Architettura Romana Terme Fontane Ninfei
Architettura Romana Terme Fontane Ninfei
Le grandi terme costruite a Roma e nelle capitali delle province in età imperiale raggiunsero
con la massima magnificentia e al meglio i fini indicati dalla medicina contribuendo non poco
anche al mantenimento della pace sociale: ma le stesse non sarebbero state possibili senza
le esperienze condotte durante la Repubblica fuori Roma, specialmente in Campania.
Le terme cosiddette Stabianae a Pompei (dal nome della via Stabiana che le costeggia) sono
le prime che ci siano note tra quelle costruite nella penisola italica: nel loro stato iniziale,
risalente alla fine del IV sec. a.C., esse presentavano un pozzo e un rango di cellette
rettangolari con piccole vasche poste sul lato settentrionale di un cortile trapezoidale, adibito
a palestra, compreso tra due strade e un orto di lì a poco occupato da una ricca abitazione
privata. Nel loro secondo assetto risalente al II sec. a.C. – il tempo della risistemazione del
centro politico e commerciale contemporanea alla generale adozione di forme ellenistiche
realizzate in tufo di Nocera – le terme assumono il loro assetto quasi completo. Furono
organizzate due zone distinte con accessi separati per donne e per uomini: la divisione fra
maschi e femmine non portò, tuttavia, alla creazione di due impianti che, invece, furono
accomunati da una stessa caldaia ciascuno composto da una successione di vani contigui,
rettangolari di varia lunghezza e tutti trasversali a uno stesso asse lungo il lato orientale del
portico, secondo un criterio che ha suggerito la fortunata definizione di ‘bagni in linea’, vale a
dire bagni caratterizzati da ambienti allungati adiacenti uniti da un lato lungo comune e
disposti trasversalmente a un asse o a una linea ideale che li attraversa e nei quali il percorso
terapeutico avviene, avanzando e ripiegando su se stesso, usando gli stessi passaggi. Pur
essendo il reparto femminile escluso dalla palestra e composto da locali più ridotti, entrambe
le sezioni presentano la sequenza canonica di: spogliatoio, l’apodytérium (termine traslato dal
vano con medesima funzione nei ginnasi greci); sala per soste in ambiente tiepido, il
tepidarium; sala per bagni caldi, il calidarium o caldarium (che con il tepidarium sfruttava la
medesima fonte generatrice di calore, una caladaia o praefurnium collocata in un’area di
servizio comune fra le sezioni maschile e femminile); quindi il frigidarium con natatio a fine
percorso, ambiente collegato a una vasca o piscina di acqua fredda in cui immergersi.
Paestum terme romane sospensurae in pietra
Alcuni ritengono che in questi organismi i locali fossero riscaldati con il sistema
cosiddetto ‘a ipocausto continuo’, altri lo negano sulla base di testimonianze
archeologiche ed epigrafiche che attestano l’uso di bracieri per riscaldare tepidari e
calidari in stabilimenti pompeiani successivi alle Stabiane. Pare comunque sicuro che,
vuoi per l’abbondanza nella fascia circumvesuviana di sorgenti naturali calde che
potrebbero aver ispirato tecnici e costruttori, vuoi per la prosperità unita alla
ellenizzazione spinta della regione, il suddetto sistema di riscaldamento sia nato in
Campania: descritto con precisione da Vitruvio, 3) esso consisteva in uno spazio
sotterraneo – per l’appunto l’ipocausto – in cui circolava l’aria riscaldata dal praefurnium
tra un reticolo di pilastrini che reggevano un solaio sospeso – suspensura – di
cocciopesto, malta fine, lastre di marmo o mosaico sul quale erano adagiate le vasche,
creando nell'insieme un genere di bagni detto balneae pensiles o balnea pensilia. Le fonti
identificano addirittura l’‘inventore’ del sistema nella persona di C. Sergio Orata, originario
di Pozzuoli, il quale, nell’attività (peraltro assai redditizia) di allevatore di ostriche nei
propri vivai del lago Lucrino, avrebbe messo a punto un dispositivo di riscaldamento dal
basso delle vasche riproponendolo poi in case di campagna lussuose da lui stesso fatte
costruire e vendute. 4) Forse è azzardato ritenere l’imprenditore Orata anche l’ideatore
dei balnea pensilia, come dicono le fonti; ma egli diede certo un decisivo contributo al
loro perfezionamento diffondendoli in un periodo che Plinio colloca nel secondo decennio
del I secolo a.C. e quindi coevo delle prime installazioni termali ad Olimpia.
Conseguenza, negli edifici termali, dell’applicazione del sistema che permetteva di
mantenere temperature adeguate e uniformi nelle vasche e negli ambienti dei bagni
caldi, fu la sostituzione delle vasche individuali con gli alvea, bacini ove era possibile
immergersi in più persone alla volta, cambiamento dagli effetti sociali e spaziali radicali e
irreversibili.
Subito dopo la deduzione di Pompei in colonia al tempo di Silla, fra 80 e 60
a.C., i duoviri in carica appaltarono la costruzione di un laconicum – stanza
per bagni di vapore – e un destrictarium – ambiente ove gli atleti si
detergevano con lo strigile dall’olio mischiato alla polvere: la notizia,
leggibile in un’iscrizione, è confermata dalla sala rotonda posta dietro il
tepidario in origine destinata ai bagni di vapore che Vitruvio descrive come
accessori delle palestre; 5) il destrictarium, invece, è stato individuato in un
edificio a pianta allungata fra la palestra e il calidarium maschile distrutto
in seguito alla costruzione di un’abside. La palestra venne restaurata come
centro del complesso il che dimostra quanto alla fine della Repubblica,
nonostante le trasformazioni sociali conseguenti alla deduzione coloniale, il
grado di ellenizzazione fosse direttamente proporzionale alla diffusione del
benessere e del piacere corporei la quale, nel nostro caso, significò,
anche, lo sviluppo degli stabilimenti termali. Alla metà del I sec. a.C. le
terme pompeiane, non più sufficienti, furono estese a ovest sull’area
dell’abitazione privata acquisendo il loro assetto definitivo: la palestra
venne ampliata e nel nuovo sito fu scavata una piscina con spogliatoio e
bassi bacini per lavacri.
L’organizzazione e la distribuzione delle Stabiane nel loro assetto definitivo
costituirono il riferimento comune per gli impianti termali costruiti dall’inizio
dell’età imperiale in poi nella penisola italica e in tutto l’Occidente romano.
Innanzitutto nella stessa Pompei ove venne costruito un secondo impianto
nella zona del centro civico da cui prese nome: le nuove cosiddette ‘Terme
del Foro’ mostrano una configurazione analoga alle precedenti e sono
collocabili fra 80 e 70 a.C. in base alla tecnica di costruzione adottata in
opus quasi reticulatum di blocchetti di lava. La sezione femminile è piuttosto
contratta: uno stretto passaggio immette nell’apodytérium il cui vano
contiene la stessa vasca del frigidarium; dopo aver sostato nel tepidarium
intermedio dotato di ipocausto, girando su se stessi si accedeva al
calidarium parallelo e adiacente, da un lato, al primo vano, e dall’altro, al
praefurnium che serviva anche il settore maschile. Quest’ultimo, ben più
vasto, era dotato di tre ingressi che direttamente o indirettamente
conducevano all’apodytérium voltato a botte con finestra strombata rivolta a
sud e dotato di sedili di pietra; mediante una prima porta l’ambiente
comunicava con un vano dal perimetro esterno quadrato entro cui era
ricavato un vano circolare con vasca rotonda interrata, mentre nicchie
disposte secondo le diagonali e copertura a cupola conica caratterizzavano
l'originario laconicum per le sudazioni che fu poi trasformato in frigidarium
mediante il rivestimento della vasca con lastre di marmo. Dallo stesso
apodytérium si accedeva al tepidarium, adiacente e parallelo, riscaldato da
un braciere di bronzo, ornato alle pareti da nicchie alternate ad Atlanti
reggenti una ricca cornice, dotato di un lucernaio strombato che, aperto
nella volta a botte decorata di stucchi, illuminava l’ambiente.
