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PSICOLOGIA DEL LAVORO (Riassunto)

Il documento tratta della psicologia del lavoro analizzando il concetto di lavoro da diversi punti di vista disciplinari come la filosofia, l'economia, il diritto, l'antropologia e la sociologia. Vengono esaminate le diverse concezioni del lavoro nel corso della storia e le relazioni tra lavoro, individuo e società.

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PSICOLOGIA DEL LAVORO (Riassunto)

Il documento tratta della psicologia del lavoro analizzando il concetto di lavoro da diversi punti di vista disciplinari come la filosofia, l'economia, il diritto, l'antropologia e la sociologia. Vengono esaminate le diverse concezioni del lavoro nel corso della storia e le relazioni tra lavoro, individuo e società.

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PSICOLOGIA DEL LAVORO

Premessa
Lavorare significa sostanzialmente gestire relazioni: con il contenuto del lavoro, con le
tecnologie impiegate, con le persone e con i diversi ruoli con i quali si interagisce, con
l'organizzazione nella quale si lavora.
L'organizzazione è un'entità dinamica, animata da individui e gruppi che interagiscono con
strategie mutevoli e finalizzate. La visione che i membri di un'organizzazione hanno sia del
mondo che dell'organizzazione stessa influenza le attività svolte, le decisioni da prendere,
le strategie da seguire.

1. IL LAVORO IN DIVERSI CONTESTI DISCIPLINARI


IL CONCETTO DI LAVORO
L'etimologia del verbo lavorare ha diverse origini a seconda della lingua; i momenti
cronologici di affermazione dei vocaboli sono situabili nel periodo dello sviluppo della
società feudale e qualche secolo successivo nei periodi di massima espansione
dell'economia.
Le idee più antiche legate al lavoro rinviano alla sofferenza, alla pena, allo sforzo, alla
costrizione, alla dipendenza. In un primo senso generico, lavoro è qualsiasi esplicazione di
energia umana, animale, meccanica, volta ad un fine determinato; in questa concezione è
già presente l'idea di movimento, di trasformazione, di finalizzazione. In un senso più
specifico, il lavoro è l'applicazione delle potenzialità psicofisiche dell'uomo diretta alla
produzione di un bene o di un servizio o, comunque, ad acquisire un risultato tangibile in
utilità individuale o collettiva.
Considerare il lavoro come momento di interazione e di scambio con l'ambiente, come
azione trasformativa, come espressione delle risorse fisiche, psichiche ed emotive
dell'uomo, come possibilità di evoluzione individuale e collettiva significa assegnare
all'analisi del lavoro un ruolo centrale nella comprensione della realtà umana.
In questo senso la vecchia concezione del lavoro come pena, sofferenza, disagio, fatica,
dovere sembra sfumarsi dovendo coesistere con una visione del lavoro come diritto,
desiderio, investimento e come espressione delle potenzialità individuali.
Il lavoro è fondamentalmente una relazione del soggetto con altri soggetti e con gli oggetti
del mondo esterno; si estrinseca in una serie di interazioni con l'ambiente fisico e
socialenel quale il lavoro si svolge e con gli strumenti che si adoperano per svolgere il
lavoro; implica un rapporto con il ruolo che si ricopre e con gli altri ruoli coi quali si
interagisce; richiede per il suo svolgimento la messa in atto di strumenti comunicativi e di
comportamenti sinergici per il raggiungimento degli obiettivi; comporta un'intensa attività
relazionale con altre persone e con l'organizzazione della quale si fa parte.
L'esperienza lavorativa si costituisce sempre a partire da una relazione o da una rete di
relazioni che il soggetto lavoratore intrattiene con:
– La struttura organizzativa nella quale si è inseriti
– I processi organizzativi (processi operativi, informativi e di controllo di gestione)
– La tecnologia che si impoega per svolgere il lavoro (non solo riguardo alle modalità
di produzione dei beni/servizi, ma anche riguardo alle diverse procedure di
controllo gestionale, trattamento dei dati ecc)
– La cultura dell'organizzazione (valori, norme, atmosfera che caratterizza quella
organizzazione)
– Il contenuto del lavoro
– Il ruolo che si è chiamati a giocare e le relazioni con gli altri ruoli
– Lo spazio fisico in cui il lavoro si svolge (spazio, allestimento, temperatura,
illuminazione ecc)
– Il tempo che si dedica al lavoro (non solo riguardo alla distribuzione dell'orario di
lavoro ma anche rispetto ai problemi di conciliazione tra tempo di lavoro e tempo di
vita)
– L'assetto normativo e retributivo (tipo di contratto, livello e tipo di retribuzione)
– Il progetto di vita personale

Possiamo quindi leggere il comportamento umano nei contesti lavorativi a diversi livelli
che sono interdipendenti:
– Un primo livello riguarda l'individuo, con le sue paure ed avversioni, con i suoi
bisogni e desideri, con il patrimonio di competenze e sensibilità, con le sue speranze
e i suoi progetti.
– Un secondo livello riguarda l'aggregazione delle persone nel gruppo di lavoro
(interdipendenza e coabitazione)
– Un terzo livello si riferisce all'organizzazione nel suo complesso, alla sua
articolazione strutturale, alle tecnologie impiegate, ai sistemi valoriali e culturali di
riferimento.
– Un quarto livello riguarda la società e la cultura, il sistema economico e politico, i
valori e gli stili di convivenza della società civile.
– Un quinto livello riguarda l'ambiente fisico in cui il lavoro si svolge
– Un sesto livello riguarda le altre società e le altre culture.

IL LAVORO IN FILOSOFIA
Nel mondo antico prevale una concezione negativa del lavoro inteso come pena, sforzo,
elemento che soffoca l'intelligenza. Solo nel periodo rinascimentale si assiste ad una vera e
propria esaltazione del lavoro; in questo periodo il lavoro è considerato fondamento della
civiltà e del progresso in cui l'uomo trova la propria autonomia.
Anche la posizione degli illuministi (Voltaire) e degli idealisti moderni (Fichte e Hegel)
concepisce il lavoro in senso positivo enfatizzandone il valore morale e sociale.
Lo sviluppo capitalistico e lo sfruttamento del lavoro umano della prima rivoluzione
industriale generano un ripensamento profondo del significato del lavoro. Per Marx il
lavoro è un'atività finalistica per la produzione di valori d'uso; è l'appropriazione degli
elementi naturali per bisogni umani; è un'attività libera e creatrice. Non ogni attività
tuttavia è lavoro nè ogni lavoro è anche creatività: il lavoro in fabbrica ad esempio aliena
l'uomo e non concorre alla sua realizzazione, non aiuta a maturare i poteri dell'uomo in
quanto lo riduce ad ingranaggio di una macchina.
L'alienazione del lavratore nel suo prodotto indica non solo che il suo lavoro si trasforma in
un oggetto, in un'esistenza a lui esterna, ma che esso esiste fuori di lui, diventa una
potenza autonoma: la vita che egli ha prestato all'oggetto gli compare dinanzi in modo
ostile ed estraneo.
L'elaborazione di una teoria critica della società capitalistica, l'analisi del processo di
alienazione, una riflessione critica sul lavoro sono continuate dalla Scuola di Francoforte.
Questi autori ribadiscono che la realizzazione piena e libera dell'uomo nel lavoro può
dipendere solo dal superamento dell'organizzazione del lavoro prevista
dall'industrializzazione capitalistica.
Per quanto riguarda il neoidealismo italiano, limitandosi al pensiero di Benedetto Croce, il
lavoro è il tratto distintivo del vivere umano: il non lavoro è noia e morte anche se permane
l'idea della non eliminabilità del carattere penoso del lavoro.
Secondo Karl Jaspers, autore dell'esistenzialismo, il lavoro è l'essenza fondamentale
dell'uomo, è un fare pianificato dotato di un'intenzione e di uno scopo volto alla
soddisfazione dei bisogni non solo elementari, è un'attività attraverso la quale l'uomo
diventa cosciente di sè e dello stesso essere.

IL LAVORO IN ECONOMIA E NEL DIRITTO


Le scienze economiche hanno tradizionalmente considerato il lavoro dal punto di vista
dell'impresa che lo utilizza come fattore di produzione. Secondo l'economia classica, il
mercato del lavoro opera come il mercato dei beni, ovvero come un meccanismo
automatico di bilanciamento tra domanda ed offerta di lavoro: quando l'offerta di lavoro
supera la domanda degli imprenditori, le retribuzioni tendono a decrescere; decrescendo
fanno aumentare la domanda sino ad adeguarsi all'offerta eliminando, in tal modo, la
disoccupazione.
Le grandi crisi mondiali e la conseguente disoccupazione di massa però portarono ad una
profonda revisione degli assunti della teoria economica classica, in particolare Keynes
criticò la teoria in quanto non teneva conto di altri fattori quali reddito nazionale, volume
dei consumi, intervento pubblico ecc.
Mentre le scienze economiche considerano il lavoro prevalentemente dall'angolo visuale
dell'impresa, che lo utilizza come fattore di produzione, il diritto, nel nostro paese, valorizza
e tutela il lavoratore. La carta costituzionale pone il lavoro a base dello stato, riconosce il
diritto di ogni cittadino al lavoro e tutela il lavo in tutte le sue forme. Altri principi
costituzionali si riferiscono alla parificazione della donna all'uomo nei diritti che nascono
dal rapporto lavorativo, al diritto dei lavoratori alla previdenza, all'assistenza sociale,
all'organizzazione sindacale, al diritto di sciopero. Tutto il diritto del lavoro è ordinato al
fine della tutela della libertà e della persona del lavoratore.
Lo Statuto dei Lavoratori dice che i diritti dei lavoratori nell'imprese possano essere tutelati
solo da un equilibrio di poteri tra rappresentanza operaia e direzione aziendale, riconosce il
diritto dei lavoratori alla libertà di opinione, riconosce la libertà di organizzazione e di
azione sindacale e valorizza il sindacato in ambito aziendale.
IL LAVORO IN ANTROPOLOGIA E IN SOCIOLOGIA
Il contributo dell'antropologia nello studio del lavoro è originariamente circoscritto
all'individuazione e alla comprensione dei diversi modelli di cultura, all'interno dei quali
nasce e matura una precisa concezione del lavoro e dell'organizzazione; è evidente perciò
che non esiste, dal punto di vista antropologico, un concetto universale di lavoro.
L'antropologia si occupa di individuare somiglianze e differenze nelle diverse concezioni di
lavoro. In questo ambito riveste particolare interesse la ricerca sulle condizioni delle donne
nelle varie culture e sulla divisione del lavoro tra i sessi; la divisione sessuale del lavoro non
si riferisce a ciò che i sessi possono fare ma a ciò che i sessi devono fare. Ciò testimonia che
deve essere riprodotto un certo ordine sociale.
Un altro campo di interesse si riferisce alla dimensione di individualismo e collettivismo che
caratterizzano le differenti culture: alcune prediligono il soddisfacimento individuale, altre
quello collettivo e comunitario.
Il terreno sul quale gli antropologi hanno fornito un particolare apporto alla comprensione
del lavoro umano è quello dello studio delle culture dell'organizzazione. La cultura
organizzativa è vista per la prima volta come una variabile capace di influenzare
comportamenti ed atteggiamenti di individui e di gruppi nei contesti di lavoro. Il
riferimento è all'insieme di valori, delle redenze, delle norme e dei modelli di
comportamento caratteristici di un'organizzazione.

Ancora più articolato è il contributo della sociologia all'analisi del lavoro e


dell'organizzazione. La sociologia del lavoro studia il mercato del lavoro, la formazione,
l'orientamento professionale, il valore attribuito al lavoro, il suo grado di organizzazione,
automazione, alienazione, le sue conseguenze psicofisiche e sociali, i rapporti sociali che
determina o inibisce.
Un primo filone, la sociologia manageriale, presta interesse prevalentemente alla
produttività, all'efficienza e al profitto: in questo ambito sono individuabili la teoria della
divisione del lavoro, accompagnata dallo scientific management (Taylor), la teoria della
motivazione e della partecipazione (human relations, Mayo), la teoria dei sistemi.
Un secondo filone, denominato sociologia strutturale dell'organizzazione, è caratterizzato
da un'attenzione maggiore per la salvaguardia dei valori umani e dei diritti civili piuttosto
che sul profitto. I principali paradigmi della sociologia strutturale sono più ampi, tesi a
spiegare l'intera società e non solo i fatti che riguardano l'azienda, e sono il paradigma
marxista, il paradigma critico (Adorno), quello del socialismo utopistico (Gorz) e il
paradigma post-industriale (Touraine, De Masi).

IL LAVORO IN MEDICINA
Il lavoro è oggetto di studio anche di un ramo della medicina che si occupa dei danni
psicofisici che possono derivare all'uomo dall'ambiente di lavoro e ricerca e sperimenta i
mezzi e gli strumenti adatti a prevenirli. La medicina del lavoro comprende la patologia del
lavoro, che studia gli effetti dannosi che possono insorgere quale diretta conseguenza
dell'esercizio di un mestiere o di una professione, e l'igiene del lavoro, che studia con
finalità preventive le cause di malattia, di infortunio, di invalidità e di diminuzione delle
capacità individuali conseguente all'espletamento di una determinata attività lavorativa.
Nel mondo antico fino al medioevo non si trova nessun accenno alla medicina del lavoro.
Solo nel secondo dopoguerra cresce la sensibilità sociale e la tutela normativa della salute
del lavoratore.
Il lavoro può essere causa occasionale di infortunio o causa diretta di malattie professionali:
l'infortunio sul lavoro è un evento traumatico, lesivo per la salute del lavoratore, che si
verifica nell'ambiente e nell'orario di lavoro, in modo rapido e violento e per cause esterne
alla volontà del lavoratore. Può essere dovuto a fattori oggettivi (deficienze tecniche) o a
fattori soggettivi (disattenzione, imprudenza);
le malattie professionali dipendono dall'ambiente di lavoro o dall'oggetto, dagli strumenti
e dalle modalità di svolgimento del lavoro.
Esiste una complessa legislazione nazionale, integrata da numerose direttive comunitarie,
per prevenire gli infortuni e migliorare la sicurezza e la salute dei lavoratori. Nel 1945 la
salute è stata definita dall'organizzazione mondiale della sanità (WHO) come uno "stato di
completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplicemente assenza di malattia e di
infermità".

IL LAVORO NELLA STORIA DELLE RELIGIONI


Un'ulteriore fonte per comprendere le diverse concezioni del lavoro è rappresentata dal
pensiero religioso.
Secondo il protestantesimo (Lutero, Calvino) il lavoro non è un castigo di Dio inflitto
all'uomo, non è la punizione per i peccati dell'uomo; al contrario, il segno della grazia
divina è la ricchezza, il benessere generato dal lavoro. Nella metodicità dell'azione
quotidiana, nella costanza del lavoro, nlla fedeltà ad una professione l'uomo trova il modo
di lenire il senso di angoscia che gli deriva dal timore di non essere in grazia di dio.

In ebraico, la parola lavoro si applica anche al culto religioso. Si intende l'adorazione come
lavoro santo e il lavoro come santa adorazione. Il dio biblico appare profondamente
implicato nel lavoro e nel riposo; non è un dio ozioso ma lavora e riposa. Tutta la Bibbia
loda il lavoro del creatore. Il suo lavoro non è mai disgiunto dal riposo che, in senso biblico,
è un concetto positivo in quanto non si riduce a mera assenza di fatica. Il lavoro-riposo di
dio gener la festa (hag in ebraico). Come dio, anche l'uomo è chiamato al lavoro, al riposo e
alla festa.
In conclusione il lavoro è considerato come mezzo con cui l'uomo esercita il suo dominio
sul creato, non in concorrenza a dio ma come cooperatore al completamento del progetto
divino. Il lavoro soddisfa le necessità e migliora la qualità della vita e contribuisce a dare
senso all'esistenza, ma può diventare un idolo al quale tutto viene sacrificato (vita, affetti,
tempo), o diventare mero strumento di arricchimento anche a scapito della giustizia.

Nel mondo e nella cultura musulmana la concezione del lavoro è definita dallo stesso
Corano. La legge islamica (Shariah) impone al lavoratore l'obbligo di svolgere il lavoro al
meglio delle sue capacità e competenze, incoraggiando l'uomo ad utilizzare tutte le risorse
che dio ha creato e gli ha affidato; il mancato utilizzo di queste risorse per il vantaggio
personale e comunitario equivale a ingratitudine verso dio. L'ozio è considerato una chiara
manifestazione di mancanza di fede.
In tempi più recenti si manifesta nel mondo islamico una particolare attenzione al lavoro
considerato come diritto. La libera scelta del lavoro è garantita ed è proibito il lavoro
forzato (Carta Araba dei diritti dell'uomo).

Per quanto riguarda la Chiesa cattolica è Leone XIII che tenta di avviare un dialogo col
mondo moderno affrontando la questione operaia, il socialismo, il diritto di proprietà.
Numerose sono le encicliche dei papi successivi che affrontano le tematiche del lavoro
operaio e dello scontro tra capitalismo e socialismo. Nel 1981 Giovanni Paolo II affronta in
maniera specifica diversi aspetti del lavoro umano, denunciando la tecnologia che
soppianta l'uomo e che lo rende subordinato ad essa. Anche Benedetto XVI è intervenuto
più volte sulla rilevanza del lavoro per l'uomo.

IL FUTURO DEL LAVORO


Viviamo in un periodo di rapido cambiamento e di crescenti contraddizioni: l'aspettativa di
vita alla nascita è notevolmente aumentata ma rimangono ancora grandi differenze nel
mondo; aumentano sempre di più i flussi migratori di persone che da paesi poveri si
spostano in quelli ricchi; le differenze tra nord e sud del mondo si aumentano sempre di
più; un sesto della popolazione del mondo ha in mano i 5/6 della ricchezza globale.
Il mercato del lavoro è in fermento in nome della globalizzazione ma molti giovani non
possono pianificare il futuro e considerare il lavoro come occasione di espressione delle
proprie potenzialità individuali.
La convivenza organizzativa è in crisi. Cresce la sofferenza e l'insofferenza di quanti operano
nei contesti organizzativi mentre nuove forme di oppressione autoritaria coprono la perdita
di senso che in numerose organizzazioni pubbliche e private si respira.

2. LA POPOLAZIONE LAVORATIVA
LA POPOLAZIONE E GLI OCCUPATI NEL MONDO
All'inizio del '900 la popolazione mondiale era di circa 1.5 miliardi di persone, nel 1950 era
di 2.5 mld e nel 2010 di circa 6.5 mld, con una stima al 2050 di circa 9 mld.
Non tutte le componenti della popolazione sono coinvolte nel lavoro, per questo si
distingue tra popolazione attiva (insieme delle persone sulle quali si può contare per
l'esercizio e lo sviluppo delle attività economiche, quindi persone ccupate, disoccupate alla
ricerca di lavoro, impossibilitate momentaneamente, alla ricerca della prima occupazione)
e popolazione non attiva (età inferiore a 15 anni, da almeno 15 anni non svolgono un
lavoro e non lo stanno cercando, studenti, mendicanti, detenuti, infermi, casalinghe).
Le casalinghe sono considerate parte della popolazione non attiva perchè per la loro
attività non è prevista alcuna remunerazione monetaria.
Il numero di occupati e la possibilità di lavoro all'interno di una comunità nazionale sono
fortemente connessi alla'andamento e allo sviluppo dell'economia. Per fare confronti di
dati dei diversi paesi si usano indici come l'ISU, l'IPU, il tasso di disoccupazione, il tasso di
inflazione, la speranza di vita alla nascita ecc. Tra questi indicatori è di uso corrente fare
riferimento al PIL (GDP, Gross Domestic Product), valore complessivo dei beni e dei servizi
prodotti in un paese in un certo periodo di tempo. A partire dal PIL si può definire il reddito
pro capite e il PIL pro capite, calcolato dividendo il PIL per il numero degli abitanti; se il PIL
cresce a un tasso superiore a quello della popolazione il tenore di vita del paese registra un
miglioramento e viceversa. Nella maggior parte dei paesi al PIL contribuiscono per il 60-
70% i servizi, per il 25-40% il settore industriale e per meno del 5% il settore agricolo.
Ultimamente per valutare lo sviluppo di un paese si usano altri indicatori come il numero
degli utenti di Internet.

I LAVORATORI IN ITALIA
Le attività economiche tradizionalmente sono divise in 3 settori: il settore primario si
riferisce all'agricoltura, quello secondario all'industria e alle aziende di produzione di beni e
servizi, mentre quello terziario è riferito al commercio, ai trasporti, alla comunicazione,
all'assicurazione, alle libere professioni e alla pubblica amministrazione.
Nel tempo cresce complessivamente il numero di occupati, crescono quelli nel terziario e
diminuiscono quelli nel primario.

LA CLASSIFICAZIONE DELLE PROFESSIONI


Il criterio più accreditato di classificazione delle professioni è l'ISCO, promosso
dall'International Labour Organization (ILO). L'ultima versione elaborata dall'ISCO (ISCO-08)
definisce 10 grandi gruppi, 44 articolazioni dei grandi gruppi, 130 gruppi minori e 437 unità
professionali. I criteri di aggregazione delle diverse attviità professionali sono
fondamentalmente legati all'insieme dei compiti che caratterizzano il lavoro e al livello
delle abilità e alla specializzazione richiesta per quei compiti.
Un'analoga classificazione è stata elaborata dall'ISTAT in collaborazione con l'ISFOL nel
2006, la Nomenclatura e classificazione delle unità professionali (NUP06).
Il criterio di aggregazione dei lavori è quello della competenza, ed in base ad esso si sono
articolati i 5 livelli classificatori della NUP06: grandi gruppi, gruppi, classi, categorie e unità
professionali. L'ultimo livello gerarchico della NUP06, quello dell'unità professionale,
racchiude al suo interno professioni omogenee rispetto a conoscenze, competenze, abilità
richieste e attività lavorative svolte.
Sotto sono riportati i 10 grandi gruppi.

1. Legislatori, dirigenti ed imprenditori: professioni che richiedono esperienza e


particolari capacità decisionali ed organizzative. (U.P.: senatori, deputati,
ambasciatori, presidi, imprenditori, editori, produttori artistici, direttori di banca)
2. Professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazzione: professioni per
le quali è richiesto un rilevante livello di conoscenze, generalmente acquisito
attraverso il completamento di un percorso di studi di tipo universitario o post
universitario (knowledge workers, centrali nella nuova economia della conoscenza).
(U.P.: fisici, astronomi, ingegneri, architetti, biologi, psicologi, avvocati, medici
magistrati, registi, attori, allenatori)
3. Professioni tecniche: professioni che richiedono le conoscenze operative e
l'esperienza per svolgere attività di supporto tecnico-applicativo in ambito
scientifico, umanistico, economico-sociale o sportivo-artistico. Saperi in genere
acquisibili completando un ciclo di istruzione secondaria superiore o un corso
universitario di studi di primo livello. La differenza con le professioni intellettuali sta
nell'applicazione di protocolli predeterminati e di conoscenze consolidate mancando
l'aspetto di creazione e di produzione originale di nuova conoscenza. (U.P.: enologi,
piloti d'aereo, fisioterapisti, odontotecnici, agenti in borsa, tesorieri, istruttori, atleti)
4. Impiegati: professioni di ufficio con funzioni non direttive , espressione di un lavoro
non manuale a carattere esecutivo (data workers), a cui in genere corrispondono
livelli di istruzione formale non superiori all'obbligo scolastico. (U.P.: cassieri,
bigliettai, personale di segreteria)
5. Professioni qualificate nelle attività commerciali e nei servizi: funzioni gestionali e
di assistenza alla clientela negli esercizi commerciali, con servizi di ricezione e
ristorazione, ricreativi, di supporto alla famiglia o di cura della persona; di
mantenimento dell'ordine pubblico. Conoscenze acquisibili completando l'obbligo
scolastico, frequentando corsi di qualifica o attraverso esperienza pratica. (modelli,
cuochi, camerieri, gestori di attività, parrucchieri, polizia di stato, guardia di finanza,
vigili del fuoco, guardie giurate, bagnini)
6-7. Artigiani, operai specializzati e agricoltori: professioni operaie e manuali
specializzate in tutti i settori di attività economica. Il loro esercizio richiede
l'esperienza, la conoscenza dei materiali, degli utensili, dei macchinari, dei
processi produttivi. Oltre alla costruzione di oggetti e beni strumentali, queste
professioni esercitano anche attività di servizio legate a funzioni di installazione,
manutenzione ed eventuale riparazione. (U.P.: artigiani, minatori, muratori,
idraulici, elettricisti, gioiellieri, agricoltori, giardinieri, pescatori, cacciatori,
macellai, panettieri, tessitori, calzolai)
8. Conduttori di impianti e operai semiqualificati addetti a macchinari fissi e mobili:
addetti all'avviamento, mantenimento e controllo di macchine, impianti industriali
automatizzati, linee automatiche di assemblaggio, conduzione di veicoli o
macchinari mobili per il movimento terra ed il sollevamento. (U.P.: manovratori,
tornitori, operai chimici, macchinisti ferroviari, autisti di taxi, conduttori di carrelli e
gru)
9. Professioni non qualificate: richiedono un livello di conoscenza e di esperienza
sufficienti a svolgere attività molto semplici e ripetitive, che richiedono spesso l'uso
della forza fisica e limitata autonomia di giudizio e di iniziativa. Svolgono compiti di
manovalanza non qualificata nelle attività agricole, industriali o di servizio, di
guardiania, di pulizia. (U.P.: escieri, commessi, fattorini, corrieri, custodi, bagnini,
lavapiatti, spazzini, braccianti, manovali)
10. Forze armate: esercito, marina, carabinieri, aeronautica. Professioni che
garantiscono l'integrità territoriale e politica della nazione e la sua sicurezza in
tempo di pace e di guerra.
Il lavoro è profondamente cambiato e secondo Frey cambierà anche in futuro,
principalmente per 4 motivi:
1. Innovazione tecnologica: riguarda sia l'innovazione di prodotto che l'innovazione di
processo. Innovazioni continue, rapide, che creano flessibilità delle strutture
organizzative.
2. Orientamento al mercato: importanza crescente della concorrenza sulla qualità del
prodotto.
3. Internazionalizzazione degli scambi di prodotti, capitali e lavoro: mercati dai
confini sempre più ampi, che producono effetti anche di mutamento dell'assetto
istituzionale.
4. Sviluppo dei processi di terziarizzazione: Le nuove tecnologie sono sempre più
software e meno hardware, e software è, in sostanza, servizio (pubblicità ecc.)

Questi fattori producono conseguenze sulla quantità e sulla qualità del lavoro.
In termini qualitativi diventa sempre più rilevante la distinzione tra good jobs e bad jobs. I
good jobs sono i posti di lavoro a condizioni monetarie e non monetarie favorevoli
(retribuzione, sicurezza sul lavoro, mobilità professionale, raporti di lavoro).
In ogni caso, sul piano individuale, le competenze acquisite durante la formazione e
l'esperienza professionale sono destinate ad una obsolescenza rapida e continua.

LA TIPOLOGIA DELLE ATTIVITA' LAVORATIVE


Le attività lavorative indicano un insieme di azioni, di comportamenti, che sono propri di un
particolare tipo di lavoro. Le competenze si riferiscono al percorso formativo e
professionale necessario a svolgere certe attività. La relazione che si instaura tra lavoratore
e lavoro rinvia ai significati personali e alla mobilitazione cognitiva ed emotiva attivati dal
lavoro. È possibile raggruppare tutte le attività lavorative in 4 tipi: le attività operative,
tecnico-specialistiche, gestionali, manageriali.

ATTIVITA' OPERATIVE: Svolgimento di operazioni di carattere manuale o meccanico, di


natura più o meno semplice, che richiedono una modesta competenza professionale, in
genere acquisibile in un arco di tempo relativamente ristretto e da consolidare con la
concreta esperienza di lavoro.
Le attività operative tendono ad essere ripetitive e monotone, richiedono spesso molta
attenzione ma un modesto coinvolgimento emotivo e cognitivo; permettono a chi svolge il
compito di avere un controllo diretto sui risultati del lavoro.
In termini di relazione che le persone intrattengono con il lavoro, per molte persone le
attività operative sono alienanti e spersonalizzanti, spesso vissute come pena e costrizione.
È anche possibile però che prevalga la soddisfazione di fare qualcosa di utile e di
immediatamente rilevabile.

ATTIVITA' TECNICO-SPECIALISTICHE: Attività che implicano un riferimento ad uno specifico


ambito scientifico-disciplinare (ingegneria, economia, giurisprudenza, psicologia), ad uno
specifico settore (musica, design) o ad uno specifico contesto (insegnanti di scuola,
infermieri di ospedale) che utilizzano precise metodologie e tecniche di intervento che
sono convenzionalmente condivise a livello internazionale.
Sono attività che richiedono competenze complesse, acquisibili solo dopo un lungo
percorso di studi superiori o universitari e dopo una pratica professionale maturata sul
campo. Le attività tecnico-specialistiche contribuiscono a definire l'identità personale,
rendono le persone soddisfatte della possibilità di misurarsi con problemi non sempre di
facile soluzione e di lasciare un segno concreto e visibile nel mondo esterno.
In altre parole, le attività tecnico-specialistiche entrano a far parte del mondo interno delle
persone, implicano la mobilitazione delle risorse cognitive ed emotive della persona. In
alcuni casi il lavoro tecnico-specialistico richiede particolari competenze relazionali.

ATTIVITA' GESTIONALI: Le attività gestionali sono tipiche di numerose figure professionali


(capi d'ufficio, coordinatori, presidi scolastici) e prevedono diverse attività: prevedere,
pianificare, programmare, organizzare, coordinare, controllare.
-> Previsione: prevedere significa vedere in anticipo, prevedere scenari possibili. Richiede
una particolare sensibilità alla lettura del contesto, all'individuazione e all'ascolto di segnali
anche deboli. La previsione può riguardare aspetti politici, economici, di mutamento dei
mercati, di evoluzione tecnologica ecc.
-> Pianificazione: darsi un piano, definire le linee di realizzazione di una certa attività in
relazione agli obiettivi definiti. La pianificazione è una manifestazione di intenti, è
l'indicazione del percorso che si vuole seguire, è la verifica della congruenza delle iniziative
da intraprendere con gli obiettivi che si intendono perseguire. Pianificare espone il gestore
alla valutazione degli altri, richiede competenza professionale, chiarezza, persistenza,
assunzione di responsabilità.
-> Programmazione: in relazione ai piani predisposti c'è l'esigenza di programmare, di
scrivere in anticipo come si procederà. La programmazione riguarda la successione delle
attività, la gestione del tempo, delle risorse economiche, delle risorse umane, degli
approvvigionamenti.
-> Organizzazione: significa armonizzare riducendo ad unità elementi diversi che da soli
non sarebbero in grado di assicurare la sopravvivenza e lo sviluppo dell'insieme. Il gestore,
sulla base delle previsioni effettuate, della pianificazione elaborata e della programmazione
definita, si adopera per organizzare in modo coerente il lavoro, i gruppi delle persone
deputate al conseguimento degli obiettivi e più in generale i processi necessari.
-> Coordinamento: coordinare le attività di lavoro significa ordinare insieme, disporre
secondo il criterio ritenuto adatto rispetto allo scopo che si vuole ottenere.
-> Controllo: il controllo come fase del ciclo gestionale significa osservare, esaminare
attentamente qualcosa per accettarne l'esattezza, la validità, la regolarità, il buon
funzionamento in generale. Il controllo dunque si riferisce alle azioni di confronto tra
obiettivi e risultati.

ATTIVITA' MANAGERIALI: Sono deputate all'inividuazione, nell'ambito della missione


dell'organizzazione, degli obiettivi generali da raggiungere ed alla definizione delle relative
strategie. Si tratta quindi di un lavoro di lucida individuazione e di tenace perseguimento
degli obiettivi. Questo lavoro richiede capacità di lettura del contesto e costante
collegamento con l'ambiente esterno economico, politico, culturale e sociale, capacità di
diagnosi, flessibilità e capacità di convogliare le energie verso obiettivi realistici e credibili.
3. ORIGINI, SVILUPPI E PROSPETTIVE DELLA PSICOLOGIA
DEL LAVORO E DELLE ORGANIZZAZIONI
GLI ULTIMI DECENNI DEL XIX SECOLO
Contesto economico, culturale e sociale
-> Il periodo che chiude il XIX secolo è ricco di fermenti culturali e di progetti di sviluppo
economico e scientifico. La diffusione della teoria evoluzionistica di Darwin (1859), il
dibattito sulle concezioni economiche sorrette dall'opera di Adam Smith (1776) e dal
pensiero di Karl Marx (1844), le nuove opportunità derivanti dalla rivoluzione industriale e
la crescita del capitalismo creano un clima favorevole allo sviluppo della ricerca scientifica e
un nuovo interesse per lo studio dell'individuo.
Sviluppo della psicologia
-> Wundt fonda nel 1879 il Laboratorio di Psicologia all'Università di Lipsia in Germania e
così si afferma la possibilità di una psicologia distinta dalla filosofia con l'aspirazione a
candidarsi come disciplina scientifica. Suoi allievi furono Cattell, Munsterberg, Scott, primi
nomi di rilievo della nascente psicologia del lavoro.
Lo Strutturalismo si diffonde grazie a Titchener e inizia il contrasto con il nascente
Funzionalismo.
Fondazione dell'American Psychological Association nel 1892 a cura di Stanley Hall.
Fioriscono le riviste scientifiche: Psychological Review (1894), Psychological Monographs
(94), Psychological Index (94). La pubblicazione della prima opera teorica italiana è del
1870, a cura di Roberto Ardigò.
Ambiti della psicologia del lavoro
-> Nel 1889 Patrizi fonda un laboratorio di psicologia sperimentale applicata al lavoro,
simile a quello che Munsterberg aveva organizzato a Friburgo qualche anno prima. Nel
1891 è pubblicato il volume di Angelo Mosso, "La fatica" (studiata col dinamometro). Nel
1896 il tema della fatica fisica e mentale è ripreso da Krapelin per esaminare la relazione
tra fatica e prestazione lavorativa e per individuare le tecniche per ridurre la fatica e
armonizzare la prestazione alle richieste dei processi industriali.
Le origini della psicologia del lavoro rispecchiano un particolare clima culturale, economico
e scientifico. In quel periodo si assiste ad un cambiamento dell'economia e dell'intera
società, con la trasformazione da società prevalentemente agricola a prevalentemente
industriale e la conseguente migrazione di massa tra continenti e tra periferie e centri
urbani. Tali cambiamenti ponevano ai singoli e alle organizzazioni produttive nuovi
problemi di selezione, integrazione e adattamento.

DAL 1900 AL 1920


Nel 1904 William Bryan pubblicò un articolo sulla possibilità di potenziare le abilità dei
telegrafisti e richiamava l'attenzione dell' APA sull'opportunità di studiare le concrete
attività così come si manifestavano nella vita quotidiana. Fu in questo articolo che usò per
la prima volta l'espressione "psicologia industriale", peraltro erroneamente a causa di un
errore di battitura.
Scott fu l'autore dei primi studi sulla possibilità di suggestionare il pubblico a fini
pubblicitari.
Munsterberg invece, allievo di Wundt e amico di Roosevelt, era interessato ad applicare i
tradizionali metodi psicologici ai problemi concreti dell'industria, con particolare riguardo
all'organizzazione del lavoro e alla selezione del personale. A lui si riconoscono contributi di
studio sulla monotonia, sulla fatica, sull'adattamento dell'uomo all'ambiente di lavoro, le
prime analisi delle motivazioni al consumo e delle tecniche di vendita.
Taylor invece, operaio->ingegnere->manager, ridisegnò la situazione di lavoro per garantire
sia una maggiore produzione per l'azienda sia un salario maggiore ai dipendenti ("The
principles of scientific management", 1911).
I contributi di Taylor sull'orgnizzazione scientifica del lavoro fornirono agli operatori
aziendali una precisa metodologia di intervento centrata sullo studio degli impianti, delle
attrezzature, dei processi e sulla divisione, misurazione e controllo dell'attività lavorativa.
Taylor fu molto apprezzato per il suo contributo allo sviluppo dell'industria nord-americana
ma fu anche accusato di aver favorito la disoccupazione. Ancora oggi molti aspetti del
taylorismo sono praticati (standardizzazione del lavoro, analisi delle mansioni, definizione
degli obiettivi, selezione dei lavoratori). Molti furono i critici, tra cui Friedmann.
L'avvento della prima guerra mondiale segnò un importante sviluppo per la psicologia
applicata. Yerkes, presidente dell'APA, riteneva possibile il contributo della psicologia al
buon esito della guerra e mise a punto insieme al suo gruppo di ricerca 2 test per la
reclutazione dei soldati; l'Army Alpha e l'Army Beta (analfabeti).
L'autorizzazione a procedere alla somministrazione del test arrivò solo nel 1918, pochi mesi
prima della fine del conflitto, rendendo modesta l'utilità del test a fini pratici: tuttavia
contribuì fortemente al riconoscimento sociale della professione di psicologo, considerata
ora capace di contribuire alla prosperità di un'intera nazione o di una singola
organizzazione produttiva.
Nel 1917 iniziò la pubblicazione del "Journal of Applied Psychology", la più antica rivista nel
campo della psicologia del lavoro e delle organizzazioni; anche in Italia nascono le prime
riviste di psicologia. Autori come Vailati e Gemelli contribuiscono alla ricerca psicologica in
ambito lavorativo.

DAL 1920 AL 1940


Negli USA il periodo compreso tra i due conflitti mondiali è caratterizzato da una
espansione della psicologia applicata con particolare riguardo allo sviluppo di nuove
tecniche di selezione del personale. Bingham ad esempio diede vita ad una delle prime
forme di cooperazioni tra mondo accademico e ambiente industriale, realizzando per conto
di 27 aziende un'ampia ricerca sulla selezione e sullo sviluppo dei venditori.
Nel 1921 Cattell fondò la Psychological Corporation, una società per azioni formata da
psicologi con l'intento di promuovere attività e servzi per l'industria, garantendo
competenza e serietà contro professionisti improvvosati e ciarlatani. La Psychological
Corporation esiste tutt'oggi come uno dei più noti editori di test psicologici.
Nel 1924 ebbe inizio, presso lo stabilimento di Hawthorne (Chicago, 29000 addetti), una
joint venture tra West Electric e Università di Harvard nella quale attraverso una serie di
esperimenti si studiava il rapporto tra luminosità dell'ambiente lavorativo ed efficienza.
Con sorpresa dei ricercatori la produttività sembrava del tutto insensibile al livello di
illuminazione. L'interpretazione dei ricercatori è stata che le lavoratrici coinvolte negli
esperimenti, sentendosi osservate dai ricercatori, abbiano aumentato la produttività.
I ricercatori hanno chiamato il fenomeno "effetto Hawthorne", indicando un mutamento
nel comportamento conseguente ad una condizione di novità, che evolve in un graduale
ritorno al precedente livello di comportamento non appena l'effetto della novità si
esaurisce. Questi studi furono coordinati da Elton Mayo, il quale concluse che la
produttività dipendeva innanzi tutto dall'atteggiamento verso il lavoro e che la motivazione
era condizionata dal morale. Mayo inoltre notò che il morale era condizionato anche dal
tipo di solidarietà e dai legami prevalenti nell'ambito del piccolo gruppo spontaneo.
Nonostante in altri paesi, in particolare negli USA, si profilino nuove prospettive
sull'oggetto e sulla posizione della psicologia nel campo delle scienze, in Italia la psicologia
trova difficoltà ad inserirsi nel mondo culturale e scientifico.
Agostino Gemelli fonda nel 1927 il Laboratorio di Psicologia dell'Università Cattolica di
Milano e facilita una più precisa suddivisione dei campi di attività della psicologia e uno
sviluppo delle applicazioni psicologiche, individuando per la prima volta precisi piani di
intervento dello psicologo. È per questo che Gemelli può essere considerato il principale
promotore e gestore delle applicazioni psicologiche al mondo del lavoro.
Nel 1920, chiusa la parentesi bellica che aveva visto la psicologia del lavoro concentrata
soprattutto sui servizi di selezione psicologica dei militari, riprende in pieno l'attività
produttiva e lo sviluppo delle industrie.
Con l'ascesa al potere del partito fascista la psicologia in generale venne messa a tacere e
svuotata della sua importanza e con la riforma Gentile venne abolito l'insegnamento della
psicologia nei licei. Ciononostante non mancano in questi anni numerosi contributi sui temi
della psicofisiologia del lavoro, dell'orientamento scolastico e professionale, delle tecniche
per la misurazione delle attitudini.

