas-
sico paradosso perché si esprime un concetto che va oltre ogni logica.
Tuttavia, in forza di quest’ossimoro, sembra palese che Paolo voglia far
intendere la reciproca implicazione tra fede e speranza, le quali in Abra-
mo trovano un paradigma difficilmente eguagliabile, come risulta di-
mostrabile dalla fermezza che il patriarca ha avuto nel credere all’a-
dempimento della promessa di un figlio 38.
Il riferimento a Paolo era doveroso e obbligato. Vogliamo ricorda-
re che anche una semplice statistica giustifica ampiamente l’attenzione
che bisogna riservargli: su 53 ricorrenze del termine ejlpiv" (in 48 conte-
sti), ben 36 (di cui 13 in Romani) si trovano nel corpus paulinum. Se
prendiamo in considerazione pure le ricorrenze del verbo ejlpivzw, no-
tiamo che 20 su 32 sono nelle lettere paoline.

35 ATTRIDGE, La Lettera agli Ebrei, 512-513.


36 A. PITTA, Lettera ai Romani, Milano 2001, 306. Cf. anche B. ROSSI, Struttura letteraria
e teologia della creazione in Rm 8,18-25, in Liber Annuus 41 (1991) 113-115.
37 Cf. anche J. A. FITZMYER, Lettera ai Romani. Commentario critico-teologico, Casale
Monferrato 1999, 462-463; P. STUHLMACHER, La lettera ai Romani, Brescia 2002, 167; S. LÉ-
GASSE, L’epistola di Paolo ai Romani, Brescia 2004, 409-410.
38 Cf. PITTA, Lettera ai Romani, 196-197; STUHLMACHER, La lettera ai Romani, 97; LÉ-
GASSE, L’epistola di Paolo ai Romani, 243; R. PENNA, Lettera ai Romani. I. Rm 1-5, Bologna
2004, 401-403; M. CRANFORD, Abraham in Romans 4: The Father of All Who Believe, in New
Testament Studies 41 (1995) 1, 71-88; T. H. TOBIN, What Shall We Say That Abraham Found?
The Controversy behind Romans 4, in Harvard Theological Review 88 (1995) 4, 437-452. Circa
il rapporto tra fede e speranza, cf. ancora 1Cor 15, 19, 2Cor 1, 10 e 3, 12, Fil 1, 20.
Aspetti della testimonianza nella prima Lettera di Pietro 359

In sintesi, per Paolo la speranza cristiana consiste nell’adempimen-


to delle promesse fatte da Dio a Israele, come emerge dalla storia della
salvezza. Perciò, tornando ancora a Rm 4, egli considera determinante
la figura di Abramo, il quale, sulla base di un rapporto personale con
Dio, non ha mai dubitato delle promesse. Allo stesso modo di Abramo,
anche il cristiano ripone la sua speranza in Dio, il quale offre attraverso
il Figlio Gesù Cristo un motivo di sperare molto più valido di quello di
Abramo: la giustificazione per tutti, anche per i pagani.
Paolo, affermando che i pagani come i giudei sono bisognosi della
misericordia di Dio, sostiene che si partecipa alla giustizia di Dio con la
fede in Gesù Cristo. L’esempio offerto da Abramo s’inserisce, dunque,
nella sua argomentazione. Infatti, Dio giustifica tutti, giudei e pagani,
per la fede, come Abramo, il quale, attraverso la fede, ha trovato non
tanto l’unico vero Dio creatore e l’osservanza della legge, bensì il dono
gratuito della salvezza (la grazia). E che la salvezza sia gratuita è dimo-
strato dall’esempio del salario in Rm 4, 4.
L’apostolo spiega, infatti, che Abramo è padre sia per i circoncisi
(giudei) che per gli incirconcisi (pagani), poiché «egli ricevette il segno
della circoncisione quale sigillo della giustizia derivante dalla fede che
aveva già ottenuta quando non era ancora circonciso; questo perché
fosse padre di tutti i non circoncisi che credono e perché anche a loro
venisse accreditata la giustizia e fosse padre anche dei circoncisi, di
quelli che non solo hanno la circoncisione, ma camminano anche sulle
orme della fede del nostro padre Abramo prima della circoncisione»
(Rm 4, 11-12). Dunque, Paolo mette fuori gioco la legge mosaica nei
versetti successivi, perché essa sarebbe un ostacolo agli adempimenti
della promessa, della fede e della grazia. Inoltre, egli aggiunge, la fede
di Abramo consistette nel credere fermamente che colui che aveva
avanzato le promesse era in grado di compierle, nonostante le evidenze
contrarie. Perciò, come egli credette in Dio, il quale gli promise che gli
sarebbe nato un figlio pur essendo lui e sua moglie ormai vecchi, e ciò
gli fu accreditato come giustizia, così noi crediamo nello stesso Dio che
ha risuscitato suo Figlio dai morti per la nostra salvezza.
La speranza cambia la vita dei cristiani, i quali, insieme, formano la
chiesa che è comunità escatologica che si configura in relazione al futu-
ro, già iniziato con la risurrezione di Cristo e, per questo, non ancora
realizzato. A sostegno di questa speranza c’è lo Spirito, «il quale è ca-
parra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro
360 Gaetano Di Palma

che Dio si è acquistato, a lode della sua gloria» (Ef 1, 14). Il sostegno
dello Spirito si rende tanto più necessario dal momento che i cristiani,
vivendo nella storia, devono fare i conti con la sofferenza che proviene
dalla fedeltà al Vangelo (cf. Rm 8 e 1Cor 12-13) 39. Il futuro per i cristia-
ni è la gloria, di cui la speranza è pregustazione, che si basa sulla risur-
rezione di Cristo, la primizia 40.
Nei Vangeli, invece, è alquanto sorprendente notare che il verbo
ejlpivzw ricorra solo 4 volte nei vangeli (Mt 12, 21; Lc 6, 34; Gv 5, 45),
mentre il sostantivo ejlpiv" mai. Ciò non vuol dire, però, che gli evange-
listi non conoscano la speranza, ma che essa risulti per lo più inglobata
nella fede. D’altronde, la narrazione evangelica ricorda l’importanza
dell’adempimento delle promesse, che creano speranze, in Gesù Cristo,
il Messia, il Figlio dell’Uomo e Figlio di Dio. Gesù stesso, poi, suscita
speranze in coloro che lo incontrano con disponibilità ad accoglierne la
parola, mentre gli apostoli diventano il primo nucleo di coloro che si
riuniscono condividendo la speranza che si radica nella risurrezione.

5. La speranza nella prima Lettera di Pietro

Benché le ricorrenze del termine ejlpiv" e del verbo ejlpivzw non sia-
no numerose, sembra che nella prima Lettera di Pietro il tema presenti
interessanti spunti di riflessione. Per essere precisi, il termine ejlpiv" si
trova solo 3 volte: 1,3.21; 3,15; il verbo ejlpivzw, invece, 2 volte: 1,13 e
3,5. Ora ci occuperemo di questi brani, esaminati nel loro contesto.

