GENTE DI GALERA. La Guerra Nautica Nel Mediterraneo Tra Medioevo Ed Evo Moderno.
GENTE DI GALERA. La Guerra Nautica Nel Mediterraneo Tra Medioevo Ed Evo Moderno.
Guglielmo Peirce
GENTE DI GALERA.
La guerra nautica nel Mediterraneo tra Medioevo ed Evo Moderno.
GENTE DI GALERA. La guerra nautica nel Mediterraneo tra Medioevo ed Evo Moderno.
by Guglielmo Peirce
Prima stesura depositata alla S.I.A.E.-SEZIONE OLAF con il n. diepertorio 9998747 e con decorrenza 8.12.2010.
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Abbreviazioni.
l. = latino.
ltm. = tardo latino, latino medievale.
prl. = proto-latino.
lc. = lucchese.
ol. = olandese.
lem/ctm. = lemosino/catalano medievale.
sic. = siciliano.
fr. = francese.
frm. = francese medievale.
It/itm. = italiano/italiano medievale.
gr. = greco.
gri. = greco ionico.
gre. = greco ellenistico.
grb. = greco bizantino.
gra. = greco antico.
gt. = gotico.
tr. = turco.
vn. = veneziano.
arag/sp. spagnolo.
in. = inglese.
td. = tedesco.
fm. = fiammingo.
sv. = svedese.
gn. = genovese.
prt. = portoghese.
np. = napoletano.
npm. = napoletano medievale
arc. = arcaico.
corr. = corruzione.
ltg. = latino-germanico.
prl. = parlata locale.
cst. = castigliano.
lg. = longobardo.
volg. = volgare.
mrs. = moresco.
sl. = sloveno.
ts. toscano.
mc. = marchigiano.
l.prov. = provenzale.
gael. = gaelico, irlandese.
contr. = contrazione.
ch. = chioggiano.
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PREFAZIONE.
Per scrivere di storia si sono usati fino ad oggi principalmente due metodi e cioè uno, più
antico, consistente in una narrazione molto compromessa dal soggettivismo, cioè più o
meno arbitraria o addirittura più o meno fantasiosa, e un altro, più moderno, limitantesi a
ripresentare vecchi testi con un corredo di commenti annotati a piede di pagina, metodo
questo che però riesce ovviamente solo parzialmente esegetico e inoltre risulta molto poco
comunicativo; con la presente opera noi ci proponiamo invece di inaugurare un terzo e
nuovo modo di fare storia e si tratta in sostanza di ricostruire aspetti del passato mediante
un testo formato soprattutto da una sequenza di citazioni tratte da antichi testi e documenti,
concatenate e puntualmente commentate, in maniera da lasciar il minor posto possibile a
eventuali interpretazioni soggettive e personali. Certo siamo consapevoli che in questa
maniera si presenta al lettore un’opera di ben ostica e tutt’altro che rilassante lettura, ma
siamo convinti che coloro che vorranno intraprenderla, anche se magari limitandosi a
qualche solo brano o al più capitolo del certo ponderoso testo, non potranno che
acquistarne ulteriore capacità di riflessione e quindi di giudizio; e come si potrebbe infatti
raggiungere la verità delle cose se non avvalendosi di un giudizio esercitato con la
riflessione? Dobbiamo però confessare che questa fatica, proprio in quanto formulata nella
maniera predetta, non è, nonostante la gran mole, del tutto compiuta e né forse potrebbe
mai esserlo, perché occorrerebbe vivere una lunghissima vita per poter leggere, consultare
e studiare tutto il relativo scibile accumulatosi nei secoli in archivi e biblioteche; abbiamo
quindi deciso di pubblicarla così com’è ora, come del resto ci apprestiamo a fare anche con
le altre due che stiamo preparando, sperando che le sue lacune e imprecisioni possano nel
complesso risultare alla fine poco rilevanti ai fini di una compiuta comprensione della
materia. Ci riserviamo comunque di continuare ad arricchirla negli anni futuri ed è
soprattutto per questo motivo che scegliemmo di pubblicare i nostri lavori on line, come
oggi si dice, cioè in maniera da poter sempre ampliare o correggere quanto già scritto; e
preferimmo pure mantenerli gratuiti perché pensiamo che il lettore, scegliendo di leggerci,
già ci concede la migliore delle ricompense.
Questo nostro studio non affronta temi quali la costruzione dei vascelli (gr. πορεῖα
θαλάττια, ὀχήματα θαλάττια, πελάγια; l. vasa) né le tecniche della navigazione (gr. πλόος,
πλοῦς) né gli aspetti finanziari della marineria del passato, ma unicamente quello che
riteniamo di nostra competenza e cioè la guerra nautica così come si combatteva in tempi
ormai tanto lontani. Si tratta infatti di un argomento che non è possibile affrontare senza
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presumere di avere una buona conoscenza di come la guerra avveniva anche sulla terra
ferma e quindi delle tecniche usate allora dalla fanteria, dalla cavalleria e dall’artiglieria,
argomenti da noi trattati in altre opere che affiancano la presente, e ciò per gli ovvi motivi di
stretta attinenza che tutti possono facilmente comprendere; transeat anche per il tema delle
fortificazioni militari di terra, tema che, richiedendo conoscenze professionali specifiche, ci
siamo solo altrove limitati a considerare nei suoi principali concetti ispiratori. Al lettore che
fosse invece più interessato agli aspetti costruttivi delle galere, che qui chiameremo
indifferentemente con l’it. galee o con l’ispanismo galere, possiamo consigliare i
seicenteschi trattati del Cano, dell’Hobier e dell’Hoste e i vari manoscritti della Biblioteca
Marciana di Venezia e della Magliabechiana di Firenze; per quanto invece riguarda l’arte
della navigazione e del pilotaggio di quei tempi, suggeriamo la lettura dei testi a stampa del
Medina, del Crescenzio, del Bayfio e ancora dell’Hoste.
Il mancato studio della materialità storica della guerra e delle sue dirette conseguenze
sull’esito degli avvenimenti porta frequentemente gli studiosi a mancare l’individuazione dei
veri fattori che hanno determinato importanti fatti storici; clamoroso, per esempio, il
generale ridimensionamento dell’importanza della battaglia di Lepanto che da tempo quasi
tutti gli autori, copiandosi le mancanze e le ignoranze belliche a vicenda, pretendono di
fare; e ciò solo perché hanno visto che nel secolo successivo i turchi continuarono a
togliere possedimenti ionici ai veneziani. Non considerano però che gli ottomani, pur
continuando le loro conquiste marine, lo fecero da allora in poi solo nei pressi di casa loro e
che in realtà, dopo lo shock, anche psicologico, di quella gravissima sconfitta, non furono
più in grado di progettare e minacciare conquiste più lontane nel Mediterraneo, come prima
invece quasi impunemente facevano; di conseguenza anche le loro offensive terrestri verso
Vienna s’affievolirono per lungo tempo, dandosi così inizio a un lentissimo ma costante
declino dell’impero ottomano. Insomma è certamente a Lepanto e ai suoi eroi che dobbiamo
se oggi a Malta, a Messina, a Bari - e probabilmente anche a Palermo, Napoli e Budapest - i
fedeli vanno a pregare ancora nelle chiese e non nelle moschee, come al contrario avviene
in quella che una volta era la cristianissima Bisanzio. Insomma Lepanto riuscì là dove non
erano riuscite le Crociate e cioè riuscì a fermare l’espansionismo mussulmano nel
Mediterraneo e nell’Europa cristiana; perché in verità questo era lo scopo che la Chiesa di
Roma si era sempre proposto con l’indizione delle Crociate e non la cosiddetta ‘liberazione’
del Santo Sepolcro, anche se bisogna dire che i più maligni allora sostenevano che invece
lo faceva per mettere le mani sul ricco affare del pellegrinaggio in Terra Santa e infatti nelle
relazioni di quel viaggio approvate dal Vaticano sempre si trova dare gran risalto alle
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cronache e relazioni del tempo, documenti facilmente reperibili da tutti, sia perché alla
maggior parte dei lettori risultano sempre uggiose e poco significative sia infine perché
questo libro si propone di raccontare soprattutto il ‘come’ e molto meno il ‘che cosa’;
inoltre diremo che, nel descrivere le armi da fuoco delle fanterie e delle cavalleria del tempo
abbiamo tralasciato quelle numerose invenzioni o proposte che spesso inventori esperti - o
anche poco esperti - presentavano ai principi del tempo, perlopiù trattandosi di armi a
ripetizione o a carica multipla – vedi per esempio il trattatello di Giuliano Bossi – con le
quali si voleva cercare di aumentare la potenza di fuoco; ciò perché spiegare anche quei
documenti significherebbe innanzitutto confondere il lettore, facendogli credere che si
trattasse di armi poi effettivamente usate in battaglia, mentre risultavano perlopiù non
geniali e poco pratiche da usare, e inoltre vorrebbe dire entrare in dettagli tecnici di nessun
influenza né importanza sugli eventi storici.
Poiché tanto di questo nostro lavoro è ‘esegetico’, ossia consiste in gran parte nello
spiegare e provare concetti e circostanze avvalendoci di puntuali e pertinenti citazioni, di
queste abbiamo dovuto necessariamente ‘modernizzare’ l’italiano in modo da renderne più
agevole la lettura e la comprensione, ma abbiamo comunque usato ogni attenzione a non
privarle del loro ‘sapore d’antico’, perché il nostro principale intento è quello di far ‘sì che il
lettore possa in breve tempo trovarsi immerso nell’atmosfera e nella mentalità del tempo
che andiamo descrivendo. In buona sostanza abbiamo innanzitutto dotato le predette
citazioni di un’interpunzione moderna e rigorosa, poi abbiamo aggiunto tra parentesi parole
che, se fossero state presenti nello scritto originale, avrebbero molto contribuito a farne
comprender il vero senso e inoltre, tra parentesi e virgolette semplici, abbiamo spesso
aggiunto a disusate parole ed espressioni dei sinonimi e delle locuzioni moderne per
spiegarne il significato persosi nel corso del tempo. Purtroppo abbiamo dovuto al contrario,
ma allo stesso scopo e per quel poco che ci è stato possibile, in un certo senso
‘riantichizzare’ le numerosissime citazioni delle relazioni diplomatiche veneziane pubblicate
dall’Albéri, studioso che, come purtroppo tutti quelli nostrali dell’Ottocento, si affaticava,
pensando di far bene, a stravolgere e impoverire il ricco, raffinato e colto italiano del
Cinquecento, lingua che pure aveva al suo tempo culturalmente conquistato tutto l’ancora
rozzo resto dell’Europa; lo stesso lavoro ci è stato invece impossibile con il Nicolini, il cui
lavoro di ‘modernizzazione’ del suddetto linguaggio dei consoli residenti veneziani del
Cinquecento è stato talmente perfetto da renderlo del tutto irreversibile, a meno che non si
trovasse pure il tempo d’andare a riprendere gli stessi documenti originali utilizzati da lui.
Precisiamo comunque che, da qualsiasi lingua, antica o moderna, esse siano ricavate, le
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… È da saper come a dì 17 (settembre) se intese, per lettere di Cicilia, come una barza de
bertoni havia preso sopra la Licata 2 nave siciliane carghe di ognì cargato ai Zerbi [om.] e
che il viceré (Giovanni La Nuza), saputo la nova, subito armoe 3 nave e 3 galie nostre dil
trafego, capiano Jacomo Cocho. Andono a trovar la ditta nave bertona e quella prese e
recuperò la preda… (M. Sanuto, Diarii. Anno 1496. T. I , col. 326.)
Didascalia:
Cicilia = Sicilia
una barza de bertoni = una caravella dei britanni
carghe di ogni cargato = cariche di ogni sorta di mercanzie
ai Zerbi = alle Isole delle Gerbe (Libia)
3 galie nostre dil trafego = 3 galee veneziane da commercio
capi(t)ano Jacomo Cocho = (comandate dal) capitano Giacomo Coco
nave bertona = nave britannica
prese = presero
recuperò la preda = recuperarono le prede (fatte dagli inglesi)
Con la suddetta citazione e relativa didascalia abbiamo voluto fare subito al lettore un
esempio del tipo di lavoro da cui è scaturita la presente nostra opera. A questo proposito
aggiungiamo infine che abbiamo sempre scritto in corsivo le parole nave e navi perché nei
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secoli di cui qui principalmente diciamo la nave era un tipo di vascello particolare e solo in
quelli successivi il termine è diventato generico, cioè ha sostituito quello antico di vascello.
Era dunque già nel Medioevo primaria l’importanza della marineria olandese, tanto che il
cardinale Guido Bentivoglio (1579-1644) scriveva che ai suoi tempi c’erano nei porti e nei
cantieri delle Province Unite tanti vascelli quanti in tutto il resto dell’Europa; ma, per evitare
un risultato pleonastico, mi sono limitato a riportare solo i termini d’etimo del tutto
differente da quello dei vocaboli italiani e per lo stesso motivo ho voluto tralasciare quasi
del tutto la terminologia spagnola, assimilabile sostanzialmente a quella allora usata in
Italia; abbiamo inoltre riportato un po’ della terminologia greco-bizantina, quella cioè che
abbiamo ritenuto più significativa, mentre, del tutto ignoranti come siamo delle lingue turca,
araba e barbaresche, certamente la grafia rinascimentale europea dei nomi propri in quelle
lingue che spesso riportiamo potrà risultare in gran parte erronea a chi invece se ne
intenda; ma bisogna dire che, nonostante la loro certo soverchiante presenza nei nostri
mari, dette lingue non europee non hanno mai inciso in maniera significativa sulla cultura
marittima occidentale, checché se ne pensi; e, se è vero che nei gerghi marinari europei
non è infrequente trovare etimi afro-mediorientali, è d’altra parte costatabile facilmente – e
direi molto maggiormente - anche l’opposto.
Il lettore noterà, probabilmente con disappunto, che manca purtroppo un indice dei nomi,
ma, trattandosi nel nostro caso di una pubblicazione on-line, si può in parte ovviare con la
funzione di ricerca di cui il programma di scrittura è ovviamente dotato; inoltre non poche
delle circa 1500 citazioni, soprattutto quelle riportate in traduzione, non portano il
riferimento alla pagina del libro o del foglio del documento a cui si riferiscono e ciò perché,
a causa appunto del loro ingente numero, non abbiamo avuto il tempo di completare anche
un tale gravoso lavoro. Abbiamo poi ritenuto di non dover aggiungere anche una lista
semplicemente bibliografica, perché sinceramente, data la già ingente lista delle fonti che il
lettore troverà alla fine del volume, l’abbiamo ritenuta del tutto superflua.
Ma per tornare alle considerazioni iniziali, qualcuno che non ne fosse rimasto convinto
potrebbe alla fine di nuovo domandarci a che cosa può esser servito spiegare così
dettagliatamente una realtà storica qual è quella bellica dell’inizio dell’Evo Moderno, se non
unicamente a comporre un’opera d'erudizione fine a se stessa, visto che tale realtà sembra
proprio non avere più alcun nesso con quella presente; ebbene, non ce la sentiamo di
opporci a questi probabili critici portando i soliti triti argomenti e cioè che la storia non ha
bisogno di giustificazioni e che serve soprattutto a insegnare agli uomini a non ripetere gli
stessi errori fatti nel passato; possiamo invece solo consigliar loro di non intraprendere la
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lettura di questo libro. Se invece ci sarà qualcuno che vorrà vedere con maggior chiarezza
come la crudele tragedia dell'umana convivenza si sia sviluppata sempre uguale nel corso
della storia e cioè attraverso le sue tre principali imperiture figure sociali, le quali sono il
tiranno, l'aguzzino e il forzato, allora si addentri pure in questa lettura, magari solo un po'
per sera tanto per prender sonno, e s’accorgerà che purtroppo, dal tempo delle galere, gli
uomini non sono appunto sostanzialmente cambiati e che il traguardo d'un effettivo rispetto
della vita e della dignità altrui è non solo ancor oggi lontanissimo, ma probabilmente, come
tutte le mete ideali, resterà tale per sempre. Infine, per tagliar corto e per rispondere alla
maniera di Socrate ai soliti cui usui est o cui bono o insomma cui prodest che possono
esserci rivolti dai tanti che queste minuziose ricerche di filologia militare giudicano del tutto
inutili, concludiamo con l’obiettare che, anche se non sappiamo dire se fare questi studi sia
utile o inutile, tuttavia è indubbio che il non farli non sarebbe di alcuna utilità ad alcuno.
Altri potrebbero invece obiettarci che un gran lavoro del genere c’era già, cioè quello fatto
da Auguste Jal nell’Ottocento con la sua Archéologie navale; infatti noi ne abbiamo tenuto
molto conto citandolo frequentemente, ma dobbiamo osservare che, nonostante la vastità
delle letture fatte da quell’autore e il suo conseguente gran lavoro analitico, egli non riesce
a darci una visione organica della materia che tratta, non riesce cioè a raggiungere le
necessarie sintesi e spesso si affida all’apparenza superficiale delle cose, senza andare a
‘lavorar di zappa’, per così dire, ossia senza andare a ‘riesumare’ personalmente il passato,
come ogni storico che si rispetti dovrebbe invece scegliere di fare…
Vogliamo infine ringraziare il personale tutto dell'Archivio di Stato di Napoli, specie quello
della Sezione militare, della Biblioteca Nazionale di Napoli, della Società Napoletana di
Storia Patria e d’altre istituzioni culturali partenopee, personale che per così tanti anni ci ha
aiutato e consigliato nelle nostre ricerche sempre con massima competenza e cortesia, ciò
a ulteriore dimostrazione che questa Città di Napoli non merita solo reprimenda e
condanne, ma anche apprezzamenti, per lo meno per quanto di culturale riesce ancora,
nonostante le tante difficoltà, a offrire e a produrre.
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Capitolo I.
Fino a tutto il Cinquecento qualsiasi tipo d'imbarcazione, grande o piccola che fosse, era
ancora chiamato col termine medievale generico di vascello, dal ltm. vasellum, mentre in gr.
il termine equivalente era ϰατίνα (o anche ἂμαλα, come leggiamo in Esichio Alessandrino,
Lexicon. Iena, 1867) e quindi per esempio ‘vascello granario’ si diceva ϰατίνα σιτοφόρος;
solo a partire dal secolo successivo si comincerà in Italia a limitare questo nome ai grossi
velieri a vela quadra (ol. raa-schepen), secondo un uso improprio importato dalla marineria
oceanica della Spagna e che, per quanto riguarda la Francia, sarà adottato dapprima a
Marsiglia. In Spagna si provò ad utilizzare anche il termine ‘vascello’ e così in ordinanze
spagnole della fine del Cinquecento troviamo talvolta vagel, vageles ma non ebbero fortuna.
I vascelli velieri si dividevano in due principali categorie e cioè quelli che avevano, oltre
naturalmente al pagliolo di fondo, un solo ponte, quello di coperta (l. solarium), o non
avevano nemmeno quello e quelli che avevano più ponti, cioè avevano altri ponti oltre a
quello di coperta; i primi si dicevano barche e i secondi navi. I primi, essendo di poco
pescaggio e potendo quindi navigare più velocemente, usavano una velatura e di riflesso
anche un’alberatura (cst. palazón) più leggera e versatile, cioè erano a prevalente vela
latina; i secondi, pescando molto di più e dovendo quindi navigare spostando col loro
corpo un volume d’acqua molto maggiore, avevano invece bisogno di un’alberatura e
quindi di una velatura più vasta, solida e potente, vale a dire erano a prevalente vela quadra;
ne consegue che le navi erano generalmente vascelli di dimensioni notevoli per quei tempi,
mentre le barche potevano essere delle misure più disparate, magari anche piccolissime,
come erano per esempio perlopiù molto piccole quelle di salvataggio che si portavano a
bordo dei vascelli (schifi, copani ecc.) e quelle che usavano i piloti portuali. Se si tiene
presente la basilare predetta suddivisione, si può evitare di cadere in tutte quelle sterili
discussioni che spesso si fanno a proposito del significato del termine barca e di quali
vascelli fossero un tempo da chiamarsi così; certo che non è compito semplice visto che
vediamo talvota definiti barche anche vascelli remieri minori, come per esempio vedremo a
proposito delle scialuppe delle navi e delle seguenti citazioni della segreteria angioina
napoletana - circa dall’anno 1300 - che troviamo nell’Archivio Storico per le Province
Napoletane ecc.:
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Cè però un passaggio degli Annales del Caffaro e prosecutori, da riferirsi all’anno 1205, che
è in questo senso molto chiarificatore:
… Pisani verò, qui ibi erant cum navibus novem et galêis XII, buciisque et barchis XIV.
Dunque i vascelli velieri grandi erano le navi e quelli piccoli i buci e le barche, queste ultime
anche remiere. Insomma, come abbiamo già detto, allora qualsiasi imbarcazione non
pontata, avesse o non avesse coperta, era da considerarsi una barca; un concetto di cui
quindi ancora oggi noi, anche senza averne magari più coscienza, ci serviamo; i vascelli
pontati si chiamavano invece navi e potevano essere ovviamente monoponte, biponte o
triponte. il ponte di coperta, come anche quello di stiva, non era da annoversi come tale.
In relazione al loro tipo di velatura (gr. ἰστία, ἂρμενα) I vascelli velieri si suddividevano poi
in quattro specie fondamentali e cioè in onerari a prevalente o preminente vela quadra ((gr.
όλϰάδες, γαῦλοι; ct. naus; i. shiffs), onerari a preminente vela latina (gr. ϰάραβοι
(‘granchi’), da cui poi caravella, onerari a vela latina (vn. balche; ltm. barcae, barchae; ct.
barcas; i. boats) e bellici o avvisatori a remi e vela latina (ct. lenijs; i. long boats), detta
quest'ultima vela dai marina veneti anche vela da taglio o semplicemente taglio, in quanto
atta a ‘tagliare’ il vento con i suoi margini; era naturalmente anche in uso la più antica delle
vele [gr. φώσ(σ)ωνες], detta a orecchio di lepre, cioè una vela triangolare disposta in modo
da ‘insaccare’ il vento in poppa, mentre non ancora affermate erano quelle bomate,
triangolari o trapezoidali che fossero. La distinzione tra vela quadra e vela latina si comincia
a leggere nella storiografia del Basso Medioevo e a opera soprattutto dei bizantini
(gr.Ῥωμαῑοι, quindi ‘romei’ e non romani) i quali, al concetto dell’ολϰάς, ossia della nave
oneraria a velatura totalmente quadra dell’antichità, avevano affiancato quello del ϰάραβος,
ossia del vascello onerario a parziale velatura latina; infatti, mentre il primo nome si ritrova
anche nel greco antico, il secondo non appare prima del greco bizantino. Questo però non
significa che la vela latina non fosse già usata, specie nel Mediterraneo, anche nell’Alto
Medioevo e infatti nel suo dizionario enciclopedico il Suida (x sec.), tra i vari tipi di vascelli
che menziona nel suo Lexicon, include anche la ‘nave orto-antennata’ (ὀρθόϰραιρος ναῦς),
ossia ‘quella che ha le antenne verticali’ (ἠ ὀρθὰς ϰεραίας ἒχουσα); ora è chiaro che
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l’antenna verticale porta la vela triangolare, a meno che non si voglia supporre una vela
quadrangolare tesa tra due antenne verticali, il che però avrebbe reso naturalmente
impossibile l’orientamento della stessa (Lexicon, graece et latine. T. II, p. 714. Halle e
Brunswick, 1705). D’altra parte Sesto Pompeo Festo, lessicografo e grammatico romano del
II sec. d.C., parla di una vela di prua che chiama velum mendicum (‘vela difettosa’) (De
verborum significatione. Parte I, p. 90. Budapest, 1889). Più tardi verrà la distinzione tra
vascelli quadri e vascelli latini, la quale non sarà, come si può pensare, in base al tipo di
velatura usata dal vascello – infatti molteplici erano i vascelli che usavano
contemporaneamente ambedue i tipi di velatura, ma in base alla forma dello scafo (cst. e sp.
buque) ed in particolare a quella del terzo posteriore dello scafo, il quale nei vascelli quadri
onerari, specie nella tipica nave, si chiamava in spagnolo appunto quadra e si distingueva
da quello dei vascelli latini per non andar restringendosi verso poppa.
Prima di quei secoli i vascelli si dividevano ancora come si erano suddivisi nell’antichità,
cioè semplicemente in onerari e bellici, anche se in generale non sembra che nell’Evo
Antico i vascelli da carico [gr. όλχάδες, φορτηγὰ πλοῑα oppure φορτηγοί νῆες, solo φορτικά
in Tucidide, φορτηγιϰὰ πλοῑα, φορτίδες oppure φορτηγὶδες, φορταγωγοί νῆες, ϰομισιχὰ
πλοῖα, ἀγώγιμοι oppure πεφορτισμοῖ o anche ἐμποριϰαῖ o ancora γλαφυραὶ νῆες, ϰᾰμᾰτηρά
oppure ϰαματέρα πλοῑα,] potessero già raggiungere cospicue dimensioni. In verità nella
storia della guerra lazica (VI sec. d.C.) narrata da Agazia Scolastico, poeta e storico
bizantino coevo di quegli eventi, a proposito della presa bizantina di Fhasis, città fortificata
costiera tenuta dai persiani, avvenuta nel 556, si parla di grandi navi da carico [gr. νῆες δὲ
φορτίδες μεγάλαι, μυριαγωγοί, μυριοφόρ(τ)οι όλχάδες, μυριοφόρ(τ)οι νῆες] fornite di alberi
corbiti più alti delle torri delle mura della città che assediavano (Historiarum L. III). Inoltre, a
giudicare da Plauto, dovevano essere grossi mercantili i cercuri (gr. ϰέρϰουροι):
Portitores viene da portus e quindi anche portorium, ‘dazio, gabella, pedaggio’). Troviamo
infine poi anche όλχάδες μαϰραῖ (‘onerarie lunghe’), la quale può sembrare dizione
contradditoria, ma si trattava invece di vascelli da carico tipo quelle galee grosse
trasformate che poi i veneziani chiameranno barchoni e marani e di cui diremo, e quindi mal
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traduce in l. il Suida il suo stesso greco laddove travisa Έν ταῖς δὴ λεγομέναις ὀλϰάσι
μαϰραῖς… (“Nelle cosiddette ‘olcadi lunghe’…”) con un erroneo Ιn navigiis longis, quae
holcades vocantur… (“Nei navigli lunghi che chiamano ‘olcadi’… Lexicon, graece et latine.
T. II , p. 678. Halle e Brunswick, 1705.), poiché detto così sembrerebbe come se tutti i
‘vascelli lunghi’ si dicessero olcadi.
La circostanza che sin dall’antichità ci fossero tanti modi di dire in greco ‘navi da carico’ ci
dimostra che il commercio marittimo è sempre stato nel Mediterraneo particolarmente
fiorente; a proposito poi del sostantivo πλοῑα va detto che, perlomeno nella lingua greca
post-ellenistica ( secc. IV-VI d.C.), esso aveva avuto, più che il senso di vascello
compiutamente armato per la navigazione, quello di imbarcazione o di scafo generico (gr.
σϰάφος, σϰἇφη, γάστρα; l. scapha) non ancora definitivamente corredato, cioè di quello
che poi nel Rinascimento si dirà in Italia arsile; lo vedremo quando citeremo, a proposito
dei famosi dromoni, il cronista bizantino del sesto secolo Giovanni Malalas.
Il navigare alla quadra, ossia con la prima delle tre predette specie, si usava soprattutto nei
mari oceanici, dove più forti erano i venti e più lunghi i viaggi, e infatti i vascelli muniti in
prevalenza di vele quadre (fr. voiles à trait quarré; ol. raa-zeilen, vierkant zeilen) erano
generalmente grandi e d'alto bordo, cioè in grado di sopportare le alte ondate dell'oceano
senza restarne sommersi e travolti; essi, detti nel Basso Medioevo genericamente navi (ct.
naus), erano invece ora, con riferimento alla loro velatura, chiamati pertanto talvolta vascelli
quadri [vn. le (navi) quare], ma anche e soprattutto vascelli tondi (gr. στρογγὗλα πλοῖα,
στρογγΰλαι νῆες, γαῦλοι; cst. naos; lem/ctm. naus) e ciò perché la forma del loro scafo
ricordava quella del pesce tondo o delfino, cioè la sezione trasversale (fr. bouchin) del loro
scafo era più larga all'altezza della seconda coperta o ponte che a quella della coperta
esterna o prima coperta (gr. ϰατάστρωμα; ven. baladore), al fine d’opporre meno resistenza
al tormento (‘travaglio’) del mare traverso, forma questa che non poteva essere né dei
vascelli a vela latina, né di quelli a remi (l. a remis) per non essere né gli uni né gli altri
abbastanza alti di scafo da avere più d’una sola coperta. Troveremo usato Il termine nave
tonda ancora nel 1621, mentre quello generico medievale di navi tornerà in auge, come
sappiamo, in epoca contemporanea. A Bisanzio invece di chiamarsi tondi si erano chiamati
alti (ύψηλoi), come vedremo, cioè in quella civiltà si era soprattutto voluto mettere in risalto
la loro maggior altezza e il loro maggior pescaggio rispetto a quelli delle sottili galee; tra di
essi si includevano anche i vascelli remieri porta-cavalli (gr. ἰππαγωγοῖ), i quali furono detti
nel Medioevo bizantino chelandi, dal gr. ϰέλες, ‘cavallo da sella’, oppure οὐσίαι (gr.
‘patrimonii, provviste’) o meglio οὺσιαχὰ χελάνδια (gr. ‘chelandi delle provviste’), infine
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anche golabri (dal gr. ϰόλαβροs, ‘canto della tracia’); in quello latino-veneziano arsili e
marani e in quelli latino-tirrenico prima uscieri (l. uxera; ltm. uxerii, usserii, uscherii;
appunto dal gr. οὐσία, ‘provviste’, e non dall’it. ‘uscio’, come si crede), questo nel decimo
secolo secondo il Mutinelli, e poi in italiano arsili o fusti, ecco una delle tante note storiche
apposte secoli più tardi al famoso Codex Ambrosianus; in questa ci si riferisce all’armata
veneziana che nel 1117 fu inviata in soccorso dei regni crociati in Medio Oriente:
… Classis verô, quæ profecta est in Syriam, fuit IV navium onerariarum prægrandium, in
quibus commeatus, maximè arma omnifariam imposita sunt, arsili multi ad deferendos
equos & milites & XL triremes inftructæ; quæ secessit ex Venetiis VIII Augusti MCXVII (L.A.
Muratori, Rerum, t. XII, p. 271, n. I).
A Genova gli uscieri erano vascelli equiparati a le galee grosse veneziane da commercio,
anche se poi, soprattutto per le sopraggiunte rotte oceaniche, per i commerci ci si servirà di
galeazze, cioè di galee grosse attrezzate ed equipaggiate per quel tipo di viaggi; si usarono
poi dopo il Mille i suddetti golabri, specie di marani greci da carico assoldati dai genovesi
appunto ai tempi della loro colonia di Peira e dei loro intensi traffici commerciali con
Bisanzio, i quali si chiamavano così perché evidentemente i loro remiganti usavano vogare
cantando antichi canti della Tracia. Non dovevano questi ϰόλαβροs essere di solito vascelli
particolarmente nuovi e impermeabili, se da essi nacque il detto italiano essere come un
colabrodo; molto improbabile infatti che esso sia invece derivato dal paragone con un
attrezzo di cucina, perché, trattandosi di un modo di sottolineare una condizione negativa,
non si sarebbe preso come modello un utensile dalle caratteristiche invece positive.
Per quanto riguarda arsili recanti fanteria, ecco un dispaccio inviato il 4 dicembre 1465 al
suo doge a Venezia da Jacomo Barbarigo, provveditore generale veneziano della Morea che
presto morirà da valoroso all’assedio di Patrasso, cioè nel corso delle guerre che i
veneziani combattevano allora contro gli invasori turchi del Peloponneso:
… Adì primo del presente zonse l'arsil (del) patron Stefano Bon, el qual per informazion che
ho havuto, l’è venuto de fuora via e presto e portatosse benissimo con i soldati (che)
condusse de qui, come loro istessi dicono, el qual condusse do (‘due’) contestabeli con
pag(h)e (‘soldati’) 300, i qualli ho fato alozar qui, e, fata li haverò la monstra, li darò la suo
paga; atendo l'altro arsile con li altri, i quali mandarò allozare a Corone, dove ho debutato
(‘deputato’?) e aparechiato suo alozamento (cit. Pp. 70-71).
E poi ancora nel secolo seguente, durante la guerra della Lega di Cambrai:
(Maggio 1509): … Fu stabilito dal Collegio dei Savi (di Venezia) di mandare in Romagna,
dedotti da questo numero di cavalli di stratioti giunti al Lido (di Venezia) con questi due
arsilii, 170 cavalli e 300 zagdari; il rimanente di stratioti e zagdari siano mandati a
combattere (Fu posto per i savij mandar in Romagna, de questo numero di cavali di stratioti
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zonti a Lio con questi do arsilij, cavali numero 170 et zagdari 300; il resto di stratioti e
zagdari siano mandati in campo. In Andrea Mocenigo, Belli memorabilis Cameracensis
adversus Venetos historiae libri vi. Libro I. Venezia, 1525).
Gli zagdari erano fanti cimeroti (‘albanesi’) gialdonieri, cioè armati di un dardo detto gialda,
vale a dire di zagaglia o giavellotto, ma perlopiù privi di armi difensive (agreste ac
semiferum genus hominum); sapevano correre velocemente e a volte riuscivano buoni
combattenti, ma talvolta i veneziani, quando non li impegnavano subito in battaglia,
dovevano licenziarli perché derubavano anche le popolazioni amiche e le importunavano
con insistente accattonaggio. Marin Sanuto nei suoi Diarii (gennaio 1495) li aveva definiti
anche axapi, forse perché servivano d’abitudine anche come marinaresca sulle armate
ottomane:
... zagdari sonno etiam expediti et mandati in campo; ma fo mala opinion, perché sono
danari persi, non sanno parlar et sono homeni di pocha descrition e disarmati. (ib. Maggio
1509)
… Gionse in questo zorno a Lio uno arsil de stratioti con cavali numero 136, venuti tardi, et
restono
cussì a Lio. Nota. Li zagdari, numero 60, im Peschiera si portono valentissimamente, et
combatendo da valenti homeni, sonno tuti morti (ib. Giugno 1509).
…Item, li zagdari sono stà licentiati di campo, perchè erano ladri e robavano cussì nostri
come
i nimici; et in questa terra andavano dimandando per l'amor di Dio (ib.).
Quando qui si dice che gli zagdari albanesi non sapevano parlare, ovviamente s’intende che
non conoscevano né veneziano né latino né greco. I porta-cavalli turchi si chiamavano
invece parandarie; ecco un brano tratto dagli Annali veneti del Malipiero:
(1472:) Annunziati questi successi alla Porta, el Turco dete ordene de fabricar l'inverno 200
galie e 100 parandarie con le pupe basse, averte a modo d'arsili; portano securamente gran
quantità de artelarie e 120 cavali per una; e ordenò anche che fosse fabricà 120 fuste e 200
schirazzi, simili a i burchi da legne che se usa qua in Veniesia, i quali, levade le falche dalle
bande, restano con le sue postize e può vogar 80 in 100 remi per uno (Domenico Malipiero,
Annali veneti dall’anno 1457 al 1500 etc. Parte prima, p. 78. In Archivio storico italiano etc.
Tomo VII. Firenze, 1843).