DAL 1940 AL 1960


L'avvento della seconda guerra mondiale comportò una nuova mobilitazione degli psicologi
del lavoro negli USA. Una commissione presieduta da Bingham approntò l'Army General
Classification Test (1937) al fine di classificare le reclute in base alla loro capacità ad
apprendere compiti e responsabilità e si occupò della selezione e dell'addestramento degli
ufficiali e dei piloti.
Gli strumenti di selezione iniziarono ad essere impiegati anche in ambito lavorativo; essi
misuravano atteggiamenti al fine di ridurre l'assenteismo del personale. Grazie a questo
impiego della psicologia, la stessa professione viene riconosciuta e accettata socialmente e
si sviluppa allo stesso tempo la psicologia del lavoro come ambito legittimo di ricerca
scientifica.
Negli anni '50 numerose università statunitensi iniziarono ad offrire corsi in psicologia del
lavoro, in psicologia industriale e furono definiti i primi curricula formativi per conseguire
un titolo accademico in queste discipline.
L'attenzione dei ricercatori e dei professionisti, senza abbandonare l'antico settore della
selezione, incominciò a rivolgersi allo studio delle influenze sociali, dei gruppi nelle
organizzazioni, della leadership, del problem solving e della presa di decisione. La vecchia
psicologia del lavoro si aprì ed utilizzò i contributi della sociologia, dell'antropologia sociale
e in alcuni contesti della psicologia clinica.
In Italia la fine della seconda guerra mondiale riduce l'influenza dell'idealismo
neohegeliano nelle Università e nella cultura italiana rompendo l'isolamento degli psicologi
italiani. Si riaprono i concorsi universitari per l'insegnamento della psicologia, bloccati per
tutto il periodo fascista.
Si dovrà attendere il 1971 per l'istituzione di un apposito corso di laurea in psicologia
presso le Università di Roma e di Padova.
Fino all'inizio degli anni '50 la psicologia del lavoro continua ad essere chiamata
psicotecnica e la sua utilità si limita alla selezione e orientamento. Nonostante ciò, iniziano
a delinearsi gli ambiti di ricerca e di intervento professionale della psicologia del lavoro e
delle organizzazioni.

DAL 1960 AL 1980


Con lo sviluppo del movimento sindacale inizia un duro scontro tra imprenditori e
lavoratori sui temi dell'organizzazione del lavoro. Negli anni '60 la società si trasforma
rapidamente: si hanno flussi migratori verso i poli industriali, si trasforma la struttura della
famiglia e dei ruoli lavorativi, cresce il consumismo e la cultura di massa.
Nel '61 viene fondata a Milano l'APIL (associazione per la psicologia italiana del lavoro) e
nel '65 è istituito presso la Cattolica di Milano il primo insegnamento italiano di psicologia
del lavoro.
Sul piano professionale iniziano ad applicarsi le prime tecniche di gruppo ed iniziano le
esperienze di training group, spesso finalizzate ad instaurare un clima più democratico
all'interno delle organizzazioni. Un numero crescente di psicologi viene assunto
stabilmente nella funzione del personale di alcune organizzazioni.
Il '68 è l'anno delle rivolte studentesche e operaie in Francia, precedute in Italia da forti
agitazioni sindacali alla Pirelli e all'Italsider di Bagnoli. Il cambiamento sociale incrementa la
richiesta di psicologia e si diffondono gli interventi di formazione, le consulenze sulle
ristrutturazioni organizzative, i contributi in campo ergonomico, le iniziative per la sicurezza
e l'igiene sul lavoro e le prime indagini di mercato a fini pubblicitari.
Nel 1967 si costituisce a Roma la SIE (Società Italiana di Ergonomia) e nel 1971 è istituito il
primo corso di laurea in psicologia presso l'Università di Roma e poi a Padova.
Si afferma lo sviluppo organizzativo (Organization Development – OD), un modello di
intervento nelle organizzazioni sorretto dal pensiero di Lewin e dalla pratica dell'action
research, che prevede il ricercatore in veste di consulente e in relazione con il sistema
cliente. Cambia l'approccio in molte organizzazioni che abbandonano progressivamente
l'orientamento direttivo e burocratico verso sistemi più aperti, con il ricorso alla gestione
della qualità, alla valorizzazione del lavoro in gruppo, alla partecipazione e alla
responsabilità diretta di singoli e gruppi.
È di questo periodo l'introduzione della dizione psicologia del lavoro e delle organizzazioni
(Work and organizational psychology – W&O) a sottolineare l'emancipazione della
disciplina anche dalla psicologia stessa.
DAL 1980 AL 2010
In questo clima di società del benessere cresce anche la richiesta di psicologia. Adesso gli
psicologi del lavoro si occupano di molte aree: dalla progettazione delle mansioni al
rapporto uomo macchina, dalle indagini sulla motivazione allo studio delle culture dei climi
organizzativi, dai problemi legati alla presa di decisione ai fenomeni di gruppo. Le nuove
esigenze della direzione per obiettivi inducono cambiamenti nelle procedure gestionali, nei
sistemi retributivi e nella pianificazione delle carriere. La formazione diventa uno
strumento quotidiano per dirigenti.
In questo clima, nel 1986 viene istituito l'indirizzo di psicologia del lavoro e delle
organizzazioni.
Per quanto riguarda le riviste, esistono almeno 20 testate che pubblicano sistematicamente
contributi di psicologia del lavoro: tra queste sono da ricordare il "Journal of applied
psychology" e "Personnel psychology".
Anche la vita delle associazioni professionali ha avuto particolare impulso: nel '78 è fondata
a Milano la Divisione di Psicologia del Lavoro e dell'Organizzazione che nel '95 si trasforma
in Società Italiana di Psicologia del Lavoro e dell'Organizzazione (SIPLO).
Tuttavia, già a partire dall'inizio degli anni '90, muta il quadro politico, economico e sociale.
Dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda si estende il processo di
globalizzazione dei mercati, dei prodotti e della forza lavoro.
Per quanto riguarda le organizzazioni si sta verificando una rapida transizione da sistemi
monoculturali a sistemi multiculturali. Esistono quindi due aspetti complementari della
globalità: l'interconnessione che tarsferisce ciascuna conoscenza da un luogo a un altro e la
differenziazione che la radica in un luogo determinato.
Accanto ai tradizionali contratti di lavoro a tempo indeterminato si sono diffuse relazioni di
lavoro maggiormente flessibili e basate su forme contrattuali a tempo determinato. Tali
tipologie sono indicate come contingent work (lavoro atipico). Da un lato il lavoro flessibile
può rappresentare occasione di esperienza e crescita professionale, ma dall'altro
rappresenta una condizione di incertezza.
Per la psicologia del lavoro i temi di ricerca e le metodiche di intervento sono
profondamente mutati: c'è un netto spostamento di interesse da costrutti e variabili
individuali o legati al compito, a costrutti e variabili di natura organizzativa e sociale.
I temi della convivenza sociale e della convivenza organizzativa costituiscono la grande sfida
del futuro.

INDICAZIONI PER IL FUTURO

LA DENOMINAZIONE DISCIPLINARE
Psicotecnica -> Il primo ad impiegare questa dizione fu Fechner per designare le metodiche
utilizzate nella ricerca psicofisica. Munsterberg nel 1913 per primo introduce il concetto di
psicotecnica nell'ambito della psicologia industriale.
Psicologia industriale -> Apparsa per la prima volta nel 1904 al posto di psicologia
individuale in un articolo di Bryan. Tiffin e McCormick definirono la psicologia industriale
come la scienza che studia il comportamento umano in rapporto alla produzione,
distribuzione e uso dei beni e dei servizi della nostra civiltà.
Psicologia del lavoro -> Venne usato in Italia da Gemelli per indicare un settore della
psicologia generale nato con l'intento di conoscere e determinare le condizioni migliori per
l'esecuzione del lavoro umano e per allontanare le cause che recano danno al lavoro come
la monotonia, la fatica ecc.
Psicologia dell'organizzazione -> Solo negli anni '70 si inizia a parlare di psicologia
dell'organizzazione per approfondire i temi di carattere più sociale della psicologia del
lavoro (lavoratore in quanto membro di un gruppo). L'attenzione è posta sulle percezioni
sociali reciproche, sui meccanismi di influenza sociale, sulle comunicazioni, sulla
cooperazione e sul conflitto, sui processi di decisione sociale.
Psicologia delle risorse umane -> Si occupa di gestione delle persone, del processo di
socializzazione, del contratto psicologico, del coinvolgimento. L'attenzione è rivolta alle
varie fasi che caratterizzano l'interazione tra individuo e organizzazione.
- Tali differenze terminologiche dipendono dai cambiamenti che caratterizzano la disciplina
soprattutto in rapporto ai mutamenti che avvengono nel contesto sociale.
Quindi, prima della seconda guerra mondiale la nomenclatura più diffusa era psicologia
industriale; verso gli anni '50 si parlava di occupational psychology (riferito al mero
orientamento professionale); intorno agli anni '60 si inizia a parlare di Work and
Organizational Psychology.

LA MISSIONE DELLA PSICOLOGIA DEL LAVORO E DELLE ORGANIZZAZIONI


Il compito della psicologia del lavoro è da sempre quello di condurre ricerca e di sostenere
e orientare la pratica professionale traducendo i prodotti della ricerca in applicazioni fruibili
dalle organizzazioni. Il suo ambito di ricerca e di intervento privilegiato è lo sviluppo e il
cambiamento organizzativo. Fare ricerca o intervenire professionalmente nel campo dello
sviluppo e del cambiamento organizzativo significa produrre conoscenza sulla relazione tra
soggetti e contesto, quindi produrre conoscenza su come relazionarsi all'interno e
all'esterno dell'organizzazione.

LA RICERCA E LO SVILUPPO ORGANIZZATIVO


La psicologia del lavoro fa ricerca principalmente in 4 modi:
– sperimentazioni in laboratorio e sul campo
– indagini di tipo action research e indagini cliniche
– inchieste esplorative e di tipo survey
– modalità psicometriche, dedicate allo sviluppo di strumenti
L'analisi della relazione tra soggetti e contesto e l'esplorazione di modi diversi di concepire
la relazione si riferiscono a 4 ambiti:
– le strutture dell'organizzazione
– i processi organizzativi implicati dal sistema operativo, dal sistema informativo e dal
sistema del controllo di gestione
– la tecnologia impiegata (hardware e software)
– la cultura organizzativa, intesa come sistema di valori, norme e pratiche di
comportamento condivisi
Questi 4 ambiti rappresentano i tradizionali campi di intervento dell'Organizational
Development e sono fortemente interdipendenti.
LE ORGANIZZAZIONI NO PROFIT E LE PICCOLE IMPRESE
Gran parte della letteratura si riferisce alle profit organization.
Molte organizzazioni pubbliche (agenzie governative, uffici regionali e comunali, scuole,
tribunali) e private (organizzazioni no profit, fondazioni culturali) sono ineressate ad avviare
processi di cambiamento e di sviluppo organizzativo.
Le piccole imprese sono chiamate ad affrontare processi di cambiamento e di crescita: il
passaggio da cultura familiare a cultura di impresa; il passaggio da cultura locale a cultura
globale.

IL RISPETTO E LA VALORIZZAZIONE DELLE DIFFERENZE


L'economia e la società globale stanno producendo valori, modelli di comportamento
omologati e omologanti. La pressione dell'omogeneizzazione sta vincendo sull'esigenza
della differenza.
Un'organizzazione diventa multiculturale non solo perchè opera in contesti geografici
diversi ma perchè riflette i contributi di differenti gruppi culturali e sociali negli obiettivi,
nelle pratiche, nei prodotti e nei servizi. Il problema è di promuovere nuove politiche e
nuove pratiche che sostengano e valorizzino le differenze culturali.

IL RUOLO DELLO PSICOLOGO DEL LAVORO


Le nuove professioni attraversano sempre un periodo più o meno lungo di precarietà e di
incertezza. Ci sono situazioni nelle quali i committenti non sono sorretti da istanze di
comprensione, di progetto, ma da esigenze di mera esecuzione.
Bisogna anche avere il coraggio di riconoscere errori e tendenze del passato che,
probabilmente, hanno contribuito a fondare alcuni atteggiamenti di pregiudizio o di
ambivalenza nei confronti di questo settore della psicologia.
Per lungo tempo l'oggetto centrale di interesse e di ricerca della psicologia del lavoro è il
lavoro in sè, deprivato di ogni valenza soggettiva escludendo la possibilità di incentrare
l'analisi sulle dimensioni di relazione (uomo-lavoro, uomo-organizzazione).
Rispetto al modello medico e di altre libere professioni, nel quale committente e utente
coincidono nella stessa persona, la novità era forte. L'ottica fu quella di rispondere, di
soddisfare la richiesta del soggetto committente e il know how professionale costituiva
appunto lo strumentario teorico, metodologico e tecnico che avrebbe consentito di
esaudire la domanda del committente. Così è possibile ipotizzare che la restrizione
dell'intervento professionale a pochi settori, in particolare alla selezione del personale, sia
stata determinata dalle esigenze dei committenti e dall'adesione dei consulenti, convinti di
dover esaudire le richieste di intervento piuttosto che analizzarle e comprenderle nel
quadro dei più complessi processi che attivano, all'interno di un'organizzazione, una
domanda di consulenza psicologica.
Si possono individuare 3 diversi ruoli assunti dallo psicologo del lavoro e delle
organizzazioni nel corso di un secolo di storia.
L'approccio dei primi psicologi a inizio '900 si è sostanziato in una reificazione del lavoro e
dell'ambiente organizzativo: si afferma dunque la figura dell' "analista del lavoro"
(selezione, orientamento, adattamento alla macchina, antinfortunistica).
I tempi però cambiano, la tecnologia diventava più complessa e i lavoratori più scolarizzati
e specializzati; essi iniziarono ad agire nelle organizzazioni sindacali e la legislazione
progressista a tutela del lavoro dipendente rendeva meno precaria e incerta la condizione
lavorativa.
Accanto a uno psicologo analista del lavoro si affermava uno psicologo analista delle
relazioni, che trovava il suo centro professionale nell'attività di formazione finalizzata,
fondamentalmente, a facilitare l'inserimento e l'adattamento nei gruppi e
nell'organizzazione; a fondere e omogeneizzare credenze e valori; ad accrescere il
sentimento di appartenenza ad un'entità superindividuale.
Questo tipo di formazione muoveva da una visione di maggiore complessità del
comportamento umano, valorizzando il mondo interno delle rappresentazioni e dei vissuti.
Il piccolo gruppo era la dimensione privilegiata e il processo formativo si fondava
sull'apprendimento dall'esperienza dell'hic et nunc. Il formatore lavorava principalmente
sui processi di identificazione proiettiva e introiettiva dei partecipanti; la dinamica attivata
era quella dell'enfatizzazione dell'appartenenza organizzativa e della minimizzazione delle
differenze e del conflitto.
Il mondo dell'industria nel frattempo avvia una poderosa ristrutturazione: l'informatica
trasforma l'organizzazione del lavoro, i mercati si allargano, la competizione è sempre più
su base planetaria, le aziende iniziano a operare secondo una gestione per obiettivi.
L'analista del lavoro e delle relazioni diventa quindi obsoleto e inadatto.
Cambiano i temi di ricerca e di intervento: l'efficacia rganizzativa e il goal setting, le
interazioni organizzazione/ambiente, le strategie di innovazione, l'analisi delle culture e lo
sviluppo organizzativo, la dinamica del declino delle organizzazioni. I contributi di ricerca su
leadership, comunicazione, soddisfazione lavorativa, motivazione e stress diventano più
rigorosi e sistematici.
Il terreno sul quale si esplica l'attività professionale riguarda fondamentalmente: l'analisi
organizzativa, la valutazione delle posizioni, delle competenze, delle prestazioni e del
potenziale, gli interventi sulla sicurezza del lavoro e sul benessere psicofisico degli operai e
la formazione.
L'esigenza adesso non è solo di allestire un setting di apprendimento per trasmettere
conoscenze o per facilitare la coesione ma, principalmente, di aiutare singoli, gruppi, e
l'intera organizzazione ad aumentare la capacità di leggere una realtà interna e esterna,
personale e relazionale di grande complessità.
Al vecchio psicologo analista del lavoro e delle relazioni si affianca uno psicologo analista
della complessità.
4. PARADIGMI E TEORIE DELLA PSICOLOGIA DEL LAVORO E
DELLE ORGANIZZAZIONI
GLI ANCORAGGI PARADIGMATICI
Un primo criterio di distinzione dei diversi quadri di riferimento teorici avanzati riguarda la
visione individualistica o collettivistica dell'ordine organizzativo.
Le teorie individualistiche dell'organizzazione concepiscono quest'ultima come un risultato
aggregato di azioni e reazioni individuali;
le teorie collettivistiche invece considerano l'organizzazione come un'entità oggettiva che si
impone con tale forza sui singoli attori che questi avrebbero una modesta o inesistente
possibilità di integrazione diversa dal mero adattamento.
Un diverso criterio di classificazione degli studi organizzativi riguarda il dibattito
localismo/globalismo, ovvero rispetto al livello al quale la ricerca e l'analisi organizzativa si
situano. Ad esempio, gli studi centrati sull'analisi del potere, sullo sviluppo della
conoscenza hanno focalizzato la loro attenzione sui processi e sulle pratiche locali o micro-
organizzative. Al contrario, gli approcci razionalistici, integrazionisti e centrati sul mercato
assumono una concezione macro, globale della realtà dell'organizzazione.
Un altro criterio di distinzione e di classificazione è quello dei paradigmi, schemi di
riferimento attraverso i quali gli scienziati guardano il mondo e generano le loro
formulazioni teoriche e i modus operandi. Un paradigma può quindi essere considerato un
modello di riferimento, un insieme di credenze condivise da un gruppo, l'insieme delle
teorie, dei valori e delle tecniche di ricerca di una determinata comunità scientifica.
Vari paradigmi fondano diverse teorie della società, così come uno stesso paradigma può
accomunare teorie differenti. È all'interno degli assunti paradigmatici che la ricerca
scientifica individua il suo oggetto di studio, i problemi più rilevanti, il metodo più idoneo
per affrontarli.

SISTEMATIZZAZIONE PER PARADIGMI E SCIENZE ORGANIZZATIVE


Gli assunti paradigmatici fondanti sono di due specie: assunti sulla società e assunti di
filosofia della scienza. Gli assunti filosofici sono 3: assunto ontologico, gnoseologico e
metodologico. Le opzioni possibili su ciascuno di questi assunti sono rispettivamente
rappresentate dalle coppie antinomiche:
realismo vs nominalismo; positivismo vs antipositivismo; determinismo vs volontarismo;
orientamento nomotetico vs idiografico.
Realismo vs nominalismo
Il realismo è la credenza che la realtà esista e possieda determinate caratteristiche
indipendentemente dagli stati del soggetto che conosce, dalle sue credenze. Il nominalismo
sostiene che i concetti astratti non posseggono una loro propria esistenza ma esistono solo
come nomi, come convenzioni verbali.
Positivismo vs antipositivismo
Il positivismo esalta la scienza come unica conoscenza possibile e il metodo scientifico
come unico valido.
Determinismo vs volontarismo
Il determinismo è la posizione filosofica secondo la quale tutto ciò che esiste o accade nella
realtà è determinato in modo causale (causa-effetto) da eventi avvenuti in precedenza.
Il volontarismo indica la superiorità della volontà sull'intelletto.
Orientamento nomotetico vs idiografico
Le scienze nomotetiche si prefiggono di scoprire la legge e hanno carattere generalizzante.
Le scienze idiografiche hanno per oggetto il singolo nella sua forma storicamente
determinata e hanno carattere individuante.

Burrell e Morgan hanno formulato una sistematizzazione per paradigmi del campo delle
scienze organizzative e delle discipline manageriali nel "modello dei quattro paradigmi
della Teoria sociale".

PARADIGMA FUNZIONALISTA
Rappresenta la prospettiva dominante nella sociologia accademica per lo studio delle
organizzazioni. La società e l'organizzazione hanno una reale e concreta esistenza, hanno
un carattere sistematico e sono orientate alla produzione di ordine e regole.
L'organizzazione è un dato esterno che preesiste alla coscienza, alle decisioni e all'attività
dei suoi membri; essa è un "fatto sociale".
Il comportamento dei membri dell'organizzazione può essere spiegato a partire
dall'organizzazione.
Il paradigma funzionalista è considerato "oggettivo" grazie al rigore del metodo adottato.
L'epistemologia di riferimento è quindi realista, positivista, determinista e nomotetica.
Tra gli studi, ricerche e interventi sulle organizzazioni ispirati al paradigma funzionalista
ricordiamo: la teoria manageriale classica (Taylor, 1911), il movimento delle relazioni
umane (Mayo, 1933), la teoria sistemica delle organizzazioni (Silverman, 1970;
Donaldson,1985).

PARADIGMA INTERPRETATIVO
Il paradigma interpretativo è considerato soggettivistico, nel senso che sostiene una
concezione della realtà come prodotto della coscienza e della cognizione.
Nel caso dello studio delle organizzazioni, più che l'osservazione obiettiva conta il punto di
vista del partecipante. Bisogna partire dal comportamento degli individui, dalle loro
motivazioni e credenze, dalle loro interazioni per comprendere l'organizzazione.
Il mondo organizzativo è un processo creato dagli individui che ne fanno parte. La sua
realtà non ha un'esistenza al di fuori della mente dei singoli.
L'epistemologia di riferimento è nominalista, antipositivista, volontarista e idiografica.
Tra le posizioni più caratteristiche del paradigma interpretativo vanno annoverate la teoria
dello scambio (Homans, 1961), la teoria dell'attribuzione (Heider, 1944), l'approccio socio-
analitico (Jaques,1970) ed il costruttivismo. La realtà non può essere considerata come
qualcosa di oggettivo, indipendente dal soggetto che la esperisce perchè è il soggetto
stesso che crea, costruisce, inventa ciò che crede che esista. La realtà non può essere
considerata indipendente da colui che la osserva, dal momento che è proprio l'osservatore
che le da un senso partecipando attivamente alla sua costruzione. Questo aspetto
costituisce un punto fondamentale nella Teoria dei Costrutti personali di Kelly (1955).
Si possono individuare due tipi di costruttivismo: il costruttivismo radicale e il
costruttiviamo critico. Quello radicale nega ogni tipo di esistenza che va oltre quella
prodotta dai pensieri, quello critico è più "realista" e non nega l'esistenza di un mondo
fisico reale.

PARADIGMA UMANISTA RADICALE


Questo paradigma condivide con quello interpretativo l'assunto che la realtà è socialmente
costruita, ma questa costruzione sociale è legata ad una patologia della coscienza che
rende gli attori prigionieri del mondo da loro stessi creato. La critica umanista radicale
sottolinea le condizioni di alienazione che caratterizzano la vita nelle moderne società
industriali.
La prospettiva è nomotetica, antipositivista, volontarista e idiografica.
Nel paradigma umanista radicale possiamo includere l'esistenzialismo francese,
l'individualismo anarchico di Stirner, la teoria critica di Antonio Gramsci, gli autori della
Scuola di Francoforte, l'etnometodologia e l'interazionismo simbolico. Importante fu
l'apporto teorico di Weick.

PARADIGMA STRUTTURALISTA RADICALE


La realtà sociale, caratterizzata da tensioni e contraddizioni intrinseche, è considerata un
fatto che ha una sua esistenza indipendente dal modo in cui è socialmente costruita. Il
tema centrale del mutamento sociale è sviluppato dando enfasi al mutamento della
struttura della società e non della conoscenza, diversamente dal paradigma umanista; il
fuoco dell'attenzione è sulle contraddizioni interne e sulla struttura delle relazioni di
potere.
Segue le istanze del realismo, positivismo, determinismo e dell'orientamento nomotetico.
I principali riferimenti possono rinvenirsi nell'approccio marxista di Louis Althusser e Lucio
Colletti, nella teoria del conflitto di Dahrendorf, nel materialismo storico di Bucharin. In
tempi recenti questo approccio ha contribuito all'analisi del postfordismo e agli studi sulla
divisione sessuale del lavoro.

LO STATO DELLA TEORIA IN PSICOLOGIA DEL LAVORO E DELLE


ORGANIZZAZIONI
La teoria in psicologia del lavoro e delle organizzazioni ha subito aspre critiche:
- il livello di spiegazione e di previsione non è sufficiente;
- la proporzione di varianza spiegata è modesta;
- la ricerca non fornisce soluzioni sufficienti ai problemi di natura applicativa;
- si continua a proporre una serie di antiche dicotomie;
- esiste una eccessiva vicinanza dei ricercatori alle istanze delle organizzazioni.
Qualunque sia la natura e la posizione (generale, medio raggio, dettagliata) di una teoria
formulata, bisogna affrontare la questione controversa se la teoria sia un fine o un mezzo.
Il compito della psicologia del lavoro è quello di condurre una ricerca scientifica utile e di
sostenere ed orientare la pratica professionale, traducendo i prodotti della ricerca in
applicazioni fruibili dalle organizzazioni. Esiste dunque una stretta relazione tra teoria,
ricerca e pratica professionale ma rimane centrale il problema degli obiettivi.
Nella formulazione degli obiettivi si deve tener conto di alcune transizioni che ormai sono
consolidate: dall'individuo al contesto (relazioni); dal monolivello alle analisi
multidimensionali; dalla committenza individuale alla committenza sociale (cogliere le
nuove esigenze presenti nella società civile come quella della convivenza interculturale).

5. LA PRESTAZIONE LAVORATIVA
PRESTAZIONE LAVORATIVA E PROCESSI DI AUTOREGOLAZIONE
Di tutte le relazioni che il lavoratore intrattiene con l'ambiente fisico e sociale, la più
immediata è quella relativa al contenuto dell'attività, a ciò che ciascuno fa, ai compiti
caratteristici di ciascun ruolo, agli obiettivi da raggiungere: in sostanza, alla prestazione
lavorativa.
La prestazione lavorativa può essere definita in due diversi modi:
1. La prestazione lavorativa è il processo attraverso il quale le persone, a livello
individuale o collettivo, provano a raggiungere un obiettivo lavorativo a loro
assegnato. Il processo è l'insieme di una serie di azioni sul lavoro, che includono le
relative attività fisiche e mentali.
2. La prestazione è il risultato del lavoro, indica il livello di congruenza tra l'obiettivo
lavorativo assegnato e l'esito del processo.
La prestazione lavorativa è effettuata, dunque, da un soggetto inserito in un ambiente, a
sua volta parte di un contesto più ampio. L'ambiente mette a disposizione procedure,
materiali, informazioni, strumenti, uno spazio fisico di lavoro e implica la gestione delle
relazioni con colleghi, supervisori, capi, dipendenti e clienti. Il contesto più ampio è
rappresentato dall'organizzazione, dalle sue pratiche e dalle sue culture e dal mondo
esterno.
Il processo della prestazione lavorativa, che implica il dispendio di energie fisiche, cognitive
ed emotive, e la valutazione dei suoi esiti hanno un impatto sulle conoscenze, sulle
competenze, sulla motivazione e sull'immagine di sè della persona coinvolta.
Roe (1999) ha individuato 5 prospettive sulla prestazione individuale, ognuna delle quali
implica un oarticolare meccanismo di autoregolazione del comportamento.
Regolazione dell'azione
Le persone non svolgono il compito in modo meccanico ma i diversi compiti lavorativi sono
cognitivamente compresi e rielaborati, filtrati a livello emotivo e motivazionale,
contestualizzati rispetto agli obiettivi da conseguire al fine di valutare possibili alternative,
di direzionare l'azione e di definire il relativo investimento energetico.
Regolazione energetica
La prestazione lavorativa è considerata un processo che implica la regolazione dell'energia
psichica. L'energia, intesa come capacità di processare, è limitata e non è costante ma varia
durante la giornata lavorativa.
Regolazione emotiva
L'attivazione emotiva può essere causata da eventi e pensieri legati all'esperienza
lavorativa oppure da eventi e pensieri connessi ad altre esperienze. È accompagnata da
effetti positivi e negativi sul piano della regolazione dell'azione.
I processi di regolazione delle emozioni assumono fondamentalmente 2 forme:
– forma di regolazione delle emozioni cosciente e intenzionale: la persona prende atto
della sua attivazione emozionale, riflette su di essa individuandone genesi e
connessioni e direziona l'azione;
– forma di regolazione delle emozioni automatica, spesso inconsapevole, fa ricorso a
meccanismi di carattere difensivo.
Regolazione della vitalità
Vitalità nel senso di motivazione, benessere, energia vitale. La mancanza di tale energia
può assumere la forma del burnout.
Regolazione dell'immagine di sè
Le persone investono nel lavoro tempo, conoscenze, emozioni, speranze: per questo il
raggiungimento di un obiettivo lavorativo è vissuto con un sentimento di realizzazione, il
mancato raggiungimento con un sentimento di fallimento, con evidenti ripercussioni
sull'immagine di sè. Il confronto tra sè reale e sè ideale è quindi praticamente automatico e
può attivare un processo di autoregolazione attraverso diverse possibili soluzioni:
incrementando l'impegno, abbassando il livello di aspirazione ecc.
Il successo o il fallimento del processo di regolazione dell'immagine di sè produce rilevanti
conseguenze sulla futura prestazione lavorativa.

LA MULTIDIMENSIONALITA' DELLA PRESTAZIONE DI LAVORO


Il modello elaborato da Campbell nel 1999 distingue tra determinanti e componenti della
prestazione lavorativa.
Le determinanti sono 3:
– Conoscenza fondativa: conoscenze su fatti, principi, obiettivi e anche su sè stessi
necessarie allo svolgimento dei diversi compiti lavorativi;
– Conoscenza procedurale: insieme delle conoscenze su come svolgere un lavoro o un
compito, spesso derivanti dalla pratica e dall'esperienza;
– Motivazione: la motivazione include la scelta di effettuare la prestazione, il livello di
impegno la persistenza dell'impegno.
Secondo Campbell altre variabili influenzano la prestazione lavorativa solo indirettamente,
nel senso che non agiscono sulla prestazione direttamente ma solo attraverso un
cambiamento di livelli della conoscenza fondativa, procedurale e sulla motivazione.
Le componenti della prestazione lavorativa, secondo Campbell, sono 8:
– Competenze nei compiti specifici del lavoro;
– Competenze in compiti non specifici del lavoro;
– Competenze nei compiti di comunicazione;
– Dimostrazione dell'impegno;
– Mantenimento della disciplina individuale;
– Facilitazione della prestazione di collleghi e del gruppo;
– Supervisione e leadership;
– Gestione/amministrazione.
Il modello di Campbell appare tuttavia troppo centrato sulle dimensioni individuali della
prestazione lavorativa e trascura altri fattori di tipo situazionale e organizzativo.
Tra i fattori di tipo situazionale che influenzano la prestazione lavorativa si possono
annoverare le caratteristiche dell'ambiente fisico, l'efficienza dei sistemi tecnologici, il
sistema di incentivi collegato al raggiungimento dei risultati.
I più frequenti tipi di fattori situazionali che impediscono l'efficace prestazione lavorativa
sono le caratteristiche fisiche dell'ambiente lavorativo (temperatura, illuminazione, spazio,
rumore), mancanza delle informazioni, dei materiali, degli strumenti per svolgere il lavoro,
mancanza di tempo e mancanza di collaborazione.
Per quanto riguarda i fattori di tipo organizzativo la prestazione può essere agevolata o
resa problematica: dalla struttura organizzativa (es. Livello di formalizzazione), dai sistemi
tecnologici adottati (software e hardware), dai processi organizzativi (controllo di gestione)
e dalla cultura organizzativa.

L'ANALISI DEL LAVORO (JOB ANALYSIS)


Un contributo rilevante agli studi sulla prestazione lavorativa proviene dalla job analysis,
metodo per descrivere il lavoro e le caratteristiche professionali richieste per svolgerlo.
La definizione originaria di job analysis di McCormick è di raccolta di dati sui compiti,
procedure e comportamenti lavorativi. Secondo Harvey la job analysis è la descrizione dei
comportamenti lavorativi, di prodotti lavorativi e del contesto del lavoro. Secondo Harvey
la job analysis deve descrivere dati osservabili; deve descrivere il comportamento
lavorativo indipendentemente dalle caratteristiche personali di chi effettivamente svolge il
lavoro, deve essere verificabile e replicabile.
Brannick, Levine e Morgeson (2007) hanno individuato 3 elementi caratteristici della job
analysis:
– la procedura deve essere sistematica. L'analista deve specificare in anticipo la
procedura che seguirà nel lavoro di analisi;
– il lavoro è scomposto in unità più circoscritte;
– i risultati dell'analisi devono essere riportati in un documento scritto.

Esistono due differenti tipi di job analysis: l'approccio orientato al lavoro e l'approccio
orientato alla persona.

APPROCCIO ORIENTATO AL LAVORO


E' focalizzato sui compiti che devono essere svolti e fornisce informazioni sulla natura dei
compiti lavorativi. I compiti possono essere ordinati gerarchicamente:
– Elemento: è la parte più piccola dell'attività lavorativa e consiste in specifici gesti e
movimenti;
– Compito: rappresenta una ben definita unità di lavoro svolta dal singolo,
caratterizzata da un inizio e una fine;
– Mansione: sequenza logica di compiti;
– Posizione: è un insieme di compiti, attività e responsabilità che definisce l'unità
elementare del lavoro in un'organizzazione;
– Lavoro: famiglie di posizioni che hanno responsabilità simili;
– Famiglie di lavori: gruppi di lavori connessi uno all'altro sulla base delle principali
attività lavorative (es.operai, personale amministrativo). Le famiglie di lavori sono
create soprattutto per esigenze di gestione del personale e, talora, hanno rilevanza
sul piano normativo e contrattuale;
– Professione: raggruppamento di lavori o di famiglie di lavori assimilabili per il
contenuto del lavoro e che richiedono abilità, impegno e responsabilità simili
(es.autista, ingegnere)

APPROCCIO ORIENTATO ALLA PERSONA


E' focalizzato sulle caratteristiche personali necessarie in un lavoro. Per descrivere le
caratteristiche necessarie ad una persona per performare con successo un particolare
lavoro viene usato l'acronimo KSAO:
– knowledge: conoscenze necessarie;
– skill: ciò che una persona è capace di fare sul lavoro (saper fare);
– ability: attitudini e abilità a svolgere o apprendere i compiti lavorativi. È il potenziale
di una persona a sviluppare capacità che possono richiedere una o più abilità;
– other personal characteristics.

Gli approcci per raccogliere informazioni sono principalmente di 3 tipi:


– osservazione sistematica, generalmente condotta da analisti del lavoro;
– intervista;
– questionario;
Nel corso del tempo sono stati sviluppati diversi metodi di job analysis, tra i quali:
– l'inventario delle componenti del lavoro: metodo che consente la valutazione
contemporanea del lavoro e delle caratteristiche della persona;
– il questionario per l'analisi delle posizioni: questionario adatto a tutti i lavori con il
quale si possono raccogliere informazioni sui compiti e sulle caratteristiche KSAO;
– l'inventario dei compiti: questionario che contiene liste di compiti specifici con la
richiesta di indicare ad esempio il tempo dedicato a ciascuno di essi, le criticità e le
difficoltà ad essi connesse.

ANALISI DEL LAVORO E PRATICHE ORGANIZZATIVE


Lista delle principali pratiche organizzative che utilizzano le informazioni sisytematizzate
attraverso la job analysis.

Sviluppo delle carriere


Molte organizzazioni prevedono apposite procedure per l'avanzamento professionale.
Selezione
La job analysis può costituire la prima fonte informativa per allestire una procedura di
selezione. Consente di individuare i soggetti che meglio si possono inserire
nell'organizzazione.
Formazione
La job analysis, fornendo informazioni sulla natura dei compiti lavorativi e sulle KSAO,
costituisce una buona base di riferimento per delineare percorsi formativi aderenti
all'organizzazione e in grado di sviluppare conoscenze, capacità e abilità richieste per
performare con successo.
Valutazione della prestazione
Rappresenta il principale uso della job analysis. Può alimentare altre pratiche organizzative
come l'attribuzione di incentivi economici legati all'esito positivo della valutazione.
Piani retributivi
I dati derivanti dalla job analysis possono essere ulteriormente impiegati per definire, in
termini retributivi, il valore delle diverse posizioni organizzative e conseguentemente il
livello dei relativi compensi.
Ricerca
la job analysis può rappresentare una base informativa corretta e sistematica al fine di
studiare possibili relazioni tre il contenuto del lavoro e le KSAO e altri fenomeni
organizzativi come la motivazione, lo stress, la salute.
Pianificazione strategica
Può essere utile al fine di compiere accurate proiezioni sul numero e tipo di lavoratori
specializzati di cui l'organizzazione avrà bisogno in futuro.
Riprogettazione del lavoro
Può aiutare le organizzazioni a ridefinire le mansioni e quindi a intervenire
sull'organizzazione del lavoro.
Progettazione del lavoro in sicurezza
Fornisce una base informativa per individuare e monitorare i lavori che sono soggetti a
rischi e infortuni sul lavoro.
Orientamento professionale
La job analysis può aiutare i giovani ad orientarsi nel lavoro confrontando le caratteristiche
dell'individuo con quelle dei differenti lavori e individuando aree di competenza da
acquisire o da potenziare.

6. ABILITA',COMPLESSITA' COGNITIVA E ANALISI DELLA


REALTA'
LE ABILITA' PERSONALI
Sono numerose le variabili soggettive che influenzano la prestazione lavorativa. Le abilità
personali, intese come la capacità e l'idoneità a svolgere una certa atività in modo
soddisfacente, possono essere suddivise in 4 grandi categorie:
Abilità fisiche -> abilità ad assolvere un compito lavorativo utilizzando i movimenti del
corpo, la forza, il coordinamento, la velocità;
Abilità sensoriali -> funzioni fisiche della vista, udito, olfatto, gusto, tatto e il feedback
cinestesico;
Abilità psicomotorie -> funzioni fisiche del movimento associate con il coordinamento, con
la destrezza e con il tempo di reazione;
Abilità cognitive -> capacità che permettono una corretta interpretazione ed integrazione
della realtà. Si possono includere abilità verbali, quantitative, percettive, visuo-spaziali,
deduttive, creative e mnemoniche. Queste specifiche abilità sono ricomprese nel più vasto
concetto di abilità cognitiva generale, impiegato in sostituzione del termine intelligenza.
L'abilità cognitiva generale influenza sia l'apprendimento sia l'esecuzione del lavoro.
Il valore predittivo dei test di intelligenza generale rispetto alla performance aumenta al
crescere della complessità del lavoro.