Pompei Terme
del foro, pianta
da Perkins,
calidarium e
tepidario
Seguiva il calidarium – il vano più importante del complesso – provvisto di riscaldamento
a ipocausto, di una vasca addossata al lato breve e di un’abside con il labrum o bacino
per le abluzioni su quello opposto, di campiture parietali di intonaco color giallo oro
inquadrate da pilastri di finto porfido rosso. Pozzi a giorno ricavati nella volta a botte e
una finestra circolare aperta nel catino dell’abside assicuravano una luce riposante e
discreta; e il cortile della palestra – un portico triplice – completava l’insieme.
Il modello delle prime terme imperiali – e sarebbe stato ancor più arduo per le
estesissime concatenazioni spaziali e volumetriche delle successive – non fu
adottato alla lettera dalle città delle province italiche e occidentali che però,
intraprendendo analoghe imprese, non rinunciarono al lusso e alla raffinatezza
spingendosi, anzi, a elaborare, a seconda dei luoghi, libere varianti alle disposizioni
lineari o seriali con nuove, originali articolazioni.
L’esteso continuum di rovine che oggi si snoda sul versante orientale della penisola
di Baia affacciato sull’omonima insenatura tra Pozzuoli e Capo Miseno ricco di
fumarole e di acque termali adatte a fornire calore e ad essere utilizzate a vari usi
terapeutici, fu mèta di ispezioni sin dall’età della Rinascita e soggetto di disegni da
parte di molti architetti – da Francesco di Giorgio, a Giuliano da Sangallo ad Andrea
Palladio – i quali credettero di intravvedere in maestose cupole e volte superstiti parti
di edifici termali. In realtà, a causa delle continue trasformazioni (bradisismo
compreso) che subì il luogo dal tempo di Cesare al III secolo d.C., non è ancor oggi
del tutto chiaro se il continuum in pendio verso la baia costituisca l’insieme di una
serie di lussuose residenze patrizie o fosse parte di un’unica vastissima residenza
tardo-repubblicana o augustea divenuta imperiale (attualmente la seconda
congettura sembra prevalere sulla prima in base a notizie certe di una residenza
baiana amata da Augusto e successori almeno sino a Settimio Severo); ma è del
tutto manifesto che in ogni caso le une o l’altra furono studiate per godere della
splendida vista sul mare e per soggiorni rallegrati da bagni caldi e sudationes grazie
ai vapori della terra o resi salutari grazie ai poteri delle acque.
Lungo un arco costiero di circa mezzo chilometro, si può tentare, sulla base
dell’omogeneità formale e costruttiva, di seguire in successione cronologica le
diverse parti. In età tardo-repubblicana fu realizzata a settentrione, a partire da un
lungo criptoportico a due navate, voltato e absidato (sicuramente un’ambulatio
sommitale), una serie di lunghe terrazze artificiali integrate a balze naturali
regolarizzate artificialmente e trasformate in curati giardini discendenti che,
accompagnate e collegate da una scala di risalita o di discesa aderente al ripido
pendio del monte, suggerivano per il complesso la denominazione ‘delle Terrazze’.
Giunti alla quota della riva un corridoio seminterrato conduceva a un primo grande
impianto termale iniziato in età augustea – le cosiddette ‘Terme Inferiori’ – in cui
emergeva un’ampia maestosa rotonda – un frigidarium o forse una natatio – di quasi
un secolo precedente a quella del Pantheon adrianeo di cui uguagliava quasi la metà
del diametro, in età moderna localmente denominata ‘Tempio di Mercurio’, un tempo
rivestita di marmo ma oggi semisommersa dall’acqua marina che vi affiora per effetto
del bradisismo. Impostata su murature in opus reticulatum rafforzate da piedritti e
arcature, la cupola interamente voltata fu, per quanto è noto, la prima della storia a
essere costruita in tufelli cuneiformi di tufo disposti radialmente, di spessore variabile
via via più ristretto sino ad assottigliarsi sensibilmente in sommità (circa cm. 60),
illuminata da quattro finestroni ad arco ribassato aperti all’inizio della volta e da un
soggiogante occhio centrale volto al cielo. La scalinata di spina, simile per la sua
funzione di risalita diretta alla montagna a quella del santuario di Palestrina,
collegava sul lato accanto anche le terrazze di un secondo complesso termale ben
definito nel suo perimetro rettangolare, chiamato ‘Terme di Sosandra’ in seguito al
ritrovamento della copia romana dell’Afrodite Sosandra di Calamide, scultore ellenico
del V secolo a.C.
Baia il cosiddetto tempio di Mercurio in realtà frigidari il
ninfeo di Sosandra
Dagli appartamenti residenziali superiori risalenti all’età sillana, composti da ambienti in
linea serviti e disimpegnati da un triplice portico, si discende a un ninfeo in forma di
teatro con cavea affacciata sull’orchestra semiellittica, luogo di riposo e di
rappresentazioni mimiche allietato da una vasca circolare; e si discendeva ancora a un
ultimo peristilio intorno a una piscina a livello del mare. A fianco, con innesto inclinato
del suo asse, si sviluppava il terzo complesso, le cosiddette ‘Terme di Venere’: una
lunghissima vasca rettangolare sulla quale si affaccia ancora un’abside profonda
coperta da semicupola e alla quale si affiancano ancora, inoltrati nel pendio, vari
ambienti con vasche, fontane e, particolarmente ammirate, le cosiddette ‘Stanze di
Venere’, ambienti termali con volte decorate da pitture entro raffinate cornici di stucco
del I secolo d.C. Accanto all’antico insieme, o unico complesso che fosse, si elevano i
resti di altre due rotonde – semisommerse anch’esse per effetto del bradisismo – che,
immaginate templi dagli archeologhi napoletani, erano con tutta evidenza due sale
termali simili tra loro, più ampie del ‘Tempio di Mercurio’ e quindi più vicine al Pantheon:
la prima, detta ‘Tempio di Venere’, di età adrianea, era un edificio di pianta ottagonale
all’esterno con otto finestroni arcuati aperti nel volume prismatico irrobustito da
contrafforti angolari e di pianta circolare all’interno animata da quattro nicchioni e
coperta (come lasciano intravvedere gli attacchi superstiti dell’imposta) da una cupola
a ombrello con spicchi ora tesi ora voltati; la seconda, detta ‘Tempio di Diana’ e
risalente al III sec. d.C., era un edificio composto da otto massicci pilastri di pianta
pentagonale in opera listata e laterizia che creavano all’esterno un prisma ottogonale e
all’interno un cilindro scavato da otto nicchie e forato da altrettanti finestroni
soprastanti, oltre i quali si inarcava una cupola con profilo a ogiva e ad anelli
progressivamente aggettanti costituita di tufo e laterizio nella zona di imposta e quindi
di strati via via più leggeri di tufo poroso (proprio come nel Pantheon).
il cosiddetto Tempio di Apollo in realtà calidarium
Poco lontano, sulla riva del lago di Averno sono i resti di una rotonda di dimensioni
ancor maggiori, il cosiddetto ‘Tempio di Apollo’, anch’esso di età adrianea e forse
appartenente a un complesso termale: la sua cupola (circa m. 36 di diametro)
aperta da serie di finestre in zona di imposta è seconda per dimensioni a quella del
Pantheon.
A Pompei le cosiddette ‘Terme Centrali’ furono iniziate dopo il 62 d.C. con il proposito
di dotare la città di un impianto più moderno degli esistenti ma non furono mai
condotte a compimento: delle precedenti, comunque, esse rispettarono la
disposizione in linea e l’intimo connubio con la palestra come voleva la tradizione
ellenistica. Da un ingresso ricavato tra botteghe, costeggiando un lato breve
dell’erigenda palestra (che doveva essere circondata da un portico triplice con
colonne di genere composito), si giungeva all’apodytérium illuminato da una terna di
ampie finestre aperte sull’esteso spazio da attrezzare anche con una natatio: esso
ospitava direttamente la vasca del frigidarium posto così al termine del percorso che
avrebbe ricondotto al punto, coincidente, di entrata. Dall'apodytérium si passava
quindi al tepidarium, dotato anch’esso di tre finestre con lo stesso orientamento per
giungere infine al calidarium riscaldato dall’aria in circolo non solo tra le suspensurae
ma anche in condotti interni alle pareti – pareti concamerate – animate da nicchie
continue in attesa di decorazioni e statue mai arrivate, attrezzato con lunghe vasche
e comunicante, attraverso una stretta apertura diagonale, al laconicum circolare –
ormai un dato acquisito al lusso – con nicchie radiali e cupola emisferica (ma, poiché
i praefurnia non furono mai realizzati, venne usato come frigidarium). Vari condotti
dalla piscina avrebbero consentito con l’espurgo e lo scarico delle acque di tenere
pulite le latrine.