5.1. 1Pt 1, 3-12: Dio ci ha rigenerati per una speranza viva

Subito dopo l’esordio epistolare (cf. 1Pt 1,1-2) 41, l’autore eleva una so-
lenne benedizione rivolta a Dio, il Padre del nostro Signore Gesù Cristo,
che si prolunga fino dal v. 3 al 12. Non è semplice individuare una struttura

39 Cf. in proposito B. ROSSI, La vita nello Spirito (Rm 8, 1-39), in A. SACCHI e altri, Lettere
paoline e altre lettere, Leumann (Torino) 1995, 480-482; FITZMYER, Lettera ai Romani, 612-614.
40 Cf. J. M. EVERTS, Speranza, in G.F. HAWTHORNE - R. P. MARTIN - D. G. REID, Diziona-
rio di Paolo e delle sue lettere, Cinisello Balsamo (Milano) 1999, 1485-1489.
41 P. L. TITE, The Compositional Function of the Petrine Prescript: A Look at 1 Pet 1:1-3,
in Journal of the Evangelical Theological Society 39 (1996) 1, 47-56. Tale esordio è strettamen-
te legato ai versetti successivi.
Aspetti della testimonianza nella prima Lettera di Pietro 361

di questa benedizione, ma sembra accettabile suddividere in tre seg-


menti il brano, tenendo presente che in 1, 6 e 1, 10 c’è una preposizione
con un pronome relativo. Per cui, abbiamo questa situazione: primo
segmento, costituito dai vv. 3-5; secondo segmento, dai vv. 6-9 (intro-
dotto al v. 6 da ejn w|)/ ; terzo segmento, dai vv. 10-12 (introdotto al v. 10
da peri; h|") 42. Il segmento che c’interessa di più è il primo, dove si tro-
va il termine ejlpiv":
v. 3 Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo;
nella sua grande misericordia egli ci ha rigenerati (ajnagennhvsa" hJma`"),
mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti,
per (eij") una speranza viva (ejlpivda zw`san),
v. 4 per (eij") una eredità che non si corrompe, non si macchia e non
marcisce.
Essa è conservata nei cieli per voi,
v. 5 che dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede,
per (eij") la vostra salvezza, prossima a rivelarsi negli ultimi tempi.

L’autore inizia una benedizione indirizzata a Dio, che viene qualifi-


cato come il Padre del Signore nostro Gesù Cristo, motivandola subito
con l’avvenuta rigenerazione, la quale ci coinvolge perché la misericor-
dia divina ha voluto portarla a compimento attraverso la risurrezione di
Gesù Cristo dai morti. Il pensiero è chiaro nelle sue grandi linee, ma oc-
corre precisare il senso di questa rigenerazione, espressa con un verbo
che è tipico di questo scritto neotestamentario, poiché non si trova che
in 1, 3 e in 1, 23. Si tratta del verbo ajnagennavw, che è sconosciuto al NT
e persino alla versione dei LXX. La determinazione del suo significato,
in verità, non crea alcun problema particolare, in quanto il verbo gennavw
è ben conosciuto al NT, come anche la preposizione ajna;; entrambi i ter-
mini ricordano il dialogo tra Gesù e Nicodemo, nel quale gioca un ruo-
lo importante non soltanto il verbo gennavw (cf. Gv 3, 3.4.5.6.7.8), ma
anche il celebre avverbio a[nwqen (cf. Gv 3, 3.7), dal doppio significato
di “dall’alto” e “di nuovo”.

42 Per questa struttura, cf. P. J. ACHTEMEIER, La prima Lettera di Pietro, Città del Vatica-
no 2004, 180, con la bibliografia ivi indicata; M. MAZZEO, Lettere di Pietro. Lettera di Giuda,
Cinisello Balsamo 2002, 60-61. Cf. anche J. H. ELLIOTT, 1Peter, New York 2000, 329, per
quanto sia poco convincente il fatto che ciascun segmento si riferisca a una delle persone tri-
nitarie (il primo al Padre, il secondo al Figlio e il terzo allo Spirito). In realtà, ciò che l’agio-
grafo vuole dire è altro.
362 Gaetano Di Palma

Non sono pochi gli studiosi i quali ritengono che per rigenerazione,
che nel testo petrino viene prospettata come un cambiamento radicale
di vita che i credenti sperimentano per effetto della misericordia di Dio,
debba ritenersi il battesimo, il quale implica una nuova relazione con
Dio, con il Figlio Gesù Cristo e con il prossimo 43. L’autore di 1Pt, in
realtà, insiste molto su metafore e immagini che hanno rapporto con
la rinascita: basti ricordare il classico termine tevkna (figlioli) in 1, 14,
ajrtigevnnhta (neonati) in 2,2 e la tematica dell’incorporazione nella fa-
miglia divina in 2,4-10 44.
Ci si è chiesti da dove sia derivata quest’idea di rigenerazione, il che
ha fatto sorgere il normale corollario d’ipotesi tra gli studiosi. Quella da
scartare a priori è indubbiamente la correlazione con il linguaggio, d’epo-
ca successiva, delle religioni misteriche, mentre potrebbe essere più
pertinente un rapporto con il linguaggio che è documentato nella lette-
ratura rabbinica, per quanto anche questo sia più recente. L’autore po-
trebbe, però, essere stato senz’altro a conoscenza di quel tipo di lin-
guaggio, già adoperato nella tradizione orale. Tuttavia, è da notare che
l’immagine della nuova nascita e della rigenerazione non è affatto igno-
ta al NT, come dimostrano, oltre alla già ricordata pericope di Gv 3, 3-8,
anche testi come Rm 6, 4, 2Cor 5, 17, Tt 3, 5-6, Gc 1, 18, 1Gv 3, 9-10
e 5, 1-5, a cui sono da aggiungere Rm 8, 9-30, Gal 4, 4-7 ed Ef 1, 5 45.

43 Cf. ELLIOTT, 1Peter, 331-333; K. H. SCHELKLE, Le lettere di Pietro. La lettera di Giuda,


Brescia 1981, 73-77 ammette che questo senso risulta molto forte, pur segnalandone uno ge-
nerale, che concerne «la rinascita come redenzione ottenuta mediante la risurrezione di Cristo
e la fede» (ivi 74). Per il senso sacramentale si schiera F. MANNS, La théologie de la nouvelle
naissance dans la Premiére Lettre de Pierre, in Les Enfants de Rébecca. Judaïsme et christianisme
aux premiers siècles de notre ère, Saint-Germain-lès-Arpajon 2002, 103-140. Lo studioso fran-
cescano, infatti, si dedica a studiare il concetto di nuova creazione nell’AT e negli apocrifi an-
ticotestamentari, fino ad esaminare il tema della rinascita per mezzo della parola di Dio viven-
te, che s’integra con quello della rinascita attraverso la risurrezione. Tuttavia, «la nouvelle nais-
sance du baptême doit se traduire par une vie nouvelle caractérisée par l’amour» (ivi 138). Ciò
vuol dire che la rigenerazione, che affonda nel battesimo le sue radici, deve diventare rinno-
vamento della vita nell’amore.
44 Cf. tra gli altri J. H. ELLIOTT, The Elect and the Holy: An Exegetical Examination of 1
Peter 2:4-10 and the Phrase basileian hierateuma, Leiden 1966; F. MOSETTO, Sacerdozio regale
(1Pt 2, 4-10), in SACCHI, Lettere paoline e altre lettere, 571-582; P. GRELOT, Regole e tradizioni
del cristianesimo primitivo, Casale Monferrato 1998, 115-155; S. J. VAN RENSBURG - S. MOYISE,
Isaiah in 1 Peter 2:4-10. Applying intertextuality to the study of the Old Testament in the New,
in Ekklesiastikos Pharos 84 (2002) 1, 12-30.
45 Per approfondire il tema di rigenerazione, cf. S. PARSONS, We have been Born Anew:
The New Birth of the Christian in the First Epistle of St. Peter (1Petr. 1, 3-23), Roma 1978.
Aspetti della testimonianza nella prima Lettera di Pietro 363