In pratica qui il Malipiero, per spiegare le sue parole, dice come sono e a che servono le
parandarie turche e dice infatti che sono simili agli arsili veneziani, cioè basse di poppa
(mentre i vascelli in genere ce l’hanno alta) per poter così avere l’apertura dalla quale far
entrare i cavalli; trasportano quindi ognuna, oltre a 120 cavalli, anche molte artiglierie da
consegnare poi all’esercito di terra. In effetti i veneziani, in tempo di guerra, preferivano
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molto usare per i trasporti bellici li arsili, cioè gli scafi di galee grosse disarmate, perché se
li trovavano così già quasi pronti allo scopo:
(1495:) È stà anche preso (‘deliberato’) che sia messo in ordene li arsili, che zè (‘sono’) le
galie da mercà (‘mercato’) tornae el mese de Decembrio da i viazi, per traghettar le zente in
Pugia o dove besognerà (ib. P. 423).
Come poi più avanti meglio vedremo, le fuste erano quelle minori galee alle quali poi, già
dal Duecento a Pisa e dal Trecento a Venezia, si cominciavano a preferire le galeotte,
essendo appunto queste vascelli di dimensioni intermedie tra quelle di fuste e galee; infatti i
francesi ponentini, poco esperti di nautica mediterranea, le chiamavano galeotte. Gli
schirazzi erano anch’essi imbarcazioni remiere, ma turche e da trasporto (ltm. trajicientes),
simili, dice il Malipiero, ai burchi da legne, cioè a delle imbarcazioni (vn. barchesi) lagunari e
fluviali spinte da pertiche puntate sui fondali e alle quali si affidavano tanti compiti, specie
quelli pubblici appunto del trasporto di grosso legname da costruzione e dei rifiuti, nome
che deriva dal cast. burcho, dallo stesso significato, come meglio spieghiamo in altra
nostra opera; probabilmente erano protetti da una tenda bianca perché il loro predetto
nome, il quale era quello dato da noi italiani e non dai turchi, veniva dal gra. σϰίρον, cioè
‘ombrello bianco da sole’, da cui l’accr. It. schirazzo, ‘grosso ombrello’. Infatti il il
gentiluomo cortigiano francese Jacques de Villamont, il quale nel 1589, tornato dal
pellegrinaggio in Terra Santa, si recò da Venezia a Padova approfittando appunto di un
burchio che faceva quel percorso, ricorda la comodità di quelle barcacce mercantili e nei
suoi appunti scrive che erano completamente coperte; evidentemente lo erano per riparare
dal sole le merci più deperibili (J. De Villamont, Les voyages. Arras, 1606):
… Questo mi dette motivo di lasciare Venezia solo per imbarcarmi in una delle barche che
ogni giorno vanno da Venezia a Padove, tutte coperte e comodissime, costando a persona
solo sedici soldi veneziani, che sono sei soldi dei (francesi) nostri, per andare a Padove,
dove sono venticinquemila abitanti. In dette barche si trova comunemente gente di varie
nazioni e conviene ai più esser modesti quando si parla per evitare di trovarsi in qualche
incidente, perché la maggior parte di quelli che vanno e vengono indossano giacchi di
maglia sono pronti a pugnalare.
Navigando così cinque miglia di mare, giungemmo al traghetto di Lizza Fusina (‘rettilineo
color fuco’), che è alla foce del mare e del fiume Brenta, il quale traghetto somiglia ad un
grandissimo marciapiede che separa il mare dal fiume, però il luogo dove si innalzano le
barche è fatto di legno, sul quale, mediante certe macchine che un cavallo fa girare, le
barche sono elevate in un momento dal mare al fiume. Il motivo per cui questo traghetto fu
costruito fu quello di preservare e impedire la mescolanza dell'acqua dolce con la salata,
perché da Lizza Fusina (quella) si trasporta in battello fino a Venezia. Quantio a Venezia, c’è
un numero infinito di pozzi e di cisterne allo scopo di servire .la gednte comune che non ha
la comodità di avere pozzi o cisterne nelle loro case.
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Da Lizza Fusina si può andare, se si vuole, in carrozza a Padova, tuttavia il corso dell’acqua
è più gradevole grazie ai bei palazzi che sorgono sulle sue rive. Dopo aver superato Dolo e
altri villaggi che si affacciano sul fiume, arrivammo all'antica città di Padova.... (ib. L. III.)
Dovendosi però far tornare al normale uso di guerra i suddetti vascelli remieri, a bordo di
questi si liberavano le due posticcie (l. pusticae), cioè le due grosse travi laterali fuori-bordo
di cui poi diremo, dalle due file di falche (‘barili’) che spesso, per guadagnare spazio,
proprio su quelle poggiate tra scalmo e scalmo in due file spesso si portavano, e si
potevano così istallare da 80 a 100 remi per navigare vogando; a Venezia c’era infatti il
modo di dire ‘caricare le galee di spoglie fino alle posticcie’, quando cioè in guerra si era
fatto così tanto bottino da doverne sovraccaricare vergognosamente i vascelli (ib. P. 376).
Tornando però ora ai modi di veleggiare, diremo che il navigare alla latina era invece più
tipico del Mediterraneo, mare per lo più non soggetto a violente tempeste perché riparato
dai forti venti, dove le traversate erano molto più brevi per via dei numerosi golfi e isole che
vi si trovano e dove in effetti gran parte della navigazione era un semplice randeggiare o
cabotare [fr. cabot(t)er, arriver, tanger la coste, courir terre à terre], termine quest’ultimo
che non deriva affatto, come alcuni paradossalmente credono, dal cognome dei famosi
navigatori veneziani di lungo corso Giovanni e Sebastiano Caboto, quest’ultimo dapprima -
cioè dal 1518 - piloto maggiore (gr. ἀρχῐϰῠβερνήτης) di Carlo V, bensì dallo spagnolo con il
significato di navegar de cabo en cabo; questo tipo di navigazione, unico prima
dell’invenzione della bussola [ctl. brúixula; cst. brújula, brújola, aguja de marear; fr.
boussole, ma specialmente compas de mer ou de rout(t)e; ol. volet, zee-kompas], diventerà
poi, con l’evoluzione delle tecniche veliche, prerogativa dei vascelli corsari non da guerra
(ltm praedales), i quali usavano appunto tendere le loro insidie soprattutto ai numerosi
mercantili (gr. φορταγωγοὶ νῆες; gr. ναυτιϰαί φορτίδες; cst. naos merchantas) che si
potevano incontrare nei pressi delle coste, il qual modo di corseggiare, cioè il limitarsi ad
affrontare i soli mercantili al fine d’arricchirsi senza rischio né fatica, dicevano i francesi
courir le bon bord. I vascelli latini erano pertanto di forma più leggera, bassa, stretta e
allungata, forma che permetteva quindi una maggior speditezza e che, come vedremo, era
comune anche ai vascelli spinti sia dalle vele da taglio sia dai remi.
Iniziando ora a parlare dei vascelli detti quadri o tondi, a seconda che ci si riferisse alla loro
velatura o al garbo (‘forma’) del loro scafo, premetteremo un altro paio di nomi, questi meno
comuni, con i quali essi erano conosciuti e cioè vascelli navareschi, per via del loro timone
multiplo, molto comune e detto appunto alla navaresca (l. ad navarescham) o anche alla
navarola, cioè ‘alla navesca’, a mo’ di nave (nulla a che fare quindi con la Navarra), e infine
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talora il nome del santo protettore attribuito al loro modello. Questi vascelli tondi, i quali, a
motivo della loro grande capacità, erano ovviamente soprattutto da carico, ma spesso
erano usati anche armati a guerra, specie i più leggeri e manovrabili, presentavano una
tipologia molto varia, a seconda del loro garbo [fr. gabari(t)], ossia delle proporzioni delle
loro parti principali, e si avevano quindi la nave propriamente detta [gr. ναῦς; gri. νηῦς; fr.
nef, nav(ir)e], nome questo che viene dall’antichità, la caracca (prt. & sp. carraca, il galeone,
il bertone, l'urca, la marsiliana, la caravella, la polacca, la sultana, la germa, il caramusale o
caramusalino, la palandaria o parandaria, lo schi(e)razzo e il garbo, essendo gli ultimi sei
vascelli turco-levantini; infatti, sin dalla fine del tredicesimo secolo i turchi - come presto
scriverà lo storico bizantino Niceforo Gregoras (c. 1296-1360), approfittando dello stato di
debolezza politica, militare e soprattutto economica che in quei tempi l’impero romano
d’oriente stava attraversando, avevano iniziato a formare una loro potente marineria corsara
– in seguito anche commerciale e militare, con la quale avevano preso a scorrere e infestare
pressocché indisturbati tutto l’arcipelago greco (Historiae byzantinae. L. VIII, par. 10).
Erano invece nel Cinquecento ormai obsoleti nomi quali il tardo-latino concha (‘vascello
tondo’), ancora in uso nel Trecento e da cui l’it. cocca e il derivato francese coque (ltm.
coho-nis, cogo-nis, caucha; frm. quoquet; lem/ctm. cocha; td. Kogge; i. cock-boat)), il latino
gaulus, gli antichi greci παρὢν, ϰάρἂβος, ϰάνθαρος, σϰιόθηρα (‘peschereccio di Chio’), i
τρίηρον o τρηρόν menzionati da Esichio e da non confondersi ovviamente con τριήρης, cioè
con la grande trireme, i ῥαμφίς e i ῥώνιξις, il primo marino e il secondo fluviale, anch’essi
ricordati dal predetto autore; il bizantino ϰαράβιον (da cui ϰαραβιτής, ‘marinaio’), i catalani
rampín e brisa, i genovesi buto e butetto (‘botte’ e ‘bottino’), il siciliano tafureya, gli italiani
beltresca, barbot(t)a e gatto. Infine l’oneraria e porta-cavalli tareta (dal ltm. tara, ’unità di
misura di peso medievale’, quindi ‘peso, carico’), ma chiamata poi tarida, tareda, tarada e in
lem/ctm. terides, un tipo di naviglio questo molto comune nei mari del Tirreno e dello Jonio,
ma non dell’Adriatico perché i veneziani non lo usavano; infatti lo dicevano tipico dei
genovesi, ai tempi in cui questi possedevano l’importantissimo lo scalo di Peyra,
anticamente detta Galate, sito di fronte a Costantinopoli:
Resisterà invece ancora per secoli il catalano ganguil, grossa imbarcazione da pesca d’alto
mare a due prue contrapposte, un albero e coperta. A proposito di cocca, nel Chronicon
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Richardi de Sancto Germano (1189-1243), laddove si narra della presa crociata della città di
Damiata avvenuta nel 1217, si dice che i cristiani, per assalire la città dal mare,
noleggiarono una nave (una conducta cochone) e la munirono di cuoi freschi (coriis
morticinis) e di quant’altro necessario per difenderla dalle materie incendiarie che gli
assediati le avrebbero lanciate dall’alto; troviamo poi sia cocca che cogga nelle cronache
dei Villani in relazione all’anno 1304 (o comunque a un anno molto a questo vicino) e nel
Chronicon tarvisinum del de Redusiis; fu poi nell’Adriatico molto generalizzato assumendo
il senso di vascello tondo in generale, per cui per esempio verso la fine del Trecento, con
regolamento decretato ill 25 maggio 1396 dal senato veneziano, si concedeva che i traffici
commerciali tra Venezia ed Alessandria d’Egitto potessero avvenire, oltre che a mezzo delle
solite galee mercantili, anche tramite coche, da una o due cohoperte (’ponti’) che fossero e
si trattava di un regolamento molto dettagliato, tra l’altro anche per quanto riguardava le
merci caricabili e le linee di carico non oltrepassabili (Hippolyte Noiret, Documents inédites
pour servir a l’histoire de la domination vénitienne en Crete de 1380 a 1485 etc. Tomo VI. Pp.
78-81. Parigi, 1892); ma a partire dal secolo successivo detto nome comincerà nell’oceano a
scomparire a favore di quello tutto portoghese di caravella (dal gr. ϰάραβος, ‘granchio’, un
vascello a parziale velatura latina) e nel Mediterraneo invece a favore della locuzione di
barza di Spagna:
… In questo medesimo tempo certi di Baiona in Guascogna con loro navi, le quali chiamano
‘cocche’, passarono per lo stretto di Sibilia (‘Gibilterra’) e vennero in questo nostro mare
corseggiando e feciono danno assai; e d’allora innanzi i genovesi e viniziani e catalani
usarono di navicare con le cocche e lasciarono il navicare delle navi grosse per più sicuro
navicare, e che sono (le cocche) di meno spesa; e questo fu in queste nostre marine grande
mutazione di naviglio (Villani, Nova chronica, p. 140).
tempi non l’aveva nemmeno a quell’albero e che proprio in seguito alle nuove necessità
portate dalla navigazione transoceanica vi fosse poi stata applicata; infatti Pietro Martire
d’Angheria, il quale conosceva personalmente Colombo, nel suo De oceaneae decadis liber
primus, scritto nel 1493, così scriveva dei vascelli assegnatl dai sovrani di Spagna al
grande genovese per il suo primo viaggio al Nuovo Mondo:
… dal Regio Fisco (gli) furono destinati tre vascelli: un cargo da gabbia (cioè una nave) e
altri due da commercio più leggeri e senza gabbie che dagli spagnoli sono chiamati
‘caravele’ (In De rebus oceanicis et orbe novo decades tres etc. F. 1 recto. Basilea, 1533).
… xvii ad secundam expeditionem navigia parari iubent, tria oneraria caveata magna, xii id
genus navium quas dici apud hispanos caravelas, scripsimus, sine caveis. Eiusdem generis
duas aliquanto grandiores atque ad sustinendas caveas propter malorum magnitudinem
aptas (ib. F. 2 verso).
La caravella doveva essere considerata nel Mediterraneo un vascello molto agile e veloce
se agli inizi del 1405 vediamo una galea veneziana portare appunto l’improprio ma
evidentemente elogiativo nome di Caravella (H. Noiret, cit. P. 155). Non abbiamo in effetti
trovato altri autori che accennino a quest’interessantissima rivoluzione nautica avvenuta
nel Mediterraneo all’inizio del Trecento, ma la descrizione e l’evoluzione della marineria nel
Medioevo, materia diversa, non è l’oggetto di questo nostro studio.
La denominazione dei vascelli tondi derivava comunque spesso, oltre che dal loro garbo,
anche dal paese in cui quel particolare tipo di vascello quadro soprattutto si costruiva e
usava e si avevano quindi la nave ragusea, la biscaglina, la valenziana, la genovese,
l'inglese, ecc. Ragusa in Dalmazia, per esempio, era rinomata per la costruzione di galeoni, i
migliori del Mediterraneo:
... de gli artefici o maestranze de' galeoni sono più in numero e forse più prattichi in questo
mare i ragusei, poscia che essi non fanno altra sorte di vascelli. (Bartholomeo Crescenzio,
Della nautica mediterranea etc. L. I, p. 4. Roma, 1607.)
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Eccelleva in questa costruzione a Ragusa, nella seconda metà del Cinquecento, la famiglia
dei Sagri, soprattutto il capitano Nicolò, autore di varie opere sulla navigazione, Giovanni
Maria suo fratello, inventore di speciali scialuppe di salvataggio munite di coperta (con che
ogni ora mille ne' naufragij salvano le vite che prima perdevano) e mirabile architetto di navi
e galeoni, così come lo era anche suo nipote Francesco. Peccato che il Crescenzio, che ci
ha lasciato queste notizie, non ci dica anche qual era il segreto costruttivo delle predette
scialuppe di salvataggio; probabilmente si trattava di quelle che usiamo ancor oggi e cioè di
imbarcazioni fornite di casse d'aria impermeabili che le rendevano pertanto inaffondabili
anche se si riempivano d'acqua; il Crescenzio solo così ribadirà più avanti:
... barche, come quelle delle navi [...] con le sue coperte, conforme che alla moderna si
usano... (ib.)
Vascelli ragusei (navi, caracche e galeoni) con equipaggi d’albanesi in genere, cioè di gente
proveniente da paesi allora neutrali tra cristianità e islamismo, servivano spesso come
vascelli mercenari nell'armate cristiane, trattandosi d’una delle migliori marinerie a vela del
Mediterraneo e ciò ancora a Seicento inoltrato; per esempio in un real ordine spagnolo del
17 febbraio 1623, con il quale s’imponeva al regno di Napoli l’arruolamento d’un tercio
(‘reggimento’) di 1.500 fanti da inviare all’armata oceanica della Spagna come sua nuova
fanteria di marina, tra l’altro così si legge:
… que esta gente se ha de conducir en los galiones arraguses que por assiento se van a
servir…
Ma parleremo ancora dei galeoni; invece passiamo ora alla descrizione dei principali tipi di
vascelli tondi che si usavano nel Mediterraneo o che lo frequentavano. La nave
propriamente detta aveva la mezzania spiccatamente insellata (fr. vaisseau gondolé) ed era
di forme larghe e grosse sia dalla parte della prua (gr. πρώρα; fr. prouë; cap; ol. boeg; voor-
ship, neus, hoofdt, borst) sia ai fianchi (gr. πλευραί), ma si restringeva alquanto alla poppa,
la quale da dietro finiva in forma piatta; essa era alta sia nel corpo, detto anche fusto (‘palo,
legno lungo’; sp. fusta) o guscio [fr. r(o)uche; ol. romp], sia nelle principali opere morte,
cioè in quei palchi di poppa e di prua – e talvolta anche di mezzania - chiamati sia castelli
[dal l. castr(ell)a, luoghi recintati e fortificati)] sia baluvari, perché ricordavano i baluardi
delle fortezze di terra, sia anche cassari, essendo pure questo nome di origine terrestre
perché dall’itm. c(h)assaro, torrione, luogo murato elevato (vedi infatti il Libro dei Cassari e
dei Fortilizi del Comune di Siena, sec. XIV) e dal quale quindi anche deriva l’ar. al-Cazar e
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non viceversa, come erroneamente si crede; infine in lm. anche buttifredi, quando costruiti
per la guerra:
… et ibi conduci fecit totum navigium Ferrariae, scilicet sex galeas, unam mazimam navim
castellatam cum tribus buttifredis et duobus pontibus et uno lupo (l. class. rostro; gra.
ἒμβολον; ctl. rampín), et plures alias naves, galiones… (Chronicon estense etc. In L. A.
Muratori, Rerum italicarum scriptores etc. All’anno 1308. T. XV. Milano, 1729.)
Premesso che di un galione marino pisano si parla già negli Annales januenses raccolti dal
Caffaro e precisamente all’anno 1203, anche se lo si descrive in fuga da due galee gelovesi,
la nave, oltre a essere un vascello molto castellato, si distingueva anche per avere due
coperte o ponti (cst. navios doblados) o anche tre, a seconda della sua grandezza, delle
quali la mezza coperta sotto l’albero di mezzana era talvolta chiamata, specie in spagnolo,
anche tolda (fr. dernier pont). La nave di gabbia, aveva una capacità di carico molto
variabile, la quale poteva infatti andare generalmente dalle 200 alle duemila botti di portata
(fr. portage; ol. groote, dragtbaarheid), corrispondendo il barile a duemila libre, quindi
possiamo anche dire dalle 800 alle 8mila salme di capacità, tenendosi conto che nella
marineria medioevale e proto-moderna le 400 botti di portata facevano all’incirca da confine
tra i vascelli considerati medio-grandi e quelli invece medio-piccoli; ma come si faceva nel
Cinquecento a calcolare la portata di carico d’una nave, ossia il volume di mare che esso
occupava affondandovi? Prendiamo per esempio una nave lunga da ruota di poppa a ruota
di prua (e vedremo poi che significa) piedi veneziani 90, larga al centro, all'altezza della
seconda coperta, 30 piedi e alta dal fondo del madiero di sentina (gr. ἀντλία; ol. durk, sood )
al madiero della seconda coperta piedi 15; moltiplicando queste tre predette misure tra di
loro si ottiene il prodotto di 40.500, dal quale si toglie un terzo, e dal resto, cioè da 27mila, si
toglie ancora il 5%, ossia 1.350; poi il residuo 25.650 si divide per 10 e il risultato finale di
2.565 rappresentava il numero delle salme generali di Sicilia che poteva contenere la
predetta nave; tutto questo ce lo insegna il già citato Crescenzio. Ci conviene però a tal
punto, per una miglior comprensione, cercare di rapportare le misure di capacità usate in
quel tempo a quelle odierne e diremo che la salma generale di Sicilia era una misura di
capacità che corrispondeva a un rubbio romano di grano, cioè era all'incirca 275 litri; sette
salme generali erano quasi un carro di Napoli e ogni carro era 36 tomoli di Napoli; ogni
tomolo era poi circa 55 litri e mezzo, per cui un carro era una capacità d’un po' meno di
2.000 litri; 3 tomoli equivalevano a 2 staja o stari veneziani e 5 salme generali a circa 16
stari; 3 stari corrispondevano poi quasi a un rubbio e quindi a una salma generale; infine, a
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uno stajo e mezzo equivaleva la mina romana, essendo quindi quest'ultima un mezzo
rubbio. Riassumendo ora quindi queste principali misure grosse italiane di capacità:
Grossissimi vascelli da carico a due o tre coperte (fr. anche tillacs), le più grandi del mondo,
erano le caracche (prt. ca(r)racas; ol. karaken; kraaken), nome che sembra derivare dall’gr.
χάραξ¸ αϰος, ‘palo, palizzata’, quindi anche ‘murata di legno’, oppure dall’gr. χαράσσω,
‘fendo, solco’ (in questo caso il mare), specie quelle portoghesi che circumnavigavano
l’Africa e andavano in Oriente; queste ‘pescavano’ tanto da aver bisogno perlomeno di 10
braccia di profondità d’acqua per navigare (gra. πλεῖν, πλωίζειν; grb. πλῴζειν) e quindi
erano particolarmente fatte per navigare in alto mare (gr. πελᾰγίζειν); i lusitani le
mandavano a commerciare in Brasile e nelle Indie Orientali, ma le usavano anche i genovesi
e cavalieri di Malta. Di questi grandi vascelli mercantili oceanici portoghesi che facevano
rotta verso le Indie Orientali si fa menzione anche in una relazione sul Portogallo del 1588:
… Partono per l'ordinario il mese di marzo quattro o sei navi grandissime e molto forti di
legname cariche di soldati e di molte meranzie, le quali non ritornano più quell'anno talché
ogni muda di naui stà fuori 8 mefi; ma ogn'anno di marzo se ne parte una compagnia ogni
settembre se ne parte un'altra. Queste naui si dividono in caricare parte nell'Africa e parte
nell’Indie e in Asia. E perché nel ritorno non hanno se non li marinari e pochi mercanti, se
gli mandano incontro sei galeoni benissimo armati sin quasi al Capo Verde, per assicurare
la flotta da’ corsari francesi ed Inglesi, i quali, se intendessero che venissero le navi
dell'Indie (da sole), andariano a prenderle, come hanno fatto altre volte, depredando anco
l'Isola di Madera (In Accademia italiana di Colonia, Tesoro politico, cioè relationi,
instruttioni, trattati, discorsi varij di ambasciatori ecc. T. I, p. 223. Colonia, 1598).
Si trattava quindi di grossi vascelli dalla portata lorda di 1.500/2mila botti o tonelli (da
‘tonno’, perché quello salato si trasportava appunto nei barili; da ciò poi appunto
‘tonnellata’), intenendosi allora per tonello - o botte o pipa - venti quintali da cento libre
ognuno e non da cento chili come oggi, mentre per tonnellata si intendeva il doppio del
barile (sp. pipa), ma era la tonnellata misura allora solo teorica, in patica non usata;
avevano lo scafo più stretto in alto che in basso, non tanto lungo né largo, bensì molto alto,
arrivando ai 30 piedi dalla carlinga al centro della coperta e 50 alla sommità dei castelli di
poppa e prua, essendo suddiviso anche in quattro alti oppure in sette od otto piattaforme
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da carico; a tali piattaforme s’accenna in una citazione fatta dallo Jal, a proposito d’una
carraca portoghese predata dall’inglese John Barrough nel 1592:
... Questa carraca, dice l'autore inglese, era del porto di milleseicento botti, di cui novecento
di mercanzie; portava trentadue pezzi di artiglieria di rame (‘bronzo’) e da sei a settecento
uomini. Aveva ponti che formavano sette piani, uno ampio e inclinato, molto insellato da
dietro in avanti (cioè il ponte di coperta), tre ponti riavvicinati uno all'altro [...] un castello
davanti e un ponte volante […] di due impiantiti l'uno e l'altro... (Auguste Jal, Archéologie
navale. T. I. Parigi, 1840.)
Tale vascello misurava in piedi inglesi 165 di lunghezza massima, 47 di larghezza massima
e 100 di lunghezza di chiglia; il suo albero di maestra misurava piedi 121 d’altezza ed 11 di
circonferenza, il suo pennone di maestra era lungo 106 piedi.
In questi più grandi vascelli si notava dunque una corsia sopraelevata coperta che univa il
cassero di poppa al castello di prua e della quale ci si potesse servire per soccorrersi
reciprocamente in combattimento e, probabilmente, come ancora oggi in molti cargoes,
anche per andare da un'estremità all'altra della nave senza farsi portar via dall'ondate di
burrasca che talvolta spazzano la coperta. Probabilmente era questa sovrastruttura, allora
evidentemente nuova, a cui circa un secolo e mezzo prima, cioè il 5 agosto del 1435, si
erano riferiti gli aragonesi nel descrivere l’armata genovese con cui stavano, con esito
sfortunato, per scontrarsi nelle acque di Ponza:
… e i genovesi (con le loro galere e galeotte) trainavano tredici carrache, otto delle quali
erano maravigliosamente grandi e con castelli molto strani e nella più piccola d’esse
venivano quattrocento e più combattenti e nelle altre più di seicento, mentre in quella del re
d’Aragona ne venivano ottocento… (Raccolta di cronache meridionali inedite, B.N.N. Sez.
Nap. II.B.2.)
In ogni caso, passaggio pedonale sopraelevato a parte, sulle navi da carico del passato
bisognava aver cura di lasciare un corridoio libero in coperta, il quale andasse da poppa a
prua, per potervi trasportare (ltm. trajiciere) grossi oggetti o merci in caso di necessità;
nell’antichità romana questo passaggio si chiamava via agea, da agĕre (‘spingere innanzi’).
Questi grandi vascelli potevano dunque imbarcare sino a 1.300 uomini, di cui 700 od 800
soldati, anche se in effetti erano inadatti alla linea di combattimento, soprattutto perché, pur
essendo dei buoni velieri col vento in poppa, non valevano niente col vento di bolina;
portavano 35/40 cannoni tutti di bronzo, quindi pesanti dalle tre alle cinquemila libre
ognuno, non usando i portoghesi fondere anche in ferro i pezzi di marina maggiori, come
invece facevano i francesi per sovraccaricare di meno i loro vascelli, e da un numero di
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spingarde e petrieri, bocche minori con le quali armavano anche le grandissime coffe,
capaci ciascuna anche di 10/12 d’uomini, e costruite su alberi così enormi che la loro
costruzione affastellata doveva essere tutt’altro che semplice. Il gran peso delle artiglierie in
bronzo era necessario a queste carrache portoghesi, perché, a causa della loro pericolosa
struttura troppo alta e relativamente leggera, quando erano poco cariche diventavano
soggette a rovesciarsi; occorreva quindi, oltre alla consueta zavorra (l. saburra; ts. saona;
itm. taia; gr. ἒρμα, σάβουρα; grb. Σαβούρα; cstp. lastre), un gran peso di carico che
n’aumentasse il pescaggio [fr. tirant (de l’eau); ol. peil(ing), water-dragt] e le rendesse così
sufficientemente stabili; la loro ammiraglia (gr. στρατηγίς) era chiamata dai portoghesi a
Grande Nau. A proposito di questi grandi vascelli in una dissertazione anonima spagnola,
presumibilmente scritta nel biennio1581-1582, in cui si discettava su quali obiettivi militari
fosse meglio porsi dopo la recente conquista del Portogallo, così si diceva delle grandi
forze di mare allora a disposizione del re di Spagna:
… per il grande apparecchio d’armata che egli si trova in essere, che non solo è tutto quello
che fece l’anno addietro l’impresa di Portogallo, ma cento e cinquanta navi di più
conquistate in quel regno, le quali prolungate (‘poste in fila’?) e per la grandezza loro
empirono di stupore non che altro il mare istesso. (Cit.)
E d’altra parte la circumnavigazione dell’Africa e soprattutto del suo terribile Capo di Buona
Speranza, tanto praticata dai portoghesi, aveva costretto, allora come oggi dopo la chiusura
del Canale di Suez del 1967, al gigantismo navale. I comandanti delle caracche portoghesi
provenienti dall’Indie Orientali, una volta arrivati all’isola di Sant’Elena, facevano affondare
le loro scialuppe (l. scaphae; ct. barcas; gr. σϰἇφαι, σϰᾰφίδες, σϰᾰφίδια, ἐφόλϰια) e i loro
canotti (gr. σϰάφια) di servizio in modo da togliere ai loro marinai la possibilità di
fuggirsene subito nei loro paesi prima ancora che si arrivasse a destinazione;
evidentemente dopo un viaggio così lungo e stancante infatti i marinai (gr. ναύται,
βᾰρίβαντες; fr. compagnons) dovevano aver paura d’esser subito costretti a reimbarcarsi
per qualche nuova lunga assenza da casa. Altro aneddoto interessante che riguarda questi
vascelli era il chiamarsi – ancora nel Settecento – la più fine porcellana d’Olanda Kraak
Porzellan (‘porcellana di caracca’), nome che ricordava infatti le prime finissime di Cina che
tali vascelli portoghesi avevano nel passato portato in Europa, mentre quelle che ancora
adesso portavano non erano ormai da tempo più di tale raffinata fattura ed erano divenute
quindi molto più dozzinale ed economiche. Per terminare il discorso sulle caracche, diremo
che non si può pensare che il nome possa derivare dalle caracόas filippine, ma sebbene il
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contrario, in quanto queste erano legni molto poco evoluti, a trazione remiera e privi di
ponte:
In generale gli alberi maggiori dei vascelli tondi di un minimo di 100 tonelli di portata (navi,
galeoni, caracche, ecc.), quindi di quelli a prevalente vela quadra (cioè maestro, mezzana e
trinchetto, escludendosi pertanto bompresso e contramezzana) si dividevano in due o tre
tronconi inchiavardati, cioè, partendosi dal basso, maestro (fr. grand mât), trinchetto (fr.
mât de hune) e parucchetto [fr. mât de (du grand) perroquet o arbre du papafique], ognuno
dei quali reggeva una vela (gr. ιστίον); le vele della nave erano da sette a 12, delle quali una
o due latine. L'albero di maestra si diceva e scriveva álbor mayor in spagnolo, (grand-)mât o
(grand-)mast in francese, groote mast e middel-mast in olandese, (main) mast in inglese,
trattandosi dell'antica sincope commerciale italiana ma.st. (magister), in quanto era di
competenza diretta del magister navis (gr. ναυϰλήρος), cioè dal comandante mercantile in
persona, mentre la manovra del trinchetto era comandata dal nostromo (l. gubernator, gr.
ϰυβερνῆτης, fr. maître-d’équipage; nocher; ct. notxer; ol. boots-man; sp. maestre). Nei
grandi vascelli da guerra, non potendovi il capitano interessarsi di tutto, a prua, al di sopra
del nostromo, comandava il comandante in seconda (fr. contre-maistre o second maître), il
quale colà pure alloggiava con la gente appunto addetta alla manovra di prua e la
necessaria attrezzatura (pulegge ecc.); si trattava cioè della camera sita tra il trinchetto e le
bitte per le gomene e che i francesi chiamavano fosse à lion, forse perché anticamente vi si
rinchiudevano le belve feroci che dall’Africa si trasportavano in Europa per gli spettacoli
circensi. Il termine mast fu poi esteso a tutti gli alberi della nave nella marineria oceanica,
mentre in quella mediterranea il francese usava invece arbres e quindi arbre-maître per
albero-maestro e così via. Quest'albero, piantato nel mezzo della nave in un buco quadrato
scavato nella carlinga o contro-chiglia, reggeva la vela quadra dalla quale prendeva il suo
nome e cioè la maestra [l. acatium; fr. cape, grande voile, grand-pa(c)fi; ol. schoover zeil,
groote zeil; sp. vela mayor], la quale era la maggiore; sopra d’essa, al calcese (dal l.
carchesium), si metteva un’altra vela quadra più piccola chiamata trinchetto di gabbia (fr.
grand hunier; sp. vela de la gavia) e, in caso di vascelli particolarmente grandi come per
esempio i galeoni portoghesi, sopra quest'ultima, quando la mitezza del vento lo
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permetteva (fr. tems à perroquet), si poneva una terza vela quadra ancora più piccola detta
perucchetto [da perucca, ossia parrucca, in quanto questa è un capo d'abbigliamento che
sovrasta tutti gli altri; fr. (grand) perroquet; ol. bram-zeil e il relativo troncone bram-steng];
detto per inciso, Perucca o Peruca fu il cognome o soprannome con il quale era conosciuto
uno dei due più famosi corsari napoletani, essendo l’altro Franzino Pastore, i quali nelle
guerre tra angioini e aragonesi della fine del Quattrocento per il dominio del regno di Napoli
continuarono ambedue a servire fedelmente i secondi anche quando la fortuna piegava
dalla parte dei primi; cosa che del resto fecero anche i notissimi corsari catalani Villa
Marino e Francesco di Pau. Bisogna però dire che l’uso dei parrocchetti riguarda
soprattutto i vascelli da guerra (gr. στρατιῶτιδες νῆες, nel Polluce anche στρατηγία) e che i
mercantili li portavano raramente; infatti, quando un galeone o una nave armata a guerra
voleva attirare un legno corsaro o pirata lontano facendosi credere un semplice mercantile,
per prima cosa ammainava i pennoni di parrocchetto con le loro eventuali vele, poi
nascondeva le sue gallerie di poppa, se ne aveva, stendendovi intorno delle tele impeciate
in modo da nasconderle a un occhio lontano, poiché anche queste ultime distinguevano in
genere il vascello da guerra; da queste costruzioni presero poi il loro nome le gallerie
architettoniche di cui nel Medioevo si cominciarono a dotare talvolta più importanti edifici
terrestri.
All'albero di prua si poneva una vela detta trinchetto (l. dolon), nome che si estese poi a
tutto l'albero che la reggeva e che, derivando dal latino triquetrus (‘triangolare’), sta a
significare che in origine doveva essere una vela latina; sopra di questa se ne innalzava una
minore detta anch'essa trinchetto di gabbia, come quella corrispondente dell'albero di
maestra, e, se il vascello era grosso, come per esempio i predetti galeoni portoghesi, anche
quest'albero portava in alto il suo parucchetto. All'estrema prua c'era la zevedera, vela
tipica dell'albero inclinato in avanti sullo sperone e quindi sulla serpe (fr. estrave, êtrave,
poulaine, bouline; a Marsiglia serpe) e che portava lo stesso nome di zevedera, ma che sarà
invece sempre più conosciuto come bompresso (ol. boeg-spriet; sp. bauprés). Era la
zevedera una vela tanto bassa da toccare quasi il mare e pertanto presentava due grandi
buchi in corrispondenza degli angoli inferiori, buchi che servivano a far defluire l’acqua
marina che di tanto in tanto vi si depositava; essa sarà dimessa in Francia nella prima metà
del Settecento, mentre le altre potenze marittime lo faranno più tardi, ancora
considerandone i vantaggi che portava maggiori degl’inconvenienti.