LA COMPLESSITA' COGNITIVA
Secondo le prime definizioni (Barron, Mayo), i soggetti complessi si mostrerebbero
abitualmente più inclini a utilizzare differenti e numerosi parametri nell'analisi degli stimoli
al fine di valutare con correttezza la realtà, il comportamento proprio e quello altrui.
Alcuni lavori successivi (Goldstein, Blackman) descrivono la complessità cognitiva come
composta da due abilità cognitive distinte ma complementari: "differenziazione e
integrazione", che permettono una più ricca percezione e analisi degli stimoli.
Altri ricercatori (Woike, Aronoff) spiegano la complessità cognitiva in termini di congruenza
di fattori situazionali e motivazionali: insieme possono coinvolgere un soggetto (attenzione,
interesse, piacere) al punto da sviluppare in lui forme di pensiero complesso.
Uno dei maggiori contributi allo studio della complessità cognitiva deriva da Fletcher, il
quale indica nella differenziazione e nell'integrazione i processi cognitivi principali
mediante i quali il pensiero complesso si può concretamente sviluppare. A completamento
della definizione, egli individua 7 distinti costrutti su cui basa la costruzione
dell'Attributional Complexity Scale. Non ci sono dati che dimostrino correlazione positiva
tra pensiero complesso e intelligenza.
In conclusione, i dati empirici ci consentono di affermare che il pensiero complesso è un
costrutto multidimensionale riferibile alle seguenti 7 dimensioni:
1. Differenziazione, integrazione e apertura verso la conoscenza
2. Persistenza e concentrazione
3. Sintesi ed astrazione
4. Tolleranza e gestione di un sovraccarico di informazioni anche ambigue
5. Metacognizione
6. Valorizzazione dei processi di influenza sociale
7. Nessi di interdipendenza

LA CONOSCENZA
La conoscenza può essere definita come un insieme strutturato di fatti e informazioni,
riferiti ad uno specifico dominio scientifico tecnico, che si acquisisce sia attraverso
l'istruzione che attraverso l'esperienza.
L'obsolescenza delle conoscenze, la necessità di rimanere sempre aggiornati in un mondo
di complessità crescente ha portato numerose organizzazioni a proomuovere programmi di
formazione per i propri dipendenti.
Un altro tipo di conoscenza da considerare è la cosiddetta conoscenza tacita (o
procedurale), definita da alcuni autori (Sternberg..) come una conoscenza orientata
all'azione, acquisita senza un aiuto diretto da parte degli altri. La conoscenza tacita è
soggettiva, deriva dall'esperienza, sorge dal "hic et nunc" in un contesto specifico, è
difficilmente formalizzabile e comunicabile, include elementi cognitivi e tecnici (know
how).
La conoscenza esplicita invece è oggettiva, razionale, ha a che vedere con la dimensione
del "la e allora", è la conoscenza codificata, trasmissibile attraverso il linguaggio formale e
sistematico.
Nanuka e Takeuchi ritengono che la conoscenza nelle organizzazioni si sviluppi a partire
dall'interazione tra la conoscenza tacita (CT) e quella esplicita (CE), postulando 4 diverse
modalità di conversione della conoscenza:
1. Socializzazione (CT -> CT): Processo di condivisione di esperienze e di creazione di
nuove forme di conoscenza tacita (es.apprendisti, tirocinanti che imparano
attraverso l'osservazione-imitazione di esperti);
2. Esteriorizzazione (CT -> CE): Processo di produzione di conoscenza nel quale la
conoscenza tacita diviene esplicita assumendo la forma di metafora, di analogia, di
ipotesi, di modelli;
3. Combinazione (CE -> CE): Integrazione di corpi di conoscenza espliciti considerati in
precedenza distinti e separati. I programmi di formazione centrati sullo scambio
delle conoscenze e delle esperienze costituiscono un chiaro esempio;
4. Interiorizzazione (CE -> CT): Traduzione di conoscenza esplicita in conoscenza tacita
nella forma di schemi mentali di riferimento condivisi o di know how tecnico

GLI INTERESSI
Gli interessi professionali, che compaiono nella prima adolescenza (13 anni) e che tendono
ad avere una relativa stabilità nel corso del tempo, sono definiti come l'espressione di
preferenze relative a particolari ambienti e attività professionali.
Uno dei primi strumenti di valutazione degli interessi professionali è lo Strong Vocational
Interests Inventory Blank (SVIIB), elaborato originariamente da Strong (1927) e revisionato
più volte fino all'ultima versione, lo Strong Campbell Interests Inventory (SCII, 1974).
Il modello più noto in letteratura è quello di Holland (1985), conosciuto con l'acronimo
RIASEC (Realistico, Investigativo, Artistico, Sociale, Intraprendente, Convenzionale).
L'analisi degli interessi è sicuramente rilevante in tutte le forme di orientamento al lavoro e
di counseling professionale, mentre la letteratura prevalente non li considera predittori
significativi della performance.
Negli ultimi anni si è manifestata una tendenza a indagare le connessioni tra interessi e
personalità, ipotizzando una loro sinergia nell'attivare e sorreggere la motivazione al
lavoro.

L'ESPERIENZA
L'esperienza è una conoscenza diretta di un certo ambito che si acquisisce nel tempo
attraverso l'osservazione del lavoro degli altri, attraverso l'esercizio e la ripetizione dei
comportamenti.
L'esperienza si può declinare per livello di specificità e per criteri di misurazione:
– il livello di specificità indica che una persona può maturare 3 tipi di esperienza:
rispetto ad uno specifico compito, rispetto ad un lavoro o rispetto all'organizzazione;
– i criteri di misurazione sono fondamentalmente 3:
-> l'ammontare del numero di volte che una persona ha svolto uno specifico
compito o lavoro (5000h di volo);
-> il tempo, la durata temporale di svolgimento del compito o delle attività (pilota da
5 anni);
-> il tipo, gli aspetti più qualitativi dell'esperienza relativi alla difficoltà del compito
(pilotare 3 tipi di aeromobili)
L'esperienza completa ed integra la conoscenza acquisita nel percorso degli studi, ma se si
trasforma in acritica acquisizione di tecniche o pratiche può produrre effetti indesiderati.
L'esperienza è stata studiata come una componente rilevante nel determinare la
prestazione professionale esperta (expertise).
L'expertise è caratterizzata da un'elevata, eccellente ed eccezionale prestazione che è
relativa ad uno specifico dominio professionale, che è stabile nel tempo e che è connessa
all'esperienza e alla pratica. Secondo Ford e Kraiger, la prestazione di successo è una
condizione necessaria ma non sufficiente per definire l'expertise, che implica il possesso di
una ben organizzata base di conoscenza riferita ad uno specifico dominio.
Due sono fondamentalmente le linee di ricerca sull'expertise:
– la prima è centrata sul concetto di esperienza e si fonda sul mettere a confronto
persone con lugna esperienza professionale e persone con breve esperienza
professionale;
– la seconda è incentrata sulla prestazione e mette a confronto persone con altissimi
livelli di prestazione e persone con modeste o medie prestazioni.
Le aree su cui entrambe le linee di ricerca mettono a confronto soggetti esperti con
soggetti meno esperti si riferiscono a:
– Possesso e uso della conoscenza;
– Comprensione dei problemi e delle possibili cause;
– Pianificazione e obiettivi;
– Processi di feedback (confronto tra prestazione effettuata e rappresentazione
cognitiva dell'obiettivo);
– Comunicazione e cooperazione.

L'ANALISI DELLA REALTA'


Molte differenze individuali nei comportamenti lavorativi non dipende esclusivamente
dalle abilità o dalla personalità dei singoli ma anche dall'esito dei processi di percezione e
di valutazione della realtà, che orientano e sostengono le decisioni individuali e collettive.
Nei processi percettivi, che consentono all'individuo di selezionare, organizzare,
immagazzinare e interpretare dati e informazioni, possiamo distinguere 5 stadi (Neisser):
1. Nello stadio dell'attenzione, i dati sono filtrati e selezionati, non sempre a livello
consapevole;
2. Nello stadio dell'organizzazione, le informazioni raccolte sono accorpate e
ricondotte a concetti astratti di più elevato livello come categorie e schemi;
3. Nello stadio dell'interpretazione, il soggetto attribuisce significato all'informazione
raccolta individuandone cause e fondamenti e delineandone tutte le possibili
implicazioni;
4. Nel quarto stadio, molte informazioni conservate nella memoria possono essere
riesumate recando nuclei informativi ed esperienziali circa gli eventi passati;
5. Nello stadio del giudizio, il trattamento dei dati esterni si traduce in una specifica
valutazione, la quale influenzerà le successive percezioni, decisioni e comportamenti
del soggetto.
Il processo di valutazione della realtà muove dalla rilevazione di segni, sintomi, dati che in
se stessi non hanno un univoco significato occorre quindi prendere una posizione specifica
rispetto alla molteplicità dei significati possibili. Per fare questo facciamo ricorso al
repertorio di parametri che fanno parte del nostro patrimonio cognitivo.
Tali parametri sono, fondamentalmente, di 4 tipi:
1. Parametri di tipo scientifico-disciplinare;
2. Parametri di tipo culturale e sociale;
3. Parametri tipici della cultura organizzativa;
4. Parametri di tipo soggettivo: parametri legati alla storia e all'esperienza del
soggetto, riflettono la sua visione del mondo e la sua personalità. Sono la vera
ricchezza dell'individuo ma al tempo stesso costituiscono la sua gabbia. Le persone
spesso tendono a credere e accettare le proprie percezioni e giudizi come assoluti,
ritenendoli uno specchio fedele della realtà, rendendo però difficile il confronto
delle idee e l'assunzione di decisione collettive. D'altro lato la soggettività, nella
percezione e valutazione della realtà, è fonte di vitalità, di ricchezza intellettuale, di
pluralismo culturale, una specie di antidoto all'omogeneità e all'appiattimento del
pensiero.
La psicologia del lavoro deve intervenire per incrementare, a livello di individuo e di intera
organizzazione, le capacità di lettura e di valutazione della realtà. È possibile rendere visibili
e trattabili le strategie di comportamento stereotipate, automatiche e standardizzate e
favorire la tendenza all'esplorazione, all'analisi, all'interrogazione.
La dimensione del piccolo gruppo, che caratterizza gli interventi di formazione psicosociale,
è lo strumento privilegiato per il confronto tra interpretazioni del singolo soggetto e
interpretazioni degli altri.
Oltre allo strumento della formazione, per facilitare e incrementare le capacità di analisi e
di valutazione della realtà, si può incentivare l'abitudine ad argomentare opinioni e
valutazioni. È utile anche frequentare gruppi sociali e professionali diversi da quelli di
appartenenza in modo da facilitare la comprensione della complessità della realtà e
l'assunzione di prospettive molteplici nella lettura dei dati.
7. PERSONALITA', AUTOEFFICACIA E COPING
LA PERSONALITA'
1.1. Le dimensioni della personalità
Secondo la classificazione di Nunnally (1978), le principali dimensioni della personalità
sono:
1. Tratti sociali: pattern di comportamento manifesto in forma tipica nell'interazione
con gli altri nei diversi contesti sociali (estroverso/introverso). Riflettono il modo in
cui una persona appare agli altri;
2. Motivi: rispecchiano i bisogni, i valori, le forze dominanti di un individuo;
3. Concezioni personali: credenze, opinioni e atteggiamenti di un individuo sul suo
ambiente fisico e sociale. Ad esempio il "locus of control" di Rotter: quelli interni
tendono ad essere più facilmente motivati degli esterni, ad essere più democratici
nell'assumere ruoli di leadership, ad esprimersi meglio in compiti di elevata
complessità;
4. Adattamento emotivo: classe di variabili della personalità relative al grado e agli stili
di adattamento o disadattamento all'ambiente. Ad esempio, il pattern ti
comportamento di tipo a o di tipo b. Quelli di tipo A spesso manifestano sintomi di
disadattamento, in quanto continuamente sotto pressione temporale, ma superano
quelli di tipo B nei compiti lavorativi che richiedono intensità e persistenza
dell'impegno;
5. Dinamiche della personalità: si riferiscono ai principi in base ai quali le precedenti 4
classi di fattori sono integrate e organizzate. Questa integrazione tra l'altro formano
la stima di sè.

1.2. Il modello dei Cinque Fattori


Nel mondo della psicologia del lavoro si è affermato il consenso nell'utilizzare il modello dei
5 fattori dal momento che le misurazioni basate su questo modello hanno maggior validità
predittiva sulla prestazione lavorativa.
I 5 fattori sono Energia (estroversione), Amicalità, Coscienziosità, Stabilità emotiva
(Nevroticismo), Apertura mentale.
Il questionario più noto è il BFQ il quale prevede 24 item a scala (24x5=120) più 12 item per
la scala Lie (=132 item).
Il modello dei 5 fattori si propone di misurare la personalità normale, non di evidenziare
elementi di patologia, ed è considerato applicabile a livello cross culturale.

1.3. La personalità come predittore del comportamento lavorativo


In una nota sistematizzazione di 117 studi pubblicati nel periodo 1952-1988 (Barrick e
Mount, 1911), la coscienziosità è risultata un valido predittore della prestazione lavorativa
di successo per diversi gruppi professionali. La capacità predittiva della coscienziosità è
risultata superiore a quella di qualsiasi altra dimensione.
L'energia, l'amicalità e l'apertura mentale non sono considerati predittori generalizzabili
della prestazione lavorativa, ma predittori del successo lavorativo per particolari tipi di
mansioni, ad esempio, l'energia per i lavori nei quali la componente relazionale è
fondamentale mentre l'amicalità in quei lavori in cui si coopera molto in gruppo.
La prestazione lavorativa però non è influenzata solamente dalla personalità (fattori
disposizionali), ma anche da fattori situazionali. Una larga parte della varianza del
comportamento umano è spiegata da fattori ambientali, di contesto, cultura.
Il pericolo del riduzionismo psicologico è sempre in agguato.

AUTOEFFICACIA PERSONALE PERCEPITA


2.1. Agentività umana e capacità proattive
Secondo Bandura le persone contribuiscono al proprio funzionamento psicosociale
attraverso i meccanismi di agentività: egli sostiene che nessun meccanismo di agentività è
più importante e pervasivo delle convinzioni di autoefficacia.
Il senso di autoefficacia corrisponde alle convinzioni che le persone hanno circa le proprie
capacità di organizzare ed eseguire le sequenze di azioni necessarie per produrre
determinati sociali. Il costrutto di autoefficacia personale percepita si inquadra all'interno
della teoria social cognitiva, secondo la quale l'azione umana opera in una struttura che
coinvolge 3 fattori reciprocamente interdipendenti: persona, condotta e ambiente.
L'azione umana opera in modo generativo e proattivo piuttosto che in modo unicamente
reattivo. In questa azione un ruolo centrale è giocato dalle capacità personali di base che
Bandura identifica in: capacità di simbolizzazione, di anticipazione, di apprendere per
imitazione, di autoregolazione, autoriflessiva.
L'individuo è l'agent (ideatore/propulsore/attore) dei pensieri, dello sforzo e delle azioni
che intende intraprendere per poter ottenere il risultato desiderato. In situazioni coercitive,
l'agentività umana si esprime con il potere dell'astensione.

2.2. Il costrutto di autoefficacia personale percepita


L'autoefficacia percepita deriva dalla convinzione di essere all'altezza di una determinata
situazione, di essere in grado di cimentarsi in una certa attività. Non è una misura delle
competenze possedute ma è la credenza che la persona ha rispetto a ciò che è in grado di
fare in diverse situazioni.
Le convinzioni di autoefficacia sono costruite secondo Bandura attingendo a 4 fonti di
informazione:
1. Esperienze di padroneggiamento attraverso l'azione diretta: in generale le
esperienze di successo accrescono le convinzioni di efficacia personale,
specialmente se l'esperienza è legata al superamento di ostacoli e ha comportato un
impegno perseverante, mentre le esperienze di insuccesso ripetuto le riducono.
2. Esperienza vicaria: si fonda sul modeling, sulla capacità di imparare dall'osservazione
del comportamento degli altri. Osservare persone simili a sè che si imoegnano per
raggiungere un obiettivo e ottengono buoni risultati incrementa la convinzione di
riuscire a produrre gli stessi effetti. Maggiore è la percezione di similarità con
l'lemento di paragone, maggiore risulta il grado di influenza.
3. Persuasione verbale: il feedback valutativo che giudica il nostro operato, se è
positivo accresce le convinzioni di efficacia. Nella persuasione, è rilevante
l'autorevolezza e la competenza della fonte.
4. Stati fisiologici e affettivi: le informazioni somatiche ed emozionali influiscono sul
senso di autoefficacia solo dopo essere state elaborate cognitivamente.
Le credenze di efficacia mediano il funzionamento degli individui attraverso 4 processi:
cognitivi, motivazionali, affettivi ed emozionali, di scelta. L'autoefficacia percepita è sempre
specifica ad un ambito di attività o ad una particolare classe di prove o situazioni, non è un
tratto globale.

2.3. Efficacia personale e lavoro


Secondo Bandura, le persone con maggiore autoefficacia tendono a prendere in
considerazione un numero maggiore di possibilità professionali, mentre quelle con bassa
autoefficacia escludono intere categorie di lavori. I bambini con alta autoefficacia in ambito
scolastico aspirano a carriere professionali che implicano uno sviluppo formativo avanzato.
L'autoefficacia è un importante predittore della performance a tutti i livelli di complessità
del compito, sebbene il legame tra autoefficacia, prestazione e complessità del lavoro sia
maggiore per compiti semplici e decresca, rimanendo comunque significativo, per i compiti
più complessi.
Uno dei modi in cui le convinzioni circa la propria efficacia agiscono sullo stress è attraverso
gli stili di coping. Mentre le persone con bassa autoefficacia tendono ad usare strategie di
coping focalizzate sulle emozioni, quelle con alta autoefficacia sono più propense ad
utilizzare strategie di coping focalizzate sul problema, che forniscono risposte allo stress più
adattive. Le persone con bassa autofficacia tendono a trovare stressanti quei lavori dove le
conseguenze dell'errore sono alte e le richieste del ruolo ambigue, viceversa quelle con
alto livello di autoefficacia troveranno stressanti quei lavori che forniscono poche sfide e
poche opportunità di mettersi alla prova.
La percezione dell'autoefficacia influenza le decisioni sulle attività da intraprendere, sullo
sforzo e sulla persistenza nel compito e le risposte emotive.
Sono numerosi gli strumenti per misurare l'autoefficacia percepita in relazione a diversi
ambiti e contesti:
– la prima scala, denominata "Autoefficacia percepita nel lavoro", misura due
dimensioni riguardanti la disponibilità relazionale e l'impegno. La scala è composta
di 10 item con una struttura a due fattori, in grado di spiegare complessivamente il
52% della varianza totale.
– La seconda scala è denominata "Autoefficacia percepita nella ricerca del lavoro",
volta ad indagare le convinzioni di efficacia sulle attività che si possono
intraprendere per ricercare un lavoro. Misura 4 dimensioni: tensione propositiva,
esplorazione intraprendente, integrazione relazionale, tolleranza della
frustrazione. La scala è composta di 12 item, con una struttura a 4 fattori in grado di
spiegare complessivamente il 57% della varianza totale e può trovare applicazione
sia a livello di ricerca, sia a livello di intervento.
– La terza scala è denominata "Autoefficacia percepita nella gestione di problemi
complessi" e misura 4 dimensioni: analisi del contesto, finalizzazione dell'azione,
fluidità relazionale, maturità emotiva. La scala è composta da 23 item con una
struttura a 4 fattori e spiega circa il 49% della varianza totale.
IL COPING
Il termine coping è stato introdotto da Lazarus nel 1966 come processo collegato allo
stress. Gran parte delle differenze individuali di vulnerabilità nella risposta allo stress è
riconducibile alle strategie di coping utilizzate dagli individui.
3 sono gli approcci principali allo studio del coping:
1. L'approccio denominato stili di coping, incentrato sul modo in cui gli individui
elaborano e gestiscono le informazioni e le emozioni nell'affrontare situazioni
problematiche, generatrici di ansia e stress.
2. L'approccio psicoanalitico è incentrato sui meccanismi inconsci che consentono di
controllare e gestire l'ansia. Il coping è assimilabile ai meccanismi più maturi, quali
l'humor e l'altruismo.
3. Il terzo approccio, strategie e processi di coping, si differenzia dai precedenti per il
particolare rilievo dato al coping quale risultato dell'interazione tra una specifica
richiesta dell'ambiente e fattori individuali. Le strategie di coping sono considerate
flessibili; esse possono essere classificate in 5 strategie generali: strategie centrate
sul problema (comportamenti orientati a risolvere il problema), strategie centrate
sulle emozioni (orientate a gestire e cambiare la risposta emozionale evocata dalla
situazione problematica), ricerca del supporto sociale (cercare aiuti concreti e di
tipo affettivo negli altri), coping religioso (trasformare il significato dell'avversità),
ricerca del significato (rilevare aspetti positivi o nuovi significati della situazione
problematica).

Le strategie di coping possono essere di tipo proattivo e non sempre risposte agli stimoli
ambientali. Aspinwall e Taylor sostengono che l'attuazione del coping proattivo minimizza
l'ammontare complessivo di stress e propongono un modello di coping proattivo articolato
in 4 tappe: individuazione, appraisal iniziale, sforzi iniziali di coping, richiesta e uso del
feedback.

Le organizzazioni avvertono sempre di più la necessità di trovare soggetti capaci di


rispondere costruttivamente alle continue sollecitazioni esterne, capaci di reagire con
soluzioni innovative ed originali ai rapidi cambiamenti della realtà.
Con la denominazione di coping organizzativo sono sytati prodotti numerosi studi sulle
strategie individuali di fronteggiamento dei processi di cambiamento organizzativo, del
downsizing organizzativo e dello stress lavorativo.
Il potenziamento delle capacità di coping ha costituito un campo di indagine anche nel
mondo delle organizzazioni.
8. LE EMOZIONI
LE EMOZIONI NEI CONTESTI ORGANIZZATIVI
Le emozioni primarie sono rabbia, disgusto, tristezza, sorpresa, paura e ansietà, felicità,
gioia, imbarazzo, orgoglio, vergogna e colpa, amore e processi di attaccamento, umorismo.
Sono definite complesse le emozioni primarie che, interagendo tra loro, generano altre
emozioni di tipo misto, come ad esempio rabbia e disgusto.
Per anni c'è stato il convincimento che l'efficienza e l'efficacia organizzativa possano essere
conseguite solo sottraendo i comportamenti organizzativi all'interferenza delle emozioni.
Solo in tempi recenti si sono moltiplicati i contributi che analizzano la rilevanza delle
emozioni per la convivenza organizzativa e per lo sviluppo delle organizzazioni.

I livelli all'interno dei quali si manifestano le conseguenze delle emozioni nelle


organizzazioni sono.
1. Dinamica intrapersonale;
2. Differenze individuali: le differenze individuali esercitano un'influenza sulla
frequenza, l'intensità e la durata delle esperienze emotive (Goleman, intelligenza
emotiva);
3. Relazioni interpersonali: influenza che le emozioni possono avere nella dinamica
delle relazioni interpersonali tra capi e dipendenti, tra colleghi, tra operatori e
clienti. In molti lavori è richiesto di non esprimere in modo autentico le emozioni
che provano (lavoro emotivo). Il lavoro emotivo però produce dissonanza emotiva,
determinando ansia e sconforto;
4. Dinamica di gruppo: nel gruppo gli stati emzionali dei singoli membri si combinano
in modo interdipendente fino a produrre, attraverso il contagio emotivo, un clima
emozionale del gruppo che influenza tutti i membri del gruppo;
5. Dinamica dell'intera organizzazione: ogni cultura organizzativa ha un suo
fondamento emozionale, un suo clima organizzativo: regola le emozioni da esibire,
rende possibili determinati processi e stili di convivenza.
Fineman è focalizzato sul modo in cui le organizzazioni promuovono, dirigono e
controllano l'espressione delle emozioni. Le emozioni non sono semplicemente
qualcosa che si prova, ma soprattutto qualcosa che si impara a mostrare, esibire ed
esprimere in relazione alle contingenze. In queste arene (arena emotiva) le
emozioni sono recitate in un determinato ambiente, in una determinata situazione e
per un determinato pubblico (capi, colleghi, clienti ecc). Le emozioni in questa
prospettiva acquistano un rilievo strategico nei destini delle organizzazioni, in
quanto la loro espressione può contribuire a mantenere, consolidare o destabilizzare
dei micro-ordini sociali.

LA PRESENZA PSICOLOGICA A LAVORO


La presenza psicologica al lavoro consiste nell'essere attenti, focalizzati, nell'essere
all'interno piuttosto che all'esterno dei confini di un dato ruolo. È la condizione che
permette la crescita, l'apprendimento, il cambiamento e la produttività.
Contemporaneamente, l'esperienza della presenza comporta vulnerabailità, assunzione di
rischi e ansia. Il contrario è l'alienazione al lavoro, che comporta assenza psicologica e
rende le persone disconnesse dai ruoli che ricoprono ma che non occupano pienamente.
Le dimensioni fondamentali della presenza psicologica a lavoro sono: attenzione (non
essere disattivati all'ansia), connessione (sentire l'esperienza del flusso), integrazione
(importanti componenti personali sono portate nella situazione), dimensione temporale
(essere focalizzati pienamente sul presente).
Numerosi sono gli indicatori della presenza psicologica a lavoro; in primo luogo la
corporeità, poi il contatto visivo, la pienezza del discorso che la persona utilizza nel parlare
con gli altri (toni, inflessioni vocali, parole che si dicono).
Le organizzazioni traggono beneficio dalla presenza psicologica al lavoro dei dipendenti
grazie all'impegno che questi mettono nel lavoro, ma allo stesso tempo avere dipendenti
sempre presenti, attenti e concentrati significherebbe avere a che fare con una moltitudine
di idee, energie e sentimenti: le organizzazioni, se non orientate all'innovazione, tendono
ad operare su elementi di predicibilità e routine. Inoltre ci sono tipi di lavoro in cui chi è
troppo presente è esposto al pericolo di logorarsi: in queste situazioni psicologicamente
instabili le persone imparano la funzione di adattamento protettiva di assenza parziale.
Kets de Vries individua specifiche categorie di patologia organizzativa: l'alessitimia e la
dipendenza dal lavoro.
– L'alessitimia nella vita lavorativa si traduce in una scarsa empatia che impedisce di
stabilire rapporti caldi con gli altri e porta a un forte senso di noia, indifferenza e
frustrazione. Gli alessitimici sono gli analfabeti dei sentimenti ed è proprio questo
tratto che può rappresentare il vantaggio per l'organizzazione: si mostrano docili e
disponibili a ogni richiesta dell'organizzazione;
– La dipendenza dal lavoro degli workaholisti si traduce in un coinvolgimento in
un'attività incessante, sono incapaci di fermarsi, di godere del tempo libero. È
possibile che questi individui abbiano interiorizzato le proibizioni dei genitori, sia per
bisogno di approvazione che per paura di una punizione: di fronte alle elevate
aspettative dei genitori l'io ideale assume una funzione punitiva, creando sensi di
colpa e bassa stima di sè. Gli workaholisti si sforzano in maniera estenuante di
essere sempre all'altezza dell'elevato standard interiorizzato da cui deriva un
costante senso di insoddisfazione verso i risultati raggiunti.

LA NOIA AL LAVORO
La noia è un sentimento spiacevolein cui una persona si sente pervasa da mancanza di
interesse e difficoltà di concentrazione nell'attività e si sente incapace di vivere
emozionalmente e intellettualmente un significato personale nel processo di lavoro.
Secondo Bernstein si possono distinguere 2 tipi di noia nella vita organizzativa: la noia
sensibile e la noia cronica.
La noia sensibile è un'esperienza cosciente e passeggera di mancanza di significato
intellettuale ed emotivo nella vita organizzativa della persona.
La noia cronica invece è un'esperienza durevole di assenza di significato nel lavoro, analoga
all'alienazione.
Le cause della noia sono riconducibili a diversi fattori, particolarmente a fattori esterni.
La noia principalmente deriva dalla natura del compito: in generale si ritiene che compiti
che hanno elevata varietà, identità, significatività e probabilità di feedback provocano la
noia meno facilmente, mentre i compiti molto ripetitivi e poco stimolanti possono indurre
più facilmente la noia che, con il trascorrere del tempo si traduce in assenteismo e
insoddisfazione lavorativa. Altri elementi che spesso portano a noia sono non avere niente
da fare, svolgere lavori caratterizzati da assenza qualitativa, svolgere compiti ripetitivi,
semplici e poco stimolanti intellettualmente.
La ripetitività tuttavia non determina necessariamente noia.
Secondo Fisher, quando il compito non è stimolante, l'ambiente di lavoro diventa
importante nel determinare il grado in cui il lavoro induce sentimenti di noia. La presenza
di altre persone può incrementare l'arousal psicologico al lavoro anche se non per forza
determina l'assenza di noia: alcuni soggetti sono annoiati proprio perchè i colleghi non
erano considerati interessanti e non erano comunicativi.
La noia può anche essere determinata dalla valutazione di altri, come capi e colleghi.
Un altro aspetto dell'ambiente di lavoro che può contribuire alla noia è il grado in cui le
procedure di controllo limitano il comportamento. Le regole organizzative che proibiscono
di parlare, che prescrivono le esatte procedure di lavoro o limitano le pause potrebbero
contribuire alla noia. Quando gli individui sentono che il loro comportamento lavorativo è
causato da fattori esterni, tendono a perdere interesse per il compito , un fenomeno
chiamato overjustification. Anche controlli imposti internamente possono ridurre interesse
per l'attività (fare il proprio dovere per evitare il senso di colpa porta a noia).

Le caratteristiche personali sembrano giocare un ruolo stabile nell'esperienza della noia al


lavoro: ad esempio, le personi intelligenti ed estroverse si annoiano prima (appena la
stimolazione decresce) rispetto agli altri.
La tolleranza della noia indica una mancanza di curiosità e di abilità a creare progetti
significativi e stimolanti per se stessi.
Le persone hanno paura di discutere i loro sentimenti riguardo alla noia e alla mancanza di
significato nella loro vita lavorativa, anche per il senso di colpa e di fallimento che essi
generano. Questa tendenza a non esprimere la noia è spesso appresa da bambini, i quali
imparano che non è socialmente accettabile esprimere apertamente la loro noia e la
mancanza di interesse ad esempio verso la scuola.
La noia cronica diventa una forma di micro-suicidio nella vita di tutti i giorni.

LE STRATEGIE DIFENSIVE
In un mondo del lavoro che cambia continuamente, la vita organizzativa è di conseguenza
pervasa da ansietà.
Le attività tecnico-specialistiche e le attività operative possono generare numerose ansie
relative all'inquietudine sull'essere all'altezza della situazione, sul possesso delle
competenze richieste dal compito, sulla capacità di ottenere il consenso degli altri.
Le attività manageriali invece possono generare ansie per la precarietà e la provvisorietà
degli elementi di contesto, rispetto ai quali si devono adottare le decisioni strategiche e per
le conseguenze a volte determinanti per il destino dell'organizzazione.
Le attività gestionali sono le maggiori fonti di ansia. Da un lato, la pianificazione, previsione
e programmazione non sempre sono facili a causa dell'instabilità dei mercati e del costo
delle materie prime. Dall'altro lato, la dimensione relazionale che comprende
organizzazione, coordinamento e controllo, costituisce la maggiore fonte di ansia. Lavorare
insieme, confrontarsi con altri, collaborare e convivere in un ambiente organizzativo spesso
costituisce una fonte di ansia.
Molte persone hanno raggiunto una maturità personale e professionale che consente loro
di gestire le ansie derivanti dalle relazioni sociali nel lavoro. Queste persone hanno appreso
che la vita di relazione non costituisce lo strumento per ridurre ansie e tensioni, anzi, che la
vita di relazione contribuisce a generare ansie e tensioni: bisogna tener presente che la
dimensione della relazione implica la gestione della dinamica emotiva del potere
(dipendenza, competizione, ostilità) e della dinamica emotiva del riconoscimento (richiesta
di approvazione).
I meccanismi di difesa costituiscono delle strategie per evitare, ridurre o nascondere le
ansie legate alla gestione delle relazioni e del ruolo. Anna Freud ne cita 9: regressione,
rimozione, formazione reattiva, isolamento, annullamento, proiezione, introiezione,
riflessione sulla propria persona, conversione nell'opposto.
I meccanismi difensivi, pur essendo radicati e comprensibili all'interno della storia di
ciascun individuo, finiscono, nei contesti organizzativi, per assumere significati collettivi e
condivisi. Sono stati individuati differenti stili difensivi che possono essere scelti dagli
individui per fronteggiare l'ansia: (stile difensivo: ansie sottostanti)
1. Perfezionismo: ossessivo bisogno di dominio e di controllo che produce alti livelli di
ansia e preoccupazione;
2. Arroganza e Vendicatività: ansia di perdere il controllo degli avvenimenti, di essere
travolti, sopraffatti;
3. Narcisismo: ansie da sentimento di inutilità e insicurezza;
4. Autosvalutazione: ansie da forte bisogno di riconoscimento e di approvazione e dal
timore della controaggressività degli altri;
5. Passività: ansie connesse a sentimenti di inadeguatezza.
9. LE COMPETENZE PROFESSIONALI
LA COMPETENZA RELAZIONALE
La competenza è la caratteristica propria di colui che dimostra di saper svolgere in modo
adeguato una certa attività, un certo compito. La stessa evoluzione individuale è scandita
dall'acquisizione e dalla maturazione di numerose competenze come quella linguistica.
Già dalle prime esperienze di vita inizia a svilupparsi una competenza più generale, la
competenza relazionale, che si riferisce al rapporto con i contesti di vita (affettivo,
organizzativo, sociale) e alle relazioni con le altre persone con le quali si stabiliscono legami
di diversa natura.
L'interazione è il nucleo che fonda il processo di costruzione della competenza relazionale,
che continuamente si costruisce e ricostruisce.
La competenza relazionale quindi è un processo grazie al quale le persone cotruiscono
gradualmente la conoscenza di sè e del mondo attraverso la rete di relazioni che essi
intrattengono con i rispettivi contesti affettivi, organizzativi, sociali e storico culturali nei
quali si apprende a interpretare l'esperienza, a comunicare e a negoziare significati.
La comunicazione è lo strumento attraverso il quale siamo in grado di mettere in contatto i
nostri con gli altrui significati. La conseguenza della gestione di questo processo è la
definizione dell'azione progettuale.
Competente è la persona che ha conoscenza di sè e delle sue dotazioni, che è in grado di
riflettere sull'azione, che è capace di analizzare e autoregolare i propri modi di intrattenere
relazioni con la realtà.

I MODELLI DELLE COMPETENZE PROFESSIONALI


2.1. Il modello individuale delle competenze
Le origini degli studi sulle competenze professionali risalgono al contributo di McClelland,
secondo il quale le competenze riguardano cluster di comportamenti concreti, sostengono
una pluralità di azioni della vita quotidiana, sono soggette ad evolversi in funzione della
formazione e dell'esperienza. Esempi di competenze indicati da McClelland sono la
competenza a comunicare, a comprendere, a pazientare ecc.
Le società di consulenza specializzate nella valutazione delle prestazioni iniziarono ad
allestire nuovi strumenti per valutare le competenze, alla ricerca delle competenze che
potevano costituire i migliori predittori della prestazione eccellente.
La competenza, secondo Boyatzis, è declinabile in 2 dimensioni: la prima dimensione
descrive i tipi di competenza, la seconda i livelli di ciascuna competenza riconducibili a 5
costrutti: motivi, tratti, immagine di sè, ruolo sociale, capacità.
Le competenze secondo Boyatzis giocano un ruolo fondamentale nel determinare una
buona performance, che però dipende anche dall'ambiente organizzativo e dalle richieste
del ruolo.

Competenze + ambiente organizzativo + richieste del ruolo = performance efficace


Secondo Spencerx2 le caratteristiche delle competenze sono di 5 tipi: motivi, tratti,
concezione di sè, conoscenze e capacità.
Le competenze legate alle conoscenze e capacità sono caratteristiche visibili e di superficie
delle persone, mentre quelle legate alla concezione del sè, ai tratti e ai motivi sono più
profonde. Le competenze di superficie sono più facilmente suscettibili di modifica e di
sviluppo, e la formazione costituisce lo strumento privilegiato per assicurare la loro
evoluzione. Le competenze più profonde, alla base dell'iceberg, sono di più complessa
rilevazione e sviluppo. Motivazioni, tratti, immagine di sè e conoscenze (intenzione)
predicono le skill di comportamento (azione) che a loro volta predicono i risultati della
prestazione lavorativa.
Le competenze sono ripartite fra due grandi categorie: competenze soglia e competenze
distintive. Le competenze soglia sono le competenze essenziali necessarie per essere
minimamente efficaci. Le competenze distintive sono quelle grazie alle quali è possibile
distinguere i soggetti superiori da quelli medi.
L'analisi delle competenze ha messo in luce che le competenze si possono aggregare in 6
cluster, ovvero in gruppi di competenze distintive.
Ciascun cluster contiene da 2 a 5 competenze.
Per ciascuna delle competenze è stato possibile identificare le Scale della differenza
apprezzabile (JND).
Ciascuna competenza può essere definita e declinata in una o più dimensioni, come ad
esempio la dimensione dell'intensità, dell'ampiezza ecc.
L'insieme della descrizione delle competenze generiche, e per ciascuna di queste, delle
scale della differenza apprezzabile, costituisce il cosiddetto Dizionario delle Competenze
Manageriali di Spencer e Spencer.

COMPETENZE DI REALIZZAZIONE E OPERATIVE (Cluster 1)


Predisposizione ad agire.
– Orientamento al risultato
– Attenzione all'ordine, alla qualità e all'accuratezza
– Spirito di iniziativa
– Ricerca delle informazioni

COMPETENZE DI ASSISTENZA E SERVIZIO


Desiderio e capacità di aiutare o servire gli altri cercando di comprendere i loro bisogni.
– Sensibilità interpersonale
– Orientamento al cliente

COMPETENZE DI INFLUENZA
Interesse personale, desiderio di potere e di avere influenza sugli altri.
– Persuasività ed influenza
– Consapevolezza organizzativa
– Costruzione di relazioni
COMPETENZE MANAGERIALI
Sottogruppo specializzato delle competenze di influenza. Esprimono l'intenzione di avere
specifici effetti.
– Sviluppo degli altri
– Attitudine al comando: assertività e uso del potere formale
– Lavoro di gruppo e cooperazione
– Leadership del gruppo

COMPETENZE COGNITIVE
Versione intellettiva delle competenze operative e dello spirito di iniziativa. Quanto si fa per
capire una situazione, un compito, un problema.
– Pensiero analitico
– Pensiero concettuale
– Capacità tecniche/professionali/manageriali

COMPETENZE DI EFFICACIA PERSONALE


Da queste competenze dipende l'efficacia delle performance nelle situazioni critiche e
difficili.
– Autocontrollo
– Fiducia in sè
– Flessibilità
– Impegno verso l'organizzazione

Il Dizionario delle competenze manageriali di Spencer x2 costituisce il lavoro più


sistematico sulle competenze professionali. I limiti però sono evidenti, ad esempio, sono
considerate solo le competenze più comuni, le competenze sono decontestualizzate e
vengono ignorate le competenze di tutta l'organizzazione che non può ridursi a mera
somma delle competenze individuali.
Una ricerca promossa dall'ISFOL nel 1992 propone una prospettiva diversa. Le competenze
evidenziate sono: diagnosticare, relazionarsi, affrontare.
In conclusione, la competenza è una caratteristica stabile, che una persona può avere o non
avere nel suo repertorio, ma la competenza è il risultato di un processo di costruzione e
interpretazione della relazione tra organizzazione e contesto.