Nelle cosiddette ‘Terme del Foro’ di Ercolano di età giulio-claudia, il rigoroso
ordine seriale tanto della sezione femminile che della maschile anticipa quello
delle terme omonime di Pompei: nella prima sezione accoglieva le bagnanti
un iniziale vestibolo di attesa a cui succedeva l’apodytérium ove regnava, sul
pavimento, un Tritone gigante di mosaici multicolori che predisponeva corpo e
spirito al ciclo idrico-terapeutico offerto dai successivi tepidarium e calidarium
con vasca adiacente al praefurnium esterno e labrum affacciato sulla palestra.
Il praefurnium alimentatore dell’aria calda nelle suspensurae era vicinissimo
anche al calidarium della sezione maschile, perpendicolare alla femminile e
parallelo al lato lungo della palestra: con inizio da un apodytérium absidato il
settore degli uomini proseguiva nei vani adiacenti e successivi del tepidarium
ravvivato dalla copia ridotta (e scadente) del Tritone e del calidarium con
labrum in abside e vasca opposta, da cui si tornava sui propri passi per
raggiungere il frigidarium circolare a pareti rosse, nicchie radiali e cupola
dipinta con pesci multiformi su fondo azzurro.
Ad Ostia, oltre a quelli privati, furono costruiti tre complessi per iniziativa del
governo centrale. Il primo, promosso da Traiano, fu localizzato accanto alla
spiaggia: non vaste, le cosiddette ‘Terme di Porta Marina’ si presentavano con
palestra cinta da un portico triplice che consentiva l’accesso laterale al
frigidarium. Questa sala cruciforme si affacciava all’inverso sulla palestra con
il fronte convesso della sua vasca maggiore, per poi consentire di procedere –
mediante percorsi alquanto intricati, forse per non disperdere calore – ai locali
tepidi e caldi pavimentati da mosaici raffiguranti creature e divinità marine.
Ercolano terme del foro Ostia terme di Nettuno
Il secondo complesso, le cosiddette ‘Terme di Nettuno’, fu iniziato nel 134 d.C. da Adriano
e terminato dal successore Antonino Pio: impostato su pianta quadrata estesa quanto un
intero isolato, presentava il vestibolo all’interno di un portico con botteghe per poi
accedere a un’ampia sala posta trasversalmente, dalla quale tre porte davano il passo al
frigidarium dotato di una coppia di vasche, la maggiore delle quali schermata da colonne
di genere corinzio con fusti di granito. Da qui il percorso igienico-terapeutico assiale
proseguiva attraverso tepidaria sino al calidarium con tre vasche; accanto, secondo l’uso
ellenistico, si estendeva la palestra dotata di proprio santuario. Se le seconde terme
ostiensi non potevano competere per estensione e imponenza con le traianee di poco
precedenti e nemmeno realizzare le ‘imperiali’ simmetrie, essa si rifecero nell’eleganza
degli apparati musivi, una continua festa acquatica di tritoni, nereidi, creature marine su
cui regnavano Nettuno e Anfitrite.
Le cosiddette ‘Terme del Foro’, le più estese e complesse della città dovute alla generosità
di un certo M. Gavio Massimo prefetto del praetorium di Antonino Pio, furono costruite
intorno al 160 d.C. facendo tesoro dell’esempio delle precedenti ma superandole nel lusso
e traendo inedite suggestioni formali dalla differenziazione tra ambienti freddi e ambienti
tiepidi e caldi: i primi obbedienti a una sostanziale simmetria, i secondi accostati in serie
con i loro volumi di varia forma. Un comune vestibolo inziale conduceva a un blocco
parallelepipedo centrato sul frigidarium voltato a crociera, delimitato da transenne di
colonne di marmo cipollino e da vasche inserite in due opposte esedre; ma il vestibolo
consentiva anche il passaggio diretto alla serie di vani in successione, contigua e parallela
al primo blocco, di solarium, sudatorium, tepidaria e calidarium di piante rispettivamente
ottagona, ellittica, rettangola absidata, quadrata arricchita da tre esedre con vasche,
ambienti tutti dotati di finestre vetrate sul fronte meridionale mistilineo e trasparente.
L’andamento ondulato di quest’ultimo si affacciava alla palestra trapezoidale cinta sugli
altri lati da un portico con botteghe sul retro riproponendo, pur nell’irregolarità
planimetrica, l’abbinamento consueto nella tradizione ellenistica.
Terme del foro
Quando – con quale frequenza e in quali municipi o colonie della penisola italica –
abbandonando l’impianto in linea, si iniziò a seguire il modello ‘imperiale’ simmetrico rispetto
all’asse frigidarium-tepidarium-calidarium, non è possibile stabilire a causa degli scavi e dei
relativi studi incompleti, frammentari o inesistenti, anche se qualche indizio è a favore, in alcuni
luoghi, dell’affermarsi di un tal orientamento verso gli inizi del II secolo d.C., in età adrianea e
antoniniana. Le terme costruite a Volterra nel II secolo d.C., dietro la scena e all’interno del
portico del teatro, seguirono, in minor scala, la successione lungo uno stesso asse di simmetria
di un vasto apodytérium, di un frigidarium con tre absidi simmetriche, di un ambiente di
passaggio con pianta a forcipe, di un tepidarium quadrato e di un calidarium con abside
terminale uniti lateralmente da un comune laconicum circolare. Gli impianti termali assai simili
di Chieti e di Firenze rafforzano la congettura temporale.
Al di là delle Alpi, nel terzo quarto del I sec. d.C. i balnea di Saint Remy ripetono lo schema
pompeiano nella sua prima fase: apodytérium, tepidarium, calidarium absidato lungo una
palestra dotata di natatio; l’eccezionale conservazione del praefurnium, nonché del condotto
del calore con le suspensurae, costituiscono il pregio maggiore di questo piccolo stabilimento.
In Spagna, a Los Arcos, invece, tra il I e il II sec. d.C. furono costruiti ben due complessi termali
che, a imitazione delle terme ‘imperiali’, si presentavano con disposizione simmetrica e aspetto
magniloquente. Uno di essi accoglieva con un vestibolo semicircolare porticato che immetteva
all’estesa natatio rettangolare a terminazione absidata alla quale erano affiancate due identiche
palestre, una per lato, con il proprio quadruplice portico. Esse soltanto consentivano la
prosecuzione del percorso, introducendo ciascuna, in successione, a un apodytérium e a un
tepidarium convergenti all’unico calidarium rettangolare tornato in asse con la natatio se pur
circondato da ambienti di varia forma, tra i quali, forse, un laconicum circolare: una variante
originale del modello ‘imperiale’ nella quale il frigidarium non è centrale per una precisa volontà
compositiva e non imposta dalla separazione dei sessi; mentre i pavimenti in opus sectile,
visibili anche nel secondo complesso, attestano, con il lusso e l'eleganza, l’alto livello raggiunto
nella vita urbana della colonia iberica.
Nelle tre Gallie si protrasse a lungo il tipo ‘lineare’; ma in età tardoflavia e traianea iniziano
a comparire disposizioni simmetriche o loro varianti, come nelle terme chiamate Lutetianae
dell’inizio del II sec. d.C. scoperte a Parigi e in quelle degli ultimi anni dello stesso secolo
anch'esse venute alla luce a Parigi nell’area dell'attuale museo di Cluny: di queste ultime si
è conservato il frigidarium cruciforme con vasche laterali comunicanti coperte da volte a
botte impostate su archi e mensole a forma di prora di nave, allusione alla corporazione
dei battellieri della Senna che le finanziò. Intorno, a semicerchio si dispongono numerosi e
vasti ambienti riscaldati a ipocausto.
Pianta delle terme di Chaplieu sec I d.C. e veduta del frigidarium delle terme di Cluny, fine
sec II d.C., Parigi.