L'albero di mezana situato a poppa, prendeva il nome dalla sua generalmente unica vela,
cioè appunto la mezana (l. epidromus), nome a sua volta dovuto all’essere questa la vela di
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dimensioni mezzane tra la maestra e il trinchetto di prua; si trattava per lo più dell’unica
latina della nave e si manovrava sopra il cassero di poppa. I francesi lo chiamavano mât
d’artimon, ma anche mât de fougue o de foule o d’arriére (ol. besaans-mast), così come
chiamavano artimon anche la relativa vela, e per loro le mât de misaine o mizaine o miséne
era invece quello d’avanti di trinchetto (ol. fokke-mast, voor-mast), il quale però chiamavano
pure mât d’avant o de borcet, mâterel o mâtereau e nel Mediterraneo, specie nel caso dei
vascelli più piccoli, usavano anche loro il termine trinquet; la sua predetta generalmente
unica vela petit-pa(c)fi o pa(c)fi de borcet [ol. fok(ke)(-zeil)]. Più tardi nel secolo successivo,
quando i velieri saranno più grandi, l’albero di trinchetto potrà anch’esso esser composto
da due o tre tronconi e questi i francesi chiameranno mât de mizaine, hune de mizaine e
perroquet de mizaine, le rispettive vele voile de mizaine o pacfi de borcet, petit hunier e
voile du perroquet de mizaine. Anche bompresso e mezzana potranno comunque portare un
loro trinchetto e persino un loro parucchetto.
In conclusione le navi ordinarie portavano quattro alberi, sei vele quadre e una scalena, ma
le maggiori ne useranno poi anche 10 e cioè le seguenti:
Albero di maestra:
gran vela [fr. anche grand pa(c)fi(s), cape; ol. anche schoover-zeil]
gran gabbia (fr. grand hunier; ol. groot mars-zeil)
gran parrocchetto (fr. (grand) perroquet; ol. groot bram-zeil)
Trinchetto:
vela detta trinchetto (fr. miséne, petit pa(c)fi, pa(c)fi de bourcet; ol. voor-ast-fok)
piccola gabbia (fr. petit hunier; ol. voor-mars-zeil)
parrocchetto (fr. perroquet de mizaine; ol. voor-bram-zeil)
Bompresso:
zevedera [fr. voile du beaupré o sivadiere; ol. (groote)(onder-)blinde; eerste blindt,
onderste blindt]
parrocchetto [fr. tourmentin, petit beaupré; ol. boven-blinde, (kleine) bovenste) (tweede)
blindt]
Mezzana:
vela detta mezzana (gr. ἐπίδρομος; fr. artimon; ol. besaan, agter-zeil) parrocchetto (fr.
perroquet
de foule o de fougue o d’artimon; ol. kruis-zeil).
Si poteva però anche arrivare ad avere 10 vele quadre e due scalene, perché un galeone o
altro maggior vascello innalzava la contramezana, vela anch'essa alla latina, posta su un
quinto albero dallo stesso nome (fr. contre-misaine o petit artimon) e piantato ancora più
addietro di quello di mezzana, praticamente sulla poppa, come era appunto il caso dei
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grandi galeoni oceanici portoghesi del Cinquecento e dei galeoni in generale del Seicento, e
questo quinto albero poteva anche portare un suo perucchetto. Quello di maestra, quello di
trinchetto e quello di zevedera, poiché erano alberi che portavano vele quadre, erano
ovviamente corredati da un gran pennone; altri piccoli pennoni superiori reggevano i
perucchetti ed erano accomodati in maniera che facilmente si potessero alzare o abbassare
secondo il bisogno, mentre le vele latine erano, come nelle galere, sorrette da antenne (in
gr. ἐπίϰρια, ma, secondo il Suida, ai sui tempi questo vocabolo significherà invece ‘tavolati’
(Cit. T. I, p. 816).
Le vele quadre si facevano più strette in alto che in basso, perché il prendere troppo vento
in alto faceva appruare troppo il vascello e talvolta poteva provocarne addirittura il
rovesciamento. La velatura dei vascelli tondi si poteva aumentare con vele latine di straglio
(ol. stag-zeilen) oppure con le giunte, ossia con vele di coltellaccio, stretti teli di vele che si
affiancavano (fr. bonnettes en étuy, coutelas) o si attaccavano sotto (fr. bonnettes maillées)
alle vele ordinarie, le quali sotto presentavano appunto dei buchi (fr. yeux de pie, ‘occhi di
gazza’) fatti a questo scopo, affinché, con questa maggior superficie, prendessero più vento
quando questo era debole; inoltre bisogna dire che i velieri destinati a navigazione
equatoriale, cioè in mari che andavano soggetti a lunghe bonacce, potevano anche portare
doppi parrocchetti e che i mercantili, in caso di vento in poppa, usavano talvolta una vela
detta in francese tappecu, perché, essendo attaccata a un pennone posto sulla poppa,
finiva infatti per esser posta dietro quest’ultima; diremo ancora che gli olandesi, in caso di
bonaccia (gr. μᾰλᾰϰία; l. flustra, malacia) o di poco vento, usavano talvolta la cosiddetta
vela d’acqua [ol. (water-)(drijf-)zeil], cioè una vela stesa anche questa dietro la poppa (gr.
πρύμνᾰ, πρύμνη; fr. anche queüe) del vascello, ma più in basso della precedente e ben
fissata lateralmente, in maniera che, essendo la sua parte inferiore immersa nell’acqua,
venisse così spinta anche dalla corrente marina, e la consideravano un accorgimento utile
anche ad aumentare la stabilità del vascello riducendone il rollio. Andandosi avanti nel
tempo si arriverà ai grandi velieri da guerra del Settecento e poi soprattutto dell’Ottocento
in cui la suddetta velatura sarà ancora più differenziata e complessa; nell’antichità invece,
cioè quando l’alberatura (sp. palazón) era stata ovviamente molto più semplice rispetto
all’epoca che stiamo considerando, le vele usate erano perlopiù tre, chiamandosi in greco la
maggiore ἀϰάτιος, la minore δόλων e quella di mezzana (quando presente) ἐπίδρομος,
cominciandosi poi più tardi a usarne una non rettangolare ma scalena e cioè l’artimone (gr.
ἐπισείων): Secondo il Polluce, c’era ancora un'altra vela di riserva, detta in gr. λοίπαδος (da
λείπειν, ‘tralasciare, tenere da parte’; cst. vela de respeto), vela che però egli non sa ben
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qualificare, ed è probabile che si trattasse di una vela ‘di fortuna’, cioè da usare in caso di
tempo burrascoso, insomma di quella che, come poi vedremo, sulle galee rinascimentali e
successive si chiamerà trevo.
Quando il tempo era asciutto, le vele messe in opera andavano talvolta bagnate affinché,
restringendosi, trattenessero meglio il vento, lavoro che si faceva gettandovi sopra
dell’acqua a mezzo di cucchiare o secchie, ma gli olandesi lo faranno presto a mezzo d’una
specie di pompa.
Eccezion fatta di diversi tipi di vascelli olandesi in cui si sostenevano le vele, oltre che con
pennoni e antenne, anche con verghe a corno (ol. gaffel) o a buttafuori (fr. anche baleston;
ol. spriet), la predetta essenziale struttura e nomenclatura velica si può considerare comune
alla quasi totalità di quelli a vela quadra, quindi anche ai famosi galeoni. Quest’ultimo nome
si ritrova già nelle cronache del dodicesimo secolo perché nel Medioevo si era già
adoperato, ma non per grandi velieri, come più tardi, cioè a partire dal Cinquecento, bensì
per più piccoli vascelli remieri (gr. ἀϰάτια) che si usavano in gran numero in fiumi e laghi
per il commercio e per la guerra; ma lo vedremo più avanti. Ciò non vuol dire che vascelli
remieri maggiori non potessero, in caso di necessità, essere usati anche su laghi e fiumi
quando si trattava di acque sufficientemente ampie e infatti, verso la fine del 1478, prima di
decidersi a chiedere una dolorosa pace ai turchi, i quali, oltre ad assediare importanti
possedimenti veneziani in Albania, facevano razzie in Friuli e anche più in là, cioè in terre
del Sacro Romano Impero, i veneziani avevano preso in considerazione di soccorrere
l’assediata Scutari trasportando galee e fuste nel grande lago omonimo (D. Malipiero, cit.
Parte prima, p. 121).
Il primo grande galeone marino di cui abbiamo invece trovato memoria era stato fabbricato
a Pisa e faceva parte dell’armata francese che doveva assistere Carlo VIII nel suo ritorno in
Francia dall’impresa di Napoli; durante quel drammatico ritorno i genovesi gli catturarono 7
galere e appunto un grande galeone (uno galeone grosso fatto in Pissa) che avevano fatto
scalo nel porto di Rapallo (Diario di Giovanni Portoveneri dall’anno 1494 all’anno 1502.
All’anno 1496. A.S.I. Tomo VI. Parte II, sez. II. Firenze, 1845). Seguono poi quelli, anch’essi al
servizio francese, che sono ricordati nel De rebus genuensibus di Bartolomeo Senarega
all’anno 1510, anno in cui si combatteva nel Genovese un aspro conflitto tra ghibellini e
guelfi per il predominio su quella repubblica; i primi, allora padroni di Genova, preparavano
con i loro alleati francesi un’armata di mare per resistere a quella guelfa che si avvicinava;
tra i protagonisti di parte ghibellina troviamo anche un cavaliere giovannita, certo
Bernardino, esperto della costruzione di galeoni:
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Per galeoni e galioncelli s’intenderanno quindi da ora in poi non più solo i vascelli remieri
fluviali medio/piccoli forniti di gabbia - e se per uso di guerra anche di ballatoio laterale
esterno - che potevano essere monoponte o, i più grandi, biponte e che, come più avanti
vedremo, si erano molto usati nel Medioevo nei grandi fiumi e laghi dell’Italia settentrionale
(Po, Adige, Adda ecc.), ma grandi vascelli tondi velieri marittimi, grossi in genere un terzo in
più delle caravelle; perché però dei grandi vascelli potevano prendere un nome uguale a
quello portato da vascelli molto più piccoli e perlopiù remieri? Che cosa potevano avere in
comune? In realtà nulla. Infatti molto probabilmente quel galeone sta per galeonato, cioè ‘a
forma di galea’, e infatti quei non grandi vascelli fluviali erano considerati le ‘galee dei fiumi
e dei laghi’, mentre i grandi velieri marini dallo stesso nome erano così chiamati perché si
distinguevano dagli altri velieri per non aver castello a prua così come non lo aveva la
galea; infatti il bertone, tipico veloce vascello d’alto bordo inglese, il quale era privo sia del
cassero di poppa sia del castello di prua, era chiamato in Spagna e in Italia, per questa sua
caratteristica, ‘galeone dei britanni’. Dunque erano così chiamati unicamente per il loro
garbo di prua, che ricordava quello delle galee, e non perché la loro forma complessiva
facesse pensare al corpo del pescecane o squalo (γαλεός in greco antico), come alcuni già
dalla fine del Cinquecento erroneamente pensavano; insomma semplicemente perché non
erano naos de castil davante, come si diceva in castigliano medievale, cioè perché, proprio
come le galere, non avevano a prua una pesante sovrastruttura di opera morta, presentando
un forma più affusolata e oblunga di quella delle navi e delle caracche e godendo di
conseguenza di maggior manovrabilità e velocità. In ciò erano simili, oltre che alle galere,
pure alle caravelle, anch’esse prive d’incastellatura di prua, ma di quelle più grossi di circa
la metà; infatti, quando, alla fine del Quattrocento, si caricavano di soldati per uso di guerra,
su una caravella se ne imbarcavano circa 200 e sui galeoni circa 300. In seguito, nel corso
dei secoli, per i galeoni si cominciò però ad adottare una leggera e non alta incastellatura di
prua e quindi il significato originario del nome si perse. Insomma il nome non rappresenta
un semplice accrescitivo di galea, come si pensa, non essendo in spagnolo medievale,
come del resto neppure in italiano medievale, il suffisso -on allora considerato un
accrescitivo; infatti l’accr. di galea era, in spagnolo come in italiano, galeaza e non galeon.
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Quest’ultimo nome doveva dunque, come noi riteniamo, essere solo un accorciativo
tachigrafico di galeonado che finì per essere adottato anche oralmente, come a tante parole
secoli fa succedeva; vedi per altro esempio l’espressione inglese man’ of war (‘vascello da
guerra’), derivante dalla tachigrafia man. of war di after the manner of war, cioè (vascello
equipaggiato) a mo’ di guerra.
Premettendo che tutte le misure che da ora in poi daremo vogliono essere ovviamente solo
indicative, diremo che alla fine del Cinquecento un galeone ordinario era lungo da giogo a
giogo, quindi ruote di poppa e di prua escluse, 90-93 piedi per una larghezza di 30-32 e
un’altezza dello scafo pure d’un terzo pure d’un terzo della lunghezza. Infatti c'erano
all'incirca piedi nove dalla sentina alla prima coperta, piedi 6½ dalla prima alla seconda
coperta, in corrispondenza della quale anche il galeone raggiungeva la sua maggior
larghezza, e piedi 7¾ dalla seconda coperta alla prima; piedi cinque era infine la sponda,
detta pavesata o scalmata, anche se il secondo termine ovviamente molto di più si addiceva
a una sequenza di scalmi e quindi a un vascello a remi, cosa che un galeone non era
assolutamente. Per quanto riguarda poi la maggior larghezza frontale dei vascelli tondi,
diremo che essa era di regola a un terzo della sua lunghezza, partendosi dalla prua, e da
tale punto andava invece solitamente restringendosi gradatamente verso la poppa.
Il càzaro di poppa [‘cassero’; fr. chasteau, château, gaillard (derrière); ol. kasteel; schans,
agter-verdek, (stuur-)plegt] del galeone ordinario era alto circa 30 piedi, cioè anche in
questo caso siamo a un terzo della lunghezza del telaio; la camera più alta del cassero era
quella del piloto, detta dunette (‘piccola duna’) in francese, perché questi doveva poter
guardare il più lontano possibile, e sotto la sua c’era quella del pa(d)rone o capitano
comandante, la più bella e grande del vascello; sotto la seconda c’era il rancho de Santa
Báarbara (fr. anche gardionnerye), cioè la camera degli artiglieri, e sotto di questa il
deposito delle polveri e munizioni da guerra, quindi giustamente era l’alloggio (sp.
aposento, camarote) degli artiglieri a essere dedicato alla santa, loro patrona, e non il
deposito delle polveri, come invece più tardi si è poi stati portati a credere, evidentemente
fuorviati dalla circostanza che nei vascelli più piccoli i due ambienti talvolta coincidevano.
La posizione estrema di questo pericoloso deposito dava due vantaggi; il primo, una certa e
sufficiente attenzione del capitano alla sicurezza delle polveri, perché, in caso d’incidente,
lui stesso sarebbe stato tra i primi a saltare in aria; il secondo, lo scoppio delle polveri, o
per incidente o perché colpito dal nemico in combattimento, non capitando in posizione
centrale, non avrebbe spezzato in due il vascello e affrettatone quindi l’affondamento. In
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ogni caso lo scoppio accidentale di una S. Barbara fornita tendeva a risultare esiziale per la
galera, come avvenne per esempio nel porto di Palermo l’11 marzo 1628:
… Successi un gran caso. Essendo li galeri di Sicilia allo molo, ci era una galera di fora di
l’altri chiamata Sancta Maria. A ori 15 in circa, giorno di sabato, li fu gettato foco alla pulviri
in detta galera et in uno momento foro ammazzati et annigati per fina 400 personi intra
turchi e cristiani et agenti di galera. Et la dicta galera stava di andari a Spagna et eraci
chiurma adumbrata. Come fu dicto foco non si sapi, sebeni si gittao bando che a cui
rivilassi cui avissi gettato dicto foco Sua Eccellenza ci daria scuti milli di viviraggio (Diari
della città di Palermo dal secolo XVI al XIX. V. II. P. 64.. Palermo, 1869.)
Queste due opere morte così imponenti però avevano, con il progresso dell'artiglieria da
sparo, perso gradualmente la loro importanza sia difensiva che offensiva e non servivano
ormai ad altro che a rendere più difficile la navigazione del vascello quando il mare era a
traverso, ossia quando percuoteva il galeone di fianco; ciò era stato già compreso
dagl’inglesi, i quali pertanto sui loro vascelli tondi o bertoni ai castelli fissi preferivano dei
tendali stesi su strutture di reti di corda (sp. jaretas), mentre i francesi cominceranno ad
adeguarsi solo nel 1670, quando cioè un’ordinanza reale proibirà di costruire castelli di prua
sui trepponti reali da guerra appunto per renderli più leggeri alla vela, dando così il via a
una progressiva riduzione dell’opere morte, il cui peso comprometteva infatti l’agilità e la
manovrabilità che si confacevano soprattutto a un vascello da guerra:
… Deve (il buon vascello) essere raso per il veleggiare della burrina (‘di bolina’), perche
l'opere morte lo portano indietro & non lassano caminare avanti, ma la scadono sotto a
vento ed anco molestano il vassello nelle fortune, per rispetto del peso che hanno sopra e
(inoltre) anche le tante commodità di stanze e stanzole fanno il marinaro pigro, se bene poi,
nel combattere, l'essere alto è molto (di) vantaggio; ma non si possono havere tante
commodità in sé contrarie (Alessandro Falconi, Breve instruzione appartenente al capitano
de vasselli quadri. P. 12. Firenze, 1612).
La forma particolare della poppa dei galeoni si diceva alla bastardella, il che significava che
si trattava d’un vascello quartierato a poppa, cioè che il quartiero di poppa - quella parte di
vascello che andava dalla ruota di poppa alla dispensa - era particolarmente largo e capace
rispetto al resto dello scafo. La coperta esterna del galeone, a differenza di quella della
nave, era stesa, ossia continua e dritta dal cassero di poppa al castello di prua, mancando
quella mezza coperta posteriore sotto l’albero di mezzana, detta tolda, che serviva da riparo
alla gente incaso di intemperie o anche di bersagliamento nemico in guerra; sotto d’essa i
galeoni avevano altri due ponti e in corrispondenza di quello centrale lo scafo, come
abbiamo già detto, raggiungeva la sua massima larghezza.
I galeoni, detti dai turchi sultane, erano assai più veloci delle navi in ogni condizione
atmosferica, sia cioè col vento in poppa, sia col vento dell'oste (fr. vent largue, vent de
quartier), ossia con quei venti intermedi tra quello di poppa e quello di fianco o di bolina;
avevano due alberi di mezzana, quindi cinque in tutto, e la stessa velatura delle navi
maggiori; portavano generalmente da 2mila a 5mila salme di carico, ma qualcuno anche di
più:
... ma se ne sono veduti di molto maggior grandezza, che ne hanno portato sino a dodici
millia, come quello che fu fabricato in Venezia dal Fausto, che pareva un castello in mare, e
un altro molto maggiore parimente fatto in Venezia, che, per essere stato spinto da una
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improvisa tempesta di mare tutto il peso dell'artigliaria da una banda, si affogò l'anno 1559
nel porto di Malamocco; ed hoggidì scorrono nei nostri mari doi galeoni del Gran Duca di
Toscana di stupenda grandezza e molti altri fanno il viaggio dell'Indie per servizio del Re
Catolico. (Pantero Pantera, L’armata navale etc. P. 42. Roma, 1614.)
Il predetto galeone fabbricato dal famoso architetto navale Vittorio Fausto, attivo a Venezia
nel secondo quarto del secolo, fu, a differenza dello sfortunatissimo secondo sopra
ricordato, un legno longevo, tant’è vero che, come ricorda Giovan Pietro Contarini, nel 1570,
essendone allora patrone un altro Contarini, cioè Girolamo, ancora faceva parte dell’armata
che Venezia stava in quell’anno preparando per il soccorso di Cipro. Attorno al 1628 sarà
molto noto per la sua grandezza anche le grand galion de Malte e verso il 1644 uno del Mar
Nero da 56 pezzi d’artiglieria, il quale la Sublime Porta usava noleggiare; ma i galeoni più
forti e più grandi erano generalmente quelli costruiti dai portoghesi, i quali alla fine del
Cinquecento portavano il vanto di un’armata di tali vascelli imponente e fortissima, la
maggiore che allora esistesse. Soprattutto era divenuto famoso per la sua grandezza il
cosiddetto galeone di Portogallo, vascello portoghese dal nome di S. Bastiano, il quale
partecipò all'impresa del Peñon de Vélez nell’agosto del 1564, quando Filippo II mandò a
conquistare quella fortezza Garcia de Toledo a capo d’una forte armata della quale faceva
parte anche Gioan Andrea d’Oria (l. de Auria. 1539-1606), detto Andrettino, principe di Melfi
in quanto erede del prozio Andrea, capitano generale delle galere dei particolari genovesi;
anzi, a quanto scriveva Pierre de Bourdeilles visconte di Branthôme (c. 1540-1614), il quale
poi afferma d’essersi trovato a quell’impresa – ma chissà poi a quale titolo visto che era un
francese, fu proprio il d’Oria a prendere quella rocca, che però sembra fosse ormai stata
abbandonata dai suoi difensori; tale galeone portava ben 360 pezzi d'artiglieria tra grandi e
piccoli. Anche galeone di Portogallo era chiamato uno dei quattro grandissimi che fecero
parte della famosa e sfortunata Invencible Armada del 1588.
I ragusei riconoscevano che, se i portoghesi avessero avuto a disposizione un legname
ottimo come quello che essi traevano di fronte a loro dal monte S. Angelo in Puglia, i loro
galeoni sarebbero stati i migliori del mondo, superiori anche a quelli costruiti nei cantieri di
Ragusa. I lusitani comunque avevano un buon sistema per rinforzare e proteggere le
superfici esterne ed emerse dei loro vascelli diretti alle Indie Orientali, cioè di quelli che
facevano i viaggi più deterioranti; ricoprivano infatti le opere esterne dello scafo con una
mistura di consistenza bituminosa, detta gala o gale o galegala, appresa come si diceva dai
cinesi, i quali l’usavano per preservare il fasciame dei loro vascelli dagl’insulti atmosferici e
marini. Tale mistura, applicata in uno strato spesso un’oncia, faceva sul legname fortissima
presa e ne rendeva la superficie talmente dura e resistente da ricevere spesso poco danno
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anche dai colpi d'artiglieria; per ottenerla si pestavano in mortai con grossi pestoni del
gesso, acqua calda, olio di pesce, chiare d'uova o altra colla equivalente, ma scelta tra le
più economiche, infine zucchero di palma, quest'ultimo abbondantissimo a Lisbona; nel
pestare si aggiungeva continuamente stoppa di canape trita o tagliata minuta finché il tutto
fosse ben incorporato. Nel corso del Seicento, col progressivo aumento di potenza
dell’artiglieria, naturalmente la suddetta gala non sarà più in grado di respingere nemmeno
qualcuno dei più deboli colpi di cannone; questa funzione sarà comunque talvolta assunta
da quello che i francesi chiameranno soufflage, cioè dal raddoppio del fasciame esterno del
vascello da guerra, il che significava aggiungere un secondo strato di tavole sul primo per
uno spessore aggiuntivo che poteva andare dai 3 agli 8 pollici, ma il cui scopo principale
era comunque quello di dare stabilità a un vascello che rollasse e si tormentasse troppo
sotto la velatura.
Nel corso della seconda metà del Seicento il galeone perderà gradatamente la sua
individualità, assimilandosi in forme e velatura al nascente standard europeo dei grandi
vascelli di rango, continuando a usare ancora di ben distinti e anche di molto grandi solo i
turchi sotto il nome, come già sappiamo, di sultane; ma resterà comunque il suo nome
unicamente in Spagna, usato però adesso in maniera generica, a indicare un po’ tutti i
grandi mercantili da tre o quattro ponti che s’inviavano di conserva, formando la cosiddetta
carrera, nelle Indie Occidentali, anzi gli spagnoli giungeranno alla fine a chiamare galeoni
unicamente e tutti quei vascelli – grandi o piccoli, mercantili o da guerra che fossero – che
ogni anno s’inviavano a Cartagena e Portobello, ossia i due porti orientali principali delle
Indie Occidentali spagnole, vascelli che però, si badi bene, se impiegati in viaggi diversi da
quello, perdevano questo improprio nome; allo stesso modo essi chiameranno galeonistas i
mercanti marittimi (gr. ἒμποροι) che commerciavano con le Indie Orientali imbarcandosi
appunto sui galeoni della armada de la carrera de Indias), riservando il nome di flota o
flotilla (fr. anche navage) solo al convoglio navale che invece inviavano più a nord a Nueva
Vera Cruz, porto della Nuova Spagna, ossia del Messico. Le prime armate e flotte destinate
alle Indie Occidentali erano state stabilite dal re Filippo II con ordinanza promulgata a
Madrid il 16 luglio del1561 e si trattava di due flotte, una per la Nuova Spagna, cioè Messico
e isole caraibiche, e l’altra detta per la Terra Ferma, ossia per il continente centro-
americano con i porti principali Portobello e Cartagena, ed inoltre di un’armata per la scorta
e la difesa delle prime due, ognuna delle quali tre dovendo avere un suo capitano generale,
capo della guerra, e un suo almirante, capo della navigazione; in più a bordo dell’armata
doveva anche esserci un tercio di fanteria di guarnigione e quindi un suo governatore. In
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seguito il loro numero aumentò a quattro, non distinguendosi più in flotte mercantili ed
armata, ma assumendo una tipologia unica che diremo di ‘armata mercantile’, e troveremo
dunque quella fissa ‘di Nuova Spagna’, cioè del Messico, quella delle ‘Isole di Sopravvento’
dell’Arcipelago di Capo Verde e poi le due più importantì, cioè quella detta ‘di Terraferma’ e
quella ‘della Guardia’, destinate al continente centro-americano; trattandosi di ‘armate
mercantili’, non erano pertanto fatte di soli galeoni, vale a dire di solo vascelli, ma anche di
navi e mercatili minori, come si legge in un’ordinanza del 21 gennaio 1574, la quale stabiliva
i complesi ed onerosi compiti dell’ispettore (sp. veedor) d’armata:
El Veedor deve tener cuenta con todo lo que toca à la Capitana, Almiranta y las demás
naos, caravelas, pataches, barcos, esquifes y otras qualesquier embarcaciones, que fueren
de armada ó del servicio della…
In effetti poi, con ordinanza promulgata l’11 marzo 1587, esperimentata ormai la violenza dei
flussi e dei venti oceanici, Filippo II prescrisse che nessuna nave ‘forte e veliera’ che fosse
inferiore alle 300 tonnellate di portata potesse far parte delle predette flotte destinate al
viaggio delle Indie Occidentali, ma la navigazione bellica oceanica e americana di quei
secoli non è oggetto di questo nostro studio. Diremo infine che, per quanto riguarda la
difesa dei Mari del Sud, cioè quelli dei porti di Callao (Lima), di Guayaquil e di Panama,
Nicaragua e Guatemala dalla parte dell’Oceano Pacifico, vi era consentito di costruire
localmente vascelli per la difesa di quei preziosi traffici di argento minerario che, partendo
appunto dal Perù, si portavano a Panama, principale porto della provincia allora detta dagli
spagnoli de Tierra-Firme, e poi di lì a Portobello e Cartagena per il loro inoltro finale in
Spagna. Si giunse infatti a costituire una piccola armada del Sur, detta poi armada del
Callao, soprattutto per la difesa dai corsari nemici che cominciavano a affliggere pure quei
mari costieri del Pacifico. Tralasciamo infine, ancora riguardo a quei mari, i traffici spagnoli
tra Acapulco, Manila nelle Isole Filippine, le Molucche e la Cina, cioè le navi della carrera de
Filipinas, per non ampliare troppo il discorso.
Tornando però ora ai mari europei e in particolare al bertone (tr. burtun dall’in. Briton,
‘britanno’), questo era un vascello tondo inglese tanto apprezzato che, a partire dal
Settecento, il suo garbo sarà adottato in tutta Europa per tutti i grossi vascelli da guerra, i
quali solamente sarà da quel momento riservato questo nome di vascello. Erano i bertoni
non molto lunghi, ma molto alti e larghi, soprattutto erano larghi dal fondo alla prima
coperta, mentre da questa in sù la larghezza si andava invece molto restringendo,
pescavano assai e andavano benissimo alla vela perché ‘armati a piano’, cioè praticamente
privi d’incastellature od opere morte; erano in sostanza vascelli molto robusti e, come allora
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si diceva, molto reggenti, cioè avanzavano nel mare ben dritti ed equilibrati anche quando
c'era maretta o mare grosso, senza coricarsi né piegarsi a destra o a sinistra. Avevano sette
vele, come del resto anche gli altri vascelli tondi, di buone dimensioni, ma alcuni portavano
anche il parucchetto; strutturati in due coperte, portavano da 1.500 a più di 3mila salme di
carico.
Singolarmente quasi di un’unica forma erano i vascelli tondi chiamati urche od orche [dal
gr. ὒρχη (‘largo vaso’); l. orca; fr. ho(u)rque, (h)oucre; ol. hoeker(tje), hoek-boot; in. hulk,
‘scafo’], e quelli detti invece marsiliane o marciliane; le prime, anche se avevano un nome di
origine mediterranea, erano vascelli tipicamente fiandro-olandesi, ma molto usate anche
dagl’inglesi, navigavano oltre che sul mare anche molto nei canali olandesi e le seconde,
generalmente più grandi, erano invece molto adoperate dai veneziani nell'Adriatico come
navi da gran carico (gr. μνριοφόροι όλχάδες), facendo per lo più la traversata da Venezia
all’isola di Zante, e nella seconda metà del Seicento i maltesi, equipaggiatele con circa 25
uomini, le useranno anche per andare in corso in Levante. Le circostanze che le urche,
anche se vascelli atlantici, avevano un nome di origine mediterranea (gr. ολϰάς-αδος, ‘nave
oneraria’) e che somigliavano grandemente alle marsiliane veneziane fanno pensare che le
rotte commerciali che portavano appunto dal Mediterraneo fino in Fiandra e a Londra
fossero nel Medio Evo frequentate, oltre che dalle galee grosse veneziane e dalle galeazze
tirreniche italiane, anche da vascelli mercantili bizantini e, in effetti, essendo quello di
Costantinopoli un impero tanto importante e potente, sarebbe veramente singolare se così
non fosse stato. Le orche più apprezzate dagli spagnoli erano quelle che chiamavano urcas
esterlinas, perché evidentemente costruite in cantieri della città scozzese di Stirling situati
sul fiume Forth.
La marciliana (dal vn. S. Marcilian, ‘San Marziale’, chiesa veneziana fondata nel 1133) era un
tipo di vascello di origine adriatica che forse prese il nome da uno squero (o squaro,
‘cantiere nautico veneziano’, dal l. scharium e scarius, ‘cantiere nautico’, e questo a sua
volta dal gr. σϰευἆριον, diminutivo di σϰεῦος, ‘attrezzi, attrezzature, cantiere’, e questo da
cantherium, ‘il cavallo di legno formato dalle taccate’, e quest’ultimo da cantherius, ‘cavallo
da lavoro’; nel Salernitano c’è infatti Scario, località costiera) il quale era sito appunto nelle
vicinanze di quella chiesa e nel quale se ne costruirono le prime (quindi niente a che fare
con la città di Marsiglia). La principale caratteristica distinguente della marciliana
consisteva in una particolare velatura, dove cioè coesistevano la vela quadra (lata) e la vela
trasversa; avevano inoltre, sia le marsiliane sia le orche, un garbo o taglio decisamente
diverso da quello delle navi per esser più larghe che alte e per avere prora più grossa e più
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rotonda, forma che si andava poi restringendo, ma solo a partire dalla metà del vascello
indietro sino alla poppa quadrata; più piccole sia delle navi che dei galeoni, avevano dai
due ai quattro alberi - a seconda della grandezza, non usavano generalmente, come già
detto, più di sette vele, di cui sei quadre e una – quella d’artimone - a triangolo scaleno;
avevano due ponti, coperta inclusa, e portavano, le marsiliane, da 1.500 a poco più di 3mila
salme di carico, ossia le più grandi potevano arrivare a portare 14 o 15mila quintali, ossia
un massimo di 750 tonelli oceanici o botti; le urche portavano invece dai 50 ai 200 dei detti
tonelli e potevano esser lunghe un’ottantina di piedi francesi. Queste urche olandesi, delle
quali era in gran maggioranza costituita la marineria dei Paesi Bassi, avevano alberatura en
fourche ou à corne, come dicevano i francesi, ossia avevano anche una verga che andava a
sporgere non di fianco, bensì era orientata fissa all’indietro; di questo particolare tipo di
alberatura, dal quale probabilmente deriva anche lo stesso nome francese di tali vascelli,
nome poi anche olandesizzatosi, erano del resto attrezzati diversi altri tipi di velieri che
solcavano quei mari, tra questi c’erano le galeotte olandesi, gli heus, i boïers, gli inglesi
yachts [fr. (h)yac(ht)s o yagts; ol. (advijs-)yachts, (speel-)jagts; it. giachetti]; questi ultimi,
muniti di albero di maestra, di trinchetto e d’una piccola civadiera, erano ottimi
bordeggiatori e a partire dal Seicento saranno anche molto usati dai gran signori come
imbarcazioni da diporto. Dall’alberatura degli heus, vascelli di cui in seguito diremo, si
differenziavano però soprattutto perché, oltre agli alberi di maestra e di mezzana, portavano
in più un abbozzo di bompresso con una specie di zevedera, e questa loro particolare
attrezzatura le rendeva molto più adatte a navigare bordeggiando, di bolina e contro vento a
piccole bordate che se avessero avuto una semplice velatura alla quadra. Le urche avevano
inoltre fasciame rotondo come quello dei flauti (vn. lauti; l. tibiae, gingrinae) – vascelli di cui
presto anche diremo, avevano inoltre il fondo [fr. varangues, coulée, querat; ol. kielgangen)
e il relativo fasciame (fr. gabord(s); ol. gaarborden, sandt-strooken, sandt-streeken) costruiti
del tutto piatti per via dei molti bassifondi e canali di quelle coste settentrionali, così come
anche lo avevano avuto nel Medioevo le marsiliane di Venezia per ovviare ai bassifondi
lagunari; i veneziani però usavano anche generalizzare questo nome di marsiliane a tutti i
navigli quadri minori, così come anche generalizzavano quello di navi di gabbia a tutti quelli
maggiori, per cui le caratteristiche di questi vascelli adriatici diventeranno sempre meno
precise e nel Settecento si chiameranno così solo dei vascelletti (l. e ltm. nauculae,
naviculae, navicellae, navigiola; gr. πλοιάρια, πλοιαρίδια, vn. navigoti, navilioti) di non più
di 70/80 tonelli.
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Per concludere l’argomento delle orche o urche, ci resta da dire dell’etimologia del nome
delle Isole Orcadi (gr. Ὀρχάδες; i. Orkney) che gli antichi navigatori e geografi greci e
romani, come si sa, conoscevano e chiamavano Orchades; ma da quale dei due nomi si
generò l’altro? Quello greco sembra essere l’originale, avendo quello britannico, a causa di
quella sua ‘n’, tutto l’aspetto di una sincope della probabile abbreviazione grafica l. Orch.
In.e (cioè ‘Orchades Insulae).
