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Architettura Romana Terme Fontane Ninfei

Il documento descrive le terme romane, i loro scopi e usi, come luoghi per attività sociali, igiene e terapia. Vengono descritti gli esempi delle prime terme in Campania a Pompei e le loro caratteristiche come i locali separati per uomini e donne e la successione di vani per i trattamenti termali.

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Architettura Romana Terme Fontane Ninfei

Il documento descrive le terme romane, i loro scopi e usi, come luoghi per attività sociali, igiene e terapia. Vengono descritti gli esempi delle prime terme in Campania a Pompei e le loro caratteristiche come i locali separati per uomini e donne e la successione di vani per i trattamenti termali.

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Vincenzo Fontana

TERME, FONTANE, NINFEI, nel mondo romano

1. Scopi e usi delle terme


2. L’esempio delle terme campane
3. Le prime terme ‘imperiali’
4. Le Terme di Caracalla e di Diocleziano
5. Terme nella penisola italica, nelle province occidentali e
settentrionali
6. Terme in Asia Minore, nel Vicino Oriente e in Africa
7. Ninfei di Roma
8. Ninfei nella penisola italica e in Occidente
9. Ninfei in Grecia, in Asia Minore, nel Vicino Oriente e in Africa
10. Santuari ‘delle fonti’
fontana nella Domus Flaviana, I sec d. C., Palatino Roma
1. Scopi e usi delle terme
Le terme romane furono considerate sin dall'età tardoantica e fino agli inizi
dell'età contemporanea un mirabile esempio di composizione e di articolazione
di spazi di varie forme e dimensioni anche imponenti. La loro storia e la loro
configurazione si intreccia saldamente, forse più di ogni altra architettura, con fini
sociali (furono un servizio pubblico), con il costume (entrarono tra i riti di massa),
con l’igiene e la medicina (furono strumenti terapeutici), con la tecnica (lo
sviluppo dei sistemi detti ‘a volte collaboranti’, il riscaldamento delle piscine, dei
pavimenti e dei muri).
La voce thermae deriva dall’aggettivo greco thermòs che significa caldo:
thermae sarebbero, perciò, edifici contenenti vasche o bacini per immergersi in
bagni caldi.
Nonostante presentino finalità comuni non si possono confondere le thermae con
i balnea poiché questi furono sì complessi pubblici per bagni in acqua calda e
fredda anche connotati da un certo lusso ma privi degli annessi per le attività
sportive e incomparabilmente più contenuti (nell’estensione, nell’articolazione e
nella ricchezza) e, per contro, incomparabilmente più numerosi; il singolare
balneum, poi, altro non indica che un minimo impianto termale sia pur ricco ma
privato in una lussuosa abitazione di città o di campagna. Plinio contrappone le
terme ai centosettanta balnea esistenti al suo tempo nell’Urbe 1) e questa
distinzione resterà sino alla fine dell’antichità dal momento che i Cataloghi
Regionari nel IV sec. d.C. censiscono con criteri analoghi undici thermae e
ottocentocinquantasei balnea.
La successione o la congiunzione delle azioni terapeutiche del freddo e
del caldo e i conseguenti modo di uso delle thermae discendevano per
via diretta dalle teorie elaborate e sostenute dalle scuole mediche, sia
italica sia ippocratica sulla costituzione del corpo e, conseguentemente,
sul suo stato di salute. Il corpo, tali teorie sostenevano, è composto dei
quattro elementi – aria, acqua, terra, fuoco – e il suo benessere dipende
dall’equilibrio in cui vi si trovano i quattro umori che ad essi corrispondono
e le proprietà fisiche ch’essi v’inducono, il sangue (aria) e il caldo, il
flegma (acqua) e l’umido, la bile nera (terra) e il freddo, la bile gialla
(fuoco) e il secco. Con lo squilibrio insorge la malattia: la prevenzione e la
cura, ossia il mantenimento e il ripristino della giusta proporzione tra gli
elementi e gli umori, possono essere attuate mediante controllo ed
eliminazione degli eccessi, sia per contatto sia per assimilazione di
proprietà analoghe o contrarie: utilissime allo scopo saranno perciò le
sudorazioni – eliminazione dell’acqua e circolazione del sangue – in
ambienti caldi o tiepidi secchi o umidi, le immersioni in acqua calda o
fredda – circolazione del sangue e ripristino della bile nera - .
Schemi con percorsi termali sulle piante delle più celebri terme.
A= apodyterium spogliatoio, F= frigidarium, T=tepidarium, S= sudarium,
C=calidarium, P= palestra
Un pomeriggio e una serata alle terme (questo era in media il tempo della frequentazione) si
svolgeva sostando in sequenza in tre vani principali dell’edificio: il De methodo medendi di Galeno,
composto nel II secolo d.C., prescrive una prima sosta, per così dire, di ambientamento, in un vano
ad aria moderatamente calda, ossia nel tepidarium, a cui seguono, nell’ordine, un bagno molto
caldo nelle vasche del calidarium, quindi, risostando nel tepidarium, un passaggio in un vano freddo
e, infine un bagno freddo nella piscina del frigidarium. Luciano, anch’egli nel II secolo d.C.,
descrivendo le terme costruite dall’architetto greco Ippia, 2) rammenta l’esistenza di molti ambienti
satelliti, riscaldati, di vario uso, per esercizi ginnici, unzioni, massaggi. La terapia del benessere
guidò la connessione logica degli spazi e li affrancò dall’immediato rapporto con l’attività sportiva
come invece avveniva nei ginnasi e nelle palestre delle città elleniche.
È ben evidente ora che, inteso alla lettera, il vocabolo thermae risulta un'assoluta riduzione della
realtà, un offuscamento della storia. E infatti, fin dalla metà del XVI secolo, Vincenzo Borgherini, nel
suo Dell’origine della città di Firenze, si sentì in dovere di svolgere per esteso quel che il termine
evocava in un cittadino romano della tarda Repubblica e, specialmente, dell’Impero; thermae, egli
afferma, erano: “Edifizii, spesso sontuosi per uso di bagni pubblici o privati […], contenevano altresì
grandi bacini per esercitarsi al nuoto, basiliche e sale, nelle quali disputavano i filosofi, i retori e i
poeti; luoghi dove si addestrava la gioventù alla lotta, al giuoco del disco, al pugilato, alla corsa; viali
lunghi e ombreggiati di alberi per comodo del passeggio […]. Siccome i bagni faceansi
comunemente con acqua calda, da ciò derivò il loro nome”. Borgherini avvicina un po’ troppo le
terme romane ai ginnasi greci, le prime essendo create per fini eminentemente igienico-terapeutici,
di svago e di compensazione sociale piuttosto che per quelli educativi e formativi dei secondi;
tuttavia è indubbio che, anche nelle terme romane, collaterali al percorso portatore di benessere in
base al quale esse erano ordinate, si organizzassero attività e avvenissero incontri di vario tipo dagli
esercizi ginnici allo scambio di affari, agli accordi politici e clientelari, alle offerte di ogni tipo, senza
trascurare l’offerta di letture e orazioni in appositi spazi adibiti a biblioteche e l’educazione delle
masse con ripetute esposizioni di opere di arte nelle grandi aule di sosta o nei giardini annessi.
Balneum Tripergulae – particolare da miniatura del Codice
Angelico del “De Balneis Puteolanis” di Pietro da Eboli.
De Balneis omnia quae extant apus Graecos, Latinos et Arabas,
tam medicos quàm quoscunque caeterarum artiumprobatus
scriptores. Venetiis, apud Iuntas, 1553
2. L’esempio delle terme campane

Le grandi terme costruite a Roma e nelle capitali delle province in età imperiale raggiunsero
con la massima magnificentia e al meglio i fini indicati dalla medicina contribuendo non poco
anche al mantenimento della pace sociale: ma le stesse non sarebbero state possibili senza
le esperienze condotte durante la Repubblica fuori Roma, specialmente in Campania.
Le terme cosiddette Stabianae a Pompei (dal nome della via Stabiana che le costeggia) sono
le prime che ci siano note tra quelle costruite nella penisola italica: nel loro stato iniziale,
risalente alla fine del IV sec. a.C., esse presentavano un pozzo e un rango di cellette
rettangolari con piccole vasche poste sul lato settentrionale di un cortile trapezoidale, adibito
a palestra, compreso tra due strade e un orto di lì a poco occupato da una ricca abitazione
privata. Nel loro secondo assetto risalente al II sec. a.C. – il tempo della risistemazione del
centro politico e commerciale contemporanea alla generale adozione di forme ellenistiche
realizzate in tufo di Nocera – le terme assumono il loro assetto quasi completo. Furono
organizzate due zone distinte con accessi separati per donne e per uomini: la divisione fra
maschi e femmine non portò, tuttavia, alla creazione di due impianti che, invece, furono
accomunati da una stessa caldaia ciascuno composto da una successione di vani contigui,
rettangolari di varia lunghezza e tutti trasversali a uno stesso asse lungo il lato orientale del
portico, secondo un criterio che ha suggerito la fortunata definizione di ‘bagni in linea’, vale a
dire bagni caratterizzati da ambienti allungati adiacenti uniti da un lato lungo comune e
disposti trasversalmente a un asse o a una linea ideale che li attraversa e nei quali il percorso
terapeutico avviene, avanzando e ripiegando su se stesso, usando gli stessi passaggi. Pur
essendo il reparto femminile escluso dalla palestra e composto da locali più ridotti, entrambe
le sezioni presentano la sequenza canonica di: spogliatoio, l’apodytérium (termine traslato dal
vano con medesima funzione nei ginnasi greci); sala per soste in ambiente tiepido, il
tepidarium; sala per bagni caldi, il calidarium o caldarium (che con il tepidarium sfruttava la
medesima fonte generatrice di calore, una caladaia o praefurnium collocata in un’area di
servizio comune fra le sezioni maschile e femminile); quindi il frigidarium con natatio a fine
percorso, ambiente collegato a una vasca o piscina di acqua fredda in cui immergersi.
Paestum terme romane sospensurae in pietra
Alcuni ritengono che in questi organismi i locali fossero riscaldati con il sistema
cosiddetto ‘a ipocausto continuo’, altri lo negano sulla base di testimonianze
archeologiche ed epigrafiche che attestano l’uso di bracieri per riscaldare tepidari e
calidari in stabilimenti pompeiani successivi alle Stabiane. Pare comunque sicuro che,
vuoi per l’abbondanza nella fascia circumvesuviana di sorgenti naturali calde che
potrebbero aver ispirato tecnici e costruttori, vuoi per la prosperità unita alla
ellenizzazione spinta della regione, il suddetto sistema di riscaldamento sia nato in
Campania: descritto con precisione da Vitruvio, 3) esso consisteva in uno spazio
sotterraneo – per l’appunto l’ipocausto – in cui circolava l’aria riscaldata dal praefurnium
tra un reticolo di pilastrini che reggevano un solaio sospeso – suspensura – di
cocciopesto, malta fine, lastre di marmo o mosaico sul quale erano adagiate le vasche,
creando nell'insieme un genere di bagni detto balneae pensiles o balnea pensilia. Le fonti
identificano addirittura l’‘inventore’ del sistema nella persona di C. Sergio Orata, originario
di Pozzuoli, il quale, nell’attività (peraltro assai redditizia) di allevatore di ostriche nei
propri vivai del lago Lucrino, avrebbe messo a punto un dispositivo di riscaldamento dal
basso delle vasche riproponendolo poi in case di campagna lussuose da lui stesso fatte
costruire e vendute. 4) Forse è azzardato ritenere l’imprenditore Orata anche l’ideatore
dei balnea pensilia, come dicono le fonti; ma egli diede certo un decisivo contributo al
loro perfezionamento diffondendoli in un periodo che Plinio colloca nel secondo decennio
del I secolo a.C. e quindi coevo delle prime installazioni termali ad Olimpia.
Conseguenza, negli edifici termali, dell’applicazione del sistema che permetteva di
mantenere temperature adeguate e uniformi nelle vasche e negli ambienti dei bagni
caldi, fu la sostituzione delle vasche individuali con gli alvea, bacini ove era possibile
immergersi in più persone alla volta, cambiamento dagli effetti sociali e spaziali radicali e
irreversibili.
Subito dopo la deduzione di Pompei in colonia al tempo di Silla, fra 80 e 60
a.C., i duoviri in carica appaltarono la costruzione di un laconicum – stanza
per bagni di vapore – e un destrictarium – ambiente ove gli atleti si
detergevano con lo strigile dall’olio mischiato alla polvere: la notizia,
leggibile in un’iscrizione, è confermata dalla sala rotonda posta dietro il
tepidario in origine destinata ai bagni di vapore che Vitruvio descrive come
accessori delle palestre; 5) il destrictarium, invece, è stato individuato in un
edificio a pianta allungata fra la palestra e il calidarium maschile distrutto
in seguito alla costruzione di un’abside. La palestra venne restaurata come
centro del complesso il che dimostra quanto alla fine della Repubblica,
nonostante le trasformazioni sociali conseguenti alla deduzione coloniale, il
grado di ellenizzazione fosse direttamente proporzionale alla diffusione del
benessere e del piacere corporei la quale, nel nostro caso, significò,
anche, lo sviluppo degli stabilimenti termali. Alla metà del I sec. a.C. le
terme pompeiane, non più sufficienti, furono estese a ovest sull’area
dell’abitazione privata acquisendo il loro assetto definitivo: la palestra
venne ampliata e nel nuovo sito fu scavata una piscina con spogliatoio e
bassi bacini per lavacri.
L’organizzazione e la distribuzione delle Stabiane nel loro assetto definitivo
costituirono il riferimento comune per gli impianti termali costruiti dall’inizio
dell’età imperiale in poi nella penisola italica e in tutto l’Occidente romano.
Innanzitutto nella stessa Pompei ove venne costruito un secondo impianto
nella zona del centro civico da cui prese nome: le nuove cosiddette ‘Terme
del Foro’ mostrano una configurazione analoga alle precedenti e sono
collocabili fra 80 e 70 a.C. in base alla tecnica di costruzione adottata in
opus quasi reticulatum di blocchetti di lava. La sezione femminile è piuttosto
contratta: uno stretto passaggio immette nell’apodytérium il cui vano
contiene la stessa vasca del frigidarium; dopo aver sostato nel tepidarium
intermedio dotato di ipocausto, girando su se stessi si accedeva al
calidarium parallelo e adiacente, da un lato, al primo vano, e dall’altro, al
praefurnium che serviva anche il settore maschile. Quest’ultimo, ben più
vasto, era dotato di tre ingressi che direttamente o indirettamente
conducevano all’apodytérium voltato a botte con finestra strombata rivolta a
sud e dotato di sedili di pietra; mediante una prima porta l’ambiente
comunicava con un vano dal perimetro esterno quadrato entro cui era
ricavato un vano circolare con vasca rotonda interrata, mentre nicchie
disposte secondo le diagonali e copertura a cupola conica caratterizzavano
l'originario laconicum per le sudazioni che fu poi trasformato in frigidarium
mediante il rivestimento della vasca con lastre di marmo. Dallo stesso
apodytérium si accedeva al tepidarium, adiacente e parallelo, riscaldato da
un braciere di bronzo, ornato alle pareti da nicchie alternate ad Atlanti
reggenti una ricca cornice, dotato di un lucernaio strombato che, aperto
nella volta a botte decorata di stucchi, illuminava l’ambiente.
Pompei Terme
del foro, pianta
da Perkins,
calidarium e
tepidario
Seguiva il calidarium – il vano più importante del complesso – provvisto di riscaldamento
a ipocausto, di una vasca addossata al lato breve e di un’abside con il labrum o bacino
per le abluzioni su quello opposto, di campiture parietali di intonaco color giallo oro
inquadrate da pilastri di finto porfido rosso. Pozzi a giorno ricavati nella volta a botte e
una finestra circolare aperta nel catino dell’abside assicuravano una luce riposante e
discreta; e il cortile della palestra – un portico triplice – completava l’insieme.