Senza negare la fondatezza del senso sacramentale, è necessario


prendere in considerazione anche la rigenerazione quale frutto della re-
denzione attuata dalla risurrezione di Cristo e quella di carattere esi-
stenziale, in quanto realizzata attraverso la realtà della fede. Siamo del
parere, in compagnia di qualche recente commentatore, che i tre sensi
non si escludono vicendevolmente 46. Da un punto di vista logico e teo-
logico, infatti, non dovrebbe esistere reciproca esclusione, bensì coim-
plicazione, in quanto il battesimo è intimamente correlato con la risur-
rezione di Cristo e segna un cambiamento esistenziale.
L’autore, poi, individua tre finalità introdotte ciascuna dalla prepo-
sizione eij": per una speranza viva, per un’eredità incorruttibile e per la
nostra salvezza prossima a rivelarsi. Per questo motivo, riteniamo che la
traduzione Cei non faccia bene intendere al lettore l’enumerazione di
tali tre finalità spezzando la sequenza con un segno d’interpunzione for-
te quale il punto dopo l’aggettivo ajmavranton.
Per quanto il nostro interesse sia concentrato sulla speranza, è pur
vero che non possiamo ignorare l’eredità e la salvezza, che fanno parte
della triade. Certamente, impressiona l’uso dell’aggettivo zw`san (viva,
vivente) associato al termine speranza. Che cosa vuol dire l’autore? Cre-
diamo che il primo accostamento da fare sia con la risurrezione di Cristo
dai morti, per cui emerge il contrasto tra il mondo della morte, da cui
Cristo, il Vivente, si è svincolato spezzandone i legami che lo tenevano
avvinto in quella che già l’antica tradizione mesopotamica chiamava «la
terra del non ritorno» 47, e il mondo della vita. C’è poi il richiamo ob-
bligato alla rigenerazione, di cui prima abbiamo parlato, la quale non
può che costituire elemento concreto di speranza perché si giunge a una
nuova vita.
La speranza viva, inoltre, “contiene” in sé l’eredità e la salvezza. In-
fatti, la speranza ha in vista l’eredità conservata nei cieli perché i cre-
denti non devono presumere di avere già il possesso di qualcosa, pur
iniziando a pregustare qualcosa dei beni futuri; tuttavia, è necessario
che prendano coscienza che ciò in cui sperano è qualcosa di concreto,

46 Cf. MAZZEO, Lettere di Pietro. Lettera di Giuda, 62. Non siamo completamente d’ac-
cordo, quindi, con D. P. SENIOR, 1Peter, Jude and 2Peter, Collegeville 2003, 36, che sostiene:
«Rather, 1 Peter uses the image of “rebirth” to describe both God’s sovereign power (God alo-
ne can give life) and the radical change salvation brings (from non-existence to existence)».
47 Cf. l’interessante saggio di G. PETTINATO (cur.), I miti degli inferi assiro-babilonesi, in-
troduzione di S. M. Chiodi, Brescia 2003.
364 Gaetano Di Palma

di reale, di vivo, in quanto garantito dalla risurrezione di Cristo: l’ere-


dità dei beni eterni e la salvezza come raggiungimento della perfezione
escatologica del mondo. Perciò, di fronte a questa prospettiva, l’autore
esorta in seguito a non perdere coraggio se il contesto storico, con le sue
contraddizioni e asperità, non corrisponde ancora alle attese della spe-
ranza, in quanto la fede ha bisogno di purificarsi 48.

5.2. 1Pt 1, 13-21: la speranza sia fissa in Dio

La benedizione è l’inizio della prima parte della Lettera, che termi-


na in 2 ,10. L’aiuto a determinare i limiti della parte deriva dall’inclusio-
ne con il termine “misericordia”, che ricorre in 1, 3 e 2, 10. Se la prima
sezione di questa parte è la benedizione (1, 3-12), la seconda sezione è
introdotta da dio;, una congiunzione che vuol dire “perciò”, la quale se-
gna il passaggio alla parenesi, e giunge fino a 1, 25 49, trattando la voca-
zione alla santità dei credenti, mentre 2, 1-10 della missione della co-
munità sacerdotale fondata su Cristo. Anche la sezione 1, 13-25 è sud-
divisibile: 1, 13-21, contrassegnata dall’inclusione tra ejlpivsate (v. 13)
ed ejlpivda (v. 21), oltre alla presenza di un altro indizio che avvalora la
divisione, ossia il fatto che al v. 13 e al v. 22 c’è una costruzione sintatti-
ca uguale, formata da un participio seguito da un imperativo 50.
Naturalmente, il nostro interesse è concentrato in misura maggiore
sul brano 1,13-21 e specialmente sul versetto iniziale e quello finale. Il
v. 13, come già si era accennato prima, presenta questa costruzione sin-
tattica, ossia un participio seguito da un imperativo, che risulta un po’
strana ed è stata ampiamente discussa dagli studiosi 51:

48 Cf. SCHELKLE, Le lettere di Pietro. La lettera di Giuda, 70-95; U. VANNI, Lettere di Pie-
tro, Giacomo e Giuda, Brescia 1986, 14-15; 23-32.
49 Su questa pericope, cf. J. PRASAD, Foundations of the christian way of life according to
1Peter 1,13-25. An esegetic-theological study, Roma 2000.
50 Cf. in particolare ACHTEMEIER, La prima Lettera di Pietro, 217-219.
51 Per lo status quaestionis al riguardo, cf. ACHTEMEIER, La prima Lettera di Pietro, 221-
223, con i riferimenti bibliografici. Il problema sorge perché alcuni commentatori hanno so-
stenuto che spesso i participi della 1Pt, se seguiti da un imperativo, hanno anch’essi il valore di
imperativi, come accadrebbe nella lingua greco-ellenistica. In effetti, il riferimento al greco el-
lenistico non è pertinente, mentre potrebbero essere più rispondenti i confronti con la lettera-
tura tannaitica. Per quanto riguarda il v. 13, è condivisibile questo giudizio: «I due participi
(ajnazwsavmenoi, nhvfonte") ricevono valore di imperativi dalla loro associazione all’imperativo
ejlpivsate, ma la loro forza è minore di quella di un comando diretto, come lo può essere la de-
scrizione del genere di popolo che può trarre beneficio da questo comando, ossia coloro che
Aspetti della testimonianza nella prima Lettera di Pietro 365

«Perciò (Dio;), dopo aver preparato la vostra mente all’azione (ajnazwsavmenoi


ta;" ojsfuva" th`" dianoiva" uJmw`n), siate vigilanti, fissate ogni speranza (teleivw"
ejlpivsate) in quella grazia che vi sarà data quando Gesù Cristo si rivelerà».