I caramoussa(i)l [it. caramusali(ni)] erano vascelli mercantili turchi paragonabili alle
caravelle in quanto a funzioni - infatti i cristiani nel Seicento prenderanno a chiamarli le
caravelle de’ turchi - e s’incontravano molto frequentemente nel Mediterraneo; erano molto
sottili e pertanto assai agili, di garbo dunque alquanto bislungo e molto stretto con
ambedue l’estremità molto arrotondate e la poppa particolarmente alta, caratteristica
quest’ultima che i francesi dicevano en huche o enhuché. Si trattava di velieri buoni e
velocissimi, specialmente col vento di fianco, perché i loro scafi erano fatti a forma di vero
pesce tondo come quello dei galeoni, ossia erano più larghi a metà fiancata che all'altezza
dell'unica coperta; erano pertanto molto reggenti con mare traverso e navigavano meglio
con vento di bolina perché il mare, battendo sulle loro fiancate (gr. πλευραί), sfuggiva
all'insù nel senso della scarpata di legno della fiancata e li travagliava così molto di meno;
nel Seicento saranno molto usati per la guerra di corso (gr. ὀ δρόμος; gr. ϰοῡρσον) dai
turco-barbareschi, specie dagli algerini - anzi addirittura costruiti appositamente - in
sostituzione dei vascelli remieri usati invece nel secolo precedente, con conseguente gran
danno per i cristiani, ma non erano vascelli utili in battaglia reale, come allora si diceva.
Poiché non avevano trinchetto, essendo infatti la loro alberatura costituita da un altissimo
albero di maestra munito di coffa, dal bompresso e da una piccola mezzana, e non
portavano perucchetti, eccezion fatta per quello di bompresso, spiegavano non più di
cinque, ma grandi vele, in maggioranza latine, di cui la maestra ordinariamente ampliata al
di sotto con un coltellaccio; si trattava d’alberi fatti d’un ottimo legno, migliore di quelli di
Norvegia che allora erano in Europa considerati quelli più adatti per la fabbricazione
dell’alberature dei velieri. Sotto l'unica coperta portavano da mille a 1.500 salme di carico,
erano, quando armati a guerra, dotati di18 o più bocche da fuoco e montati da 50 a 60
uomini.
Altre imbarcazioni da carico usate dai turchi erano le palandarie (corr. di parandarie; infatti
vn. parandarie e cst. parenderas), grossi vascelli remieri corrispondenti agli uscieri, ai
marani, agli arsili dei cristiani veneziani e ponentini e alle ολϰάδες μαϰραι (‘onerarie
lunghe’) dei bizantini, contraddistinti talvolta da un vasto portellone che si apriva nel
41
fasciame poppiero a livello dei moli a mo’ dei moderni traghetti, per poter essere così
adibiti, oltre che al trasporto di salmerie, anche a quello di cavalleria, la quale si faceva
entrare e uscire appunto dalla suddetta apertura; altre invece si usavano come bombardiere
e portavano infatti grosse bombarde che tiravano eccezionalmente da poppa e che si
caricavano a bordo probabilmente attraverso lo stesso predetto uscio, il quale, prima di
salpare, si sigillava con un accurato calafataggio. A questo secondo uso accennava il
Sanuto nelle sue cronache della discesa in Italia di Carlo VIII, a proposito dell’armata di
mare preparata, tra l’altro, dai turchi nel 1495 per timore che Carlo, dopo esser sceso in
Italia, scendesse anche in Grecia (D. Malipiero, cit. Parte prima, pp. 145-148):
… zoé galie 80, 100 fuste grosse, 30 palandarie con bombarde zuso che traze da pope, 30
altre palandarie da portar cavalli et zente, 4 nave grosse (La Spedizione di Carlo VIII. in Italia
etc. In Archivio Veneto. Anno terzo. P. 254. Venezia, 1873 – D. Malipiero, Ib. Parte prima, p.
145).
Queste fuste sono definite grosse e infatti i vascelli remieri senza corsia potranno nel
Cinquecento arrivare persino ai 20 banchi per lato e ai tre remiganti per banco; inoltre
quelle grandi si distinguevano subito per portare copano, cioè per essere dotate di un
canotto o scialuppa di ausilio o di salvataggio, come diremmo oggi; ma comunque, specie
nel Medioevo erano generalmente molto più piccole come più piccoli erano, come abbiamo
detto, generalmente tutti i vascelli remiei. Nella primavera del 1481 la galea veneziana del
sopraccomito Constanzo Loredan, navigando nelle acque della Grecia, perché diretta a
Napoli di Romania, catturò una fusta armata dell’isola di Leucade o di Santa Maura, come la
chiamavano i veneziani, ufficialmente corsara perché ostentante le insegne del signore di
quell’isola, ma in pratica pirata perché agente ai danni sia dei cristiani che dei turchi, e a
bordo della quale c’era un equipaggio di soli 41 uomini, i quali furono impiegati nei lavori
che allora i veneziani stavano eseguendo per il riassesto del porto di quella Napoli (C.N.
Sathas, Documents inédites relatifs à l’histoire de la Grèce au Moyen Âge etc. Vol. VI P.
165. Parigi, 1884).
In una lettera da Costantinopoli della fine del 1466 così si diceva dell’armata turca che si
andava allora preparando:
... Hanno anche (oltre a 100 galere ordinarie) 7 galie grosse e 3 bastarde e 24 parandarie de
20 fin 24 remi a 3 homeni per remo; e queste se stimano quasi più che le galie, perché vano
meglio a la vela; poi numero infinito de fuste e griparie (D. Malipiero, ib. P. 39).
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E’ da ritenersi che qui per galere bastarde non s’intendessero quelle quartierate a poppa
che vedremo dopo il Rinascimento e di cui poi diremo, bensì le semplici triremi, visto che
allora la gran maggioranza di quelle ordinarie, specie nel Tirreno, era ancora costituita da
biremi [gr. διήρεις o διῆρεις (νῆες), δίϰωπα, δίϰροτα]; ma la cosa più interessante da notare
sono i 3 homeni per remo delle parandarie; insomma i remi di scaloccio, di cui poi diremo,
non furono quindi inventati nella seconda metà del Cinquecento, come comunemente si
crede, ma già esistevano in precedenza, come del resto non può che esser logico, non
trattandosi in fondo di una gran trovata.
In una sua relazione sui movimenti dell’enorme armata messa in mare dai turchi nel 1470 (Il
mar parea un bosco) il sovraccomito veneziano Geronimo Longo scriveva di essersi messo
in caccia di una parandaria turca perché, in quanto alberata, gli era sembrata una galera; il
che significa evidentemente che quelle delle potenze cristiane non erano alberate; inoltre si
evince anche che queste parandarie non erano usate solo come passa-cavalli [la trovai
carga de’ biscoti (‘gallette’) bianchissimi come i nostri de munizion e de gran quantità de
chiodi da cavallo (ib. P, 51)]
Il bailo, ossia il residente diplomatico veneziano, a Costantinopoli Antonio Barbarigo così
descriveva le palandarie turche destinate ai cavalli nella sua relazione del 1558, laddove
quantificava brevemente il naviglio (l. navigia; vasa) ottomano:
... Ha questo Signore (il sultano) circa 26 navi di 600 in 8OO botte l'una, le quali navigano
per la Soria (‘Siria') con mercanzie. Ha molte altre navi piccole fino a 400 botti al numero di
quaranta e nel Mar Maggiore e di Morea infiniti schirazzetti e naviliotti. Tiene anco circa
trenta palandarie, che sono certa sorta di navigli che hanno il fondo piano e la poppa e
proda alla barcesca (‘barchesca’) ed hanno dietro alla poppa un buco grande, alto quanto
un uomo e lungo tre piedi, che commodamente si apre e serra, per dove caricano li cavalli;
ed ognuna di queste porta circa venti cavalli e pesca in fondo circa quattro piedi; con
queste tragittano cavalli per poco viaggio da luogo a luogo e artiglieria e munizioni.
(Eugenio Albéri, Le relazioni degli ambasciatori veneti al Senato durante il secolo
decimosesto, S. III, v. III, p. 153. Firenze, 1839-63.)
Secondo lo storico bizantino Laonikos Kalkokondulos, quando l’emiro Maometto (più tardi
Maometto II), dopo aver preso Bisanzio il 29 maggio 1453, procedendo nella conquista di
quell’impero, prese anche Sinope sul Mar Nero e vi trovò molte navi ormeggiate di varie
nazionalità, tra cui una grande di 900 botti che si portò a Bisanzio, essendo la più grossa
che gli fosse mai capitato di avere sino a quel momento; sempre secondo detto storico, gli
unici che prima di lui avessero avuto grosse navi erano stati solo il re ‘Alfonso dei
tarragonesi’ (Άλφόνσος Ταραϰωνησίων) - e supponiamo volesse dire Alfonso XI di
Castiglia (1311-1350), il quale era stato infatti il primo a farsene costruire una di ben 4mila
43
botti, imitato poi dai veneziani dopo la pace di Torino del 1381 (De rebus turcicis, L. IX) e
dallo stesso Maometto II con una nave di 3mila botti. Il Malipiero ci dice che nel 1495 i
genovesi avevano noleggiato ai francesi di Carlo VIII quattro grosse navi di cui una che
andava dalle 3.600 alle 4mila botti (Cit. P. 423)
Secondo il vicebailo Andrea Dandalo (in origine de Andalo) - relazione del 1562 - le
palandarie turche portavano invece 80 cavalli, ma la verità è che erano di varie dimensioni:
... Ha (il sultano) molte palandarie e poco avanti il partir mio (da Costantinopoli) ve n’erano
dieciotto fatte di nuovo, ciascuna delle quali può condurre cavalli ottanta in circa (ib.)
Le palandarie turche erano quindi eredi di quelle galere passa-cavalli medioevali che,
appunto per la presenza dell’uscio posteriore (Princep, yo se que vos havets XX galees
obertes per popa en Brandis… Muntaner (Crónica catalana etc. Barcellona, 1860), all’anno
1283; … e l’almirall fo apparellat ab les quaranta galees, en les quals navia XX obertes per
popa, en que anaven quatrecents cavallers e molts almugavers. Ib. All’anno 1284). Gli
almogavari erano montanari, perlopiù catalani, molto bellicosi. Talvolta nella storiografia
medievale italiana si ricordano i vascelli predisposti al trasporto dei cavalli col i due nomi di
galee grosse o di uscieri (vn. usserij), termine questo usato anche nelle cronache medievali
catalano-aragonesi e castigliane, la cui lettura è senza dubbio essenziale a una
comprensione della marineria da guerra basso-medievale; si trattava dunque di quelle galee
grosse da merci (ltm. galeae mercationum) veneziane, corrispondenti alle galeazze
tirreniche, che si adattavano al trasporto di cavalli, cioè principalmente si rendevano apribili
da poppa in modo da farvi accedere comodamente detti animali e di conseguenza non
avevano più un timone centrale bensì due laterali alla poppa medesima (… usceriis, seu
galeis grossis… A. Dandolo, Chronicon, T. XII, c. 445. In L.A. Muratori, Rerum italicarum
scriptores etc. T. XII. Milano, 1728), insomma un doppio timone detto alla navaresca, come
abbiamo già spiegato. Infatti nella Cronaca del re Pietro IV d’Aragona (v. fonti) si dice
chiaramente che nelle armate di mare gli uscieri erano da computarsi nel numero delle
galere, ossia dei vascelli remieri:
… e passò in rivista tutta la nostra armata, la quale consisteva di 45 galere, tra galere e
uscieri, e quattro legni armati e cinque navi armate, tre castellane e due catalane,…
… 45 galere tra uscieri grossi e galere mediane e sottili…
Qui per galere mediane e sottil, aggettivo questo che troviamo già usato dal Caresino
attorno all’anno 1300, cioè quelle galee dette dai veneziani legni del Golfo – ossia del Mar
Adriatico, in quanto questo era convenzionalmente chiamato in Italia Golfo di Venezia -
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… però il re aveva colà un’altra galera molto grande che dicevano ‘Uxel’ (forse dal già
menzionato gr. ύψηλoi), la quale era stata dei mori ed era stata ottenuta con altre galere dei
mori al tempo di re Alfonso suo padre quando assediava Algeciras, perché i mori facevano
queste galere così grandi per passare molte truppe da Ceuta a Gibilterra e ad Algeciras e
infatti potevano venire in quella galera quaranta cavalli sotto coperta…
Quanto fosse grande questa galera non sappiamo, probabilmente all’incirca quanto una
galea grossa commerciale veneziana, visto che il re la rafforzò per la guerra aumentandone
le sovrastrutture, evidentemente intendendo così utilizzarla non tanto come passa-cavalli
quanto come vascello da battaglia:
… E il re entrò in quella grande galera e fece fare in essa tre castelli, uno a poppa, un altro
nella mediania e un altro a prua, ai quali nominò tre castellani (‘tres alcaudes’)… (ib.)
Di grossi uscieri si dice più volte anche negli Annales genuenses (1298-1435) etc. di G. & G.
Stella, in L. A. Muratori, Rerum italicarum scriptores etc. Vol. 17. Milano 1730. (:)
Anno 1320, col. 1.042: … Nell’ultimo giorno dello stesso mese (‘settembre’) gli estrinseci (‘i
ghibellini savonesi’), nel tentativo di entrare nella città, condussero al porto di Genova una
gran nave fortemente armata e munita di alti castelli tanto a poppa quanto a prua e altri tre
navigli chiamati ‘uscieri’ (‘uscheria’), dei quali due erano provvisti di coperta di legname
verso poppa e nel terzo c’era uno strumento da lanciare grosse pietre detto ‘trabucco’; e
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con questi c’erano due cumbe (altrove scaffe) coperte allo stesso modo e altro piccolo
naviglio in gran numero. E c’era in uno di quegli uscieri un castello di legno molto alto
perché volevano togliere e incendiare la catena e i legni posti a difesa dagl’intrinseci (‘guelfi
genovesi’)...
Anno 1319: (novem grossis navigiis appellatis uscheriis); anno 1320: (navigia grossa vocata
uscheria decem numero cum equis & militibus); anno 1325: (navigiorum, quae grossa sunt
et dicuntur uscheria […] grossi navigiis, quae dicuntur, uscheria duodecim); anno 1379:
(navigia quatuor grossa, quae dicuntur uscheria); anno 1403: (galeae novem fuerunt [om.]
et naves septem unaque grandis galea grossa (cioè una triremi oppure una galera di
mercanzia) unumque grossum navigium nuncupatum uscherium […] galeae undecim
venetorum duaeque aliae grossiores galeae, uscherii nuncupatae).
… A dì primo di marzo vennero due galee di mercato nel porto d’Arimino per levare le genti
d’arme di Cristoforo e di Giovanni daTolentino, e poi anche vennero sette galee nel detto
porto e anche di poi a dì VIII di maggio ci vennero quattro altre galee, le quali tutte levarono
la gente d’arme la quale andò al soldo della Signoria di Venezia. E a dì XVII di maggio si
partirono i detti Cristoforo e Giovanni da Arimino e andarono con dieci barche armate in
compagnia (Ann. Chronicon ariminense etc.. In L. A. Muratori, Rerum italicarum scriptores
etc. C. 934, t. XV. Milano, 1727).
Abbiamo detto che nelle cronache trecentesche del re Pietro IV. d’Aragona (op cit.)
vediamo gli uscieri computati nel numero delle galee, ma, se andiamo amcora più
indietro nel tempo, cioè all’inizio del Duecento, possiamo costatare invece che i
veneziani nelle loro armate li consideravano a parte; ecco infatti quanto tra l’altro si
legge nel patto stipulato nell’aprile 1201 dal doge Enrico Dandolo con i principi crociati
Baldovino IX conte di Fiandra, Teobaldo conte di Troyes e Ludovico conte di Blois in
materia di preparativi per la quella che sarà la quarta crociata:
… Dilligentemente dunque i suddetti signori chiesero che vi dessimo naviglio per trasferire
4500 militi ben armati e altrettanti cavalli e novemila scudieri (scutiferos) (…) e 20mila fanti
ben armati con vettovaglie per un anno, il che loro promettemmo di dare (…) per trasferire i
predetti cavalli dovremo dare tanti uscieri (uscerios) quanti saranno conformemente
necessari (…) D’altro canto daremo tante navi quante saranno sufficienti per trasportare
tanti uomini secondo la nostra discrezione e la buona fede dei nostri baroni (…) D’altra
parte in aggiunta a queste cose e per nostra propria volontà dovremo dare cinquanta galee
armate al servizio di Dio, le quali resteranno similmente saranno al servizio del Signore per
un anno se sarà necessario… (A. Dandolo. Cit. C. 323 e segg.)
Venezia s’impegnava a fornire anche il cibo essenziale necessario a nutrire per un anno
tutti i suddetti uomini e cavalli e consistente in pane, farina, legumi, biada, acqua e vino;
come si sa, in questa crociata nulla andò poi come si era concordato e programmato,
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risultando alla fine quell’esercito crociato non un vantaggio ma al contrario una jattura per
la cristianità, perché, invece di andare a combattere i mussulmani, si rivolse contro
Costantinopoli, indebolendo l’impero bizantino (ltm. Imperium Romaniae) al punto che due
secoli e mezzo dopo questo non era più in grado di difendersi dal nel frattempo sorto
grande e minaccioso impero ottomano; il tutto seguito poi da ulteriori ed altrettanto secolari
guasti ed elevati costi economici che si abbatteranno sullo sviluppo e sul benessere della
stessa Venezia, la quale si dimostrerà anch’essa incapace di opporsi adeguatamente
all’aggressività ottomana.
Queste vicende storiche molto negative per lo sviluppo della civiltà occidentale e cristiana,
la cui responsabilità è da addebitarsi soprattutto a miopia politica della fu repubblica
veneziana, dimostrano con chiarezza che, quando gli stati danno più importanza e
preminenza agli interessi economici e finanziari del momento rispetto a quelli ideali e civili a
cui si ispirano, alla lunga queste scelte si ritorcono implacabilmente – e spesso anche
irreparabilmente - contro di loro, una lezione della storia che in Europa ancora oggi non
sembra esser stata sufficientemente compresa.
47
Capitolo II.
Poiché i fornitori, pur vendendo al re queste loro nuove realizzazioni, conservavano il diritto
di riprendersele a fine crociata, a meno che ovviamente durante quella non fossero andate
perdute, i prezzi erano mantenuti più convenienti rispetto a quello che sarebbero stati se si
fosse trattato di vendere sic et simpliciter; questo per evitare al re, terminatane un giorno la
necessità, di doversele andare a rivendere sul mercato con un raelizzo probabilmente
tutt’altro che soddisfacente. Insomma oggi la definiremmo una forma di leasing. Vediamo a
questo proposito le dimensioni delle prime due navi che Luigi commissionò al grande
cantiere genovese di San Pier d’Arena, di cui al contratto firmato a Genova il 26 novembre
1268:
E come è detto di seguito, tali devono essere le misure, il sartiame e l’apparato di ciascuna
nave:
e in primis, cioè a proposito di quanto ogni nave debba essere di lunghezza in chiglia di
trentuno cubiti (m. 13,83); di lunghezza da ruota in ruota (cioè da testa a testa) di cinquanta
cubiti (m. 22,30); d’altezza in sentina (‘cala’) di diciassette palmi e mezzo (m. 4,34); di altezza
nella prima coperta inferiore di nove palmi (m. 2,23); di altezza nella seconda coperta di
48
palmi otto (m. 1,98); di altezza nella pavesata di palmi cinque (m. 1,24); di ampiezza a metà
nave di quaranta palmi e mezzo (m. 10,04) (Champollion Figeac, Documents historiques
inédites tires des collections manuscrites etc. T. I°. Pp. 507-615. Parigi, 1841).
Si tratta dunque di dimensioni da medio yacht da diporto di oggi, ma notevoli per quei
tempi, ragguardevole soprattutto il numero dei ponti, cioè tre, anche se di altezza limitata
perché anche di altezza limitata erano gli uomini di allora. La disponibilità del vasto cantiere
di San Pier d’Arena permetteva ai genovesi di costruire correntemente navi di dimensioni
che gli altri potentati marinari italiani con più difficoltà e solo saltuariamente potevano
permettersi e ciò molto contribuiva ad aumentare quella boria e quell’alterigia che li
avevano resi tanto antipatici nel Mediterraneo, specie a levante, e che cominciarono a
perdere solo con la sconfitta che subirono nel 1381 alla guerra di Chioggia combattuta
contro i veneziani. Vediamone adesso le scialuppe di salvataggio, le quali dovevano esere
corredate di tutto il sartiame e altre attrezzature a esse pertinenti:
Quattro scialuppe possono sembrare troppe e dovevano occupare gran parte della
superficie di coperta, anche se quella di cantiere, la maggiore, si portava a traino; ma in una
nave da trasporto bellico erano necessarie per effettuare eventuali operazioni di sbarco di
uomini, cavalli e materiali; e infatti, come vedremo, anche la provvista di remi per queste
scialuppe doveva essere superiore alla norma. Doveva poi ogni nave disporre di due timoni
di nove palmi ciascuno (m. 2,228) laborati et asse(c)tati, cioè rifiniti e politi. Ecco
l’alberatura:
- Un albero di prua, il quale allora, non chiamandosi ancora di trinchetto, prendeva il nome
d’artimone dalla sua maggior vela (l. artimonum; gra. αρτέμων͵ αρτέμονος, ‘da appendere’,
da ὰρτάω, ‘appendo’), di lunghezza di cinquantuno cubiti (m. 22,75) e di grossezza di dodici
palmi e tre quarti (m. 3,16), ma non meno di dodici e mezzo quando dirozzato; un albero di
mezzo di lunghezza di 47 cubiti (m. 20,96), di grossezza di palmi undici e tre quarti (m. 2,91),
ma non meno di undici e mezzo (m. 2,85) quando dirozzato (ib.)
L’albero di prua non si diceva ancora di trinchetto, perché dal nome della vela principale
che porterà. Si trattava dunque di velieri bialberi e quando poi si arriverà ai trealberi, cioè
con l’introduzione con un terzo albero centrale detto di maestra, perché dal nome della vela
principale che porterà, quello di mezzo o della medianina sarà spostato a poppavia, ma
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riterrà un nome che ricorderà la sua antica posizione e cioè di mezzana, nome che riterrà o
prenderà anche la vela principale che quell’albero porterà. Insomma vogliamo ribadire che,
nell’evolutivo passaggio da bialberi a trialberi, l’albero nuovo introdotto non fu quello a
poppavia detto di mezzana, bensì quello grosso e alto centrale, detto di maestra. Passiamo
adesso alle antenne:
- antenne di prua, pezzi tre, delle quali due devono essere di quarantuno cubiti (m. 18,28); e
sono penne, mentre l’altro pezzo deve essere di trentacinque cubiti (m. 15,61) e deve essere
un carro, di grossezza di palmi sette e mezzo (m. 1,86); e devono essere dirozzate di palmi
sette e un quarto ( m. 1,79) (ib.)
- antenne di mezzo, pezzi due, una delle quali deve essere di lunghezza di cubiti trentasette
(m. 16,501), l’altra di cubiti trentadue (m. 14,27), di grossezza di palmi sei e tre quarti (m.
1,67) e devono essere dirozzate di palmi sei e mezzo (m. 1,61).
- 1 antenne per il velono (dal l. velonum, allora la maggiore delle vele), pezzi tre, due delle
quali devono essere ciascuna di lunghezza di cubiti 38 (m. 16,95) e l’altra invece di cubiti 30
(m. 13,38); e devono essere di grossezza ciascuna di palmi sei e tre quarti (m. 1,67) e
dirozzate di palmi sei e mezzo (m. 1,61).
- 40 centenaria (ltm. centenarium, ‘cento rotoli’ pari a 150 libbre) di canapa lombarda filata e
commessa fare e risarcire sartiame della nave e delle barche.
- 6 vele di cotone, di cui 4 per l’albero di prua e 2 per l’albero di mezzo, delle seguenti
misure d’altezza: all’albero di prua per artimone, cioè per vela maggiore, una di sessantasei
cubiti, per terzarolio una di cubiti sessantuno, una di cubiti cinquantasei, una di
quarantadue. All’albero di mezzo una di cubiti cinquantotto e un’altra di cubiti cinquantadue
(ib.)
Le due vele maggiori, le quali erano ambedue di prua, vale a dire il velono e il terzarolio,
dovevano essere di un cotone più forte e cioè di cotone di Marsiglia. La circostanza che il
numero delle vele di prua fosse il doppio di quelle del mezzo fa capire che l’albero di prua,
non esistendo ancora quello di maestra, era a quei tempi il principale. Più la vela era alta
rispetto all’albero che doveva accoglierla e più forti dovevano essere evidentememte le
brezze che doveva intercettare, nel senso che doveva gonfiarsi di più.
Dovevano queste navi avere ciascuna ben 26 ancore di ferro, di cui 20 da cantaria (più tardi
cantara) 8 ciascuna e e 6 da cantaria 10 ciascuna; questo gran numero era dovuto al loro
essere vascelli destinati ad operazioni di guerra, cioè a situazioni in cui non
infrequentemente, per salvarsi dal nemico, non c’era tempo per sarpare le ancore e
bisognava tagliarne le gomene; il che naturalmente poteva avvenire anche
indipendentemente dalla guerra e cioè per sottrarsi al tormento dei flutti e delle ondate di un
mare sconvolto da un’improvvisa burrasca.
Per quanto riguardava le grosse attrezzature interne, dovevano avere ognuna tante vegge
(‘barili’) quante necessarie per contenervi duemila mezarolie di acqua in tutto, essendo la
mezarolia equivalente a due barili, il barile a 50 pinte, la pinta a tre libbre di vino; quindi un
50
totale che superara i 200mila litri d’acqua; non poco. Inoltre dovevano avere ognuna cento
stabularia o staiaria, cioè cioè stallaggi per 100 cavalli. Nel Cinquecento le potenze
marittime cristiane finirono poi con l’adattare in qualche caso al trasporto dei cavalli anche
normali galere, come abbiamo già accennato, mentre quelle armate da guerra ordinarie, in
casi di eccezionale necessità, potevano accettare di caricarsene a bordo qualcuno, ma non
più di 3 o 4 a seconda della loro larghezza, e ce n’erano infatti nell’armata che Giovanni
d’Austria raccolse a Messina nel 1572. Bisogna però considerare che nel Basso Medioevo
le galee ordinarie erano generalmente delle biremi e quindi più strette delle triremi che
vennero poi in auge nel Rinascimento. Infine, sempre a solo livello di grosse attrezzature
interne, ai fini di ormeggio ogni nave doveva avere 14 fasci (festos) di gomene (ib.)
Il 28 novembre seguente fu firmasto il contratto di costruzione di una terza nave, la quale si
sarebbe dovuta equipaggiare con ben 55 marinari in quanto, pur non essendo molto lunga,
si trattava di una treponti; purtroppo la copia de documento rimastaci non ne conserva il
luogo del cantiere di costruzione. Le scialuppe in dotazione sarebbero state una di cantiere
e due poliscalmo, tutte completamente corredate. Le principali misure le seguenti:
In un documento del giorno precedente a quest’ultimo, cioè del 27 novembre, si tratta del
nolo della nave genovese Paradiso, la quale, secondo lo Jal, il quale ha avuto il gran merito
di pubblicare questi documenti, era destinata a portare a Tunisi detto re Luigi IX, anche se
noi non siamo d’accordo su questa interpretazione perché, come abbiamo visto, della flotta
per questa Crociata faranno parte bialberi di nuova costruzione, mentre la Paradiso era
vecchia e monoalbero, quindi sensibilmente più piccola. Tralasciando la complessa e
51
- 16 vegge (‘barili’) per acqua, delle quali alcune di larice e alcune di faggio, dalla capacità
complessiva di mezarolie da 350 a 375.
- 5 vegge per vino, alcune di larice ed altre di faggio, dalla complessiva capacità di
mezarolie da 40 a 50.
- 4 botticelle piccole da nave (quae sunt in navis) per aggottare l’acqua di cala.
- una vecchia manichetta con cuoio e imbuto.
- 3 calderoni.
- 2 barili.
- una padella.
- lebéte (‘catino, bacino’).
- 3 coltelli.
- 100 scodelle.
- 10 ossari (inosoriis).
52
- 10 gamelle.
- 25 coppe.
- 6 chiaretti (‘brocchette da vinello’).
- un catino (cuantino, cantino, ‘misura di liquidi’) e ½ catino per misurare.
- una damigiana (jatera) per l’olio da un barile e mezzo.
- un barile per l’olio.
- 4 pezzi (tolti da) formaggi (de termagis).
… quae res sunt omnes in ipsa navi. E’ invece dell’8 maggio 1269 un secondo contratto di
noleggio stipulato con i genovesi, questa volta per la nave bialbero Bonaventura, la quale
era allora in cantiere a Varazze (in schario Varaginis), forse perché ancora in costruzione, e
della quale si danno le seguenti caratteristiche. Premesso che nel noleggio era incluso un
equipaggio di 38 marinari, questa nave era linga cubiti genovesi 25 (m. 11,15) in carena e 38
(m. 16,95) in alto invece da ruota a ruota, cioè dall’estrena poppa all’estrema prua
escludendo il bompresso, mentre era ampia in coperta 30 palmi (m. 7,44) con un’impavesata
- o bastingaggio che dir si voglia - di palmi 4 (m. uno circa). Era alta in sentina palmi 13,75
(m. 3,41), da questa alla prima coperta palmi 8,66 (m. 2,15), il corredorio, cioè il primo ponte,
dalla coperta inferiore a quella superiore, palmi 6,5 (m. 1,61); l’altezza di questo corredorio
può sembrare insufficiente, ma, oltre alla considerazione che gli uomini di quei tempi erano
sensibilmente più bassi di noi, c’è da considerare che si trattava di un ponte di solo
servizio, cioè di supporto a quello esterno di coperta, nel senso che, scendendovi eed
uscendone tramite le boccheporte, era molto utile per depositarvi materiali d’uso corrente
nei lavori di coperta e anche per spostarsi lungo la nave restando al coperto, quando cioè il
ponte esterno fosse spazzato dalle onde di burrasca e da rovesci di pioggia, usandosi
invece le artiglierie nel ponte al corridorio (‘frapponte’) sottostante e riservando il ponte di
sentina, il più basso e alto, al grosso carico di nolo commerciale o, nelle fazioni di guerra, al
deposito delle provviste e riserve per l’esercito. Questo ci fa capire quanto a quei tempi lo
spazio di bordo fosse ridotto e quanto fosse importante il poter disporre nei locali
sottocoperta di un centimentro di più o di uno di meno. L’albero di prua era lungo cubiti 40
(m. 17,84) con una grossezza di palmi 8 (quasi m. due), quello di mezzo (de medio) cubiti 37
(m. 16,50) e grosso palmi 7,5 (m. 1,86) e dovevano essere corredati di sufficiente
sartiame… que arbores sunt et esse debeant sane (ib. Pp. 551-552).
A bordo della Bonaventura troviamo inoltre 7 pezzi d’antenna (tra carri e penne,
evidentemente), 124 centenaria di sartiame di canapa, 5 vele di cotone, 18 ancore dal peso
di cantaria (abbr. di centenaria) 5/6 ciascuna, essendo il cantarium genovese, come già
detto, libbre 150, 2 timoni grossi 7 palmi (m. 1,73), 2 barche poliscalmo con tutti i ncessari
53
fornimenti, remi e pale (spatae), barili per l’acqua per una capacità totale di mezarolie mille,
quindi di circa centomila litri:
… la quale precisata nave […] a voi signori ambasciatori in nome del detto signor Re
lochiamo, ossia noleggiamo, al prezzo onnicomprensivo di lire tornesi
duemilaquattrocento… (ib.)
La nave predetta, come del resto le altre di cui abbiamo detto, doveva essere consegnata ai
francesi ad Aquae Mortuae, cioè all’odierna Saint-Tropez, cioè al porto di Francia più vicino
al podestato di Genova. Il 3 maggio 1269 si contratta poi con i genovesi per un terzo
noleggio, quello della nave San Salvatore, larga al centro 24 palmi (m. 5,94), lunga in carena
21 cubiti (m. 9,36) e in alto da ruota a ruota 31,5 (m. 14,05), alta in sentina 12,5 palmi (m.
3,09) e da questa alla coperta 8 (m. 1,98), avendo un bastingaggio alto un minimo di 5,5
palmi (m. 1,34). Si tattava dunque di una due ponti, coperta inclusa, con regolari stanze di
poppa e di prua (et habet talamum ad popam et prodam bonum et sufficientem), con l’albero
di prua lungo cubiti 30 (m. 13,38) e doppio 6 palmi (m. 1,49) e quello di mezzo invece alto
cubiti 27 (m. 12) e spesso palmi 5,5 (m. 1,36). Disponeva inoltre la nave di sette pezzi
d’antenna, 5 vele di cotone (bonas et novas), 65 centenaria di sartiame di canapa
intrecciata, cioè libbre 9.750, 12 ancore di cantaria 4 e mezzo ciascuna, una barca
poliscalmo con un rampino (rapegello) e una gondola, ambedue attrezzate, tanti barili da
acqua quante bastavano per contenere 300 metrete, questa un’antica misura genovese per i
liquidi equivalente a 100 pinte, cioè a due barili; ancora, 22 marinari e 3 mozzi (pueros),
inclusi il padrone (nauta) e stallieri per cavalli, infine vecchi funami da porre sotto i piedi dei
cavalli per evitare che in quei lunghi viaggi per mare si rovinassero gli zoccoli e per
l’appunto tutto quant’altro fosse al programmato viaggio necessario (et demum omnes alias
res necessarias ipsi navi pro dicto passagio).
Segue, il 31 del predetto maggio, il nolo della nave Carità, costruita da non molto tempo
nello scario di Varazze; si trattava di una biponte (quae est de duobus coopertis), lunga in
carena cubiti 24 (mt. 10,70), da ruota a ruota cubiti 36 (mt. 16,05), alta in sentina palmi 13
(mt. 3,22), da questa alla prima coperta palmi 8,5 (mt. 2,10), ma manca l’indicazione
dell’altezza del corridorio, cioè del frapponte tra le due coperte; era larga palmi 27 (mt. 6,68)
e l’impavesata era alta palmi 5 (mt. 1,24). Aveva talamo ( ’castello’) a poppa e sicuramente,
anche se qui non detto, pure a prua, trattandosi di una grande nave biponte. L’albero di
prua - qui chiamato artimono, in quanto appunto reggente quella particolare vela – era
lungo cubiti 35 (mt. 15,61) e grosso palmi 7 (mt. 1,73), quello di mezzo invece cubiti 32 (mt.
14,271) e palmi 6 (mt. 1,48); la dotazione d’alberatura includeva tutti i fornimerti necessari,
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inoltre 7 pezzi d’antenna e 5 vele nuove di cotone. 13 ancore di peso non specificato, 80
centenaria di sartiame di canapa intrecciata, incluso quello che guarniva i predetti alberi;
una barca poliscalmo e una gondola, ambedue attrezzate; vegge (‘barili’) per l’acqua di una
capacità totale di 500 meturte (corr. di metrete, ossia mezarolie). Era equipaggiata con 25
marinari, incluso il comandante (‘nauchlerio’), e inoltre tre mozzi (lt. famuli, servientes).
Avrebbe infine dovuto esser consegnata dotata di stabularii per i cavalli e con una
dotazione di restes, cioè, come già sappiamo, di sartiame vecchio per assorbire il calpestio
di quei pesanti animali.