A Calvi, le cosiddette ‘Terme Centrali’, in opus quasi reticulatum tufaceo risalente a un


periodo compreso tra 100 e 75 a.C., furono imponenti: il vasto apodytérium, decorato da
semicolonne in laterizio con capitelli di tipo ionico, fu trasformato con l’introduzione di
due vasche e l’aggiunta di quadri figurati, erme e una copia di un’Artemide tardo-
ellenistica in un lussuoso frigidarium adiacente a un tepidarium con nicchie, seguito da
un calidarium absidato per localizzare il labrum e dotato di un vero e proprio ipocausto,
ambienti ai quali si accompagnavano il laconicum e il destrictarium.
In età repubblicana, fuori della Campania e dell’Italia ellenizzata, le terme furono
relativamente poche. Le terme Taurinae di Civitavecchia, che in seguito appartennero al
complesso della ‘casa di villa’ di Traiano definita “bellissima” da Plinio il Giovane, 6)
nella loro fase originale, risalente al 75-50 a.C., dimostrano l'avvenuta ed estesa
diffusione del modello campano sin dal I sec. a.C. e Vitruvio descrive uno stabilimento-
tipo in cui sono presenti tutte le componenti dei balnea contemporanei: 7) essi
costituiscono un complesso indipendente, anche se associato per contiguità di
trattazione con la palestra che, però, viene considerata estranea alle italicae
consuetudines e ridotta a un semplice cortile o quadriportico; per contro egli insiste
sulle caratteristiche tecniche delle supensurae proprie dell’ipocausto nei calidari e nei
tepidari.
3. Le prime terme ‘imperiali’

La disposizione consequenziale dei vani termali fu assoggettata a un


sempre più rigoroso criterio di simmetria assiale nelle terme imponenti
fatte costruire a Roma e per Roma dagli imperatori: si moltiplicarono gli
spazi satelliti accanto ai tre vani principali; si moltiplicarono le occasioni di
incontri e le attività; si ampliarono gli ambienti tra pareti articolate da
nicchie o trasformate in esedre o transenne, sotto i volumi avvolgenti di
cupole, semicupole e volte decorate o cassettonate; sculture provenienti
dalla Grecia e dai regni ellenistici, o più verosimilmente loro copie non di
rado di eccellente fattura, furono poste nelle grandi aule simili a basiliche
dei frigidaria accanto alle natationes: le terme aggiunsero alle loro varie
funzioni anche quella di temporanee gallerie di arte. Lo sdoppiamento dei
percorsi, che all’inizio rispondeva alla divisione tra i sessi, divenne al
contempo rigorosamente simmetrico per rispondere anche alla necessità
di non interrompere il funzionamento degli imponenti complessi durante le
periodiche operazioni di pulizia e manutenzione degli impianti condotte
alternativamente nei due settori.
Le prime terme a grande scala di Roma furono quelle iniziate nel 25 a.C. da Agrippa nel
Campo Marzio centrale accanto al primo Pantheon da poco realizzato e agli estesi Saepta,
la platéia lunga più di trecento metri racchiusa da portici marmorei fatta costruire da
Cesare per accogliere le masse della plebe in occasione delle votazioni. Le terme
Agrippinae furono praticabili solo sei anni dopo l'apertura del cantiere in coincidenza con
l’inaugurazione dell’acquedotto – l’Aqua Virgo – che le alimentava: danneggiate e
restaurate più volte nei secoli successivi, esse sono note grazie a un frammento della
pianta severiana e ad alcuni disegni cinquecenteschi, particolarmente quelli di Andrea
Palladio che cercò di scorgere nei ruderi visibili al suo tempo il principio e l’impronta di
una composizione simmetrica e sintattica a cui, certamente, i vani dell’impianto non
obbedivano, disposti invece secondo una sequenza ancora simile a quella delle terme
ellenistiche e di Pompei. L’edificio, contenuto entro un perimetro approssimativamente
rettangolare, era circondato da giardini e aveva accanto una palestra e una piscina, lo
Stagnum; era verosimilmente centrato su di un'ampia sala circolare con absidi a raggiera
e dotata di una vasca di acqua fredda, forse identificabile con il ‘ginnasio laconico’
ricordato a proposito di queste terme da Cassio Dione 8) e oggettivamente analogo per
forma e dimensioni – come si vedrà – al cosiddetto ‘Tempio di Mercurio’ appartenente a un
altro complesso termale nei pressi di Pozzuoli. All’intorno, secondo il disegno, gravitavano
ambienti di varia forma e destinazione di uso: alcuni tepidaria absidati, un calidarium
quadrato, spazi minori a cielo aperto con una frigida lavatio, una piscina e una palestra di
modeste dimensioni. Nonostante l'evidente centralità della rotonda e la forza chiara degli
assi le terme di Agrippa, che inaugurarono l'uso di esporrre nei propri spazi celebri opere
di arte da mostrare al pubblico (tra cui secondo Plinio l’originale bronzeo del celeberrimo
Apoxiomenos di Lisippo), 9) conservavano ancora – o almeno in parte – il sistema di
andata e ritorno lungo uno stesso percorso o cosiddetto ‘in linea’ proprio delle terme
campane.
Le terme Neronianae o Alexandrinae furono il primo stabilimento creato dalla magnificentia
imperiale e costituirono una vera rivoluzione nell’adozione di un principio di simmetria o
specularità applicato con coerenza. Fatte costruire da Nerone tra il 62 ed il 64 d.C. a poca
distanza dalle precedenti Agrippinae – di cui riutilizzarono lo Stagnum come natatio – furono
interamente riedificate nel 227 d.C. da Alessandro Severo, secondo alcune ipotesi
aggiornandone l’impianto sull’esempio di altre terme costruite nel frattempo, secondo altre,
invece, conservando l’impianto originario. Di esse oggi restano solo tratti di mura tra le
fondazioni di Palazzo Madama, ma Antonio da Sangallo il Giovane e Andrea Palladio ne
restituirono la pianta seguendo tracce ai loro tempi ben più cospicue. Entro il perimetro di
una vasta superficie rettangolare pare si disponessero lungo un asse nord-sud i quattro
spazi cardine del percorso terapeutico affiancati da ambienti complementari. Entrando
lateralmente alla natatio si poteva subito accedere a due palestre speculari a quadruplice
portico di colonne di granito (due di esse nel 1666 furono impiegate nel pronàos del
Pantheon per sostituire quelle danneggiate), dotate entrambe, lungo il lato confinante con
l'esterno, di una esedra a conchiglia movimentata da nicchie continue. Le palestre erano
adiacenti ai rispettivi vasti apodyteria comunicanti lateralmente sia con il frigidarium centrale
sia con vani in linea di varia destinazione aperti alla luce e al sole tra i quali erano sudatoria
con ipocausto. Non è chiaro – per quanto probabile – se da questi spazi si passasse
direttamente al frigidarium com’è invece evidente che a quest’ultimo si succedessero lungo
l’asse cardine il tepidarium e il corpo unitario ed emergente del calidarium da cui aggettava,
a sua volta, un’ampia esedra colonnata affiancata dai praefurnia alimentatori dell’ipocacusto.
Riprendendo il percorso a ritroso si raggiungeva nuovamente il grande frigidarium, uno
spazio cruciforme suddiviso in campate e coperto da tre volte a crociera impostate su
pilastri preceduti da semicolonne, delimitato da transenne colonnate che sui lati lunghi
schermavano esedre con vasche e i vani di comunicazione sia con il tepidarium sia con
l’amplissima natatio a cielo aperto, delimitata a sua volta dalla parete esterna articolata in
nicchie, da pilastri e da due profonde esedre con vasca schermate da colonne.
La simmetria rigorosa degli spazi principali rispetto all’asse mediano e la moltiplicazione dei vani
satelliti, la visione attratta in profondità dalle trasparenze delle suddivisioni colonnate ampliava ed
esaltava nell’animo dei frequentatori le dimensioni già imponenti degli interni. L'alta maestria
raggiunta nell'uso e nello sfruttamento delle possibilità dell’opus caementicium consentì la
costruzione di volte sempre più ampie negli spazi principali mentre la disposizione laterale
simmetrica di quelli secondari, anch'essi voltati, controbilanciò efficacemente le spinta esercitate
dalle prime; l’uso di ampie finestre chiuse da pannelli vetrati spinte verso l'alto a ridosso delle
coperture portate a quote considerevoli permise di eliminare i principali inconvenienti propri dei
primi stabilimenti ‘in linea’, il buio, l’umidità, i vapori di condensa. Per posizione, dimensioni e
complessità il frigidarium, con adiacente natatio, si impose come spazio centrale della
composizione e spazio neutrale collettivo di arrivo, convergenza e ritorno di ogni percorso
quanto mai adatto a moltiplicare le occasioni degli incontri più disparati o a sostenere eccezionali
eventi temporanei, sicuramente paragonabile, per le possibilità offerte, a una basilica civile.
La disposizione, il principio di concatenazione e la dotazione degli spazi delle terme
create dagli architetti di Nerone vennero assunte quale modello canonico per gli
artefici chiamati dagli altri imperatori e dalle nuove elaborazioni distributive, tecniche e
formali emerse e si definì nella Roma imperiale uno schema precisissimo che fondeva
lo stabilimento per i bagni con quello dei ginnasi ellenistici ove potevano svolgersi, le
une accanto alle altre, attività distensive igienico-terapeutiche, sportive e culturali:
Seneca, Stazio e Marziale le celebrarono con un’enfasi non priva di qualche ironia.
Le Terme di Tito o Titianae furono fatte costruire in gran fretta dall’imperatore dinnanzi
all’anfiteatro del suo predecessore, sulle pendici del colle Fagutale entro il parco della
Domus Aurea, se non furono addirittura, coerentemente con la politica dei Flavi, un
riadattamento dei bagni del palazzo stesso di Nerone descritti da Svetonio 10).
Inaugurate nell’80 d.C., interamente in opus testaceum, esse sviluppavano appieno le
invenzioni neroniane, sebbene con minor elargizione di lusso. Anch’esse sono andate
completamente distrutte ma i disegni di Andrea Palladio ci attestano che il frigidarium
cruciforme era il fulcro del complesso, coperto da una volta a crociera tripartita
contraffortata da esedre e da un emiciclo transennato con vasca. Gli accessi erano
duplici e laterali, comunicanti sia con palestre porticate, sia con apodyteria e
successivi vani secondari – sudatoria e tepidaria; dal frigidarium centrale
proseguendo a sud si apriva il tepidarium anticamera di due calidaria con praefurnia
e ipocausto, esposti al sole, absidati e speculari, protesi al centro della facciata sud
nello spazio di due giardini (o ampie palestre) a terrazza, recintati da mura e aperti
verso il Colosseo con scenografiche scale. L’intera composizione degli edifici termali,
simmetrica rispetto all’asse minore, era racchiusa in un ampio perimetro trapezoidale
a eccezione della capace cisterna di alimentazione posta a nord.
Secondo la testimonianza di Cassio Dione le Terme di Traiano o Traianae furono
progettate da Apollodoro di Damasco e costruite a scala più ampia a nord-est delle
precedenti sulle pendici del colle Oppio e orientate a ponente per godere appieno del
sole pomeridiano 11). Iniziate dopo l’incendio del 104 d.C. e inaugurate nel 109,
sorsero su di una vasta e solida platéia rettangolare in parte ottenuta artificialmente
interrando ambienti della Domus Aurea, semidistrutta e abbandonata. A causa della
frammentarietà dei resti (alcune esedre, una sala absidata) la possibilità di ricostruire
idealmente l’impianto è consentita, ancora, dalla pianta severiana e dai disegni di
Andrea Palladio e di altri architetti del XVI e XVII secolo: da questi documenti si deduce
che le terme traianee sviluppavano, con ricchezza e su amplissima scala, i criteri
ordinatori degli spazi terapeutici rigorosamente disposti lungo un asse centrale derivati
dalle terme neroniane ma che introducevano anche non poche novità nell’articolazione
degli spazi e nella composizione dei volumi specialmente negli ambienti collaterali. Un
propileo-vestibolo settentrionale costituiva l’accesso e immetteva direttamente all’area
della natatio circondata da colonne e affiancata da portici a loro volta costituiti da
colonne colossali dinnanzi agli apodytéria suddivisi in piccoli ambienti, tra i quali erano
inserite due rotonde cupolate con nicchie sulle diagonali (forse piccoli frigidaria).
Uscendo si incontravano direttamente due palestre circondate da quadruplici portici, i
quali da un lato si aprivano su due ampie esedre con ipocausto, dall’altro su ambienti
di passaggio che consentivano di raggiungere con percorsi laterali (attraverso
sudatoria e tepidari secondari) il calidarium, un’aula rettangolare triabsidata sporgente
dal corpo principale. Usciti dalle sue vasche disposte in nicchie ed esedre colonnate e
vetrate, percorrendo a ritroso l’asse portante della disposizione spaziale, si sostava nel
tepidarium intermedio e quindi ci si immetteva negli ampi spazi del frigidarium, dalle
nicchie angolari e dai vani di entrata tanto profondi da costituire quasi le braccia di una
croce delle quali la settentrionale, absidata, consentiva di raggiungere la natatio.
Accanto alla rigorosa assialità longitudinale dei tre cardini terapeutici Apollodoro
aveva valorizzato gli assi trasversali con successioni di ambienti e aperto nel circuito
perimetrale in corrispondenza dell’aggetto del calidarium – in analogia con il Foro di
Traiano, quasi un segno della sua mano – un’amplissima esedra arricchita da
ambienti di varia forma e da minori esedre colonnate (gli interni ospitarono opere di
arte, come il celebre gruppo scultoreo del Laocoonte, oggi ai Musei Vaticani). L’asse
dalla natatio al calidarium costituì il nucleo di una composizione architettonica di
imponente estensione, circondata da uno spazio a cielo aperto ancor più esteso
destinato agli esercizi ginnici e al passeggio chiuso entro un ampio recinto che, a
differenza di quanto avveniva nei precedenti, fu parte integrante del sistema-terme:
articolato non solo nei propilei di ingresso ma anche in esedre laterali occupate da
ninfei e biblioteche – per riposo, lettura e ascolto degli oratori – e concluso da un
grande emiciclo posto in asse con il corpo monumentale.
Ma la dimensione teatrale dell’esedra e la trasformazione del recinto non fu l’unica
invenzione di Apollodoro: egli definì in assoluto le caratteristiche spaziali e
volumetriche delle terme concependole e plasmandole come sequenze assiali degli
spazi principali, ciascuno di essi sviluppato entro un proprio distinto volume coperto
da volte o cupola (si immagini una visione dall’alto) e ciascuno legato all’adiacente
come al più lontano da ampi passaggi e da trasparenze lungo i due assi cardini (si
pensi una visione dal centro del frigidarium alla natatio o al calidarium attraverso il
tepidarium e, in senso trasversale, da una palestra all’altra attraverso il frigidarium).
Ma i collegamenti attraverso gli ampi passaggi e le trasparenze attraverso le molte
transenne colonnate non erano studiati e realizzati per consentire – nemmeno per un
istante – una visione sincronica e unitaria dell'organismo bensì per attrarre e
sollecitare il graduale incedere verso méte progressive.
4. Le Terme di Caracalla e di Diocleziano
Le terme volute da Caracalla, dette anche Antoninianae, furono
costruite quasi interamente tra 212 e 217 d.C. nella valle compresa tra i
colli Celio e Aventino, sulla via Nova appena fuori del circuito delle
Mura Serviane, inaugurata per l’occasione e parallela all’Appia. Usate
soprattutto dal popolo, come ricordano le fonti, 12) esse furono
alimentate dall’Aqua Antoniniana, ramo speciale dell’Aqua Marcia
iniziato nell’anno stesso in cui si avviò la fabbrica termale; completate
nel loro circuito esterno, tra 218 e 235 d.C., da Elagabalo e da
Alessandro Severo, furono giudicate magnificentissimae dai
contemporanei e inserite in età medievale tra i mirabilia dell’Urbe.
Restaurate più volte da Aureliano, Diocleziano e Teodorico, decaddero
definitivamente in seguito al taglio dell’acquedotto di alimentazione
operato dai Goti (nel 537 d.C.). Studiate da molti architetti del XVI
secolo – in particolare da Andrea Palladio – più volte ispezionate,
frugate e saccheggiate, le rovine rappresentano a tutt’oggi l’esempio
più completo e imponente tra le terme imperiali, concepite,
sull’esempio indiscusso di quelle di Traiano, come una composizione di
molti corpi di fabbrica e di spazi di varia forma intercomunicanti e
concatenati, compresi entro uno stesso perimetro unitario.
L’intero complesso sorge su di un terrazzamento quasi quadrato (il cui lato
maggiore superava i m. 400 ), orientato a nord-est e a sud-ovest: in parte
sostenuto artificialmente da due piani di camere di sostruzione tra le quali si
apriva il propileo di accesso, in parte inserito nel declivio naturale del colle di
Marte ove alloggiava anche l’enorme cisterna di alimentazione, capace fino a
30.000 metri cubi di acqua, a cui andrebbero ulteriormente aggiunti i metri cubi
relativi a un ninfeo interno di recente ipotizzato. Al centro della spianata, il
corpo termale si apriva con otto porte di immissione ad altrettanti vestiboli
collegati direttamente con le palestre, con la natatio e, indirettamente, con gli
apodytéria. Agli estremi dell’asse trasversale dell’edificio ciascuna delle due
palestre gemelle era circondata da un portico triplice di colonne di giallo antico
con volte a botte, nonché, sul lato spoglio, da ambienti di sosta con esedra
centrale a cui faceva riscontro un opposto profondo emiciclo transennato che
comunicava con il vano centrale del complesso. Dalle palestre si accedeva a
due tepidaria per parte, ovati e trasparenti al sole, dai quali, iniziando un
percorso ad angolo retto attraverso sudatoria e stretti passaggi diagonali (per
non disperdere il calore creato dall’ipocausto), si giungeva al maestoso
calidarium sporgente dal comune confine con la sua massa semicilindrica in
maggior parte vetrata e in minor parte murata per accogliere il tepore e la luce
del sole dal tardo mattino al tramonto ed emergente dalle coperture adiacenti
con la calotta della sua cupola senza tamburo e, probabilmente, ribassata.
Il calidarium, infatti, era una rotonda di amplissimo diametro, che poco
dovette invidiare al Pantheon, formata da un’ossatura di otto pilastri a
sostegno della cupola e raccordati da due registri di ampie finestre nel
cui seno si insinuavano le vasche che facevano corona al maggior
bacino centrale. Lasciato il calidarium, piegando ancora ad angolo retto
dopo una sosta nel tepidarium principale, si giungeva al frigidarium,
un’imponente aula basilicale suddivisa in tre campate voltate a crociera
impostate su pilastri divisori dinnanzi ai quali si ergevano otto colonne
giganti di granito: lungo le sue pareti schermi di colonne minori
mascheravano ampie vasche poste ai lati del varco che proveniva dal
tepidarium e di quello opposto con labrum che conduceva alla natatio
finale – ritmata anch’essa da quattro colonne granitiche di genere
composito – delimitata da transenne tetrastile, ornata sul retro della
parete esterna da un ninfeo con nicchie e statue e movimentata, sul lato
opposto, da due emicicli acquei. Cortili e portici erano pavimentati con
mosaici bianchi e neri ma gli emicicli e le esedre accoglievano mosaici
policromi raffiguranti 'nature morte', animali e atleti in gara o in esercizio,
mentre la decorazione proseguiva fastosa nelle pareti rivestite da lastre
marmoree di vario colore, nei vetri colorati dei finestroni a semicerchio
tripartiti, sulle volte animate da stucchi variopinti e raffinati: il tutto faceva
da sfondo alle colonne preziose e alle sculture esposte nei vari ambienti.
Intorno al corpo centrale, entro la cinta, si estendevano giardini con piante per
diletto e sentieri per passeggiate, con spazi per sostare, dialogare, ascoltare,
assistere a giochi ginnici o a spettacoli: a metà dei lati minori, infatti, si
estendevano due gigantesche esedre tese ad arco entro cui si aprivano un vano
rettangolare con nicchione sul fondo, una sala absidata e una ottagonale. Sul
lato opposto alle sostruzioni di entrata, l’enorme cisterna era mascherata da una
lunga gradinata che con due braccia ricurve costituiva uno stadio tagliato a
metà, affiancato da due ambienti minori absidati adibiti a biblioteche e,
all’occasione, ad auditori. Un labirinto di corridoi e vani sotterranei si stratificava
in tre piani comprendendo anche un mitreo, il più vasto che si conosca in Roma.
Alcuni passaggi della Historia Augusta dedicata a Caracalla, 13) la
constatazione della rapidità della costruzione di una fabbrica così estesa e
complessa, l’analisi diretta del suo scheletro verticale privo di fori per ponteggi e
ancora in buono stato di conservazione, hanno consentito di ipotizzare, con
convincente plausibilità, i particolari procedimenti tecnici messi a punto nel
cantiere e la novità di alcune soluzioni tettoniche, dei sistemi di riscaldamento e
di circolazione dell’acqua. Le maestranze avrebbero lavorato agevolmente e in
sicurezza su terrapieni che, avvalendosi del terreno ricavato dallo sbancamento
del colle, si sarebbero innalzati di pari passo con il progredire delle murature in
opus caementicium sino all’imposta delle volte; e gli artigiani delle rifiniture e
delle decorazioni avrebbero proceduto inversamente dall’alto verso il basso
man mano che i terrapieni scendevano e venivano eliminati.
Per la costruzione delle volte (oggi crollate), constatando la relativa sottigliezza delle
sezioni e le vaste aperture delle strutture portanti associate con il passo della Historia
Augusta, gli architetti e gli operai si sarebbero avvalsi non solo di centine semplici e
basse posate sull’alta quota raggiunta dal terrapieno ma anche di armature
metalliche annegate nella massa malleabile poi consolidata (armature di bronzo e di
rame, precisa la fonte letteraria a proposito della cupola del calidarium) che si
sarebbe potuta mantenere di contenuta (se non di esile) sezione. Di tal procedimento
potrebbero servire da comprova la scoperta di tiranti metallici in alcune strutture
voltate nella residenza di Adriano a Tivoli e un’incisione di Antonio da Canal (il
Canaletto) che mostra un reticolo metallico di meridiani e paralleli sull’intradosso di
volte minori nelle stesse terme.
Il Balneum costruito per la confraternita religiosa dei Fratres Arvales lungo la via
Portuensis presso il bosco sacro e il santuario di Dia (attuale località Magliana) fra
222 e 225 d.C. – quindi quasi contemporaneo alle Antoniniane – nonostante l’esigua
superficie interessata, dimostra con la sua impostazione ricca e articolata nel rispetto
della simmetria degli spazi lungo due assi perpendicolari, con i suoi ricercati
prolungamenti absidati e le sue ancor più ricercate coperture a botte o a crociera e il
suo sofisticato ipocausto, quanto i modelli imperiali si riflettessero prontamente nelle
iniziative private, disponibilità finanziarie permettendo.
Nel 242 d.C. l’imperatore Decio fece innalzare sull’Aventino, probabilmente sopra
l’antica abitazione privata di Traiano, un complesso termale a cui conferì il proprio
nome: in base ai pochi resti che si possono ancora osservare e, soprattutto, grazie a
un disegno di Andrea Palladio, si può affermare che le Terme Deciane fossero di
estensione molto inferiore alle precedenti e alle successive altre terme imperiali
sebbene possedessero quanto meno un’aula absidata.
Le terme iniziate nel 298 d.C. sull’Esquilino da Massimiano ed espressamente dedicate al
fratello Diocleziano e a tutto il popolo romano – come si legge in una lapide oggi esposta al
Museo delle Terme – furono le più estese di tutte le ‘imperiali’ e vennero compiute nel 306 d.C.,
dopo l’abdicazione e il ritiro dei due Augusti, in brevissimo tempo e implicando la demolizione di
molte case, per servire i quartieri allora in espansione sui colli Quirinale, Esquilino e Viminale.
Ispirandosi tanto alle Terme di Traiano quanto a quelle Antoniniane, il complesso di Massimiano
e Diocleziano risultò una perfetta sintesi di entrambe. L’orientamento e gli accessi al corpo
centrale in opus testaceum, maggiormente sviluppato in larghezza che in profondità, furono
uguali a quelli delle Antoniniane: superate le quattro porte che immettevano nei vestiboli
adiacenti alla natatio e in quelli comunicanti con gli apodytéria ovati, i percorsi simmetrici
proseguivano, parallelamente all’asse terapeutico centrale, attraverso due palestre gemelle cinte
da quadruplici portici con vari ambienti nel fondo, di cui il centrale absidato, per poi proseguire,
voltando ad angolo retto, nella successione di sudatoria e tepidaria di vario perimetro con
vetrate tra colonne aperte verso il giardino. L’angolo, in entrambi i percorsi, era occupato e
segnato da un vano ottagonale inscritto in un quadrato con nicchie semicircolari ai vertici e
coperto da volta a crociera su base poligonale del tipo cosiddetto ‘a conchiglia’ o ‘a
ombrello’ (quasi una caratteristica di queste terme), vale a dire composta da spicchi delimitati
da nervature di mattoni e attraversati a metà da una terza nervatura con partenza all’apice della
lunetta di imposta: una ripresa, dunque, del modello traianeo nella configurazione del corpo
emergente del calidarium non più cilindrico e cupolato bensì parallelepipedo movimentato da
spazi minori absidati nati quasi per gemmazione (come avverrà nell’architettura bizantina) e
coperto da tre volte a crociera. Da qui il percorso a ritroso si riproponeva assai simile
all’antoniniano: con la sequenza del tepidarium a esedre laterali quadrate e del frigidarium
cruciforme tripartito dotato di esedre rettangolari tra le braccia e coperto da altissime volte a
crociera impostate su otto pilastri contraffortati all’esterno mediante rigidi setti murari e
accompagnati all’interno da altrettante colonne monolitiche di granito rosso egiziano, mentre le
differenze di quota tra apici e imposte consentivano l’apertura di ampie e alte finestre arcuate
tripartite.
L’imponente frigidarium – precedente all'impianto della Basilica Nova di
Massenzio e Costantino – fu di fatto conservato e restaurato nei suoi
spazi e nella sua struttura da Michelangelo che con il proprio relativo
‘silenzio’ contribuì a salvare in parte l’‘eloquio’ dell’aula termale quando
assolse all’incarico pontificio di trasformarlo in chiesa cristiana (Santa
Maria degli Angeli). Si giungeva infine alla natatio a cielo aperto (ora
parzialmente occupata dall’abside a nord-est della nuova chiesa
costruita da Luigi Vanvitelli) in cui si specchiavano il policromo
inseguirsi, su tre pareti di delimitazione, di tre registri di edicole formate
da colonnine pensili di marmi pregiati e da nicchie a fondo piatto e
curvilineo alternate, nonché le cavità dei due emicicli sorgenti
dall’acqua ricavati entro le masse dei pilastri di sostegno e rinfianco
delle volte del frigidarium. Nonostante lo stato di rovina e le amputazioni
di molte parti del complesso centrale restano comunque leggibili: la
continuità delle visuali ritmate da restringimenti e slarghi lungo i due
assi, l’avvicendarsi di aree in penombra e in luce inquadrate da colonne
colossali, l’alternarsi di spazi rettangolari, poligonali, ovati che
dobbiamo sforzarci di immaginare, in contrasto con l’esterno imponente
nella sua nudità, ornati di mosaici pavimentali e murali, di incrostazioni
marmoree e stucchi, nonché popolati di sculture e opere di arte.
terme di Diocleziano III sec dC.
Del recinto esterno sopravvivono solo alcune parti, sufficienti tuttavia a
testimoniare della ricca articolazione di episodi che conteneva: di perimetro
quasi quadrato, escluse le emergenze estradossate, esso offriva sul lato nord-
orientale di accesso e sugli adiacenti perpendicolari, distanziate a ritmati
intervalli esedre di varia forma ampiezza e decoro – rettangolari, quadrate,
semicircolari, a segmento di cerchio teso, schermate da colonne, pavimentate a
mosaico, spesso arricchite da nicchie interne – dedicate alla sosta e al riposo ma
capaci, alcune, anche di trasformarsi in occasionali auditori. Il lato sud-
occidentale di fondo, invece, si trasformava al centro in un’amplissima esedra
semicircolare - precisa citazione e ripresa delle Terme di Traiano - compresa tra
due sale rettangolari con vano centrale e deambulatorio separati da un
colonnato: l'esedra usata probabilmente come teatro e le sale come biblioteche
ove furono trasferiti i volumi della Biblioteca Ulpia nel Foro di Traiano (alla fine del
XIX secolo della nostra era l’emiciclo servì da traccia all’architetto Gaetano Koch
nel disegnare quello di Piazza della Repubblica). A chiusura dello stesso lato,
inserite negli angoli, furono innalzate due torri cilindriche di spessa muratura
laterizia coperte da cupole con occhio centrale e spicchi cassettonati le cui
fasce di separazione corrispondono a nervature di mattoni bipedali che, simili a
meridiani, guidarono e resero elastica la struttura composta da fasce orizzontali
di blocchi di tufo giallo leggero (la torre orientale è parzialmente visibile lungo la
via del Viminale, quella occidentale, in miglior stato, fu trasformata nella chiesa di
San Bernardo alle Terme). L’enorme fabbisogno idrico delle terme era assicurato
dalla cisterna trapezoidale posta fuori del recinto (la cosiddetta ‘Botte di Termini’)
alimentata da un ramo dell’Aqua Marcia.
Anche l’imperatore Costantino costruì poco al di sopra dei Fori, su di un rialzo
alle pendici dell’Esquilino, un complesso termale ora tagliato a metà dalla via
Nazionale: si può comunque dedurre, sotto il terrapieno che regge la Villa
Albobrandini, il suo impianto simmetrico, la presenza di un frigidarium basilicale,
di un tepidarium a pianta circolare e di un considerevole calidarium simile a uno
spazio trilobato con nucleo a pianta circolare accompagnato da tre esedre
sporgenti a semicerchio, schermate da una transenna colonnata e coperte da
una cupola ‘spaccata’ o a quarto di sfera, aperta verso l'interno per ricevere
luce indiretta proveniente dallo spazio principale.
In più di tre secoli di invenzioni spaziali, strutturali e costruttive Roma aveva
accumulato in questione di terme un patrimonio di modelli e varianti che nessun
altro genere di edificio fu mai in grado di uguagliare, un libro aperto e in
continua stesura per chiunque volesse ispirarsi, imitare, emulare adattandolo in
spazi di ogni genere ed estensione.
5. Terme nella penisola italica, nelle province occidentali e settentrionali durante
l'Impero