La congiunzione Dio; collega opportunamente la benedizione con


questa parte parenetica, che diventa una conseguenza di quello che è
stato affermato prima. In altre parole, la parenesi dipende dall’annun-
cio della realtà nuova del vangelo, che fornisce le motivazioni teologi-
che del cambiamento di vita. Si comprende, allora, il senso di questo
participio, ajnazwsavmenoi, che indica il “cingersi la veste”. È questo, in-
fatti, il significato dell’espressione greca, in quanto la veste lunga fino ai
piedi era d’impaccio quando si lavorava o si camminava. Succingersi la
veste era, quindi, un modo per indicare che si era presa la decisione di
fare qualcosa. Tale metafora non può non richiamare alla mente testi
come Es 12, 11, Lc 17, 8, insieme ad altri che presentano espressioni si-
mili 52. Tuttavia, la metafora doveva essere abbastanza comune per rite-
nerla necessariamente collegata a Es 12, 11 e Lc 17, 8. L’autore vuole sol-
tanto raccomandare che è meglio avere la mente sgombra da ogni gene-
re di pensieri, per concentrarsi sull’obiettivo principale. Quindi, come
ci si libera della veste lunga, accorciandola e assicurandola ai fianchi,
così bisogna fare con la mente.
Accoppiato all’invito a cingersi la veste ai fianchi della mente c’è
quello a essere svegli e sobri, così da iniziare a sperare in maniera com-
pleta (teleivw" ejlpivsate) nella grazia che sarà data nella rivelazione di
Gesù Cristo. Dunque, l’orientamento della speranza è verso il futuro: og-
gi si comincia a sperare, sulla base dell’annuncio del vangelo, in riferi-
mento a una grazia che si manifesterà in pienezza quando Gesù si rivelerà
alla fine dei tempi, quando ciò che ora si spera diventerà realtà e ci sarà
la conferma di quello che è stato annunciato. Fissare perfettamente la
speranza è il primo di una serie di imperativi, con i quali ai cristiani vie-
ne detto di diventare santi nella condotta (cf. 1Pt 1, 15), di comportarsi

sono pronti ad affrontare uno sforzo di disciplina» (ivi 223). Di recente ha discusso l’argo-
mento S. SNYDER, Participles and Imperatives in 1Peter: A Re-examination in the Light of
Recent Scholarly Trends, in Filología Neotestamentaria 8 (1995) 187-198, il quale difende la tesi
che il participio, quando è indipendente, può avere un senso imperativo, come attestato nel
greco ellenistico. In 1Pt i casi sono 2,18; 3,1.7.9. invece, «that a participle which occurs in clo-
se proximity to a main verb and could easily modify that verb, without distorting the sense of
the argument, is probably not best considered a commanding participle» (ivi 197).
52 Abbiamo anche Na 2, 1, Gb 38, 3; 40, 7, Pr 31, 17.
366 Gaetano Di Palma

con timore durante il pellegrinaggio terreno (cf. 1Pt 1, 17), di amarsi vi-
cendevolmente di vero cuore (cf. 1Pt 1, 22) e, infine, di desiderare come
bambini appena nati il puro latte spirituale (cf. 1Pt 2, 2) 53. È l’invito a
prendere in seria considerazione la vocazione alla santità.
Il secondo riferimento alla speranza si trova, invece, al termine di
una bella confessione su Gesù Cristo (vv. 18-20), il cui sacrificio pa-
squale non dev’essere vanificato da condotte immorali, ereditate dagli
antenati di coloro che sono venuti alla fede: «Voi sapete che non a prez-
zo di cose corruttibili, come l’argento e l’oro, foste liberati dalla vostra
vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma con il sangue prezioso di
Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia. Egli fu predesti-
nato già prima della fondazione del mondo, ma si è manifestato negli ul-
timi tempi per voi». Perciò, si conclude così:
«E voi per opera sua credete in Dio, che l’ha risuscitato dai morti (to;n ejgeiv-
ranta aujto;n ejk nekrw`n) e gli ha dato gloria (dovxan aujtw`/ dovnta) e così la vo-
stra fede e la vostra speranza sono fisse in Dio (ejlpivda ei\nai eij" qeovn)» (v. 21).

Bisogna notare che la speranza è in questo caso correlata con la fede,


delle quali è detto che “sono” in Dio. D’altronde, il versetto era iniziato
con un riferimento a Dio, nel quale è possibile avere fede per mezzo del-
la mediazione di Gesù Cristo, l’agnello che ci ha redento con il suo san-
gue prezioso. Tale mediazione, è bene ricordarlo, è stata realizzata semel
pro semper, una volta per sempre. L’aver fede e speranza in Dio – le qua-
li insieme formano un’endiadi e costituiscono una prova che anche nel
NT sono quasi sinonime, ossia due aspetti della medesima realtà, come
nell’AT – si basa sul fatto che egli ha risuscitato e conferito gloria al Fi-
glio, Gesù Cristo, colui che ha aperto un canale di comunicazione con il
Padre altrimenti mai percorribile. Tutti i commentatori hanno ricono-
sciuto che «l’ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria» è una formula
letteraria unica, benché il dato sia ampiamente comune nella letteratura
neotestamentaria 54. La speranza ha comunque un rilievo particolare, per-
ché si trova in una posizione climatica, cioè al termine di un crescendo.

53 Su quest’argomento del latte spirituale, rimandiamo al recente articolo di K. H. JOBES,


Got Milk? Septuagint Psalm 33 and the Interpretation of 1 Peter 2:1-3, in Westminster Theolo-
gical Journal 63 (2002) 1-14.
54 Cf. SENIOR, 1Peter, Jude and 2Peter, 45; ACHTEMEIER, La prima Lettera di Pietro, 245-
246; ELLIOTT, 1Peter, 378-379; MAZZEO, Lettere di Pietro. Lettera di Giuda, 79.
Aspetti della testimonianza nella prima Lettera di Pietro 367