Spesso impianti termali furono annessi o dipendenze di santuari legati all’uso
terapeutico di acque calde: come a Champlieu, ove l'impianto risalente al I sec. d.C.
comprendeva vani riscaldati disposti ‘in linea’ con frigidarium e palestra di dimensioni
ridotte lungo l’asse principale; o come a Sanxay, nel cui impianto, costruito nel II sec.
d.C., l'assenza del frigidarium è compensata dal maggior spazio lasciato agli
ambienti destinati ai bagni di vapore e alle immersioni.
Le cosiddette ‘Terme di Santa Barbara’ a Treviri, risalenti alla seconda metà del II
sec. d.C., furono le prime in Occidente paragonabili per qualità dei servizi, per
estensione e distribuzione degli spazi alle terme ‘imperiali’ di Roma. Con la loro
superficie totale, di cui la metà destinata al blocco termale, furono il quadruplo di
quelle di Tito e i vani destinati al ciclo terapeutico di poco inferiori per volume e
superficie alle Traianae. L’impianto treviriano attesta, anche, la completa
assimilazione delle simmetrie in uso nell'Urbe: in singolare coincidenza con la
tradizione ellenistica precede il complesso un’unica estesa palestra rettangolare
entro la quale trova posto la natatio addossata a un magniloquente ninfeo con
nicchie rotonde e rettangolari; quest’ultimo costituisce la facciata esterna del
frigidarium rettangolare posto trasversalmente e generato dalla serie di tre campate
quadrate modulari scandite da colonne e, probabilmente, coperte da volte a
crociera. Lungo l’asse centrale seguiva il tepidarium cruciforme e quindi il calidarium,
dotato lungo il suo perimetro di vasche e praefurnia intermedi, emergente con tutto il
suo corpo da insiemi laterali simmetrici di tepidaria, sudatoria e vasche riscaldate
che offrivano itinerari alternativi a quello principale. In considerazione del clima, i
praefurnia furono numerosi e ben distribuiti, mentre le sale calde furono
prevalentemente chiuse verso l’esterno ma ricche internamente di edicole cieche
sovrapposte in più ranghi come nel calidarium centrale.
Nelle terre britanniche meridionali, centri né molto ricchi né molto importanti si
dotarono di terme che, pur di modeste dimensioni, sin dalla fine del I sec. d.C.
adottarono l’impianto distributivo assiale e simmetrico: tali (e simili a quelle galliche di
Champlieu) furono le terme di Silchester nonché quelle di Wroxeter interne a un
recinto quadrangolare, mentre nel II sec. d.C. a Leicester, ai lati della spina centrale,
cioè della sequenza frigidarium, tepidarium, calidarium, si trovava una duplicazione
delle sale calde con conseguente creazione di un prefurnium separato. Le terme di
Bath costruite, agli inizi del I secolo d.C., furono del tutto particolari poiché, non
alimentate esclusivamente da condotti artificiali, sfruttarono abbondantemente le
acque calde e terapeutiche della sorgente naturale che affiorava accanto, entro il
témenos del santuario di Minerva Sulis. Come fu semplice l’impianto idrico così la
disposizione planimetrica fu quasi elementare: fondata su due piscine in serie
collegate di acqua calda e tiepida, la maggiore allineata al lato lungo del santuario,
la minore posta trasversalmente di testata. L’una e l’altra erano accompagnate da
larghi deambulatori sviluppati oltre le file dei pilastri che le delimitavano i quali,
insieme alle murature esterne movimentate in esedre, sostenevano il primitivo tetto
ligneo ad ampie luci e capriate. Tra III e IV secolo d.C., allorché la sorgente fu
incorporata alle terme come annesso, i supporti verticali furono notevolmente
rafforzati per sostenere le audaci volte a botte che, in sostituzione delle precedenti
travature, coprirono vasche e deambulatori contraffortandosi reciprocamente. Sulla
testata sinistra, intanto, fu organizzato un secondo corpo annesso con il frigidarium
sino ad allora assente – una sala quadrata con bacino rotondo di acqua fredda al
centro – un laconicum e altre stanze igienico-terapeutiche particolari a disposizione
per coloro che avessero desiderato arricchire il percorso.
Quando Costantino – succeduto nel 306 d.C. al padre Costanzo come Augusto di
Occidente – confermò Treviri sua capitale decise anche di far erigere un nuovo
edificio termale affacciato sul foro, opposto al palatium di cui proseguiva l’asse
mediano. Rigorosamente simmetriche, articolate in serrati volumi connessi,
abbracciate da un perimetro mistilineo rettangolo, le nuove terme risultarono un
trionfo di esedre semicircolari, di sfondamenti e di emergenze, di schermi colonnati,
di semicupole e di crociere. Un portico centrale con doppio schermo di colonne,
inserito entro un portico di minore altezza spezzato in due ali, si apriva verso un
altissimo ninfeo semicircolare scavato da nicchie, ornato da edicole e coperto da
una semicupola estradossata, il quale, erigendosi a barriera, costringeva a entrate
eccentriche nella vasta palestra retrostante che, cinta da un quadruplice portico, si
estendeva, secondo la tradizione ellenistico-microasiatica, dinnanzi al corpo termale.
Con riscontro opposto al ninfeo, rispondeva un semicilindro dal tetto conico che
conteneva l’esedra con vasca transennata e incavata da nicchie al centro del lato
esterno dell’aula basilicale del frigidarium: a questa si accedeva, come dal portico si
accedeva alla palestra, mediante due vestiboli laterali e dal suo spazio si poteva
intraprendere tanto il percorso assiale attraverso il tepidarium circolare seguito da un
vano quadrato a due absidi occupate da vasche, quanto i due percorsi laterali,
attraversando tepidaria e sudatoria minori in analoga maniera. Si giungeva, pertanto,
al calidarium conclusivo, rettangolare con vasche inserite entro gli sfondamenti delle
pareti sostituite da pilastri o da due registri di finestroni mentre si affiancavano agli
angoli esterni praefurnia e torri coclee scalari. La muratura era composta da corsi
alternati di mattoni e di pietre calcaree squadrate, l’opus listatum o vittatum – quasi
una sigla costantiniana – capace di creare motivi cromatici mai sovrapposti alle verità
strutturali.
Treviri, grandi terme imperiali IV sec d. C
Ad Arles Costantino fondò un altro complesso termale al termine del cardo massimo
presso l’ansa del Rodano. DI impianto rigorosamente simmetrico e assiale, coeve a quelle
di Treviri e tra le più notevoli delle Gallie, le terme, precedute da un ingresso
monumentale, iniziano con una estesa palestra affiancata da altri cortili, da un lato
confinante con la residenza imperiale e dall'altro direttamente comunicante con un lungo
frigidarium trasversale a terminazioni absidate, per proseguire quindi con un tepidarium
intermedio da cui si passa, dopo aver deviato attraverso sudatoria contigui e successivi di
ambo i lati, al calidarium centrale – ritornato nuovamente sull’asse – con vasche laterali e
una grande abside semicircolare coperta a semicupola e aggettante dal corpo massiccio
dell’edificio, costruito anch’esso a corsi paralleli di mattoni e piccoli blocchi calcarei
alternati.
Anche nella Milano costantiniana fu creato un complesso termale di cui Ausonio celebrò la
grandezza 14) e del quale si sono individuati i resti di una palestra con quadruplice
portico e di un frigidarium (vi sorge l’attuale Chiesa di San Pasquino) con abside
semicircolare insinuata nel lato sud della stessa.
Le terme germaniche, narbonensi o transpadane – simili a un'ultima superba fiammata –
segnarono di fatto la fine in Occidente dei grandi cantieri imperiali e l'inizio della
progressiva decadenza delle province, prima vitali, a sinistra del Reno e del Rodano e a
destra dell'Adriatico.
6. Terme in Asia Minore, nel Vicino Oriente e in Africa
Nell’Asia Minore ellenistica la tradizione dei bagni era strettamente connessa alle
attività atletiche e all’uso altrettanto radicato degli incontri sociali e delle attività
culturali che venivano praticate e avevano luogo nei ginnasi, i quali certamente
dominavano per importanza ed estensione i dispositivi balneari: gli uni e gli altri,
tuttavia, planimetricamente disposti e volumetricamente composti in base a criteri di
esibita simmetria. Il trinomio fu rispettato all’indomani della conquista romana e, a
maggior ragione, con la conseguente successiva diffusione nelle metropoli orientali
dei modelli elaborati durante l’età dell’Impero.