Il modello delle prime terme imperiali – e sarebbe stato ancor più arduo per le
estesissime concatenazioni spaziali e volumetriche delle successive – non fu
adottato alla lettera dalle città delle province italiche e occidentali che però,
intraprendendo analoghe imprese, non rinunciarono al lusso e alla raffinatezza
spingendosi, anzi, a elaborare, a seconda dei luoghi, libere varianti alle disposizioni
lineari o seriali con nuove, originali articolazioni.
L’esteso continuum di rovine che oggi si snoda sul versante orientale della penisola
di Baia affacciato sull’omonima insenatura tra Pozzuoli e Capo Miseno ricco di
fumarole e di acque termali adatte a fornire calore e ad essere utilizzate a vari usi
terapeutici, fu mèta di ispezioni sin dall’età della Rinascita e soggetto di disegni da
parte di molti architetti – da Francesco di Giorgio, a Giuliano da Sangallo ad Andrea
Palladio – i quali credettero di intravvedere in maestose cupole e volte superstiti parti
di edifici termali. In realtà, a causa delle continue trasformazioni (bradisismo
compreso) che subì il luogo dal tempo di Cesare al III secolo d.C., non è ancor oggi
del tutto chiaro se il continuum in pendio verso la baia costituisca l’insieme di una
serie di lussuose residenze patrizie o fosse parte di un’unica vastissima residenza
tardo-repubblicana o augustea divenuta imperiale (attualmente la seconda
congettura sembra prevalere sulla prima in base a notizie certe di una residenza
baiana amata da Augusto e successori almeno sino a Settimio Severo); ma è del
tutto manifesto che in ogni caso le une o l’altra furono studiate per godere della
splendida vista sul mare e per soggiorni rallegrati da bagni caldi e sudationes grazie
ai vapori della terra o resi salutari grazie ai poteri delle acque.
Lungo un arco costiero di circa mezzo chilometro, si può tentare, sulla base
dell’omogeneità formale e costruttiva, di seguire in successione cronologica le
diverse parti. In età tardo-repubblicana fu realizzata a settentrione, a partire da un
lungo criptoportico a due navate, voltato e absidato (sicuramente un’ambulatio
sommitale), una serie di lunghe terrazze artificiali integrate a balze naturali
regolarizzate artificialmente e trasformate in curati giardini discendenti che,
accompagnate e collegate da una scala di risalita o di discesa aderente al ripido
pendio del monte, suggerivano per il complesso la denominazione ‘delle Terrazze’.
Giunti alla quota della riva un corridoio seminterrato conduceva a un primo grande
impianto termale iniziato in età augustea – le cosiddette ‘Terme Inferiori’ – in cui
emergeva un’ampia maestosa rotonda – un frigidarium o forse una natatio – di quasi
un secolo precedente a quella del Pantheon adrianeo di cui uguagliava quasi la metà
del diametro, in età moderna localmente denominata ‘Tempio di Mercurio’, un tempo
rivestita di marmo ma oggi semisommersa dall’acqua marina che vi affiora per effetto
del bradisismo. Impostata su murature in opus reticulatum rafforzate da piedritti e
arcature, la cupola interamente voltata fu, per quanto è noto, la prima della storia a
essere costruita in tufelli cuneiformi di tufo disposti radialmente, di spessore variabile
via via più ristretto sino ad assottigliarsi sensibilmente in sommità (circa cm. 60),
illuminata da quattro finestroni ad arco ribassato aperti all’inizio della volta e da un
soggiogante occhio centrale volto al cielo. La scalinata di spina, simile per la sua
funzione di risalita diretta alla montagna a quella del santuario di Palestrina,
collegava sul lato accanto anche le terrazze di un secondo complesso termale ben
definito nel suo perimetro rettangolare, chiamato ‘Terme di Sosandra’ in seguito al
ritrovamento della copia romana dell’Afrodite Sosandra di Calamide, scultore ellenico
del V secolo a.C.
Baia il cosiddetto tempio di Mercurio in realtà frigidari il
ninfeo di Sosandra
Dagli appartamenti residenziali superiori risalenti all’età sillana, composti da ambienti in
linea serviti e disimpegnati da un triplice portico, si discende a un ninfeo in forma di
teatro con cavea affacciata sull’orchestra semiellittica, luogo di riposo e di
rappresentazioni mimiche allietato da una vasca circolare; e si discendeva ancora a un
ultimo peristilio intorno a una piscina a livello del mare. A fianco, con innesto inclinato
del suo asse, si sviluppava il terzo complesso, le cosiddette ‘Terme di Venere’: una
lunghissima vasca rettangolare sulla quale si affaccia ancora un’abside profonda
coperta da semicupola e alla quale si affiancano ancora, inoltrati nel pendio, vari
ambienti con vasche, fontane e, particolarmente ammirate, le cosiddette ‘Stanze di
Venere’, ambienti termali con volte decorate da pitture entro raffinate cornici di stucco
del I secolo d.C. Accanto all’antico insieme, o unico complesso che fosse, si elevano i
resti di altre due rotonde – semisommerse anch’esse per effetto del bradisismo – che,
immaginate templi dagli archeologhi napoletani, erano con tutta evidenza due sale
termali simili tra loro, più ampie del ‘Tempio di Mercurio’ e quindi più vicine al Pantheon:
la prima, detta ‘Tempio di Venere’, di età adrianea, era un edificio di pianta ottagonale
all’esterno con otto finestroni arcuati aperti nel volume prismatico irrobustito da
contrafforti angolari e di pianta circolare all’interno animata da quattro nicchioni e
coperta (come lasciano intravvedere gli attacchi superstiti dell’imposta) da una cupola
a ombrello con spicchi ora tesi ora voltati; la seconda, detta ‘Tempio di Diana’ e
risalente al III sec. d.C., era un edificio composto da otto massicci pilastri di pianta
pentagonale in opera listata e laterizia che creavano all’esterno un prisma ottogonale e
all’interno un cilindro scavato da otto nicchie e forato da altrettanti finestroni
soprastanti, oltre i quali si inarcava una cupola con profilo a ogiva e ad anelli
progressivamente aggettanti costituita di tufo e laterizio nella zona di imposta e quindi
di strati via via più leggeri di tufo poroso (proprio come nel Pantheon).
il cosiddetto Tempio di Apollo in realtà calidarium
Poco lontano, sulla riva del lago di Averno sono i resti di una rotonda di dimensioni
ancor maggiori, il cosiddetto ‘Tempio di Apollo’, anch’esso di età adrianea e forse
appartenente a un complesso termale: la sua cupola (circa m. 36 di diametro)
aperta da serie di finestre in zona di imposta è seconda per dimensioni a quella del
Pantheon.
A Pompei le cosiddette ‘Terme Centrali’ furono iniziate dopo il 62 d.C. con il proposito
di dotare la città di un impianto più moderno degli esistenti ma non furono mai
condotte a compimento: delle precedenti, comunque, esse rispettarono la
disposizione in linea e l’intimo connubio con la palestra come voleva la tradizione
ellenistica. Da un ingresso ricavato tra botteghe, costeggiando un lato breve
dell’erigenda palestra (che doveva essere circondata da un portico triplice con
colonne di genere composito), si giungeva all’apodytérium illuminato da una terna di
ampie finestre aperte sull’esteso spazio da attrezzare anche con una natatio: esso
ospitava direttamente la vasca del frigidarium posto così al termine del percorso che
avrebbe ricondotto al punto, coincidente, di entrata. Dall'apodytérium si passava
quindi al tepidarium, dotato anch’esso di tre finestre con lo stesso orientamento per
giungere infine al calidarium riscaldato dall’aria in circolo non solo tra le suspensurae
ma anche in condotti interni alle pareti – pareti concamerate – animate da nicchie
continue in attesa di decorazioni e statue mai arrivate, attrezzato con lunghe vasche
e comunicante, attraverso una stretta apertura diagonale, al laconicum circolare –
ormai un dato acquisito al lusso – con nicchie radiali e cupola emisferica (ma, poiché
i praefurnia non furono mai realizzati, venne usato come frigidarium). Vari condotti
dalla piscina avrebbero consentito con l’espurgo e lo scarico delle acque di tenere
pulite le latrine.
Nelle cosiddette ‘Terme del Foro’ di Ercolano di età giulio-claudia, il rigoroso
ordine seriale tanto della sezione femminile che della maschile anticipa quello
delle terme omonime di Pompei: nella prima sezione accoglieva le bagnanti
un iniziale vestibolo di attesa a cui succedeva l’apodytérium ove regnava, sul
pavimento, un Tritone gigante di mosaici multicolori che predisponeva corpo e
spirito al ciclo idrico-terapeutico offerto dai successivi tepidarium e calidarium
con vasca adiacente al praefurnium esterno e labrum affacciato sulla palestra.
Il praefurnium alimentatore dell’aria calda nelle suspensurae era vicinissimo
anche al calidarium della sezione maschile, perpendicolare alla femminile e
parallelo al lato lungo della palestra: con inizio da un apodytérium absidato il
settore degli uomini proseguiva nei vani adiacenti e successivi del tepidarium
ravvivato dalla copia ridotta (e scadente) del Tritone e del calidarium con
labrum in abside e vasca opposta, da cui si tornava sui propri passi per
raggiungere il frigidarium circolare a pareti rosse, nicchie radiali e cupola
dipinta con pesci multiformi su fondo azzurro.
Ad Ostia, oltre a quelli privati, furono costruiti tre complessi per iniziativa del
governo centrale. Il primo, promosso da Traiano, fu localizzato accanto alla
spiaggia: non vaste, le cosiddette ‘Terme di Porta Marina’ si presentavano con
palestra cinta da un portico triplice che consentiva l’accesso laterale al
frigidarium. Questa sala cruciforme si affacciava all’inverso sulla palestra con
il fronte convesso della sua vasca maggiore, per poi consentire di procedere –
mediante percorsi alquanto intricati, forse per non disperdere calore – ai locali
tepidi e caldi pavimentati da mosaici raffiguranti creature e divinità marine.
Ercolano terme del foro Ostia terme di Nettuno
Il secondo complesso, le cosiddette ‘Terme di Nettuno’, fu iniziato nel 134 d.C. da Adriano
e terminato dal successore Antonino Pio: impostato su pianta quadrata estesa quanto un
intero isolato, presentava il vestibolo all’interno di un portico con botteghe per poi
accedere a un’ampia sala posta trasversalmente, dalla quale tre porte davano il passo al
frigidarium dotato di una coppia di vasche, la maggiore delle quali schermata da colonne
di genere corinzio con fusti di granito. Da qui il percorso igienico-terapeutico assiale
proseguiva attraverso tepidaria sino al calidarium con tre vasche; accanto, secondo l’uso
ellenistico, si estendeva la palestra dotata di proprio santuario. Se le seconde terme
ostiensi non potevano competere per estensione e imponenza con le traianee di poco
precedenti e nemmeno realizzare le ‘imperiali’ simmetrie, essa si rifecero nell’eleganza
degli apparati musivi, una continua festa acquatica di tritoni, nereidi, creature marine su
cui regnavano Nettuno e Anfitrite.
Le cosiddette ‘Terme del Foro’, le più estese e complesse della città dovute alla generosità
di un certo M. Gavio Massimo prefetto del praetorium di Antonino Pio, furono costruite
intorno al 160 d.C. facendo tesoro dell’esempio delle precedenti ma superandole nel lusso
e traendo inedite suggestioni formali dalla differenziazione tra ambienti freddi e ambienti
tiepidi e caldi: i primi obbedienti a una sostanziale simmetria, i secondi accostati in serie
con i loro volumi di varia forma. Un comune vestibolo inziale conduceva a un blocco
parallelepipedo centrato sul frigidarium voltato a crociera, delimitato da transenne di
colonne di marmo cipollino e da vasche inserite in due opposte esedre; ma il vestibolo
consentiva anche il passaggio diretto alla serie di vani in successione, contigua e parallela
al primo blocco, di solarium, sudatorium, tepidaria e calidarium di piante rispettivamente
ottagona, ellittica, rettangola absidata, quadrata arricchita da tre esedre con vasche,
ambienti tutti dotati di finestre vetrate sul fronte meridionale mistilineo e trasparente.
L’andamento ondulato di quest’ultimo si affacciava alla palestra trapezoidale cinta sugli
altri lati da un portico con botteghe sul retro riproponendo, pur nell’irregolarità
planimetrica, l’abbinamento consueto nella tradizione ellenistica.
Terme del foro
Quando – con quale frequenza e in quali municipi o colonie della penisola italica –
abbandonando l’impianto in linea, si iniziò a seguire il modello ‘imperiale’ simmetrico rispetto
all’asse frigidarium-tepidarium-calidarium, non è possibile stabilire a causa degli scavi e dei
relativi studi incompleti, frammentari o inesistenti, anche se qualche indizio è a favore, in alcuni
luoghi, dell’affermarsi di un tal orientamento verso gli inizi del II secolo d.C., in età adrianea e
antoniniana. Le terme costruite a Volterra nel II secolo d.C., dietro la scena e all’interno del
portico del teatro, seguirono, in minor scala, la successione lungo uno stesso asse di simmetria
di un vasto apodytérium, di un frigidarium con tre absidi simmetriche, di un ambiente di
passaggio con pianta a forcipe, di un tepidarium quadrato e di un calidarium con abside
terminale uniti lateralmente da un comune laconicum circolare. Gli impianti termali assai simili
di Chieti e di Firenze rafforzano la congettura temporale.
Al di là delle Alpi, nel terzo quarto del I sec. d.C. i balnea di Saint Remy ripetono lo schema
pompeiano nella sua prima fase: apodytérium, tepidarium, calidarium absidato lungo una
palestra dotata di natatio; l’eccezionale conservazione del praefurnium, nonché del condotto
del calore con le suspensurae, costituiscono il pregio maggiore di questo piccolo stabilimento.
In Spagna, a Los Arcos, invece, tra il I e il II sec. d.C. furono costruiti ben due complessi termali
che, a imitazione delle terme ‘imperiali’, si presentavano con disposizione simmetrica e aspetto
magniloquente. Uno di essi accoglieva con un vestibolo semicircolare porticato che immetteva
all’estesa natatio rettangolare a terminazione absidata alla quale erano affiancate due identiche
palestre, una per lato, con il proprio quadruplice portico. Esse soltanto consentivano la
prosecuzione del percorso, introducendo ciascuna, in successione, a un apodytérium e a un
tepidarium convergenti all’unico calidarium rettangolare tornato in asse con la natatio se pur
circondato da ambienti di varia forma, tra i quali, forse, un laconicum circolare: una variante
originale del modello ‘imperiale’ nella quale il frigidarium non è centrale per una precisa volontà
compositiva e non imposta dalla separazione dei sessi; mentre i pavimenti in opus sectile,
visibili anche nel secondo complesso, attestano, con il lusso e l'eleganza, l’alto livello raggiunto
nella vita urbana della colonia iberica.
Nelle tre Gallie si protrasse a lungo il tipo ‘lineare’; ma in età tardoflavia e traianea iniziano
a comparire disposizioni simmetriche o loro varianti, come nelle terme chiamate Lutetianae
dell’inizio del II sec. d.C. scoperte a Parigi e in quelle degli ultimi anni dello stesso secolo
anch'esse venute alla luce a Parigi nell’area dell'attuale museo di Cluny: di queste ultime si
è conservato il frigidarium cruciforme con vasche laterali comunicanti coperte da volte a
botte impostate su archi e mensole a forma di prora di nave, allusione alla corporazione
dei battellieri della Senna che le finanziò. Intorno, a semicerchio si dispongono numerosi e
vasti ambienti riscaldati a ipocausto.
Pianta delle terme di Chaplieu sec I d.C. e veduta del frigidarium delle terme di Cluny, fine
sec II d.C., Parigi.
Spesso impianti termali furono annessi o dipendenze di santuari legati all’uso
terapeutico di acque calde: come a Champlieu, ove l'impianto risalente al I sec. d.C.
comprendeva vani riscaldati disposti ‘in linea’ con frigidarium e palestra di dimensioni
ridotte lungo l’asse principale; o come a Sanxay, nel cui impianto, costruito nel II sec.