5.3. 1Pt 3, 1-7: le sante donne che speravano in Dio

Gli ultimi due testi che prendiamo in esame si trovano nella se-
conda parte della Lettera, che va da 2, 11 a 4, 11. Ci sono almeno due
motivi che supportano questa delimitazione: in primo luogo, l’aggetti-
vo ajgaphtoiv che ricorre in 2, 11 e in 4, 12, con il quale si apre la terza
parte della Lettera; poi, vi è un’inclusione formata dal ripetersi della glo-
rificazione rivolta a Dio in 2,12 e in 4, 11 55. Questa parte, dopo un’esor-
tazione generica a comportarsi bene (2, 11-12), si sofferma in 2, 13-3, 7
su gruppi e su problemi particolari: in 2, 13-17 viene trattato il compor-
tamento nei riguardi delle autorità civili; in 2, 18-25 il comportamento
degli schiavi verso i padroni; in 3, 1-7 della condotta delle mogli nei
confronti dei mariti e di come costoro devono rapportarsi con le donne
in casa 56. Da 3, 8 a 4, 11 si ritorna a parlare di indicazioni generali di ret-
to comportamento, presentando come modello Gesù Cristo.
La sezione che c’interessa è 3, 1-7, che a primo acchito sembra un
brano sul rapporto uomo-donna in generale. In realtà, a leggere con at-
tenzione il testo, emerge un dato peculiare, ossia il fatto che l’autore si
rivolge a quelle donne sposate i cui mariti non sono credenti: «Ugual-
mente (ojmoivw") voi, mogli, state sottomesse (uJpotassovmenai) ai vostri
mariti perché, anche se alcuni si rifiutano di credere alla parola (kai; ei[
tine" ajpeiqou`sin tw`/ lovgw/)` , vengano dalla condotta delle mogli, sen-
za bisogno di parole, conquistati (kerdhqhvsontai) considerando la vo-
stra condotta casta e rispettosa» (3, 1-2).
Alle donne, quindi, l’autore della Lettera consiglia di mostrarsi sot-
tomesse ai mariti, com’era nella mentalità corrente dell’epoca 57, in mo-

55 Cf. in 2, 12: «i{na […] doxavswsin to;n qeovn», e in 4, 11: «i{na […] doxavzhtai oJ qeo;"».
56 Per una bibliografia d’orientamento, cf. D. L. BALCH, Let Wives Be Submissive: The
Domestic Code in 1 Peter, Chico (California) 1981; G. HERRICK, The Apostle Peter on Civil
Obedience, in www.bible.org; F. MANNS, La morale domestique de la Premiere lettre de Pierre,
in Les Enfants de Rébecca, 190-215; R. FRASCA, Educazione e formazione a Roma. Storia, testi,
immagini, Bari 1996, 133-169; Y. THÉBERT, Lo schiavo, in A. GIARDINA (cur.), L’uomo romano,
Roma-Bari 2003, 145-185 (con bibliografia); P. GARNSEY - R. SALLER, Storia sociale dell’impero
romano, Roma-Bari 2003, 153-180; J. S. JEFFERS, Il mondo greco-romano all’epoca del Nuovo Te-
stamento, Cinisello Balsamo 2004, 306-331 (schiavi); 332-364 (famiglia). Questo brano è stato
definito una Haustafel (codice di comportamento familiare), come Ef 5, 21-6,4 e Col 3, 18-4,6.
Sulla questione, cf. MAZZEO, Lettere di Pietro. Lettera di Giuda, 28-33; SCHELKLE, Le lettere di
Pietro, 168-172; E. BOSETTI, Codici familiari: storia della ricerca e prospettive, in Ricerca Biblica
Italiana 35 (1987) 129-179.
57 Cf. il lungo ed esauriente confronto con le testimonianze letterarie contemporanee in
ELLIOTT, 1Peter, 553ss.
368 Gaetano Di Palma

do da non creare problemi e frizioni inutili in famiglia e non dare del


cristianesimo un’immagine apertamente “sovversiva” dei costumi della
società. Piuttosto, con una condotta esemplare si può addirittura con-
seguire un fine missionario, guadagnando alla fede il coniuge, come fa
intendere il verbo kerdaivnw 58. La questione riguarda principalmente
quelli che noi considereremmo matrimonia mixtae religionis, che sono
stati subito avvertiti come un problema, a cui fanno cenno in maniera
più o meno aperta anche 1Cor 7, 12-16, Mc 10, 29 e Lc 12, 51-53.
La sottomissione non può valere in alcun modo, però, su quanto ri-
guarda la fede. A tale proposito è da rammentare quanto scrive Plutar-
co sulla “libertà religiosa” della moglie: costei non solo non deve avere
amici propri che non siano quelli del marito, ma poiché gli dei sono i
primi e più significativi amici, deve adorare gli dei del marito e sbarra-
re la porta ai superstiziosi e ai culti da loro portati 59. Dunque, qualcosa
di contrario alla mentalità sua contemporanea l’agiografo la dice, se rac-
comanda alla donna di non abbandonare la fede, ma anzi di “converti-
re” il marito.
Il brano prosegue con i consigli riguardanti gli ornamenti (3, 3-4),
di cui abbellire non la persona esteriore, bensì quella interiore, cioè «la
persona animata da una fede che è visibile direttamente solo da Dio (cf.
Mt 6, 4.6.18), e che si rende visibile ad altri esseri umani mediante azio-
ni esterne» 60. Al v. 5a sono presentati i modelli da seguire:
«Così una volta si ornavano le sante donne che speravano in Dio (aiJ a{giai
gunai`ke" aiJ ejlpivzousai eij" qeovn)».

Si tratta delle matriarche. È l’unica volta, come i commentatori ri-


levano, che nel NT si trova l’espressione «sante donne». Il significato,
però, non è quello che ci aspettiamo: le matriarche sono sante in quan-
to fanno parte del popolo che Dio si è scelto e sono modelli in rappor-
to al loro attaccamento alla speranza, che corrisponde alla fede, condi-

58 Il senso “missionario” di questo verbo si riscontra anche in qualche altro luogo del NT,
come in 1Cor 9, 19ss, mentre in Mt 18, 15 indica il recuperare il fratello che sbaglia. Cf. H. SCH-
LIER, kevrdo", kerdaivnw, in GLNT V, 362; ELLIOTT, 1Peter, 558-559; SENIOR, 1Peter, Jude and
2Peter, 81; MAZZEO, Lettere di Pietro. Lettera di Giuda, 117.
59 Cf. PLUTARCO, Coniugalia praecepta: Moralia 140D. Sulla condizione delle donne nel
mondo antico e in epoca romana, cf. A. OEPKE, gunhv, in GLNT II, 691-730; E. CANTERELLA,
Passato prossimo. Donne romane da Tacita a Sulpicia, Milano 1996.
60 ACHTEMEIER, La prima Lettera di Pietro, 366.
Aspetti della testimonianza nella prima Lettera di Pietro 369

visa con i loro consorti. In realtà, la speranza e la fede delle matriarche


non vengono mai messe in rilievo nell’AT, ma in questo caso l’autore
usa un tipo di ragionamento che ricorda Eb 11, specialmente i vv. 11 e
13. Le donne cristiane, infine, diventano “figlie” di Sara perché ne emu-
lano il rispetto per il marito 61.