2.2. Il modello delle competenze organizzative distintive


Le competenze organizzative distintive cotituiscono il sapere collettivo dell'organizzazione:
sono collegate alle tecnologie impiegate, al repertorio delle pratiche e delle routine di
lavoro, ai processi di apprendimento organizzativo. L'insieme di queste competenze indica
cosa sa fare l'impresa sia nel senso di abilità a svolgere determinate attività, sia come
capacità di migliorare e innovare singole attività.
Le competenze distintive non sono facilmente replicabili e imitabili e accrescono il valore
dell'impresa, contribuiscono in modo significativo al miglioramento dei prodotti e servizi
finali e testimoniano l'identità dell'organizzazione e la sua specificità. La sopravvivenza di
molte organizzazioni è legata all'individuazione di competenze distintive alle quali ancorare
i piani di sviluppo strategico delle persone e dei processi di valutazione del merito.
LE APPLICAZIONI DEI MODELLI DELLE COMPETENZE
La maggior parte delle applicazioni dei modelli delle competenze si riferisce al modello
delle competenze individuali. Nell'ambito della selezione, l'obiettivo è trovare massima
corrispondenza tra richieste della prestazione e competenza del lavoratore, nell'assunto
che questa corrispondenza migliorerà la qualità della prestazione e la soddisfazione del
lavoratore.
I principali metodi di valutazione per misurare le competenze possono essere:
– intervista sugli eventi comportamentali: si chiede alla persona cosa ha fatto
effettivamente in una situazione di lavoro o di vita;
– test psicologici: intelligenza e personalità;
– notizie biografiche: istruzione, famiglia, tempo libero;
– valutazione di altri;
– assessment center: si chiede ad una persona di reagire in una situazione simulata.

Un altro ambito di applicazione dei modelli di competenze riguarda la valutazione e la


gestione della prestazione lavorativa. La valutazione della performance basata sulla
competenza è, in genere, una valutazione a lungo termine, orientata al futuro e utilizzata
per fini di sviluppo e di pianificazione della carriera.
Un terzo ambito di applicazione dei modelli di competenze riguarda la definizione di piani
di formazione e di sviluppo delle risorse che operano nell'organizzazione. Lo screening delle
competenze può essere impiegato non a fini di valutazione o di selezione ma come
strumento per definire le competenze che è necessario incrementare.
Meno articolate sono le pratiche e gli strumenti del modello delle competenze
organizzative distintive. Il problema rinvia ad una visione strategica fondata sull'abilità di
ridisegnare, trasformare e integrare le competenze chiave esistenti nell'organizzazione con
le risorse e opportunità dell'ambiente esterno.
10. VALORI, BISOGNI E CONTRATTO PSICOLOGICO
VALORI PERSONALI E VALORI LAVORATIVI
I valori possono essere definiti come i riferimenti ideali che guidano la vita di ogni persona.
Sono le convinzioni circa i modi ideali della condotta e rappresentano ciò che spinge a
concepire qualcosa come socialmente o personalmente desiderabile.
I valori lavorativi, come quelli personali, possono essere intesi come scopi relativamente
stabili che le persone perseguono attraverso il lavoro, come una proiezione dei valori
personali in un contesto relazionale come è quello lavorativo.
I valori lavorativi delineano cosa idealmente dovrebbe essere il lavoro rispetto agli obiettivi
che è possibile e auspicabile perseguire attraverso esso (finalismo), cosa dovrebbe essere
giusto fare (etica del lavoro), e cosa attiva, direziona e sostiene l'azione definendo priorità e
scelte (valenza motivazionale).
Alcuni autori tuttavia evidenziano come tale sistema valoriale non sia così stabile,
risultando dinamicamente influenzato da fattori di tipo socio culturale. Gli individui
ssrebbero dunque portatori di un insieme multiplo di sistemi di valori, associati
dinamicamente a molteplici questioni.
Alcuni studi rilevano l'esistenza di stadi significativi, in particolare l'adolescenza, per il
cambiamento e la sedimentazione dei valori. Anche il ruolo giocato dalle relazioni
parentali, dalle modalità delle prime esperienze di socializzazione lavorativa, dai gruppi
etnici di appartenenza, oltre che dal genere e la fase dello sviluppo è importante nel
determinare i sistemi valoriali di riferimento.
Un tema importante è quello della coerenza dei sistemi valoriali nelle relazioni interne ai
gruppi di lavoro, tra membri dell'organizzazione e leader, e la coerenza tra valori individuali
e valori che caratterizzano la cultura organizzativa. In ogni casi sembra che la coerenza
valoriale sia direttamente proporzionale ad una migliore prestazione lavorativa.

STRUMENTI DI INDAGINE DEI VALORI LAVORATIVI


Il WIS, Work Importance Study (Super, Sverko, 1995), è uno strumento di rilevazione che
rende possibile la costruzione di un profilo individuale dei valori attribuiti al lavoro.
I dati, raccolti in diversi contesti culturali, consentono di distinguere 5 orientamenti
valoriali:
1. Orientamento Materialistico: concezione utilitaristica del lavoro, valori come
guadagno economico, prestigio, carriera;
2. Orientamento al sè: concezione del lavoro come espressione del sè, valori come
utilizzo delle proprie abilità, creatività, estetica;
3. Orientamento agli altri: lavoro come strumento di vita di relazione, valori come
interazione sociale, relazioni sociali, altruismo;
4. Orientamento all'indipendenza: concezione del lavoro come espressione
dell'autonomia, caratterizzato da valori come autonomia, creatività, sviluppo
personale;
5. Orientamento alla sfida: concezione del lavoro come spazio per l'antagonismo e la
competizione, caratterizzato da valori come rischio, varietà, autorità;
Il secondo questionario più importante è il PVQ (Portrait Values Questionnaire, Schwatz),
strumento per la rilevazione dell'importanza attribuita ad alcune tipologie valoriali,
considerate domini motivazionali universalmente riconosciuti da uomini di diverse culture.
I soggetti devono rispondere a 40 item, corrispondenti alle 10 dimensioni valoriali, nei quali
si deve indicare il grado di similarità tra le credenze del soggetto intervistato e il "soggetto"
descritto nel questionario. Sulla teoria universale dei valori di Schwartz si basano molti
studi e questionari.
Il Questionario sui Valori Lavorativi (QLV, Avallone) si basa sulla teoria universale dei valori
di Schwartz e si articola lungo 10 dimensioni: potere, successo, piacevolezza, stimolazione,
autonomia, universalismo, benevolenza, tradizione, conformismo, sicurezza.
L'analisi fattoriale condotta sui dati di un ampio campione ha consentito di ricondurre le 10
dimensioni valoriali a 6 fattori:
– Accrescimento di sè: 11% della varianza spiegata, raggruppa gli item che si
riferiscono alle dimensioni di potere e successo;
– Apertura al cambiamento: 9% della varianza spiegata, autonomia e stimolazione;
– Trascendenza del sè: 8%, benevolenza e universalismo;
– Conservatorismo: 7,8%, tradizione e conformismo;
– Piacevolezza: 5%, edonismo;
– Sicurezza: 5%, sicurezza.
I fattori risultano indipendenti tra loro, ad eccezione di apertura al cambiamento,
trascendenza del sè e piacevolezza ch sembrano correlare.
I giovani considerano più importanti i valori afferenti all'area dell'accrescimento di sè e
della piacevolezza, mentre gli adulti attribuiscono maggiore importanza alle aree della
trascendenza del sè e del conservatorismo.
Anche il genere influenza l'importanza attribuita ai valori lavorativi: per le donne è più
importante sicurezza e trascendenza del sè, mentre per gli umini accrescimento di sè.
Anche la scolarità ha la sua influenza: chi è scarsamente istruito predilige l'area del
conservatorismo più di quelli maggiormente istruiti. L'apertura al cambiamento invece è
preferita da chi è più istruito.

BISOGNI E SIGNIFICATI DEL LAVORO


Al lavoro viene attribuita, in modo omogeneo e stabile, un'elevata importanza sia in senso
assoluto, sia rispetto ad altre esperienze socio-relazionali come famiglia, amici, impegno
sociale.
Le persone definiscono il lavoro principalmente come un'attività finalizzata a ricevere un
compenso, e in seconda battuta come un'attività che fa scaturire un sentimento di
autorealizzazione. Seguono poi l'idea che aggiunga valore a qualcosa, che faccia parte dei
propri doveri e che sia un contributo per la società.
Il lavoro è un'esperienza importante nella definizione del progetto di vita, contribuendo a
connotare ed arricchire l'identità personale e la possibilità di realizzazione come persona
ed è, al contempo, una esperienza che assolve importanti funzioni latenti nella regolazione
del rapporto tra individuo e contesto, contribuendo alla definizione di un ruolo sociale.
I bisogni che i soggetti vorrebbero soddisfare attraverso il lavoro possono essere ricondotti
a 4 aree principali:
– Bisogni di potere e successo; 4
– Bisogni di relazione e affiliazione; 3
– Bisogni di autorealizzazione; 1
– Bisogni di protezione e sicurezza. 2
L'importanza più elevata è atribuita ai bisogni di autorealizzazione, seguono i bisogni di
protezione e sicurezza, i bisogni di relazione e affiliazione e infine quelli di potere e
successo.
I giovani desiderano che il lavoro soddisfi principalmente bisogni di potere e successo e
bisogni di autorealizzazione, mentre gli adulti attribuiscono magiore importanza ai bisogni
di protezione e sicurezza.
Gli uomini attribuiscono maggiore importanza ai bisogni di potere e successo mentre le
donne ai bisogni di sicurezza, affiliazione e autorealizzazione.
La scolarità ha la sua influenza: tra soggetti molto scolarizzati e soggetti poco scolarizzati,
non ci sono differenze relative all'importanza rispetto ai bisogni di potere e successo e
protezione ma ci sono rispetto ai bisogni di autorealizzazione e affiliazione (+ scolarità, +
importanti).

IL CONTRATTO PSICOLOGICO
Il termine contratto psicologico è stato introdotto da Argyris nel 1960; secondo lui il
contratto psicologico è un accordo non scritto stipulato tra lavoratore e datore, tra
individuo e organizzazione.
Solo negli anni '90, grazie soprattutto al lavoro di Denise Rousseau (1995), il contratto
psicologico acquista lo stato di costrutto e inizia ad essere oggetto di indagini sistematiche
ed empiriche.
Secondo la Rousseau il contratto psicologico è un'entità cognitiva, un insieme di credenze
individuali, modellate dall'organizzazione, che si riferiscono ai termini e alle condizioni
dell'accordo di scambio e alle reciproche obbligazioni tra individuo e organizzazione.
In questa prospettiva il contratto psicologico appartiene solo all'individuo e può includere
sia elementi espliciti (contributi monetari) che elementi impliciti (promessa di fiducia).
Il contratto psicologico si riferisce dunque ad una relazione tra la persona e
l'organizzazione, che implica uno scambio continuo di beni tangibili e intangibili. Le
organizzazioni non possono avere un contratto psicologico, anche se i singoli dirigenti
possono percepire un contratto psicologico con i dipendenti.
Il contratto psicologico inoltre è modellato dall'organizzazione, produce effetti nel
comportamento lavorativo ma può avere contenuti diversi (aspettative di ciò che il
lavoratore ritiene che egli sia tenuto a dare e di ciò che è dovuto dall'organizzazione).
I contenuti dei contratti psicologici sono potenzialmente infiniti ma sono stati individuati
principalmente 2 tipi di relazione contrattuale:
– Contratti psicologici transazionali: promesse di scambio che prevedono termini
specifici, espliciti, tangibili in archi di tempo definiti. L'enfasi è sul guadagno
economico e sul rispetto delle richieste lavorative;
– Contratti psicologici relazionali: promesse di scambio che prevedono termini
impliciti e altamente soggettivi, in archi di tempo non definiti e con beni intangibili
di natura socio-affettiva. L'enfasi è sul sentirsi membri dell'organizzazione,
sull'identificarsi con gli obiettivi.

La violazione del contratto psicologico si ha quando una delle parti della relazione
percepisce l'altra come inadempiente rispetto agli impegni promessi. La violazione può
riferirsi al tempo (ritardi di adempienza), alla forma, alla dimensione (risultato inferiore a
quello promesso), all'equità (risultato inferiore rispetto a quello di suoi simili), alla
reciprocità (dà più di quanto riceve).
Le conseguenze della violazione del contratto psicologico possono essere molteplici e
riferirsi a emozioni negative, a diminuzione della soddisfazione lavorativa, abbassamento
della fiducia verso l'organizzazione, a un decremento del livello della prestazione,
all'intenzione di lasciare l'organizzazione e a veri e propri comportamenti devianti nei
confronti dell'organizzazione e dei suoi membri.

11. SCELTA DEL LAVORO E SOCIALIZZAZIONE


ORGANIZZATIVA
SCELTA DEL LAVORO E RICERCA DEL LAVORO
Fino alla metà del secolo scorso il problema della scelta del lavoro riguardava un numero
limitato di persone, mentre oggi la situazione è completamente diversa.
L'obsolescenza delle conoscenze rende altamente improbabile che la scelta originaria sia
una scelta definitiva.
La differenziazione del lavoro e la nascita di nuove professioni ha reso stimolante la ricerca
di nuovi ambiti lavorativi che si ritiene possano essere più compatibili con la propria visione
della vita e con il progetto personale.
La precarietà del mercato del lavoro ha reso molto frequenti relazioni di lavoro
maggiormente flessibili basate su forme contrattuali a tempo determinato (lavoro atipico,
contingent work), che costringono a reiterare molto frequentemente la scelta dell'attività,
specialmente nelle fasi iniziali di immissione nel mercato del lavoro. L'idea che le persone
siano libere di scegliere è ingenua: molto spesso la scelta del lavoro è frutto di necessità, di
contignenza e di mero adattamento alle opportunità del mercato del lavoro.
La scelta del lavoro è condizionata da diversi fattori, come i bisogni individuali che la
persona cerca di soddisfare attraverso il lavoro (approcci motivazionali), la ricerca del
miglior equilibrio nel rapporto persona ambiente (prospettiva psiometrica), le convinzioni
di auto-efficacia personale (teoria dell'apprendimento sociale), la costruzione soggettiva
dell'ambiente sociale e di sè nell'ambiente (prospettiva costruttivista).
Le differenze individuali che condizionano la scelta del lavoro invece sono relative al
genere, alle condizioni socioeconomiche della famiglia di provenienza, alle abilità
intellettuali, alle esperienze scolastiche e alle esperienze di socializzazione pre-lavorativa.
La ricerca del lavoro non è un atto ma un processo; in questa serie di attività ciò che conta
è la capacità di prefigurare scenari futuri verso i quali indirizzare l'azione e gli sforzi, in
modo da muoversi proattivamente in un contesto fluido.
I valori professionali rappresentano delle credenze circa mete e comportamenti
desiderabili, dei quali le persone si servono per scegliere tra le diverse alternative
occupazionali e per valtare gli esiti del proprio lavoro. I valori professionali estrinseci si
riferiscono a ciò che si può ottenere mediante il lavoro (successo, indipendenza, profitto), i
valori intrinseci riguardano aspetti del lavoro in sè (creatività, stimolazione intellettuale)
mentre i valori concomitanti sono più attinenti agli ambienti e alle condizioni di lavoro.
Nella ricerca del lavoro l'autoefficacia gioca un ruolo cruciale: più le persone possiedono
delle convinzioni sulle proprie capacità e sulla possibilità di usarle per far fronte a difficoltà
e ostacoli nell'esplorazione del mondo del lavoro, minore è il rischio che la mancanza di
impiego faccia rimanere la persona intrappolata nel circolo vizioso della perdita del lavoro,
che conduce a scarsa autostima e demotivazione alla ricerca di altri lavori.
Le credenze sul futuro sono ancorate alla realtà poichè ipotizzano il futuro in base ad
occorrenze del passato, mentre le immagini fantasiose sono ancorate al desiderio che un
evento si verifichi e sono assimilabili ai sogni diurni.
Il concetto di prospettiva temporale futura poggia le sue radici nel pensiero di Lewin, che
la definisce come "lo spazio temporale a venire che influenza il comportamento presente".
La prospettiva temporale futura si articola in due dimensioni: centratura sull'opportunità e
centratura sui limiti, che hanno andamenti diversi a seconda dell'età. La centratura
sull'opportunità è maggiore nei giovani e si mantiene comunque nel tempo, mentre la
centratura sui limiti è la stessa nei giovani e nelle persone di mezza età ma aumenta per gli
anziani.
Secondo la prospettiva delle rappresentazioni realistiche del lavoro (Realistic Job Previews),
più le persone sono ben informate al momento in cui devono scegliere se accettare un
lavoro, più riescono a rappresentarsi accuratamente l'ambiente lavorativo, sviluppando
interessi in linea con l'azienda e gestendo meglio lo stress.
Valori professionali, credenze di autoefficacia e prefigurazione del futuro rappresentano
dunque variabili importanti per comprendere il processo di ricerca e di scelta del lavoro.
Queste stesse variabili possono e infatti sono assunte come punti di riferimento per
allestire attività di orientamento al lavoro rivolte sia ai giovani alla ricerca della prima
occupazione, sia agli adulti che si devono ricollocare nel mercato del lavoro.

L'INGRESSO NEL LAVORO E LA SOCIALIZZAZIONE ORGANIZZATIVA


L'ingresso nel lavoro è un'espressione che indica situazioni diverse: per alcuni rappresenta
anche l'ingresso nel mercato del lavoro, per altri si tratta di un nuovo ingresso nella stessa
attività ma in un'organizzazione differente o dell'ingresso in un nuovo lavoro. Tutti questi
casi rappresentano momenti importanti nella storia delle persone.
La socializzazione organizzativa è quel processo grazie al quale gli individui diventano parte
dell'insieme delle attività di un'organizzazione. Il precedente processo di socializzazione
dell'individuo influenza la socializzazione organizzativa (es.Educazione genitori). Con questo
retroterra di esperienze di socializzazione prelavorativa avviene l'ingresso lavorativo.
2.1. Processi individuali nell'ingresso lavorativo
Dal punto di vista della persona l'ingresso lavorativo costituisce una locomozione sociale o
una transizione psicosociale, che comporta la gestione di numerosi processi e la definizione
o ridefinizione delle sue strategie relazionali. Questi processi sono descritti in 6 punti:
1. Acquisizione della conoscenza delle caratteristiche del contesto organizzativo.
Ogni organizzazione ha una sua struttura, ricorre a precise tecnologie, adotta
processi informativi, operativi e di controllo di gestione, ha la sua storia, i suoi miti,
le sue cerimonie. Ogni organizzazione è cioè, un sistema culturale con le sue norme
esplicite ed implicite, con i suoi valori, modelli e pratiche di comportamento. Esiste
un contesto più specifico relativo al reparto, area o ufficio in cui si viene assegnati.
Esiste poi un contesto più ampio determinato dai mercati di riferimento (in senso
geografico o di prodotto), dai clienti o utenti di riferimento.
L'esplorazione e la conoscenza del contesto implicano la capacità di leggere eventi e
situazioni a diversi livelli (individuo/gruppo/organizzazione/società/cultura) e la
capacità di osservare a più livelli (esplicito/implicito).
2. Acquisizione e sviluppo delle competenze per rispondere, attraverso la prestazione
lavorativa, alle richieste dell'organizzazione.
Il problema non riguarda solo il necessario bagaglio di conoscenze professionali ma
soprattutto la loro traduzione operativa, che implica acquistare familiarità con le
procedure organizzative, impadronirsi del linguaggio tecnico professionale di quella
specifica oranizzazione. Significa misurarsi con il tempo, con le scadenze, con le
urgenze operative. Il confronto con nuove conoscenze da un lato stimola
l'apprendimento ma, dall'altro, richiede vere e proprie ristrutturazioni cognitive.
3. Assunzione e presa in carico di un ruolo lavorativo.
La vita è scandita dai ruoli (padre/figlio, amico/amico), ma i ruoli lavorativi sono ruoli
formali, caratterizzati da confini e vincoli, contrassegnati da relazioni gerarchiche e
funzionali, fondati sulla dinamica del riconoscimento e del potere. L'assunzione e
l'esercizio di un ruolo coinvolgono l'intera persona nelle sue dimensioni cognitive ed
emotive.
4. Inserimento e partecipazione efficace ad un gruppo di lavoro.
Sono pochi i lavori che si svolgono in solitudine, nei quali manca il contesto
organizzativo. Non appena ci si inserisce in un'organizzazione si comprende che il
lavoro, anche se svolto individualmente è parte di un contesto più ampio: il gruppo
di lavoro. Lavorando o partecipando a gruppi si acquisisce l'expertise a stare insieme
agli altri, ad organizzare e a suddividere il lavoro, a discutere e decidere insieme, ad
entrare in conflitto e trovare poi un accordo. Il gruppo, nel contesto organizzativo,
comporta la condivisione di uno stesso spazio fisico, dello stesso tempo di vita,
elementi di intimità in una situazione che non è intima, elementi di solidarietà e
contemporaneamente elementi di competizione.
5. Gestione delle emozioni.
L'esperienza di esplorare il contesto organizzativo, di sviluppare competenze, di
assumere un ruolo e di diventare membro di un gruppo di lavoro determina nella
persona nuove emozioni.
In alcuni casi le emozioni sono direttamente connesse al compito lavorativo
(es.infermiere, secondino), mentre in altri casi l'esperienza emotiva non è
direttamente connessa ai compiti da svolgere, ma appartiene all'insieme delle
relazioni che la persona attiva e alimenta nel corso dell'attività lavorativa.
6. Proattività e autoregolazione.
L'individuo non è un recipiente passivo della socializzazione, ma è un attore attivo
che lascia un segno di sè nell'ambiente, nelle relazioni con gli altri e nell'esito del
lavoro che egli stesso contribuisce a determinare. Per indicare l'impegno personale
nell'affrontare i problemi dell'inserimento lavorativo si fa ricorso al concetto di
proattività. La proattività nell'ingresso nel lavoro include le seguenti tattiche
comportamentali: ricerca delle informazioni, ricerca del feedback, costruzione delle
relazioni (capo, colleghi), socializzazione generale (eventi promossi
dall'organizzazione), costruzione di una rete (socializzazione fuori dal gruppo di
lavoro ristretto), negoziazione di cambiamenti nel lavoro.
Un diverso modo per indicare l'impegno personale nell'affrontare i problemi
dell'inserimento lavorativo fa ricorso al concetto di autoregolazione, definito come i
processi che consentono ad un individuo di guidare nel tempo le attività dirette al
conseguimento di obiettivi, modulando il comportamento, le emozioni, il pensiero.
L'autoregolazione è considerata come una forma di proattività poichè motiva il
nuovo assunto a impegnarsi attivamente nel suo contesto.
Le tattiche di gestione del sè sono: autodeterminazione degli obiettivi,
autosservazione, autoapprezzamento, autopunizione, prova.

2.2. Tattiche di socializzazione organizzativa


Le organizzazioni hanno continuamente bisogno di inserire al loro interno nuove risorse
professionali. L'ingresso di nuovi assunti costituisce un momento delicato anche per le
organizzazioni, che vogliono trarre profitto dall'investimento economico legato alle nuove
assunzioni e che desidera realizzare, nel tempo più breve possibile, l'integrazione della
nuova risorsa nella comunità di lavoro.
In letteratura si usa il termine tattiche di socializzazione per indicare una serie di azioni che
sono finalizzate a realizzare la migliore integrazione e il più efficace inserimento dei nuovi
assunti. Le tattiche di socializzazione organizzativa sono 6:
– Tattiche collettive: rivolte ai gruppi di nuovi assunti, allestendo situazioni di comune
conoscenza e apprendimento;
– Tattiche formali: prevedono una separazione tra nuovi assunti e lavoratori
preesistenti;
– Tattiche sequenziali: precisa sequenza delle esperienze di apprendimento, talora
prima dell'assunzione vera e propria del ruolo;
– Tattiche prefissate: scansione temporale delle diverse esperienze di apprendimento;
– Tattiche seriali: apprendimento del nuovo lavoro da un modello (mentore, coach,
tutor);
– Tattiche di investitura: riconoscimento esplicito, da parte dell'organizzazione,
dell'identità e delle competenze del nuovo inserito.
Ciascuna tattica prevede anche il suo opposto, quindi possiamo avere rispettivamente
tattiche individuali, informali, casuali, variabili, disgiunte e di non investitura.
Il contenuto comune delle tattiche di socializzazione organizzativa è l'apprendimento da
parte dei nuovi assunti di conoscenze, capacità, valori e norme.
Gli esiti, i risultati attesi dalle tattiche di socializzazione organizzativa, possono essere a
breve termine o di medio periodo. I principali esiti a breve termine riguardano
l'acquisizione della padronanza del compito e la chiarezza del ruolo da svolgere. I principali
esiti di medio periodo riguardano l'efficacia della prestazione, la capacità di leggere
situazioni e contesti, la padronanza nella gestione delle relazioni, il livello di impegno e la
soddisfazione lavorativa.
Numerosi dati empirici confermano che le tattiche di socializzazione organizzativa
migliorano la padronanza dei compiti e la prestazione, il fit (grado di congruenza) persona-
lavoro, il fit persona-organizzazione e la soddisfazione lavorativa.

12. RELAZIONI INTERPERSONALI E RUOLI


INTERAZIONE E RELAZIONE
L'interazione tra due o più persone rappresenta un fatto, un evento concreto che dobbiamo
distinguere dalla relazione, che costituisce invece un processo simbolico, che si avvale di
rappresentazioni reciproche costruite nel tempo.
Le relazioni interpersonali sul lavoro non sono diverse dalle altre: a volte ci si limita a meri
scambi informativi nell'illusione di potersi così sottrarre al coinvolgimento emotivo insito
nella relazione ma, data l'intensità degli scambi interattivi nella vita organizzativa, la
persona si trova comunque a dover allacciare, alimentare, mantenere, gestire una rete
nutrita, complessa di relazioni personali e professionali.
Diversi sono i motivi che fondano la vita di relazione nei contesti organizzativi. Un primo
motivo per il quale uomini e donne si uniscono, mantengono relazioni con gli altri e
formano gruppi, è legato alla possbilità di raggiungere obiettivi che da soli sarebbero
inarrivabili o richiederebbero troppo sforzo. Un ulteriore motivo è che attraverso il lavoro
l'uomo cerca di soddisfare una pluralità di bisogni, e questo lo fa attraverso la creazione e il
mantenimento delle relazioni lavorative.
I principali bisogni che l'uomo cerca di soddisfare col lavoro sono:
– Bisogni di sicurezza (identità e autonomia);
– Bisogno di affiliazione (sentirsi parte di);
– Bisogno di potere: il bisogno di potere si muove lungo un continuum che registra ad
un estremo l'esigenza di compiere qualcosa di significativo, di intervenire
attivamente nella realtà trasformandola, e, all'estremo opposto, il desiderio di
assoggettare la realtà e gli altri a sè per controllarli, manipolarli. Non esiste nessuna
relazione che non sia anche una relazione di potere. Potere, dipendenza e
interdipendenza costituiscono la base di ogni relazione. Un aspetto importante dello
sviluppo e della maturità di una persona è di superare i bisogni di dipendenza e di
potere distruttivo verso forme più adulte di interdipendenza relazionale. Il bisogno
di potere è strettamente connesso a quello di sicurezza.
– Bisogno di equità: le persone che sperimentano situazioni di non equità tendono a
ridurre la tensione, sia in condizioni di non equità favorevoli che in condizioni
sfavorevoli. Uno stato di equità si determina quando la percezione del rapporto tra
ciò che uno porta nello scambio e ciò che riceve coincide con la percezione
dell'analogo rapporto in un'altra persona assunta come oggetto di confronto.
– Bisogno di riconoscimento: è il bisogno di sentirsi oggetto di attenzione e di
considerazione da parte dell'altro, di sentirsi apprezzati, valutati ma non ignorati.

IL RUOLO
Il termine ruolo include una parte che è prestabilita, prescritta, e una parte lasciata alla
libera interpretazione dell'attore.
Ogni persona assume una pluralità di ruoli (figlio, studente, marito) nel corso della sua
giornata, indossa più maschere che hanno un canovaccio, culturalmente e socialmente
prescritto, e una parte affidata alla discrezionalità, all'intraprendenza, alla soggettività
individuale, che risente a sua volta della cultura, delle esperienze pregresse.
I ruoli lavorativi non sfuggono a questi principi. Sono delle maschere che le organizzazioni
mettono a disposizione dei singoli, consentendo loro di manifestare, al meglio, potenzialità
e competenze, ma anche di nascondere fragilità e inadeguatezze. Alcune persone si
trovano così a loro agio nel ruolo che hanno assunto che non riescono più a distinguere il
sè dal ruolo; queste persone corrono seri rischi al momento del pensionamento o al
momento della perdita del ruolo, poichè si trovano improvvisamente a dover fare i conti
con la propria identità.

2.1. I ruoli lavorativi


L'interazione con gli altri risente fortemente, nei contesti di lavoro, della posizione
occupata e del ruolo svolto. Ad ogni posizione organizzativa corrispondono dei compiti,
delle mansioni che in parte sono formalmente e minuziosamente stabiliti e, in parte, sono
indefiniti e emergono via via. Esistono lavori nei quali i compiti formalmente stabiliti sono
la prevalenza e lavori nei quali la parte dei compiti emergenti è più consistente.
Possiamo definire ruolo l'insieme di comportamenti tipici che caratterizzano la posizione di
una persona nei contesti di lavoro.
Alcune proprietà dei ruoli lavorativi:
– Il ruolo esiste solo in relazione ad altri ruoli;
– Ogni ruolo è contraddistinto da vincoli (possono essere di origine esterna, come
norme o procedure da osservare, o di origine interna, come i limiti individuali);
– Ogni ruolo ingloba una dimensione prescritta e una dimensione soggettiva;
– Ogni ruolo si gioca intorno a tre poli: potere, risorse e vincoli;
– Ogni ruolo soggiace a un duplice sistema di valutazione (da altri e da se stesso);
– Ogni ruolo si muove tra la dimensione della prescrittività e quella della
discrezionalità (la prescrizione limita, inibisce, restringe le possibilità di intervento
ma al tempo stesso rassicura, esonera dalla responsabilità, consente di attribuire
all'esterno eventuali inefficienze del ruolo. La discrezione invece inebria, fa sentire
attivi e intraprendenti ma implica anche l'assunzione delle responsabilità del proprio
operato. Il punto di equilibrio tra discrezione e prescrizione dipende dalle
caratteristiche individuali ma soprattutto dalla cultura organizzativa e del gruppo).
Adesso si può ampliare la definizione di ruolo: il ruolo di una persona in un'organizzazione
è l'insieme delle aspettative che la persona stessa e gli altri soggetti che interagiscono
nell'ambiente quali colleghi, superiori, clienti ecc. hanno nei confronti di chi occupa una
specifica posizione organizzativa. Le relazioni all'interno dei contesti organizzativi non si
configurano mai come semplici relazioni tra individui, ma come relazioni tra ruoli.
L'intero gruppo degli individui che hanno delle aspettative sul modo in cui il titolare di un
ruolo svolge il suo lavoro si chiama role set. I membri di un role set quindi sviluppano delle
aspettative su come il ruolo dovrebbe essere svolto (norme).
I titolari di ruolo possono trovarsi in un conflitto persona-ruolo quando le proprie idee su
come dovrebbe essere svolto il ruolo contrastano con le richieste che provengono dalla
gerarchia dell'organizzazione.
Di fronte al continuo invio di messaggi da parte dell'organizzazione su come svolgere il
ruolo, i titolari possono adottare diverse strategie di risposta; in particolare possono:
– Adeguarsi in maniera conformista
– Identificarsi con il mittente del messaggio
– Interiorizzare consapevolmente il messaggio del mittente perche lo si condivide.

2.2. Potere e ruolo


Il potere può essere definito come l'abilità ad influenzare la condotta degli altri e a resistere
alle influenze indesiderate messe in atto nei propri confronti.
Secondo una classificazione tradizionale si possono individuare le seguenti fonti e tipi di
potere:
– Potere di posizione (deriva dall'occupare una posizione formale di autorità)
– Potere di competenza
– Potere del carisma
– Potere di riconoscimento (si realizza premiando l'efficacia delle prestazioni)
– Potere di disconoscimento (si realizza inducendo negli altri conformismo rispetto ai
propri desideri, imponendo sanzioni ai dissidenti).
Il potere oltre alle 5 fonti ricordate trae origine anche dalla capacità di gestire gli eventi
critici: i più abili a gestire questi problemi e a ridurre l'incertezza di fronte alle contingenze
critiche acquistano potere. I modi ai quali questi soggetti ricorrono per ridurre l'incertezza
si sostanziano fondamentalmente nel controllo delle risorse, nel controllo
dell'informazione e nel controllo delle decisioni strategiche.
Il potere di qualcuno dipende anche dal grado di sostituibilità e dalla posizione, più o meno
centrale, nell'organizzazione.
Le attività finalizzate all'acquisizione di potere sono tanto maggiori quanto più vaste sono le
dimensioni dell'organizzazione e sono più frequenti nei ruoli manageriali e gestionali, ma
anche i ruoli tecnico-specialistici ed operativi non ne sono esenti. Numerose sono le
tattiche impiegate:
– Promuovere coalizioni o aggregazioni per perseguire interessi comuni;
– Fare favori agli altri inducendo sentimenti di riconoscenza e di debito;
– Integrare e neutralizzare gli avversari (cooptazione);
– Usare la seduzione e la cura dell'immagine.
I responsabili di molte organizzazioni sono consapevoli di questi giochi e, quando non ne
sono anch'essi coinvolti, si adoperano per evitare che il gioco del potere degeneri a livelli
che non consentono un regolare svolgimento e sviluppo dell'organizzazione.
Non esistono organizzazioni esenti da questi tipi di dinamiche e questo può farci riflettere
sulla natura dell'uomo. Il processo di opposizione e di confronto tra individui e gruppi, con
le inevitabili situazioni di conflitto che si generano, è anche un elemento di vitalità, di
progresso della conoscenza, di esplorazione di nuovi scenari. Esistono modi diversi di
"guerreggiare" all'interno dell'organizzazione; talvolta riemergono concezioni primordiali
della vita di relazione, riconducibili allo schema primitivo amico-nemico, si gioisce della
sconfitta altrui anche quando questo non porta risultati a proprio favore.

LE TRANSIZIONI DI RUOLO
Nel corso della vita lavorativa, come nel corso della vita sociale, una persona assume più
ruoli, cambia ruolo, può perdere il ruolo e può decidere di uscire dal ruolo. Ognuno di
questi passaggi costituisce una transizione importante per la persona.

3.1. L'assunzione del ruolo


Assumere un ruolo significa analizzare il contesto, definire una strategia di relazione e un
programma di attività che renda possibile lo svolgimento delle attività tecniche, costruire
attorno a se una rete di relazioni e di fiducia.
Particolarmente rilevanti sono i seguenti processi:
– Analisi del contesto
– Analisi degli stili di relazione dominanti;
– Analisi delle aspettative;
– Analisi delle emozioni personali;
– Predisposizione di un programma di lavoro;
– Costruzione di una rete di relazioni;
– Individuazione di indicatori di feedback.

3.2. Il cambiamento di ruolo


I cambiamenti di ruolo all'interno della stessa organizzazione possono essere orizzontali o
verticali.
Sono orizzontali quei cambiamenti che, mantenendo inalterato l'inquadramento o il grado
della persona, prevedono l'abbandono del ruolo precedente in favore di un altro. Sono
molto frequenti nele forze armate e nella polizia. I cambiamenti orizzontali non sono
sempre graditi dalle persone, poichè gli interessati devono comunque mettere in campo
nuove energie.
La mobilità verticale nella stessa organizzazione è costituita, nel linguaggio comune, da una
promozione. La promozione ad un nuovo ruolo è cosa diversa da un mero aumento
retributivo. Solitamente gli specialisti esperti vengono promossi ad assumere la
responsabilità di un ufficio, di un team, di un'area: questo nuovo ruolo è differente da
quello precedente e richiede nuove abilità, solitamente quelle gestionali a scapito delle
tecnico-specialistiche. Le competenze che deve mettere in campo sono diverse e sono
soprattutto di tipo relazionale e comunicativo.
La carriera può essere definita come "la sequenza delle esperienze lavorative di una
persona nel corso del tempo". Le carriere senza confini ("boundaryless careers") indicano
carriere che invece di svilupparsi sempre nella stessa organizzazione si sviluppano in
organizzazioni diverse. Esistono quindi organizzazioni che premiano l'appartenenza, la
fedeltà, l'anzianità dei propri membri, e organizzazioni che invece non contano su una
collaborazione dei singoli per tutta la vita.