d.C., l'assenza del frigidarium è compensata dal maggior spazio lasciato agli
ambienti destinati ai bagni di vapore e alle immersioni.
Le cosiddette ‘Terme di Santa Barbara’ a Treviri, risalenti alla seconda metà del II
sec. d.C., furono le prime in Occidente paragonabili per qualità dei servizi, per
estensione e distribuzione degli spazi alle terme ‘imperiali’ di Roma. Con la loro
superficie totale, di cui la metà destinata al blocco termale, furono il quadruplo di
quelle di Tito e i vani destinati al ciclo terapeutico di poco inferiori per volume e
superficie alle Traianae. L’impianto treviriano attesta, anche, la completa
assimilazione delle simmetrie in uso nell'Urbe: in singolare coincidenza con la
tradizione ellenistica precede il complesso un’unica estesa palestra rettangolare
entro la quale trova posto la natatio addossata a un magniloquente ninfeo con
nicchie rotonde e rettangolari; quest’ultimo costituisce la facciata esterna del
frigidarium rettangolare posto trasversalmente e generato dalla serie di tre campate
quadrate modulari scandite da colonne e, probabilmente, coperte da volte a
crociera. Lungo l’asse centrale seguiva il tepidarium cruciforme e quindi il calidarium,
dotato lungo il suo perimetro di vasche e praefurnia intermedi, emergente con tutto il
suo corpo da insiemi laterali simmetrici di tepidaria, sudatoria e vasche riscaldate
che offrivano itinerari alternativi a quello principale. In considerazione del clima, i
praefurnia furono numerosi e ben distribuiti, mentre le sale calde furono
prevalentemente chiuse verso l’esterno ma ricche internamente di edicole cieche
sovrapposte in più ranghi come nel calidarium centrale.
Nelle terre britanniche meridionali, centri né molto ricchi né molto importanti si
dotarono di terme che, pur di modeste dimensioni, sin dalla fine del I sec. d.C.
adottarono l’impianto distributivo assiale e simmetrico: tali (e simili a quelle galliche di
Champlieu) furono le terme di Silchester nonché quelle di Wroxeter interne a un
recinto quadrangolare, mentre nel II sec. d.C. a Leicester, ai lati della spina centrale,
cioè della sequenza frigidarium, tepidarium, calidarium, si trovava una duplicazione
delle sale calde con conseguente creazione di un prefurnium separato. Le terme di
Bath costruite, agli inizi del I secolo d.C., furono del tutto particolari poiché, non
alimentate esclusivamente da condotti artificiali, sfruttarono abbondantemente le
acque calde e terapeutiche della sorgente naturale che affiorava accanto, entro il
témenos del santuario di Minerva Sulis. Come fu semplice l’impianto idrico così la
disposizione planimetrica fu quasi elementare: fondata su due piscine in serie
collegate di acqua calda e tiepida, la maggiore allineata al lato lungo del santuario,
la minore posta trasversalmente di testata. L’una e l’altra erano accompagnate da
larghi deambulatori sviluppati oltre le file dei pilastri che le delimitavano i quali,
insieme alle murature esterne movimentate in esedre, sostenevano il primitivo tetto
ligneo ad ampie luci e capriate. Tra III e IV secolo d.C., allorché la sorgente fu
incorporata alle terme come annesso, i supporti verticali furono notevolmente
rafforzati per sostenere le audaci volte a botte che, in sostituzione delle precedenti
travature, coprirono vasche e deambulatori contraffortandosi reciprocamente. Sulla
testata sinistra, intanto, fu organizzato un secondo corpo annesso con il frigidarium
sino ad allora assente – una sala quadrata con bacino rotondo di acqua fredda al
centro – un laconicum e altre stanze igienico-terapeutiche particolari a disposizione
per coloro che avessero desiderato arricchire il percorso.
Quando Costantino – succeduto nel 306 d.C. al padre Costanzo come Augusto di
Occidente – confermò Treviri sua capitale decise anche di far erigere un nuovo
edificio termale affacciato sul foro, opposto al palatium di cui proseguiva l’asse
mediano. Rigorosamente simmetriche, articolate in serrati volumi connessi,
abbracciate da un perimetro mistilineo rettangolo, le nuove terme risultarono un
trionfo di esedre semicircolari, di sfondamenti e di emergenze, di schermi colonnati,
di semicupole e di crociere. Un portico centrale con doppio schermo di colonne,
inserito entro un portico di minore altezza spezzato in due ali, si apriva verso un
altissimo ninfeo semicircolare scavato da nicchie, ornato da edicole e coperto da
una semicupola estradossata, il quale, erigendosi a barriera, costringeva a entrate
eccentriche nella vasta palestra retrostante che, cinta da un quadruplice portico, si
estendeva, secondo la tradizione ellenistico-microasiatica, dinnanzi al corpo termale.
Con riscontro opposto al ninfeo, rispondeva un semicilindro dal tetto conico che
conteneva l’esedra con vasca transennata e incavata da nicchie al centro del lato
esterno dell’aula basilicale del frigidarium: a questa si accedeva, come dal portico si
accedeva alla palestra, mediante due vestiboli laterali e dal suo spazio si poteva
intraprendere tanto il percorso assiale attraverso il tepidarium circolare seguito da un
vano quadrato a due absidi occupate da vasche, quanto i due percorsi laterali,
attraversando tepidaria e sudatoria minori in analoga maniera. Si giungeva, pertanto,
al calidarium conclusivo, rettangolare con vasche inserite entro gli sfondamenti delle
pareti sostituite da pilastri o da due registri di finestroni mentre si affiancavano agli
angoli esterni praefurnia e torri coclee scalari. La muratura era composta da corsi
alternati di mattoni e di pietre calcaree squadrate, l’opus listatum o vittatum – quasi
una sigla costantiniana – capace di creare motivi cromatici mai sovrapposti alle verità
strutturali.
Treviri, grandi terme imperiali IV sec d. C
Ad Arles Costantino fondò un altro complesso termale al termine del cardo massimo
presso l’ansa del Rodano. DI impianto rigorosamente simmetrico e assiale, coeve a quelle
di Treviri e tra le più notevoli delle Gallie, le terme, precedute da un ingresso
monumentale, iniziano con una estesa palestra affiancata da altri cortili, da un lato
confinante con la residenza imperiale e dall'altro direttamente comunicante con un lungo
frigidarium trasversale a terminazioni absidate, per proseguire quindi con un tepidarium
intermedio da cui si passa, dopo aver deviato attraverso sudatoria contigui e successivi di
ambo i lati, al calidarium centrale – ritornato nuovamente sull’asse – con vasche laterali e
una grande abside semicircolare coperta a semicupola e aggettante dal corpo massiccio
dell’edificio, costruito anch’esso a corsi paralleli di mattoni e piccoli blocchi calcarei
alternati.
Anche nella Milano costantiniana fu creato un complesso termale di cui Ausonio celebrò la
grandezza 14) e del quale si sono individuati i resti di una palestra con quadruplice
portico e di un frigidarium (vi sorge l’attuale Chiesa di San Pasquino) con abside
semicircolare insinuata nel lato sud della stessa.
Le terme germaniche, narbonensi o transpadane – simili a un'ultima superba fiammata –
segnarono di fatto la fine in Occidente dei grandi cantieri imperiali e l'inizio della
progressiva decadenza delle province, prima vitali, a sinistra del Reno e del Rodano e a
destra dell'Adriatico.
6. Terme in Asia Minore, nel Vicino Oriente e in Africa
Nell’Asia Minore ellenistica la tradizione dei bagni era strettamente connessa alle
attività atletiche e all’uso altrettanto radicato degli incontri sociali e delle attività
culturali che venivano praticate e avevano luogo nei ginnasi, i quali certamente
dominavano per importanza ed estensione i dispositivi balneari: gli uni e gli altri,
tuttavia, planimetricamente disposti e volumetricamente composti in base a criteri di
esibita simmetria. Il trinomio fu rispettato all’indomani della conquista romana e, a
maggior ragione, con la conseguente successiva diffusione nelle metropoli orientali
dei modelli elaborati durante l’età dell’Impero.
Le prime terme di Mileto furono fatte costruire fra il 47 e il 52 d.C., durante il
principato di Claudio, dall’allora procuratore dell’Asia Gneo V. Capitone proprio
accanto al precedente ginnasio ellenistico a cui le univa un portico continuo con
botteghe. A ridosso di un tratto di quest’ultimo si sviluppava perpendicolarmente il
complesso termale: iniziava con un cortile quadrato adibito a palestra e chiuso su tre
lati da portico e loggiato soprastante entrambi di colonne di genere corinzio, mentre il
quarto lato si trasformava in esedra a segmento di cerchio abbracciando una natatio.
Sulla prosecuzione dell’asse centrale del cortile si disponevano tre ambienti di pianta
quadrangolare, due dei quali, dotati di nicchie occupate da vasche, costituivano
quasi sicuramente il tepidarium e il calidarium contigui ad apodytéria, a praefurnia, a
ulteriori vasche e a un laconicum circolare. Nel secolo successivo, dedicandolo alla
benefattrice Faustina Minore moglie di Marco Aurelio, i Milesi eressero su analogo
modello – insieme compatto di vani e di adiacente vastissima palestra porticata – un
secondo complesso termale: unico edificio ruotato di 45° rispetto alla scacchiera
degli isolati (disegnata dal ‘mitico’ Ippodàmo) di cui restano in discreto stato di
conservazione parti dei muri altissimi del calidarium.
le terme di Faustina a Mileto il calidarium II sec dC.
A realizzare una più stretta, coerente integrazione tra palestra e impianto termale furono le tre
‘terme-ginnasio’ costruite a Efeso. Quella detta ‘del Porto’ a lato della via Arcadiana che
conduceva allo scalo, fu costruita durante il principato di Domiziano e rivestita di marmo durante
quello di Adriano: il primo spazio fu l’immensa palestra quadrata, forse il più vasto spazio pubblico
dell’intera città, cinta sui quattro lati da una triplice fila di colonne. In prosecuzione del suo asse
est-ovest, superato uno slargo di interruzione del colonnato, si dispone, simmetrico, l’edificio
termale. Esso racchiudeva una seconda palestra minore ugualmente quadrata cinta da un
quadruplice portico ai lati della quale, dietro un ulteriore schermo di colonne, si aprivano per la
prima volta due ambienti nuovi, propri della provincia microasiatica, le cosiddette ‘sale marmoree’:
ampi vani di passaggio di intensa e costante affluenza per lo più di pianta rettangolare – di cui
risulta difficile supporre la copertura – legati certamente al culto imperiale poiché, tra le numerose
nicchie ed edicole che ornavano le pareti interne, emergeva un’abside in posizione centrale
destinata ad accogliere la statua dell’imperatore. Il frigidarium rettangolare, tripartito, voltato a
crociere, simmetrico all’asse, comunicava lateralmente con due vani di pari larghezza: una coppia
di basilicae thermales, luoghi di incontri occasionali e di attività culturali organizzate, mentre
adiacente e parallela alla prima terna di spazi si disponeva una seconda serie di numerosi
ambienti divisi da setti paralleli all’asse, tra i quali emergeva il corpo parallelepipedo centrale del
calidarium aggettante con decisione (unico caso in Asia Minore) al centro del muro diritto terminale
del complesso.
Nello stesso centro della Ionia Settentrionale entro il II sec. d.C. si aggiunsero altre terme-ginnasio,
nelle quali la palestra perse progressivamente spazio e primato a favore del nucleo centrale. Nelle
cosiddette ‘Terme di Vedio’, costruite durante il principato di Antonino Pio, si succedono, entro un
perimetro unitario rettangolare senza significativi corpi emergenti, una palestra porticata sulla
quale si affaccia una ‘Sala marmorea’, un amplissimo spazio basilicale e la triade degli spazi
terapeutici anticipati da una vasca allungata e circondati da annessi entro il preciso confine
geometrico. Nelle cosiddette ‘Terme orientali’, mascherate da una serie di botteghe, la palestra,
affiancata dalla ‘Sala marmorea’, si restringe ancor più aprendo nel suo portico porte laterali che
immettono in una poderosa galleria – avvolgente il corpo termale – percorrendo la quale si
raggiungevano, sulla parte opposta, le entrate alla consueta successione di ambienti preceduta da
una contenuta natatio allungata.
La metà occidentale del centro civico dell'antica Sardi era occupata dalle terme e da
vari impianti sportivi: lo spazio di connessione dei due complessi era un’imponente
‘sala di marmo’ del tempo dei Severi, recentemente ricostruita (con eccessiva
fantasia) senz’alcuna copertura, della quale è difficile sia immaginare la forma che
provare la stessa esistenza. Cinta da alte mura, la sala presenta due registri di
edicole trabeate, ritmate in sequenze sfalsate o ‘a scacchiera’, come nel fronte della
Biblioteca di Efeso, per cui le trabeazioni di quelle inferiori costituiscono l’appoggio
delle colonne esterne di quelle superiori.
La città di Alessandria Troade in Asia Minore (o sul luogo dell’antica Troia) fu
amministrata durante il principato di Adriano da Erode Attico che nel 135 d.C. avviò
la costruzione delle colossali terme urbane: oggi quasi irriconoscibili per il continuo
asporto dei materiali, esse riproponevano la tradizione ellenistica con immensa
palestra porticata dinnanzi al complesso termale vero e proprio, ritenuto di impianto
spaziale assiale e simmetrico di cui è difficile, però, accertare il preciso andamento.
Alta sulle valli del Lycos e del Meandro, la città di Hierapolis ricca di sorgenti di
acque calde calcaree, sacra per gli Elleni e ricercata stazione termale dai
Romani, fu arricchita nel II secolo d.C. da un imponente impianto dotato di una
estesa palestra scoperta associata a un’ampia sala coperta ugualmente
destinata alle attività sportive, l’una e l’altra opposte – secondo la tradizione
ellenistica – alla serie degli ambienti contigui di frigidarium, tepidarium e
calidarium, rivestiti di marmo bianco, come di marmo erano due grandi sale
attigue voltate riservate esclusivamente all’imperatore.
Ad Afrodisia le Terme furono fatte erigere da Adriano direttamente sul lato
occidentale del portico di genere ionico di Tiberio: ideate secondo un criterio
alternativo all’impianto simmetrico del modello ‘imperiale’, di esse sono
riconoscibili l’apodytérium coperto che fungeva da ingresso, il tepidarium posto
a meridione da cui si risaliva al calidarium, un vastissimo salone affiancato da
due gallerie. Un secondo complesso termale fu costruito alla fine del II o agli
inizi del III secolo d.C. accanto al teatro con accesso dal lato meridionale della
piazza del mercato.
I resti delle terme di Side, risalenti al V secolo d.C., dopo lo scavo e il restauro
mostrano di appartenere a un complesso imponente eretto, al termine della via
colonnata, dinnanzi al teatro e alla connessa agorà: esso era costituito da un
ampio frigidarium scoperto con piscina circolare e pavimento marmoreo che
serviva anche da principale accesso, era affiancato da un lato dall’apodytérium
e dall’altro – pare disposti in linea sull’asse mediano – da un sudatorium-
laconicum, un tepidarium e un calidarium con numerose vasche.
Hierapolis Afrodisia e Side terme
romane
Lungo la via porticata di Palmira, oltre lo snodo segnato dall'arco maestoso, quattro
colonne monolitiche di granito rosa egiziano di imponente altezza indicano con il loro
risalto l’entrata delle terme fatte restaurae da Diocleziano: dell’estensione dell’edificio
suggerita da tale propileo restano parziali testimoni il disegno del suo tracciato e le rovine
della natatio centrale, circondata un tempo da un colonnato di genere corinzio.
Anche le terme di Apamea sull’Oronte fatte erigere da Marco Aurelio si trovavano lungo la
via colonnata che attraversava da parte a parte la città, ma di questo impianto, costruito
immenso, non restano che l’area e il segno dell’entrata.