5.4. 1Pt 3 , 8-22: pronti a rispondere a chi domandi ragione della speranza

L’ultima ricorrenza del termine speranza è in 3, 15, che si trova nella


sezione 3, 8-4,11. Non è semplice tracciare la struttura della sezione, ma
alcuni indizi ci aiuteranno. In alcuni casi nella 1Pt, le citazioni scritturi-
stiche segnano la fine di una sezione 62, il che in questa sezione avviene in
3,12: quindi, 3, 8-12 termina con la lunga citazione di Sal 34, 13-17, che
corrisponde a 3,10-12. La successiva sottosezione inizia in 3, 13 e si con-
clude in 3, 22, a sua volta divisa in due parti, ossia 3, 13-17, dove si parla
della sofferenza dei cristiani, e 3, 18-22, con la presentazione di Cristo e
della sua sofferenza esemplare 63. Le ultime due sezioni sono 4, 1-6 e 4, 7-
11. I versetti che c’interessano sono quelli tra 13 e 17, che rivelano una
struttura concentrica:
A vv. 13-14a E chi vi potrà fare del male, se sarete ferventi nel bene?
E se anche doveste soffrire (pavscoite) per la giustizia,
beati voi!
B v. 14b Non vi sgomentate per paura (fovbon) di loro, né vi turbate,
C v. 15 ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori,
pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione
della SPERANZA che è in voi.
B1 v. 16 Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto (fovbou),
con una retta coscienza, perché nel momento stesso
in cui si parla male di voi rimangano svergognati
quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo.
A1 v. 17 È meglio infatti, se così vuole Dio, soffrire (pavscein)
operando il bene che facendo il male.

61 Sulla figura di Sara nella letteratura tannaitica, cf. F. M ANNS, Une approche juive du
Nouveau Testament, Paris 1998, 283-291.
62 Cf. 1,24; 2,3; 2,9-10.
63 Cf. W. J. DALTON, Christ’s Proclamation to the Spirits: A Study of 1 Peter 3:18-4:6, Ro-
me 21965. W. GRUDEM, Christ Preaching Through Noah: 1Peter 3:19-20 In The Light Of Domi-
nant Themes In Jewish Literature, in Trinity Journal 7 (1986) 2, 3-31; J.S. FEINBERG, 1Peter 3:18-
20, Ancient Mythology, and the Intermediate State, in Westminster Theological Journal 48
370 Gaetano Di Palma

La sofferenza è tra i temi più importanti, al punto che l’autore del-


la Lettera esorta i cristiani non solo a sopportarla, bensì a ritenersi bea-
ti per averla patita. Non si tratta, però, della sofferenza genericamente
intesa 64, ma di quella che proviene dalla testimonianza della fede, dalla
rettitudine della vita, che nel linguaggio della 1Pt corrisponde alla giu-
stizia, alla dikaiosuvnh. Tale esortazione è molto netta nei vv. 13-14a e
17. Nel v. 14a si trova addirittura un macarismo, con il quale si dichiara
beato colui che soffre per la giustizia 65. Senz’alcuna paura (v. 14b: «to;n
de; fovbon aujtw`n mh; fobhqh`te mhde; taracqh`te»), ma senza manca-
re di dolcezza e rispetto (v. 16: «ajlla; meta; prau?thto" kai; fovbou»)
verso chiunque, è necessario che i cristiani svolgano il proprio compito
d’illuminare con le loro opere il mondo, affinché siano riscontrate non
credibili le accuse e le dicerie contro di loro: sarà il loro stesso retto agi-
re (ajgaqopoiou`nta"), sostenuto da una retta coscienza (suneivdhsin […]
ajgaqhvn), a parlare a loro favore.
C’è da chiedersi perché tanta insistenza sulla sofferenza, che sem-
brerebbe soltanto supposta se si nota che nel v. 14a si trova l’ottativo
pavscoite. Stando a quanto si legge nel v. 16, sembra di poter arguire
che l’autore pensi a un contesto generico di sospetto verso i cristiani,
dovuto naturalmente all’ignoranza della gente circa il loro tipo di culto.
In tale clima, poteva scoppiare da un momento all’altro una persecu-
zione o, forse, l’autore era già a conoscenza di qualche persecuzione in
atto 66. L’aspetto più importante, però, è l’adesione dei cristiani al mo-
dello, cioè a Gesù Cristo, il quale ha sofferto, pur essendo giusto, a fa-
vore degli ingiusti (cf. 1Pt 3, 18).

(1986) 2, 303-336; D.G. HORRELL, Who Are “The Dead” and When Was the Gospel Preached to
Them?: The Interpretation of 1 Pet 4:6, in New Testament Studies 49 (2003) 1, 70-89.
64 Il verbo pavscw ricorre 42 volte nel NT, di cui 12 nella 1Pt, che risulta essere il testo con
più ricorrenze del termine in assoluto.
65 Cf. 1Pt 4, 14. Il richiamo più spontaneo è a Mt 5,10, ma c’è anche 1Enoc 58,2: «Beati
voi giusti ed eletti, perché gloriosa sarà la vostra fine». Su questo versetto, cf. E. BOSETTI, «Bea-
ti voi, se soffrite per la giustizia», in Parola Spirito e Vita 34 (1996) 223-238. L’autore della lette-
ra è convinto del valore educativo della sofferenza: cf. in merito A. REICHERT, Eine urchristli-
che praeparatio ad martyrium: Studien zur Komposition, Traditionsgeschichte und Theologie des
1. Petrusbriefes, Frankfurt 1989; C.H. TALBERT, The Educational Value of Suffering in 1 Peter,
in Learning Through Suffering: The Educational Value of Suffering in the New Testament and in
its Milieu, Collegeville 1991.
66 Cf. ACHTEMEIER, La prima Lettera di Pietro, 392; SENIOR, 1Peter, Jude and 2Peter, 94;
MAZZEO, Lettere di Pietro. Lettera di Giuda, 124.
Aspetti della testimonianza nella prima Lettera di Pietro 371

Dunque, l’appello rivolto ai cristiani è di non aver alcuna paura né


turbarsi, bensì di “santificare” (o di adorare, come si traduce in varie
versioni) il Signore Cristo nei propri cuori (cf. 3, 14b-15a). A tal propo-
sito, non si può che notare un fenomeno importante d’intertestualità: ci
riferiamo al ben noto uso della citazione di Is 8, 12b-13 (LXX), rilevato
da tutti i commentatori 67. Per parlarne, seppur brevemente, riteniamo
utile presentare uno specchietto sinottico:

Is 8, 12b 1Pt 3, 14b


to;n de; fovbon aujtou` ouj mh; to;n de; fovbon aujtw`n mh; fobh-
fobhqh`te oujde; mh; taracqh`te qh`te mhde; taracqh`te

Is 8, 13 1Pt 3, 15a
kuvrion aujto;n aJgiavsate kai; auj- kuvrion de; to;n Cristo;n aJgiav-
to;" e[stai sou fovbo" sate ejn tai`" kardivai" uJmw`n

Il testo d’Isaia fa parte del famoso libro dell’Emmanuele e il conte-


sto storico è quello della cosiddetta guerra siro-efraimita. In questo ca-
pitolo, il Signore parla al profeta mettendolo in guardia dal condivide-
re il sentimento di angoscia che opprime il popolo di Gerusalemme.
Perciò troviamo l’invito a non aver paura di ciò che esso (il popolo) te-
me e a non turbarsi, ma a riconoscere come “santo” solo il Signore, os-
sia a temere unicamente lui 68.
Oltre alle riconoscibili somiglianze nell’uso dei termini, in 1Pt c’è
qualche differenza che l’autore inserisce: in 3,14b c’è fovbon aujtw`n al
posto di fovbon aujtou`, ouj mh; invece di mh;, mhde; oujde; invece di mh;;
in 1Pt c’è il comando di onorare Gesù Cristo come Signore invece di
Dio. Le differenze più importanti sembrano la prima e l’ultima. Infatti,
se in Isaia il profeta non deve temere quello che il popolo teme – pro-
babilmente il re d’Assiria – in 1Pt non ha senso questo, perché ci si ri-
ferisce a coloro che chiedono conto della speranza. Inoltre, nel NT non
c’è da meravigliarsi del cambiamento da Dio a Gesù Cristo, anch’egli
considerato Signore 69.