Le prime terme di Mileto furono fatte costruire fra il 47 e il 52 d.C., durante il
principato di Claudio, dall’allora procuratore dell’Asia Gneo V. Capitone proprio
accanto al precedente ginnasio ellenistico a cui le univa un portico continuo con
botteghe. A ridosso di un tratto di quest’ultimo si sviluppava perpendicolarmente il
complesso termale: iniziava con un cortile quadrato adibito a palestra e chiuso su tre
lati da portico e loggiato soprastante entrambi di colonne di genere corinzio, mentre il
quarto lato si trasformava in esedra a segmento di cerchio abbracciando una natatio.
Sulla prosecuzione dell’asse centrale del cortile si disponevano tre ambienti di pianta
quadrangolare, due dei quali, dotati di nicchie occupate da vasche, costituivano
quasi sicuramente il tepidarium e il calidarium contigui ad apodytéria, a praefurnia, a
ulteriori vasche e a un laconicum circolare. Nel secolo successivo, dedicandolo alla
benefattrice Faustina Minore moglie di Marco Aurelio, i Milesi eressero su analogo
modello – insieme compatto di vani e di adiacente vastissima palestra porticata – un
secondo complesso termale: unico edificio ruotato di 45° rispetto alla scacchiera
degli isolati (disegnata dal ‘mitico’ Ippodàmo) di cui restano in discreto stato di
conservazione parti dei muri altissimi del calidarium.
le terme di Faustina a Mileto il calidarium II sec dC.
A realizzare una più stretta, coerente integrazione tra palestra e impianto termale furono le tre
‘terme-ginnasio’ costruite a Efeso. Quella detta ‘del Porto’ a lato della via Arcadiana che
conduceva allo scalo, fu costruita durante il principato di Domiziano e rivestita di marmo durante
quello di Adriano: il primo spazio fu l’immensa palestra quadrata, forse il più vasto spazio pubblico
dell’intera città, cinta sui quattro lati da una triplice fila di colonne. In prosecuzione del suo asse
est-ovest, superato uno slargo di interruzione del colonnato, si dispone, simmetrico, l’edificio
termale. Esso racchiudeva una seconda palestra minore ugualmente quadrata cinta da un
quadruplice portico ai lati della quale, dietro un ulteriore schermo di colonne, si aprivano per la
prima volta due ambienti nuovi, propri della provincia microasiatica, le cosiddette ‘sale marmoree’:
ampi vani di passaggio di intensa e costante affluenza per lo più di pianta rettangolare – di cui
risulta difficile supporre la copertura – legati certamente al culto imperiale poiché, tra le numerose
nicchie ed edicole che ornavano le pareti interne, emergeva un’abside in posizione centrale
destinata ad accogliere la statua dell’imperatore. Il frigidarium rettangolare, tripartito, voltato a
crociere, simmetrico all’asse, comunicava lateralmente con due vani di pari larghezza: una coppia
di basilicae thermales, luoghi di incontri occasionali e di attività culturali organizzate, mentre
adiacente e parallela alla prima terna di spazi si disponeva una seconda serie di numerosi
ambienti divisi da setti paralleli all’asse, tra i quali emergeva il corpo parallelepipedo centrale del
calidarium aggettante con decisione (unico caso in Asia Minore) al centro del muro diritto terminale
del complesso.
Nello stesso centro della Ionia Settentrionale entro il II sec. d.C. si aggiunsero altre terme-ginnasio,
nelle quali la palestra perse progressivamente spazio e primato a favore del nucleo centrale. Nelle
cosiddette ‘Terme di Vedio’, costruite durante il principato di Antonino Pio, si succedono, entro un
perimetro unitario rettangolare senza significativi corpi emergenti, una palestra porticata sulla
quale si affaccia una ‘Sala marmorea’, un amplissimo spazio basilicale e la triade degli spazi
terapeutici anticipati da una vasca allungata e circondati da annessi entro il preciso confine
geometrico. Nelle cosiddette ‘Terme orientali’, mascherate da una serie di botteghe, la palestra,
affiancata dalla ‘Sala marmorea’, si restringe ancor più aprendo nel suo portico porte laterali che
immettono in una poderosa galleria – avvolgente il corpo termale – percorrendo la quale si
raggiungevano, sulla parte opposta, le entrate alla consueta successione di ambienti preceduta da
una contenuta natatio allungata.
La metà occidentale del centro civico dell'antica Sardi era occupata dalle terme e da
vari impianti sportivi: lo spazio di connessione dei due complessi era un’imponente
‘sala di marmo’ del tempo dei Severi, recentemente ricostruita (con eccessiva
fantasia) senz’alcuna copertura, della quale è difficile sia immaginare la forma che
provare la stessa esistenza. Cinta da alte mura, la sala presenta due registri di
edicole trabeate, ritmate in sequenze sfalsate o ‘a scacchiera’, come nel fronte della
Biblioteca di Efeso, per cui le trabeazioni di quelle inferiori costituiscono l’appoggio
delle colonne esterne di quelle superiori.
La città di Alessandria Troade in Asia Minore (o sul luogo dell’antica Troia) fu
amministrata durante il principato di Adriano da Erode Attico che nel 135 d.C. avviò
la costruzione delle colossali terme urbane: oggi quasi irriconoscibili per il continuo
asporto dei materiali, esse riproponevano la tradizione ellenistica con immensa
palestra porticata dinnanzi al complesso termale vero e proprio, ritenuto di impianto
spaziale assiale e simmetrico di cui è difficile, però, accertare il preciso andamento.
Alta sulle valli del Lycos e del Meandro, la città di Hierapolis ricca di sorgenti di
acque calde calcaree, sacra per gli Elleni e ricercata stazione termale dai
Romani, fu arricchita nel II secolo d.C. da un imponente impianto dotato di una
estesa palestra scoperta associata a un’ampia sala coperta ugualmente
destinata alle attività sportive, l’una e l’altra opposte – secondo la tradizione
ellenistica – alla serie degli ambienti contigui di frigidarium, tepidarium e
calidarium, rivestiti di marmo bianco, come di marmo erano due grandi sale
attigue voltate riservate esclusivamente all’imperatore.
Ad Afrodisia le Terme furono fatte erigere da Adriano direttamente sul lato
occidentale del portico di genere ionico di Tiberio: ideate secondo un criterio
alternativo all’impianto simmetrico del modello ‘imperiale’, di esse sono
riconoscibili l’apodytérium coperto che fungeva da ingresso, il tepidarium posto
a meridione da cui si risaliva al calidarium, un vastissimo salone affiancato da
due gallerie. Un secondo complesso termale fu costruito alla fine del II o agli
inizi del III secolo d.C. accanto al teatro con accesso dal lato meridionale della
piazza del mercato.
I resti delle terme di Side, risalenti al V secolo d.C., dopo lo scavo e il restauro
mostrano di appartenere a un complesso imponente eretto, al termine della via
colonnata, dinnanzi al teatro e alla connessa agorà: esso era costituito da un
ampio frigidarium scoperto con piscina circolare e pavimento marmoreo che
serviva anche da principale accesso, era affiancato da un lato dall’apodytérium
e dall’altro – pare disposti in linea sull’asse mediano – da un sudatorium-
laconicum, un tepidarium e un calidarium con numerose vasche.
Hierapolis Afrodisia e Side terme
romane
Lungo la via porticata di Palmira, oltre lo snodo segnato dall'arco maestoso, quattro
colonne monolitiche di granito rosa egiziano di imponente altezza indicano con il loro
risalto l’entrata delle terme fatte restaurae da Diocleziano: dell’estensione dell’edificio
suggerita da tale propileo restano parziali testimoni il disegno del suo tracciato e le rovine
della natatio centrale, circondata un tempo da un colonnato di genere corinzio.
Anche le terme di Apamea sull’Oronte fatte erigere da Marco Aurelio si trovavano lungo la
via colonnata che attraversava da parte a parte la città, ma di questo impianto, costruito
immenso, non restano che l’area e il segno dell’entrata.
Nel corso della sua lunga vita Roma antica poteva davvero essere considerata la città delle acque
che, condotte da più luoghi, erano ovunque presenti necessarie alla salute e all’igiene ma anche ai
piaceri degli occhi e delle orecchie: l’acqua venne esibita come spettacolo o valorizzata quale
strumento di piacere nella varietà delle forme dei getti e degli zampilli, nella sua continua e mai
identica sonorità, creatrice e suggeritrice di frescura aumentata dalla lucentezza dei marmi su cui
scorreva. Con il suo duplice fine di unire il necessario al dilettevole la fontana pubblica
monumentale si diffuse in tutte le città dell’Impero se non più almeno quanto le terme.