I cittadini e i coloni dell’Africa godettero di balnea e terme in numero superiore a quello


riscontrabile in Occidente (Roma esclusa, naturalmente): alla base di un tal fatto furono,
insieme, il clima, la coincidenza con precedenti usi e costumi locali nonché il desiderio di
connotare l’alto livello di prosperità e di cultura urbana raggiunto in tempo relativamente
breve dalle popolazioni.
Le grandi terme di Leptis (forse le prime ‘imperiali’ dell’Africa) furono progettate e iniziate
nel 126-127 d.C. al tempo di Adriano (anche se i resti che oggi vediamo risalgono all’età di
Commodo e di Settimio Severo): gli architetti riuscirono con particolare abilità a rispettare
l’orientamento migliore nord-sud per l’impianto, inserito al contempo in un’area difficile
della città nella quale la via parallela al torrente piegava in direzione del porto. Nel punto di
svolta infatti, con traslazione lungo il fronte del nucleo ‘terapeutico’, siaffacciava con il
principale accesso uno dei due emicicli terminali di una lunga palestra porticata nel cui
lato lungo settentrionale poteva innestarsi, eccentrico ma perfettamente perpendicolare e
senza nulla cedere in rigore, l’asse cardine del sistema natatio-frigidarium-tepidarium-
calidarium, con gli interi suoi numerosi annessi simmetrici laterali – apodytéria e sale varie
– che si proiettava a meridione ricco di vasche inserite nelle esedre semicircolari e
rettangolari addossate alle ampie finestre vetrate dell’ultimo corpo avanzato.
Palmira, Siria, quattro colonne di granito
segnavano l’ingresso alle terme di
Diocleziano
Leptis Magna, Libia, terme di Adriano
Seconde solo a quelle della capitale dell’Impero e in assoluto adeguate all’attributo di
‘imperiali’, furono le terme di Cartagine: costruite durante il principato di Antonino Pio
tra 145 e 160 d.C., dopo l’entrata in funzione del grande acquedotto di Zaghouan
iniziato da Adriano, esse trovarono posto presso la riva del mare, sviluppate secondo la
direzione del cardo massimo. I pochi isolati disponibili finirono per agire a scapito
dell’estensione ma a favore della compattezza degli spazi: la tradizionale sequenza di
natatio, frigidarium, tepidarium e calidarium si sviluppò con asse parallelo alla
direzione delle entrate e, in perfetta sintonia con la consuetudine, gli spazi terapeutici
assunsero piante rettangolari e centriche separati da transenne e tuttavia collegati da
trasparenze visive, coperti da audacissime crociere e illuminati da alte finestre o
cupole a spicchi o innervate terminate da oculari. Nel contempo si delineò con forza un
secondo asse opposto lungo il quale si allinearono in stretta sequenza ginnasi alla
greca circondati da spazi chiusi per gli esercizi e il riposo, mentre l’ottagono cupolato
del calidarium cessò di aggettare autonomamente, compreso e serrato tra ottagoni
minori di padiglioni tiepidi o riscaldati, disposti a raggiera per formare un unico insieme
di ampio fronte ad arco, movimentato da rientranze e pilastri di nervatura. Lastre di
marmo numidico rivestivano gran parte del calidarium e otto colonne monolitiche di
granito grigio sormontate da giganteschi capitelli costituivano le imposte delle crociere
del frigidarium. Parte al di sotto di un podio e parte nei sotterranei, si celavano le
caldaie per l’ipocausto e si inseguivano labirinti di pilastri di sostegno.
Quasi pari alle cartaginesi dovettero essere le terme ‘imperiali’ di Utica, delle quali
(come dell'intera città) resta ben poco. Al termine di una larga via che giungeva dal
Foro principale, le terme furono rigorosamente simmetriche e assiali, costituite da una
estesa natatio con palestre affiancate disposte trasversalmente all’asse, dal consueto
tepidarium intermedio e da un calidarium emergente a conclusione del percorso.
Fedeli al rigore della cadenza assiale dei percorsi e degli atti, pur senza rinunciare a soggettive varianti,
altre terme sorsero tra la fine del II e gli inizi del III secolo d.C. in altre importanti o secondarie città. A
Mactar, il centro numidico divenuto colonia con Marco Aurelio, le terme orientali (ancor oggi assai ben
conservate) furono erette in età severiana: la convenzionale serie assiale fu concepita con fronte della
natatio arretrato e, in parallelo, con corpo del calidarium avanzato, frigidarium centrale a unico vano
voltato a unica grande crociera; i corpi laterali, simmetrici e più consistenti, nei quali si aprirono gli
ingressi, furono composti da portici triplici voltati a crociere che cingevano palestre, separati mediante
transenne di quattro pilastri da ampie esedre semicircolari dietro alle quali si articolavano vari annessi.
Con scelte opposte, le terme meridionali di Gemila furono sviluppate, quasi spinte in profondità con
asse perpendicolare al cardo massimo iniziando con portico di facciata, vestibolo, atrio a cielo aperto,
natatio, frigidarium quadrato e coperto da audace crociera, ulteriori spazi laterali riscaldati, minimo
tepidarium, calidarium affiancato da esedre in aggetto con vasche. Più equilibrate, le terme
settentrionali di Timgad replicarono la sequenza assiale di Gemila (pressoché uguali le piante della
natatio e del calidarium) associandola alla consistenza dei corpi laterali con accessi, vestiboli e spazi
aperti. Caratterizzate da un calidarium energicamente aggettante e absidato, le terme occidentali di
Cesarea di Mauritania presentano, come quelle cartaginesi, l’asse trasversale molto allungato con
molteplici annessi in linea a fianco della natatio, del tepidarium e del frigidarium quadrato con unica
crociera, come quadrato e ad unica crociera era il calidarium.
Le città meno ricche non potendo dotarsi di terme sul modello ‘imperiale’ elaborarono piante che, per
compattarsi in minor spazio, solo in parte rispettarono la simmetria assiale e per tal motivo sono state di
recente definite semisimmetriche (così Pierre Gros): tali furono, ad esempio, le grandi terme di El Jem o
di Bou Ghrara e le terme di considerevole ampiezza offerte in età Severiana da Iulia Memmia alla
propria città di Bulla Regia. In quest’ultime un portico di archi e pilastri, affacciato su di una delle vie
principali, introduceva a un vestibolo e quindi al corpo trasversale del frigidarium centrale con natatio
affiancato di ambo i lati da due lunghe palestre gemelle tornate parallele all’asse e nel rispetto della più
ortodossa simmetria; simmetria che subito dopo si infrangeva nella contrapposizione di destrictarium e
laconicum da un lato dell’asse e di calidarium con piscina semicircolare dall’altro.
In tutte le terme l'acqua fu salute, igiene e benessere per i corpi: ma per portare nel cuore delle città
l’elemento indispensabile alla vita e per il piacere che esso poteva nel contempo procurare alla vista e
all'udito i Romani crearono altri apparati che molto ebbero in comune con alcuni tipi di santuari e con i
corpi scenici dei teatri.
Presso i Romani quest’unione poetica tra una grotta naturale da cui
scaturiscono sorgenti e perciò sacra e cara alle ninfe e un’umida e oscura
camera artificiale a volta percorsa od occupata dalle acque è documentata
da una fontana a camera voltata e stuccata sulla via Appia: alimentata da
una diramazione del fiume Almone, essa venne universalmente considerata
il santuario della ninfa Egeria – rappresentata in atto di versare l’acqua – e
quindi il suo Nymphaeum, collegato al tempio e al bosco sacro delle
Camene (identificate con le Muse), pur essendo probabilmente solo un
episodio architettonico del giardino di una residenza suburbana del
ricchissimo Erode Attico. Per quanto varie, tutte le interpretazioni della
parola concordano dunque sul fatto che il ‘ninfeo’ avesse un carattere sacro
legato al culto delle ninfe: a partire dal II sec. d.C., il culto originario fu
connesso al culto imperiale come attesta la dedica a Traiano di una fontana
monumentale ritrovata a Souweida in Siria. Diffondendosi con varietà di tipi
nelle province, particolarmente in quelle orientali, il ninfeo serbò due
caratteristiche costanti: la dimensione maestosa e la decorazione guidata
da programmi celebrativi ufficiali. A differenza dei Greci, che tutt’al più
protessero le fonti con un portico di colonne, i Romani esaltarono lo
sgorgare dell’acqua creando una più elaborata architettura ed effetti
sorprendenti utilizzando le conoscenze della idrodinamica di Archimede e
di Erone, volgarizzate e semplificate anche da Vitruvio.
Ninfeo di Egeria via Appia, Roma
Presso i Romani quest’unione poetica tra una grotta naturale da cui scaturiscono
sorgenti e perciò sacra e cara alle ninfe e un’umida e oscura camera artificiale a
volta percorsa od occupata dalle acque è documentata da una fontana a camera
voltata e stuccata sulla via Appia: alimentata da una diramazione del fiume
Almone, essa venne universalmente considerata il santuario della ninfa Egeria –
rappresentata in atto di versare l’acqua – e quindi il suo Nymphaeum, collegato
al tempio e al bosco sacro delle Camene (identificate con le Muse), pur essendo
probabilmente solo un episodio architettonico del giardino di una residenza
suburbana del ricchissimo Erode Attico. Per quanto varie, tutte le interpretazioni
della parola concordano dunque sul fatto che il ‘ninfeo’ avesse un carattere sacro
legato al culto delle ninfe: a partire dal II sec. d.C., il culto originario fu connesso
al culto imperiale come attesta la dedica a Traiano di una fontana monumentale
ritrovata a Souweida in Siria. Diffondendosi con varietà di tipi nelle province,
particolarmente in quelle orientali, il ninfeo serbò due caratteristiche costanti: la
dimensione maestosa e la decorazione guidata da programmi celebrativi ufficiali.
A differenza dei Greci, che tutt’al più protessero le fonti con un portico di
colonne, i Romani esaltarono lo sgorgare dell’acqua creando una più elaborata
architettura ed effetti sorprendenti utilizzando le conoscenze della idrodinamica
di Archimede e di Erone, volgarizzate e semplificate anche da Vitruvio.
7. Ninfei di Roma