Il 4 giugno 1269 i francesi noleggiano un’altra nave genovese, la San Nicola, cioè una
biponte le cui fiancate, le coperte e il castello erano stati recentemente raddobbati e che
aveva le seguenti misure; lunga in carena cubiti 22 (m. 9,81), invece in alto da ruota a ruota
34 (m. 15,16), larga di piatto in chiglia piedi 6 (m. 1,48), alta in sentina palmi 13 (m. 3,22) e
da questa alla coperta 7,75 (m. 1,92); la battagliola (‘orlo’) era alta palmi 4,5 (m. 1,11) e la
coperta larga al centro palmi 26 (m. 6,44); l’albero di prua lungo cubiti 33 (m. 14,72) e grosso
palmi 6,33 (m. 1,57), quello di mezzo invece lungo cubiti 29,5 (m. 13,16) e grosso palmi 5,5
(m. 1,36). C’erano poi 2 timoni (boni et convenientes dictae navi), sette pezzi d’antenna,
cinque vele nuove di cotone e sartiame sufficiente a quegli alberi; 12 ancore pesanti
cantaria 4,5 ciascuna, 12 gomene, cinque prodesi, inoltre groppiali, cioè funi di ritenzione
posteriore, e altro sartiame a sufficienza; barili da acqua per un totale di capacità di 400/500
metrete, 22 marinari e tre mozzi, una barca poliscalmo e una gondola, ambedue attrezzate
‘sufficientemente’, infine stallaggi per cavalli approntati.
Il 4 giugno 1269 gli ambasciatori di Luigi IX sottoscrissero il contratto per la costruzione di
un’altra nave treponti da farsi in un cantiere tra Savona ed Albissola Marina ed eccone le
principali misure: lunghezza in carena cubiti genovesi 26 (m. 11,59) e lunghezza da ruota a
ruota cubiti 41 (m. 18,28), altezza in sentina palmi genovesi 14,5 (m. 3,59), del secondo
ponte palmi 8,5 (m. 2,10), del corredorio o primo ponte palmi 6 (m. 1,48) e della battagliola
palmi 4 (m. 0,99); la larghezza in coperta avrebbe dovuto essere di palmi 32,5 (m. 8,05).
Erano allora dunque le navi effettivamente vascelli tondi, nel senso che, come si può
specialmente in questo caso ben notare, l’ampiezza, nei confronti della lunghezza, era
notevole e si costruivano così per due motivi, uno, ovviamente, per aumentare la capacità di
carico e l’altro per evitare che un forte mare di fianco, specie quello oceanico, le facesse
capovolgere. Passando all’alberatura, l’albero di prua, da essere bonam et sanam, il che fa
pensare che fosse uso comune adoperare per nuove costruzioni anche alberi usati, avrebbe
dovuto esser alto cubiti 41 (m. 18,28) e grosso palmi 8,5 (m. 2,10), quello di mezzo cubiti 38
55
(m. 16,95) per uno spessore di palmi 7,5 (m. 1,86). 7 pezzi d’antenna, 5 vele di cotone nuovo
e timoni due grossi palmi 7 (m. 1,73) ciascuno, 18 ancora pesanti cantaria da 5 a 6 ciascuna,
135 centenaria di sartie nuove di canapa intrecciata; due barche poliscalmi, una grande e
una piccola; barili da acqua per una capienza totale di metrete 800, marinari 38 e mozzi 4;
infine stabularia per cavalli e vecchi funami (‘restes’) da porre sotto gli zoccoli di quegli
animali.
L’8 giugno fu la volta del noleggio della nave Santo Spirito, della quale non si dice dove
fosse allora ormeggiata e di cui riportiamo dimensioni e caratteristiche incomplete perché il
testo è qui danneggiato:
Quali erano le differenze sostanziali delle predette tre imbarcazioni di corredo? E’ presto
detto, la prima, quella detta di cantiere, perché era la più grande e pesante, visto che con
essa si sbarcavano anche cavalli, era da costruirsi regolarmente poggiata su un letto di
taccate da cantiere e poteva navigare anche a vela, infatti doveva essere fornita corredata
appunto, oltre che dei remi,anche del necessario velame; la seconda ‘poliscalmo’ era per
sola navigazione a remi e infine la terza, la gondola, si usava per spostarsi non a remi ma a
mezzo di pertiche, cioè nelle lagune e sui vasti bassifondi in genere. Infine si presisa che la
detta nave doveva avere – sempre che non l’avesse già – un ponte sul castello (castrum) di
prua, forse per farne una piazza da macchine da lancio.
56
Ma Luigi IX, oltre che di navi, aveva bisogno anche di salandri o salandrini, cioè di velieri
porta- cavalli, [leggesi falandriae nel Chronicon di Andrea Dandolo (1306-1354), galandria e
zalandria in quello di Giovanni Diacono e in quello anonimo vestustissimum attribuito a
Giovanni Sagornino e pubblicato a Venezia nel 1765 da Francesco Zanetti, appunto salandri
nei contratti di acquisto e nolo stipulati dal predetto re con genovesi e marsigliesi (1268-
1270), mentre Antonio de Capmany (Ordenanzas de las armadas navales de la Corona de
Aragon etc. Madrid, 1787) riporta xalandro.
Andrea Dandolo scriveva dunque che circa l’anno 850 i veneziani terminarono la
costruzione delle loro due prime galandrie, un tipo greco di vascelli che prima non avevano
mai avuto:
Duces itaque duas naves bello aptas ad sua tuenda loca miserunt, quæ more græcorum
falandriæ dictae sunt, numquam ante apud Venetos usitatæ (Chronicon Venetum etc.)
Da lui prese Giovanni Diacono, cronachista che visse nella seconda metà del nono secolo:
… Illud etiam non praetermittendum quod antedicti duces ad sua tuenda loca, eo tempore
duas bellicosas naves tales perficere studuerunt quales nunquam apud Venetiam antea
fuerant quae græca lingua galandriae dicuntur (Chronicon Venetum omnium etc.)
Questi vascelli sono, come si vede, più volte definiti naves, il che ci fa capire che erano
della categoria dei vascelli tondi, ossia velieri, e non di quella dei vascelli remieri alla quale
invece appartenevano altri porta-cavalli di cui presto diremo e che però portavano, come
vedremo, un nome simile e cioè chelandri. Il 30 maggio 1269 dunque i delegati di Luigi IX
stipulano il contratto per la costruzione di un sallandro nel cantiere di San Pier d’Arena, le
misure del quale ci permettono di capire dove stava la principale differenza tra questi porta-
cavalli e le ordinarie naves; dunque sarebbe stato lungo in carena 28 cubiti genovesi e
mezzo (m. 12,71) e da ruota a ruota 41 (m. 18,28), largo palmi 26,5 (m. 6,56). Si tratta dunque
di un vascello di forma uin po’ più allungata di quella della navi ordinarie, cosa spiegabile o
dalle sequele di stabularia (‘stallaggi per cavalli’) che doveva principalmente contenere o
dall’aggiunta della struttura della porta di poppa attraverso la quale gli equini dovevano
entrare e uscire. Doveva esser alto in sentina palmi 10,5 (m. 2,60) e dal ponte di questa alla
coperta palmi 9 (m. 2,23); la battagliola (orlum) doveva esser alta palmi 5,5 (m. 1.46); l’albero
di proda alto cubiti 32 (m. 14,27) e grosso palmi 7 (m. 1,73) e quello di mezzo alto cubiti 29
(m. 12,93) e grosso palmi 6 (m. 1,48). Avrebbe poi dovuto avere 7 pezzi d’antenna e 13
ancore da cantarii 4,75 ciascuna; inotre 5 vele di cotone nuovo, una barca poliscalmo e una
gondola, ambedue fornite di remi (ma, per quanto riguarda la seconda, per ‘remi’
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Capitolo III.
Per tornare però ora alle parandarie da bombe dei turchi di fine Medioevo, diremo che
vascelli triremi bombardieri si costruivano alla fine Quattrocento anche in Italia dove li
chiamavano delfini, forse perché con un’incastellatura protettiva di prua che si elevava sulla
batteria delle bombarde e quindi ricordava la grossa testa del delfino:
(Anno 1495:)… e nel ditto tempo ditto re di Napoli fecie grande armata per mare, cioè galee
42 sottile, circa nave 30, con delfini (sic) c(h)iamati l’uno Albatrosso (‘albatros’), l’altro
Scorpione, e quali vogavano circa remi sessanta per uno. Su ditti navili aveano due
bombarde per uno, gittavano pietre grosse libre 150 l’una; e questo per affondare nave
grosse (Memoriale di Giovanni di Portovenere etc. In A.S.I. T. VI, parte II, p. 283-284).
Rex Siciliae – Magnifice Vir, amice noster carissime, havendo noi persentito che in lo
Arcenale de questa Signoria è un capo mastro nominato ‘mastro Ioanni’, lo quale noviter
(‘ultimamente’) ha trovato certa natura de navili, quali chiama ‘arbatrocti’ (‘albatros’), che
teneno bombarde supra quale tirano preta de 250 libre; me è stato piacere intendere la
invenzione et havevamo assai da caro vederne l’effecto. Pertanto ne pregamo ne vogliate
mandare lo dicto mastro Ioanni (per) quanto monstrarà lo modo di taglio de dicti navili ad
questi nostri, acciò che ne possiamo o ad lui o ad li nostri far construere uno per
satisfazione del animo nostro che de ciò ne farete piacere etc. (Ib.)
indicare imbarcazioni più complesse, come poi vedremo. Resta da osservare che per
cumbe (l. cumbae, cymbae; gr. ϰύμβαι, ϰύμβια) s’intendevano legni piatti da carico non
grandi (cymbam, sive platam), i quali erano usati anche per la pesca, come leggiamo per
esempio nelle citazioni fatte da Nonio Marcello (De compendiosa doctrina per litteras ad
filium etc. P. 366. Basilea, 1842), ma che erano pure molto adoperati nelle armate a loro
supporto, ma questi ultimi, essendo coperti, dovevano essere più grandi della media, non
avendo infatti coperta quelli minori. Il nome cumba - ci fa sapere il già citato S. Pompeo
Festo – non è latino ma sabino e significava in origine ‘lettiga’, ciò a dimostrazione di
quanto fosse precipuo, almeno in origine, il ruolo di supporto militare esercitato da quei
piccoli legni; il senso di ‘lettiga’ si conserva nel verbo succumbere - da super (e non sub
ovviamente) cumbam, anch’esso di natura militare, significando in effetti ridursi, ferito o
moribondo, in lettiga.
Interessante è anche sapere che gli uscieri, vascelli di cui abbiamo già detto, anche se di
mole maggiore delle galere sottili ordinarie, non erano sempre provvisti di coperta e
talvolta solo parzialmente a poppa, e che di conseguenza i banchi ((l. transtra; gr. e grb.
σελίδα, σέλματα, ζυγά e ζυγὰ, ἒδωλα e ἐδώλια, ἲϰρια e ἰϰρία, θράνιοι e θράνια, θρᾶνοι e
θρῆνυες, θρῆνυϰες e θρᾶνυϰες; vn. poggi; ol. vrikken) dei remiganti dovevano
probabilmente esser posti in palchi laterali costruiti in alto all’interno delle fiancate. Più
tardi, a proposito dell’armata messa in mare da Alfonso V d’Aragona nel 1438, vedremo lo
Zurita usare il nuovo nome di taffureas, anch’esso nel senso, come sembra, di vascelli
bellici da salmerie (su armada de naos y galeras de tres y de dos remos, con otras taffureas
y fustas. L. XIII, c. L).
Gli uscieri erano, come già accennato, adibiti al trasporto, oltre che di cavalli, anche di ogni
sorta di munizioni e provviste militare; quelli ottomani, come già detto, erano generalmente
chiamati palandarie (vn. parandarie; cst. parenderas), mentre i veneziani chiamavano i loro
marani (lg. Mähre, ‘cavallo’), nome apparentemente di origine germanica e che sopravvive
ancora nell’odierno catamarano; infatti, a p. 35 della Perdita di Negroponto del frate Iacopo
dalla Castellana, leggiamo: parandarie, cioè marani (A.S.I. Appendice. Tomo 9). A Venezia
esiste ancora un canale che si chiama Canal de i Marani, dove probabilmente una volta si
usava tenervi ormeggiati appunto dei marani. Nel 1465 Jacomo Barbarigo, il già ricordato
provveditore generale veneziano della Morea, in un dispaccio da lui inviato il 19 settembre
al suo doge a Venezia chiedeva che gli mandassero da Venezia 40 0 50 cavalli perché la sua
gente d’arme ne aveva bisogno:
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… seria bona cosa Vostra Signoria mandasse 40 over 50 cavalli con primo maran, acio
ise posino meter a cavallo (C. N. Sathas, cit. P. 48).
Come vedremo, a partire dal terzo quarto del Trecento si comincerà a usare questi marani
non solo come porta-cavalli ma anche per il trasporto di materiali pesanti sia civili sia
militari.
Le galere medievali, biremi o triremi che fossero, generalmente eccezion fatta per quelle di
comando, non avevano la soprelevazione di poppa di quelle più tarde, il che infatti ancora si
può notare nella quattrocentesca Tavola Strozzi, ma vi portavano solo un leggero telaio per
reggere il tendale che serviva a riparare da sole e dalla pioggia il comandante e i suo ospiti,
particolare comune anche agli antichi vascelli remieri da guerra romani, come ben si vede
da quello realisticamente raffigurato in un affresco del Museo Nazionale di Napoli
proveniente dal tempio di Iside di Pompei, vascello offerto al pubblico come trireme, ma
che, se invece di identificarlo dall’affollamento dei remi perché particolare molto poco
chiaro, si volesse farlo dalla scarsa lunghezza dello scafo, si potrebbe anche credere invece
una monoremo; vero è che molto spesso gli artisti rappresentarono i vascelli remieri più
corti del reale per esigenze pittoriche. Comunque in realtà che anche le antiche triere
offrissero per alloggio del comandante solo un tabernacolo, ossia un padiglione, una tenda
insomma, lo leggiamo in G. Polluce, cioè laddove dice della struttura della poppa di quei
vascelli:
… luogo che si dice anche tabernacolo, (cioè) quello innalzato per il capitano generale o per
il trierarco (ἐϰεῖ που ϰαὶ σϰηνὴ ὀνομάζεται, τὸ πηγνύμενον στρατηγῷ ὴ τριηράρχῳ. Giulio
Polluce, Onomastikon grece et latine. I.IX, p. 60-61. Basilea, 1541 – Amsterdam, 1706).
Dunque anche il detto grande passa-cavalli era stato costruito a plat, come dicevano i
catalani, cioè senza alcuna sovrastruttura sulla coperta. Invece tra le quaranta galere
aragono-catalane che proprio in quell’occasione andranno ad affrontare le castigliane a
Calpe sulla costa alicantese ve n’erano due gruesas di comando con incastellature, come si
legge sempre nella suddetta Cronaca, ma quante e in quali parti della coperta le avessero
non è specificato.
Il suddetto re vi fece poi imbarcare ben 160 uomini d’arme e 120 balestrieri [grb. prima
τζαγγρατοξόται; poi τζαγγράτορες o τζαγκράτορες, infine latinizzato in μπαλαιστροὶ o
μπαλeστροὶ e βαλλιστράριοι. In fr. arbalestiers, se a cavallo (l. equitantes), e
cren(n)equiniers o cranequiniers, se a piedi] e, considerando che per ‘castellano’ della prua
aveva scelto Garcia Alvaréz de Toledo, già patrone della sua personale galera reale, c’è da
pensare che volesse fare di quel vascello una sua risorsa bellica molto importante.
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Vascelli levantini, specie ottomani, erano le germe (nel Medioevo dette ‘giarme’), adoperate
per il trasporto di mercanzie. Si trattava in questo caso d'imbarcazioni non molto lunghe,
ma assai larghe; non avevano coperta e quindi ben poco anche di opere morte (bastingaggi,
palchi e castelli); e portavano da mille ad 11.500 salme di carico; avevano quattro vele
grandissime che si potevano permettere in quanto vascelli molto stabili e assai reggenti;
probabilmente trovavano la loro origine nelle gelve del Mar Rosso, imbarcazioni molto
piatte che si usavano specie lungo le coste sub-sahariane del Mar Rosso per ovviare alle
molte secche che le caratterizzavano. Imbarcavano, oltre ai carichi di merci, frequentemente
anche passeggeri, i quali ovviamente, non essendoci una coperta, erano alloggiati tra le
merci malissimo, come racconta il già ricordato de Villamont; ma di questo suo viaggio poi
molto altro diremo.
Le caravelle propriamente dette (ol. karvels; dall’gr. ϰάραβος) erano vascelli oceanici molto
usati dai portoghesi, tant’è vero che nel Mediterraneo rinascimentale erano chiamati
caravelle i vascelli oceanici spagnoli e portoghesi in generale, proprio come poi nel
Seicento saranno chiamati genericamente galeoni tutti quelli spagnoli che, di conserva,
faranno la rotta per e dalle Americhe; ma non erano di origine lusitana in quanto derivati,
anche da punto di vista lessicale, appunto dai càrabi (gr. ϰάρӑβοι e ϰαράβια) dei mari di
Levante, ossia da quei velieri onerari che poi saranno detti saicá da greci e ponentini e
caramussali dai turchi; avevano fondo di chiglia, poppa quadra, fiancata curva e, pur se
piccoli, ben quattro alberi, di cui però il solo trinchetto con gabbia; erano pertanto molto
leggere e veloci (gr. σωβῆριδες νῆες), tanto da essere considerate i migliori velieri esistenti
ancora nel Cinquecento; il loro albero di prua aveva normalmente vela quadra, ma le altre
vele di questi vascelli erano tutte latine e pertanto navigavano con tutti i venti, essendo
questo un tipo d’attrezzatura velica che i francesi dicevano mâture en caravelle:
... Hanno queste caravelle [...] quattro alberi oltre la zevadera e nel primo di proda portano la
vela quadra con il suo trinchetto di gabbia, ma, negli altri tre, tre vele latine con le quali
camminano contro i venti, come fanno le tartane francesi in questo Mare (Mediterraneo), e
sono 'sì snelle e leggiere a voltare che pare che habbiano i remi. (B.Crescenzio. Cit. L. V. p.
526.)
Avevano una sola coperta e non erano adatte a ricevere molto carico, avendo infatti una
portata che andava dalle 90 alle 140 botti o tonelli solamente – anche se poi nel secolo
successivo furono ingrandite stabilizzandosi sui 200 tonelli - ed erano insomma vascelli che
allora, nel Cinquecento, i portoghesi usavano sia per lunghi viaggi sia per azioni belliche di
supporto che richiedessero prontezza e velocità; nel secolo precedente, cioè sino allo
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stabile instaurarsi dei grandi viaggi transoceanici per la cui sicurezza s’imporranno poi le
grandi naus e i grandi galeoni, le caravelle s’erano molto usate sia per i viaggi mercantili
atlantici verso la Fiandra, le isole Azzorre e le Canarie, a quei tempi chiamate Isole dei Beati,
sia anche per costituirne in prevalenza le flotte da guerra ispano-portoghesi, le quali
entravano spesso anche nel Mediterraneo, tanto che il loro nome venne dai popoli
mediterranei presto impropriamente esteso a tutti i vascelli tondi atlantici; pertanto, quando
alla fine del secolo il ligure Cristoforo Colombo fu dotato, come si disse, di quattro
‘caravelle’ per il viaggio che poi l'avrebbe portato alla grande scoperta, anche se
certamente non si trattò delle grandissime carracas che proprio in quel tempo i portoghesi
cominciavano a usare per il viaggio di circumnavigazione dell’Africa verso le Indie orientali,
non sembra che si sia trattato effettivamente solo di caravelle, a giudicare dal troppo
numeroso equipaggio che dai documenti coevi risulta avessero.
Assai usate in Italia erano le polacche, nome che non si rinviene prima del Cinquecento e
che corrispondeva a piccoli vascelli tondi di forma allungata, ma non stretta, i quali
portavano tre alberi o comunque tre velature distinte (gr. τριάρμενοῐ ὀλϰάδες) – ma dalla
fine del Seicento spesso anche il bompresso - e quattro vele, cioè due quadre (la maestra
con il suo trinchetto di gabbia) e due latine (trinchetto e mezzana); secondo l’Aubin, il quale
comunque non sembrava intendersi di navigazione mediterranea, le polacche potevano, in
caso di necessità, essere spinte anche a remi e, se effettivamente così, dovevano poterlo
fare molto probabilmente come si faceva con le barche spagnuole, di cui poi diremo;
avevano anch’esse una sola coperta e portavano da 800 a mille salme di carico; armate con
un numero di cannoni ferrieri, ossia a palle di ferro, che andava da quattro a sei e sempre
con qualche petriero, erano montate da 25 a 30 uomini e, armate a guerra e guarnite di
fanteria, erano usate anche per la difesa costiera e talvolta per il corso (Nicolas Aubin,
Dictionaire de marine, Amsterdam, 1702).
I vascelli tondi a più coperte erano strutturalmente superiori a quelli che n’avevano invece
una sola, perché erano più forti nell'urtare vascelli nemici, sopportavano meglio le
tormente, erano più comodi per alloggiarvi e portare quidi più gente e infine potevano
disporre anche di più artiglierie.
Generalmente l'albero di maestra d’un vascello tondo doveva esser lungo quanto lo era il
vascello stesso da ruota a ruota, ma questo all'altezza della seconda coperta; un quinto di
meno di questa lunghezza era il trinchetto e un quinto meno dell'albero di trinchetto era
quello di mezzana maggiore; le antenne o pennoni maggiori del maestro e del trinchetto
erano spessi al centro circa il doppio che all’estremità ed erano lunghi un quinto meno dei
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loro rispettivi alberi, mentre le antenne delle mezzane, più sottili perché reggevano vele
latine, erano lunghe quanto i loro rispettivi alberi, così come anche lo era il pennone della
zevedera o bompresso; quest'ultimo albero era lungo e spesso quanto quello di trinchetto. I
trinchetti delle gabbie dovevano, sempre generalmente, essere lunghi la metà delle antenne
o pennoni dei loro rispettivi alberi. Le regole però seguite in questo campo variavano da
paese a paese e per esempio quella più osservata in Olanda era che l’albero di maestra
doveva essere lungo due volte la somma di due misure del vascello e cioè della larghezza e
del puntale (fr. anche creux), ossia del vivo al centro, mentre gl’inglesi lo facevano lungo tre
volte i 4/5 della larghezza e inoltre volevano il trinchetto e il bompresso lunghi i 4/5 del
maestro e l’artimone la metà sempre del maestro. Una regola generale era però che più
lungo era un vascello, mentre proporzionalmente più lunghi dovevano essere i suoi
pennoni, più corti dovevano invece relativamente essere i suoi alberi; questo perché,
navigandosi con vento in poppa, alti alberi avrebbero fatto piombare sul naso un vascello
lungo, ossia l’avrebbero fatto ricadere bruscamente in avanti (fr. enfourner, tanquer ; ol.
stamp-rijen, stamp-stooten, bokken, induikken) e imbarcare eventualmente acqua dalla
prua, mentre su uno più corto non avrebbero avuto quest’effetto, descrivendo infatti una
linea corta una minor sezione di circonferenza nell’aria; tale inconveniente poteva però
talvolta esser dovuto anche a un semplice eccesso di velatura a prua o a una cattiva stiva. I
turchi, non intendendosi di tecnologia e quindi di conseguenza anche poco di navigazione,
si vantavano d’usare alberi e antenne lunghissimi in modo da poter portare una maggior
velatura, ma questa lunghezza era invece un difetto perché faceva piegare sul fianco i loro
vascelli.
Divisa idealmente la lunghezza della seconda coperta, da ruota a ruota, in sette parti,
l'albero di maestra si doveva piantare a 4/7 da prua e quindi a 3/7 da poppa; esso, come del
resto anche quello di mezzana, si piantava un po’ inclinato all’indietro in modo da resistere
meglio alla pressione che il vento in poppa esercitava sulle sue vele, mentre quello di
trinchetto si poteva piantare o perfettamente diritto oppure anzi leggermente inclinato di 2 o
3 pollici verso prua, a meno però che il corpo del vascello non fosse alquanto debole
davanti, perché in quest’ultimo caso conveniva inclinare un po’ all’indietro anche il
trinchetto. Per quanto riguarda invece lo spessore degli alberi, bisognava distinguere quelli
d'un sol pezzo da quell’imbottati, ossia fatti di più pezzi; i primi dovevano essere, per ogni
12 piedi della loro altezza, spessi un piede nel terzo più basso, 2/3 di piede nel terzo di
mezzo e ½ piede nel terzo più alto; i secondi, per ogni 11 e a volte anche solo 10 piedi della
loro altezza, dovevano essere spessi un piede nel terzo più basso, 4/5 di piede nel terzo di
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mezzo e 3/5 nel terzo più alto. In effetti l'albero di maestra, a causa della sua altezza e del
suo spessore, rarissimamente poteva esser ricavato da un solo albero e quindi era per lo
più affastellato, cioè fatto di due o tre fusti (fr. brisures), ma più tardi anche di quattro o
cinque, ognuno dei quali era chiamato ‘albero’ a sua volta ed era innestato a coda di
rondine od à queües perdües, come dicevano i francesi, in quello sottostante, sistema
questo inventato verso il 1570 dal maestro carpentiero olandese Krein Wouterz
d’Enkhuizen, perché in precedenza i fusti erano sempre stati solo semplicemente legati
l’uno sull’altro. Quando un grande veliero doveva restare disarmato per molto tempo in un
porto, gli ‘alberi’ superiori, cioè quelli di gabbia e di parrocchetto, si toglievano e si
conservavano in acqua salata a evitare che all’intemperie si curvassero.
Un vascello tondo poteva avere da quattro a otto ancore per la maggior parte ancipiti (l.
ancorae ancipites; gr. άγκυραι αμφίβολοι), cioè a due teste, di cui perlomeno una
acuminata, e le relative gomene [dal fr. go(u)ë(s)mon. Fr. cables; l. rudentes; spirae
(‘voltolate’); ltm. palamaria; gr. ϰάλοι, ϰάλῳ, ϰάλωνες, σχοινία, ἐπίγυ(ι)α], incluse quelle di
riserva, a seconda della sua portata e grandezza. L’ usto (‘cavo’) da ancora (fr. maistre-
cable, di circa 120 braccia) d’un vascello quadro doveva essere in proporzione alla portata
del vascello stesso. Prendiamo per esempio un usto che pesasse all'incirca 21 cantàra;
l'ancora (gr. ἂγϰυρα) maggiore doveva pesare 2/3 dell'usto, ossia , nel nostro caso, cantàra
14, e la minore la metà dell'usto (fr. grelin), cioè cantàra 10,5, essendo il cantàro di Napoli
100 rotoli, il rotolo 33 once, la libra 12 once; pertanto un cantàro equivaleva a 3.300 once,
ossia a 275 libre, e, poiché un’oncia di Napoli o di Francia era circa grammi 26, il cantàro
corrispondeva a circa kg. 85,800. Le altre ancore di bordo dovevano essere di peso
intermedio tra le predette due. Le gomene di poppa per ormeggiare i vascelli alle banchine
avevano in greco nomi che le distinguevano dalle altre e cioè πρυμνήσια, πρυμνήται ϰάλῳ,
ἀπόγαια o anche σπεῖραι se di fibre voltolate. Riassumiamo ora le unità di peso napoletane
ora menzionate:
Cantàro = 100 rotoli = kg. 85,800
Rotolo = 33 once = gr. 858
Oncia = gr. 26
Libra = 12 once = gr. 312
La parità libra/oncia ci servirà più avanti. Precisiamo che il cantàro era misura che si usava
anche in Portogallo, ma quello portoghese equivaleva solamente a 66 libre veneziane circa.
Per quanto riguarda costruzioni navali molto grandi per i loro tempi, la prima di cui abbiamo
letto nelle storie è la nave che i veneziani portarono all’assedio di Ancona nel 1173, un
assedio portato da parte di terra da un esercito imperiale e che egli chiudevano dalla parte
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di mare con un’armata di galee; era una nave usata come batteria di congegni di lancio di
pietre e di dardi contro le difese della città ed era talmente grande che da molti era chiamata
Tuttoilmondo. Navi di straordinarie dimensioni erano poi sono quelle che si trovarono di
fronte i bizantini quando, nel 1261, riconquistarono Costantinopoli alle dinastie latine che se
ne erano impadronite sin dal lontano 1204. Si trattava di navi tanto grandi da navigare
‘come città trascinate sul mare’ (ὢσπερ πόλεις ἐπὶ θαλάττης ϰινούμεναι. Niceforo Gregoras,
Historiae byzantinae. L. IV, par. 109); ma l’autore racconta che, poiche le navi bizantine,
anche se molto più piccole, erano di numero molto maggiore e inoltre, proprio perché di
mole tanto inferiore, anche molto più agili e veloci e quindi ne avevano facilmente la meglio
(Ib). Eccezion fatta per la veneziana Boccaforte, grande nave che veleggiava nei mari di
Levante in quegli anni, si presume che si trattasse di navi genovesi, perché in quei secoli le
più grandi navi che nel Mediterraneo si trovassero disponibili al noleggio, specie a quello
francese, erano di solito appunto quelle della repubblica di Genova.
Nella famosa cronaca della guerra di Chioggia di Daniello Chinazzo si legge che nel 1379 le
galee veneziane s’impadronirono della più grande nave che solcasse allora i mari e cioè
della genovese Bichignana, nave che aveva tre ponti, cosa comunque sì infrequente nei
mari di Levante di quei tempi ma non nel Tirreno, forse perché questo era più vicino e
quindi più influenzato dalla marineria oceanica, ed era, oltre che difesa da circa trecento
uomini armati, talmente carica di preziose mercanzie che i veneziani, prima di bruciarla, in
quanto evidentemente irreparabilmente danneggiata dal combattimento, ne caricarono ben
tre loro navi di medie dimensioni, avendo rinunziato a ricavarne solamente il piombo e altri
costosi materiali di zavorra:
… sopra vi erano 300 combattitori ed era di 3 coperte, tutta incorata (‘incuoiata’) di fuori via,
e pareva a vedere un castello […] perché essa Bichignana fu il maggiore e il più bel naviglio
che fosse mai veduto in quelli mari (Daniello Chinazzo, Cronaca della guerra di Chioza etc.
In L.A. Muratori, Rerum italicarum scriptores etc. C. 750-751, t. XV. Milano, 1727).
Per spiegare quel tutta incorata diremo che nell’antichità e nel Medioevo si era molto usato
ricoprire la parte emersa delle fiancate dei vascelli di cuoi freschi (l. segestria; gr. δέῥῥεις,
διφθέραι, βύρσαι), i quali vi si inchiodavano con chiodi ovviamente più piccoli dei normali
chiodi navali, e ciò si faceva non solo perché si trattava di un materiale dalle naturali
proprietà ignifughe e quindi in grado di riparare abbastanza il fasciame esterno dai lanci di
fuoco del nemico, ma anche e soprattutto perché aiutava a difendere dagli abbordaggi,
perché, per avvicinare e trattenere il vascello nemico da abbordare aderente al vascello
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abbordante, s’usava lanciare da questo nel fasciame delle fiancate di quello dardi legati con
lunghe corde che vi si andavano ad infiggere e quindi, loro tramite, si poteva tenere avvinti i
due legni e così consentire le operazioni d’abbordaggio; il cuoio fresco non permetteva
questa profonda infissione e di conseguenza i difensori potevano, usando delle pertiche,
svellere facilmente quei dardi e liberarne così il proprio vascello portandolo ad allontanarsi
di nuovo.
Oltre il proteggere nella maniera predetta le fiancate dei vascelli, era anche consueto
cercare di difendere dalla teredine marina la loro parte immersa inchiodandovi sottili lamine
di piombo, come poi meglio spiegheremo; ma, per tornare ora al tempo qui in esame, si ha
notizia d’una gran nave armata francese di cui disponeva Francesco I; d’essa scriveva il
residente veneto Marini Giustinian in una sua relazione da Parigi del 1535:
... In Normandia (il re Francesco I) ha in porto di Grasse quella sua gran nave di gran
portada, la quale ha sopra sessanta pezzi di artiglieria, come dicono; de' quali trenta sono
di metallo (‘bronzo’) e sono doppi cannoni e colubrine... Ha ancora quattro galeoni. (E.
Albéri. Cit. S. I, v. i, p. 186.)
C’è da chiarire che, mentre in italiano per metallo s’intendeva generalmente il bronzo, in
spagnolo invece il bronzo si chiamava comunemente bronce, mentre metal (con i suoi
sinonimi latón e azófar) significava ottone.
Anche se non raggiungeva le dimensioni dei detti smisurati galeoni e naus portoghesi,
doveva ciò nondimeno essere ben grande questa nave, chiamata in Francia le Caraquon, se
doveva sopportare il peso di tanti e dei più pesanti pezzi d'artiglieria, quali erano infatti,
basilischi turchi a parte, i doppi cannoni e le colubrine! Lo Jal scrive che essa aveva una
portata di 800 botti o tonelli ed era armata con 100 pezzi d’artiglieria tra grandi e piccoli e
racconta che, mentre faceva parte dell’armata che nel 1545 l’ammiraglio di Francia Claude
d’Annebaut stava da due anni raccogliendo intorno a Le Havre (de Grace) per invadere
l’Inghilterra, impresa che risulterà sfortunata, questa grossa nave, ammiraglia e vanto della
marina francese del tempo, considerata allora anche il miglior veliero di ponente, mentre
era all’ancora e fortunatamente prima che il predetto ammiraglio vi s’imbarcasse, prese
fuoco e affondò tra le fiamme. C’era però prima di questa stata un’altra grande carraca
francese, una che nel 1501 il re Luigi XII incluse nell’armata che mandò contro i turchi
invadenti la Grecia, spedizione che, postasi all’assedio di Metelino o Mitilene che dir si
voglia, finì in un disastro, e di tale nave parla il cronachista Jean d’Auton, così citato dallo
Jal:
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… la grande nave o carraca chiamata ‘la Charente’, una delle più adatte di tutto il mare alla
guerra… era armata di 1.200 uomini di guerra senza (contare) il vantaggio di duecento pezzi
d’artiglieria, dei quali quattordici a ruote che tiravano grosse pietre e palle serpentine (‘palle
di metallo’); (era) vettovagliata per nove mesi e aveva vele tanto abbondanti che in mare
non c’erano pirati o grassatori che le (potessero) prender vento davanti. A bordo c’era un
gentiluomo di Bretagna, capitano di quella, di nome messer Jean de Porcon, signore di
Beaumont e luogotenente del Re nel mare di Normandia. (A. Jal. Cit.)
Il cognome del suddetto capitano non deve meravigliare il nostro lettore; esso ha, con tutta
probabilità e come tanti altri, un’origine araldica, nel senso che questo cavaliere poteva per
esempio portare nello stemma di famiglia la raffigurazione d’un cinghiale, animale in
araldica onorevole perché armato di zanne e combattivo; luogotenente generale (gr.
ἐπιστολεύς; l. legatus e in seguito subpraefectus) di quell’armata era invece Philippe de
Ravestain e capitano generale (gra. e grb. στολάρχης; ἒπαρχος στόλου; l. praefectus classis
et orae maritimae) lo stesso re. Altra nave, ancora più antica a giudicare dal nome con cui si
ricordava nel Mediterraneo per le sue forme smisurate, era la caraca di Rodi, vascello
risalente al tempo in cui quell'isola era ancora sede dei cavalieri di S. Giovanni di
Gerusalemme, sede subentrata a Cipro nel lontano 1309 e perduta il giorno di Natale del
1522 dopo cinque mesi d’assedio turco iniziato, e probabilmente partecipante anche alla
battaglia di Laiazza del 1510, dove dalla flotta dei predetti cavalieri fu sonoramente sconfitta
quella del sultano burgita d’Egitto, la quale riportava a Costantinopoli un figlio di Bayazid II
(1481-1512) che veniva pellegrino dalla Mecca e forse si trattava dello stesso Selim I che
nell’aprile 1512 subentrerà al padre defunto; secondo il d’Aquino (v. fonti) essere come la
gran caracca di Rodi diventò poi anche proverbio, per dirsi di persone molto corpulente e di
tardo moto. Anche il Sanuto ricorda nei suoi Diarii quest’enorme legno laddove arriva
all’anno 1495, definendola però non caracca, bensì barza de botte 3.000 benissimo in
ordene; barza (sincope tachigrafica di barcaza, ‘grossa barca’) significava in veneziano
semplicemente ‘nave’:
… Fo concluso tra tutti di partir le nave e le galie, videlicet parte di le barze con parte di le
galie… (M. Sanuto, Diarii. T. I, col. 280.)