67 Cf., ad esempio, ACHTEMEIER, La prima Lettera di Pietro, 394; SENIOR, 1Peter, Jude and
2Peter, 94; ELLIOTT, 1Peter, 624-625; MAZZEO, Lettere di Pietro. Lettera di Giuda, 124.
68 Cf. B.S. CHILDS, Isaia, Brescia 2005, 87-88.
69 Per approfondimenti, cf. F. J. VAN RENSBURG - S. MOYISE, Isaiah in 1 Peter 3:13-17. Ap-
plying Intertestuality to the Study of the Old Testament in the New, in Scriptura 80 (2002) 275-286.
372 Gaetano Di Palma

Contrapposto al non dover temere gli uomini è l’imperativo a “san-


tificare“ Dio nei propri cuori. Santificare, in greco aJgiavzw, è un verbo
ampiamente analizzato nei lessici e nei commentari, perciò preferiamo
dire subito che l’autore vuole esprimere il concetto di “riconoscere come
santo” Cristo, il quale è il Signore 70. D’altronde, che cosa bisogna aspet-
tarsi da un popolo che è stato chiamato alla santità e dichiarato santo,
cioè appartenente a Dio (cf. 1 ,15-16, che cita Lv 19, 2; 2, 5.9, che cita
Es 19, 5-6)? La santificazione di Cristo deve avvenire ejn tai`" kardivai"
uJmw`n, “nei vostri cuori“, nel luogo più intimo della persona.
Se il riconoscimento della santità di Cristo avviene nell’intimo del-
la persona, è pur vero che la testimonianza dev’essere resa alla luce del
sole, perciò occorre essere sempre pronti (e{toimoi ajei;) a spiegare le ra-
gioni della propria speranza. Quest’ultima parte del v. 15 non può esse-
re trascurata, anche per il particolare linguaggio adoperato. In primo
luogo, c’è il vocabolo ajpologiva, usato in senso giudiziario in At 22, 1;
25, 16; Fil 1, 7.16; 2Tm 4, 16 71, ma che nel nostro caso, pur senza esclu-
dere eventuali procedimenti giudiziari, sembra riferirsi a situazioni di
carattere privato, a rapporti informali, per cui l’autore invita a non es-
sere superficiali, bensì a rispondere a tutti (panti;) in maniera adeguata,
come se si fosse in tribunale. La serietà nel rendere conto agli altri del
proprio agire è rafforzata dal participio tw/` aijtou`nti, perché si può fa-
cilmente immaginare che il comportamento dei cristiani generasse in-
terrogativi tra la gente.
L’oggetto di questo lovgo" posto da chi interroga riguarda la spe-
ranza che è nei credenti (peri; th`" ejn uJmi`n ejlpivdo"), laddove essa rap-
presenta l’elemento peculiare e la sintesi dell’esperienza cristiana della
fede. Nel momento in cui la speranza diventa oggetto di lovgo", vuol di-
re che la fede stessa si apre a una testimonianza che è anche di caratte-
re culturale. In altre parole, l’autore intende additare ai suoi destinatari
che la chiusura, l’isolamento culturale, non giovano alla testimonianza e

70 Dal punto di vista grammaticale, l’espressione kuvrion de; to;n Cristo;n viene interpreta-
ta da alcuni come predicativa (il Cristo quale Signore) o come appositiva (il Cristo, ossia il Si-
gnore). Benché nel secondo caso ci si sarebbe attesi davanti a entrambi i termini la presenza o
meno dell’articolo, e non davanti a uno di essi soltanto, il senso della frase è sostanzialmente lo
stesso.
71 Le altre ricorrenze sono 1Cor 9, 3, 2Cor 7, 11, in cui l’uso riguarda dispute di carattere pri-
vato. Similmente il verbo ajpologevomai, che in senso giudiziario è impiegato in Lc 12, 11 e 21, 14,
At 19, 33; 24, 10; 25, 8 e 26, 1.2.24, mentre in Rm 2, 15 e 2Cor 12, 19 per le questioni private.
Aspetti della testimonianza nella prima Lettera di Pietro 373

alla missione e fanno aumentare il sospetto verso i cristiani. Piuttosto,


occorre fare della fede occasione di dibattito, affinché essa possa attirare
coloro che, essendo senza speranza (cf. 1Ts 4, 13 ed Ef 2, 12), trovano sin-
golare che i cristiani vivano proprio in virtù di essa.

6. Testimoni saldi e coscienti della speranza

La speranza risulta essere una virtù intimamente legata alla storia,


in quanto solo degli uomini, che ne vivono i drammi e i progressi, pos-
sono nutrirla o decidere di farne a meno. L’esortazione della 1Pt alla
speranza non sarebbe naturalmente comprensibile senza un’indicazio-
ne circa i destinatari della Lettera. Questa medesima esortazione, anche
a due millenni di distanza, può avere ancora un’attualità? Siamo del pa-
rere che motivi di attualità ci siano, come diremo alla fine.
Dobbiamo ammettere che quello dei destinatari non è un proble-
ma di facile soluzione, poiché non è chiaro quando la Lettera è stata
scritta. Tuttavia, alcuni indizi ci consentono d’inferire alcuni dati atten-
dibili: a) i cristiani di cui si parla abitavano nelle province del Ponto,
della Galazia, della Cappadocia, dell’Asia e della Bitinia 72; b) tali cri-
stiani sono definiti «pellegrini della diaspora» in 1,1, il che ha fatto pen-
sare nel passato che si trattasse di giudeo-cristiani, ma gli indizi che si
trovano successivamente nella Lettera fanno capire che l’autore adopera
un linguaggio metaforico, in quanto tutti i cristiani sono «stranieri e pel-
legrini» (1Pt 2, 11) e vivono disseminati tra gli altri; c) poiché l’autore
esorta spesso i suoi destinatari a non ritornare alla vita precedente, fatta
di dissolutezze, idolatrie, ignoranza e dall’essere non-popolo (cf. 1, 14;
4, 3-4; 2, 9-10), è molto più probabile che essi fossero per la maggior
parte convertiti dal paganesimo; d) una quota della comunità doveva
essere comunque giudeo-cristiana, vista anche l’attenzione a richiama-
re diversi temi tipici dell’AT; e) dal punto di vista sociale, la composi-
zione doveva essere mista, altrimenti non sarebbero spiegabili le istru-
zioni date agli schiavi come alle donne circa l’acquisto e l’uso di prezio-
si gioielli; f) infine, come abbiamo già accennato in precedenza, il clima