Nel corso della sua lunga vita Roma antica poteva davvero essere considerata la città delle acque
che, condotte da più luoghi, erano ovunque presenti necessarie alla salute e all’igiene ma anche ai
piaceri degli occhi e delle orecchie: l’acqua venne esibita come spettacolo o valorizzata quale
strumento di piacere nella varietà delle forme dei getti e degli zampilli, nella sua continua e mai
identica sonorità, creatrice e suggeritrice di frescura aumentata dalla lucentezza dei marmi su cui
scorreva. Con il suo duplice fine di unire il necessario al dilettevole la fontana pubblica
monumentale si diffuse in tutte le città dell’Impero se non più almeno quanto le terme.
L’apporto idrico che la capitale esigeva superava le necessità di qualsiasi altro insediamento
umano: secondo un elenco arido ma certamente attendibile di Plinio, Agrippa fece costruire ben
settecento depositi, cinquecento edifici di distribuzione dell’acqua, centrotrenta serbatoi, ornati da
trecen trecento statue di marmo o di bronzo e da quattrocento colonne marmoree; 15) similmente i
Cataloghi Regionari (nel IV secolo d.C.) registrano nell’Urbe più di milletrecento serbatoi di raccolta
e distribuzione e una quindicina di maestose fontane.
Varie furono le parti costitutive di quest'universo idrico a uso urbano: lacus individuava il bacino di
raccolta alimentato da una cisterna o piscina, oppure da una torre-serbatoio o castellum aquae;
fons designava, di norma, una sorgente naturale; epitonium era chiamata la cannula di erogazione
del getto ritorta a collo di cigno ereditata dalla tradizione alessandrina; silanus o silanum, termine
sempre più corrente dal I sec. d.C. in poi, indicava una fuoruscita dell’acqua dalla bocca di un
mascherone; munus designava un edificio idrico di uso collettivo fornito a una comunità da un
pubblico magistrato per obbligo del suo ufficio; salientes fu il plurale usato dagli specialisti, il più
celebre dei quali fu Frontino che scrive alla fine del I sec. d.C., per designare i getti di acqua
zampillante uscenti da un condotto artificiale. Nymphaeum costituisce tra tutti il termine più
ambiguo: Frontino non ne fa uso preferendogli quello di munus, altri con esso intendono designare
una grotta o specus sacra alle ninfe, divinità delle acque fluenti; Plinio denomina ‘Ninfeo’
probabilmente la fonte Peirène nell’agorà di Corinto 16) che sorta, secondo il mito, dal pianto di
una madre, secondo Pausania era “ornata di marmo bianco e aveva ambienti in forma di grotte,
dalle quali sgorgava un’acqua dolce da bere” 17).
Presso i Romani quest’unione poetica tra una grotta naturale da cui scaturiscono
sorgenti e perciò sacra e cara alle ninfe e un’umida e oscura camera artificiale a volta
percorsa od occupata dalle acque è documentata da una fontana a camera voltata e
stuccata sulla via Appia: alimentata da una diramazione del fiume Almone, essa
venne universalmente considerata il santuario della ninfa Egeria – rappresentata in
atto di versare l’acqua – e quindi il suo Nymphaeum, collegato al tempio e al bosco
sacro delle Camene (identificate con le Muse), pur essendo probabilmente solo un
episodio architettonico del giardino di una residenza suburbana del ricchissimo
Erode Attico. Per quanto varie, tutte le interpretazioni della parola concordano
dunque sul fatto che il ‘ninfeo’ avesse un carattere sacro legato al culto delle ninfe: a
partire dal II sec. d.C., il culto originario fu connesso al culto imperiale come attesta la
dedica a Traiano di una fontana monumentale ritrovata a Souweida in Siria.
Diffondendosi con varietà di tipi nelle province, particolarmente in quelle orientali, il
ninfeo serbò due caratteristiche costanti: la dimensione maestosa e la decorazione
guidata da programmi celebrativi ufficiali. A differenza dei Greci, che tutt’al più
protessero le fonti con un portico di colonne, i Romani esaltarono lo sgorgare
dell’acqua creando una più elaborata architettura ed effetti sorprendenti utilizzando le
conoscenze della idrodinamica di Archimede e di Erone, volgarizzate e semplificate
anche da Vitruvio.
All’inizio del XX secolo della nostra era si riuscì a individuare il principale
approvvigionamento idrico di Roma repubblicana nel Lacus Iuturnae alle pendici del
Palatino tra il tempio di Vesta e quello dei Dioscuri: questo lacus forense era un
bacino di raccolta in forma di vasca quadrata, risalente forse al 117 a.C., al cui
centro, posate su di una base in opus caementicium, sorgevano le statue dei
Dioscuri (ritrovate in frammenti nel bacino) ritenute opere di gusto anticheggiante
uscite da botteghe ellenistiche attive a Roma nel II sec. a.C.
Roma, Lacus Juturnae e sculture dei Dioscuri che
l’adornavano
La costruzione dei primi acquedotti sul finire dal 312 a.C. aveva
incoraggiato e comportato la edificazione dei castelli di acqua e delle
grandi fontane al loro sbocco in città: di tali edifici, però, nulla si è
conservato se non qualche ricordo letterario come quello, ad esempio, della
‘Fontana delle Ninfe’ alla base del tempio di Venere Genitrice nel foro di
Cesare, alimentata dagli acquedotti delle Aquae Marcia e Tepula ma
distrutta in seguito alla costruzione del foro di Traiano.
Nel corso dei lavori ottocenteschi per il ripristino di un tratto della via
Claudia affiorarono le sostruzioni del Claudianum sul Celio: il settore
orientale risultò articolato da nicchie di pianta rettangolare e semicircolare
alternate le quali formavano insieme lo sfondo di un’amplissima fontana
monumentale protetta da un portico e alimentata dall’acquedotto dell’Aqua
Claudia. Nulla è rimasto della decorazione marmorea che rivestiva la lunga
facciata di mattoni, ma quanto sopravvive comunica ugualmente
l’importanza e il ruolo scenografico attribuiti a sculture e architetture per
l’acqua dalla Roma neroniana.
I due esempi, il lacus e il fronte claudiano, pur nella loro distanza temporale,
sono le uniche evidenze archeologiche che consentano di suddividere le
grandi fontane in due tipi: quello a bacino lacustre con gruppo scultoreo
centrale o colonnato lungo il bordo e quello a lunga vasca con sfondo di
muro pieno articolato da nicchie e ornato da colonne, statue e salientes.
Roma, Claudianum sostruzioni, meta sudans distrutta nel 1933, ricostruzione
Tra il Colosseo e l'arco di Costantino sono visibili i resti della Meta sudans: un
corpo quasi conico, parzialmente rivestito di marmo, da cui l’acqua scaturiva
attraverso numerose e brevi cannelle – con un effetto che ne suggerì il nome – e
debordava balzando a cascata tra i gradini della base raccogliendosi e
acquietandosi infine nell’ampio bacino da cui il tutto nasceva. Rappresentata
forse sommariamente in una moneta dell’imperatore Tito, la Meta comunque non
è databile oltre il principato di Domiziano (81-94 d.C.) e, sebbene le
testimonianze letterarie rammentino molte fontane ricche di colonne ornamentali
poste a segnare l’incrocio di due o più strade, l’aniconico monumento
domizianeo svolgeva sicuramente un ruolo eccezionale, posto com’era ai confini
fra cinque regioni della ripartizione amministrativa augustea dimostrando, con
visibile evidenza, la benefica attenzione per il maggior numero possibile di
cittadini da parte della nuova dinastia.
Facendo mente locale alle immense quantità di acqua da distribuire ai popolosi
quartieri della capitale, per non parlare delle Terme da alimentare e dei giardini
da irrigare, contando i punti di distribuzione ricordati dai Cataloghi Regionari e
dalle fonti letterarie ma, per contro, volgendo lo sguardo alle rare ed enigmatiche
vestigia di fontane superstiti è necessario concludere che molte centinaia di tali
realizzazioni furono con sistematicità distrutte alla fine dell’Impero – o in
precedenti circostanze – e pertanto la loro storia può basarsi solo su pochi
frammenti. Ancora una volta Roma si dimostrava un instancabile laboratorio di
elaborazione di varianti che si diffondevano nelle province e che venivano poi
accolte nuovamente nell’Urbe in forme rielaborate e ulteriormente arricchite.
In una lastra della Forma Urbis severiana appaiono la pianta incompleta di un edificio a esedre
transennate da colonne libere e subito al di sotto, a grandi lettere maiuscole, il termine completo
Septizodium che per anni ha costituito un enigma oggi finalmente risolto (grazie a Ernst Maas e a
Salvatore Settis). Questo nome comune attribuito a un edificio appartiene indubbiamente al vocabolario
astrologico indicando le immagini rimpicciolite, in greco per l’appunto zoidion, dei pianeti sino ad allora
conosciuti: l’abbinamento dell’influsso dei pianeti sul regime delle piogge e quindi con il mondo delle
acque era usuale e non dovrebbe sorprendere che le immagini dei pianeti abitassero una fontana. A
Henchir Tounga, nell’Africa proconsolare, è stato individuato con certezza uno Septizodium costituito
da sette nicchie aperte nel muro del frigidarium di un edificio termale contenenti le statue delle divinità
planetarie senza che fosse né un ninfeo né qualsiasi altro edificio erogatore di acque. DI altra parte un
passo di Ammiano Marcellino assimila il Septizodium romano a un ninfeo 18)e iscrizioni trovate a
Lambesi chiamano un edificio scomparso alternativamente e indifferentemente septizodium o
nymphaeum; infine il ritrovamento in situ di un frammento di statua di divinità fluviale e la figura di una
lupa o leonessa attraversata da una conduttura e posizionata inequivocabilmente nella esedra toglie
ogni dubbio: il septizodium era un colossale ninfeo voluto da Settimio Severo nel 203 d.C. all’angolo
sud-orientale del Palatino, appena dopo l’arrivo all’Urbe della via Appia attraverso Porta Capena nelle
vicinanze dell’Acquedotto Claudio (magari, come scrive malignamente il biografo dell’imperatore, per
impressionare i suoi conterranei africani al momento del loro ingresso a Roma 19). Il ninfeo (quasi m.
100 di lunghezza), simile a un frontescena teatrale, possedeva tre esedre semicircolari ornate su tre
livelli da numerosissime colonne che ne seguivano l’andamento con risvolti laterali e accoglieva statue
dell’imperatore nonché delle divinità planetarie collegate al ciclo delle acque. I disegni quattro-
cinquecenteschi di Francesco di Giorgio, Giuliano da Sangallo, Giovanni Antonio Dosio e di Martin van
Heemskerck nonché le incisioni di Etienne Dupérac e di Vincenzo Scamozzi insistono sul grande
numero di colonne di genere corinzio e composito che si dicono di granito e marmi preziosi, collocate
nel portico e nelle gallerie coperte da soffitti marmorei a lacunari e nel muro di fondo in opus
quadratum di tufo rivestito di marmi policromi, dei quali si trovano ancor oggi frammenti; un’immagine
che può essere arricchita e integrata da quella del coevo ninfeo di Adrianopoli in Tracia rappresentato
sul rovescio di una moneta Severiana (il Septizodium fu praticamente raso al suolo durante il pontificato
di Sisto V coinvolto nei lavori di riconfigurazione urbana promossi dal pontefice).
Giovanni Dosio Septizodio III sec dC fu distrutto alla fine del sec. XVI, Esquillino, castello dell’acqua Julia
Allo sbocco di un ramo dell’acquedotto
dell’Aqua Iulia sull’Esquilino (oggi piazza
Vittorio Emanuele II) i cosiddetti ‘Trofei di
Mario’ erano nello stesso tempo castello
dell’acqua e ninfeo. Databile alla fine del
principato di Alessandro Severo e
chiamata dai Cataloghi Regionari
Nymphaeum Alexandri, rappresentata sul
retro di una moneta del 226 d.C., la
fontana era sorta su di un monumento di
età domizianea conservandone le
decorazioni marmoree con trofei di armi. I
due piani inferiori dell’edificio a pianta
trapezoidale – l’insieme di castellum e
bacino di raccolta – contenevano il
congegno idraulico, il terzo era costituito
da una parete con esedra centrale in cui,
forse, dominava la statua di Oceano,
identificabile in tal caso con l’Oceani
solium di cui parla la Historia Augusta, 20)
affiancata da due archi aperti soprastanti i
trofei, trapiantati nel 1590 della nostra era
nel parapetto del Campidoglio ricomposto
e ristrutturato.
Ora considerata un singolare edificio classificabile come termale, ora ritenuta un ninfeo – nell’una
come nell’altra ipotesi senza motivabile fondamento – la rotonda nota come ‘Ninfeo degli Horti
Liciniani’ o per un equivoco dell'età moderna come ‘Tempio di Minerva Medica’ fu innalzata nei
giardini dell’imperatore Gallieno sull’Esquilino all’inizio del IV secolo d.C. (come attestano i marchi
impressi sul materiale laterizio): tra quelle costruite in Roma e fuori Roma essa è – dopo il
Pantheon – spazialmente e strutturalmente la più elaborata e complessa. Nella sua parte inferiore
l’edificio ha la forma di un tozzo possente prisma di base decagonale di considerevole diametro
dalle cui facce, sino a metà della loro altezza e a eccezione di quella riservata all’ingresso,
aggettano a raggiera nove absidi semicircolari con apertura quasi pari alla lunghezza di ciascuna
di esse, lasciando tra l’una e l’altra pilastri trapezoidali spinti in profondità. Se il lato rettilineo di
entrata è schermato da un portale distilo e l’abside opposta è di poco più ampia e profonda delle
compagne, nelle due coppie simmetriche intercettate dall’asse trasversale la parete ricurva è
sostituita da un diaframma trasparente di sostegni puntiformi, quattro colonne trabeate poste
lungo il perimetro semicircolare. Proseguendo in altezza ed estendendo contemporaneamente le
facce del proprio fronte angolato, i pilastri insieme ai finestroni arcuati che si aprono sopra gli
archivolti di inquadramento delle esedre sottostanti formano un tamburo decagonale che in
breve si trasforma, grazie al riempimento progressivo degli angoli, in una fascia circolare da cui
nasce a sua volta una cupola emisferica, per la cui costruzione gli architetti rielaborarono e
perfezionarono un procedimento attuato forse nella sala ottagona della Domus Aurea e
riscontrabile nei vani di angolo delle terme di Diocleziano. Gli strati orizzontali di mattoni leggeri,
via via diminuendo di raggio e inclinandosi verso il vuoto, crebbero contemporaneamente a
meridiani inarcati di mattoni più grossi murati in verticale convergenti verso l’apice dell’emisfero
ove si sarebbero congiunti, mentre una guaina di calcestruzzo e tufo leggero protetta da tegole
ammantava progressivamente il tutto all’esterno. La cupola risultò pertanto suddivisa in comparti
tra nervature, le quali, pur contribuendo ad aumentare la stabilità e insieme l’elasticità della
struttura, non erano state concepite come linee di maggior resistenza ma, più semplicemente,
come guide per la costruzione della volta (rimasero comunque intatte sino all’inizio dell’XIX secolo
pur essendo crollati gli spicchi interposti).
Il sistema del ‘ninfeo’ lasciò la propria eredità all’architettura delle volte successiva, di Tessalonica
e di Bisanzio e del giovane Occidente cristiano.
interno e ricostruzione
8. Ninfei nella penisola italica e in Occidente
Fuori dell’Urbe, a Pompei la piccola thòlos monoptera ottastila di tipo dorico, la quale nel foro
triangolare cingeva e copriva con il suo tetto conico un pozzo profondo, testimonia che fra il II e il I
sec. a.C. il magistrato di turno (come dichiara la iscrizione osca sul fregio della trabeazione) si
ispirava ai modelli ellenistici per enfatizzare con le forme proprie dell’architettura un antico scavo
operato nel manto lavico al fine di assicurare l’approvvigionamento dell’acqua nel centro della città.
A Formia sorse in età tardo-repubblicana uno dei primi esemplari di fontana a facciata e bacino
antistante: dinnanzi a un fronte in opus quadratum di travertino (lungo m. 20 circa) tra due risvolti
laterali siestendeva un bacino rettangolare alimentato da due silani con le sembianze del dio
Oceano.
A Taormina quel che sembra un alto muro di sostruzione in laterizio (lungo m. 120 e più) in cui si
aprono numerose nicchie absidate e rettangolari, è in realtà il muro di fondo di una fontana di età
adrianea, la cosiddetta ‘Naumachia’ alimentata da una restrostante più alta cisterna a due navate
che, oltre a fornire acqua abbondante, nobilitava con le rispettive statue un quartiere della città
romana.
A Villa Cardillo, nei pressi di Pozzuoli, sono affiorati i resti di una grande esedra semicircolare in
muratura con prolungamenti laterali ad ala e nicchia centrale ospitante la conduttura alimentatrice:
un tipo di ninfeo non frequente in Italia che l’opera in muratura fa ritenere databile intorno alla metà
del II secolo d.C.
Ad Ostia la maggior parte delle fontane monumentali pubbliche risale al III sec. d.C.: tutte a esedra
semicircolare, esse furono disposte in serie lungo il decumano massimo e quattro di esse sorsero a
intervalli regolari facendo della strada urbana un monumento unitario ritmato da creazioni a metà
via tra architettura e scultura.
Risulta difficile spiegare l’esiguo numero di ninfei rintracciabili nelle province occidentali e
settentrionali dell’Impero, nonostante in queste terre il culto delle acque fosse precedente alla
conquista romana; per di più i pochi superstiti sono giunti sino a noi incompleti o frammentari
caratterizzati comunque da più modeste dimensioni e limitate ambizioni. Una spiegazione
plausibile del fenomeno potrebbe consistere nel fatto che il culto veniva praticato soprattutto e
direttamente alle sorgenti.
Ostia ninfeo degli eroti, inizi V sec dC
A Saint-Rémy si trovano alcuni ninfei tra i più antichi rinvenuti nelle Gallie: un
primo, risalente al II secolo a.C., è posto al centro di una conca creata in una
piazzetta lastricata e consiste in un semplice bacino rettangolare la cui sobria
eleganza era affidata all’esecuzione accurata dei parapetti e delle scalinate di
discesa; un secondo, quasi coevo, consiste in un pozzo circolare associato a un
tempietto di tipo tuscanico; un terzo, cosiddetto ‘trionfale’, risalente alla fine dello
stesso secolo, era una esedra semicircolare con nicchia a edicola e bacino
rettangolare antistante; sebbene di incerta restituzione, si ha notizia dell’esistenza
di un castellum aquae accanto a una sorgente vicina alla città o al suo punto di
arrivo nel centro urbano. Nei dintorni, inoltre, sorgeva un altro ninfeo successivo
di almeno un secolo e del tipo ‘a esedra’, ma coperto, voltato e abitato da statue:
la sua vasca, dalla pianta piuttosto rara a ferro di cavallo, era alimentata da un
canale che, attraversandola, ne usciva decantato e duplicato nella portata.
Come a Saint-Rémy anche il ninfeo di Bourges, risalente alla metà del I secolo
d.C., era inserito entro la depressione di un’area lastricata nei pressi di un portico
tra i più importanti del centro urbano. Analogo per collocazione e forma era,
probabilmente, il ninfeo centrale di Saint-Marcel costruito alla fine del I secolo
d.C.: due rampe di scale scendevano dal piano stradale a un lacus quadrato e
coperto da un tetto a falde sostenuto da quattro supporti angolari. Decisamente
più ambizioso fu, più a settentrione, il lacus forse parzialmente coperto di Metz
che i preposti all’acquedotto dedicarono nello stesso secolo alla famiglia
imperiale allora regnante: dal suo bacino circolare, cinto entro un parapetto
esternamente ottagono emergeva – poligono entro poligono – una piattaforma
esagonale.
Le province iberiche non dimostrarono particolare zelo nell’esaltare quale dono divino e
beneficio imperiale l’immissione e la distribuzione dell’acqua nelle città, ma quando la
valorizzazione accadde essa avvenne nei punti più importanti dei centri urbani. A Belo un ninfeo
a esedra semicircolare con fondo piatto, raggiungibile mediante due scalinate uguali e
simmetriche, si inoltrava a quota intermedia nella terrazza di sostruzione del santuario capitolino
nel lato breve del foro opposto alla basilica. A Mulva il ninfeo, organicamente legato alle terme,
era del tipo a camera quadrangolare prolungata ad abside dalla quale l’acqua in entrata,
balzando su tre gradoni, scendeva nel bacino coperto dopo aver lambito la statua di una ninfa.
Al quadro limitato delle realizzazioni spagnole corrispose una ben più consistente ricchezza di
centri e getti di acqua urbani nelle regioni rispettivamente opposte e inferiori dell'Impero, nel
Vicino Oriente e in Africa.