3.3. La perdita del ruolo


Numerosi ruoli prevedono una durata limitata del loro esercizio; alcune persone accettano
questa condizione di transitorietà mentre altre persone la vivono con ansia.
La perdita del lavoro per scadenza del termine ha il suo principale esempio nel
pensionamento. In molti casi il pensionamento è vissuto come il compimento di una lunga
fase della vita, con soddisfazione, come la liberazione da tutti quei vincoli che
inevitabilmente il lavoro comporta. Altre persone invece interpretano il pensionamento
come la perdita di potere e posizione, con sensazioni di solitudine e sentono la necessità di
riflettere sulla propria identità. A ciò si aggiunge che il pensionamento di una persona
cambia inevitabilmente anche le relazioni con gli altri ruoli e in primis quelli familiari.
Il licenziamento invece, la perdita involontaria e imprevista del lavoro, produce numerose
conseguenze nella vita personale dell'individuo. La perdita del lavoro costituisce una
transizione forte, stressante e dolorosa nel corso della vita.
Di fronte alla perdita del lavoro la persona potrà (quando non fa ricorso a meccanismi di
difesa quali negazione e mascheramento) mettere in atto diverse strategie di azione che si
sostanziano in una lettura del contesto e della situazione e nell'intensificarsi dell'impegno.
Un ulteriore elemento che può influenzare la risposta dell'individuo alla perdita del lavoro
può derivare dalle diverse culture della disoccupazione, a ciascuna delle quali
corrispondono significati soggettivi diversi della perdita del lavoro e modalità altrettanto
diverse per affrontare la situazione. Sono state individuate 3 diverse culture della
disoccupazione: la dinamica della disperazione (sensazione di perdita dell'identità sociale e
professionale e della capacità di contare, di incidere sul reale, associata a chiusura e
inattività di fronte al problema), la dinamica del riscatto e la dinamica dello sviluppo
(possibilità di cambiamento, gli individui sono fortemente orientati al reingresso nel
mercato del lavoro).
13. IL GRUPPO DI LAVORO
TIPOLOGIA DEI GRUPPI DI LAVORO
Un gruppo lavorativo è un insieme interdipendente di individui che lavorano in
connessione tra loro per conseguire obiettivi comuni; che condividono la responsabilità di
specifici risultati verso la loro organizzazione; che è riconosciuto come tale da coloro che
operano all'interno e all'esterno del gruppo stesso. In generale, possiamo dire che il gruppo
non è un mero aggregato di individui indipendenti, non è la somma delle caratteristiche dei
singoli componenti.
Condizione indispensabile per definire una situazione di gruppo è l'interazione, che assume
la forma dell'interdipendenza dei membri. Perchè si abbia un gruppo unito è necessario
che i membri si percepiscano e si sentato uniti.
I gruppi di lavoro sono tipici gruppi secondari: nei gruppi secondari lo scopo del vivere
insieme è legato al raggiungimento di obiettivi specifici e limitati. I gruppi secondari si
distinguono nettamente dai gruppi primari (famiglia, amici), nei quali lo scopo
dell'associazione è soddisfare i bisogni sociali dei membri, attivando relazioni intime.
Nei gruppi di lavoro l'interazione e l'interdipendenza tra i membri tendono a strutturarsi sia
in senso orizzontale (divisione dei compiti), sia in senso verticale (gerarchia delle
responsabilità).
Fondamentalmente possiamo distinguere 3 diversi tipi di gruppo di lavoro:
– Gruppo di produzione: sono previsti dalla struttura di un'organizzazione per
assicurare la costante produzione di beni o servizi. Operano nella maggior parte dei
casi seguendo protocolli e procedure predefinite e pertanto non godono di
particolare autonomia ma rispondono ad un supervisore. In alcune organizzazioni,
accanto o in sostituzione dei gruppi di produzione formali, sono creati gruppi di
lavoro autonomi (autonomous group), dotati di una discreta autonomia; a questi
gruppi appare associata una maggiore soddisfazione lavorativa;
– Gruppi di progetto: sono creati per risolvere uno specifico problema o una specifica
categoria di problemi. Sono diversamente denominati: commissioni o comitati ad
hoc, task force, gruppi interfunzionali. Rispondono ad un committente, hanno in
genere una scadenza temporale e si sciolgono al momento della soluzione del
problema o del completamento del progetto;
– Gruppi virtuali: sono gruppi caratterizzati dal fatto che i membri che lavorano
insieme per raggiungere un obiettivo comune sono geograficamente distanti, e
usano nel loro lavoro computer, telefono, la video conferenza. La globalizzazione
rende sempre più frequente il ricorso ai gruppi virtuali, anche per la possibilità di
reclutare le migliori competenze in un certo settore a prescindere dalla dislocazione
fisica degli interessati.

CONTESTO ORGANIZZATIVO E GRUPPI DI LAVORO


Il contesto organizzativo è determinante per l'efficacia dei gruppi di lavoro. Si possono
individuare 3 dimensioni del contesto lavorativo che, se presenti, assicurano un buon
supporto ai gruppi di lavoro:
1. Il sistema informativo (fornire dati in tempo reale, sostenere le attività del gruppo di
lavoro con i software necessari);
2. Il sistema di riconoscimento dei meriti (individuazione e valorizzazione delle
prestazioni dei gruppi eccellenti);
3. Il sistema formativo (dovrebbe consentire l'aggiornamento costante delle
conoscenze, il mantenimento e lo sviluppo delle competenze necessarie).
I membri di un gruppo devono conoscere le norme di base che regolano l'interazione e la
convivenza. Non esiste possibilità di relazione efficace senza regole. Quando la convivenza
si fonda sulla fiducia, sulla comunicazione trasparente, sulla condivisione degli oneri e delle
responsabilità esistono le migliori condizioni per un lavoro di cooperazione e di sinergia
verso gli obiettivi organizzativi.
La direzione del gruppo di lavoro deve essere chiara, coinvolgente e sfidante. È
determinante nell'infondere e nel mantenere l'energia necessaria e nel direzionarla verso i
risultati attesi.

LE EMOZIONI NELLE DINAMICHE DI GRUPPO


Le emozioni giocano un ruolo importante in tutti i gruppi sociali e dunque anche in quelli
lavorativi: determinano in gran parte la coesione del gruppo; spesso alimentano i conflitti
interni e tra gruppi; determinano il contagio emotivo all'interno dei gruppi, a volte
chiamato anche "spirito di team" e può emergere o diventare più forte quando
l'interazione e la coesione sono alte oppure quando un'emozione è chiaramente espressa
da un membro di alto status o ben voluto.
Le emozioni determinano anche il fenomeno del gioco e dell'umorismo nei setting
organizzativi, i quali alleviano la noia, rinforzano una memoria condivisa dell'esperienza,
creano un senso di gruppo e facilitano l'efficacia del compito, alleviando la tensione e
rinforzando la creatività. Quando non sfocia oltre ai limiti, l'umorismo crea movimento e
sblocco della vita emotiva dell'organizzazione, permette di verbalizzare paure e ansie
proprie e degli altri e grazie a questo suo potere smascherante rappresenta una valvola di
salvezza. L'umorismo è una delle difese più eleganti del repertorio umano.

DIFFICOLTA' DI LAVORARE IN GRUPPO E DIFESE DI GRUPPO


Un gruppo può trovare difficoltà a svolgere efficacemente il lavoro sia per motivi di natura
organizzativa sia per motivi di natura relazionale ed emotiva. Molto spesso le persone e i
gruppi attuano comportamenti di natura difensiva, che sono azioni reattive e proattive che
non promuovono nè l'apprendimento individuale nè quello organizzativo nè tanto meno
l'efficacia nello svolgimento dei compiti. Le difese individuali e di gruppo servono dunque
ad evitare principalmente l'azione, la responsabilità di un evento o il cambiamento.
Ad esempio, la depersonalizzazione è una difesa efficace per evitare un'azione
indesiderata: un individuo o un gruppo potrebbero trattare clienti o utenti come oggetti
piuttosto che come persone.
Giocare sul sicuro è un altro comportamento difensivo teso ad evitare le responsabilità e
consiste nell'allontanarsi da decisioni rischiose, nel prendere solo decisioni con un'alta
probabilità di successo e nel prendere posizioni neutrali nei conflitti.
Per evitare la responsabilità di un evento un'altra strategia difensiva è quella del capro
espiatorio: la responsabilità di un esito negativo è assegnata ad altri o ad un fattore
parzialmente imputabile, "trovando" così una spiegazione e allontanando la colpa dai veri
responsabili.
L'esaurimento emotivo è un'ulteriore causa di difesa, è alla base del burnout e può causare
l'evitamento dell'azione tramite la depersonalizzazione.
A breve termine il comportamento difensivo può aiutare a mantenere l'immagine
personale e sociale, ma se diventa cronico si rivela dannoso perchè l'evitamento delle
situazioni avverse difficilmente le risolve. Inoltre, l'atteggiamento difensivo tende a inibire
l'apprendimento.
Nel tempo le dfese disfunzionali diventano una maniera sistematica di fronteggiare le
situazioni avverse, che determina ciò che Argyris chiama le "routines difensive". Queste
generano effetti a lungo termine, come la rigidità e la stagnazione organizzativa, la chiusura
mentale e il disinteresse per l'ambiente, un clima di sfiducia.
Bion sostiene che esistono due livelli mentali sui quali un gruppo opera, da lui definiti come
gruppo di lavoro e gruppo di base.
Il gruppo di lavoro è la dimensione che si riferisce al compito specifico e dichiarato, implica
attenzione ed esame della realtà, cooperazione ed impegno, tolleranza della frustrazione,
controllo delle emozioni: è la dimensione logica e razionale dalla quale dipende il
raggiungimento del risultato. L'attività mentale del gruppo di lavoro è però costantemente
ostacolata da quello che Bion chiama gruppo di base: dimensione latente, inconscia,
difensiva del funzionamento mentale del gruppo, che si oppone a ciò che è sviluppo e
cambiamento. Il gruppo di base si oppone all'idea di trovarsi riunito per lavorare: la
contrapposizione tra le due dimensioni è opposizione tra avanzamento e blocco, tra
possibilità di conoscere e pregiudizio, tra creatività e immobilismo. Il livello gruppo di base
si materializza concretamente in alcune fantasie condivise che Bion raggruppa in 3 assunti:
– Assunto di base attacco e fuga: la fantasia è che il gruppo sia riunito per combattere
qualcuno o qualcosa e per sfuggire da qualcuno o qualcosa. La visione del mondo è
semplicistica e riduttiva, basata sulla scissione dicotomica tra buoni (il gruppo) e
cattivi (il nemico da attaccare o dal quale sfuggire). La presenza di questo nemico
permette al gruppo di evitare qualsiasi forma di riflessione autocritica: la colpa
dell'insuccesso è sempre degli altri;
– Assunto di base dipendenza: il gruppo si riunisce allo scopo di essere sorretto da un
capo dal quale dipendere per ricevere nutrimento, sostegno spirituale, sicurezza e
protezione. Esiste una notevole coesione data proprio dalla comune identificazione
con il leader e dal senso di fraterna comunanza che si viene a creare tra i membri. I
sentimenti di sicurezza ed esaltazione mascherano in realtà la depressione del
sentirsi piccoli, inadeguati e insufficienti. Un gruppo dominato dall'assunto di base
dipendenza è un gruppo inefficace e inefficiente: solo il capo pensa e prende
decisioni, i partecipanti sono del tutto passivi e le loro potenzialità non sono in alcun
modo utilizzate. Quando i bisogni emotivi non sono soddisfatti dal leader, si assiste
ad un crollo dell'idealizzazione, per cui la persona che prima era venerata e adorata
viene rapidamente denigrata e svalutata. La venerazione lascia il posto alla rabbia e
il leader diventa il nemico del gruppo da espellere (assunto di base attacco e fuga).
Non è detto che un assunto di base non possa modificarsi in un gruppo, anzi, l'idea
di Bion è quella della possibilità di passaggi anche rapidi da un assunto all'altro;
– Assunto di base accoppiamento: la fantasia del gruppo è che qualcosa accadrà o
qualcuno arriverà in futuro e sarà capace di liberare il gruppo dalle sue difficoltà,
dalle sue ansie e dai suoi timori. Il clima del gruppo è quello dell'attesa messianica e
della speranza. Il gruppo è proiettato sul futuro, ignorando tutto ciò che è successo o
che sta succedendo.
Secondo Bion non è il capo che crea il gruppo ma il gruppo che crea il capo, proiettando su
di lui i suoi bisogni emotivi e spingendolo ad agire in quella direzione. Il leader viene
riconosciuto nel momento in cui soddisfa i bisogni del gruppo stesso: questi bisogni però
possono essere quelli del gruppo di lavoro o quelli del gruppo di base.

14. LA CONVIVENZA ORGANIZZATIVA


LE DIFFICOLTA' DEL VIVERE INSIEME
La rapidità dei mutamenti storici, culturali ed economici promuove più occasioni di
confronto e integrazione con una molteplicità di sistemi diversi, ma allo stesso tempo offre
minori punti di riferimento che orientino i modelli di comportamento. Il tema della
convivenza civile e sociale costituisce la grande sfida del futuro.

IL COSTRUTTO DI CONVIVENZA
La convivenza può essere vista come quel processo che consente agli individui, alle
organizzazioni e alle comunità di gestire relazioni significative e stabili, collocate in uno
spazio fisico e simbolico, con altre persone, gruppi e sistemi sociali.
Il concetto di convivenza si può declinare in funzione di 3 diversi livelli di relazione sociale:
affettivo, organizzativo e sociale:
– A livello affettivo le relazioni di convivenza riguardano i rapporti nell'ambito della
famiglia, nelle relazioni di coppia ecc.
– A livello sociale le relazioni di convivenza riguardano l'ambito della società civile;
– A livello organizzativo le relazioni di convivenza riguardano i rapporti all'interno del
luogo di lavoro.
Secondo Organ, i comportamenti di cittadinanza organizzativa (Organizational Citizenship
Behaviors) sono comportamenti discrezionali relativi a dimensioni quali l'altruismo, la
cortesia, la coscienziosità e la virtù civica. La decisione di agire come "cittadino
dell'oranizzazione" può essere funzione della valutazione della giustizia percepita, con la
quale si è più o meno trattati dai capi o dall'organizzazione stessa.
I gruppi di lavoro sono una componente essenziale della convivenza organizzativa.
Il comportamento d'aiuto è indicato come una forma di aiuto volontario agli altri o di
prevenzione di eventi di lavoro correlati a problemi lavorativi.
LE DIMENSIONI DELLA CONVIVENZA
Le dimensioni sono le medesime, quindi quella affettiva, quella sociale e quella
organizzativa. A fondamento del processo di convivenza, riguardo al livello affettivo ci sono
le emozioni di base e la tolleranza, a livello sociale la tolleranza e la solidarietà mentre a
livello organizzativo la tolleranza e la condivisione di obiettivi comuni.
Complessivamente sono state individuate 10 dimensioni comuni che definiscono il
processo di convivenza: rispetto delle norme e delle regole implicite e esplicite,
riconoscimento dell'altro, rispetto e tolleranza della diversità, sicurezza e stabilità, obiettivi
comuni, equità nell'accesso alle risorse, solidarietà, fiducia, comunicazione efficace,
equilibrio tra ruoli, piacevolezza nella relazione e investimento di energie.

LA CONVIVENZA NEI CONTESTI DI LAVORO


La convivenza organizzativa è quel particolare vivere insieme che si realizza nei luoghi di
lavoro, dove le persone non solo spendono molto tempo assieme, ma stabiliscono anche
relazioni investendo energie, emozioni, speranze.
L'analisi dei dati raccolti permette di identificare 3 clusterrelativi a 3 diverse
rappresentazioni della convivenza organizzativa:
– La tolleranza: la prima modalità che i soggetti propongono per rappresentare la
convivenza organizzativa è connessa alla capacità di rispettare gli altri e di
considerarsi reciprocamente risorsa in un equilibrio dinamico;
– Le alleanze: un diverso modo di rappresentare la convivenza organizzativa è
centrato sulle relazioni: tutto sembra passare attraverso i legami, più o meno forti,
positivi o conflittuali. L'organizzazione è rappresentata come una rete di alleanze e
coalizioni, dove la capacità di convivere sembra vincolata alla capacità di tessere
buone relazioni, di entrare a far parte di un gruppo;
– La professionalità: un terzo modo con cui i soggetti rappresentano le relazioni di
convivenza passa attraverso la funzione che ciascuno svolge ed il ruolo che ciascuno
ricopre all'interno dell'organizzazione: convivere nei luoghi di lavoro significa quindi
impegno, professionalità, serietà, onestà, competenza.
L'analisi dei dati raccolti, inoltre, permette di identificare 3 cluster relativi a 3 diverse
rappresentazioni dei fattori di criticità per la convivenza nei luoghi di lavoro:
– Il potere "contro": una prima modalità di ostacolo alla convivenza è la concezione
dell'organizzazione come un'arena in cui i singoli perseguono interessi personali e
concepiscono gli altri in modo antagonista, come ostacolo da superare/eliminare;
– La mancanza di rispetto: nei contesti di lavoro è difficile convivere se manca il
rispetto per gli altri (capo, colleghi), se non si rispettano gli orari, le scadenze, le
regole e se si viene meno della propria responsabilità;
– Le differenze: un terzo tipo di minaccia alla convivenza è rappresentato dalla
difficoltà dei membri dell'organizzazione ad operare in modo sinergico per il
perseguimento di una finalità collettiva a causa di differenze (es. Obiettivi diversi,
professionalità diversa).
Riassumendo, sulla base dei dati raccolti, i soggetti quando pensano alla convivenza
organizzativa fanno riferimento in primo luogo alla tolleranza e al perseguimento di
obiettivi comuni. Considerano importanti il rispetto reciproco, la capacità di accettare idee
diverse o contrastanti con la propria, il confronto come elemento di arricchimento, il
rispetto degli impegni presi, la capacità di collaborare verso obiettivi comuni. L'arroganza e
le prepotenze, l'autoritarismo, sono tutti elementi che invece minano la possibilità di una
convivenza serena. Qualora venga meno tolleranza e obiettivi comuni costituiscono fattori
di criticità.
La tipologia contrattuale risulta associata all'individuazione delle possibili criticità: chi ha un
contratto indeterminato considera più critiche l'equità e la piacevolezza delle relazioni e
meno critivhe la sicurezza e la solidarietà, mentre chi ha un contratto determinato
considera meno rilevante la solidarietà e più critiche tolleranza e sicurezza.
Le donne valorizzano di più la qualità delle relazioni interpersonali mentre gli uomini la
sicurezza. Anche l'età influenza la rappresentazione della convivenza: i più giovani
valorizzano di più la sicurezza e il potere, mentre gli anziani le regole e la fiducia.
Il Questionario multidimensionale per lo studio dei processi di convivenza (CMQ) presenta
una lista di 30 item (3 x dimensione) misurati su una scala Likert a 4 punti. Ogni item indica
un comportamento organizzativo rispetto al quale il soggetto deve esprimere, sulla base
della sua esperienza nel contesto in cui lavora, sia l'importanza attribuita al
comportamento organizzativo indicato, sia la frequenza con la quale tale comportamento si
verifica. La convivenza organizzativa quindi rappresenta un costrutto unitario, che si declina
lungo 10 dimensioni altamente correlate tra loro.

17. CAMBIAMENTO E SVILUPPO ORGANIZZATIVO


IL COPING DELLE ORGANIZZAZIONI
Le organizzazioni si trovano frequentemente a dover fronteggiare situazioni ed eventi che
trascendono la routine quotidiana. Alcune organizzazioni affrontano tali turbolenze
riproponendo pratiche e decisioni consolidate nel tempo, manifestando una
semplificazione difensiva della realtà, fino a correre il rischio dell'atrofia progettuale. Altre
organizzazioni invece gestiscono i mutamenti del contesto mobilitando le energie creative.
Il coping come costrutto sta ad indicare il modo in cui gli individui elaborano e affrontano
situazioni problematiche generatrici di ansia e stress. Il coping organizzativo ha la stessa
centratura sull'individuo del coping, e si riferisce alle situazioni che l'individuo deve
fronteggiare relative alle transizioni di lavoro o ai cambiamenti organizzativi.
L'espressione coping delle organizzazioni, invece, si riferisce all'insieme dei processi di
costruzione del reale, espliciti ed impliciti, collettivamente condivisi, che fondano strategie
di azione per fronteggiare e controllare eventi interni ed esterni che eccedono la routine
organizzativa.
Il costrutto di coping delle organizzazioni è multidimensionale e si riferisce a 7 dimensioni:
1. Integrazione organizzativa: tendenza ad elaborare elementi, fatti, situazioni del
proprio contesto di lavoro ma anche dell'ambiente esterno;
2. Persistenza: tendenza a persistere produttivamente nel perseguimento di obiettivi
organizzativi anche in presenza di ostacoli;
3. Gestione dell'incertezza e dell'ambiguità: disponibilità ad accogliere e considerare
quantità rilevanti di informazioni organizzative, anche incongrue, tollerando
emotivamente il nuovo, l'incerto, e prospettando soluzioni nuove e originali ai
diversi problemi da affrontare;
4. Metacognizione: tendenza a comprendere le ragioni degli eventi e i comportamenti
organizzativi e a riflettere sui processi sottostanti i meccanismi di attribuzione
causale;
5. Apertura ad altre esperienze: curiosità intellettuale e tensione verso la conoscenza.
Tendenza ad allontanarsi dal conosciuto, dall'istituito;
6. Riflessività intraprendente: tendenza a saper mettere in relazione informazioni ed
eventi che dal punto di vista temporale e causale sembrano essere slegati,
intraprendendo iniziative in ogni ambito dell'attività organizzativa (definizione
strategie e obiettivi);
7. Individuazione delle priorità.
Non è facile costruire e validare uno strumento di rilevazione del coping delle
organizzazioni che non implichi delle semplificazioni, tuttavia esiste un questionario di 28
item (4xdim) su scala Likert a 4 punti, ognuno dei quali indica un comportamento
organizzativo, nel quale i soggetti devono esprimere l'importanza di quel comportamento
organizzativo nel suo ambiente di lavoro. Le analisi statistiche confermano una soluzione a
7 fattori.

I PROCESSI DI CAMBIAMENTO
Spesso le persone che lavorano sottolineano la fatica della quotidianità, il fastidio della
routine e della ripetizione. Una tendenza dell'uomo è quindi di mutare, di innovare, o
comunque di individuare qualche antidoto alla noia.
Il lavoro è tuttavia costituito anche da quote elevate di inevitabile ripetizione. L'esperienza
che deriva dalla ripetizione dà sicurezza e consente di risparmiare energia. È difficile infatti
abbandonare il vecchio lavoro, lasciare ambiti e attività certi e rassicuranti. Il nuovo e
l'incerto ci attirano ma generano anche paura dello sconosciuto, possibilità di doversi
mettere in discussione.
Esistono dunque due tendenze, le quali coesistono in ogni persona in misura diversa: la
paura della noia e la paura della novità, la tendenza a innovare e la tendenza a conservare
scandiscono nelle loro diverse combinazioni l'evoluzione e l'involuzione delle singole
persone, dei gruppi, delle organizzazioni e delle intere comunità nazionali.
Ogni processo trasformativo comporta un costo, una perdita, un possibile pericolo; il
cambiamento è un sofisticato processo di valutazione tra costi e benefici. Cambiare inebria,
esalta ma implica fatica, sofferenza e conflitto.
In alcuni casi il cambiamento si sotanzia in una nuova configurazione di elementi all'interno
di un sistema dato che rimane stabile (cambiamento TIPO 1), in altri casi il cambiamento
non consiste in un mutamento di singoli elementi o delle loro relazioni, ma in una
trasformazione del sistema stesso (cambiamento TIPO 2).
es. Innovazione tecnologica in azienda -> TIPO 1
Trasformazione dei valori che guidano il fare collettivo -> TIPO 2
Gli errori più frequenti si hanno quando ad esempio ci si ostina a voler effettuare un
cambiamento di tipo 2 quando sarebbe meno oneroso uno di tipo 1, oppure quando si
effettua un cambiamento di tipo 1 dove sarebbe più adeguato un cambiamento tipo 2.
Per alcune organizzazioni il cambiamento assume le forme del decompattamento, della
frammentazione, che genera organismi autonomi mentre, per altre, assume la forma
opposta, ovvero qualla del ricompattamento, della fusione, creando gruppi più ampi e più
chiusi.
In alcune aziende, soprattutto negli ultimi anni, si è verificata una trasformazione culturale
che ha portato le stesse aziende a mutare la dinamica della protezione in dinamica della
competizione: la competenza e l'intraprendenza assumono all'improvviso valore rispetto
alla fedeltà e alla gerarchia, le esigenze di efficienza e di competizione privilegiano
l'assunzione di rischio e la progettualità. In questi casi queste trasformazioni culturali sono
vere e proprie rivoluzioni. I lavoratori devono mettere in atto strategie valide per adattarsi
al nuovo contesto lavorativo, incontrando numerose difficoltà date dall'incertezza e dalla
perdita di sicurezza che dava il lavoro, poichè schemi di comportamento a lungo consolidati
risultano, all'improvviso, inadeguatiad affrontare i nuovi scenari e le nuove dinamiche
organizzative.
Il cambiamento si sostanzia in un delicato equilibrio tra ciò che va mantenuto, conservato,
e ciò che va innovato, mutato. I processi di cambiamento sono dunque onerosi e complessi,
richiedendo una forte mobilitazione di energie ed esponendo gli attori ad un alto tasso di
rischio.
Nei processi di cambiamento organizzativo è necessario che siano presenti alcuni elementi:
– Informare e argomentare alle persone che lavorano i processi di cambiamento in
atto, permettendole di farsi un'opinione e di comprendere le ragioni dell'azienda;
– Coerenza tra enunciati e prassi;
– Gestire le emozioni (dare qualche spazio e legittimità alle emozioni può allentare la
tensione e mobilitare energie verso l'azione);
– Sviluppare le competenze;
– Ridefinire il concetto di gerarchia (la posizione gerarchica spesso perde importanza
in favore della competenza);
– Presidiare i confini tra delega e controllo, tra efficienza e consenso, tra
mantenimento e innovazione;
– Aprirsi all'esterno;
– Prepararsi alla complessità: la complessità non è una scelta, è una necessità. La
risposta alla complessità del reale è la complessità del pensiero. Ci si può addestrare
alla complessità con la formazione, con l'abitudine ad argomentare e
controargomentare le proprie tesi, tenendo conto delle molteplici variabili in campo
e delle loro interconnessioni.
LO SVILUPPO ORGANIZZATIVO
Col termine sviluppo organizzativo (Organizational Development, OD), si intende una
complessa strategia, attivata e supportata dal top management e articolata in un lungo
arco temporale per introdurre cambiamenti nell'integrazione tra struttura, processi,
tecnologia, strategia e cultura. È una strategia volta al miglioramento delle capacità di
analisi e soluzione dei problemi di un'organizzazione, allo sviluppo di una maggiore
competenza ed efficacia organizzativa, al miglioramento della qualità di vita lavorativa.
Gli ancoraggi teorici dello sviluppo organizzativo sono riconducibili fondamentalmente a 2
apporti: le ricerche di Kurt Lewin e la diffusione dei gruppi di apprendimento (training
groups), e i contributi del Tavistock Institute of Human Relations di Londra. Queste due
matrici culturali hanno in comune il metodo dell'action research, una ricerca, fondata sulla
collaborazione cliente-consulente, che consiste in una diagnosi preliminare, nella raccolta
dei dati presso il gruppo cliente, nella restituzione dei dati raccolti al gruppo cliente,
nell'analisi dei dati e nella pianificazione delle azioni da intraprendere da parte del gruppo
cliente e, infine, nella realizzazione di dette azioni.
La ricerca-azione è un processo di produzione di conoscenza che un consulente conduce,
non sugli altri ma con gli altri. Solo così è possibile realizzare un gruppo che cerca di
interrogarsi sui processi di costruzione della realtà, sulle strategie di pensiero e di
decisione.

Riassumendo in 9 punti:
1. Fare ricerca o intervenire professionalmente nel campo dello sviluppo e del
cambiamento organizzativo significa produrre conoscenza sulla relazione tra soggetti
e contesto. Chi si occupa di sviluppo e cambiamento organizzativo a livello
psicologico è portatore non di un contenuto ma di un metodo finalizzato a produrre
nuova conoscenza su come relazionarsi all'interno e all'esterno dell'organizzazione.
L'intervento si sostanzia in una procedura tecnica, sostenuta da paradigmi teorici di
riferimento, finalizzata a raggiungere obiettivi concreti e circoscritti.
2. L'analisi della relazione tra soggetti e contesto si riferisce principalmente a 4 ambiti:
a) le strutture dell'organizzazione, che riguardano il grado di divisione o
differenziazione delle attività, il loro grado di standardizzazione; b) i processi
organizzativi implicati dal sistema operativo, dal sistema informativo e dal sistema
controllo di gestione; c) la tecnologia impiegata, con riferimento sia all'hardware che
al software; d) la cultura organizzativa, intesa come sistema di valori e norme di
comportamento condivise. Questi 4 ambiti sono fortemente interdipendenti e
rappresentano i tradizionali campi di intervento dello sviluppo organizzativo.
3. Gran parte della letteratura sullo sviluppo organizzativo si riferisce alle
organizzazioni orientate al profitto, anche se molte organizzazioni pubbliche e molte
organizzazioni private (no profit) sono interessate ad avviare processi di
cambiamento e di sviluppo organizzativo.
4. Un ulteriore spazio di ricerca e intervento riguarda le piccole imprese, che,
specialmente se tecnologicamente avanzate, sono chiamate ad affrontare problemi
di cambiamento e di crescita: il passaggio dalla cultura familiare alla cultura di
impresa; il passaggio dalla cultura industriale a quella finanziaria, il passaggio dalla
cultura locale alla cultura globale.
5. Un ulteriore ambito di crescente importanza riguarda la transizione da
organizzazioni monoculturali ad organizzazioni multiculturali. Le imprese
transnazionali assumono la forma di network, una configurazione orizzontale di
risorse e capacità distribuite, differenziate ed interdipendenti. Un'organizzazione
diventa multiculturale non solo perchè opera in contesti geografici diversi, ma anche
perchè riflette i contributi di differenti gruppi culturali e sociali.
6. L'economia e la scietà globale stanno producendo valori, modelli di comportamento
omologati ed omologanti. La pressione dell'omogeneizzazione sta vincendo sulla
necessità della differenza.
7. Lo sviluppo e il cambiamento organizzativo, inteso come produzione di conoscenza
sulle relazioni tra soggetti e contesto, non rappresenta un percorso statico e lineare
ma circolare dinamico. La tendenza a esemplificare la realtà e a ricondurla a
categorie conosciute deve fare spazio a un lavoro di esplorazione, di interrogazione,
di conoscenza da realizzare insieme agli attori del cambiamento organizzativo. Se si
accetta la complessità della realtà si eviteranno spiegazioni ultra semplificate, spesso
accompagnate dalla proposta di rimedi definitivi.
8. Aumenta nei cittadini e nelle persone che lavorano la richiesta di trasparenza e
partecipazione. In questa prospettiva, il cambiamento dipende dalla creazione di un
sentimento di giustizia da parte di coloro che devono ricevere il cambiamento stesso
(giustizia distributiva, ovvero il rapporto tra sforzi e risultati; giustizia procedurale,
riferita alle procedure per determinare chi ottiene quei risultati; giustizia
interazionale, onestà percepita del trattamento interpersonale ricevuto).

18. COMUNICARE
COMUNICAZIONE E AMBIENTE
La comunicazione media tutti i rapporti umani, sotto forma verbale e non.

LA COMUNICAZIONE INTERPERSONALE
Esistono diverse prospettive teoriche sulla comunicazione: le più importanti sono quella
meccanicistica, quella psicosociale e quella costruttivista.

2.1. La comunicazione come trasmissione di contenuti: la prospettiva meccanicistica


Si tratta, fondamentalmente, del tradizionale modello Emittente – Messaggio – Ricevente.
Secondo questa prospettiva, la comunicazione è vista come un processo di trasmissione
grazie al quale un messaggio (M) viaggia attraverso lo spazio (un canale) da un emittente
(E) ad un ricevente (R). Successivi affinamenti hanno introdotto i concetti di fedeltà del
messaggio (grado in cui il messaggio è simile all'inizio e alla fine del canale), di barriera
(ostacolo che impedisce o rallenta la trasmissione), di rumore (disturbo, interferenza nel
canale di comunicazione). Il centro della comunicazione resta, in questa impostazione, il
canale. Secondo il modello comunicativo della teoria dell'informazione di Shannon e
Weaver il messaggio codificato attraversa il canale, subisce le interferenze delle sorgenti di
disturbi e arriva al ricevente, il quale lo decodifica.
4 sono gli assunti alla base di questo orientamento:
1. Causalità: la comunicazione è una successione di nessi causa-effetto: l'emittente
produce conseguenze sul ricevente grazie ai messaggi inviati attraverso un canale;
2. Transitività: se una fonte influenza il processo di trasmissione del messaggio questo,
a sua volta, influenza la chiarezza del messaggio;
3. Reificazione: il messaggio diventa un fatto concreto con proprietà fisiche e spaziali
(frequenza, durata) misurabili e oggettivabili;
4. Riduzionismo: la complessità del processo comunicativo è ridotta a singole
componenti.
La maggior parte delle organizzazioni è ancorata, consapevolmente o non, a questa
prospettiva. La conseguenza è un'esclusiva attenzione alla scelta e alle caratteristiche dei
canali di comunicazione e al processo di confezione e di trasmissione del messaggio da
parte dell'emittente. Un'evoluzione di questa prospettiva si ha con l'introduzione del
concetto di feedback o retroazione, ovvero del ritorno di informazioni ad un centro per
rendere possibile un ulteriore controllo. L'idea della retroazione è il primo germe per
pensare alla comunicazione come a un processo interattivo.
Un primo superamento della concezione della comunicazione come mera trasmissione
fisica dell'informazione si ha con il contributo di Roman Jackobson, il quale introduce la
nozione di contesto. Una più precisa valorizzazione del contesto, inteso non come mero
insieme di elementi di natura linguistica, è operata da Hymes, il quale propone il modello
SPEAKING, che individua i principali aspetti dell'interazione linguistica, contestualizzati nella
situazione sociale nella quale si inscrivono.

2.2. La comunicazione come gestione di contenuti e processi: la prospettiva psicosociale


La psicologia fornisce un contributo decisivo per il superamento del modello
meccanicistico. Luft e Ingham propongono un modello di interazione umana attraverso una
semplice griglia, nota come finestra di Johari. Le situazioni intrapersonali e interpersonali
sono inestricabilmente unite.
1. Il primo quadrante, l'area aperta, indica i comportamenti e le motivazioni note a sè e
note agli altri, e costituiscono la base per l'interazione e per la comunicazione.
2. Il secondo quadrante, l'area cieca, indica che alcuni dei comportamenti e delle
motivazioni dell'uomo sono noti agli altri ma non a sè stesso. Avere zone cieche significa
essere, in ogni momento, vulnerabili agli altri.
3. Il terzo quadrante, l'area nascosta, indica che alcuni comportamenti e motivazioni sono
note a sè ma nascoste agli altri. In ogni momento si ha la possibilità di rivelarli all'altro,
facendoli diventare parti del quadrante 1 e dando loro uno spazio nel rapporto con un
altro. Spesso questa rivelazione ne stimolerà una simile nell'altra persona con cui stiamo
interagendo.
4. Il quarto quadrante, l'area ignota, indica ciò che è sconosciuto a sè stessi e agli altri, è
l'espressione della sfera dell'inconscio.
Il contributo di Luft supera definitivamente la propettiva meccanicistica e richiama
l'attenzione sulla parte nascosta del sè e sulla sua rilevanza nei processi di relazione e
comunicazione.
Importanti furono pure i contributi della Scuola di Palo Alto, i quali partono dall'ipotesi che
la comunicazione è una conditio sine qua non della vita umana e dell'ordinamento sociale.
Secondo gli autori la comunicazione ha delle proprietà fondamentali, ovvero 5 assiomi:
1. L'impossibilità di non comunicare.
L'intero comportamento in una situazione di interazione ha valore di messaggio.
Comunque ci si sforzi, non si può non comunicare.
2. Livelli comunicativi di contenuto e di relazione.
In ogni comunicazione c'è un aspetto di notizia (report) e un aspetto di comando
(command). L'aspetto di notizia trasmette informazione (contenuto del messaggio),
mentre l'aspetto di comando si riferisce al tipo di messaggio che deve essere
assunto e perciò, in definitiva, alla relazione tra i comunicanti. Quanto più una
relazione è sana e spontanea, tanto più l'aspetto relazionale resta sullo sfondo. Al
contrario, le relazioni malate sono caratterizzate da una lotta costante per definire la
natura della relazione.
3. La punteggiatura della sequenza di eventi.
Gli scambi comunicativi non sono riconducibili ad una catena ininterrotta di stimoli e
risposte ma seguono una ounteggiatura: ad esempio, uno pone le domande e l'altro
risponde, uno prende l'iniziativa oppure si situa in una posizione di dipendenza e
così via. La natura di una relazione dipende dalla punteggiatura delle sequenze di
comunicazione tra i comunicanti.
4. Comunicazione numerica e analogica.
Il linguaggio numerico serve a scambiare informazioni sugli oggetti. Il linguaggio
analogico include le posizioni del corpo, i gesti, le espressioni facciali, le inflessioni
della voce, la sequenza, il ritmo e ogni altra espressione non verbale di cui
l'individuo è capace. L'aspetto di contenuto ha più probabilità di essere espresso con
il linguaggio numerico, mentre il linguaggio analogico è predominante nella
trasmissione dell'aspetto di relazione.
5. Interazione complementare e simmetrica.
Tutti gli scambi di comunicazione sono ccomplementari o simmetrici a seconda che
siano basati sull'uguaglianza o sulla differenza. Simmetria e complementarità non
sono di per se buone o cattive ma sono necessarie nella dinamica della relazione. Un
soggetto può assumere, ad esempio, una posizione di predominanza (one-up) e
l'altro di sottomissione (one-down).