L’apporto idrico che la capitale esigeva superava le necessità di qualsiasi altro insediamento
umano: secondo un elenco arido ma certamente attendibile di Plinio, Agrippa fece costruire ben
settecento depositi, cinquecento edifici di distribuzione dell’acqua, centrotrenta serbatoi, ornati da
trecen trecento statue di marmo o di bronzo e da quattrocento colonne marmoree; 15) similmente i
Cataloghi Regionari (nel IV secolo d.C.) registrano nell’Urbe più di milletrecento serbatoi di raccolta
e distribuzione e una quindicina di maestose fontane.
Varie furono le parti costitutive di quest'universo idrico a uso urbano: lacus individuava il bacino di
raccolta alimentato da una cisterna o piscina, oppure da una torre-serbatoio o castellum aquae;
fons designava, di norma, una sorgente naturale; epitonium era chiamata la cannula di erogazione
del getto ritorta a collo di cigno ereditata dalla tradizione alessandrina; silanus o silanum, termine
sempre più corrente dal I sec. d.C. in poi, indicava una fuoruscita dell’acqua dalla bocca di un
mascherone; munus designava un edificio idrico di uso collettivo fornito a una comunità da un
pubblico magistrato per obbligo del suo ufficio; salientes fu il plurale usato dagli specialisti, il più
celebre dei quali fu Frontino che scrive alla fine del I sec. d.C., per designare i getti di acqua
zampillante uscenti da un condotto artificiale. Nymphaeum costituisce tra tutti il termine più
ambiguo: Frontino non ne fa uso preferendogli quello di munus, altri con esso intendono designare
una grotta o specus sacra alle ninfe, divinità delle acque fluenti; Plinio denomina ‘Ninfeo’
probabilmente la fonte Peirène nell’agorà di Corinto 16) che sorta, secondo il mito, dal pianto di
una madre, secondo Pausania era “ornata di marmo bianco e aveva ambienti in forma di grotte,
dalle quali sgorgava un’acqua dolce da bere” 17).
Presso i Romani quest’unione poetica tra una grotta naturale da cui scaturiscono
sorgenti e perciò sacra e cara alle ninfe e un’umida e oscura camera artificiale a volta
percorsa od occupata dalle acque è documentata da una fontana a camera voltata e
stuccata sulla via Appia: alimentata da una diramazione del fiume Almone, essa
venne universalmente considerata il santuario della ninfa Egeria – rappresentata in
atto di versare l’acqua – e quindi il suo Nymphaeum, collegato al tempio e al bosco
sacro delle Camene (identificate con le Muse), pur essendo probabilmente solo un
episodio architettonico del giardino di una residenza suburbana del ricchissimo
Erode Attico. Per quanto varie, tutte le interpretazioni della parola concordano
dunque sul fatto che il ‘ninfeo’ avesse un carattere sacro legato al culto delle ninfe: a
partire dal II sec. d.C., il culto originario fu connesso al culto imperiale come attesta la
dedica a Traiano di una fontana monumentale ritrovata a Souweida in Siria.
Diffondendosi con varietà di tipi nelle province, particolarmente in quelle orientali, il
ninfeo serbò due caratteristiche costanti: la dimensione maestosa e la decorazione
guidata da programmi celebrativi ufficiali. A differenza dei Greci, che tutt’al più
protessero le fonti con un portico di colonne, i Romani esaltarono lo sgorgare
dell’acqua creando una più elaborata architettura ed effetti sorprendenti utilizzando le
conoscenze della idrodinamica di Archimede e di Erone, volgarizzate e semplificate
anche da Vitruvio.
All’inizio del XX secolo della nostra era si riuscì a individuare il principale
approvvigionamento idrico di Roma repubblicana nel Lacus Iuturnae alle pendici del
Palatino tra il tempio di Vesta e quello dei Dioscuri: questo lacus forense era un
bacino di raccolta in forma di vasca quadrata, risalente forse al 117 a.C., al cui
centro, posate su di una base in opus caementicium, sorgevano le statue dei
Dioscuri (ritrovate in frammenti nel bacino) ritenute opere di gusto anticheggiante
uscite da botteghe ellenistiche attive a Roma nel II sec. a.C.
Roma, Lacus Juturnae e sculture dei Dioscuri che
l’adornavano
La costruzione dei primi acquedotti sul finire dal 312 a.C. aveva
incoraggiato e comportato la edificazione dei castelli di acqua e delle
grandi fontane al loro sbocco in città: di tali edifici, però, nulla si è
conservato se non qualche ricordo letterario come quello, ad esempio, della
‘Fontana delle Ninfe’ alla base del tempio di Venere Genitrice nel foro di
Cesare, alimentata dagli acquedotti delle Aquae Marcia e Tepula ma
distrutta in seguito alla costruzione del foro di Traiano.
Nel corso dei lavori ottocenteschi per il ripristino di un tratto della via
Claudia affiorarono le sostruzioni del Claudianum sul Celio: il settore
orientale risultò articolato da nicchie di pianta rettangolare e semicircolare
alternate le quali formavano insieme lo sfondo di un’amplissima fontana
monumentale protetta da un portico e alimentata dall’acquedotto dell’Aqua
Claudia. Nulla è rimasto della decorazione marmorea che rivestiva la lunga
facciata di mattoni, ma quanto sopravvive comunica ugualmente
l’importanza e il ruolo scenografico attribuiti a sculture e architetture per
l’acqua dalla Roma neroniana.
I due esempi, il lacus e il fronte claudiano, pur nella loro distanza temporale,
sono le uniche evidenze archeologiche che consentano di suddividere le
grandi fontane in due tipi: quello a bacino lacustre con gruppo scultoreo
centrale o colonnato lungo il bordo e quello a lunga vasca con sfondo di
muro pieno articolato da nicchie e ornato da colonne, statue e salientes.
Roma, Claudianum sostruzioni, meta sudans distrutta nel 1933, ricostruzione
Tra il Colosseo e l'arco di Costantino sono visibili i resti della Meta sudans: un
corpo quasi conico, parzialmente rivestito di marmo, da cui l’acqua scaturiva
attraverso numerose e brevi cannelle – con un effetto che ne suggerì il nome – e
debordava balzando a cascata tra i gradini della base raccogliendosi e
acquietandosi infine nell’ampio bacino da cui il tutto nasceva. Rappresentata
forse sommariamente in una moneta dell’imperatore Tito, la Meta comunque non
è databile oltre il principato di Domiziano (81-94 d.C.) e, sebbene le
testimonianze letterarie rammentino molte fontane ricche di colonne ornamentali
poste a segnare l’incrocio di due o più strade, l’aniconico monumento
domizianeo svolgeva sicuramente un ruolo eccezionale, posto com’era ai confini
fra cinque regioni della ripartizione amministrativa augustea dimostrando, con
visibile evidenza, la benefica attenzione per il maggior numero possibile di
cittadini da parte della nuova dinastia.
Facendo mente locale alle immense quantità di acqua da distribuire ai popolosi
quartieri della capitale, per non parlare delle Terme da alimentare e dei giardini
da irrigare, contando i punti di distribuzione ricordati dai Cataloghi Regionari e
dalle fonti letterarie ma, per contro, volgendo lo sguardo alle rare ed enigmatiche
vestigia di fontane superstiti è necessario concludere che molte centinaia di tali
realizzazioni furono con sistematicità distrutte alla fine dell’Impero – o in
precedenti circostanze – e pertanto la loro storia può basarsi solo su pochi
frammenti. Ancora una volta Roma si dimostrava un instancabile laboratorio di
elaborazione di varianti che si diffondevano nelle province e che venivano poi
accolte nuovamente nell’Urbe in forme rielaborate e ulteriormente arricchite.