9. Ninfei in Grecia, in Asia Minore, nel Vicino Oriente e in Africa


In Grecia, in Asia Minore e nella penisola arabica è particolarmente evidente il rapido
passaggio, avvenuto in età imperiale, dal semplice rivestimento di una sorgente ritenuta sacra a
un più enfatico edificio programmaticamente collocato lungo strade o portici di città alla stessa
stregua degli archi onorari.
Nell’agorà di Corinto, fin dal III a.C., la fonte Peiréne era stata arricchita da un fronte di pilastri di
genere ionico applicato alla parete del munus a inquadrare finestre dalle quali sgorgava l’acqua.
In età romana, nel corso del I sec. d.C., alla facciata ellenistica fu anteposto un portico a due
registri di genere dorico e ionico che inquadravano rispettivamente archi al piano terreno e
finestre al piano superiore; in età adrianea, nel cortile antistante, fu creata una piscina rivestita di
marmo bianco e un’ampia esedra assiale creata nel fondo fu accompagnata da due absidiole
laterali che nell'insieme precedettero la comparsa del tipico schema ‘a trifolium’ destinato a gran
fortuna. Sempre nella stessa agorà Pausania descrive la fontana di Poseidone, ove si ergeva
una statua bronzea del dio ai cui piedi l’acqua sgorgava dalla bocca di un delfino 21).
Corinto fonte Peirene sistemata in età adrianea
Nell’agorà di Atene, presso l’angolo sud-orientale, Adriano aveva fatto iniziare un
ninfeo a semiluna ( m. 18 di diametro) aperto sulla via Sacra che vi passava innanzi:
nella configurazione finale, raggiunta nel 140 d.C., la parete ricurva era articolata da
paraste di genere corinzio accoppiate sotto rispettivi tratti di trabeazione in risalto,
alternate a nicchie centinate coronate da piccoli frontoni e abitate da statue-ritratto di
membri della famiglia imperiale. Dai piedistalli delle statue sgorgavano i getti
dell’acqua condotta da una sorgente alle pendici del monte Pentelico che riempivano
il bacino lunato in cui si rifletteva l’esedra con i suoi ornamenti; dal bordo esterno di
un parapetto rettilineo di contenimento l’acqua usciva attraverso cannule
semplicissime generando una canaletta esterna da cui si poteva attingere sotto la
protezione dell’immagine dell’imperatore posta al centro in posizione avanzata.
L’impianto ‘a esedra’ fu adottato nel grande ninfeo elevato da Erode Attico e dedicato
a Zeus in nome della propria moglie Annia Regilla nel santuario di Olimpia all’arrivo
dell’acquedotto da lui stesso fatto costruire. Grazie al ripido pendio retrostante la
composizione potè elevarsi per più piani: l’acqua sgorgava nel bacino mediante
cannule uscenti da un alto podio a semicerchio sormontato da due ordini di nicchie
centinate, con effigi di Zeus, di Antonino, di Adriano e loro famigliari ai lati, chiuse tra
coppie di alte semicolonne binate con tratti salienti di trabeazione. Dal primo bacino
a semiluna, nel cui parapetto la statua di un toro alludeva all’offerta della fonte al re
degli dei, l’acqua si riversava mediante bocchette in una vasca rettangolare più
larga, affiancata da tempietti monopteri ottastili di colonne di genere corinzio nei quali
alloggiavano le statue del finanziatore e dell’imperatore Marco Aurelio; infine,
attraverso altre cannule, l’acqua scendeva in una stretta canaletta dalla quale veniva
attinta. Nella sua complessità il ninfeo di Erode conteneva tanto la fontana ‘a parete’
che quella ‘a bacino’ con scultura o tempietto fuoriuscenti.
Atene agorà fontana sud est, Olimpia ninfeo di Annia Regilla III sec dC
ricostruzione, Gortina Creta Nonfeo ricostruzione
Il tipo ‘a bacino’ segnò la propria riaffermazione nell’agorà di Argo ove, in un
antico luogo consacrato alle ninfe, sorse il ninfeo cosiddetto ‘di Amimone’.
Costruito sul finire del I sec. d.C., nella sua versione originaria la maestosa
fontana si presentava come una thòlos completa di naòs con circuito interno di
colonne e peristasi esterna; quando, però, nel secolo successivo, il ninfeo perse
aura e funzioni sacre esso fu trasformato in un tempietto diptero privo di nucleo:
la corona interna, tetrastila, fu posata sul parapetto di una prima vasca anulare,
quella esterna, ottastila, sielevò sul bordo di una seconda inferiore vasca
concentrica dalla quale l’acqua passava a un terza vasca anulare di prelievo
mediante protomi leonine.
A Gortina, il ninfeo prossimo al praetorium riproponeva la parete prolungata in
due lunghe ali ad angolo retto con un nicchione gradonato in ciascuna di esse
per la cascata di acqua intorno al bacino sui cui bordi posavano colonne libere
e lesene corrispondenti: mentre quelle dinnanzi alle pareti formavano edicole
distile, quelle collocate nelle testate delle ali creavano padiglioni a giorno
tetrastili volti all’esterno con vasche minori antistanti.
‘A parete’ o ‘a nucleo centrale’, con fuoriuscita dell’acqua per bocche radiali o
seriali, gli edifici di arrivo e distribuzione dell’acqua nella Grecia romana si erano
trasformati in breve tempo, da luoghi sacri e di incontro com’erano nelle antiche
pòleis, in organismi dall’estensione dilatata: una marmorea scenografia
impenetrabile, una festa di nicchie e colonne per l’arrivo dell’acqua, espressive
delle cure che in ogni parte del mondo prestava ai propri sudditi e cittadini
l’istituzione imperiale.
Non si è ancora del tutto chiarita la ragione che spinse i magistrati dell’Asia Minore a
preferire per le loro città, com’è evidente dal II sec. d.C. in poi, il modello di ninfeo ‘a
facciata’ particolarmente sviluppato a Roma e nella penisola italica. Nell’Urbe giulio-claudia
le fronti sceniche teatrali si articolavano a più piani con nicchie, sporgenze e rientranze
(anche con funzioni statiche) subordinando a sé la decorazione architettonica: dall’inizio
dell’età domizianea, invece, fu quest’ultima a prevalere creando sullo sfondo movimentato
sovrapposizioni di colonne libere, nicchie, edicole, tabernacoli; se l’acqua veniva esaltata
come un dono divino dispensato dalla sollecitudine imperiale, l’architettura teatrale era
pronta a offrire le proprie elaborazioni scenografiche affinché esse costituissero un fastoso
e festoso corteggio all’apparizione dell’elemento sulla scena urbana.
Il movimentato ninfeo di Mileto, di cui restano poche spoglie ma abbondano le restituzioni,
risale al 79-80 d.C. (com’è documentato da un’iscrizione sul suo architrave) quando il padre
di Traiano era proconsole della provincia di Asia. L’edificio (lungo m. 20 in facciata) era
composto da un alto podio di base sia per tre registri di edicole con colonne di genere
corinzio e composito, sia per due ali perpendicolari di edicole di chiusura senza muro di
fondo, aeree e trasparenti su due piani. Le edicole a fondo pieno, distile, a frontoncini ora a
volute ora triangolari, erano disposte alternate entro i riquadri di una scacchiera, come nella
vicina Biblioteca di Celso, in modo che quelle della serie intermedia cadessero al centro
degli spazi intercalari che separavano quelle della serie sottostante e soprastante (con
conseguenti perdita di congruenza strutturale ma acquisto di dinamismo e animazione
secondo scelte proprie del sistema figurativo che Alois Riegl chiamò “barocco antico”).
Entro le nicchie ora concave ora piane scavate nella parete erano ospitate: nel registro
inferiore sculture di ninfe, satiri, sileni con recipienti da cui scaturiva l’acqua quale corteggio
di Poseidone; nei registri superiori divinità care agli efesini insieme a Vittorie, al padre di
Tiberio e, inseriti nella prima metà del III secolo d.C., a Gordiano III e consorte.
Analogo, sebbene meno appariscente, fu il ninfeo di Efeso costruito in età
adrianea: un bacino rettangolare era cinto dalla parete di fondo e dalle sue
ampie ali entrambe ornate da due registri di colonne e lesene tra le quali
trovavano posto le statue del mitico fondatore della città, di varie divinità, della
coppia imperiale e della donatrice.
Doppio per dimensioni ma più pacato nell’aspetto del compagno efesino era il
ninfeo dell’agorà di Aspendos, dotato di un primo livello di nicchie centinate
concave e a fondo piano, separate da coppie di colonne di genere corinzio
reggenti un’ unica trabeazione, ora aggettante ora rientrante, altre la quale si
svolgeva un secondo registro di nicchie separate da edicole chiuse da timpani
curvilinei e triangolari. Il centro era sottolineato da nicchie di maggior ampiezza
e a metà altezza da spezzoni di timpano convergenti sull’asse; e da entrambi i
lati il colonnato avanzava formando due edicole tetrastile sovrapposte.
A Perge il ninfeo, costruito in età adrianea al termine della via porticata,
dispiegava cinque esedre in progressiva diminuzione dalla periferia al centro,
ove dalla statua di un dio fluviale scaturiva il forte getto che riempiva la vasca.
Nella vicina Side le esedre, ridotte a tre, erano ben più ampie di quelle di
Aspendos, ricavate sulla parete del ninfeo colossale, il cosiddetto ‘Tempio delle
Ninfe’, che, ancor prima di varcare la porta urbica orientale, esibiva ai visitatori la
ricchezza della città: sovrapposte in tre registri, edicole si alternavano a colonne
libere marmoree che entravano nelle cavità delle esedre voltate ad ampi catini;
costruito in età antoniniana, il ninfeo accoglieva direttamente l’acqua in arrivo di
un lungo acquedotto e la dispensava attraverso i salientes del suo parapetto.
Aspendos e Perge ninfei
Ma forse il ninfeo per eccellenza, l'edificio costruito nel punto stesso della
sorgente ove si era riposata una ninfa, la ninfa Latona (Leto) dopo aver dato alla
luce Artemide e Apollo frutto del suo amore con Giove, sorse in Licia nella valle
del fiume Xanthos: qui al tempo di Adriano fu creata un’esedra rettangolare
ritmata da semicolonne che, accogliendo l'acqua sorgiva appena affiorata dalla
roccia, la riversava in una vasca semicircolare dal largo abbraccio accanto ai tre
templi ellenici ed ellenistici del IV e III secolo a.C. dedicati alla ninfa e ai suoi
divini gemelli.
Anche nelle terre già dei Fenici, dei Seleucidi e dei Parti i ninfei – numerosi ma
oggi del tutto o parzialmente scomparsi – furono localizzati e costruiti in siti urbani
di massima frequentazione e visibilità, concepiti anch’essi come esaltazione della
solerzia e generosità dell’amministrazione imperiale. A Gerasa-Antiochia sul
Chrysorohas il ninfeo fu collocato, tra 190 e 191 d.C., lungo un tratto della via
porticata che alterava inserendovisi con colonne ben maggiori delle preesistenti
e dietro alle quali si apriva con un’ampia esedra accompagnata da rinfianchi
entro uno spesso muro: l’una e gli altri scavati in nicchie semicircolari e
rettangolari separate od ornate da liberi pilastri articolati in lesene, mentre l’acqua
del bacino traboccava oltre il parapetto riversandosi in piccole conche rotonde
lungo il marciapiede.
A Bosra lo spettacolare ninfeo, di cui restano quattro altissime colonne di genere
corinzio, fu creato esattamente in uno degli angoli formati dall’incrocio di cardo e
decumano massimi; mentre a Palmira e a Biblos i ninfei insistevano
rispettivamente su di un lato della via colonnata e presso la porta settentrionale
delle mura della città preromana.
Segalassos in Pisidia, ninfeo
antonino Gli scavi hanno restituito
un magnifico ninfeo dell'età
antonina media (ca. 160-180),
consistente di una facciata ad un
piano unico a for ma di pi
composto da una sezione
centrale incorniciata da due
edicole laterali sporgenti. La
lunghezze dell'intera facciata era
di circa 27 m, per una profondità
massima di circa 4 m e
un'altezza stimata di circa 7,80
m. Buona parte del ninfeo è stato
ricostruito per anastilosi fra il
1998 e il 2010, con tanto di
acqua corrente e repliche delle
statue rinvenute, e rappresenta
l'attrazione principale del sito
archeologico.