2.3. La comunicazione come scambio di significati: la prospettiva costruttivista


Secondo Anzieu e Martin la comunicazione è un rapporto tra un locutore e un allocutorio
o, più in generale, tra due o più personalità impegnate in una situazione comune e che
dibattono sui significati, l'incontro tra due o più campi di coscienza. Ogni evento
comunicativo è un incontro dialettico tra due processi, un processo di espressione in cui un
Io-comunicante si rivolge ad un Tu-destinatario-enunciatario, ed un processo di
interpretazione, dove un Tu-interpretante si costruisce, a sua volta, un'immagine di Io-
enunciatore.
2.4. La comunicazione non verbale
– La comunicazione non verbale è onnipresente. Ogni atto comunicativo contiene
comportamenti non verbali.
– I comportamenti non verbali sono multifunzionali. Possono essere usati per creare
una prima impressione favorevole, per persuadere qualcuno, per controllare
l'alternanza dei turni, per esprimere uno stato emozionale, per chiarire il significato
del messaggio verbale.
– I comportamenti non verbali possono costituire un sistema di linguaggio universale.
Molti studiosi ritengono che i segnali non verbali facciano parte di un codice
universalmente compreso e riconosciuto. Sorridere, piangere, accarezzare, guardare
con intensità sono esempi di segnali non verbali usati e compresi in tutto il mondo.
– La comunicazione non verbale può creare sia migliore comprensione sia
fraintendimento. Le incomprensioni avvengono soprattutto quando l'interlocutore
compie inferenze certe rispetto al comportamento non sempre intenzionale
dell'altro.
– La comunicazione non verbale ha un primato filogenetico. Le forme non verbali di
espressione hanno preceduto quelle verbali. Nelle situazioni di stress è più probabile
regredire a forme più primitive di risposta.
– La comunicazione non verbale ha un primato ontogenetico. Prima che il bambino
abbia iniziato a comprendere il concetto di linguaggio verbale ha già acquisito un
ricco sistema di comunicazione che è strettamente non verbale.
– La com non verb ha il primato nell'interazione. Prima ancora che una persona inizi a
parlare i suoi comportamenti non verbali forniscono una grande quantità di
informazioni all'interlocutore.
– La com non verbale può esprimere ciò che la comunicazione verbale non può dire o
non è opportuno dire. Esistono crcostanze nelle quali verbalizzare pensieri ed
emozioni può risultare rischioso o inappropriato.
– La comunicazione non verbale è affidabile. Molti comportamenti non verbali
possono essere manipolati intenzionalmente per ingannare l'altro oppure per
eliminare espressioni del comportamento che possono indurre una cattiva
impressione. Tuttavia i comportamenti non verbali sono, nella maggior parte dei
casi, spontanei e non controllati e le persone sono solite dare loro un credito
maggiore rispetto alla comunicazione verbale. Molte ricerche confermano che
quando i comportamenti verbali contraddicono quelli non verbali, gli adulti credono
abitualmente al messaggio non verbale.
Si può affermare quindi che la comunicazione non verbale ha numerose funzioni in base al
contesto. Può sostituire, integrare, illustrare la parola data, fornisce un'importante fonte di
feedback, regola il flusso di comunicazione e l'enfatizzazione, serve a influenzare altre
persone senza rendere esplicita questa funzione.
La comunicazione non verbale può assumere 7 diverse forme:
1. CINESICA. Comprende tutti i movimenti del corpo, escluso il cotnatto fisico con un
altro corpo (linguaggio del corpo).
2. ASPETTO FISICO. È particolarmente importante nella formazione e nella gestione
delle impressioni. Molti giudizi sono basati sull'aspetto fisico e riguardano 3
dimensioni: aspetto generale del corpo (altezza, peso, forma), fisiognomica
(struttura della faccia, colore della pelle, capelli, occhi) e ornamenti (vestiario,
gioielli, tatuaggi). Normalmente le donne sono più consapevoli del loro aspetto
fisico e spendono più tempo nel valutare il loro aspetto fisico e quello di altre donne
roispetto a quanto fanno gli uomini, anche se si registrano profondi mutamenti a
riguardo. Gli elementi culturali a tal proposito giocano un ruolo fondamentale. Per
entrambi i sessi una fonte rilevante su ciò che può considerarsi attraente è veicolata
dai mass media e dalla pubblicità commerciale. La rilevanza dell'aspetto fisico nella
comunicazione è legata anche alla durata dell'interazione: più questa è breve più
operano le dimensioni di comunicazione non verbale legate all'aspetto fisico,
mentre nelle relazioni continuative e professionali il potenziale comunicativo
dell'aspetto fisico è relativamente modesto.
3. VOCE. Nel sistema di comunicazione non verbale la voce è un canale ricco; contiene
molti comportamenti che vanno al di là della parola parlata, ad esempio le pause, i
silenzi. Altri studi hanno cercato di individuare i fattori che rendono una voce
attraente (alta articolazione, non toni striduli, non nasali).
4. CONTATTO CORPOREO. È certamente la forma originaria di comunicazione sociale.
Esistono 5 situazioni di contatto corporeo: professionali (sentire il polso,
massaggiare), sociali (stretta di mano), amicali, di intimità affettiva e di attivazione
sessuale.
5. PROSSEMICA. Esistono 3 tipi di territori: i territori primari, quelli secondari e quelli
terziari. Il concetto di spazio personale e di distanza conversazionale si riferiscono ad
uno spazio dinamico, non fisso. Il rapporto con il territorio, le dimensioni vicinanza-
distanza aiutano a comprendere asptti della personalità del nostro interlocutore.
Distanza intima (0-45 cm), distanza personale (45-120 cm), distanza sociale (120-365
cm), distanza pubblica (da 365 in poi). La vicinanza-distanza tra le persone è anche
regolata da differenze culturali.
6. ARTEFATTI AMBIENTALI. Comunicazione ad alto contesto (la maggior parte del
contenuto informativo è nell'ambiente fisico); comunicazione a basso contesto (la
maggior parte dell'informazione prende la forma del messaggio esplicito). Si tratta di
elementi fissi o semifissi che contribuiscono a determinare il livello di stimolazione
presente (pavimenti, pareti, mobili, luminosità, temperatura).
7. CRONEMICA. Si riferisce al modo in cui l'uomo percepisce, struttura ed usa il tempo
come comunicazione.

L'aggressività verbale è una forma di ostilità che si concretizza in un attacco al sè


dell'interlocutore in aggiunta o al posto di un confronto sulla posizione della persona su un
determinato contenuto della comunicazione. Una causa dell'aggressività può essere la
mancanza di competenza argomentativa, ovvero la capacità di proporre elementi a
sostegno e di difendere le posizioni assunte nel corso di un dibattito controverso. Le
persone con scarsa competenza argomentativa si trovano presto a corto di elementi che
sostengano la loro tesi o di elementi per confutare quella dell'interlocutore. D'altro canto la
necessità di attaccare le posizioni dell'altro persiste e si finisce così ad attaccare l'oggetto
più vicino alla posizione dell'altro, ormai trasformato in avversario: la persona che espone
la posizione. Allo stesso tempo, in carenza di tesi argomentative si finisce a difendere
l'oggetto più vicino alla posizione sostenuta: sè stessi.
LA COMUNICAZIONE ORGANIZZATIVA
Le diverse tipologie di comunicazione organizzativa sono distinte in:
– Comunicazione istituzionale: attività finalizzate ad influenzare credenze,
atteggiamenti o ad ottenere il consenso sulle strategie e gli obiettivi
dell'organizzazione;
– Identità e immagine: l'immagine è un'impressione olistica posseduta da uno
specifico gruppo a proposito di un'organizzazione. L'immagine può riguardare
l'organizzazione nel suo insieme, un prodotto, il paese di origine di
un'organizzazione, il paese di origine di un prodotto (made in Italy). L'immagine è la
parte visibile dell'identità: attraverso la costruzione dell'immagine, la dimensione
intangibile della marca (brand) prende forma e assume sembianze visibili. Il
prodotto è ciò che viene fabbricato, la marca è ciò che il consumatore acquista. Il
prodotto può essere imitato, la marca è unica;
– Comunicazione interna: attività di comunicazione rivolta ai pubblici interni di
un'organizzazione.

3.1. La comunicazione interna


La funzione della comunicazione interna è quella di trasmettere informazioni sulle scelte
strategiche, su specifiche problematiche o su particolari eventi e di coinvolgere e motivare i
dipendenti rendendoli partecipi e protagonisti dell'azione organizzativa. Esistono 3
categorie di strumenti della comunicazione interna: strumenti cartacei (bacheca, circolari,
questionari), strumenti face to face (colloquio capo/collaboratore, riunioni di team,
convention annuali), strumenti elettronici:
– Posta elettronica (messaggi semplici e di routine, utile a ridurre i costi e ad
aumentare la produttività);
– Audio/Video conferenza (vantaggi sul piano economico e psicologico, infatti nelle
riunioni spesso emergono fenomeni come il conformismo e la nascita di coalizioni);
– Internet e Intranet (ciascun soggetto può essere sia fruitore che fornitore
dell'informazione. Le funzioni dell'intranet possono essere di tipo informativo,
operativo, istituzionale e di gestione della conoscenza. Ultimamente stanno
nascendo pure i virtual workspace, spazi di lavoro virtuale).
19. MOTIVARE
LA MOTIVAZIONE COME INVESTIMENTO ENERGETICO
Il termine motivazione designa il complesso processo delle forze che attivano, dirigono e
sostengono il comportamento nel corso del tempo. Variabili organizzative, del compito,
soggettive e socio-culturali interagiscono continuamente influenzando la motivazione al
lavoro, il suo andamento nel tempo, la sua intensità e la sua rilevanza.
Le componenti della motivazione sono: attivazione, direzione, intensità e persistenza.
Le varie teorie sulla motivazione al lavoro possono raggrupparsi in 2 tipologie: le teorie del
contenuto, che riguardano l'individuazione e l'analisi dei bisogni e delle mete che attivano
e dirigono il comportamento lavorativo, e le teorie del processo, che cercano di spiegare la
scelta, l'intensità, la persistenza di una determinata strategia comportamentale.

TEORIE DELLA MOTIVAZIONE AL LAVORO

2.1. L'approccio bisogni-motivi-valori


Sono qui ricomprese le ricerche sulle conseguenze per la motivazione al lavoro delle
differenze individuali nei bisogni, nei motivi e nei valori. Le prime 4 teorie spiegano la
motivazione in termini di soddisfacimento dei bisogni mentre l'ultima è la teoria della
giustizia e dell'equità.

-> Orientamento centrato sulla soddisfazione dei bisogni


LA TEORIA DELLO SVILUPPO SEQUENZIALE DEI BISOGNI DI MASLOW
Secondo Maslow, principale esponente della psicologia umanistica, la sorgente della
motivazione va ricercata in alcuni specifici bisogni. I bisogni umani sono di natura biologica,
hanno una base genetica e spesso influenzano il comportamento a livello inconscio. La
storia di un uomo non è che la storia del processo di soddisfazione di questi bisogni.
Un bisogno soddisfatto perde centralità e rilevanza all'interno dell'individuo, aprendo la
strada all'insorgere di nuovi bisogni.
Secondo Maslow ci sono 5 categorie di bisogni: i bisogni fisiologici, i bisogni di sicurezza, i
bisogni di appartenenza, i bisogni di affetto e di stima e, infine, i bisogni di
autorealizzazione. Questi bisogni sono tra loro in rapporto gerarchico in modo tale che non
sarà possibile l'insorgenza di bisogni di ordine superiore se non dopo l'avvenuta
soddisfazione di bisogni di ordine inferiore.
Questa teoria è stata criticata per diversi motivi, tra cui per l'assunto secondo il quale
l'uomo si attiva, in termini di comportamento e di azione, per la deprivazione di un
bisogno. La deprivazione di un bisogno produce sofferenza e sconforto ma non
necessariamente conoscenza diretta sul da farsi.

LA TEORIA ERG DI ALDERFER


Secondo la teoria ERG di Alderfer esistono 3 categorie di bisogni: di sopravvivenza, di
relazione e di crescita, che si sviluppano lungo un continuum (a differenza della sequenza
gerarchica di Maslow). Per Alderfer la frustrazione di bisogni di livello superiore poteva
comportare una regressione ed una riaffermazione di bisogni di più basso livello.

LA TEORIA BIFATTORIALE DI HERZBERG


Gli individui sono motivati da due diversi aspetti del contesto lavorativo: i fattori igienici
(retribuzione, condizioni di lavoro, relazioni interpersonali ecc.) e i fattori motivanti
(opportunità di avanzamento, responsabilità, soddisfazione ecc.). I due fattori lavorano in
maniera indipendente: i fattori motivanti (intrinseci al lavoro) portano ad un aumento di
soddisfazione e motivazione dei dipendenti ma la loro assenza porta ad assenza di
soddisfazione (indifferenza) più che ad insoddifazione. La presenza di fattori igienici
(estrinseci al lavoro) non sembra aumentare in modo diretto la soddisfazione e la
motivazione, ma la loro assenza ha causato un aumento di insoddisfazione.
Soddisfazione e insoddisfazione non sono opposte l'una all'altra ma sostanzialmente
diverse: non si situano lungo un continuum e non sono riconducibili agli stessi fattori
causali.
Tra le tante critiche, quella più accreditata evidenzia che non si può sottovalutare che
tendenzialmente l'individuo intervistato, se soddisfatto, attribuisce a sè la causa della sua
condizione, mentre se insoddisfatto è, generalmente, incline ad individuare cause e
responsabilità fuori di sè.

LA TEORIA DELLA MOTIVAZIONE AL SUCCESSO DI McCLELLAND


Secondo McClelland il comportamento umano è determinato da due opposti motivi: il
bisogno di successo (need for achievement) e il bisogno di evitare il fallimento.
Il bisogno di successo è un bisogno acquisito, non è innato. È il desiderio di fare le cose nel
modo migliore, di competere secondo uno standard di eccellenza.
Il bisogno di successo non rappresenta tuttavia l'unico motivo rievante nell'ambiente di
lavoro: alcuni soggetti sono sorretti e orientati, nell'esperienza di lavoro, da un forte
bisogno di affiliazione (stabilire e mantenere relazioni positive affettive). In tempi più
recenti McClelland ha introdotto la nozione di bisogno di potere (esigenza di controllare e
influenzare gli altri).
Gli individui con alti livelli di bisogno di successo ma bassi di potere non sono adatti a
ricoprire ruoli manageriali. Quelli con alti livelli di affiliazione non sono adatti a ruoli
gestionali. Il miglior profilo per un manager è quello con ivelli di bisogno di potere più alti
rispetto a quelli di affiliazione, purchè il bisogno di potere sia diretto a conseguire obiettivi
dell'organizzazione piuttosto che personali.

-> Orientamento centrato sulla giustizia e sull'equità


LA TEORIA DELL'EQUITA' DI ADAMS
Secondo questa teoria cognitiva la motivazione è funzione del modo in cui una persona si
percepisce in relazione agli altri e la disponibilità ad investire energie sul lavoro è funzione
del confronto con l'impegno degli altri. Uno stato di equità si determina quando la
percezione dell'individuo del rapporto tra ciò che egli porta nello scambio e ciò che egli
riceve dallo scambio coincide con la percezione dell'analogo rapporto in un'altra persona
assunta come oggetto di confronto (rapporto tra risultati conseguiti, outcome, e apporti
individuali, input). Secondo questa teoria gli individui che sperimentano situazioni di non
equità sia favorevoli che sfavorevoli a sè stessi siano motivati a ridurre la tensione
attraverso una ristrutturazione cognitiva o una specifica strategia comportamentale.
Le reazioni individuali allo stato di non equità possono essere:
– modificazione degli input (es. Variando l'impegno lavorativo);
– modificazione degli outcome (es. Cercando di ottenere maggiori riconoscimenti);
– abbandono della situazione (es. Trasferimento);
– intervento sull'altro oggetto del confronto (es. Cercare di screditarlo o sabotare la
sua attività);
– cambiamento dell'oggetto di confronto.
Sono state mosse diverse critiche contro questa teoria, in particolare è stata criticata di
riduzionismo, dal momento che è impossibile ricondurre il comportamento lavorativo ad
un unico valore, quello dell'equità e quindi della retribuzione. Inoltre la percezione da parte
di un soggetto dello stato di non equità dipende da moltissimi fattori.
In tutte queste teorie si parla sempre di un lavoratore semplificato e generalizzato e di
un'organizzazione senza volto nè storia: la ricerca della generalizzazione può uccidere il
gioco delle differenze.

2.2. L'approccio della scelta cognitiva


Le teorie Aspettativa x Valore muovono dall'assunto che la persona si comporta in modo
edonistico quando sceglie tra compiti e livelli di impegno ed enfatizzano 2 elementi
determinanti della scelta e dell'azione: le aspettative soggettive e la valutazione soggettiva
delle conseguenze attese, associabili a diverse alternative di azione.
Questi orientamenti possono raggrupparsi in 3 categorie:

L'APPROCCIO CLASSICO COGNITIVO INTERAZIONALE


Atkinson muove dall'ipotesi che la tendenza di un individuo ad affrontare un compito sia
determinata da 4 elementi: bisogno di avere successo, bisogno di evitare il fallimento,
probabilità percepita di successo, valore di incentivo del successo.
Le differenze individuali, secondo questo orientamento, sono riferibili principalmente alla
misura in cui la spinta al successo è più forte della paura del fallimento.

L'APPROCCIO COGNITIVO EPISODICO


-> La teoria dell'aspettativa di Vroom
La teoria dell'aspettativa (VIE) è una teoria cognitiva. L'ipotesi è che i singoli sappiano ciò
che desiderano dal lavoro e ritengono che la loro prestazione professionale determinerà se
essi riusciranno o meno a conseguire gli esiti desiderati. Si assume, quindi, che esista una
relazione tra impegno profuso e livello di performance.
La teoria ritiene che la motivazione a tenere un certo comportamento lavorativo dipende
da:
– i risultati del lavoro (aumento di retribuzione, promozione, trasferimento,
riconoscimento);
– la valenza, ovvero il valore associato dal singolo a ciascuno dei possibili risultati del
lavoro. È definita in termini di attrattiva o soddisfazione anticipata. Va da -10 a +10;
– la strumentalità, intesa come grado di relazione tra la prestazione lavorativa e il
conseguimento del risultato atteso. La strumentalità viene misurata come
probabilità percepita che quel certo atto porti ad un determinato risultato lavorativo
(va da 0 a 1 essendo una probabilità);
– l'aspettativa, intesa come la credenza soggettiva che l'esercizio di un certo livello di
impegno porterà alla riuscita della prestazione. Indica pertanto la relazione che
viene percepita tra impegno e prestazione (da 0 a 1);
– la forza, cioè l'ammontare dello sforzo e la pressione all'interno dell'individuo, ad
essere motivato. Matematicamente la forza è il prodotto della valenza, della
strumentalità e dell'aspettativa. La strumentalità di ogni risultato sono moltiplicate
per la valenza di ciascun risultato e la somma di questi prodotti è moltiplicata per
l'aspettativa al fine di ottenere una misura globale dell'intensità della forza
motivazionale. Secondo la teoria, l'atto con la più elevata forza motivazionale è
quello che l'individuo sceglierà di attuare.
Quindi, riassumendo, il primo ingrediente della motivazione è l'individuazione e il desiderio
di alcuni risultati lavorativi che abbiano un certo grado di valenza. In secondo luogo la
persona deve credere che esista qualche relazione tra prestazione e risultati, ovvero che
certi risultati abbiano alta strumentalità. Se i risultati attesi (promozione) non sono
percepiti come connessi alla prestazione ma ad altri fattori (anzianità, fedeltà al capo)
l'individuo sarà meno motivato ad impegnarsi. L'individuo inoltre deve percepire una
relazione tra il livello del suo impegno e il miglioramento della prestazione (aspettativa).
Il supporto empirico alla teoria dell'aspettativa è abbastanza positivo.

-> La teoria dell'orientamento al futuro di Raynor


Raynor ritiene che la motivazione ad intraprendere o svolgere un'attività è in parte
determinata dalla percezione di quanto e come il successo del compito presente
influenzerà la sua opportunità di raggiungere in futuro ulteriori obiettivi.
Esistono quindi 2 possibilità: da un lato, situazioni non contingenti nelle quali le persone
percepiscono che la performance in ciascun compito è del tutto disgiunta dalla possibilità
di affrontare nuovi e più impegnativi compiti, dall'altro lato situazioni contingenti nelle
quali la motivazione di un individuo ad affrontare un compito dipende non solo dai bisogni
e dagli incentivi connessi a quel compito, ma anche dalla posizione che quel compito
riveste in un sentiero di progressione verso il raggiungimento degli obiettivi individuali.

-> La teoria dell'attribuzione di Weiner


Weiner accoglie i contributi di Rotter sul locus of control e ipotizza che le persone spiegano
il loro comportamento in termini di 4 categorie causali: l'impegno, l'abilità, la difficoltà del
compito, la fortuna. Queste categorie sono, a loro volta, riconducibili a 2 dimensioni: il
controllo e la stabilità. Impegno e abilità sono spiegazioni interne, mentre difficoltà del
compito e fortuna sono esterne. Impegno e fortuna sono cause instabili, mentre abilità e
difficoltà del compito sono cause stabili.

L'APPROCCIO DELLA DINAMICA DELL'AZIONE


Secondo Atkinson e Birch una pluralità di tendene motivazionali opera simultaneamente; il
comportamento di una persona in un momento dato riflette la tendenza motivazionale più
forte in quel momento. Il concetto di forza consumatoria indica la crescita o il decremento
di una particolare tendenza motivazionale nel corso del tempo.
2.3. L'approccio dell'autoregolazione
Il costrutto di obiettivo (goal) è centrale in questo paradigma. Locke considera gli obiettivi
come coloro che attivano e sostengono il meccanismo grazie al quale gli stati motivazionali
sono tradotti in azione. Gli obiettivi sono quindi i precursori dell'azione.

IL MODELLO DEL GOAL SETTING


Secondo Locke sono 2 gli attributi degli obiettivi che influenzano il comportamento:
– l'intensità, intesa come forza dell'obiettivo e fondamentalmente determinata dalla
percezione di importanza dell'obiettivo stesso;
– il contenuto, che indica le caratteristiche dell'obiettivo, quali la difficoltà, la
specificità, la complessità.
Gli obiettivi dunque costituiscono la base della motivazione e dirigono il comportamento,
nel senso che costituiscono un punto di riferimento per stabilire quanto impegno spendere
sul lavoro influenzando la prestazione lavorativa. Secondo Locke, perchè gli obiettivi
possano influenzare positivamente l performance, occorre che gli individui siano
consapevoli dell'obiettivo, sappiano ciò che si deve fare per raggiungerlo e accettino
l'obiettivo come qualcosa per cui vale la pena impegnarsi.
La teoria di Locke ha avuto un elevato tasso di conferma. I principali esiti della ricerca
possono così riassumersi:
– gli obiettivi ardui e imoegnativi inducono ad una prestazione lavorativa superiore;
– gli obiettivi specifici sollecitano una migliore prestazione rispetto all'assenza di
obiettivi o ad obiettivi generici;
– gli obiettivi influenzano la prestazione di lavoro dirigendo l'azione e l'attenzione;
– perchè la determinazione degli obiettivi eserciti un'influenza sulla prestazione sono
necessari frequenti feedback;
– l'assegnazione degli obiettivi è influenzata da fattori quali l'aspettativa di successo
dell'obiettivo e dal valore di tale successo;
– la retribuzione può interagire con il processo di definizione degli obiettivi in vari
modi.
Un altro fattore che influenza la prestazione lavorativa è il grado in cui la persona si sente
coinvolta, legata, impegnata nell'obiettivo. Con il termine goal commitment si indica la
propensione di un individuo a profondere impegno per ragiungere un obiettivo e
l'indisponibilità ad attenuare lo sforzo o ad abbandonare l'obiettivo stesso.
Management by objectives (MBO), tecnica manageriale elaborata da Drucker.

TEORIE DELL'APPRENDIMENTO SOCIALE


Il primo assunto dice che l'uomo è dotato di capacità di autoregolazione, ovvero la
capacità dell'individuo di sospendere l'influenza della pressione ambientale, è resa
possibile dall'abilità dell'individuo di anticipare le conseguenze delle proprie azioni e di
imoegnarsi nella rappresentazione simbolica degli eventi. Il secondo assunto di questa
teoria riguarda la possibilità che i comportamenti possano essere acquisiti e cambiati in
assenza di un'esperienza diretta ma come conseguenza della mediazione cognitiva. Gli
autori che si inseriscono in questa prospettiva (Bandura, Kanfer), sostengono che
l'autoregolazione comprende 3 principali componenti:
– Auto-osservazione o automonitoraggio: attenzione selettiva prestata dall'individuo
a specifici aspetti del proprio comportamento;
– Autovalutazione: attività di auto-osservazione o di automonitoraggio che influenza i
giudizi su di sè. Nell'autovalutazione le persone confrontano il loro standard di
obiettivo desiderato con la prestazione svolta;
– Reazioni del sè: risposte interne che vengono poste in essere in seguito
all'autovalutazione. Si tratta di risposte emotive tanto più intense e rilevanti sul
comportamento quanto più ampia è la discrepanza percepita tra obiettivi e
prestazione.
La motivazione al lavoro è quindi vista in termini di influenza congiunta delle aspettative
sull'efficacia delle proprie azioni e delle reazioni alle discrepanze tra la performance
effettivamente svolta e lo standard assunto come riferimento. Questa espansione del
modello dell'autoregolazione enfatizza il ruolo delle dimensioni affettive ed emotive sui
processi motivazionali in buona parte trascurate dai precedenti approcci.

PROSPETTIVE DI RICERCA
La motivazione al lavoro non riguarda l'individuo e l'ambiente ma la loro relazione: è lo
studio dei processi che connettono individuo e contesto. La motivazione al lavoro
rappresenta il principale strumento di controllo personale sul comportamento.
Nelle ricerche future ci si auspica una maggiore enfasi sul ruolo delle emozioni nei processi
motivazionali, una maggiore enfasi sulle differenze individuali e sulle differenti storie delle
organizzazioni, valorizzando le differenze e non ignorandole come fatto fino ad ora.

20. INFLUENZARE E GUIDARE


LA LEADERSHIP
Seondo molti autori leadership e potere sono la stessa cosa, anche se il potere rinvia più al
tema della coercizione e del controllo sugli altri, mentre la leadership rinvia all'influenza,
alla persuasione e al coinvolgimento. La leadership si può quindi definire come l'uso di
un'influenza non coercitiva per dirigere e coordinare le attività dei membri di un gruppo
organizzato verso il raggiungimento degli obiettivi del gruppo.
In qualsiasi gruppo o organizzazione la leadership implica diverse funzioni quali generare e
mantenere il livello di impegno e di tensione richiesto ai membri, direzionare lo sforzo del
gruppo adeguatamente, gestire le dinamiche relazionali, tenere uniti gli individui. Il leader
è anche un portatore di valori, un punto di riferimento per le tensioni emotive e per i
conflitti che sorgono inevitabilmente.
Quando si parla di leadership si fa riferimento a 3 diverse forze: caratteristiche del leader,
caratteristiche dei membri e situazione.
LE TEORIE UNIVERSALISTE
2.1. Lo studio dei tratti del leader
Le prime concezioni della leadership sostengono che leader si nasce e che è impossibile
imparare a diventarlo. Questo approccio centrato sullo studio dei tratti sostiene che alcune
caratteristiche individuali del leader sono la chiave per una leadership efficace.
Alcuni tratti possono ostacolare o facilitare la leadership ma non è stata identificata una
lista che sicuramente possa predire il successo o il fallimento.
Ecco alcuni tratti che sono stati studiati:
Intelligenza: i leader sono generalmente più intelligenti dei loro collaboratori. Se la
differenza è troppo accentuata si può verificare una disfunzione nel gruppo. Hanno una
discreta capacità critica e di decisionalità.
Personalità: la capacità di prestare attenzione, l'adattabilità, la socievolezza, l'originalità, la
fiducia in sè stessi e l'indipenenza sono associati a una leadership efficiente. Sembra che gli
individui che esibiscono un maggiore grado di individualismo siano leader più efficienti.
Abilità: c'è una relazione positiva tra l'abilità di una persona a dirigere e il suo livello nella
gerarchia dell'organizzazione.
La lista di potenziali tratti potrebbe diventare infinita. Lo studio dei tratti non ha mai
considerato che è l'ambiente spesso a determinare quali tratti possano essere più
necessari. Non è realistico aspettarsi che le stesse persone, possedendo un determinato
insieme di caratteristiche, possano essere leader in tutti i casi e in tutte le circostanze.

2.2. Lo studio dei comportamenti del leader


Questo approccio esamina cosa i leader fanno e non chi sono in termini di caratteristiche
individuali. Per rispondere ai quesiti "che tipo di comportamento devono adottare i leader?
Che effetti hanno gli stili di leadership sulla soddisfazione e sulla performance del gruppo?"
lo strumento di indagine adottato fu il Leader Behavior Description Questionnaire (LBDQ),
consistente in una serie di descrizioni riguardanti il comportamento di un leader.
L'analisi fattoriale evidenziò le seguenti 4 dimensioni:
– Considerazione: comportamenti dei leader che indicano fiducia reciproca, rispetto,
amicizia, calore;
– Struttura d'iniziazione: stabilire schemi di organizzazione, canali di comunicazione,
procedure ben definite;
– Enfasi sulla produzione: capacità di un leader di motivare il proprio gruppo di lavoro
a raggiungere grandi risultati;
– Sensibilità: sensibilità dei leader relativa alle tensioni esistenti sia all'interno che
all'esterno dei gruppi di lavoro.
Enfasi sulla produzione e sensibilità sono poi state eliminate attraverso l'analisi della
varianza; si venne a creare quindi un modello di leadership a 2 dimensioni, composto dal
fattore considerazione e struttura d'iniziazione. Questi due fattori scoperti dai ricercatori
dell'Ohio assomigliano alle due tipologie di leader che individuò Bales: il leader orientato
al compito e il leader orientato alle relazioni; queste due dimensioni sono indipendenti,
nel senso che non sono nè in relazione nè in conflitto. Lo stile di leadership può essere
quindi definito dalla combinazione dei relativi punteggi su queste due dimensioni.
Incrociando le dimensioni si ottengono 4 quadranti che illustrano altrettanti stili di
leadership. In molti studi è emerso che lo stile di leadership ad "alta considerazione e alta
struttura di iniziazione" è correlato positivamente ad un'alta soddisfazione e alta
performance di gruppi, però altre ricerche hanno rivelato alcune conseguenze disfunzionali
legate a questo stile: alta struttura e alta considerazione non portano sempre a risultati
positivi.
Da alcuni studi condotti presso l'università del Michigan sono emersi altri risultati: leader
orientati alle relazioni in misura maggiore rispetto al compito ottenevano maggiori risultati
produttivi e avevano dipendenti più soddisfatti, mentre leader orientati prima al compito e
poi alle relazioni il contrario.
In conclusione, nè il gruppo del Michigan nè quello dell'Ohio sono riusciti a trovare uno
stile di leadership universalmente riconosciuto come il migliore. Neanche in questo caso
infatti viene compiuta un'analisi sistematica delle variabili ambientali a cui adattare uno
stile di leadership particolare.

2.3. La griglia manageriale


Blake e Mouton realizzarono la griglia manageriale partendo da due indipendenti ma
essenziali fattori per l'efficienza manageriale: l'interesse per la relazione (orientamento al
dipendente) e l'interesse per la produzione (orientamento al compito).
La griglia manageriale identifica 5 diversi stili di leadership derivati dalla combinazione dei
due parametri considerati: i 2 assi vanno da un punteggio di 1 (basso interesse) a 9 (alto
interesse).
1. Esaurito. Stile di leadership definito povero o lassez faire: è basso sia l'interesse per
il compito che quello per la relazione. La preoccupazione principale di questi capi è
di evitare i problemi.
2. Circolo ricreativo. Stile definito del gruppo di amici. È basso l'interesse per la
produzione e alto quello per le relazioni. I manager che adottano questo stile
cercano di creare un ambiente sicuro, confortante e familiare e suppongono che in
questo ambiente i loro dipendenti produrranno di più.
3. Compito. Alto interesse per la produzione e basso per la relazione. I manager
vogliono che l'elemento umano interferisca minimamente nei processi produttivi.
4. Metà strada. È il quadrante centrale, caratterizzato da un medio interesse sia per la
produzione che per la relazione. Queste persone cercano di bilanciare i bisogni dei
dipendenti con la necessità dell'organizzazione.
5. Squadra. Alta attenzione sia per la produttività che per la relazione. Uno stile del
genere solitamente aumenta sia la produttività sia la soddisfazione dei lavoratori ma
non sempre: le variabili situazionali sono fondamentali nel definire quale stile di
leadership sia più efficace.
In conclusione, non esistono nè caratteristiche particolari che fanno un individuo leader in
tutte le occasioni nè comportamenti prescrivibili che permettano ad un individuo di
ottenere successo in tutte le circostanze. Una leadership efficace dipende dalla capacità di
saper diagnosticare e di sapersi adattare alle dinamiche di una particolare situazione.
LE TEORIE DELLA CONTINGENZA
3.1. Il modello della contingenza di Fiedler
Un leader con una buona capacità diagnostica non si può esimere dal prendere in
considerazione questi 5 fattori: caratteristiche personali, dei collaboratori, del compito
dell'organizzazione e dell'ambiente esterno.
Fiedler utilizza il processo di Similarità/Dissimilarità come punto cardine delle sue indagini.
Crea a tal proposito il parametro di similarità assunta (AS) definita come la differenza tra
l'autopercezione di un soggetto con la sua predizione dell'autopercezione dell'altro. La
misura di similarità assunta (ASo) è ottenuta sommando i punteggi relativi alle risposte di
un questionario in cui si chiede ai leader di descrivere la persona con cui sono riusciti a
lavorare meno bene. Una persona con bassa ASo è una che disprezza il collega meno
preferito mentre una persona con alta ASo lo giudica meno severamente.
Fiedler e collaboratori hanno concepito la leadership come un processo d'influenza il cui
grado di favorevolezza della situazione è dato dalla combinazione di 3 fattori:
– La posizione di potere del leader: può essere forte o debole ma tale differenza non
comporta necessariamente un maggiore o minore rendimento del gruppo. Il leader
con una posizione debole deve convincere i suoi membri a seguirlo.
– La struttura del compito: compti molto strutturati che possono essere eseguiti in
più fasi danno al leader grandi opportunità di controllo, mentre quando il lavoro è
vago e poco strutturato, come può essere il lavoro creativo o nei gruppi di decisione,
il leader non può controllare il lavoro dei suoi membri e deve cercare continuamente
di motivarli e guidarli.
– Il rapporto interpersonale che il leader instaura coi suoi collaboratori è
parzialmente determinato anche dalla personalità del leader.
Il leader che è accettato dal proprio gruppo, che ha una forte posizione di potere e che ha
un compito ben strutturato si trova in una situazione favorevole (ottante 1); il leader che
non è accettato, che ha una posizione debole di potere e un compito poco strutturato trova
difficoltà nell'esercitare la sua influenza (ottante 8). Secondo Fiedler il fattore più
importante in base al quale decidere quando una situazione sia favorevole per il leader è il
rapporto leader-membri, il secondo fattore è il grado di strutturazione del compito mentre
il fattore meno importante è la posizione di potere.
In sintesi, numerosi risultati attestano che i leader direttivi (bassa ASo) operano meglio
nelle situazioni che sono per loro favorevoli o molto sfavorevoli; in situazioni intermedie
invece, quando il leader può avere un'influenza abbastanza relativa in quanto o il compito è
poco strutturato o lui non è completamente accettato, i leader permissivi, non direttivi e
orientati alle relazioni ottengono maggiore successo.

3.2. La teoria sul raggiungimento degli obiettivi (House e Mitchell)


Un altro filone di ricerche sulla leadership basato sull'analisi dei fattori situazionali è
conosciuto come Path-Goal Model (sentiero verso l'obiettivo). Anche in questo caso lo
scopo è di predire quale stile di leadership sia il più efficiente in situazioni differenti.
House e Mitchell introdussero la teoria delle aspettative, secondo la quale un lavoratore è
motivato quando ritiene che il suo sforzo contribuirà al risultato perchè ne è capace e che
sarà ricompensato in base a quest'ultimo. Secondo questa teoria il comportamento di un
leader sarà accettabile per i collaboratori quando questi percepiscono che è fonte di
immediata soddisfazione o che almeno può essere strumentale nel raggiungere una
soddisfazione futura.
La teoria suggerisce ai leader una varietà di tecniche per metterli in grado di raggiungere
questi risultati:
– cercare di riconoscere e incrementare bisogni di riuscita dei collaboratori;
– aiutare i collaboratori a chiarirsi le aspettative;
– ridurre gli ostacoli o le frustrazioni;
– chiarire il sentiero che conduce agli obiettivi.
Compito principale dei leader è anche quello di cercare di integrare gli obiettivi personali
dei collaboratori con quelli aziendali.
Questa teoria ha il grande merito di aver identificato un set completo di comportamenti
tipici dei leader.
1. Comportamento strumentale. Riguarda gli aspetti di panificazione del lavoro, di
monitoraggio e di controllo. Uno stile strumentale può essere usato per stimolare
quei collaboratori che hanno più difficoltà ad impegnarsi (bassa aspettativa) per la
mancanza delle capacità necessarie o a causa del lavoro non strutturato o con
obiettivi poco chiari.
2. Comportamento supportivo. È quel tipo di comportamento che include l'attenzione
ai bisogni dei collaboratori e al loro benessere e che cerca di creare un ambiente di
lavoro amichevole e piacevole. I collaboratori con un alto bisogno di riconoscimnto
sociale reagiscono più positivamente a questo stile di leadership.
3. Comportamento partecipativo. Caratterizzato dalla condivisione delle informazioni,
dalla volontà di lavorare insieme ai collaboratori e dall'utilizzo delle loro idee e dei
loro pareri nell'ambito delle decisioni importanti. Un collaboratore che dimostra
abilità nel compiere il proprio lavoro e un'elevata fiducia in se stesso (alta
aspettativa) è più propenso ad uno stile di leadership partecipativo rispetto ad uno
strumentale.
4. Comportamento orientato ai risultati. È determinato dalla sfida degli obiettivi, dalle
aspettative elevate nei riguardi dei collaboratori e dalla continua ricerca di incentivi
per migliorare i risultati. Questo stile si addice particolarmente a chi ha un elevato
bisogno di autorealizzazione.
Secondo House e Mitchell questi 4 stili di leadership possono essere messi in atto anche
dallo stesso leader in situazioni diverse. Questo assunto è in contrasto con la teoria di
Fiedler, il quale sosteneva che è molto difficile per un soggetto cambiare il suo stile di
leadership personale.
Secondo questa teoria una leadership efficiente è in funzione di una pregressa diagnosi
situazionale. Poichè l'incremento dell'efficienza deriva dall'incremento della motivazione
dei collaboratori, risulta necessario innanzitutto analizzare quali fattori favoriscono e quali
contrastano il livello di motivazione del proprio gruppo di lavoro. Solo dopo questa diagnosi
situazionale il leader può scegliere il comportamento adeguato da adottare. Solitamente,
partecipativo/supportivo se i collaboratori sono molto abili o hanno un'elevata fiducia in
loro stessi, strumentale se il compito è molto destrutturato.

3.3. Il modello di Vroom e Yetton


Vroom e Yetton hanno elaborato un modello che prescrive ai leader i comportamenti
"giusti" relativamente al livello di partecipazione del gruppo con la cosnapevolezza che tale
partecipazione dei collaboratori nel processo di problem solving è influenzato da una serie
di processi sociali.
Il modello prende in considerazione 3 criteri per determinare l'efficacia di una decisione: la
qualità (grado di impatto sul lavoro del gruppo), l'accettazione ed il tempo (tempestività
richiesta della decisione). Il modello proposto Vroom e Yetton suggerisce che una decisione
sarà efficace quando riesce ad integrare in maniera soddisfacente questi 3 fattori.
I leader, secondo questo modello, hanno a disposizione 5 stili decisionali, che variano in un
continuum che va da molto autocratico a molto partecipativo. Con la lettera A indicano lo
stile autocratico, con la lettera C lo stile consultivo e con la lettera G lo stile partecipativo.
A1. Il leader risolve i problemi o prende decisioni da solo.
A2. Il leader richiede le info necessarie ai collaboratori, poi decide da solo.
C1. Il leader condivide i problemi con i collaboratori individualmente, senza consultarli
come gruppo. Ascolta i suggerimenti e le idee, poi prende le decisioni da solo.
C2. Il leader condivide il problema con il gruppo intero, ascolta le idee e suggerimenti e poi
decide da solo.
G2. Il leader condivide il problema col gruppo. Insieme valutano le alternative e cercano di
raggiungere una soluzione accettata da tutti. In questo caso il ruolo del leader è quello di
moderatore, non cerca di imporre la propria idea ma accetta e appoggia ogni soluzione che
ha il supporto dell'intero gruppo (o della maggioranza).
Un'ulteriore elaborazione della teoria ha portato alla strutturazione dell'albero delle
decisioni, uno schema che aiuta a selezionare la strategia di decisione appropriata
rispondendo ad una serie di quesiti.
Solitamente lo stile A1 è il più appropriato ma pochi manager lo utilizzano. Da indagini è
emerso che gli stili CI e C2 sono quelli maggiormente impiegati e che i capi che occupan alti
livelli nella scala gerarchica tendono a far partecipare il gruppo nelle decisioni in più alto
grado rispetto a coloro che invece occupano posizioni di livello minore.