… Andrea Loredan, capitano di le nave armade, a dì 2 ditto (marzo 1497), compite di dar
danari a tutti li homeni di la sua barza nuova per num.° 450, munitissima di artellarie di ogni
sorta, boche zerca 400, ‘maxime’ alcune bombarde grosse e certe passavolante novamente
butate (‘gettate, fuse’), fornita ‘etiam’ di vituarie in gran quantità ed era di botte 2.800 [om.]
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Ancora in questo giorno l’altra nave di botte 1.800, patron Daniel Pasqualigo, comencioe ad
armar e ponersi in hordine… (ib. Col. 534.)
… A dì 18 april (1497), martadì matina, Andrea Loredan, capetanio di la barza granda armata,
essendo su ditta barza col nome di ‘Christo' montado a dì 9, la qual era benissimo in
hordine con homeni 450 suso e 400 boche e più diartellarie e bombarde grosse da
bombardar ogni gran terra, le qual trazeno piere dipeso di lire 150 l’una, e fornita di
munizione e vituarie, bischoti (‘gallette’) in gran quantità, la qual era al sorzidor (‘alla fonda’)
e molti andava(no) a vederla per esser una di le belle cosse che in questi tempi né zà molti
anni (‘e da gran tempo’) sia stato sul mar, e li oratori di al liga (‘gli ambasciatori della Lega’)
fo’ (‘andarono’) a vederla e in questa matina, a dì 18, fe’ vella per andar in Istria. E il zorno
sequente lìaltra nave di comun (‘d’armamento pubblico’), (‘essendone’) patron Daniel
Pasqualigo, armata con homeni 300, ‘etiam’ si partì e fece vella. E dicta barza capetania era
di portà di botte 2.000 e si vedeva molto da lonzi velizar e pareva uno castello sul mar… (ib.
Col. 607.)
C’è qui da chiarire che quella del Loredano era dunque una nave non piccola, ma che
comunque i 450 uomini a bordo e le 400 bocche da fuoco rappresentavano non certo una
dotazione ordinaria, bensì un trasporto di guerra. Gli esemplari più piccoli, detti barzotti o
barzotte, potevano esser anche di solo un centinaio di botti di portata. Sempre a proposito
dello stesso anno 1495 il Sanuto menziona pure una nave di botte 3.000 chiamata Jansilla,
la quale si trovava allora in porto a Genova in attesa di salpare per Barcellona, mentre per il
precedente 1494 scrive d’altre due enormi, cioè della Negrona, vascello d’addirittura 4.000
botti che i genovesi, allora alleati della Francia, avevano allestito per la persona del duca
d’Orléans, generale dell’armata franco-genovese destinata ad appoggiare dal mare
l’esercito invasore di Carlo VIII, e della Salvega, anche questa grandissima e facente parte
della predetta armata. Di una nave turca grande come una città galleggiante, presente
nell’armata di mare anti-veneziana preparata dalla Porta Ottomana nel 1499, si legge in un
antica cronologia (Cronache di Antonello Coniger, gentilhuomo leccese in Raccolta di varie
croniche, diarij ed altri opuscoli etc. T. V, p. 591. Napoli, 1782):
El Gran Turco fe’ una grandissima armata de’ vele, fra grandi e picciole 500, dove tra l’altre
navi era una nave di 4.000 botti che portava una cetà in mare, nella quale ‘nci era tutta piena
de ‘ muneccione, le bombarde grandi 50, butti de polvere, diece butti pieni di aspri, una
catena di ferro che circondava tre millie; e di quella era capitano Jemalì e, de’ tutto el resto,
el filio del Gran Turco era capitano.
Altre navi smisurate costruite in seguito tra Cinquecento e Seicento furono le inglesi Great
Jack e Sovereign, questa dalla portata di 1637 tonelli e si diceva non potesse la sua sola
chiglia essere trainata da meno di 28 buoi e quattro cavalli; inoltre la danese Fortuna e la
svedese Impareggiabile, la quale portava ben 200 pezzi d’artiglieria; infine le francesi
Cordeliere e Couronne, quest’ultima lunga 200 piedi, larga 46, alta 75 e il cui solo albero di
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maestra, bastone dello stendardo incluso, era formato da ben 216 parti. Ma questi enormi
velieri correvano paradossalmente pericoli molto maggiori degli altri, perché in essi
finivano per ingigantirsi anche gl’inevitabili errori di costruzione, come affermava il
Savérien:
… Per quanti vantaggi essi portino, l’architettura navale è ancora troppo imperfetta per
esporsi ai pericoli d’una cattiva costruzione, la quale è inevitabile, come si è potuto
sperimentare nell’uso che si è fatto di tali (smisurati) vascelli… (Alexandre de Savérien,
Dictionnaire historique et pratique de Marine, Parigi, 1758.)
Eppure il Savérien scriveva ormai nel tecnicamente evoluto Settecento; ecco perché ai suoi
tempi, a differenza d’inglesi, olandesi e altri, i francesi avevano ormai rinunziato a queste
costruzioni molto grosse e avevano invece introdotto la razionale e ordinata classificazione
a ranghi, a seconda della loro stazza, del numero dei loro ponti e delle bocche da fuoco
portate, chiamando vascelli di linea, ossia di corpo d’armata, quelli non inferiori al quinto
rango e stabilendo le loro caratteristiche e dimensioni con due ordinanze reali, una del 1670
e l’altra del 1688; tale nuova suddivisione verrà, come quasi tutto ciò che di militare veniva
dalla Francia, presto adottato anche da altre importanti potenze marittime, ma questa è altra
storia.
Chi avesse ideato e costruito i primi galeoni grossi marini rinascimentali, adattissimi anche
alla navigazione oceanica, non si sa; i primi di cui ci è stato dato di leggere sono appunto i
predetti quattro del re di Francia nel 1535; inoltre, nel 1551, il residente veneto Daniel
Barbaro, descrivendo le forze di mare britanniche in una sua relazione da Londra, tra l'altro
così scriveva:
... Ci sono anco da settanta navigli che essi chiamano galeoni, non molto alti, ma lungi e
grossi, con li quali hanno fatto nelle guerre passate tutte le fazioni (E. Albéri. Cit. S. I, v. II, p.
253)
Non intendeva però il Barbaro dire con queste parole che i galeoni fossero originalmente
vascelli usati soprattutto dagl’inglesi, ma sicuramente invece che, riferendosi ai bertoni di
cui abbiamo già detto, gl’inglesi li chiamavano galleons, in quanto quello di bertoni era
ovviamente nome dato loro dagli stranieri (ltm. forinseci) e non dagli stessi inglesi; in realtà
il nome era solo parzialmente improprio perché in effetti i bertoni ricordavano parecchio i
galeoni, però con la differenza che questi, come sappiamo, non avevano il castello di prua,
quelli invece non avevano nemmeno quello di poppa. Gli ultimi ad adottare i galeoni furono
i turchi e ciò avvenne tra il 1575 e il 1590, come si evince dalla relazione del bailo veneziano
70
Matteo Zanne del 1594, e ciò accadde evidentemente in quel contesto generale imitativo
della marineria cristiana che s’instaurò a Costantinopoli come complesso d'inferiorità dopo
il grande e irreversibile trauma causato dalla rovinosa resa dei conti subita dai turchi a
Lepanto (gr. Ναυραϰτος; tr. Inebahti); perché si dica quello che si voglia e si minimizzi pure
Lepanto quanto si creda, ma quella battaglia fu uno di quegli avvenimenti che più
cambiarono il corso degli eventi in questo mondo.
Ma quale doveva essere dunque il garbo d’un buon vascello tondo, ossia a prevalenti vele
quadre, perché avesse buone qualità nautiche? Se il vascello si faceva, come si diceva
allora, ben quartierato, cioè di corpo più grosso alla prua e rimpicciolentesi gradatamente
all'indietro fino alla poppa, e lo si faceva di gran fondo, ossia di pescaggio profondo, e non
molto lungo, allora avrebbe navigato meglio con forte vento in poppa e avrebbe resistito
meglio alle burrasche, risultando, per questa sua forma, forte e reggente, né avrebbe
temuto tanto il mare di fianco; però con il bel tempo (fr. temps à perroquet) un simile
vascello non avrebbe fatto molta strada né sarebbe risultato molto agile né si sarebbe
potuto girare facilmente a causa del suo profondo pescaggio e della sua gran larghezza.
Se invece il vascello tondo si faceva, come anche si diceva allora, pianello, ossia con poco
pescaggio, alquanto lungo e con poco quartiero, cioè con poco corpo alla prua, allora
anche con i venti leggeri o in bonaccia risultava essere molto veloce, agile col vento
dell'oste, vale a dire col vento del quarto posteriore, e poteva ben orzare (l. ad Orsam
incedere; fr. aller au lof), cioè mantenere la prora quasi contro il vento. In una parola un tal
tipo di vascello tondo era molto più flessibile e volubile del precedente, ma nelle borasche,
ossia nei forti venti dal nord – aquilone, tramontana, borea (vn. forean, furian, detto dai
marinai bizantini Ταναίτης, da ‘Tanai’, cioè il fiume Don), e con i venti impetuosi in generale
questo secondo tipo di vascello tondo risultava pericoloso, soprattutto perché geloso o
caminoso (vn. vergolo; fr. rouler) – termini questi tutti levantini, ossia mediterranei, cioè
facile a piegarsi ora da un lato e ora dall'altro durante la navigazione, specie se a vela, e
quindi correva il rischio di traboccare, vale a dire di capovolgersi (ts. ingavonarsi); infatti,
essendo di quella forma allungata e con poco quartiero, non poteva reggersi bene sotto la
spinta delle vele e di conseguenza era facile a scoprire i fianchi ora da una parte e ora
dall'altra. I marinai pratici dicevano che un vascello che non reggeva non poteva mai
navigare bene alla vela con i venti freschi, ossia gagliardi. Un vascello geloso, ossia uno
che non si riusciva a metter bene in stiva perché difettoso di costruzione nello scafo o
nell’alberatura, si poteva riconoscere facilmente anche quando stava alla fonda, perché
molto probabilmente sarebbe stato in giolito (gr. ἐν σάλῳ, quindi σᾰλεύειν; l. in salo; fr. en
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jolly, en travail, en tourment, in cargue, à la bande), cioè, pur stando all'ancora, avrebbe
troppo rollato e si sarebbe quindi pressocché coricato ora da un fianco e ora dall'altro per
effetto delle traversie portuali; ma questo termine giolito non significava solo qualcosa di
negativo, perché infatti stare o trattenersi in giolito significava più comunemente starsene
all’ancora in rada (gr. ἀποσᾰλεύειν) invece d’andare a ormeggiarsi (gr. ἐνορμίζεσθαι) a
terra e far dimora in giolito significava scegliere di dormire a bordo invece di andarlo a fare
con maggior comodità a terra.
Solo dalla metà del Seicento troveremo nel Mediterraneo chiamare anche pinco il flauto [fr.
flûte, pinque, pinke; ol. fluijt(-schip; npm. panzonum), pink, ing. pink], vascello quadro
oceanico dal porto di due o tre centinaia di botti o tonelli – ma potrà arrivare anche alle
cinque; era molto piatto di fondo, tanto tondo di poppa quanto di prua, ma con la poppa
lunga e alta, tanto panciuto da esser largo al ponte a fior d'acqua [fr. franc-tillac, premier
pont; ol. onderste dek] il doppio che alla coperta, per cui questa sua fiancata a scarpa
risulterà di difficile arrembaggio, capace di circa otto pezzi d’artiglieria, maggiori, se
velicamente armato in corso o minori (p. es. falconetti), se armato invece con attrezzatura
velica a quattro alberi uguale a quella degli altri vascelli quadri, ma più stretta, che gli
permetterà pertanto di perdere poco il vento e d’essere quindi buon navigatore (gr.
πλώïμος), anche se non quanto i vascelli a poppa quadra; nemmeno troviamo ancora
nominati nel Mediterraneo del Cinquecento l'adriatico trabac(c)olo, il mercantile turco
samkin, ancora i turchi londro (ma anche lontro o londra), garbo e sultana, quest’ultima il
galeone turco, la greco-ottomana saic(c)á, vascello questo dall’alberatura sostanzialmente
uguale a quella del caramussale turco, ma più pesante di scafo per contrappesare la
smisurata altezza dell’albero, il quale però sovente si smonterà; né infine il fregatone,
grosso cargo veneziano a poppa quadra, comune nell’Adriatico, attrezzato con mezzana,
maestro e bompresso, ma privo di trinchetto, capace, se molto grande, di caricare da otto a
10mila quintali, essendo però allora, come sappiamo, un quintale solo 100 libre e non 100
chili come oggi. Il non averli noi trovati nominati non significa però ovviamente che non
incominciassero già a vedersi nel Cinquecento, cosa al contrario molto probabile.
Tralasceremo inoltre di descrivere parecchi tipi di vascelli tondi che erano tipici delle coste
atlantiche dell’Europa e che nel Mediterraneo difficilmente potevano a quei tempi
comparire, tra questi i fiammingo-olandesi (beitel-)aak, boot, boïer o boyer, galjoot, (haring-
)buis, kaag o kaeg, kat(-schip), (beitel-)aak o a(c)que, lo scandinavo kraay (fr. craie), la barca
normanda gribane, costruita à sol(l)e, cioè a fondo piatto privo di chiglia, le francesi chatte
e traversier, quella portoghese mulete, la tialk, la semaque, imbarcazioni quest’ultime
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dall’alberatura caratteristica, la heu (ol. hui; in. hulk; td. hulek), vascello piatto di fondo,
molto usato da olandesi, fiamminghi e inglesi, ecc. Diremo solo qualcosa della beland(r)a di
Fiandra, questa piccola imbarcazione da carico, molto piatta di fondo e molto comune su
quelle coste settentrionali, la cui stazza partiva dai 30 botti o tonelli, ma arrivando, per lo
meno poi nel Settecento, alle 80; essa, come i summenzionati boïers, yachts, heus e le
semaques, ossia come tutte le imbarcazioni nordiche dal fondo piatto o semipiatto, ma ciò
nonostante destinate a navigare egualmente in mare, era caratterizzata dall’esser provvista
di derive [fr. dérives, semelles (de basbord); ol. swaarden], cioè da un assemblaggio mobile
semiovale fatto di tre tavole di legno posto a ogni fianco del vascello e che si facevano
calare in acqua alternativamente quando si voleva navigare alla bolina ed evitarne così
appunto la conseguente deriva o falsa rotta (fr. anche abbattement); si distingueva inoltre
dall’avere la coperta più alta del bastingaggio di circa un mezzo piede, per cui tra coperta e
pavesata c’era uno spazio a corridoio di circa un piede e mezzo che correva per tutta la
lunghezza del fianco; questo veliero, omologo oceanico del leuto (dal l. laudus, per il
tramite di lautus; ctm. laúd) mediterraneo pur nella grande diversità di velatura, era anche
usato sulle coste francesi della Manica col nome di quaiche, chaie, ma nulla aveva a che
fare con la palandaria passacavalli ottomana, a cui abbiamo più sopra accennato, e neppure
con la predetta esiziale pal(l)andra o galeotta da bombe che nascerà nell'ultimo quarto del
Seicento. Molto più piccola era poi, sempre nell'oceano, la flette (prob. dall'iberico flete,
noleggio), trattandosi di un battello (dall’ol. boot, attraverso lo sp. batél) coperto usato per
brevi passaggi o per trasporti di piccole quantità di merci.
I grandi vascelli da guerra avevano di solito sul fondo di cala uno spazio detto in fr. rum od
r(e)un e in ol. Ruime (sp. bodega), nel quale si conservava quella mercanzia che per lo più
anch’essi sempre portavano, uso dal quale sono venuti il verbo francese arrumer,
arr(e)uner, arrimer, col significato di sistemare la mercanzia nel rum, e la locuzione inglese
to have room, nel senso comune di ‘avere spazio’; probabilmente anche l’omonimo e ben
noto liquore marittimo prese il suo nome da questo spazio di carico. Tra la prima e la
seconda coperta si tenevano principalmente le artiglierie, di cui anche i vascelli mercantili
(fr. bâtimentes) erano necessariamente dotati, e i cavalli.
A proposito di ponti, abbiano appena detto come gli olandesi chiamavano il primo, cioè
quello più basso; diremo ora che davano invece al secondo, se presente, i nomi di (schut-
)overloop, (o)verdek o tweedw dek e alla coperta quello di bovenste o boevenet; essi
preferivano i vascelli a due ponti, anche se alquanto elevati sull’acqua e alti al loro interno
per facilitare il maneggio dell’artiglieria, perché quelli a tre, anche se più consoni alla guerra
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in quanto molto più difficilmente arrembabili, trattenevano al loro interno troppo il fumo
degli spari e inoltre sul ponte di coperta non si potevano mettere molti cannoni come nei
due inferiori, perché il loro gran peso a quell’altezza avrebbe messo in pericolo la stabilità
del vascello; si preferiva dunque disporre sulla coperta dei trepponti archibugeria e
moschetteria.
A volte si ovviava al problema della ritenzione del fumo o rinunziando all’intera coperta tra i
due castelli [fr. pont coup(p)è] o dotando il vascello solo d’una coperta parziale o mezza
coperta (fr. suzain; susain), cioè privandola di quella parte anteriore che andava dall’albero
di maestra al castello di prua, parte che all’occorrenza si sostituiva o con una copertura di
carabottino [corr. del fr. caillebo(t)t-e/is, ‘gabbia per le quaglie’; quarreaux, treillis] o con
una di corda intrecciata [fr. (Saint-)Aubinet, pont de corde], sostenuto questo da pezzi
d’albero posti di traverso sui parapetti anteriori; questi ponti à jour si portavano nella stiva
in pezzi precostruiti da assemblare (fr. en fagot) erano, come del resto anche le boccaporte
(sp. escotillas) e le altre eventuali aperture, protetti dalla pioggia e dai colpi di mare
coprendoli con tele catramate (fr. prelarts), ma bisognava togliere (fr. ferler) il predetto
ponte di corda in occasione di colpi di vento, perché in tal casi avrebbe impedito la
manovra. C’erano poi anche ponti interi di corda intrecciata che si stendevano sopra la
coperta di mercantili monoponte e risultavano molto utili per difendersi da un arrembaggio,
in quanto standovi sotto si potevano attraversare con spade, mezze-picche e spari così
colpendo il nemico che vi fosse saltato sopra.
Terminata la descrizione dei vascelli tondi o quadri, detti anche genericamente navi, cioè di
quelli a prevalente velatura quadrangolare, passeremo ora a quelli latini, detti
originariamente - e anch’essi genericamente - barche specie se piccoli, ossia a quelli a sola
velatura triangolare e molto orientabile, vascelli quindi non superanti generalmente alle 900
botti di portata e che nel Medioevo erano stati anche più piccoli (parvis navigiis quae
barchae dicuntur in G. & G. Stella, Annales genuenses etc. Cit. Anno 1332, col. 1.066); ma,
poiché in effetti anche i vascelli remieri viaggiavano in alto mare come quelli latini e cioè
principalmente a vela latina, questo nome di barche si troverà facilmente usato anche per
taluni di questi ultimi e quindi vedremo barche lunghe, barche spagnuole, barche armate:
(1345:) … acompanyades d’una barca armada […] Era una barca de dotze rems…
(c. 1390:)… barca armada de XXIIII rems…
(1399:)…tres barche Turchorum armate in culpho Patraxii […] de remis XX vel circa pro
qualibet
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Tutte queste appartenendo alla categoria dei vascelli lunghi (gr. νῆες μαϰραὶ, μακρά πλοῖα),
vale a dire dei remieri da guerra. A proposito dell’ultima di queste tre citazioni
aggiungeremo che il senato di Venezia accolse una richiesta d’aiuto del governatore di
Corfù Marino Charavello e, con decreto del 27 novembre di quel 1399, deliberò di inviargli
un nuovo legno da guerra:
… ut dignemur sibi mittere unum lignum, mensure lignorum Istrie, vadit pars quod mitti
debeat Corphoy unum lignum novum mensure Istrie ad navarescham (H. Noiret, cit. Pp. 103-
104).
Del timone alla navaresca abbiamo già detto, mentre non sapremmo dire quali fossero le
dimensioni dei legni qui definiti ‘della misura d’Istria’. Nel Settecento per barca s’intenderà
invece unicamente un veliero con coperta e tre alberi (gr. τριάρμενος ὀλϰάς).
Dell'etimologia della locuzione vela latina [fr. anche tri(n)quette, voile à oreille de liévre ou à
tiers-point; ol. drie-hoekig zeilen, drie-kantig zeilen] già si discuteva in Italia nello stesso
Cinquecento, mentre sarà in Francia chiara più a lungo, cioè ancora nel Seicento; veniva
cioè da ‘navigare alla maniera latina’ in opposizione a ‘navigare alla maniera franca (fr.
franque)’. Insomma, essendo nel Medioevo i franchi un popolo considerato non latino bensì
germanico, un popolo quindi soprattutto di ponente (provenzali, linguadochesi,
rossiglionesi e catalani esclusi ovviamente), vale a dire ‘oceanico’, il loro modo più
consueto di navigare era ritenuto ovviamente quello alla vela quadra, mentre i popoli latini,
essendo soprattutto mediterranei, potevano permettersi di navigare principalmente alla vela
di taglio, detta dal loro nome quindi anche ‘vela latina’; questa distinzione delle due
denominazioni si può trovare espressa per esempio in una lettera scritta il 26 novembre
1619 dal principe di Piombino Carlo Bindi al sig. Gian Piero Dalviani e dalla quale venne poi
tratta una relazione in francese pubblicata a Lione l’anno successivo; in essa si
descrivevano le feste che in quell’anno si erano tenute a Costantinopoli in occasione della
circoncisione del figlio di Ahmed I, giovinetto di 12 o 13 anni d’età, il quale sarà poi a sua
volta sultano nel 1623 col nome di Amurat IV (Les cérémonies, magnificence, triomphe et
choses estranges et admirable faicte durant 40 jours dans la grande et superbe ville de
Constantinople etc. Chambery, 1620. B.N.P.) Questa distinzione tra ‘navigare alla franca’ e
‘navigare alla latina’ dimostra ulteriormente che l’introduzione della vela latina fu più tarda
dell’antichità, altrimenti sarebbe stata certamente diversamente espressa, per esempio
‘navigare alla greca’ (cioè a prevalente vela quadra) e ‘navigare alla latina’. L’ipotesi dunque
che il detto ‘alla latina’ possa etimologicamente derivare da ‘alla trina’, nel senso di
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navigare con vele triangolari, si rivela dunque solo un esempio di come talvolta si cerchi di
sopperire con la fantasia alla mancanza di studio.
Per quanto riguarda il nome generico di barche dato ai vascelli latini, esso non è dunque da
confondersi con i medievali bargae e bargiae (ing. barge; vn. barza), vascelli latini più
grandi, vere e proprie navi, e nome che si conserverà nella marineria veneziana con il
termine di barzotto ancora nell’Evo Moderno. I vascelli latini navigavano ovviamente molto
meglio dei quadri sia con vento dell'oste, ossia con vento latero-posteriore, come abbiamo
già detto, sia all'orza, e ciò anche se la vela latina era di più difficile maneggio di quella
quadra perché non si poteva orientare da una parte all'altra senza doversi spostare anche la
relativa antenna (gr. ϰεραία). Portavano da una a tre vele al massimo (una per albero), a
seconda della loro grandezza, e, a paragone dei quadri, erano di forma lunga e sottile. I più
grandi di questi erano le saettie (ltm. sagitteae e corr. sagittae, sagittiae, sagictiae,
sagyptiae, saiteae, sagictivae; lem/ctm. sageties; cst. saetinas), vascelli latini a tre vele e
cioè maestra, trinchetto e mezana, il cui nome ricorre già nelle cronache dalla prima metà
del Duecento, specie perché, per la loro velocità e maneggevolezza, erano nel Medioevo
molto usati da corsari (bl. cursores, cursales; gr. πειραταῖ) e pirati (bl. piratae; gra.
λῃστριϰοὶ, πειραταῖ, περιδήλιοι; grb. περάται, πορθμεῖς); infatti nel Medioevo erano state
vascelli sottili (grb. λεπτὰ πλοῖα), cioè erano state condotte soprattutto a remi [p.e. sageties
de setze rems. D’Esclot, Chronica, all’anno 1282; barca armada de 24 rems, Muntaner (Cit.),
all’anno 1308; sagyptiam cum XXII remis, Chroncon estense, all’anno 1348] ed erano state
infatti allora comandate da un comito, il che significa che erano di bordo molto basso. I
pisani si servivano molto di tale trasformazione (XI sagittias ad modum galearum velociter
ordinaverunt… XIIII sagittias ad similitudinen galearum praeparaverunt… Cronaca pisana
del Marangone all’anno 1163. In A.S.I. Tomo VI, parte II, p. 30. Firenze, 1845); ma ora quelle
che ancora potevano andare anche a voga non si chiamavano più saettìe bensì barche
spagnuole; queste erano vascelli stretti e ottimi velieri e tra le molte peculiarità che
presentavano avevano appunto quella di poter esser spinte normalmente anche a remi. In
sostanza qualsiasi piccolo veliero che non superasse all’incirca le 300 botti di portata
poteva essere corredato anche di remi:
.. Dise ancora ce, sopra Bichieri, ditta nave soa era stà presa dal, galion de Batin Cerisola,
corsaro zenoese, di botte 300, di remi 28 per banda che vogava, el qual era in conserva con
2 altra barzete di corsari… (M. Sanuto, Diarii. Anno 1496. T. I, col. 270.)
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Vediamo che già nel Duecento le saettie, specie se più grandi, erano non infrequentemente
usate anche per commerci veloci di merci meno voluminose ma magari più costose e
questo fu il caso delle due sa(e)gitiae genovesi che furono prese nel 1273 da corsari
provenzali e nizzardi, ma che, poiché portavano a bordo beni e persone non solo di
mercanti genovesi, nazionalità considerata ostile dagli angioini, ma anche di commercianti
milanesi e toscani, i quali fecero sì che le loro signorie chiedessero al re Carlo I un suo
autorevole intervento perché facesse loro ottenere un pieno risarcimento (G. Del Giudice,
Diplomi inediti di re Carlo I° d’Angiò riguardanti cose marittime etc. Pp. 15-16. Napoli,
1871). Vi saranno infatti più tardi, cioè nel Rinascimento, alcune saettìe, per lo più francesi e
appunto genovesi, con vele anche quadre, come per esempio quelle marsigliane, che
arrivavano anche alle 100 botti di portata, essendo allora, come abbiamo già detto, il tonello
o botte una misura di capacità oceanica francese costituita da 20 quintali; quest’ultima
misura poi – conformemente a una commistione tra capacità e peso tipica del tempo – si
trasforma appunto in misura di peso e va a comprendere 100 libre:
Tonello o botte di Bordeaux [fr. tonneau; ol. ton(ne), vat] = (equivalente a) 4 quattro barili di
Bordeaux o due pipe o 20 quintali o 2.000 libbre od 840 pinte di Parigi.
Barile di Bordeaux [fr. bar(r)ique; ol. oxhoofdt; it. anche botticella] = 500 pesi [fr. pesants;
ing. pound; it. libre] ossia cinque quintali, ossia 210 pinte di Parigi o 360 d’Olanda.
Pipa di Bordeaux ( più tardi detta millier) = 2 barili di Bordeaux, ossia 10 quintali.
Quintale (ol. centenaer; ct. quintalades) = 100 libre.
Giara (fr. jar) = 40 pinte d’olio.
Damigiana (fr. Dame Janne; ol. vul-geldt) = 1/12 di botticella.
Libra (fr. pesant, poids de marc) = 16 once.
Bottiglia (fr. setier o chopine) = ½ pinta.
Mezza bottiglia (fr. demi-setier; ol. mutsje).
Quarto di bottiglia (ol. halfje, halve-mutsje).
Ottavo di bottiglia (ol. pimpeltje).
Moggio (fr. muid) = 6,666 quintali.
Il tonello di Bordeaux era usato da sempre anche a La Rochelle e si era poi esteso a tutta la
costa atlantica della Francia, mentre nei mari del nord s’usava il last(e) o lest (misura e
termine prettamente olandesi), il quale equivaleva a due tonelli di Bordeaux presso
fiamminghi e inglesi (fr. last de tonneaux) e due tonelli e mezzo presso gli olandesi (fr. last
pesant); fino a Quattrocento inoltrato i capitolati di diritto marittimo della Lega Anseatica,
cioè la lega tra le città che davano sul mare (an der See) consideravano un vascello
mercantile piccolo quando non superava le 24 lastes di portata (J. M. Pardessus, Collection
de lois maritimes antérieures au XVIIIe siècle. Voll. II e III. Parigi, 1828-1834) .
77
ponentini ed erano usate, oltre che per il corso, anche per la difesa costiera e come vascelli
ippagogoi (gr. ἰππἂγωγοί; l. hippagines o hippagògoe); il nome tartane dervava
chiaramente da quello delle taride, probabilmente attraverso la variazione taritane. La
versione atlantica della tartana mediterranea era la pinassa (ltm. spinachium; itm. spinazza,
cst. pinaça; fr. espinace; ol. spiegel-schip), piccolo tre-alberi stretto, lungo e leggero a
poppa quadra, a vela, ma in caso di necessità spingibile anche a remi, molto usato in
Biscaglia, Bretagna, Normandia e Olanda perché molto adatto al corso, all’avanscoperte e
agli sbarchi di milizie e più tardi, per merito della sua grande versatilità e nelle sue versioni
maggiori, sarà usato dai francesi e dagl’inglesi anche nelle rotte transoceaniche per i loro
approvvigionamenti e commerci con le Americhe. Il nome si legge per la prima volta nei
Diaria neapolitana di anonimo all’anno 1388:
Alli 13 (di settembre) vennero ad 8 hore de notte (oggi le 5 di mattina) cinque galere, tre
bregantini e tre galeotte; e venne una nave spinazza ed una destera (sic) imbarbuttata e due
parascarmi de li nemici per soccorrere il castiello, dove fo una fiera battaglia… (In L. A.
Muratori, Rerum italicarum scriptores etc. C. 1.058, t. 21. Milano, 1732.)
Le destere, tipo di imbarcazioni remiere poco più avanti dette destrieri, non erano altro che
quelle dette in latino uscieri e a Venezia marani, cioè le porta-salmerie, usate per
trasportare, oltre ai cavalli, tutte le provvisioni necessarie a una spedizione militare
marittima; imbarbuttata è invece sinonimo del già incontrato e spiegato incorata, in quanto i
cuoi pendenti lungo i fianchi ricordavano, come del resto anche i camagli delle barbute,
appunto una ‘barba’. Infatti il già cit. Marin Sanuto il Vecchio ci fa sapere che i navigli così
incuoiati (l. navigia incorata, navigia circumvoluta coriis), oltre che barbotati, si dicevano
anche incamatati, evidentemente da incamagliati. L’armata castigliana che il 22 giugno
1481, sotto il comando del capitano generale Francisco Enriquez, salpò per recarsi al
soccorso di Otranto, assalita dai turchi, si componeva di 24 navi e di 11 pinacce (Zurita,
Anales. T. 2-2, l. XX, c. XLI). Non più di due sole vele portavano i leuti o liuti e le barche e
barcacce propriamente dette, vale a dire la maestra e il trinchetto.
Il petacc(hi)(i)o [it. anche pataca, petaggio, pattaggia fr. patac(c))he, postillon; ol. petas(zen),
vitlegger, post-vaartuig], essendo un vascello latino fatto principalmente per attività
belliche, necessita di qualche parola di più. Esso era un ‘legno’ (gr. ξύλον, anche appunto
nel senso di ‘vascello’) medio-piccolo che poteva raggiungere anche le mille salme, ossia le
250 botti, montato da una dozzina d’uomini e destinato al servizio d’armata dei grandi
navigli, alla sorveglianza armata delle coste e delle piazze marittime, alla ‘scoperta’ del
nemico e al portar avvisie ordini; era anche destinato al servizio di conserva (dai l. cum e
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servio, ‘servo insieme con’) dei grandi vascelli e c’è qui da spiegare che navigare in
conserva significava propriamente che più vascelli navigavano insieme, ma poi si prese a
dare il nome di conserva [fr. (vaisseau-)matelot, (vaisseau-)second] a un qualsiasi vascello
che viaggiasse con un altro e in particolare a un qualsiasi vascello da guerra che
viaggiasse con mercantili allo scopo di proteggerli [fr. conserve, convoi; ol. geley(-schip);
convoy]; la conserva era infine anche un tipo di vascelletto normalmente anche molto
adibito alla guardia doganale costiera e a uscire dal porto (gr. ὂρμος; ναύλοχος, λῐμέν) per
andare a fermare e riconoscere qualsiasi vascello che volesse entrarvi, eventualmente
ispezionandolo, per vedere se aveva effettivamente titolo per farlo o se doveva invece
esserne interdetto; cioè gli andava a chiedere se avesse passaporto per entrare, da dove
venisse – ciò per decidere se il suo equipaggio dovesse essere eventualmente sottoposto a
quarantena o purga - e dove fosse poi diretto; rispondere a queste domande si diceva in
francese raisonner ou haler à la patacche ou à la chaloupe. Nel giugno del 1624, per essersi
trascurato uno dei predetti dovuti controlli sanitari, si attaccò a Trapani e Palermo una
grave pestilenza portata da un galeone sul quale erano arrivati dalla Barbaria gli schiavi
cristiani trabaldati (‘riscattati’); vi perì moltissima gente, tant’è vero che anche grandi
personaggi ne morirono e tra questi il 31 luglio il segretario del vicerè Antonio Navarra, poi
l’auditore generale Juan Fajardo e infine se ne ammalò lo stesso vicerè Emanuele Filiberto
di Savoia (1622-1624) e passò anch’egli a miglior vita il 3 agosto seguente; per ordine del re
Filippo IV il suo corpo imbalsamato sarà poi con gran pompa trasferito a Barcellona a
mezzo della galera Reale o Capitana Generale (gr. ναυαρχίς, στρατηγίς ναῦς) del marchese
di S. Croce, la quale sarà scortata in quel viaggio da sette di Sicilia e quattro di Malta, e
infine sarà seppellito a S. Lorenzo del Escurial accanto alla tomba di suo fratello il principe
Filippo e non lontano da quelle dei reali di Spagna. A proposito dei petacchi, c’è da citare
un interessante ordine di commissione livornese del 29 luglio 1606 inviato a un fiduciario
d’Amsterdam e riportato dal Guarnieri, in cui si parla appunto dell’acquisto d’un petaccio da
usare per scorta a un mercantile da inviarsi in Cambaia (regione costiera dell’India
occidentale) e d’una lancia – termine questo allora del tutto inusuale nel Mediterraneo,
ambedue ordinati ai cantieri d’Amsterdam e che si attendevano a Livorno, la lancia in pezzi
da assemblare e il petacchio carico di grano per non farlo viaggiar inutilmente vuoto:
nel quadro delle sue attrezzature portuali e della funzione economico-marittima, Livorno,
1970.)