Gerasa , Siria, ninfei


Le città delle province africane, i cui fori, pur in assenza di una propria tradizione di centri
civici, superarono spesso quelli delle città asiatiche e del Vicino Oriente, non raggiunsero
quest’ultime nella sontuosità o magnificenza dei ninfei – costruiti normalmente in epoche
severiana e post-severiana – pur riuscendo assai bene a trasformarli in traguardi o in
cardini visivi al termine o negli snodi delle strade o in lucido mascheramento di anomalie
del loro tracciato.
A Gemila, ricca di vari tipi di fontane, una meta conica emergente da un bacino circolare
fu situata esattamente nella risega formata da un lato del cardine massimo meridionale nel
punto in cui la carreggiata diminuiva di sezione. A Sabratha e a Dougga abbondarono
ugualmente fontane del tipo ‘a lacusi – il preferito – o a pianta centrica con mete coniche o
piramidali emergenti da bacini poligonali o circolari rivestiti di marmo. A Timgad un ricco
cittadino donò una fonte con un tempietto monoptero innalzato sul podio ottagonale che
racchiudeva un anello acqueo intorno a un lacus concentrico circolare; e nella stessa città,
nel 203 d.C. in occasione della visita di Settimio Severo e di Caracalla, fu eretto uno dei più
grandiosi ninfei ‘a facciata’ con ali laterali (oggi quasi del tutto sepolto sotto un fortino
bizantino del VI secolo).
A Sbeitla una fontana ‘a esedra’ con ampio bacino colmò il vuoto di emergenze celebrative
lungo la via che collegava le due basiliche civili al gruppo del cosiddetto ‘Edificio delle
Stagioni’ e un ninfeo fu posto quale snodo e sfondo all’importante innesto presso le grandi
terme di un cardo minore nel decumano massimo. A Tipaza nel punto in cui il decumano
maggiore, collegando teatro e anfiteatro dell’ampliamento romano, deviava leggermente di
direzione fu inserita un’esedra a segmento di cerchio aperta quanto l’angolazione del
tracciato.
Quando però vi era la disponibilità di mezzi i donatori preferirono costruire maestose
esedre isolate o con ali rettilinee più o meno sviluppate, a far da sfondo ai più importanti
spazi urbani: a Bona, a Dugga, a Cesarea Mauritana.
L’imponente ninfeo di Leptis sorge esattamente all’interno dell’angolazione formata
dalla via porticata per seguire l’andamento del ouadi Lebdah che scorreva
retrostante: un’ampia unica esedra ricavata entro una spessa muraglia un tempo
rivestita di marmo era scandita – a somiglianza delle absidi della basilica Severiana –
da due registri di nicchie centinate, inquadrate da un’antistante intelaiatura di libere
colonne marmoree di genere corinzio su piedistalli distinti, riunite alla sommità da
trabeazioni con fregi pulvinati: apparato che risvoltava sui due tratti del blocco
murario, creando due edicole di ambo i lati accompagnate dall’ultimo prezioso
accento di due colonne sovrapposte isolate. Il largo bacino trapezoidale antistante
apriva i suoi lati come due braccia a formare, prolungandosi negli archi di
inquadramento dei due tratti di strada, una piazza prossima alle terme adrianee e al
foro e al tempio severiani.
Un analogo edificio di Lambesi, risalente alla prima metà del III secolo d.C. (portato
alla luce nel 1850 ma poi distrutto), chiamato Septizodium in una prima iscrizione
(CIL, VIII, 2657), era definito in una seconda nymphaei opus (CIL, VIII, 2658), a
riprova certa della sua natura di ninfeo e conferma indiretta ma altrettanto sicura
circa la natura dell’edificio romano. Come suggeriscono le tracce ancora individuabili
nell’area, ai lati di un’ampia e profonda esedra semicircolare, dal cui centro
emergeva un baldacchino tetrastilo intorno a una piccola vasca, si estendevano due
ali rettilinee scavate da tre niccchie ciascuna inquadrate da corrispondenti
semicolonne e trabeazione in modo da ospitare, con l’edicola al centro, le immagini
delle sette divinità planetarie connesse al ciclo delle piogge e quindi al regime delle
acque. La vasca maggiore prospiciente era divisa in tre settori in corrispondenza
dell’abside centrale e delle ali. Con la variante di quattro edicole trabeate al posto
delle sei edicole centinate e di un minor bacino antistante, tale septizodium fu
replicato dinnanzi al cippo della groma nel campo legionario della città.
leptis magna ninfeo
10. Santuari ‘delle fonti’

Ai piedi del monte che domina a cavaliere Nîmes affiora una risorgiva di tipo carsico che i nativi
Volsci avevano consacrata al dio eponimo Nemausus, erigendo ai bordi del bacino un tempio
alquanto semplice di pianta quadrangola come tutti quelli celtici. Dopo la conquista, all’inizio
dell’età augustea, i Romani cercarono di rendere consono il santuario ai loro costumi cultuali
inserendolo, nel contempo, entro il tracciato della colonia: nel 25 a.C. lo dedicarono ad Augusto,
dopo aver rettificato le sponde dello specus in linea con gli assi del cardo e del decumano
massimi e consentito la discesa mediante due emicicli gradinati; quindi, prima di convogliare le
acque verso i quartieri cittadini, i responsabili del santuario cinsero il sito con un portico triplice
a due navate abbracciando il flusso entro un ninfeo quadrato composto da colonne
semisommerse di genere dorico dinnanzi a un muro con nicchie semicircolari e rettangolari.
Dallo specchio del nuovo bacino emerse un podio quadrato ornato da un fregio sommitale a
girali di acanto, fra i primi conosciuti in Occidente, al di sopra del quale si innalzarono quattro
colonne tortili angolari e troneggiò un altare dedicato a Roma e ad Augusto contemporaneo al
grande altare detto ‘delle Tre Gallie’ elevato alla confluenza della Saona e del Rodano a Lione. E
ancora, inserito nel lato occidentale del portico, fu innalzato un edificio ritenuto una biblioteca, o
altrimenti un tempio del tutto singolare dedicato a una divinità femminile – Vesta o Diana – privo
di pronàos ma con accesso affiancato da due bacini semicircolari: del tutto introflesso con pareti
scandite da nicchie a fondo piatto e a timpani triangolari e curvilinei alternati, con un apparato
tripartito di fondo dominato da un arco siriaco e sottostante baldacchino distilo che consentiva
l’accesso a gallerie cieche che fasciavano il vano. Archi a tutto sesto su cui posano grandi lastre
lapidee (tuttora visibili grazie a un restauro settecentesco) compongono l’imperiosa volta a botte
energicamente contraffortata dal ‘guscio’ dei corridoi laterali. Tempio o biblioteca, l’edificio eretto
e voltato con attentissima cura nel taglio della pietra rendeva l’intero complesso un Augusteum
sovrapposto all’antico culto originario semza cancellarlo e doveva rientrare in unprogramma di
consacrazione della fonte al culto imperiale.
Il complesso di Nîmes, pertanto, non era un semplice dispensatore di acqua bensì
un vero e proprio edificio cultuale posto sotto l’egida di un dio, fondato e costruito nel
luogo preciso in cui il bene prezioso veniva alla luce dalle viscere della terra: esso
testimonia l’esistenza e la tradizione non di un particolare ninfeo ma di una
particolare aedes da specificare precisamente – come documentato da un’iscrizione
trovata in Numidia – come aedes fontis o tempio di sorgente.
Fu soprattutto nelle terre di Africa, ove lo scaturire dell’acqua assumeva davvero
carattere miracoloso, che i templi di sorgente furono più numerosi: tra questi emerge
per chiarezza di impianto e maestà di aspetto quello di età aureliana adagiato sul
versante settentrionale del monte di Zaghouan per esaltare la partenza
dell’acquedotto adrianeo che alimentava Cartagine. Da un naòs quadrato voltato a
crociera con fronte timpanato e abside quadrangolare partivano le braccia curvilinee
con prosecuzioni rette di due portici scanditi da nicchie e volte a crociera: queste
delimitavano una prima terrazza che dominava la piattaforma centrale, alta a sua
volta sul pozzo di affioramento a cui era stata conferita la forma di due cerchi secanti.
Dono incomparabile della Natura e oggetto di cure costanti di imperatori e
magistrati, scrosciando in abbondanza da fontane e ninfei e sostenendo
quotidianamente il rituale delle terme, l’acqua fu, non solo elemento
essenziale alla salute e all’igiene dei cittadini, ma anche strumento di
equilibrata convivenza tra i ceti sociali. Nemi ninfeo della villa di Caligola,
Campi Flegrei ninfeo di Punta Epitaffio ricostruzione
Note

1) Plinio, Nat. Hist., XXXVI, 121 e 189.


2) Luciano, Hippias, sive balneum.
3) Vitruvio, De Arch., V, 10, 1-3.
4) Plinio, Nat. Hist., IX, 168; Valerio Massimo, IX, 1,1.
5) Vitruvio, De Arch., V, 11, 2.
6) Vitruvio, De Arch., V, 10.
7) Vitruvio, De Arch., V, 10.
8) Cassio Dine, LIII, 27, 1.o
9) P.linio, Nat. Hist., XXXIV, 62: “Plurima ex omnibus signa fecit […] inter quae distringentem se quem M.
Agrippa ante Thermas sua dicavit”-
10) Marziale, De spect., 2: “Hic ubi miramur velocia munera thermas/ abstulerat miseris tecta superbus ager”;
Svetonio, Nero, 12.
11) Cassio Dione, LXIX, 4, 1.
12) Historia Augusta, Carac., 9: “Inde hodieque Antoninianae dicuntur caracallae huiusmodi, in usu maxime
Romanae plebis frequentatae”.
13) Historia Augusta, Carac., 9, 4-5: “Opera Romae reliquit thermas nominis sui eximias, quarum cellam
solearem architecti negant posse ulla imitatione, qua[lis] facta est, fieri. Nam et ex aere vel cypro cancelli
suppositi esse dicuntur, quibus cameratio tota concredita est, et tantum est spatii, ut id ipsum fieri negant
potuisse docti mechanis”
14) Plinio, Nat. Hist., XXXVI, 121 che conclude la mirabolante impresa con l’informazione eaque omnia anno
spatio (“e tutto questo nello spazio di un annnote
15) Plinio, Nat. Hist., XXXVI, 121 che conclude la mirabolante impresa con l’informazione eaque omnia anno
spatio (“e tutto questo nello spazio di un anno”).
16) Plinio, Nat. Hist., XXXV, 151: che si trattasse di un edificio è confermato dal fatto che lo stesso Plinio afferma
che nel ‘Ninfeo’ era conservata anche la prima scultura-ritratto in argilla fatta per lasciare a una fanciulla il
ricordo dell’amato lontano da Butades, il mitico vasaio di Sicione; e che il prezioso prototipo del genere fu
asportato durante lo spolio seguito alla conquista romana.
17) Pausania, II, 3, 2-3.
18) Ammiano Marcellino, XV, 7, 3.
19) Historia Augusta, Sept. Sev. 19, 5; 24, 3-5; Geta 7, 2.
Historia Augusta, Alex. Sev., 25, 5.
21) Historia Augusta, Alex. Sev., 25,

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