LA LEADERSHIP SITUAZIONALE
Hersey e Blanchard inizialmente elaborano un modello degli stili di leadership a matrice,
derivato dalla combinazione del comportamento supportivo (rapporti di comunicazione a
2 vie) e del comportamento direttivo (rapporti di comunicazione a 1 via). Da queste
combinazioni emergono 4 stili di leadership:
1. Telling (prescrivere). È caratterizzato da molta guida e poco sostegno, il leader
assume su di sè la maggior parte delle decisioni con poca propensione per la delega.
I collaboratori si limitano ad eseguire ciò che viene detto loro di fare. Si cerca di
ridurre al minimo le relazioni personali che si esauriscono nel fornire istruzioni,
risolvere i problemi e monitorare l'andamento del lavoro. Lo stile di comunicazione
è solitamente a 1 via.
2. Selling (addestrare). È caratterizzato da molta guida e molto sostegno. Il leader
definisce precisamente il lavoro come nello stile 1 ma prende anche in grande
considerazione le indicazioni che provengono dai collaboratori. La comunicazione è
solitamente a 2 vie.
3. Partecipating (coinvolgere). Molto sostegno e poca guida. Il lavoro è definito in
minima parte e le attenzioni del leader sono dirette all'incoraggiamento e al
supporto dei collaboratori, in modo tale che quest'ultimi siano in grado di
organizzarsi il lavoro da soli.
4. Delegating (delegare). Poca guida e poco sostegno. La strutturazione del lavoro da
parte del leader è molto bassa ed i collaboratori hanno un elevato grado di
discrezionalità nel'organizzazione del proprio lavoro. È molto utilizzato lo strumento
della delega e i collaboratori ricevono raramente incoraggiamenti e supporto.
Il comportamento del leader deve mutare in relazione ai collaboratori. Ciò che i leader
devono tenere di conto è il livello di maturità dei collaboratori, intesa come la capacità di
stabilire obiettivi elevati ma raggiungibili, come capacità e volontà di assumersi
responsabilità e come competenza/esperienza di un individuo o di un gruppo. Queste
variabili di maturità vengono considerate unicamente in rapporto a uno specifico compito
da svolgere; un individuo o un gruppo non sono maturi o meno in senso globale.
Quando il leader interagisce con i vari membri del gruppo presi singolarmente deve
personalizzare il suo stile ed è probabile che debba accentuare o contenere alcuni elementi
che gli sono propri nella conduzione del gruppo nel suo insieme.
La maturità è qualcosa di graduale. Il continuum della maturità viene diviso in 4 livelli (M1,
M2, M3, M4), che vanno dal collaboratore con scarse capacità e scarsa disponibilità ad
assumersi le proprie responsabilità al collaboratore molto capace e disponibile. Lo stile di
leadership adeguato per ciascuno dei 4 livelli di maturità comprende la giusta
combinazione di comportamento direttivo e comportamento supportivo. La crescita di
maturità è direttamente proporzionale allo stile da adottare.
L'elemento chiave consiste dunque nella valutazione della maturità dei collaboratori e nella
ricerca dello stile più adeguato. Il leader non individua lo stile giusto sulla base di
esperienze pregresse in cui un certo stile ha funzionato, ma il suo stile deriverà da
un'attenta riflessione sulle variabili situazionali con cui si trova ad interagire.
La teoria suppone che i leader abbiano una buona dose di flessibilità, tale da cambiare il
proprio stile da orientato al compito a orientato alla relazione e viceversa; questo concetto
è stato più volte criticato in quanto è emerso come spesso sia difficile riuscire a cambiare lo
stile di base.

GLI SVILUPPI PIU' RECENTI NEGLI STUDI SULLA LEADERSHIP


5.1. Le teorie dell'attribuzione
Un crescente numero di ricercatori ha iniziato ad applicare la teoria dell'attribuzione ai
problemi inerenti il tema della leadership, teoria che studia il modo in cui le persone
traggono inferenze causali sul comportamento proprio e altrui. Il successo di un
comportamento può essere cognitivamente attribuito a 4 fattori di base: ABILITA',
IMPEGNO, FORTUNA e DIFFICOLTA' DEL COMPITO. Questi fattori sono a loro volta
raggruppabili in 2 dimensioni: INTERNO/ESTERNO e STABILE/INSTABILE.
Abilità -> stabile e interna
Impegno -> instabile e interna
Fortuna -> instabile ed esterna
Difficoltà del compito -> stabile ed esterna
Kelley propone invece un diverso modello di attribuzione: in base alla quantità e alla natura
delle informazioni che il soggetto possiede si possono verificare 2 diverse situazioni, che
Kelley definisce systematic statements.
Nel caso in cui un soggetto abbia a disposizione pohe informazioni l'individuo può fare
un'attribuzione causale sulla base della propria psicologia ingenua.
Se invece la persona ha accesso ad un tasso di informazioni maggiore riguardanti il
soggetto, la situazione e il loro rapporto diminuisce la probabilità che l'osservatore
attribuisca le proprie impressioni a qualche sua caratteristica interna. Queste informazioni
sono condensate in 3 proprietà: specificità, coerenza e consenso.
La specificità si riferisce al grado in cui un soggetto si comporta in un determinato modo
solo in presenza di quello stimolo. Se si comporta in quel modo solo di fronte ad uno
stimolo la specifità è alta, se si comporta allo stesso modo di fronte a diversi stimoli la
specificità è bassa.
La coerenza riguarda il grado in cui l'elemento al quale è attribuito il ruolo di causa produce
effetti uguali in tempi diversi e situazioni diverse.
Il consenso si ha quando tutti, tendenzialmente, reagiscono in modo simile in presenza
dell'elemento cui è attribuito un ruolo di causa.

5.2. Il leader come agente causale


Calder afferma che la leadership esiste solo come percezione derivata dalle inferenze fatte
sul comportamento e/o sui suoi effetti poichè è un processo che dipende dalle attribuzioni
fatte dai componenti del gruppo più che dalle azioni del leader. Non esistono tratti,
comportamenti o situazioni che bastino a fare di un uomo un leader. Il leader esiste solo
quando gli altri lo reputano tale.
Il processo di attribuzione di causalità non è semplice: gli osservatori attribuiranno la
leadership a quella persona ritenuta la causa più plausibile di un evento. C'è un fattore che
aumenta la probabilità che quella persona sia la causa più plausibile della performance:
l'importanza, la rilevanza, la salience del leader. Alcune ricerche suggeriscono che cause o
persone su cui gli osservatori focalizzano l'attenzione o riguardo alle quali ci sono
informazioni più disponibili in memoria sono maggiormente percepite come spiegazioni
causali di un evento.

5.3. Il leader come elaboratore di informazioni


Tale approccio inizia con l'assunto che il leader è essenzialmente un elaboratore di
informazioni. Il processo è il seguente: comportamento dei collaboratori – attribuzioni del
leader – comportamento del leader. In questa prospettiva viene evidenziato come il
comportamento dei collaboratori possa determinare quello dei leader.

5.4. La teoria delle risorse cognitive


Fiedler e collaboratori si sono chiesti se esiste una correlazione significativa tra le abilità
intellettuali, la competenza, l'esperienza e lo stress di un leader e la performance del suo
gruppo. Queste ricerche hanno portato allo sviluppo della teoria delle risorse cognitive
(Cognitive Resource Theory) che si aggiunge al lungo dibattito sul perchè le abilità
intellettuali di un leader sono correlate in maniera così bassa (20-30%) con la performance
di un gruppo. Anche l'esperienza del leader non incide significativamente nella
performance del gruppo.
Fiedler parte dall'ipotesi che l'intelligenza e la conoscenza tecnica del leader determinano
la qualità dei piani che lui elabora, delle decisioni che prende, ma che tutto ciò è
influenzato dallo stress interpersonale.
Lo stress interpersonale è diverso dal job stress: il primo infatti è causato da problemi
interpersonali che possono verificarsi con i collaboratori o con il diretto superiore, il
secondo invece riguarda la difficoltà del lavoro.
I ricercatori hanno trovato che l'interpersonal stress tende a distrarre i leader dal lavoro
vero e proprio; in una situazione di alto stress interpersonale il leader sarà meno in grado
di usare le sue abilità intellettuali nel lavoro, così farà maggiormente ricorso alla sua
esperienza e risolverà i problemi lavorativi sulla base di altri problemi che ha
precedentemente risolto. I ricercatori hanno concluso che in una situazione di basso stress
interpersonale i leader usano maggiormente l'intelligenza dell'esperienza, mentre quando
lo stress aumenta i leader ricorrono maggiormente all'esperienza.
Fiedler spiega questi risultati ricorrendo alla teoria della facilitazione sociale, secondo la
quale un pubblico molto critico porta ad avere performance migliori in compiti usuali e
semplici, mentre lo stesso pubblico fa si che la prestazione peggiori di fronte a compiti
nuovi e complessi. Paragonando il pubblico critico al forte stress interpersonale, e i compiti
già conosciuti con l'esperienza, Fiedler supporta i risultati ottenuti nella sua ricerca.
Blades invece si concentra più sulla variabile intelligenza e scopre alcune cose interessanti: i
leader direttivi in un gruppo che lo supporta ottengono delle performance migliori quando
sono particolarmente intelligenti, ma quando i leader notevolmente intelligenti utilizzano
stili non direttivi le performance sono peggiori rispetto a quelle di gruppi guidati da leader
poco intelligenti che usano lo stesso stile partecipativo.
Quando un gruppo percepisce che il leader è abile, si aspetta che lui sia direttivo e
assertivo; se il gruppo, invece, riconosce che il leader è poco preparato e non è
particolarmente abile, preferisce che lui adotti uno stile partecipativo in modo che tutti i
partecipanti abbiano la possibilità di intrvenire e di contribuire alle decisioni.
Blades formula così un altro assunto nell'ambito delle risorse cognitive: i leader brillanti e
relativamente intelligenti dovrebbero essere direttivi e dire, in modo assertivo ed
esauriente ai membri del gruppo cosa fare; quelli relativamente meno brillanti e meno
intelligenti, invece, dovrebbero essere più partecipativi, ascoltare gli altri e prendere ogni
decisione insieme al gruppo.

LA LEADERSHIP CARISMATICA
Le teorie dei paragrafi precedenti hanno studiato prevalentemente il leader nei suoi tratti
distintivi, nel suo comportamento, negli stili che preferibilmente dovrebbe adottare in base
alle situazioni e nelle variabili cognitive che influiscono sulla sua performance.
Queste teorie invece si concentrano principalmente sui collaboratori, rilevando in
particolare le risposte emozionali dei collaboratori rispetto al leader.
Il leader è descritto principalmente in termini di colui che articola una visione e una
missione e che cerca di creare e mantenere un'immagine positiva nelle menti sia dei
collaboratori che dei superiori. Queste teorie sostengono che il leader, quando realmente si
può definire tale, riesce a cambiare i valori, gli obiettivi, i bisogni e le disposizioni dei
collaboratori facendo diventare loro la sua visione, non limitandosi ad allineare gli obiettivi
degli individui con gli obiettivi organizzativi.
I leader carismatici e transformazionali cambiano i corsi dell'azione e degli eventi, mentre i
leader transazionali (teorie precedenti) migliorano le situazioni esistenti.
I leader vengono quindi studiati per l'effetto che hanno sulle emozioni e sull'autostima dei
collaboratori piuttosto che per le loro variabili cognitive e le loro abilità.
House indica che gli effetti che i leader carismatici hanno sui collaboratori possono essere
individuati e, a seconda dell'intensità, possono misurare il carisma del leader. Gli effetti che
egli individua e misura sono: la fiducia dei collaboratori nell'esattezza delle opinioni del
leader, la somiglianza tra le idee dei collaboratori e quelle del leader, l'accettazione
indiscussa del leader, l'affetto per il leader, l'obbedienza volontaria al leader,
l'identificazione con l'emulazione del leader e il coinvolgimento emotivo dei collaboratori
nella mission organizzativa.
Boal e Bryson notano che i leader carismatici sono intimamente coinvolti nella creazione,
per i loro collaboratori, di un nuovo o differente mondo o schema interpretativo, che sia
cognitivamente ed emozionalmente reale per loro. Quando una persona decide se una
situazione sia reale, deve verificarsi la validità fenomenologica della situazione che
comprende 2 condizioni.
Per primo deve esserci una corrispondenza interna tra i sentimenti di una persona e il suo
comportamento (correlazione intrinsecamente valida).
Secondo, deve esserci una corrispondenza tra un comportamento di una persona e le
conseguenze di quel comportamento (estrinsecamente valida).
Quando le situazioni sono valide intrinsecamente ed estrinsecamente sono
fenomenologicamente valide. Possono crearsi 4 situazioni dalle combinazioni differenti di
corrispondenza interna ed esterna:
int + est -> interazione ordinaria
est ma non-int -> alienazione
int ma non-est -> fantasia
non-int e non-est -> gioco di ruolo
Secondo Boal e Bryson possiamo avere 2 tipi di leader carismatici: visionari e prodotti dalle
crisi. Il filo comune è che entrambi tentano di costruire un nuovo e differente mondo che
sia fenomenologicamente valido per lui e per i suoi collaboratori.
– I leader carismatici visionari sono quelli che producono effetti carismatici
principalmente attraverso l'aiuto a rafforzare le corrispondenze interne per i
collaboratori individualmente e il coordinamento all'interno di un gruppo. I leader
visionari hanno più successo nelle situazioni caratterizzate da assenza di
corrispondenza interna.
– I leader carismatici prodotti dalla crisi ottengono effetti principalmente attraverso
l'aiuto a rafforzare la corrispondenza esterna per i collaboratori. I leader della crisi
iniziano quindi con l'azione e poi si muovono verso schemi interpretativi o valori per
sostenere o giustificare l'azione, mentre i visionari partono dalle teorie e poi si
muovono verso l'azione.
6.1. Le teorie transformazionali
I leader transazionali aiutano i collaboratori a riconoscere quali sono i loro ruoli e a chiarire
le richieste dei compiti per raggiungere l'obiettivo desiderato. Sono 2 i fattori rilevanti che
regolano l'interazione tra leader e collaboratori in queste tipologie di leadership: la
ricompensa contingente (aiuta ad aumentare le prestazioni dei collaboratori e la
soddisfazione lavorativa) e la gestione per eccezioni (casi in cui il leader deve intervenire
perchè gli standard non sono raggiunti).
Questo sistema non sembra supportare gli obiettivi a lungo termine dell'organizzazione.
I leader transformazionali invece motivano i collaboratori a lavorare per obiettivi alti
invece che per interessi immediati e per l'automotivazione piuttosto che per la sicurezza.
Ambedue gli approcci sono orientati al conseguimento di alcuni obiettivi, ma nel caso della
leadership transformazionale la ricompensa è interna; il leader comunica una visione al
collaboratore e il collaboratore è autopremiato dal convertirla in realtà.
Nel Questionario di Leadership Multifattoriale Forma 5 (MLQ), i soggetti devono indicare
quanto spesso il loro leader mostra ognuna delle 70 voci di comportamento o attitudine
presentate in una scala con un punteggio da 0 a 4. Dall'analisi fattoriale sono emersi 5
fattori capaci di spiegare circa il 90% della varianza.
La leadership transformazionale è caratterizzata da alti punteggi nei seguenti fattori:
carisma, considerazione individualizzata e stimolazione intellettuale.
La leadership transazionale invece presenta alti punteggi nei seguenti fattori: ricompensa
contingente e gestione per eccezioni.
I leader transformazionali non reagiscono necessariamnte alle circostanze ambientali ma le
creano. Ciò non significa che la situazione deve essere ignorata ma che grazie all'abilità a
concretizzare una visione, a cambiare gli schemi cognitivi, il leader transformazionale è in
grado di far reagire gli altri in modo che la situazione diventi un fattore secondario.
I leader transformazionali diffondono la loro visione ma vanno oltre, insegnando ai
collaboratori a pensare da soli e a sviluppare nuove strade che ottimizzano gli obiettivi del
gruppo e che permettono anche lo sviluppo personale di ogni singolo. I collaboratori
sentono di investire quantità maggiori di energia quando lavorano con un leader
transformazionale e le correlazioni tra leadership transformazionale e soddisfazione dei
collaboratori sono altamente significative, oscillando tra 0.5 e 0.7.

PROSPETTIVE DI RICERCA
I leader generalmente tendono ad essere brillanti e competenti e con un forte bisogno di
influenzare gli altri. Esistono 2 principali categorie di comportamento del leader: quella
relativa alle relazioni interpersonali e quella legata alla realizzazione del compito.
La relazione leader collaboratori influenza la prestazione lavorativa, la soddisfazione, la
motivazione e il clima dei gruppi di lavoro.
Lo studio della leadership può essere esteso ad altri contesti organizzativi, politici,
economici, sindacali e culturali poichè si tratta di un processo inevitabile legato
all'interazione umana nei gruppi.
22. NEGOZIARE
NATURA E TIPOLOGIA DEI CONFLITTI
Il termine conflitto indica una situazione nella quale si confrontano elementi diversi della
realtà che possono assumere la forma di uno scontro ostile e che si presentano come
dissonanza, mancanza di accordo. Il conflitto è una situazione nella quale una persona è
spinta da 2 forze opposte, di quasi ugual forza, che possono essere nella stessa persona o in
due persone differenti. Spesso il conflitto viene studiato riferendosi alle sue capacità
distruttive più che alle sue capacità costruttive.
Lewin distingue 3 principali tipi di conflitto e una variante:
– conflitto avvicinamento – avvicinamento: conflitto che deriva dall'essere spinti
verso due traguardi ugualmente desiderabili ma reciprocamente incompatibili;
– conflitto avvicinamento – evitamento: deriva dall'essere sia attratti che respinti
dallo stesso traguardo;
– conflitto da duplice avvicinamento – evitamento: variazione del conflitto
avvicinamento – evitamento nel quale 2 traguardi hanno aspetti sia positivi che
negativi;
– conflitto da evitamento – evitamento: conflitto che risulta dall'essere riluttante
verso due traguardi ugualmente indesiderabili, in presenza di forti pressioni a
scegliere l'uno o l'altro.
Coombs e Avrunin distinguono 3 tipi di conflitto:
– conflitti intrapersonali, che nascono quando un individuo è combattuto tra scopi
incompatibili;
– conflitti interpersonali con doppia opzione e una soluzione, che insorgono quando
2 o più individui vogliono cose differenti ma debbono farne una sola, la stessa e
insieme;
– conflitti interpersonali con unica opzione e soluzioni plurime, quando due o più
persone vogliono la stessa cosa ma devono fare cose diverse.
Nel contesto organizzativo si possono scegliere criteri differenti per la classificazione dei
conflitti. Fustier si riferisce ai soggetti coinvolti nel conflitto: conflitti individuali o collettivi,
conflitti da uguale a uguale o conflitti up-down, conflitti il cui nucleo è nell'organizzazione e
conflitti il cui nucleo è nelle persone.
Marocci, riferendosi alle cause dei conflitti, propone una suddivisione in 4 classi: l'interesse
diretto (remunerazione, promozioni, incentivi), le condizioni sociali e l'organizzazione
(pressione, motivazione, sicurezza, condizioni di lavoro), le tensioni psicologiche (cattiva
comunicazione, disconoscimento dell'altro, incompatibilità), le divergenze intellettuali
(conflitto tra ruoli, conflitto politico).
Un'ulteriore classificazione è fatta in base alla natura dell'oggetto del conflitto.
– Conflitti di obiettivi: implicano fini divergenti o apparentemente incompatibili tra le
parti. Spesso definiti con il termine conflitti di interesse. La questione chiave è
riuscire a conciliare le diverse aspirazioni per il raggiungimento di obiettivi comuni.
– Conflitti di giudizio: sono definiti anche controversie. In questi casi la questione
chiave è riuscire a combinare le diverse informazioni e il modo di pensare dei gruppi
in contrasto per arrivare ad una conclusione che sia il più accurata possibile.
– Conflitti normativi: si riferiscono alla valutazione, da parte di un gruppo, del
comportamento del gruppo avversario, ossia di come l'altro debba comportarsi. La
questione chiave implica la valutazione dello standard comportamentale da
rispettare e quali punizioni infliggere in caso di violazione.

ASPETTI DISFUNZIONALI E FUNZIONALI DEL CONFLITTO


I principali elementi che contribuiscono all'immagine distruttiva del conflitto sono:
– Distorsione delle percezioni: all'aumentare del conflitto le percezioni iniziano a
divenire distorte e armoniche alla propria visione del conflitto. I pensieri tendono a
diventare stereotipati.
– Impatto emotivo: i conflitti inducono una forte attivazione emotiva e talora le
emozioni possono prendere il sopravvento, inducendo le parti in causa ad assumere
comportamenti irrazionali.
– Impoverimento della comunicazione: la comunicazione è fondamentalmente
finalizzata ad enfatizzare il proprio punto di vista e a difendersi e contrapporsi nei
confronti di posizioni antitetiche alle proprie.
– Confusione: si tende a perdere lucidità nell'analisi del problema, in particolare
sull'origine del conflitto.
– Irrigidimento delle posizioni: prevale la chiusura nelle proprie posizioni, i processi di
pensiero diventano rigidi con la tendenza a dicotomizzare le questioni.
– Amplificazione delle differenze e minimizzazione delle somiglianze: si enfatizzano
gli elementi di diversità e si minimizzano gli elementi di condivisione, allontanando
la possibilità di individuare un terreno comune di comprensione e di incontro.
– Aumento esponenziale del conflitto: l'attenzione delle parti in causa è dedicata ad
investire più energie per avere la meglio e vincere sull'altro, sconfiggendolo.
– Cultura dicotomica del vincere/perdere: non c'è altra possibilità che vincere o
perdere.
I principali elementi che contribuiscono all'immagine costruttiva del conflitto sono:
– Aumento della consapevolezza della complessità organizzativa;
– Aumento della comprensione dei significati propri ed altrui (comprendere i motivi
che fondano il conflitto);
– Elemento di stimolo allo sviluppo personale: molte persone attraverso il conflitto
imparano a diventare meno egocentriche, più aperte a comprendere le prospettive
degli altri e a valutare strategie di azione più produttive per se stesse senza la
necessità di ricorrere all'ostilità e alla contrapposizione.
Il conflitto non è dunque necessariamente negativo ma anzi, nelle dinamiche delle relazioni
interpersonali e organizzative il conflitto può svolgere una funzione positiva rendendo
chiara la natura delle divergenze e fungendo da elemento di stimolo ad una migliore
comprensione della realtà.
POTERE A SOMMA COSTANTE E A SOMMA VARIABILE
Le relazioni di potere tra i ruoli sociali hanno assunto storicamente 3 diverse forme:
1. Il rapporto padrone/schiavo. La relazione padrone/schiavo prevede la massima
asimmetria di potere e si concretizza attraverso l'ordine al quale lo schiavo non si
può sottrarre pena la stessa possibilità di sopravvivere.
2. Il rapporto sovrano/suddito. Anche questa relazione è caratterizzata da forte
asimmetria di potere. Tuttavia il servo della gleba era una persona e non una cosa,
aveva il diritto alla proprietà privata e potevano sposarsi e avere figli.
3. Il rapporto governante/cittadino. I governati sono adesso cittadini in un sistema di
diritti e doveri disciplinati dal sistema giuridico.
In molte organizzazioni il rapporto tra chi deve guidare e gestire e i lavoratori è ascrivibile al
rapporto governante/cittadino. L'azione di perseguimento degli obiettivi organizzativi deve
realizzarsi all'interno di un sistema di norme giuridiche, amministrative, contrattuali e
procedurali. Esistono tuttavia anche organizzazioni nelle quali il rapporto tra chi guida e
controlla e i lavoratori è molto vicino alla relazione sovrano/suddito e padrone/schiavo.
Le tre situazioni sono attraversate da un'idea comune: che il potere possa dividersi solo
lungo una scala dicotomica per la quale all'aumentare del potere di una parte diminuisce il
potere dell'altra e viceversa; che o si domina o si è dominati; che o si vince o si perde.
Questa concezione del potere primitiva, definita a somma costante, è molto diffusa in tutti
i contesti relazionali.
Quando si riesce ad uscire da questa strettoia dicotomica, si realizza immediatamente che il
potere tra due o più parti può essere a somma variabile; può accadere cioè che le parti in
causa possano accrescere il loro potere così come è possibile che un conflitto non ben
gestito possa tradursi in una perdita di potere per tutti gli attori. L'originaria
contrapposizione io vinco tu perdi e viceversa si trasforma in una nuova possibilità che
prevede 4 soluzioni: io perdo tu vinci, vinco perdi, perdo perdi, vinco vinci.

LA NEGOZIAZIONE
la negoziazione è una forma di presa di decisione nella quale due o più parti interagiscono
reciprocamente nel tentativo di risolvere i loro opposti interessi.
Il termine negoziazione è usato in una duplice accezione: in primo luogo designa le
situazioni di contrattazione che hanno lo scopo di distribuire, di ripartire, di suddividere
delle risorse tra le parti in causa. L'obiettivo delle parti è di conquistare la fetta più
abbondante delle risorse in gioco. Questa situazione si muove nell'ottica del potere a
somma costante o a somma zero e viene denominata negoziazione per vincere.
In secondo luogo il termine indica un processo decisorio nel quale due o più parti
interagiscono nel tentativo di risolvere o, comunque, di gestire i loro opposti interessi.
Questa situazione si muove nell'ottica del potere a somma variabile e viene chiamata
negoziazione per crescere o negoziazione integrativa.
La negoziazione solitamente si attiva perchè le parti in gioco ritengono che, attraverso il
processo negoziale, sia possibile conseguire un risultato migliore di quello conseguibile
senza negoziazione.
La negoziazione riguarda la gestione sia di elementi tangibili (soldi) sia di elementi
intangibili (bisogno di essere riconosciuti, di mantenere la propria reputazione).
La negoziazione, al di là dei suoi contenuti specifici, è sempre anche negoziazione di
potere. Per questo motivo la gestione degli elementi intangibili ha una grande rilevanza nel
processo e negli esiti della negoziazione.
Le fasi principali del processo negoziale sono:
1. Identificare e definire il problema;
2. Comprendere il problema e far emergere interessi ed esigenze di tutte le parti;
3. Generare soluzioni alternative;
4. Valutare le diverse soluzioni alternative e scegliere.
È possibile negoziare in ogni contesto di convivenza: nelle relazioni affettive, professionali,
tra abitanti di un condominio, di un territorio, tra religioni e etnie, tra stati.
Per giungere ad una risoluzione ottimale della negoziazione è consigliato comprendere i
reali bisogni e obiettivi dell'altra parte, enfatizzare le convergenze e minimizzare le
divergenze e cercare quelle soluzioni che rispettino le diverse esigenze e obiettivi.

25. LA SODDISFAZIONE LAVORATIVA


APPROCCI DI STUDIO ALLA SODDISFAZIONE LAVORATIVA
La soddisfazione lavorativa è un sentimento di piacevolezza che deriva dalla percezione che
la propria attività sia in grado di soddisfare valori personali importanti.
Si può considerare la soddisfazione lavorativa come un atteggiamento verso il lavoro
all'interno del quale possiamo distinguere una componente cognitiva (percezione e
credenze), una componente affettiva (emozioni positive/negative) e una componente
comportamentale (tendenze all'azione).
Secondo Cranny, Smith e Stone, la soddisfazione lavorativa è una reazione affettiva
(emozionale) ad una serie di aspetti connessi al lavoro che risulta dal confronto dei risultati
reali con quelli che si desiderano, che si aspettano, che si meritano.
La soddisfazione lavorativa è stata studiata con due differenti aprocci:
– Approccio globale: soddisfazione lavorativa come un insieme unitario;
– Approccio specifico: valuta i diversi aspetti dell'esperienza lavorativa come la natura
del lavoro svolto, la retribuzione, la relazione con capi e colleghi, le opportunità di
promozione e di sviluppo ecc. L'approccio specifico consente una più precisa
rappresentazione della soddisfazione lavorativa.
Generalmente la soddisfazione lavorativa è stata misurata chiedendo alle persone di
esprimere il loro atteggiamento verso il lavoro attraverso questionari e interviste. Il più
popolare strumento per la misurazione è il Job Descriptive Index (JDI), costituito da 72
item articolati in 5 differenti sottoscale, ognuna delle quali misura aspetti differenti della
soddisfazione lavorativa:
- Attività svolta (work): in termini principalmente di autonomia e varietà del lavoro;
- Retribuzione (pay): in termini di adeguatezza e di equità;
- Opportunità di promozione (promotion opportunities);
- Qualità della supervisione (supervision): in termini di disponibilità percepita e di
aiuto ricevuto;
- Rapporto con i colleghi (coworkers): in termini di amicalità e collaborazione.
Un altro strumento frequentemente impiegato è il Minnesota Satisfaction Questionnaire
(MSQ). E' disponibile in due forme: una lunga costituita da 100 item articolati in 20
sottoscale (5item x scala) e una versione abbreviata costituita da 20 item (1item x scala).

CONTENUTO DELLA SODDISFAZIONE LAVORATIVA


Tra i fattori che più di altri concorrono a determinare natura, direzione e intensità della
soddisfazione lavorativa troviamo
– Aspetti retributivi;
– Caratteristiche intrinseche al lavoro;
– Qualità della vita al di fuori del ruolo lavorativo;
– Caratteristiche socio – demografiche e personali (dall'identità di genere ai tratti di
personalità, ai sistemi di valori tipici di un individuo).

2.1. Retribuzione e soddisfazione lavorativa


La maggior parte dei modelli di soddisfazione relativi alla retribuzione hanno la loro origine
nella teoria della discrepanza (Katzell, Locke) e nella teoria dell'equità (Patchen, Adams):
– Teoria della discrepanza: la soddisfazione risulta quando vi è congruenza tra
retribuzione ricevuta e ciò che la persona sente di dover ricevere;
– Teoria dell'equità: la soddisfazione risulta quando il compenso ricevuto da un
soggetto è equo in relazione a quello ricevuto da altre persone prese da lui come
riferimento.
Alcuni autori come Lawler hanno proposto una visione integrata della teoria della
discrepanza con la teoria dell'equità in un unico modello che vede la soddisfazione come la
risultante dell'influsso di 3 variabili: la propria retribuzione, la percezione di questa
comparata con quella di altri soggetti che svolgono lavori simili, la percezione di quanto il
soggetto stesso ritenga opportuno che debba ricevere.
Alcune ricerche hanno evidenziato che maggiore è la percezione dello stipendio ricevuto
maggiore risulta la soddisfazione retributiva, altre ricerche però evidenziano che la
relazione tra soddisfazione retributiva e soddisfazione lavorativa è meno significativa di
quella ipotizzata dal modello di Lawler.
L'equità costituisce una determinante nella soddisfazione retributiva più rilevante
dell'ammontare della retribuzione percepita.

2.2. Caratteristiche del lavoro e soddisfazione lavorativa


E' emerso che i lavoratori di categorie professionali più elevate sono risultati maggiormente
soddisfatti del proprio lavoro rispetto alle categorie inferiori.
L'insoddisfazione conduce più frequentemente i lavoratori che hanno una qualifica
professionale elevata a pensieri d'abbandono dell'occupazione rispetto a quelli che
svolgono lavori di livello inferiore: i lavoratori con qualifiche elevate hanno infatti più
possibilità di ritrovare lavoro rispetto a quelli con basse qualifiche.
Altre caratteristiche del lavoro che più di altre influenzano la soddisfazione lavorativa sono
(Fried, Ferris) varietà delle competenze, identità del lavoro, significato del compito,
autonomia e feedback.
Ulteriori contributi hanno arricchito la lista delle caratteristiche del lavoro correlate alla
soddisfazione lavorativa; tuttavia è emerso che la soddisfazione è influenzata da queste
caratteristiche in maniera totalmente diversa in base ai differenti contesti e alle differenti
culture: Pearson e Chong (1977) non riscontrarono in Malesia una correlazione significativa
tra le 5 caratteristiche individuate da Fried e Ferris concludendo che in quella cultura
probabilmente è più importante ai fini della soddisfazione lavorativa la qualità della
relazione tra colleghi e con i capi piuttosto che le caratteristiche del lavoro.

2.3. Soddisfazione nel lavoro e soddisfazione nella vita


Esistono principalmente 3 ipotesi circa la relazione tra soddisfazione sul lavoro e
soddisfazione nella vita:
– Ipotesi del rovesciamento (spillover hypothesis): indica che un campo si rovescia
nell'altro e che quindi chi è soddisfatto nel lavoro sarà anche soddisfatto nella vita e
viceversa.
– Ipotesi della compensazione (compensation hypothesis): i lavoratori insoddisfatti
sul lavoro cercano maggiormente al di fuori dell'ambito lavorativo motivo di
soddisfazione e viceversa.
– Segmentation Hypothesis: non c'è relazione tra i due costrutti; soddisfazione sul
lavoro e nella vita sono indipendenti tra loro.
Alcuni autori ritengono che ciascuna delle tre ipotesi interpretative può essere valida: dai
loro studi non emerge il primato di un modello sugli altri. L'ipotesi spillover sembra essere
più appropriata per la maggior parte degli individui, anche se il modello compensation e
segmentation sono validi per un numero consistente di soggetti.

2.4. Soddisfazione lavorativa e caratteristiche individuali


Una delle caratteristiche personali considerate come influenti sulla soddisfazione lavorativa
è data dall'identità di genere. Alcuni studi hanno trovato che le donne sono più soddisfatte
degli uomini, altri hanno ribaltato tale risultato e altri ancora non evidenziano correlazioni
tra identità di genere e soddisfazione. Questi ultimi sono risultati sorprendenti se si
considera che spesso le donne svolgono lavori meno prestigiosi, sono pagate meno e
hanno meno opportunità di far carriera rispetto agli uomini. E' possibile che questa sia una
conseguenza delle differenti aspettative rispetto al lavoro: è ipotizzabile che le donne,
lavorando in condizioni peggiori rispetto agli uomini ma ritenendosi soddisfatte al loro pari,
abbiano aspettative più basse.
Generalmente maggiore è il grado di congruenza percepita tra work rewards (vantaggi
intrinseci ed estrinseci che l'individuo riceve dal proprio lavoro) e work values (valori
personali, quello che il lavoratore desidera o considera importante nel lavoro), maggiore
sarà la soddisfazione sul lavoro; più grande è la discrepanza percepita, minore sarà la
soddisfazione.
Molti studi indicano che sussistono delle differenze tra uomini e donne in termini di work
values: gli uomini tendono ad attribuire maggiore importanza alle ricompense estrinseche
come la paga, i fringe benefits, la sicurezza, le promozioni la self-direction o l'autonomia,
mentre le donne tendono ad assegnare maggiore importanza alle ricompense sociali quali
una buona relazione con i colleghi e con i superiori, così come viene ritenuto importante il
fatto di poter svolgere un lavoro ritenuto interessante.
Spector e O' Connell hanno messo in evidenza 3 principali variabili personali rilevanti nella
soddisfazione sul lavoro:
– Negative affectivity
– Locus of control interno/esterno (Rotter)
– Type A personality
Gli autori trovarono un'evidente correlazione positiva tra locus of control interno e
soddisfazione lavorativa. Inoltre gli "interni" riporterebbero livelli più bassi di ansia sul
lavoro.

GLI EFFETTI DELLA SODDISFAZIONE LAVORATIVA


Sono 3 i principali ambiti nei quali raggruppare le possibili conseguenze della soddisfazione
e dell'insoddisfazione lavorativa.

3.1. Soddisfazione e prestazione lavorativa


Secondo un primo modello, la soddisfazione lavorativa produce un maggior impegno sul
lavoro che, a sua volta, determina la prestazione.
SODDISFAZIONE LAVORATIVA -> IMPEGNO -> PRESTAZIONE LAVORATIVA
Secondo questo modello le persone a cui piace il proprio lavoro e che si sentono
soddisfatte sono propense ad impegnarsi di più producendo una migliore prestazione.
In un secondo modello, è la prestazione lavorativa efficace che conduce a riconoscimenti
che, a loro volta, producono soddisfazione lavorativa.
PRESTAZIONE LAVORATIVA -> RICONOSCIMENTI -> SODDISFAZIONE LAVORATIVA
Secondo questo modello, è l'effettuazione di una prestazione lavorativa efficace che
determina feedback positivi e riconoscimenti che producono soddisfazione lavorativa.

3.2. Soddisfazione, assenteismo e turnover


Numerosi studi hanno rilevato una modesta correlazione tra soddisfazione e assenza dal
lavoro. L'assenteismo infatti ha diverse cause e solo alcune di esse possono essere
collegate alla soddisfazione lavorativa.
Sembra invece che l'insoddisfazione spinga le persone a cercare nuovi lavori e se il mercato
lo consente ad abbandonare il vecchio posto di lavoro.

3.3. Soddisfazione, benessere e salute


Numerosi studi hanno rilevato una correlazione positiva tra soddisfazione lavorativa e
sentimenti di benessere sul lavoro. In alcune ricerche la soddisfazione lavorativa è stata
indagata attraverso alcuni indicatori di benessere e di malessere individuale. Questi
indicatori possono dar conto sia delle cause che delle conseguenze della soddisfazione
lavorativa.
Gli indicatori di benessere individuale (soddisfazione per il guadagno, voglia di impegnarsi,
voglia di lavorare, voglia di migliorare) fanno riferimento alla relazione che la persona
intrattiene con il suo lavoro e con l'organizzazione nella quale opera e riguardano la
disponibilità ad investire energie, anche emotive, nel lavoro e nelle relazioni con gli altri ma
fanno anche riferimento alla dimensione progettuale e al futuro, sottolinando le
dimensioni della speranza e della fiducia.
Gli indicatori di malessere individuale (insofferenza nell'andare a lavoro, assenteismo,
disinteresse per il lavoro, sensazione di fatica, aggressività, pettegolezzo, sentimento di
inutilità) fanno ugualmente riferimento alla relazione persona/lavoro e alla relazione tra
persona e organizzazione. Riguardano eventi concreti e stati d'animo connessi alla
prestazione lavorativa, alla rete di relazioni e al mondo interno dei significati attribuiti
all'esperienza di lavoro.
Soddisfacente per molti è ciò che risulta stabile, certo, duraturo nel tempo, prevedibile e
controllabile. Nel lavoro, gli individui ricercano una dimensione protettiva entro cui
affrontare l'insicurezza esperita al di fuori di questo specifico ambito. Per molti questa
ricerca si associa al desiderio di una stabilità economica, per altri alla rivendicazione di un
ambiente di lavoro salubre.
Inoltre, soddisfacente è tutto ciò che risponde ai propri interessi o che si connette ad
ambienti piacevoli in cui è possibile sperimentare relazioni sociali gratificanti e arricchenti.
La dimensione lavorativa diviene il luogo per appagare i bisogni di riconoscimento sociale
e di potenziamento del sè, attraverso attività che permettano di conoscere nuove persone,
di sviluppare le proprie conoscenze, competenze e capacità, di raggiungere i propri
obiettivi.
Altri ancora ricercano nella sfera lavorativa opportunità esperienziali a favore di un
benessere bio-psico-sociale fatto di dinamismo, di flessibilità, di sfide stimolanti e sempre
più sofisticate; ma anche di un tempo lavorativo tale da lasciare spazio per la realizzazione
di altri desideri.