In una lastra della Forma Urbis severiana appaiono la pianta incompleta di un edificio a esedre
transennate da colonne libere e subito al di sotto, a grandi lettere maiuscole, il termine completo
Septizodium che per anni ha costituito un enigma oggi finalmente risolto (grazie a Ernst Maas e a
Salvatore Settis). Questo nome comune attribuito a un edificio appartiene indubbiamente al vocabolario
astrologico indicando le immagini rimpicciolite, in greco per l’appunto zoidion, dei pianeti sino ad allora
conosciuti: l’abbinamento dell’influsso dei pianeti sul regime delle piogge e quindi con il mondo delle
acque era usuale e non dovrebbe sorprendere che le immagini dei pianeti abitassero una fontana. A
Henchir Tounga, nell’Africa proconsolare, è stato individuato con certezza uno Septizodium costituito
da sette nicchie aperte nel muro del frigidarium di un edificio termale contenenti le statue delle divinità
planetarie senza che fosse né un ninfeo né qualsiasi altro edificio erogatore di acque. DI altra parte un
passo di Ammiano Marcellino assimila il Septizodium romano a un ninfeo 18)e iscrizioni trovate a
Lambesi chiamano un edificio scomparso alternativamente e indifferentemente septizodium o
nymphaeum; infine il ritrovamento in situ di un frammento di statua di divinità fluviale e la figura di una
lupa o leonessa attraversata da una conduttura e posizionata inequivocabilmente nella esedra toglie
ogni dubbio: il septizodium era un colossale ninfeo voluto da Settimio Severo nel 203 d.C. all’angolo
sud-orientale del Palatino, appena dopo l’arrivo all’Urbe della via Appia attraverso Porta Capena nelle
vicinanze dell’Acquedotto Claudio (magari, come scrive malignamente il biografo dell’imperatore, per
impressionare i suoi conterranei africani al momento del loro ingresso a Roma 19). Il ninfeo (quasi m.
100 di lunghezza), simile a un frontescena teatrale, possedeva tre esedre semicircolari ornate su tre
livelli da numerosissime colonne che ne seguivano l’andamento con risvolti laterali e accoglieva statue
dell’imperatore nonché delle divinità planetarie collegate al ciclo delle acque. I disegni quattro-
cinquecenteschi di Francesco di Giorgio, Giuliano da Sangallo, Giovanni Antonio Dosio e di Martin van
Heemskerck nonché le incisioni di Etienne Dupérac e di Vincenzo Scamozzi insistono sul grande
numero di colonne di genere corinzio e composito che si dicono di granito e marmi preziosi, collocate
nel portico e nelle gallerie coperte da soffitti marmorei a lacunari e nel muro di fondo in opus
quadratum di tufo rivestito di marmi policromi, dei quali si trovano ancor oggi frammenti; un’immagine
che può essere arricchita e integrata da quella del coevo ninfeo di Adrianopoli in Tracia rappresentato
sul rovescio di una moneta Severiana (il Septizodium fu praticamente raso al suolo durante il pontificato
di Sisto V coinvolto nei lavori di riconfigurazione urbana promossi dal pontefice).
Giovanni Dosio Septizodio III sec dC fu distrutto alla fine del sec. XVI, Esquillino, castello dell’acqua Julia
Allo sbocco di un ramo dell’acquedotto
dell’Aqua Iulia sull’Esquilino (oggi piazza
Vittorio Emanuele II) i cosiddetti ‘Trofei di
Mario’ erano nello stesso tempo castello
dell’acqua e ninfeo. Databile alla fine del
principato di Alessandro Severo e
chiamata dai Cataloghi Regionari
Nymphaeum Alexandri, rappresentata sul
retro di una moneta del 226 d.C., la
fontana era sorta su di un monumento di
età domizianea conservandone le
decorazioni marmoree con trofei di armi. I
due piani inferiori dell’edificio a pianta
trapezoidale – l’insieme di castellum e
bacino di raccolta – contenevano il
congegno idraulico, il terzo era costituito
da una parete con esedra centrale in cui,
forse, dominava la statua di Oceano,
identificabile in tal caso con l’Oceani
solium di cui parla la Historia Augusta, 20)
affiancata da due archi aperti soprastanti i
trofei, trapiantati nel 1590 della nostra era
nel parapetto del Campidoglio ricomposto
e ristrutturato.
Ora considerata un singolare edificio classificabile come termale, ora ritenuta un ninfeo – nell’una
come nell’altra ipotesi senza motivabile fondamento – la rotonda nota come ‘Ninfeo degli Horti
Liciniani’ o per un equivoco dell'età moderna come ‘Tempio di Minerva Medica’ fu innalzata nei
giardini dell’imperatore Gallieno sull’Esquilino all’inizio del IV secolo d.C. (come attestano i marchi
impressi sul materiale laterizio): tra quelle costruite in Roma e fuori Roma essa è – dopo il
Pantheon – spazialmente e strutturalmente la più elaborata e complessa. Nella sua parte inferiore
l’edificio ha la forma di un tozzo possente prisma di base decagonale di considerevole diametro
dalle cui facce, sino a metà della loro altezza e a eccezione di quella riservata all’ingresso,
aggettano a raggiera nove absidi semicircolari con apertura quasi pari alla lunghezza di ciascuna
di esse, lasciando tra l’una e l’altra pilastri trapezoidali spinti in profondità. Se il lato rettilineo di
entrata è schermato da un portale distilo e l’abside opposta è di poco più ampia e profonda delle
compagne, nelle due coppie simmetriche intercettate dall’asse trasversale la parete ricurva è
sostituita da un diaframma trasparente di sostegni puntiformi, quattro colonne trabeate poste
lungo il perimetro semicircolare. Proseguendo in altezza ed estendendo contemporaneamente le
facce del proprio fronte angolato, i pilastri insieme ai finestroni arcuati che si aprono sopra gli
archivolti di inquadramento delle esedre sottostanti formano un tamburo decagonale che in
breve si trasforma, grazie al riempimento progressivo degli angoli, in una fascia circolare da cui
nasce a sua volta una cupola emisferica, per la cui costruzione gli architetti rielaborarono e
perfezionarono un procedimento attuato forse nella sala ottagona della Domus Aurea e
riscontrabile nei vani di angolo delle terme di Diocleziano. Gli strati orizzontali di mattoni leggeri,
via via diminuendo di raggio e inclinandosi verso il vuoto, crebbero contemporaneamente a
meridiani inarcati di mattoni più grossi murati in verticale convergenti verso l’apice dell’emisfero
ove si sarebbero congiunti, mentre una guaina di calcestruzzo e tufo leggero protetta da tegole
ammantava progressivamente il tutto all’esterno. La cupola risultò pertanto suddivisa in comparti
tra nervature, le quali, pur contribuendo ad aumentare la stabilità e insieme l’elasticità della
struttura, non erano state concepite come linee di maggior resistenza ma, più semplicemente,
come guide per la costruzione della volta (rimasero comunque intatte sino all’inizio dell’XIX secolo
pur essendo crollati gli spicchi interposti).
Il sistema del ‘ninfeo’ lasciò la propria eredità all’architettura delle volte successiva, di Tessalonica
e di Bisanzio e del giovane Occidente cristiano.
interno e ricostruzione
8. Ninfei nella penisola italica e in Occidente
Fuori dell’Urbe, a Pompei la piccola thòlos monoptera ottastila di tipo dorico, la quale nel foro
triangolare cingeva e copriva con il suo tetto conico un pozzo profondo, testimonia che fra il II e il I
sec. a.C. il magistrato di turno (come dichiara la iscrizione osca sul fregio della trabeazione) si
ispirava ai modelli ellenistici per enfatizzare con le forme proprie dell’architettura un antico scavo
operato nel manto lavico al fine di assicurare l’approvvigionamento dell’acqua nel centro della città.
A Formia sorse in età tardo-repubblicana uno dei primi esemplari di fontana a facciata e bacino
antistante: dinnanzi a un fronte in opus quadratum di travertino (lungo m. 20 circa) tra due risvolti
laterali siestendeva un bacino rettangolare alimentato da due silani con le sembianze del dio
Oceano.
A Taormina quel che sembra un alto muro di sostruzione in laterizio (lungo m. 120 e più) in cui si
aprono numerose nicchie absidate e rettangolari, è in realtà il muro di fondo di una fontana di età
adrianea, la cosiddetta ‘Naumachia’ alimentata da una restrostante più alta cisterna a due navate
che, oltre a fornire acqua abbondante, nobilitava con le rispettive statue un quartiere della città
romana.