Col passar del tempo sembra che il petacchio abbia poi perso le sue precipue prerogative
militari e d’uno d’essi carico di grano e farina catturato ai turchi, unitamente a una saicá
piena di legnami, si leggerà in una corposa relazione delle gesta dell’armata alleata che nel
1686 attaccherà le fortezze costiere degli ottomani in Morea (Scalletari). Il nome dovrebbe
derivare per metatesi da quello tardo-latino di vacheta, vascelletto remiero su cui più avanti
ritorneremo e che nelle armate medievali era servizio alla singola galea per le incombenze
veloci, quali portare ordini, missive, persone a terra o andare in esplorazione.
Si trovano poi nominati, specie nelle cronache spagnole della prima metà del Cinquecento
dei velieri detti (e)scorchapines, (‘alberi del sughero’), dei quali però non abbiamo reperito
alcuna descrizione e possiamo solo ritenere che si trattasse di piccole imbarcazioni ‘alla
latina’ particolarmente leggere e agili.
Tutte le barche finora menzionate avevano una sola coperta, ma al di sopra di quella le più
grandi potevano anche presentare quello che i francesi chiamavano un suzain o sus(a)in,
ossia un mezzo ponte che andava dal cassero di poppa all’albero di maestra, mentre quello
che nasceva dalla prua e andava verso poppa era detto dai transalpini courcives e dagli
olandesi (leg-)wa(a)ringen, wanderingen o anche gangen; esse potevano trasportare, a
seconda della loro grandezza, dalle 150 alle 600 salme di carico. I leuti, molto diffusi nel
tardo medioevo, e le tartane si usavano maggiormente sulle coste della Provenza, ma i
primi, molto anche a Genova e le seconde, un po’ più piccole delle polacche, a cui,
alberatura e velatura a parte, molto somigliavano, e lunghe quindi tra i 60 e i 70 palmi, erano
molto comuni anche a Napoli; le barche e le barcacce erano molto diffuse sulle coste
d'Italia e delle saettie abbondava invece molto la Sicilia, anche se si trattava d'imbarcazioni
costruite soprattutto nell'isola di Candia, e si trattava per lo più di vascelli destinati al
trasporto di vino, olio, grano, formaggio e vettovaglie in genere.
C'erano poi piccoli vascelli latini a una sola vela e senza coperta, quali la barchetta,
imbarcazione con un equipaggio di sei uomini e, in mancanza di vento, talvolta mossa a
mezzo d’alcuni remi; il fregatone, da non confondersi con quello predetto veneziano che era
invece, come abbiamo visto, un vascello tondo, e il passacavalli, i quali avevano la sola vela
maestra (it. cappa, da cui il fr. chape) ed erano a volte anch’essi spinti a voga come le
gondole veneziane, ossia con grossi e lunghi remi che si maneggiavano stando in piedi sui
banchi; si trattava ovviamente d'imbarcazioni molto lente e usate solo in prossimità della
terra. Di queste barche e fregatoni se ne vedevano assai a Napoli, mentre i passacavalli si
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usavano in Levante; i vogatori che remavano nel predetto modo, ossia maneggiando in
piedi un solo remo posteriore, si dicevano in francese coqueters. A proposito delle gondole
veneziane, già nel Cinquecento, come ci illustra il Vecellio, Venezia risolveva con il loro
servizio a noleggio la maggior parte delle sue necessità di comunicazione interna:
… Sono in Venezia le barche di tanta comodità che difficilmente la potrebbe credere chi non
la prova. Sono in Venezia traghetti in grandissimo numero e ciascuno d’essi ben fornito di
barche, ciascuna con un huomo in poppa apparecchiato, a richiesta di chiunque vuol
passar dall’altra parte del canale ovvero andare in altro luogo. I nobili poi e massime i più
ricchi tengono ancora essi ciascuno la sua barca a due remi con uomini salariati a questo
effetto. Queste barche sono coperte di rascia nera e le banche per sedere sono di legno,
coperte per lo più di cuoio… (Vecellio, Cesare, Habiti antichi et moderni di tutto il mondo
etc. P. 122v. Venezia, 1590).
La rascia nera era d’inverno incerata per renderla impermeabile alla pioggia e comunque il
copertino o coperchio della gondola, fatto di un telaio di semicerchi di legno, era chiamato
in gergo felce, perché d’estate, invece che con l’incerata nera, si copriva di grandi foglie di
felce per rendere l’interno, oltre che protetto dal sole, anche fresco; di conseguenza il
falegname (gra. ναυπηγής ναυπηγός) che faceva o riparava i copertini si chiamava felcer e
sua moglie era conosciuta come la felcera (Giuseppe Boerio, Dizionario del dialetto
veneziano. P. 214. Venezia, 1829). I sedili delle piccole imbarcazioni, cioè quelli che vanno
da un bordo all’altro, si chiamavano a Venezia (e forse ancora si chiamano) trasti. Dunque
anche allora le gondole da traghetto (gr. πορθμεῖα, πορθμήια, πορθμίδες, τράμπιδες) erano
spinte da un solo vogatore o traghettatore (gr. πορεύς, πορθμεύς), ma quelle dei nobili da
due (gr. δίϰωπα) ed erano anche diffuse gondole da quattro remiganti (gr. τεσσᾰράϰωπα).
Nei primi secoli di Venezia, come leggiamo nel Galliccioli, i natanti a noleggio per
traghettare il Canal Grande si erano chiamate sceole (da ‘scediole’; gra. σχήδιαι, ‘zattere’),
forse perché in effetti erano solo delle rozze piccole zattere.
Per quanto riguarda l’etimologia del nome gondola il Dufresne du Cange ci dice che il
termine viene dal greco bizantino ϰοντελάς, anche se, con ogni probabilità, i bizantini
idearono quel vocabolo proprio per la navigazione della laguna veneziana durante il lungo
periodo in cui essi ne furono i padroni, in quanto nel loro impero non avevano in
precedenza avuto necessità di farsi un’esperienza di navigazione lagunare; però, certo
perché non esperto di navigazione, il suddetto autore non ne individua l’esatta etimologia.
Infatti si tratta di un bitematico derivato da ϰοντός (‘pertica’) e dal verbo ἐλαύνω, che
significa ‘spingo avanti’ e infatti in greco bizantino i vascelli a spinta di pertica in generale,
cioè quelli che in veneziano si dicevano burchi, si chiamavano ϰοντωτοῖα πλοῖα. E perché
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questo dunque questo nome a Venezia ? Perché, evidentemente, in quei primissimi tempi
della città di Venezia i letti dei suoi canali non erano stati ancora regolarmente scavati come
poi si è fatto negli ultimi secoli per agevolarne la navigazione, ma erano ancora per la
maggior parte poco profondi e quindi era più comodo navigarli non a remi ma a pertica,
cioè facendo leva sui fondali.
Non era allora ancor tempo perché nel Mediterraneo si sentissero nominare molto
correntemente vascelli latini quali la marticana, la bombarda, lo sciabecco, la greco-turca
setì, nomi che invece ricorreranno frequentemente a partire dalla seconda metà del
Seicento, anche se questo non significa che non esistessero in qualche numero anche
prima. Lo sciabecco, vascello latino medio-grande da guerra, detto all’inizio del
Cinquecento a Napoli sciaveca e in italiano corrotto anche sambecchino, sarà molto usato a
partire dal Seicento specie dai corsari barbareschi e, quando usato dai cristiani, sarà anche
adoperato per il trasporto di munizioni; poteva essere armato anche da una trentina di pezzi
tra grandi e piccoli.
Per quanto riguarda i nomi propri che si attribuivano ai vascelli del tempo, diremo che,
dismessi da secoli quelli molto combattivi, aulici o mitici che si usavano sin dall’antichità
specie per i vascelli da guerra - e vedi infatti le triere e le liburne dagli antichi romani che si
chiamavano Augusta, Radians, Sagita, Armata, Nilus, Capricornus, Gryphus, ecc., ora
invece sia per quelli bellici, generalmente ancora agiografici, sia per quelli commerciali gli
usi non erano sostanzialmente cambiati rispetto al precedente Alto Medioevo e vedi per
esempio la nave pisana San Giovanni che nell’estate del 1159 trasporto tre grandi colonne
lapidee – evidentemente archeologiche – alla terra ferma perché ornassero la costruenda o
ristrutturanda chiesa di S. Giovanni (Cronaca pisana di Marangone. Cit. P. 14). Nel 1195 tre
navi genovesi si chiamavano Gialna, Carmaina e Vinciguerra; poi la grande nave Boccanera
pisana nel 1199 e l’anno seguente le tre armate, sempre pisane, Castellana, Diana e Pavono;
le tre grandi onerarie dell’armata che nel 1201 i veneziani spedirono contro Muggia e
Trieste, allora ambedue covi di pirati, ed i cui nomi erano Paradiso, Aquila e Peregrina
(Lorenzo Monaci, Chronicon de rebus venetis), mentre contemporaneamente, tra i vascelli
tondi che gli stessi veneziani stavano allora costruendo per l’esercito crociato che l’anno
successivo si sarebbe imbarcato alla Quarta Crociata e avrebbe preso invece
Costantinopoli, ce ne era uno tanto grande da esser stato battezzato Il Mondo (Niketas
Koniatos, Storie. Alessio Comneno, l. III); sarà però l suddetta Aquila, tra il marzo e l’aprile
del 1204, a spezzare con il suo tagliamare la grossa catena tesa dai bizantini per chiudere
all’armata crociata l’accesso allo stretto golfo del Corno d’Oro, mentre poi, come racconta
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Andrea Dandolo nel suo Chronicon, assediata appunto dal mare la grande metropoli, unite
insieme la Paradiso e la Peregrina ed elevate dalle stesse delle grandi scale, i crociati
salirono sulle sue mura e conquistarono la città.
Nel 1202 troviamo le genovesi Castella e Berarda e la pisana San Pietro; l’anno seguente le
pisane Palmera e Roza (‘Rosa’; navem maximam) e le picole genovesi Falcone e Stella. Nel
1204 nello scontro tra la genovese Carroccio, comandata da Alamanno da Costa sulla quale
portava un gran numero di uomini armati, e la pisana Leopardo ha la meglio la prima e la
seconda, catturara, è portata a Genova con il suo ricco carico di materiale bellico, cioè
guarnimenti di ferro, giupponi, elmi, scudi ed altre armi. Il venerdì 6 agosto del predetto
anno (Caffaro e prosecutori, Annales Januenses ab anno MC1. In L.A. Muratori, Rerum etc.
T. VI. Milano, 1725.) i genovesi misero l’assedio al porto della città di Siracusa; dapprima si
impadronirono di due navi che erano colà all’ormeggio, la Rosa e la Florio, e questo
secondo nome ci fa capire di che antiche origini sia stata l’attività marittima di quella
prestigiosa famiglia di armatori siciliani. Sempre nel 1204, troviamo anche le pisane Tonno
e Carafatto, la prima delle due definita magna, e le genovesi Gazella, Falco, Regina e Dolce.
Nel 1205 i genovesi catturarono la grande nave pisana Cristiana che, danneggiata in
precedenza dal maltempo, non potettero però condurre con loro e pertanto l’incendiarono;
nel 1207 invece, nelcorso del loro conflitto con i pisani per il dominio della Sardegna,
persero le navi Bixia, Stellata e San Giacobbe; ritroviamo poi nello stesso anno la
summenzionata Carroccio ed altre navi genovesi che si chiamavano Domina e Papagasio,
mentre nel 1210 ritroviamo la San Giacobbe di conserva con la San Giovanni, nave questa
che l’anno seguente, potentemente armata dall’armiragius genovese Porco, catturò la
grande nave Berra dell’allora nemica marsiglia e un’altra di nome Guastavino dal ricco
carico di denaro ma di nazionalità non riportata. Verso Pasqua del 1213 la nave granaria
genovese San Biagio tornava carica dalla Sicilia, una regione che allora era il granaio
dell’Italia prima che lo diventasse la Puglia; poi nel settembre dello stesso anno si
perderanno in un incendio le anch’esse genovesi Contessa, San Romolo e Stella, come
vedremo più avanti. Nel dicembre del 1216 nelle acque di Porto Pisano naufragò la nave
genovese Coronata, nel 1219 nelle acque di Sardegna troviamo le navi da carico Benvenuta
e San Leonardo.
Nel 1248 c’era nei mari di Napoli una terida chiamata La Sarracena, nel periodo 1275-1280
una saettia chiamata Gaeta (sagictiva vocata Gaetas). Nella seconda metà del Duecento una
nave definita maxima si chiamava Rochaforte (ib.) e nel 1262 un’altra detta praegrandis
invece Buccaforte (Andrea Dandolo, Chronicon, L. X, c. VII, p. XXVII); quelle ricordate dal
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Muntaner, e.g. la nave catalana la Buona Ventura all’anno 1283 e al 1314 e il Falcone, nave
dell’Ordine del Tempio di Gerusalemme comandata da fra’ Ruggiero, all’anno 1303; inoltre
la galera detta la Española al 1308. Ci fu poi in quegli stessi tempi l’italiana Regina:
… Tunc navis magna quondam mantuanorum, quae vocabatur ‘Regina’, ubi prope Pontem
Sancti Georgii affundavit et ibi est (Chronicon estense, all’anno 1309. Cit.)
Tra le navi genovesi e marsigliesi negli anni 1268-1270 costruite per o noleggiate dal re
Luigi IX di Francia detto Il Santo nell’ambito dei suoi preparativi per la crociata appunto del
1270, troviamo la Comitissa (‘contessa’) del Hospital e la Paradisus; nel 1379 una grossa
cocca genovese che si chiamava Bichignona; nel 1402 due galee veneziane si chiamavano
la Grimana e la Cornaria in omagglio alle nobili famiglie che le avevano armate, nel 1410
vediamo la Morexina, evidentemente armata dalla nobile famiglia Moro; nel 1496 altre due
delle migliori galee veneziane, la Corfiota e la Catharina, furono incaricate di riportare in
Francia gli ultimi seguaci di Carlo VIII rimasti nel Regno di Napoli, purché se ne andassero.
Le prime 4 navi grosse che Venezia armò nel 1499 in appoggio all’armata di galee si
chiamavano Pandora (nome quindi fantastico), Trivisana e Marcella grossa (nomi familiari),
mentre della quarta (quella de Pietro Ruzier de 1.500 bote) il Malipiero non riporta il nome;
ne seguirono poi qualche mese dopo altre 4, tutte con nomi familiari, e cioè la Mema di 900
botti, la Marin da Cherso di 600, la Soranza di 400 e la Pesara di 400 . (D. Malipiero, Cit. Parte
prima, p. 163). Per quanto rigurada i nomi familiari veneziani, troveremo in quella seconda
metà del secolo anche una nave Duoda, una Priola, una galea Cornera (1465), una galea
grossa Morisina (1466) e un’altra Bragadina (1495); altre portavano nomi che ricordavano il
luogo marittimo dei possedimenti veneziani in cui erano state costruite [Sebinzana,
Tragurina (1466)]. Tra le galere spagnole che nei primi giorni di maggio del 1538, recando a
bordo lo stesso Carlo V, si scontrarono con galere francesi e turche alle isole Hyères,
notiamo i nomi Vitoria e Condesa, mentre a quella di comando, per antico uso che
ritroviamo anche in Italia, non ci si riferisce mai con il suo nome proprio ma solo con un ‘la
Capitana’ (Colección de documentos inéditos para la historia de España etc. Tomo II. P. 393
e segg. Madrid, 1843).
Gli antichi greci avevano un ufficiale pubblico al quale era demandato il compito di dare un
nome alle nuove triere e si chiamava infatti trieronòmo (τριηρονόμος). Si continuavano a
usare molto i nomi dei santi, a volte lunghi come Vergine Maria del Rosario e S. Giovanni
Battista, ma anche appunto quelli profani, come per esempio lo spagnolo la Mañana, il
veneziano la Montagna Nigra, i bellicosi aragono-napoletani Drago, Aquila, Squarciafica e
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quello toscano Lupa, quello spagnolo Los tres reyes e quelli aggettivati dei rispettivi
cittadini proprietari (ct. bourgeois de la nef), come il genovese Spinazza e i veneziani la
Contarina, la Morosina, la Moceniga, la Querina, la Loredana, la Malipiera, la Bonaldra, la
Balba, la Ferrandina, la Forbina, la Capella, la d’Oria, la Barbariga, la Dandola, la Pasqualiga
ecc. - erano molto comuni e ciò già nel Quattrocento, come si legge alla data del 25 agosto
1495 nelle cronache della guerra franco-aragonese per il dominio del regno di Napoli
raccolte da Marin Sanuto:
A dì 25 ditto zonse a Napoli do nave grosse de zenoesi, zoé una chiamata la 'Negrona' e
l'altra 'Camila', benissimo in hordine... (La spedizione di Carlo VIII etc. Cit. P. 576.)
Sanuda si chiamava, per fare un altro esempio, la nave veneziana che tra il 1562 e il 1563,
mentre tornava a Venezia da Cipro, fu assalita piratescamente dalla galera francese del
capitano Charlieu, e l’allora residente veneziano in Francia, Marc’Antonio Bragadino, fu
incaricato dal suo doge di presentare una formale protesta alla corte di Parigi e di chiedere
l’inflizione d’un grave castigo al predetto Charlieu (Tommaseo). I vascelli non da guerra
veneziani erano comunque in Italia quelli che più portavano nomi profani, a riprova di una
maggior indipendenza di quella repubblica dalla soggezione religiosa; per esempio una
delle navi di supporto (l. inerme oppure non munitum navigium) all’armata inviata da
Venezia nell’Alto Tirreno negli ultimi anni del Quattrocento per sbarrare il passo a quelle
francesi si chiamava Salvadega (‘Selvatica’). Per quanto riguarda i nomi delle galere, quelle
veneziane, pur portando generalmente anche loro nomi di santi, erano spesso identificate -
come abbiamo visto che pure succedeva ai vascelli tondi della Serenissima - con appellativi
che richiamavano i cognomi delle famiglie che le possedevano; alla fine della guerra di
Chioggia (1381) alcune infatti erano la Dandola, la Celsa, la Sannuda e la Faliera, mentre le
tre candiote che servivano la Serenissima nel 1496 si chiamavano Pasqualiga, Salamona e
Zena (M. Sanuto, Diarii. T. I, col. 280). I catalani usavano spesso dedicarle non a un santo
ma a due, pensando probabilmente di ottenere così una doppia protezione, ed ecco per
esempio i nomi di nove loro galee (così essi infatti preferivano chiamarle, cioè come i
veneziani, e non galere come invece gli spagnoli) riportati dal de Capmany e si trattava di
quelle che nel 1506 accompagnarano il re Ferdinando il Cattolico e la sua seconda moglie
Germaine de Foix a Napoli, nuovo suo regno da poco conquistatogli dal suo Gran Capitano
Gonzalo Fernández de Córdoba (Ordenanzas etc. Cit. Pp. 28 e 29):
1) La Reale, che portava il nome di San Juan Bautista y San Juan Evangelis.
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A differenza degli spagnoli e catalani che preferivano dunque i nomi di santi e degli
olandesi che usavano quelli di città, province e altri geografici, i francesi amavano attribuire
ai loro vascelli da guerra aggettivi marziali, quali per esempio quello della galeotta lancia-
bombe Le Foudroïant, usata contro Algeri nel 1683, e poi l’Invincible, Le Victorieux, Le
Chasseur ecc., nomi che poi, durante la grandeur del regno di Luigi XIV, diventeranno
sempre più bellicosi ed eroici e quindi avremo LeTerribile, Le Ferme, L’Ambitieux, Le
Foudroyant ecc. I nomi più profani erano forse quelli usati dagl’inglesi ed ecco infatti quelli
d’alcuni vascelli britannici che nel 1597 toccarono Livorno, nomi riportati in un documento
coevo citato dal Guarnieri (Cit.) e che, sebbene molto storpiati, dovrebbero esser così
interpretati:
Capitolo IV.
L’EQUIPAGGIO.
Erano tempi in cui al comandante di un vascello toccava scegliere personalmente tutti gli
uomini del suo equipaggio, eccezion fatta per qualche nobile di poppa o altro personaggio
che il suo principe gli imponesse di portare o perché apprendesse l’arte di navigare o
perché controllasse il suo operato; e doveva scegliere tenendo conto solo della
competenza delle persone e non di raccomandazioni o di costi salariali, altrimenti un giorno
se ne sarebbe potuto pentire amaramente:
Deve il capitano stare avertito nel pigliare li officiali perché in loro stà il condurre il vassello
a salvamento e scamparlo nelle fortune di mare e dalle mani di corsari, però (‘perciò) non
bisogna correre né per mezzo di amici né per migliori prezzi , ma ben per il suo (‘loro’)
valore e perl oro buona fama delli servizii passati, perché al bifogno di fortune (‘fortunali’) e
guerre te ne avedresti (‘avvedresti’) e pentiresti… (A. Falconi, cit..P. 4-5.)
Il 13 luglio del 1400, essendosi costatatto che, evidentemente per risparmiare sui costi, i
vascelli mercantili veneziani non avevano equipaggi sufficienti a garantire una navigazione
sicura, un decreto del senato di Venezia prescriveva che sui vascelli dalle 200 alle 400 botti
o tonelli di portata, dovevano esserci 5 uomini e due mozzi (pueri) per ogni cento botti;
questo numero saliva a sei uomini e tre mozzi nel caso di una stazza che andasse invece
dalle 400 alle 600, infine sette uomini e tre mozzi per portate superiori alle 600 botti (H.
Noiret, cit. P. 109).
Agli inizi dell’Età Moderna, il numero d’uomini necessari alla gestione d’un vascello tondo
non armato a guerra era invece calcolato dagli esperti in 18 persone per ogni 100 carri di
portata, ufficiali e bombardieri inclusi, ma questo era un equipaggio ottimale e in realtà gli
uomini a bordo erano spesso sensibilmente di meno; dunque l'equipaggio d’una pinassa,
grande vascello tondo come sappiamo, poteva anche superare i 70 uomini, quello d’un
bertone poteva contare una cinquantina d’uomini, quello d’un flauto o d’un garbo levantino
andranno dalla trentina alla dozzina, a seconda del tonnellaggio; quello d’un galeone
fluviale, vascello biponte remiero medievale, detto in genere anche galeoncino o galioncello
(l. galeonculus) se a un solo ponte, di cui presto diremo, era sui settantacinque inclusa una
sessantina di remiganti, quello della barca, ossia d’un gran vascello latino poteva invece
contare dagli otto ai 14 uomini complessivamente e per governare una tartana servivano
una decina uomini; c’erano poi urche di 50 o 60 tonelli che facevano il viaggio dell’Indie
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Orientali montate da non più di cinque o sei marinai, cioè tanti quanti n’aveva una polacca o
n’avevano altri vascelli tondi olandesi di media grandezza come galjooten e boïers, mentre
un pinco era equipaggiato con quattro uomini più il piloto e una belandra solo da tre o
quattro; i vascelli inglesi portavano equipaggi più numerosi di quelli olandesi perché i
marinai albionici, anche se di quelli più sobri, non amavano molto faticare. I marittimi
fiammingo-olandesi erano dunque noti per la loro propensione all’alcool, come oggi quelli
scandinavi, e infatti nel 1628 il corsaro inglese sir Kenelm Digby, avendo imposto l’alt
(modo di dire dall’it. fare alto braccio, cioè alzare in alto un braccio per fermare la marcia
d’un seguito militare) a due mercantili di quella nazionalità incontrati durante le sue
scorrerie nel Mediterraneo, così poi annotò nel suo giornale di bordo:
Non ce l’aveva infatti il Digby con gli olandesi; egli era stato mandato nel Mediterraneo a far
guerra di corso contro i francesi, con il compito d’interrompere le loro grandi pratiche
commerciali con l’Egitto e la Siria. I velieri da guerra erano ovviamente montati da
equipaggi molto più numerosi, portando inoltre a bordo anche fanterie di marina e un
maggior numero di bombardieri, e nei secoli successivi diventerà invalso l'uso di valutare la
loro necessità d’equipaggio in base al numero dei cannoni che avevano, il che significherà
7 o 8 uomini per cannone nel Seicento e 10 nel Settecento; usavano poi i vascelli corsari
essere sovraffollati d’uomini per poter così più facilmente soverchiare qualsiasi legno
nemico e lo stesso Digby incontrerà nel Mediterraneo una saettia maltese da guerra di
corso che stazzava 100 tonelli, armata con 11 bocche da fuoco ed equipaggiata con ben 120
uomini. Nei predetti numeri d’equipaggio si devono intendere inclusi anche i mozzi (l.
famuli, pueri, servientes; sp. grumetes; fr. pages; vn. scanagalli), giovanissimi ancora
adolescenti, la cui vita a bordo era particolarmente dura perché a loro toccava pulire il
vascello, servire i marinai e, se tanto non bastasse, arrampicarsi assai pericolosamente
sino ai parrocchetti; questi ragazzini, per esempio, nella marineria francese dovevano, pesa
la sferza, sempre portare alla loro cintura quelle corte corde dette rabans (it. Matafioni), le
quali servivano per aborrare (‘legare forte’) e assettare le vele e per altri eventuali urgenti
interventi alle manovre. Il suddetto nome di scanagalli che portavano a Venezia ci fa capire
che a loro era affidato anche il compito di tirare il collo ai polli per la mensa degli ufficiali.
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Lo Jal (Cit.) riporta la consistenza degli equipaggi delle quattro ‘caravelle’ con cui
Cristoforo Colombo, partito dalla costa sivigliana il mercoledì 3 aprile 1502, compì il suo
quarto viaggio nelle Indie Occidentali, consistenza che era stata rinvenuta nell’Archivo
General de Simancas, Valladolid, dallo studioso spagnolo Martín de Navarrete:
Caravella Capitana.
Capitano.
Mastro (‘nostromo’).
Contromastro (‘nostromo del trinchetto’).
Piloto maggiore della flottiglia.
14 marinai.
5 scudieri (‘nobili di poppa’)
20 grumetes (‘mozzi’).
Barilaro.
Calafato.
Marangone.
Lombardero mayor (cioè artigliero maggiore).
Lombardero (artigliero)
2 trombetti.
Capitano.
Mastro.
Contromastro.
Scrivano, il quale era anche prevosto maggiore della flottiglia.
11 marinai.
6 scudieri.
14 grumetes.
Lombardero.
Barilaro.
Calafato.
Marangone.
Caravella galiziana.
Capitano.
Mastro.
Contromastro.
9 marinai.
Scudiero.
14 grumetes.
Caravella biscaglina.
Capitano.
Mastro.
Contromastro.
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8 marinai.
2 scudieri.
12 grumetes.
In effetti, in tempi in cui gli equipaggi dei vascelli tondi o navi mercantili erano ancora di
configurazione medievale, ossia semplicemente composti da un comandante, un nostromo,
un piloto e dalla bassa forza per un totale complessivo, nel caso di una caravella, di una
decina d’uomini solamente, la suddetta più numerosa, complessa e articolata composizione
di quelli della spedizione di Cristoforo Colombo, fa, come abbiamo già detto, ulteriormente
capire come non si trattasse di quattro vascelletti, come poi erroneamente si è sempre
creduto, ma di vascelli oceanici tutt’altro che piccoli e anche ben armati. A proposito poi del
termine lombardero nel senso di bombardero, veniva dall’otiginario nome lombarde più
tardi corrotto bombarde, come meglio spiegheremo più avanti, termine dovuto all’esser già
allora i lombardi molto noti e apprezzati anche per la fabbricazione delle armi da fuoco,
specie i milanesi e i bresciani.
Il 3 marzo 1499, poiché i turchi approntavano una grande armata per andare ad assalire di
nuovo Rodi, a titolo precauzionale Venezia, oltre a nuove galee (l. denuo factae), approntò
nove navi armate a guerra (l. naves bellicae) e si pagavano cento uomini d’equipaggio per
ciascuna, se piccola o media, e 110 per quelle più grosse da 600 botti di stazza in su. La
piccola differenza di uomini non significava però che il numero di armati da porre su una
nave armata a guerra fosse alll’incirca sempre lo stesso a prescindere dalle dimensioni di
quella, ma solo che in quel momento non si disponeva di più uomini:
Sono stati divisi sulle galee e navi che si armano fuori dal porto 200 uomini fatti venire dalla
riviera del lago di Garda e dalla Bergamasca per mancamento di uomini qua nella terra (D.
Malipiero, cit. Parte prima, p. 165. Tr. dal ven.).
Infatti, solo un paio di mesi dopo, condotte (‘assoldate’) altre due navi da armare, su una
delle due, grande di 2mila botti, furono imbarcati 300 uomini e sull’altra di 600 botti solo 100
(Ib. Parte seconda, P. 551).
A norma di un’ordinanza del’imperatore Carlo Primo d’Absburgo, cioè della prima metà de
Cinquecento, gli equipaggi delle navi, ossia dei vascelli tondi, destinate alle Indie Orientali,
cioè a navigare verso quel Nuovo Mondo da non molto scoperto, stabiliva numeri
d’equipaggio abbastanza limitati, forse perché in quei mari non ci si aspettava conflittualità.
Premettiamo che le misure di capacità dei vascelli che si usavano in Spagna, a causa della
grande influenza che questa ebbe in Italia, si possono considerare valide per quasi tutto lo
Stivale eccetto forse solo per Venezia e Firenze; limitandoci alle misure medio-grandi,
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Navi da 100 a 170 tonnelli cioè barili quintaleschi, ossia barili da 100 libbre ognuno.
Il maestro, ossia il comandante, il piloto, 18 marinai, 2 lombarderos, ossia artiglieri, 8
grumetti, cioè mozzi e due paggi, vale a dire ‘allievi ufficiali’.
I grumetti o mozzi erano spesso indios americani. Tutto qui? No, a bordo di quei vascelli del
Cinquecento c’era anche altra gente, come si evince sempre dalle ordinanze del tempo
dell’imperatore Carlo Primo d’Absburgo:
Molto più tardi, cioè il 20 gennaio del 1581, Filippo Secondo stabilirà che le navi Capitana e
Ammiraglia dovranno avere un equipaggio più numeroso di quanto suddetto e cioè
ciascuna 100 marinai e tanti mozzi quanti erano i soldati della guarnizione di bordo, perché
si era sperimentato che più gente di mare avessero a bordo maggiore diventava anche
l’efficienza militare. Inoltre bisognava utilizzare, se necessario, anchei marianai per
combattere e quindi ciascuna delle due suddette navi doveva portare 100 moschetti di
fanteria (porqué son de mucho provecho para pelear) più cento palle incatenate (balas de
cadena) e 4 dozzine di alabarde in aggiunta a chiussi e mezze picche. Si aggiungerà ancora
che in ogni nave fosse un armiero con piazza di marinaio, il quale avesse il compito di
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mantenere le armi pulite e efficienti, che passeggieri e loro servi salissero a bordo armati di
loro archibugi. In un armata doveva inoltre esserci un farmacista con una buona dote di
farmaci (29 luglio e 9 settembre 1556) e un medico e un chirurgo maggiore (8 dicembre
1593). Infine Filippo Terzo il 14 novembre 1605 vorrà che in ciascuno dei due vascelli dovea
esserci un buzo, ossia un sommozzatore, per tutti gli eventuali casi di necessità e il 17
marzo del 1608 che in ogni galeone ci fossero due carpentieri e due calafati
Nel 1631 poi Filippo IV deciderà che ci dovessero essere 25 fanti e 18 marinai per ogni
cento toneladas di portata e ciò sia per i galeoni sia per i petacchi d’armata e di flotta, ma si
tratta di un tempo che eccede ormai l’argomento di questa nostra opera. Ma, andando
invece di nuovo indietro nel tempo e cioè fino al 1273, vale a dire all’armata che il re di
Napoli Carlo I d’Angiò stava raccogliendo a Brindisi per azioni di guerra contro Bisanzio,
troviamo un ordine reale del 23 marzo che comandava al secreto (‘camerlengo, camerario’)
della Puglia di fornirle il seguente armamento:
… 600 balestre di legno tra le quali siano 150 da due piedi e le rimanenti a strevo (‘staffa’)
con guarnizioni, duplici corde – buone e di buon filo - e tutto l’altro necessario apparato per
le stesse, 800 rotoli di canapa per le corde delle balestre […] e, per quanto riguarda buoni
quadrelli, (siano per balestre) da due e da un piede, inastati con le loro aste ed impennati,
nella maggior quantità che potrai efrecce per gli archi similmente in grande quantità e
munite di aste e penne (G. Del Giudice, cit. P. 14).
Per balestre da due piedi, cosiddette perché da caricarsi tenendole ferme con ambedue i
piedi, s’intendevano quelle più pesant e potenti da usare in postazione, cioè in un luogo
fisso, mentre quelle più leggere ad un solo piede si usavano in itinere e a bordo dei vascelli.
Inoltre bisognava approntare una quantità di ben 8mila tra lance e lancioni per le galee,
usando le prime la fanteria ordinaria su di quelle imbarcata e i secondi - bilanciati - gli
equipaggi dei vascelli per contrastare gli abbordaggi nemici.
L’anno successivo, il 1274, troviamo nel porto di Baia la nave ‘S. Marco’ comandata
dall’avignonese Guillaume Forcalquier e alla quale, con ordine del re Carlo I d’Angiò del 25
marzo, si comandava di raggiungere l’armata che allora si stava radunando a Brindisi;
l’equipaggio era di 55 uomini, ma si trattava di un vascello armato appunto a uso di guerra;
si doveva fornire di una barca de cantherio (‘di cantiere’, ossia di lavoro, di servizio, come
abbiamo già detto) e delle seguenti armi:
… 20 balestre di legno, di cui la metà da due piedi e la metà a strevo con guarnizioni e loro
duplici corde e tutto il loro necessario apparato, nonché del filo di canapa per (fare) altre
corde per le stesse balestre e per altre due balestre da tornio da assegnarsi a sé (cioè al
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predetto Guillaume) per nostro mandato, a sua richiesta, ossia la canapa opportuna (Ib.
Nota a p. 12).
Gli ufficiali mercantili in ct. erano detti collettivamente panesos, ma è termine che però a
poco da condividere con quello italiano di pennesi (vn. penasi), cioè con quelle sentinelle di
galera che si mettevano, quando necessario, a cavalcioni della penna dell’antenna – infatti
in gr. si chiamavano tertredoni (τερθρηδόνες, ‘coloro che siedono sulla penna’) - e che però,
in premio di questo loro coraggio e di questa loro abilità, erano impiegati comunemente
soprattutto come ‘aiuto-nostromo’ o ‘magazziniere di prua’ nei velieri o come sotto-còmito
in quelli remieri; nelle marinerie della Lega Anseatica i predetti ufficiali erano detti
Bo(e)s(s)man(n)en, Boslude, Boessleuten o anche Officerer, Officirer, Officianten in
opposizione a Schipman(n)en, Schepesman(n)en, Schi(j)pkijnder(e)n, Schepeskijnder(e)n,
Schijppeskijndt, Schepesfolk(e), Schiff(e)sfolk, (Schiffs)kinder(n) o Schiffman(n)en ossia ai
semplici marinai (sp. marineros rasos), come si legge nei suoi vari capitolati di diritto
marittimo (1369-1614, J. M. Pardessus. Cit.); ma questo termine in seguito
contraddistinguerà, come vedremo, il solo nostromo e vedi infatti l’inglese fonetico bousən,
al quale poi i linguisti albionici attribuiranno invece, chissà perché, l’umiliante grafia di
boatswain. L’equipaggio nel suo complesso si si diceva anche Schiffsleute (gr.