72 Questa notizia si legge in 1Pt 1, 1. La Bitinia e il Ponto si affacciano sul Mar Nero, la
Galazia corrisponde alla pianura dell’Anatolia centrale, la Cappadocia era a nord del Tauro e,
infine, l’Asia s’identificava con il precedente regno di Pergamo.
374 Gaetano Di Palma

non doveva essere quello di una persecuzione ufficiale, bensì di ostilità


e incomprensione generato da uno stile di vita che risultava “sorpren-
dente” per le popolazioni circostanti 73.
In tale clima, ai credenti occorreva un fondamento solido, che sol-
tanto Dio può dare, per coltivare la speranza. Infatti, finché gli uomini
parlano di speranza prescindendo da Dio, difficilmente essa potrà esse-
re considerata un fattore positivo che consente alla storia di avere una
prospettiva. L’autore della 1Pt, sulla scorta della tradizione neotesta-
mentaria consolidata da alcuni decenni, individua bene nella rigenera-
zione, voluta da Dio Padre e realizzata attraverso la risurrezione di Gesù
Cristo, il fondamento della speranza, che chiama «viva» per il rapporto
che essa ha con la risurrezione e con l’eredità della vita eterna e della
salvezza.
Il cristiano è, dunque, l’uomo rigenerato, perché passa attraverso le
acque del battesimo che purificano e che conferiscono un senso nuovo
alla vita, in quanto cambia il rapporto con Dio, con il Figlio Gesù Cristo
e con il prossimo. Egli si sente coinvolto nel dinamismo della redenzio-
ne aderendo a Cristo attraverso la fede e scoprendo che per lui esiste un
orizzonte di felicità insospettabile, quale è la vita eterna e la salvezza che
Dio, nella sua misericordia, ha voluto donarci. Non bisogna trascurare,
però, l’effetto del cambiamento esistenziale, che si traduce nel vivere
con amore in questo mondo. È proprio l’amore a suscitare curiosità e a
far interrogare sulla bellezza, o sulla stranezza, dell’essere cristiano co-
loro che sono senza speranza. Infatti, la misura dell’amore richiesta al
cristiano “può” raggiungere l’imitatio Dei, che nella Lettera è definita
santità. La santità si vive sulla terra, spendendo la “caparra” dello Spi-
rito Santo e sperimentando un anticipo dei beni della salvezza, perciò i
credenti sono autorizzati a guardare già verso il magnifico futuro che ci
attende.
Se da una testimonianza coerente e vivace nasce l’interrogativo sul-
la speranza, la diretta conseguenza non può che essere un serio impegno
culturale, che diventi efficace nel rendere ragionevoli e accessibili a tutti

73 Bisogna anche dire che le persecuzioni contro i cristiani furono periodiche, localizzate
e spesso dovute al fatto che erano avvertiti come oppositori del culto imperiale e soggiogati da
una fanatica superstitio. In genere, però, l’atteggiamento romano verso le religioni non romane
era improntato a una sostanziale tolleranza. Cf. ACHTEMEIER, La prima Lettera di Pietro, 77-96;
G. FILORAMO, Il confronto col mondo pagano, in G. FILORAMO - D. MENOZZI (curr.), Storia del
cristianesimo. 1. L’antichità, Roma-Bari 1997, 153-180.
Aspetti della testimonianza nella prima Lettera di Pietro 375

i motivi di tanta speranza. L’autore della 1Pt vuol far capire ai cristiani
della sua epoca quanto sia pericoloso chiudersi in conventicole autore-
ferenziali, nelle quali tutto è bello quando ci si trova insieme, mentre il
mondo di fuori è brutto e pieno di nemici. Nel passato è stata questa la
forza che ha permesso al cristianesimo di vincere nel pur competitivo
orizzonte delle religioni del mondo ellenistico-romano.

7. La speranza nel terzo millennio

Almeno pochi spunti di attualità – poiché il discorso sarebbe mol-


to ampio e coinvolgerebbe diversi ambiti disciplinari – possiamo elen-
carli, a partire dal recupero del fondamento della speranza e dalla ri-
scoperta della dignità del cristiano, la quale affonda la propria radice
nella Pasqua. L’autore della 1Pt, come parimenti un pastore dei nostri
giorni, può affermare determinate cose avvalendosi della forza rigene-
rante della Pasqua, che il cristiano attinge mediante il battesimo, il qua-
le non può essere considerato soltanto un mero atto di attestazione di
appartenenza alla chiesa, ma soprattutto una sorgente da cui zampilla la
vita nuova donataci da Cristo. Il recupero di questa dimensione liturgico-
sacramentale non è estranea alla coscienza del cristiano che, pur vivendo
nell’oggi come pellegrino, assapora già le primizie dei frutti della reden-
zione.
Partendo dall’ambito liturgico-sacramentale, all’umanità, che sem-
bra ripiegata su se stessa, si può rivolgere una parola di speranza che in-
vita ad aprirsi agli orizzonti del futuro, a non ritenere che il reale si li-
miti soltanto a ciò che vediamo e a non escludere che la storia abbia un
terminus ad quem, un punto “omega”, quando tutto sarà sottoposto a
giudizio. In altri termini, il cristiano non deve dimenticare la speranza
escatologica, ma sapere di essere “sentinella” dei nuovi cieli e della ter-
ra nuova.
Tale sentinella sa bene che deve cominciare a vivere in questo mon-
do secondo quei valori e secondo quell’amore che appartengono all’al-
tro, a quello che si attende: ciò è quanto l’autore di 1Pt chiama “santità”,
la rigenerazione esistenziale che impegna a corrispondere alla chiamata
di Dio per diventare com’è lui (cf. Lv 19, 2; 1Pt 1, 16). È la dimensione
etico-sociale a essere pure necessaria nella testimonianza: come si è testi-
moni della speranza del Risorto quando, ad esempio, la dignità umana
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viene calpestata, la vita non è protetta, specialmente nelle sue fasi più
critiche dell’inizio e della fine, l’economia amplia le disparità a livello
sociale e mondiale? L’impegno del cristiano lo porta a non essere mai
soddisfatto dei pur importanti traguardi conseguiti, perché guardando-
si attorno nota che ancora tanti non sono partecipi della benedizione
delle ricchezze della terra che Dio ha elargito.
Il cristiano, però, oggi più che mai, non può accontentarsi di agire
e di fare il buon samaritano del mondo, ma deve anche gettare nella cul-
tura i germi del Vangelo. Abbiamo già notato che l’autore di 1Pt sotto-
linea l’essenzialità del rendere ragione della speranza. Questo implica la
dimensione socio-culturale, perché se la speranza diventa cultura, allora
si apriranno scenari nuovi per l’umanità e potrebbe vedersi avvicinare il
giorno in cui finalmente non ci sarà più oppressione dell’uomo sull’al-
tro uomo e si vivrà nella pace.

GAETANO DI PALMA
Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, Napoli

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