A Villa Cardillo, nei pressi di Pozzuoli, sono affiorati i resti di una grande esedra semicircolare in
muratura con prolungamenti laterali ad ala e nicchia centrale ospitante la conduttura alimentatrice:
un tipo di ninfeo non frequente in Italia che l’opera in muratura fa ritenere databile intorno alla metà
del II secolo d.C.
Ad Ostia la maggior parte delle fontane monumentali pubbliche risale al III sec. d.C.: tutte a esedra
semicircolare, esse furono disposte in serie lungo il decumano massimo e quattro di esse sorsero a
intervalli regolari facendo della strada urbana un monumento unitario ritmato da creazioni a metà
via tra architettura e scultura.
Risulta difficile spiegare l’esiguo numero di ninfei rintracciabili nelle province occidentali e
settentrionali dell’Impero, nonostante in queste terre il culto delle acque fosse precedente alla
conquista romana; per di più i pochi superstiti sono giunti sino a noi incompleti o frammentari
caratterizzati comunque da più modeste dimensioni e limitate ambizioni. Una spiegazione
plausibile del fenomeno potrebbe consistere nel fatto che il culto veniva praticato soprattutto e
direttamente alle sorgenti.
Ostia ninfeo degli eroti, inizi V sec dC
A Saint-Rémy si trovano alcuni ninfei tra i più antichi rinvenuti nelle Gallie: un
primo, risalente al II secolo a.C., è posto al centro di una conca creata in una
piazzetta lastricata e consiste in un semplice bacino rettangolare la cui sobria
eleganza era affidata all’esecuzione accurata dei parapetti e delle scalinate di
discesa; un secondo, quasi coevo, consiste in un pozzo circolare associato a un
tempietto di tipo tuscanico; un terzo, cosiddetto ‘trionfale’, risalente alla fine dello
stesso secolo, era una esedra semicircolare con nicchia a edicola e bacino
rettangolare antistante; sebbene di incerta restituzione, si ha notizia dell’esistenza
di un castellum aquae accanto a una sorgente vicina alla città o al suo punto di
arrivo nel centro urbano. Nei dintorni, inoltre, sorgeva un altro ninfeo successivo
di almeno un secolo e del tipo ‘a esedra’, ma coperto, voltato e abitato da statue:
la sua vasca, dalla pianta piuttosto rara a ferro di cavallo, era alimentata da un
canale che, attraversandola, ne usciva decantato e duplicato nella portata.
Come a Saint-Rémy anche il ninfeo di Bourges, risalente alla metà del I secolo
d.C., era inserito entro la depressione di un’area lastricata nei pressi di un portico
tra i più importanti del centro urbano. Analogo per collocazione e forma era,
probabilmente, il ninfeo centrale di Saint-Marcel costruito alla fine del I secolo
d.C.: due rampe di scale scendevano dal piano stradale a un lacus quadrato e
coperto da un tetto a falde sostenuto da quattro supporti angolari. Decisamente
più ambizioso fu, più a settentrione, il lacus forse parzialmente coperto di Metz
che i preposti all’acquedotto dedicarono nello stesso secolo alla famiglia
imperiale allora regnante: dal suo bacino circolare, cinto entro un parapetto
esternamente ottagono emergeva – poligono entro poligono – una piattaforma
esagonale.
Le province iberiche non dimostrarono particolare zelo nell’esaltare quale dono divino e
beneficio imperiale l’immissione e la distribuzione dell’acqua nelle città, ma quando la
valorizzazione accadde essa avvenne nei punti più importanti dei centri urbani. A Belo un ninfeo
a esedra semicircolare con fondo piatto, raggiungibile mediante due scalinate uguali e
simmetriche, si inoltrava a quota intermedia nella terrazza di sostruzione del santuario capitolino
nel lato breve del foro opposto alla basilica. A Mulva il ninfeo, organicamente legato alle terme,
era del tipo a camera quadrangolare prolungata ad abside dalla quale l’acqua in entrata,
balzando su tre gradoni, scendeva nel bacino coperto dopo aver lambito la statua di una ninfa.
Al quadro limitato delle realizzazioni spagnole corrispose una ben più consistente ricchezza di
centri e getti di acqua urbani nelle regioni rispettivamente opposte e inferiori dell'Impero, nel
Vicino Oriente e in Africa.
Ai piedi del monte che domina a cavaliere Nîmes affiora una risorgiva di tipo carsico che i nativi
Volsci avevano consacrata al dio eponimo Nemausus, erigendo ai bordi del bacino un tempio
alquanto semplice di pianta quadrangola come tutti quelli celtici. Dopo la conquista, all’inizio
dell’età augustea, i Romani cercarono di rendere consono il santuario ai loro costumi cultuali
inserendolo, nel contempo, entro il tracciato della colonia: nel 25 a.C. lo dedicarono ad Augusto,
dopo aver rettificato le sponde dello specus in linea con gli assi del cardo e del decumano
massimi e consentito la discesa mediante due emicicli gradinati; quindi, prima di convogliare le
acque verso i quartieri cittadini, i responsabili del santuario cinsero il sito con un portico triplice
a due navate abbracciando il flusso entro un ninfeo quadrato composto da colonne
semisommerse di genere dorico dinnanzi a un muro con nicchie semicircolari e rettangolari.
Dallo specchio del nuovo bacino emerse un podio quadrato ornato da un fregio sommitale a
girali di acanto, fra i primi conosciuti in Occidente, al di sopra del quale si innalzarono quattro
colonne tortili angolari e troneggiò un altare dedicato a Roma e ad Augusto contemporaneo al
grande altare detto ‘delle Tre Gallie’ elevato alla confluenza della Saona e del Rodano a Lione. E
ancora, inserito nel lato occidentale del portico, fu innalzato un edificio ritenuto una biblioteca, o
altrimenti un tempio del tutto singolare dedicato a una divinità femminile – Vesta o Diana – privo
di pronàos ma con accesso affiancato da due bacini semicircolari: del tutto introflesso con pareti
scandite da nicchie a fondo piatto e a timpani triangolari e curvilinei alternati, con un apparato
tripartito di fondo dominato da un arco siriaco e sottostante baldacchino distilo che consentiva
l’accesso a gallerie cieche che fasciavano il vano. Archi a tutto sesto su cui posano grandi lastre
lapidee (tuttora visibili grazie a un restauro settecentesco) compongono l’imperiosa volta a botte
energicamente contraffortata dal ‘guscio’ dei corridoi laterali. Tempio o biblioteca, l’edificio eretto
e voltato con attentissima cura nel taglio della pietra rendeva l’intero complesso un Augusteum
sovrapposto all’antico culto originario semza cancellarlo e doveva rientrare in unprogramma di
consacrazione della fonte al culto imperiale.
Il complesso di Nîmes, pertanto, non era un semplice dispensatore di acqua bensì
un vero e proprio edificio cultuale posto sotto l’egida di un dio, fondato e costruito nel
luogo preciso in cui il bene prezioso veniva alla luce dalle viscere della terra: esso
testimonia l’esistenza e la tradizione non di un particolare ninfeo ma di una
particolare aedes da specificare precisamente – come documentato da un’iscrizione
trovata in Numidia – come aedes fontis o tempio di sorgente.
Fu soprattutto nelle terre di Africa, ove lo scaturire dell’acqua assumeva davvero
carattere miracoloso, che i templi di sorgente furono più numerosi: tra questi emerge
per chiarezza di impianto e maestà di aspetto quello di età aureliana adagiato sul
versante settentrionale del monte di Zaghouan per esaltare la partenza
dell’acquedotto adrianeo che alimentava Cartagine. Da un naòs quadrato voltato a
crociera con fronte timpanato e abside quadrangolare partivano le braccia curvilinee
con prosecuzioni rette di due portici scanditi da nicchie e volte a crociera: queste
delimitavano una prima terrazza che dominava la piattaforma centrale, alta a sua
volta sul pozzo di affioramento a cui era stata conferita la forma di due cerchi secanti.
Dono incomparabile della Natura e oggetto di cure costanti di imperatori e
magistrati, scrosciando in abbondanza da fontane e ninfei e sostenendo
quotidianamente il rituale delle terme, l’acqua fu, non solo elemento
essenziale alla salute e all’igiene dei cittadini, ma anche strumento di
equilibrata convivenza tra i ceti sociali. Nemi ninfeo della villa di Caligola,
Campi Flegrei ninfeo di Punta Epitaffio ricostruzione
Note