26. SICUREZZA, INFORTUNI E RISCHI PROFESSIONALI


IL LAVORO SICURO: DALLA CURA DEL DANNO ALLA PROMOZIONE DELLA
SALUTE
All'inizio del secolo scorso l'organizzazione lavorativa era concepita in funzione del
conseguimento del miglior risultato per l'impresa, non tenendo in considerazione nè
l'ambiente di lavoro nè lo stato di salute del lavoratore.
Solo negli anni 30-40 si inizia a porre attenzione ai fattori connessi con gli infortuni e le
malattie in ambito lavorativo. L'intervento è centrato sull'individuo ed orientato alla cura
del danno fisico verificatosi.
Gli anni 50-60 sono caratterizzati da una visione più attiva del soggetto lavoratore; gli
aspetti della sicurezza e della salute iniziano a comprendere campi come il job design, la
formazione, l'addestramento e la selezione dei dipendenti. Questo tipo di studi va sotto il
nome di Early Ergonomics. L'intervento resta prevalentemente incentrato sulla cura
dell'individuo ma si presta attenzione anche alle conseguenze psicologiche.
Negli anni 70-80 si ha il passaggio da un approccio di intervento incentrato sulla cura a una
focalizzazione sulla prevenzione. L'importanza della sicurezza sul lavoro diventa un
principio riconosciuto e sentito. L'influenza sulla salute dei fattori psicologici e sociali, oltre
che dei fattori biologici, è sempre più evidente e studiata così come l'importanza della loro
interazione.
Negli anni 80-90 si ha il passaggio da Health protection, che consiste nel proteggere
quante più persone possibile dalle minacce alla loro salute, a Health promotion, che
consiste nell'indurre le persone a fare scelte ragionate che migliorino la loro salute fisica e
mentale. I cambiamenti derivanti da queste ricerche e l'aggiornamento della legislazione e
della regolamentazione sono stati di grande beneficio.
In generale, gli ambienti di lavoro oggi sono molto più sicuri che in passato; la novità
principale è lo spostamento dell'interesse dalla prevenzione degli infortuni e delle malattie
alla conservazione attiva della salute. Prima, infatti, la salute era definita semplicemente
come l'assenza di invalidità e di malattia, mentre da allora in poi è concepita in chiave
decisamente più positiva, come l'altro estremo di un continuum al centro del quale si trova
l'assenza di invalidità o di malattia.

INFORTUNI E MALATTIE PROFESSIONALI


Il lavoro può essere causa occasionale di un evento morboso, come nell'infortunio, o causa
diretta, come nelle cosiddette malattie professionali.
Le malattie professionali dipendono direttamente dall'ambiente di lavoro o dall'oggetto,
dagli strumenti e dalle modalità di svolgimento del lavoro. Una classificazione tradizionale
individua: patologie da fatica, malattie da cause fisiche, da cause chimiche, da polveri e da
agenti infettivi e parassitari.
L'infortunio sul lavoro è un evento traumatico, lesivo per la salute del lavoratore che si
verifica nell'ambiente di lavoro, durante l'orario lavorativo o durante il percorso che il
lavoratore compie da casa al lavoro e viceversa (infortunio in itinere), in modo rapido e
violento e per cause esterne alla volontà del lavoratore. L'infortunio è considerato il
risultato di un evento non previsto e controllato, causato da elementi oggettivi (deficienze
tecniche, guasti, disservizi) e da elementi soggettivi (disattenzione, imprudenze, manovre
errate, mancanza di organizzazione). Gli infotuni possono essere classificati in relazione a
forma, agente materiale, natura e sede della lesione.
Per studiare gli infortuni e compararli generalmente si usano gli indici di frequenza
(proporzione tra il numero dei casi di infortunio e le ore di lavoro effettuate
nell'organizzazione in quello stesso periodo) e di gravità (giorni perduti per 1000 ore
lavorate).
Ogni anno muoiono circa 350mila persone per infortuni sul lavoro ma i decessi che, a vario
titolo, sono riconducibili al lavoro ammontano ad oltre 2 milioni.
Il problema della sicurezza del lavoro è un vero e proprio problema sociale per le
implicazioni umane e finanziarie che comporta ed è un indicatore del livello di civiltà di
un'intera comunità.
In Italia oltre 1000 persone ogni anno perdono la vita a causa del lavoro. Purtroppo in Italia
la prevenzione molto spesso è considerata un costo più che un investimento; un'area di
esclusivo interesse dei singoli lavoratori piuttosto che dell'organizzazione; un problema
normativo piuttosto che culturale e gestionale.
I contributi più consistenti della psicologia del lavoro in questo ambito, spesso realizzati in
collaborazione con altre figure professionali, si riferiscono all'ergonomia (progettazione
delle macchine, degli strumenti, degli amienti), alla tecnologia della sicurezza, all'igiene
lavorativa, allo stress lavorativo e alla fatica.

DIRETTIVE COMUNITARIE E LEGISLAZIONE NAZIONALE SULLA SICUREZZA


LAVORATIVA
La definizione contenuta nell'atto costitutivo dell'Organizzazione Mondiale della Sanità
(WHO – World Health Organization) del 1945 ("La salute è uno stato di completo benessere
fisico, psichico e sociale e non semplicemente assenza di malattia e di infermità") inizia a
trovare considerazione ed accoglienza nella coscienza collettiva e nel sistema normativo
italiano.
Il decreto legislativo 626/1994 e il decreto legislativo 81/2008 hanno rappresentato una
svolta importante nel modo di fare sicurezza e prevenzione. Quest'ultimo si applica a tutti i
settori di attività, privati e pubblici, e a tutte le tipologie di rischio.
Negli ultimi anni si è iniziato a parlare anche di stress lavorativo, stato accompagnato a
malessere e disfunzioni fisiche, psicologiche e sociali. Lo stress lavorativo può essere
causato da vari fattori quali il contenuto e l'organizzazione del lavoro, l'ambiente di lavoro,
una comunicazione povera ecc.

LA CLASSIFICAZIONE DEI RISCHI PROFESSIONALI


Il decreto legislativo 81/2008 pone, come prima misura di tutela della salute e della
sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, la valutazione di tutti i rischi per la salute e la
sicurezza. Con il termine pericolo la legge intende la proprietà intrinseca di un determinato
fattore (macchina, utensile, sostanza) che ha il potenziale di causare danni. Il rischio,
invece, è legato alla probabilità di raggiungimento del livello potenziale di danno nelle
condizioni di impiego o di esposizione ad un determinato fattore o agente.
I rischi lavorativi sono classificati in 3 categorie:
– Rischi per la sicurezza: rischi responsabili del potenziale verificarsi di incidenti o
infortuni;
– Rischi per la salute: sono responsabili della potenziale compromissione
dell'equilibrio biofisico del lavoratore addetto ad operazioni e lavorazioni che
comportano esposizione a: rischi fisici, rischi chimici e biologici e rischi legati alla
fatica fisica;
– Rischi legati all'organizzazione del lavoro: i rischi riferiti a quest'ultima classe sono i
rischi psicosociali e organizzativi, non individuabili in pericoli di natura fisica, chimica
o biologica, ma riconducibili all'interno dell'organizzazione di lavoro in cui il soggetto
è inserito e riguardanti il rapporto tra operatore ed organizzazione, quale ad
esempio: l'isolamento lavorativo, la monotonia del lavoro, la conflittualità con
colleghi o superiori, la formazione inadeguata e la mancanza di informazioni.
LA VALUTAZIONE DEI RISCHI
La valutazione del rischio è una procedura diretta ad individuare quali sono i pericoli che
possono causare un danno alle persone, al fine di considerare se sono state adottate tutte
le precauzioni necessarie o se sia possibile fare di più per eliminare i pericoli, tenere sotto
controllo i rischi e prevenire il danno.
La valutazione dei rischi si articola in 5 differenti fasi:
1. Identificare i pericoli e i lavoratori esposti ai rischi.
Si tratta di individuare, nei vari ambienti lavorativi, cosa può causare danno e quale
tipo di danno può verificarsi. Una volta identificati i pericoli è necessario definire chi,
tra i lavoratori, vi è maggiormente esposto.
2. Valutare il rischio e stabilire la relativa gerarchia.
Individuare il modo in cui il pericolo può causare danno, la gravità e la frequenza con
la quale possono verificarsi. I rischi devono poi essere gerarchizzati e disposti in
ordine di priorità.
3. Decidere le misure e le azioni di prevenzione.
Si valuta se il rischio può essere prevenuto o eliminato e si intraprende tutte le
azioni necessarie a eliminare o controllare il rischio.
4. Verifica degli interventi attuati.
Implementazione delle misure di prevenzione e protezione decise.è importante
coinvolgere i lavoratori e i loro rappresentanti nel processo informandoli su quali
siano le misure adottate e su come saranno introdotte.
5. Monitoraggio e verifica.
La valutazione del rischio deve essere in ogni caso ripetuta periodicamente
La valutazione condotta secondo questa procedura rappresenta il contenuto principale del
Documento di Valutazione dei Rischi.
A differenza dei rischi fisici, per cui è relativamente semplice stabilire il livello di intensità e
gravità di un danno, per quelli psicosociali è più difficile stabilire il grado di intensità e
sofferenza provato. I pericoli psicosociali sono in tutto o in parte determinati da come le
persone li percepiscono, dalla valutazione cognitiva ed emotiva del pericolo.

DALLA PSICOLOGIA DELLA SICUREZZA LAVORATIVA ALLA PSICOLOGIA


DELLA SALUTE
Per dimensioni relative alla sicurezza oggettiva si intendono gli aspetti impiantistici, il
layout, i dispositivi di protezione, gli aspetti di processo e procedurali.
Per le dimensioni relative alla sicurezza soggettiva invece si intendono i comportamenti, la
comuncazione, i nuclei culturali che caratterizzano un'organizzazione e le caratteristiche
dell'individuo che influenzano il determinare dell'infrtunio.
Attraverso lo skill-rule-knowledge, Rasmussen propone una classificazione del
comportamento umano in 3 diverse tipologie:
– Comportamento basato sulle abilità. È il comportamento di routine basato su
abilità apprese. L'impegno cognitivo richiesto è bassissimo e l'azione è pressochè
automatica.
– Comportamento basato sulle regole. È il comportamento guidato da regole che
l'operatore utilizza per eseguire compiti noti: si tratta di riconoscere la situazione e
applicare la procedura appropriata per l'esecuzione del compito. L'impegno
cognitivo è più elevato.
– Comportamento basato sulla conoscenza. Comportamento finalizzato alla
risoluzione di problemi in presenza di situazioni non abitudinarie e conosciute ma
nuove e impreviste, per le quali non si hanno regole e procedure specifiche di
riferimento. Questo tipo di comportamento richiede impegno cognitivo elevato.
Sulla base del modello proposto da Rasmussen sono state individuate 3 tipologie di errore:
– Slip: errore di esecuzione che si verifica a livello di abilità. L'operatore sa come
dovrebbe eseguire un compito ma non lo fa, oppure lo esegue in maniera non
corretta.
– Lapse. Errore di esecuzione provocato da un fallimento della memoria.
– Mistake. Errore non commesso durante l'esecuzione pratica dell'azione. È il piano
stesso a non essere valido, nonostante le azioni si realizzino come sono state
pianificate.

27. STRESS, RISCHI PSICOSOCIALI E SALUTE


ORGANIZZATIVA
ANTECEDENTI, REAZIONI E CONSEGUENZE DELLO STRESS LAVORATIVO
Lo stress è stato definito come risposta, come stimolo o come processo (che deriva
dall'interazione tra stimolo e risposta).
Nell'ambito del primo approccio, che considera lo stress una risposta fisiologica non
specifica ad una richiesta posta dall'ambiente esterno, la risposta di stress può essere
articolata in 3 fasi:
– la reazione di allarme: risposta fisiologica immediata a uno stato di shock iniziale di
reazione allo stimolo ambientale;
– la fase di resistenza: permane una risposta di adattamento alla nuova situazione;
– la fase dell'esaurimento: qualora la resistenza si protragga troppo a lungo oppure
sia eccessivamente intensa, le energie mobilitate potrebbero venir meno ed
esaurirsi.
Le reazioni di stress non sono in assoluto negative o dannose per la persona. A certi livelli,
lo stress è utile alla motivazione, alla crescita, allo sviluppo e al cambiamento: in questi casi
si parla di eustress; quando invece lo stress diventa ingestibile e negativo si parla di distress
(o strain).
Il secondo approccio si è invece concentrato sugli stimoli ambientali, sulle condizioni, sugli
eventi che possono determinare stress. Con il termine stressor si indica quindi l'insieme
degli stimoli stressanti.
Il terzo approccio, lo stress come processo, considera l'individuo coinvolto in un processo
di interazione con il proprio ambiente. Nella concezione transazionale dello stress, lo stress
non risiede nè nella persona nè nell'ambiente, ma nella relazione tra i due. Gli stimoli
(cause) e le risposte (conseguenze) sono definiti dalla loro relazione, inseparabile dal
contesto in cui si realizzano.
Perchè insorga lo stress si devono realizzare 2 condizioni: la persona deve ritenere la
situazione potenzialmente minacciosa e tale situazione deve essere considerata eccedente
le proprie risorse o capacità di farvi fronte.
Si può dunque distinguere nel processo di stress antecedenti, reazioni e conseguenze.
1. ANTECEDENTI.
Sono gli stressor. Le persone valutano le situazioni stressanti o come potenzialmente
minaccianti il proprio benessere o come potenzialmente capaci di aumentare la loro
performance e l'autosviluppo. Uno stressor sfida impoe richieste alla persona che
essa può affrontare e che quindi aumenterà la competenza. Uno stressor ostacolo
invece viene percepito come una minaccia e probabilmente avrà un effetto nocivo
sulla persona. Gli stressor derivano principalmente da: relazioni lavorative, natura
del lavoro, ruolo svolto, sovraccarico, controllo (sul processo e sui tempi di lavoro),
sicurezza del lavoro, risorse, comunicazione, conflitto lavoro-famiglia (o famiglia-
lavoro), paga e benefici.
2. REAZIONI.
Sono le risposte individuali fisiologiche, emotive, cognitive e comportamentali agli
stressor.
3. EFFETTI.
Sono le conseguenze dello strain sullo stato di salute, sia nelle persone che
nell'organizzazioni. A livello indviduale si può avere comparsa di disturbi e
insorgenza di malattie, conseguenze sul piano comportamentale e sul piano
psicologico. A livello organizzativo invece i più noti e studiati effetti dello stress sono:
assenteismo e turnover, ridotta produttività (all'aumentare della tensione la
performance aumenta fino al culmine della curva ad u, poi diminuisce), ed errori e
infortuni.

MODELLI DELLO STRESS LAVORATIVO


2.1. Il modello domanda/controllo di Karasek
Karasek esamina l'interazione tra:
– Domanda: è l'impegno richiesto dal lavoro o "domanda psicologica" e, quindi, il
carico e i ritmi di lavoro, le richieste e i vincoli che l'organizzazione avanza e impone
nello svolgimento del lavoro;
– Controllo: è la possibilità che l'individuo ha di gestire la domanda, definita ampiezza
decisionale. All'ampiezza decisionale concorrono 2 componenti: la discrezionalità e
l'autonomia di decisione.
Il rapporto tra domanda e controllo consente di individuare 4 possibili condizioni di lavoro,
che si determinano dalla combinazione tra domanda lavorativa (alta o bassa)e controllo
(autonomia decisionale alta o bassa): lavori attivi, lavori ad alto strain, a basso strain e
lavori passivi.
Johnson e Hall inseriscono una terza dimensione denominata supporto sociale, la quale se
adeguata abbassa i livelli di stress derivanti dall'alta domanda e dal basso controllo.
2.2. Il modello del Fit Persona/Ambiente di French, Caplan e Van Harrison
Esistono due forme possibili di fit persona/ambiente: un primo tipo di fit è dato tra bisogni
e valori della persona e quanto offre l'ambiente di lavoro, il secondo tipo di fit si riferisce
alla domanda lavorativa e alle abilità/capacità della persona di far fronte alla domanda.
Lo stress sopraggiunge quando:
– l'ambiente non fornisce ciò che soddisfa i bisogni della persona;
– le competenze della persona non soddisfano la richiesta lavorativa necessaria ad
ottenere riconoscimenti e risorse.
Un cattivo fit tra persona e ambiente può portare a conseguenze psicologiche, fisiche e
comportamentali. L'individuo per rispondere allo stress attivando meccanismi di coping o
strategie difensive.
In generale, livelli elevati di fit persona/ambiente sono predittivi di livelli di alta
performance, soddisfazione e basso stress. Il modello ha ricevuto molte conferme
empiriche.

2.3. Il modello vitaminico di Warr


Secondo il modello di Warr le persone necessitano di 9 differenti condizioni lavorative,
tutte ugualmente importanti, per mantenere salute psicologica e benessere, equiparabili
alle vitamine per il corpo umano.
1. Opportunità di controllo. È il controllo personale sulle attività o gli eventi, è
possibile decidere e agire in base alle proprie scelte.
2. Opportunità di utilizzare le competenze.
3. Attribuzione esterna degli obiettivi. La misura in cui l'ambiente pone richieste e
determina obiettivi.
4. Varietà. La misura in cui l'ambiente offre varietà.
5. Chiarezza nell'ambiente. Feedback delle conseguenze delle proprie azioni, chiarezza
dei ruoli.
6. Opportunità di contatti interpersonali.
7. Disponibilità di denaro.
8. Sicurezza fisica.
9. Posizione sociale di valore.
In carenza anche di uno solo di questi aspetti le persone sono come denutrite, in uno stato
di carenza rispetto ai propri bisogni. Alcune "vitamine" però se in eccesso possono
diventare tossiche; è il caso dell'autonomia o grado di controllo sul lavoro.

2.4. Mediatori e moderatori dello stress


Nei diversi modelli esaminati il processo di stress sul lavoro è ricondotto alla catena
stressor (fonti), strain (reazioni di stress) e outcome (effetti sull'individuo e
sull'organizzazione).
Queste 3 sono invece alcune variabili di moderazione.
– Supporto sociale. È distinto in supporto strutturale e supporto funzionale. Il
supporto strutturale considera il grado di isolamento nello svolgimento di compiti. Il
supporto funzionale, invece, dipende da quello che altre persone concretamente
fanno per chi è esposto alle fonti di stress. Tali comportamenti possono essere di
tipo strumentale o emotivo (premura, simpatia, condivisione).
– Controllo.
– Differenze individuali. Alcune differenze individuali sono in grado di moderare fonti
di stress specifiche, altre sembrano svolgere questa funzione moderatrice in
maniera più generale, in qualsiasi condizione di stress, come la Core Self Evaluation
(CSE), costrutto di personalità che ingloba quello di autostima, locus of control, self
efficacy e nevrotismo. È stato visto che la CSE ha un forte potere predittivo sulla
soddisfazione lavorativa (direttamente proporzionale) e sullo stress lavorativo
(inversamente proporzionale).

COPING
Il termine coping è stato introdotto in psicologia nel 1966 da Lazarus come processo
collegato allo stress. Inizialmente lo studio del coping si concentrava prevalentemente sulle
reazioni degli individui ad eventi traumatici e minacciosi per la vita, successivamente la
definizione è stata ampliata, comprendendo le risposte per mantenere uno stato di
equilibrio individuale ed agire così per preservare gli stati individuali di benessere.
Il coping può essere cognitivo e/o comportamentale, finalizzato alla soluzione dei problemi
e/o al sollievo emotivo.
Il coping focalizzato sul problema coinvolge la gestione attiva e/o la riduzione del
problema effettivo (stressor). Le stretegie centrete sul problema includono comportamenti
orientati a risolverlo.
Il coping focalizzato sulle emozioni si concentra sull'aumentare il benessere dell'individuo
a breve termine, soprattutto riducendo i sentimenti immediati di distress. Le stretegie
centrate sulle emozioni sono orientate a gestire e cambiare la risposta emozionale evocata
dalla situazione problematica (evitamento, ritiro, espressione dell'emozione).
I due comportamenti di coping non sono mutuamente esclusivi e formalmente uno non è
considerato più adattivo dell'altro.
Il coping può essere poi attivo e passivo. Le stretegie di coping possono consistere in
semplici risposte a situazioni ambientali oppure essere di tipo proattivo; l'attuazione del
coping proattivo ha importanti benefici per la persona, in quanto minimizza l'ammontare
complessivo di stress e consente di preservare risorse personali quali tempo ed energia.
Il coping orientato al futuro è un aspetto particolare del coping proattivo.
Infine si può distinguere tra coping di stato (risposte di coping specifiche alla situazione) e
coping basato sul tratto (risposte di coping abituale, a lungo termine).
– Coping di stato. Il coping è un processo dinamico, che evolve continuamente finchè
lo stressor viene reso benigno e il benessere psicologico viene ripristinato. La
situazione specifica determina la valutazione individuale e la risposta di coping ad
uno specifico stressor.
– Coping di tratto. Definito come una risposta relativamente stabile allo stress,
abitualmente presentata senza tener conto dello stressor o della situazione.
La durata dello stressor evoca reazioni specifiche di coping: il coping di evitamento è
utilizzato per gestire la tensione psicologica a breve termine, le stretegie di coping diretto
sono evocate per la gestione della tensione a più lungo termine.
Particolare è il coping positivo, consistente nella presenza di emozioni positive all'interno
del processo di stress e di coping.
BURNOUT
Gli studiosi portano l'attenzione sul grado di accordo (match) o disaccordo (mismatch) tra
la persona e 6 aspetti dell'ambiente di lavoro (carico di lavoro, controllo, riconoscimento,
supporto, equità, valori). Più è elevato il grado di disaccordo più è alta la probabilità che
insorga il burnout; più è alto il grado di accordo, più è elevata la probabilità che si sviluppi
engagement sul lavoro.
Il grado di disaccordo tra persona e ambiente di lavoro non dipende dalla semplice
sommatoria delle varie aree: importanti sono anche gli specifici pattern o configurazioni
che assumono le diverse aree di non accordo o anche di accordo.
Il burnout è una risposta prolungata allo stress cronico da lavoro e si articola nei seguenti 3
aspetti:
1. L'esaurimento emotivo. Rappresenta la dimensione di base dello stress individuale.
Si manifesta con forte coinvolgimento emotivo e con un eccessivo utilizzo delle
risorse affettive;
2. La depersonalizzazione (cinismo). Rappresenta la componente interpersonale della
sindrome, per il suo aspetto di distacco dalle persone prima (depersonalizzazione) e
dal lavoro più in generale poi (cinismo). È stata identificata come un meccanismo di
difesa e di coping;
3. Il senso di inefficacia personale. Rappresenta la componente di autovalutazione del
burnout.
Gli studi identificano l'esaurimento come la componente più forte del burnout. In generale
il percorso va dall'esaurimento al cinismo; il ruolo del senso di inefficacia personale invece
è più complesso e sembra evolvere in parallelo con gli altri 2 aspetti della sindrome
piuttosto che in successione.
Il burnout è stato associato a varie conseguenze negative per l'organizzazione quali
assenteismo, alto turnover, ridotta produttività ed efficacia, ridotta soddisfazione lavorativa
e commitment organizzativo.
Il burnout va comunque distinto da altri costrutti apparentemente simili come la
depressione e l'insoddisfazione lavorativa.
Maslach e Leiter hanno riconsiderato il job burnout lungo un continuum, al cui polo
opposto c'è il concetto di engagement lavorativo. Alcuni studi rilevano che che profili di
alto engagement si associano a un carico di lavoro sostenibile, a un senso di controllo sul
lavoro, appropriati riconoscimenti, un ambiente di lavoro supportivo, senso di equità e
presenza di significato e valore del lavoro.

LA VIOLENZA NEI CONTESTI DI LAVORO


L'aggressività nei contesti organizzativi è definita come una serie di azioni, compiute da
parte di uno o più individui, all'interno o all'esterno dell'organizzazione, volte a procurare
danni fisici o psicologici a uno o più lavoratori all'interno di una determinata
organizzazione.
Le aggressioni più gravi nei contesti organizzativi sono compiute da persone esterne
all'organizzazione, come nel caso di una rapina. Molte altre azioni aggressive invece sono
messe in atto all'interno e da parte dei membri dell'organizzazione e possono essere rivolte
ai colleghi, collaboratori, superiori, clienti o utenti e fornitori. Queste azioni comprendono
sia violenza fisica che violenza psicologica.
La violenza negli ambienti organizzativi è il risultato dell'interazione tra caratteristiche
individuali dei singoli, variabili organizzative e situazione lavorativa.

5.1. I comportamenti lavorativi controproduttivi


Secondo il modello sui comportamenti lavorativi controproduttivi di Spector e Fox, la
percezione di condizioni ed eventi lavorativi come fonti di stress (stressor) induce emozioni
negative (rabbia, ansia, depressione). Queste emozioni, a loro volta, sono alla base dei
comportamenti controproduttivi che si possono manifestare in maniera subitanea ed
impulsiva oppure in un momento successivo.
I comportamenti controproduttivi consistono in atti intenzionali col fine di danneggiare le
organizzazioni o le persone che vi lavorano. La determinazione a porre in atto una certa
azione e l'intenzione di arrecare un danno sono gli elementi necessari perchè si possa
parlare di comportamenti controproduttivi. I comportamenti controproduttivi possono
essere di diversa natura ed entità, ad esempio: furto, ritiro dai luoghi di lavoro,
rappresaglia, violazione di norme, vendetta.

5.2. L'abuso emotivo


Si tratta della forma di violenza non fisica più frequente nei luoghi di lavoro e si riferisce ad
una manifestazione ripetuta e prolungata nel tempo di comportamenti di natura verbale o
non verbale, con l'esclusione del contatto fisico, diretti ad una o più persone e volti a
procurare un danno psicologico o fisico. Non si tratta dunque di situazioni episodiche e
occasionali, ma di una stabile costruzione ostile di rapporti lavorativi che si sostanzia in
ripetuti comportamenti sgraditi e non richiesti dai destinatari, diretti a creare un danno o a
controllare la vittima, spesso sfruttando la posizione di potere che l'autore dell'abuso ha su
di essa. Alcuni esempi sono: ridicolizzare, sminuire, attaccare verbalmente, ingannare,
zittire. L'abuso emotivo può causare sia effetti negativi sul benessere psicofisico della
vittima sia compromettere la funzionalità organizzativa.

5.3. Bullismo e mobbing


il bullsimo indica l'esposizione ad azioni negative, intimidatorie, di offesa, di esclusione
sociale e di isolamento ripetute sistematicamente nel tempo (almeno per 6 mesi e per
almeno una volta a settimana) verso una o più persone che si sentono incapaci di reagire
costruttivamente a queste azioni.
Inizialmente si cercava di fare distinzione tra bullying e mobbing (centratura del bullying
sulle caratteristiche di personalità e centratura del mobbing sui fattori di rischio
organizzativi) mentre oggi si assiste ad un'assimilazione dei due termini riconducendoli ad
un fenomeno univoco.
Il risultato di queste azioni fa logorare, consumare la vittima in termini di gravi problemi
psicofisici e sociali. Perchè si possa parlare di bullying/mobbing occorrono 5 condizioni:
1. Azioni negative dirette o indirette;
2. Regolarità degli atti negativi;
3. Danno causato alla vittima;
4. Autodefinizione e autopercezione di vittima;
5. Squilibrio di potere.
Il bullying/mobbing, infine, può assumere diverse forme:
– Bullying/mobbing verticale: si riferisce alla relazione gerarchica tra l'autore della
violenza e la vittima. L'esempio più tipico è l'abuso di potere. Si parla di forma
discendente (violenza psicologica posta in essere da un superiore della vittima) e di
forma ascendente (da uno o più collaboratori o subordinati, ad esempio,
trattenendo informazioni necessarie per i superiori o diffondendo false accuse nei
suoi confronti);
– Bullying/mobbing orizzontale: violenza psicologica posta in essere da uno o più
colleghi della vittima;
– Bullying/mobbing collettivo/organizzativo: anzichè essere legato all'interazione tra
persone, la violenza in questo caso riguarda l'interazione tra lavoratori e vertici
dell'organizzazione. L'intenzione dell'organizzazione è rivolta alla totalità dei
lavoratori al fine, ad esempio, di far loro accettare ritmi incredibilmente sostenuti o
retribuzioni irrisorie.
Il bossing è una forma di violenza psicologica pianificata dai vertici dell'organizzazione
come strategia di riduzione del personale; l'obiettivo è di indurre i dipendenti, divenuti
scomodi, ad autoeliminarsi attraverso piani di pre-pensionamento, dimissioni indotte o per
creare le premesse per un successivo licenziamento che, altrimenti, non sarebbe possibile
in base alle norme giuridiche e contrattuali.

5.4. Le molestie sessuali


La molestia sessuale si realizza quando un soggetto comunica ad un'altra persoa qualcosa
che quest'ultima considera molesta o inappropriata. La maggior parte dei casi considerati
in letteratura si riferiscono alle molestie sessuali poste in essere da uomini che hanno
posizione gerarchica e di potere elevata rispetto alle donne.
Ci sono diversi motivi per cui una molestia sessuale si attivi:
– Molestia come atto naturale: l'attore non ha alcuna intenzione di molestare la
vittima. È semplice espressione della naturale attrazione tra due persone e della
forte motivazione sessuale dell'uomo;
– Molestia come diversa percezione: gli uomini spesso tendono a percepire
qualunque atto di cortesia o di apertura comunicativa di una donna come
disponibilità sessuale;
– Molestia come predisposizione individuale: ad esempio, incapacità di assumere la
prospettiva dell'altra persona, tratti di personalità autoritaria, sentimenti negativi
verso l'altro sesso ecc.;
– Molestia come decisione non etica;
– Molestia come assenza di responsabilità: l'attore della molestia sessuale percepisce
che il suo comportamento non sarà sanzionato negativamente nell'ambiente sociale
in cui lavora: in tal senso la cultura organizzativa gioca un ruolo rilevante;
– Molestia come comportamento aggressivo: la molestia sessuale è un preciso
comportamento aggressivo che permette all'attore di raggiungere i suoi personali
obiettivi.
La molestia è considerata una fonte di stress (stressor) che può negativamente influenzare
il comportamento e le emozioni della vittima.
I RISCHI PSICOSOCIALI
I rischi psicosociali, denominati anche del 4 fattore, sono i rischi non riferibili a pericoli di
natura fisica, chimica o biologica, ma riconducibili ad aspetti psicologici e alla
progettazione, organizzazione e gestione del lavoro.
I pericoli e i rischi psicosociali possono determinare conseguenze ed effetti sulla salute non
in maniera diretta, come per la maggior parte dei rischi fisici, ma indiretta, cioè mediata
dall'attivazione di processi di stress.
L'International Labour Office (ILO) identifica i rischi psicosociali in termini di interazioni tra
contesto lavorativo, organizzazione del lavoro e management da un lato, e bisogni e
competenze del lavoratore dall'altro. I pericoli psicosociali si traducono in potenziali rischi
per la salute in base alla percezione e all'esperienza dei lavoratori.
I nuovi rischi e quelli già esistenti ma in espansione sono:
1. Nuove forme di contratti di lavoro e insicurezza del posto di lavoro.
I lavoratori con contratti precari tendono a svolgere lavori più pericolosi, ad operare
in condizioni peggiori e a ricevere meno formazione sul lavoro, col conseguente
incremento del rischio di incidenti sul lavoro. I lavoratori hanno un crescente
sentimento di insicurezza del lavoro, definita come la preoccupazione per il
mantenimento del posto di lavoro nel futuro, la quale aumenta lo stress legato al
lavoro e influenza il benessere.
2. Invecchiamento della forza lavoro.
Questo gruppo ha maggiori difficoltà ad adattarsi al cambiamento ed è più
vulnerabile ai pericoli derivanti da condizioni di lavoro peggiori rispetto ai
dipendenti più giovani.
3. Intensificazione del lavoro.
L'intensificazione del carico lavorativo e della pressione lavorativa è spesso associato
a un deterioramento delle condizioni lavorative, in termini di disagi fisici o
psicologici. Questo fenomeno è in parte una conseguenza della riduzione dei posti di
lavoro e anche della crescente quantità di informazioni da gestire sul lavoro, come
l'introduzione di nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione (ITC)
negli ambienti di lavoro.
4. Violenza e Mobbing;
5. Scarso equilibrio tra vita e lavoro.
La sicurezza e la salute dei lavoratori possono essere tutelate da norme e pratiche che
garantiscono una valutazione periodica e la conseguente gestione del rischio.
Valutazioni del rischio possono consentire ai datori di adottare misure necessarie per
promuovere sicurezza e salute che comprendono: prevenire i rischi professionali, fornire
informazioni e formazione per i lavoratori, mettere in atto modifiche organizzative e gli
strumenti per attuare le misure necessarie.

LA SALUTE ORGANIZZATIVA
Uno dei fattori determinanti nel verificarsi degli infortuni e nel creare situazioni di stress e
di disagio è da ricondurre all'organizzazione del lavoro e alla cultura dell'impresa e non
esclusivamente a carenze strutturali di macchine e impianti o a mere caratteristiche
individuali. Con "salute organizzativa" si intende l'insieme dei ruoli culturali, dei processi e
delle pratiche organizzative che animano la dinamica della convivenza nei contesti di lavoro
promuovendo, mantenendo e migliorando la qualità della vita e il gradi di benessere
psichico, fisico e sociale delle comunità lavorative.
Il costrutto di salute organizzativa è espresso, pertanto, nei termini di quell'insieme di
condizioni che caratterizzano la presenza e l'evoluzione della salute all'interno di
un'organizzazione. Sono 12 le dimensioni che rappresentano il costrutto di salute
organizzativa, tra cui: allestire un ambiente di lavoro salubre, porre abiettivi chiari,
riconoscere e valorizzare le competenze dei dipendenti, ascoltare i dipendenti, cercare di
prevenire infortuni, rispettare l'orario di lavoro e la vita privata dei dipendenti.

28. L'INTERVENTO PROFESSIONALE


RICERCA, INTERVENTO E PRODOTTI
I punti cardinali della mission della psicologia del lavoro e delle organizzazioni sono stati e
continueranno ad essere: la ricerca, la definizione di modelli di intervento, lo sviluppo di
prodotti.

LA RICERCA. La missione generale di ogni disciplina è scientifica riguarda la produzione di


conoscenza. Le teorie servono a descrivere e spiegare aspetti della realtà, ad individuare
nuovi ambiti di esplorazione e di approfondimento della conoscenza.

LA DEFINIZIONE DI MODELLI DI INTERVENTO. Una caratteristica della psicologia e della


psicologia del lavoro è quella di poter intervenire professionalmente sulle diverse
problematiche affrontate a livello di ricerca. L'intervento professionale non è caratteristico
di qualsiasi disciplina scientifica; esso si sostanzia nell'allestimento di un setting adeguato e
idoneo a favorire la produzione di conoscenza in individui, gruppi, organizzazioni.
L'intervento psicologico ha la stessa missione della ricerca: produrre conoscenza. La ricerca
è finalizzata a produrre conoscenza nel senso di verificare sul piano empirico ipotesi che
assurgono a leggi generali; l'intervento professionale è finalizzato a produrre conoscenza in
contesti specifici, con soggetti specifici, in ambiti individuati e circoscritti.
Nella psicologia del lavoro la produzione di conoscenza è produzione di conoscenza sulla
relazione tra soggetti e contesto; l'esperienza lavorativa infatti si costituisce sempre a
partire da una relazione o da una rete di relazioni che il soggetto lavoratore intrattiene in
un contesto fisico, tecnologico, normativo e procedurale, organizzativo, economico, politico
e sociale.
Quando un'organizzazione chiede consulenza, ad esempio, su temi quali sicurezza e salute
al lavoro, si può usare sia l'ottica dell'adempimento, che con l'utilizzo di strumenti
superficiali e attraverso una rapida somministrazione porterà a ottemperare alle
prescrizioni legislative, sia l'ottica di produzione di conoscenza. In questo caso, consulenza
e committenza propongono un progetto nel quale tutti i membri si interrogano
sull'organizzazione del lavoro, sugli stili di leadership e di gestione, sulla dinamica dei
rapporti interpersonali e tra i ruoli, sulle principali criticità che impediscono o rallentano un
progetto sostenibile di organizzazione sicura, salubre e in grado di promuovere salute
individuale e organizzativa.
L'idea di coniugare intervento e ricerca risale a Kurt Lewin (1946), che impiegò il termine
action-research (ricerca/intervento) proprio per indicare un setting che si prefigge come
obiettivo la modificazione di una situazione attraverso le conoscenze acquisite mediante la
ricerca. Ricerca/intervento è una procedura che viene attuata non solo per produrre
conoscenza su una soecifica situazione ma, contemporaneamente, per modificare, con
l'apporto di tutti i soggetti coinvolti, quella stessa situazione.
In molte circostanze committente e utente coincidono nella stessa persona. Accanto
all'intervento psicologico che ha origine a partire da una specifica domanda di consulenza,
diventa sempre più frequente che sia lo stesso psicologo ad offire interventi psicologici (es.
Proporre piani di formazione a scuole o aziende, presentare progetti di ricerca a ministeri,
province, comuni, unione europea, suggerire indagini sulla sicurezza lavorativa). Per
efficacia intraprendente si intende la capacità di leggere i contesti, di rilevare domande
implicite ed esplicite di psicologia, di predisporre progetti e servizi, di costruire reti
professionali e sociali.

LO SVILUPPO DI PRODOTTI.
Un prodotto è qualcosa di definito, di immediatamente fruibile che, se ben costruito,
incapsula al suo interno conoscenza altrove prodotta. I test psicologici, cognitivi e non,
sono strumenti predisposti sulla base di ricerche sistematiche, opportunamente validati e
messi a disposizione dai fruitori/clienti che richiedono rapide valutazioni.
I prodotti possono anche riguardare i pacchetti formativi, i quali possono essere applicati
superficialmente dando vita ad un tipico esempio di formazione colmativa.
I prodotti possono anche riguardare l'intervento psicologico. È il caso della consulenza che
viene prestata assumendo come sacra la richiesta del committente, anzichè analizzarla, e
fornendo risposte certe e chiuse alle domande formulate. Molti professionisti, nella loro
attività, forniscono prodotti: è il caso del medico che prescrive analisi e farmaci senza
contestualizzare i sintomi riferiti dal paziente nella sua storia clinica.
Schein distingue tra modello consulenza di processo e modello medico paziente:
– Modello consulenza di processo: l'intervento psicologico è fondato sulla produzione
di conoscenza e sulla scoperta che l'utente-cliente è guidato a compiere. Individuo,
gruppo e organizzazione da oggetto di intervento diventano soggetti che
collaborano attivamente nel ricercare soluzioni ai propri problemi;
– Modello medico – paziente: l'intervento psicologico fornisce prodotti a partire da
una richiesta, da un sintomo individuato dal cliente. La conoscenza è quella del
consulente che, sulla base della sua esperienza, prescrive o indica la soluzione da lui
considerata migliore.
Mentre la consulenza medico-paziente fornisce soluzioni a singoli problemi di volta in volta
presentati, la consulenza di processo fornisce un sostegno teorico-operativo alla crescita
culturale e allo sviluppo organizzativo.
OBIETTIVI FUTURI DELLA PSICOLOGIA DEL LAVORO E DELLE
ORGANIZZAZIONI E DOMANDA DELLA SOCIETA' CIVILE
Per gli attuali psicologi del lavoro e dell'organizzazione – analisti della complessità –
l'oggetto centrale della ricerca è la relazione che individui, gruppi e organizzazioni
intrattengono con i relativi contesti al fine di spiegare i processi di crescita e di declino delle
persone e dei sistemi.
Posizionarsi tra continuità e discontinuità è uno dei problemi dell'esistenza; scegliere il
confine tra mantenere e innovare, tra conservare e creare; in questo senso la psicologia del
lavoro deve scegliere la strada della discontinuità, mettendo al centro della ricerca non le
esigenze delle organizzazioni ma le richieste della società civile.

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