πλήρωμα).Mentre in turco il capitano si diceva raís e in barbaresco arraéz, qualsiasi fosse il
tipo di legno a vela o a remi che comandasse, nella marineria cristiana il comandante d’un
galeone o d’una nave armata a guerra (gr. ναύαρχης) era detto capitano come sulle galere,
mentre quello d’una nave mercantile o d’una barca postale [ltm. vacheta; fr. paque(t)-bo(o)t;
ol. pak-boot; in. packet-boat) si chiamava nel Mediterraneo parone o patrone o padrone (ltm.
patronus; lem/ctm. patrò; l. nauclerus; gr. ναύϰληρος; ma, nel caso di un vascello da
guerra, gr. πλωτάρχης o πρωτοϰάραβους ma talvolta anche ϰαραβιὰς), invece senior de la
nau in ct. medievale, e maistre de navire (fr.) o master of ship (in.) o maestre de buque (sp.)
o schipper (ol. fm. e td.) o skeppare (sv.) o Menster (td.) nell'Atlantico. In effetti ancora nel
Basso Medioevo il titolo di capitaneus non si dava a Venezia a chi comandasse un solo
vascello militare, ma a chi ne comandava una formazione, per piccola che fosse (Dominicus
Sanutus capitaneus trium galearum et unius navis), cioè il titolo corrispondeva allora a
quello che sarà poi di cuatralbo, di cui diremo, nell’età moderna, una volta che esso sarò
stato poi appunto esteso dal comando di formazione a quello di ogni singolo vascello
bellico. Nel Medioevo anche a Genova, se si trattava solo di un piccolo gruppo di galee con
una missione specifica, il suddetto comandante di formazione aveva titolo di capitaneus e
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ne era definito guida et dominus, altrimenti, nel caso di interi stuoli od armate, aveva
qualifica di admiratus, qualifica di cui poi diremo; in Spagna almirante:
… Almirante es dicho el que es cabdillo de todos los que van en los navios para fazer
guerra sobra mar… [dalle leggi di Alfonso IX de Leòn (1171-1230)]
Molto più tardi e cioè con ordinanza datata in Aranjuez l’8 ottobre 1574 il re di Spagna
Filippi II avrebbe disposto che ogni armata di mare o flotta portasse imbarcati un capitano
generale e un almirante, il primo al quale affidare il comando supremo per gli espetti militari
e il secondo perché lo assumesse invece per quelli nautici; per questo motivo in un’armata
reale di effettivi galeoni da guerra o anche nella armada de la carrera de Indias, ossia diretta
nelle Americhe, dovevano esserci un ‘galeone’ Capitana e un’altro Almiranta. In caso di
assenza del generale, prendeva il suo posto l’almirante, il cui vascello prendeva così titolo
di Capitana, mentre il più antico (‘anziano nel titolo’) ufficiale generale dell’armata ne
diventata l’almirante. Se presente nell’armata un tercio di fanteria come guarnigione, come
nel caso appunto della predetta armada, allora era il governatore del tercioa prendere il
titolo di almirante. D’altra parte solo la Capitana del generale de el Occeano, titolo unico in
Spagna, prendeva titolo di Capitana Real.
La terminologia marittima, come tanta altra, è di origine greco-romana e non araba, come
alcuni erroneamente pensano; magari si puù pensare a qualche termine di lontana origine
fenicia, ma non araba. Quando infatti i romani presero il dominio del Mediterraneo di araba
c’era solo pirateria e non era certo dai pirati che i romani avrebbero copiato gradi e titoli.
Per quanto riguardava i vascelli mercantili solo nell’Ottocento si comincerà a chiamare
capitano – e non più padrone - anche il loro comandante e questo sia nell’oceano che a
Levante. La tendenza onorificatrice ad attribuire nominalmente i titoli di ufficiale generale
agli ufficiali maggiori esisteva dunque anche nel ramo militare marittimo come in quello
militare terrestre (vedi infatti il colonnello da capo di colonnello o di banda, oggi diremmo
‘di corpo d’armata’, che diventerà il comandante di un singolo reggimento; il mastro di
campo, che da ufficiale di stato maggiore diventerà il comandante di un singolo tercio; il
capitaneus che da capitano generale diventerà il comandante di una compagnia’ ecc.
Completamente diversi erano i vocaboli attinenti alla navigazione che usava la gente di
mare francese di ponente, ossia dell'oceano, da quelli che gli stessi francesi usavano
invece nella loro marineria di levante, ossia del Mediterraneo, e ciò perché diverse erano le
radici culturali delle due tradizioni marinare; nel Mediterraneo i francesi usavano in
sostanza la nomenclatura in uso sulle galere, quindi si trattava di vocaboli d'origine italiana,
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come italiana era stata l'origine delle moderne galere. Eccone un numero dei più noti, tratti
soprattutto da quelli elencati dall’Aubin (cit.) e dal de la Gravière (v. fonti), tutti già in uso al
tempo che qui ci occupa:
ATLANTICO. MEDITERRANEO.
dirette dipendenze del nocchiero erano il guardiano o nocchiero di mezzana, il quale era il
custode delle merci imbarcate e, nei vascelli da guerra, anche e soprattutto degli
armamenti; e poi c’erano il nocchiero del trinchetto e il pen(n)ese, cioè il dispensiero (cst.
despensero), al quale si affidavano le provviste delle vettovaglie e che doveva distribuirle
agli addetti al vitto con oculatezza e masserizia, cioè economia e risparmio.
I marinai erano pure spesso impropriamente chiamati la ciurma (vn. zurma), termine che
non deriva dal l. turma (et armatis turmis galearum. Bartolomeo di Neocastro, cit. Cap.
LXXVI), come si può pensare, avendo infatti questo un significato diverso e riguardante il
linguaggio dell’antica cavalleria militare; infatti la ciurma era più propriamente l’insieme dei
remiganti di una galea. Deriva invece dal greco antico κέλευσμα (forma meno antica di
κέλευμα), 'comandata', nel senso di ‘insieme di uomini di mare (marinai e soldati) comandati
per un servizio (la voga) diverso dal loro abituale’, più tardi comando o canto cadenzato di
comando per i remiganti. Infatti in sp. si dice chusma, mentre in it. churma perché da quella
‘l’ che di trasformò in una ‘r’. Ma nel gr. meno antico, non si ritrova facilmente, preferendo i
bizantini usare per remiganti tanti altri vocaboli [gr. (περι)έρέττοντες; ἐπισφελίται, ἐρέται,
ἐρεταί, ἐλάται ἐλαταί, τριηρέται, ἐλατῆρες, ϰωπηλάται, πρόσϰοποι, ἐπίϰωποι,
ἐπιϰωπητήρες; grb. ὐπειρελίκοῖ, προσϰόποι, έρεττόντες, ϰωπηλατὲς, λεώς] e questa
molteplicità di vocaboli era certamente uno dei più evidenti prodotti della millenaria
tradizione nautica di quel popolo.
Per una migliore comprensione proviamo a schemattizzare quanto fin’ora detto a proposito
degli ufficiali della marineria mercantile, tenendo presente però che sui piccoli vascelli non
tutti questi personaggi erano ovviamente presenti e che i loro compiti potevano presenatre
delle variazioni a seconda della nazionalità dei vascelli e delle tradizioni delle singole
merinerie:
taride commerciali e armate, navi, navi armate, carrache, arsili, marani veneziani, golabri
greco-genovesi
Cinquecento e Seicento
vascelli quadri (cioè navi, carrache, taride e galeoni)
patrone o maestro
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Del barbiero e dello scrivano diremo quando parleremo del personale delle galee. All’inizio
del Seicento i toscani per il secondo di bordo usavano ancora il nome di nochiero e non
ancora quello di nostromo.
In una grande nave o galeone avrebbero poi dovuto servire quattro timonieri (l.
gubernatores), un calafato (fr. calfas, calfateur; l. calefatus, aupiciarius; ch. palamagio), un
marangone (mastro d’ascia; l. naupegus), uno scalco (‘macellaio’), un barbiero, un
secretario, ossia uno scrivano, sei mozzi e a volte un barilaro (cst. tonelero) e quattro
quartiermastri (fr. anche quarteniers, compagnons de quartier; ol. anche esquimannen; cst.
capataces); quest'ultimi, detti anche capi delle guardie, ts. guardiani, affiancavano i quattro
timonieri e a loro si affidava infatti, oltre ad altri compiti secondari, il comando dei quattro
quarti di guardia e di lavoro, da cui il loro nome; non bisogna dunque pensare che il loro
incarico fosse in qualche modo legato al comando di quartieri nel senso di parti del
vascello. bensì, come abbiamo detto, a quello dei quarti di guardia. Ciò non vuol dire però
che a bordo dei legni o fusti (gr. ϰᾶλα) - termine il secondo che, come però già sappiamo,
era soprattutto sinonimo di arsili - non fossero anche carichi di competenza e comando
relativi alle varie parti del vascello; in velieri a vela quadra particolarmente grandi si poteva
per esempio trovare un quinto quartiermastro al quale si affidava non un tempo di lavoro
bensì un luogo e cioè il fondo del vascello, perché sorvegliasse che non vi si formassero
falle, che lo tenesse ben calafatato e sgottato, perché anche partecipasse alla sorveglianza
esercitata dal bombardiero a evitare che qualcuno sconsideratamente portasse del fuoco
nei pressi del deposito delle poveri d'artiglieria e perché infine avesse cura di tener sempre
preparati i materiali bellici da gettare dalle coffe sul nemico che eventualmente venisse
all'abbordaggio. In effetti le varie parti del vascello erano già affidate al comando ordinario e
non c’era quindi necessità di nominare degli altri che ne fossero responsabili; ciò era stato
molto chiaro nella marineria antica e alto-medievale e infatti nel Suida (X sec.) leggiamo a
questo proposito non solo di una precisa ripartizione delle zone di competenza, ma anche
della relativa subordinazione che ne scaturiva:
Il toicarco (gr. τοίχαρχος, ‘capo delle fiancate’, da τοῖϰος, ‘fiancata’)) era, nei maggiori
vascelli remieri antichi, il ‘comandante delle fiancate’, cioè della zona mediana del vascello,
e il suo compito principale era il remiero capo-voga di tutti i remiganti, quindi sia di quelli di
destra (gr. δεξιότοιχοι) sia di quelli di sinistra (gr. ἀριστερότοιχοι); il suo ruolo sarà quindi
nel Medioevo assorbito dall’importantissima figura del còmito, il quale comanderà, come
vedremo, voga e manovra insieme, prendendo quindi il sopravvento sul proreta (l. proretae;
gr. πρῳράτης); quest’ultimo comandava le manovre di prua e dell’albero, l’unico che allora
c’era sia nelle triremi sia nella maggior parte dei legni mercantili, inoltre doveva osservare i
venti e segnalare al timoniero l’eventuale presenza di scogliere, scogli affioranti, sirti o altri
eventuali ostacoli e potenziali pericoli alla rotta che si presentassero davanti alla prua
durante la navigazione o l’approdo; il timoniero [l. gubernator; gra. ϰῠβερνήτης,
ϰῠβερνητήρ, ϰῠβερνατήρ, εὒθυνος, εὐθυντήρ, εὐθυντής; νήοχος, νηοῦχος; οἰακιστής,
οἰαϰοστρόφος; fr. anche gouverneur; ol. stuurman, stierman; td. St(e)u(e)rman(n);
Steurmanne, Steurleute (pl.), sv. stÿrman; dn. stÿreman, stÿrsman] era addetto alla rotta di
navigazione e manovrava il doppio timone alla navaresca dei vascelli antichi; infatti il
Polluce, riferendosi al suo ruolo dice che sedeva ‘ai timoni’ e non ‘al timone’:
… quello che siede ai timoni si chiama timoniero… (ὀ δὲ ἐπὶ τῶν ὀιάϰων ϰαθήμενος,
ϰαλεῖται ϰυβερνήτης. Cit. L. I, cap.IX, pag.69)
… il dominatore della nave, il comandante dei marinai, colui che stava ai timoni; e, secondo
Antifonte, il ‘podocone’ (‘colui che tiene i timoni’) o, come preferirei io, il ‘podegone’ (‘colui
che guida i timoni’). (τῆς νεὼς ἠγεμὼν , ὀ ναυτῶν ἂρχων , ὀ ἐπὶ τοῖς οἲαξιν ἐστηϰώς. ϰαὶ
κατ' Ἀντιφῶντα , ὀ ποδοχῶν. ἢ μᾶλλον ϰατ' ἐμὲ, ὀ ποδηγῶν. Ib.)
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Infatti in greco antico ‘timoni’ si diceva anche πηδά(λια), cioè ‘piedi, ossia pale, dei remi’,
trattandosi appunto nell’antichità, com’è noto, di non altro che di due robusti remi azionati
ai fianchi della poppa. In seguito però, cioè nel Basso Medioevo, mentre, generalizzando, si
diceva che un vascello era comandato dal còmito se remiero-veliero o dal nocchiero (l.
nauclerius) se solo veliero, in realtà vedremo un’evoluzione di tutti i ruoli nel senso di
avvicinamento di quelli bellici a quelli vigenti nella marineria mercantile, a dimostrazione di
una sempre maggiore esigenza di far acquistare una migliore navigabilità alle galee e agli
altri vascelli remieri; infatti il toicarco, col nuovo nome di còmito, assumerà il comando
anche delle manovre e di conseguenza il proreta diventerà il suo secondo col nome
appunto di vice-còmito; il timoniero, pur continuando a dipendere unicamente dal
nocchiero, perderà il suo ruolo di comando; il nocchiero sarà sostituito dal padrone e infatti
nauclerii sara chiamata la gente di poppa in generale, mentre nei vascelli mercantili il detto
nome di nocchiero diventerà sinonimo di nostromo come abbiamo già visto. Più tardi nella
marineria da guerra il padrone, lasciando ad altro ufficiale (patrone; gr. Δίοπος; l. scriba) i
suoi compiti amministrativi, aggiungerà al comando di tutto il vascello anche quello della
condotta bellica, prima esercitato da un militare posto a capo dei soldati di bordo. Ci
rendiamo conto che questa nostra sintesi, trattandosi di avvenimenti che si svilupparono
nel corso di non pochi secoli, è probabilmente un po’ troppo concisa e restrittiva, ma il
nostro lettore potrà, proseguendo la lettura di questo studio, dissipare eventuali suoi dubbi.
I quartiermastri potevano avere anche i loro luogotenenti, ai quali, in caso d'abbordaggio,
affidare metà della loro gente mentre con l'altra metà andavano a contrastare il nemico che
abbordava; altro compito di questi luogotenenti in battaglia era quello di rimpiazzare volta
per volta i morti e i feriti del quartiermastro con gente fresca.
Non esistendo a bordo dei vascelli mercantili un cappellano, vi era a carico dello stesso
comandante o del piloto leggere all’equipaggio le sacre scritture e guidarne il canto dei
salmi e le preghiere, così come officiare le dovute funzioni religiose.
Riassumiamo quindi i ruoli degli ufficiali principali incentrandoli storicamente soprattutto
nel secolo sedicesimo:
UFFICIALI DI POPPA
patrone
nocchiero
consigliero
nobile
scrivano
scalco
barbiero
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UFFICIALI DI PRUA
penese
parone
marangone
calafato
2 bombardieri
MEZZI UFFICIALI.
4 timonieri
nocchiero del trinchetto
4 capi delle guardie
Per quanto riguarda le direttive di navigazione, l’ufficiale più importante era il piloto,
coadiuvato nei grandi vascelli da un consigliero e da un terzo uomo con il titolo di maestro,
da ma di lui parleremo diffusamente più avanti, quando cioè tratteremo degli ufficiali di
galea, ma il comandante in seconda del vascello mercantile, cioè il luogotenente del
comandante, non era lui, era il nochiero, nome che poi, raddoppiandosi nella comune
parlata la consonante della sillaba accentata, fenomeno comune a tante altre parole della
lingua italiana, diventerà nocchiero. Egli doveva pertanto saper farsi ubbidire prontamente
da tutto l’equipaggio ed essere inflessibile sulle punizioni quando necessarie; doveva
inoltre innanzitutto accertarsi che il vascello fosse ben stagno e ben zavorrato, per cui
doveva saper metterlo in stiva, cioè equilibrarne bene i pesi, affinché navigasse il più
possibile dritto, leggero e spedito, e doveva far attenzione che mantenesse lo stesso
equilibrio ogni volta che si prendesse del nuovo carico.
Il vascello mercantile, tondo o quadro che allora si preferisse dire, era dotato di qualche
pezzo d’artiiglieria, caratteristica che mantenne, anche se alla fine sempre più
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sporadicamente, fino alla Prima Guerra Mondiale, ma, se era armato da guerra, oltre ad
avere un numero molto maggiore di bocche da fuoco, portava anche la guarnizione militare
[gr. ναυτιϰή δΰνᾰμις, ναυμαχόι, ἐπιβάτάι, (πλέων) μᾰχηταί, μᾰχᾱταί, μᾰχαίται. μᾰχᾱτάρες; l.
(propugnatores) classiarii], comprendente un capitano, ufficiali di compagnia e soldati, la
cui piazza d'armi si stabiliva in combattimento per lo più nel largo che si trovava tra l'albero
di maestra e quello di trinchetto; c'erano infine due bombardieri o uno solo se il vascello
era più piccolo. La polvere d'artiglieria era tenuta sul fondo del vascello per lo più sotto il
castello di prua, in luogo quindi appartato dalla gente di bordo e ben serrato, calafatato e
ricoperto di pelli vaccine con il pelo tenuto all'infuori, affinché non v'entrasse né acqua né
fuoco; ma, seppure tali pelli hanno buone proprietà ignifughe, l’umidità della cala poteva
sempre insinuarsi tra esse e rendere inefficace la povere, per cui era necessario farle
prender ogni tanto aria, come ben si legge al Cap. XVIII del più tardo codice marittimo che
sarà promulgato in Svezia nel 1667, cioè durante il regno di Carlo XI (1655-1697):
Tutti i patroni che hanno vascelli armati avranno cura… che la polvere sia rimossa ogni
quindici giorni e che sia seccata e arieggiata sulla coperta, quando il tempo è limpido ed i
fuochi ben spenti; si farà preferibilmente questa operazione a terra quando fosse
possibile… (J. M. Pardessus. Cit.)
Per ‘vascelli armati’ il suddetto codice intendeva quelli dotati di almeno 14 pezzi
d’artiglieria, di ferro o di bronzo che fossero (ib.), perché era normale che anche i mercantili
avessero qualche bocca da fuoco per difendersi da corsari e pirati.
Il capitano della guarnizione militare poteva servirsi dello scrivano di bordo allo stesso
modo del patrone, ossia per la contabilità della gente, delle razioni, dei materiali e delle
armi. Così come la gente di capo (lem/ctm. companya de cap), ossia i marinai e le
maestranze, anche la guarnizione militare di bordo si divideva in quattro quarti e s’affidava
a quattro capi (‘caporali’), cosa che, come vedremo avveniva anche sulle galere; ogni
quarto di soldati doveva anche aver cura dell'artiglierie del suo quartiero, ciò però agli
ordini del bombardiero, affinché le stesse fossero sempre in ordine e messe in punto.
Per quanto riguarda la Spagna, bisognerà aspettare un’ordinanza che il re Filippo Terzo
emanerà il 31 marzo 1607 perché i due comandi di bordo, quello marittimo e quello militare,
siano finalmente unificati nella persona del secondo, il quale doveva dunque avere anche
buone conoscenze ed esperienze di navigazione:
In ognuno dei galeoni e delle navi d’armata di guardia alla flottt per le Indie deve esserci un
solo capitano e non di più, il quale lo sia e della fanteria e anche del galeone o nave in cui
sia imbarcato e (quindi) sia del personale di mare sia di guerra dello stesso, in modo che e
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l’uno e l’altra siano siano governati da un’unica testa e non si assegnino, nominino ne
ammettano capitani di mare distinti da quelli di fanteria (Recopilacion de leyes de lo reinos
de las Indias etc. T. IV, p. 46. Madrid, 1841).
Da un’altra ordinanza, questa emanata dal re di Spagna Filippo Secondo a San Lorenzo de
El Escorial il 24 agosto 1572, cioè l’anno successivo a quello della famosa battaglia di
Lepanto, sappiamo come potavano essere armate le guarnizioni militari dell’armata
spagnola del Mar Oceano, nel secolo successivo poi preferibilmente detta armada de la
Carrera de las Indias. In esse si prescrivevva infatti che gli arsenali marittima disponessero
sempre dei seguenti minimi di armamenti per provvederene appunto la suddetta armada:
- 200 ‘pezzi’ d’artiglieria navale dei generi, pesi e calibri allora più convenienti.
- 1.500 archibugi di Biscaglia, i quali dovevano essere tutti dello stesso calibro e tutti
provvisti di fiasco, fiaschetto, bandoliera e altri accessori.
Qui c’è subito da notare che i famosi moschetti di Biscaglia ai loro inizi si chiamavano
archibugi, non essendo prima d’allora mai esistito un moschetto portatile; d’altra parte,
trattandosi di guarnigioni navali, non avrebbe avuto senso usare a bordo deboli archibugi
normali dalla portata molto limitata.
E qui conviene ricordare che allora si trattava di quintali di libbra e non di chilo, quindi di un
peso inferiore alla metà dei nostri quintali di oggi.
- 1.500 morioni (cst. morriones, abbr. di un originario morillones) appunto per gli
archibugieri.
- 500 corsaletti, la metà in metallo ‘bianco’ e l’altra metà in metallo battuto, tutti però con i
loro morrioni.
- 500 ‘pezzi’ d’artiglieria da campagna (piezas de campo), ciè gli stessi che poi chiameremo
anche da posta cioè da postazione (archibugioni, moschettoni ecc.), ma, qui per il caso di
eserciti sbarcati e in movimento in campagna e quindi provvisti di affusto ruotato oppure
trasportati su carri matti, cioè carri aperti.
Le picche intere erano ovviamente armi troppo lunge perché si potesero utilizzare nella
guerra d’abbordaggio.
- 300 dozzine di chiussi (cst. chuzos), ossia di zagaglie appunto per scontri ravvicinati.
- 200 tra alabarde e partigiane, armi queste accomunate perché di similare forma bipenne,
utili a troncare le manovre dei vascelli avversari abbordati.
Insomma si trattava di scorte d’armi per qualsiasi occasione di servizio che potesse
capitare. C'è da chiarire che nella composizione dell'equipaggio d’un vascello, specie
tondo, potevano esserci sostanziali variazioni e differenze a seconda se esso era o non era
armato a guerra e, in caso affermativo, se era armato a guerra totalmente o solo
parzialmente e se era armato per battaglia reale o per il corso (gr. ϰοῡρσος); anche i
vascelli mercantili navigavano comunque sempre relativamente armati, perché se un
padrone o comandante si vedeva nella necessità di combattere, i suoi marinai erano tenuti
ad aiutarlo fedelmente a difendere sia la nave sia il suo carico, come per esempio si legge
nel diritto marittimo della Lega Anseatica all’anno 1434 (J. M. Pardessus. Cit.), e i suoi
impresari (oggi diremmo, anche se impropriamente, ‘armatori’) erano tenuti, specie nel caso
di viaggi in mari lontani, ad armare a loro spese la nave anche con artiglieria, come abbiamo
appena detto, e con tutto il corredo necessario al suo uso e maneggio, anche se nella
maggior parte dei casi si trattava di poche e piccole artiglierie che i marinai di bordo
sapevano normalmente adoperare anche senza essere degli artiglieri professionisti;
quest’obbligo si legge nel Guidon de la mer, raccolta di regolamenti marittimi francesi della
fine del Cinquecento che tratta soprattutto delle assicurazioni marittime (ib.) e che include
anche un’ordinanza del 1584 riguardo all’armamento a cui s’obbligavano i mercantili. In
quest’ultima infatti si disponevano, per quanto riguarda i mercantili da 30 a 40 tonelli di
portata, un equipaggio non inferiore ai 12 uomini e due mozzi, due doppie barces (cortaldi)
e due moiane, sei mezze-picche e quattro archibugi o balestre guarniti del necessario; i
mercantili da 50 a 60 tonelli almeno 18 uomini, due passa-volanti, quattro barces, sei picche
e sei mezze-picche, quattro archibugi o balestre; quelli da 90 a 100 tonelli di 36 uomini, due
pezzi di gran calibro per palle da bastarda, due passa-volanti e otto barces, 12 picche e 12
mezze-picche, 12 lance di fuoco (sputafuoco, fr. lances à feu, cioè armi astate che all’apice
avevano, oltre alla punta acuminata, anche una piccola tromba di galera da accendere, arma
di cui poi diremo), 8 archibugi o balestre; quelli da 110 a 120 tonelli di 45 uomini, due
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cardinali o altri pezzi tiranti palle da bastarda, quattro passa-volanti (du nouveau calibre), 12
barces, 24 picche 12 mezze-picche, 12 lance di fuoco, 2 false lance, dardi ferrati da gabbia
in quantità sufficiente, 12 archibugi o balestre; inoltre tutti i mercantili dovevano esser ben
muniti di polveri e proiettili e, a partire dai 90 tonelli in su, dovevano anche esser
strutturalmente ben pontati e pavesati; quelli ancora più grandi sarebbero stati soggetti a
particolari regolamenti dell’ammiraglio di Francia.
Étiennede Cleirac (Us et coustumes de la mer etc. Bourdeaux, 1661), a cui si deve la
citazione dell’ordinanza suddetta, più avanti pure ne riporta – più dettagliata e tradotta in
francese - una fiamminga emessa da Filippo II stranamente nello stesso 1584, per cui non si
capisce quale dei due sovrani si sarebbe voluto così mettere all’altezza della legislazione
marittima dell’altro. Per quanto riguarda l’equipaggio, i mercantili da 40 a 50 tonelli di
portata dovevano esser montati almeno da 8 uomini di non meno di 18 anni d’età; da 50 a 80
di 12; da 80 a 100 di 16; di 150 a 200 di 24; di 200 a 250 di 28; di 250 a 300 di 36; oltre di 300
di 44. Da detti numeri erano esclusi mozzi e paggi (‘ragazzi aspiranti ufficiali’) di età
inferiore ai 18 anni. A proposito invece dell’armamento, i mercantili da 40 a 50 tonelli di
portata dovevano presentare perlomeno 6 cortaldi (barces) semplici o doubles (cioè di
calibro molto maggiore dei semplici), sei archibugi da cavalletto (à croc) e sei picche; quelli
da 50 a 80 due cortaldi doppi e sei semplici, sei archibugi da cavalletto e 12 picche; da 80 a
100 quattro falconetti, sei cortaldi doppi, 12 archibugi da cavalletto e 18 picche; da 100 a
150 sei falconetti, due cortaldi doppi e sei semplici, sei archibugi da cavalletto e sei
moschetti (omesse le picche); da 150 a 200 otto falconetti, quattro cortaldi doppi e otto
semplici, otto archibugi da cavalletto, otto moschetti e 30 picche; da 200 a 250 dieci
falconetti, sei cortaldi doppi e sei semplici, 18 archibugi da cavalletto, altrettanti 18
moschetti e 36 picche; da 250 a 300 dodici falconetti, 12 cortaldi doppi, 24 archibugi da
cavalletto, 48 picche. Per mercantili più grandi ancora, quantitativi d’uomini e armi a
proporzione; tutti dovevano poi avere palle e polveri per almeno 25 tiri da ciascun pezzo e
tutti dovevano essere opportunamente corredati degli attrezzi e dei materiali necessari al
maneggio dell’artiglieria e alla preparazione delle polveri.
Quanto suddetto riguarda i mercantili che lasciavano i porti fiamminghi, i quali non
potevano esser inferiori ai 40 tonelli e, se diretti in Spagna e in altre province a essa
soggette, alle 80, evidentemente per una questione di mantenimento del prestigio
nazionale; ma quelli che vi erano diretti dalla Spagna, i quali erano, per lo stesso e maggior
motivo, di solito più grandi, dovevano esser anche meglio armati; quindi, da 100 a 150
tonelli 32 uomini, di cui 25 abili a portare le armi compresi tre artiglieri, quattro
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passavolanti, due corsieri o pezzi di gran calibro (cioè cannoni da 30/32 libbre) e 10 cortaldi;
10 archibugi, sei balestre d’acciaio, 72 picche, 72 spade o coltellacci (daghe a un taglio) e
un numero di rondacci e di pavesi o scudi da difesa statica, infine palle e polveri per tirare
24 colpi da ciascun pezzo. Mercantili di maggior o minor tonnellaggio armati a proporzione;
secondo una più vecchia ordinanza dell’ottobre 1565, i pescherecci (ltm. tractae) più grandi,
per esempio quelli che andavano a pescare sui banchi di Terranova, dovevano esser
anch’essi convenientemente armati e cioè dovevano avere almeno un falconetto, due o tre
cortaldi, cinque o sei archibugi da cavalletto, da otto a 10 picche e dei marinai che
s’intendessero di artiglieria.
Per meglio difendersi i mercantili dovevano poi viaggiare il più possibile di conserva (fr. en
flotte) eleggendo tra loro un vice-ammiraglio (gr. ἐπιστολεύς) che comandasse e giurandosi
assistenza reciproca; era tutti severamente proibito di caricare il vascello troppo o
comunque in maniera tale da impacciare il maneggio delle bocche da fuoco.
Gli olandesi, i cui mercantili di lungo corso (l. naves mercatoriae longinquae) erano andati
nel Cinquecento sempre molto più armati di quanto appena descritto, dopo aver unificato il
20 marzo 1602 i loro traffici d’oltremare in una grande unica ‘Compagnia delle Indie
Orientali’ (De Oostindische Maatschappije, compagnia i cui vascelli avevano diritto a essere
nei loro lunghi viaggi sempre scortati da quelli da guerra, cominceranno pertanto a ridurre
l’armamento a quello detto appunto ‘a mercanzia’; il momento in cui cominciò ad avvenire
questo cambiamento s’evince per esempio in un’interessante relazione datata in Venezia il
12 dicembre 1606 e citata dal Guarnieri nella sua opera sul porto di Livorno, relazione nella
quale, descrivendosi le attività marinare di lungo corso degli olandesi e dopo essersi
valutate dalle 6 alle 8 le grandi navi che ogni anno Olanda e Zelanda inviavano allora a Capo
Verde e dalle 20 alle 25 quelle che mandavano più a sud in Guinea, così si prosegue:
… per Angola vi va poc(h)e nave e non carricano che puoc(h)issimo oro, ma tutto lor
negozio consiste in comprar de (s)chiavi o negri, li quali le revendino poi con grosso utile in
Brasil od alle Indie di Nuova Spagna, ma la più parte si conducono al Brasil… Hodie (‘oggi’)
per gli soprascritti signori Stati (‘Stati Uniti d’Olanda’) è fatto tutta una compagnia e vi
anderà l’anno in tutto da 30 vaselli grandi et in oltra per la securezza loro vi terranno di
continuo da dieci navi grande di guerra, ancor che li vaselli delli mercanti sono armati
quanto gli vaselli di guerra… (Cit.)
Questo brano è molto interessante perché ci dice due cose oggi molto poco note e cioè che
i vascelli ‘negrieri’ erano in gran parte olandesi, che non andavano in Africa a catturarne e a
farne schiavi gli abitanti con la violenza come molti oggi credono, ma gli schiavi li
trovavano già pronti da comprare in mercati soprattutto della Guinea tenuti da razziatori
108
arabi e da africani medesimi, i quali nel caso invece dell’Angola, considerata la lontananza,
dovevano appunto essere anch’essi gente locale e non i soliti negrieri arabi che operavano
più a nord. Gli spagnoli le chiamavano navíos de negros e navíos de esclavos (ordinanze
reali del 1623) e i loro carichi erano oggetto di assicurazione così come si assicuravano
anche quelli di bestiame (seguros de esclavos o bestias. Ordinanze no. 59 e 60 di Filippo II
promulgata a Madrid il 2 luglio 1618).
Tornando poi indietro all’imperatore Carlo Primo d’Absburgo (1516-1556), una sua
ordinanza elencava gli equipaggi e i seguenti armamenti per le navi di un minimo di 100
tonnellate di portata (ma si preferiva sceglierle di non meno di 200) che potevano
teoricamente partecipare a quegli affollati viaggi per le Indie Occidentali e che si trattasse di
un periodo decisamente anteriore lo attesta la previsione, tra l’altro, di balestre, al tempo di
Carlo infatti ancora adoperate; ricordiamo inoltre al nostro lettore che qui per quintali si
intendono centinaia di libbre e non di kilogrammi e inoltre, per qualche chiarimento
aggiuntivo, gli consigliamo di consultare magari il nostro lavoro sull’artiglieria di quei tempi
(G. Peirce, L’artiglieria da diabolica arte a nuova scienza etc. Napoli, 2010):
Navi dalla portata di cento a cento settanta tonnelli, cioè barili quintaleschi, ossia barili da
100 libbre ognuno.
- Un sagro di bronzo da 20 quintali di peso con 30 palle.
Interessante vedere qui che si classificano le bocche da fuoco non in base al calibro, come
siamo abituati a vedere invece per quelle di terra, ma rispetto al loro peso; ciò perché
naturalmente a bordo di imbarcazioni il peso delle strutture e delle attrezzature era
estremamente importante.
A proposito di quest’ultima voce, riteniamo utile riportare qui quanto da noi scritto nel
nostro libro sull’artiglieria:
C’è da osservare che negli elenchi spagnoli di artiglierie navali di ferro del Tardo
Rinascimento troviamo nomi di bocche da fuoco chiamate in cst. ‘lombardas’, pasamuros’ e
‘versos’, dei quali non sapremmo dare molto precisi corrispettivi italiani, non essendo stata
109
- 12 balestre ciascuna co tre dozzine di quadrelli (cioè saette per balestre, cast. jaras), due
corde e due avancorde.
- Due dozzine di picche lunghe.
- 12 dozzine di mezze picche ossia lance.
- 15 dozzine di saette da lancio (cast. gorguces) ossia dardi.
- Una dozzina di rotelle (‘scudi rotondi’).
- Una dozzina di petti (‘parte anteriore del torace o corazza’) .
- Venti morrioni (‘celatoni crestati’)
Inoltre questa nave dovevva essere dotata di jareta, ossia di una rete di corda o grata di
legno che ricoprisse tutta la coperta ad altezza d’uomo a protezione dei combattenti; inoltre
la pavesata doveva essere munita di feritore dalle quali tirare con gli archibugi, con le
balestre e con berceria, vale a dire con dardi da lancio.
Il gran numero di questi versi ci fa ora capire che trattavasi di quelle piccole bombardelle
dette da braga, cioè con caricamento a mascolo, di solito incavalcate fisse sulla murata, che
più tardi vedremo chiamarsi con vari altri nomi perché si useranno ancora nel Seicento.
- Sei quintali di polvere per la mezza colubrina, sagro e falconetto e otto quintali per i tiri
(pezzi) di ferro.
- 20 archibugi con tutti I loro accessori, piombo per fare le palle e due arrobe di polvere
atta a loro.
- 20 balestre con 3 dozzine di quadrelli (jaras), due corde e due avancorde per ciascuna.
- Tre dozzine di picche lunghe.
- 15 dozzine di mezze picche o lance.
- 20 dozzine di dardi o gorguces (vedi sopra).
- 18 rotelle.
- 18 petti.
- 25 morrioni.
Inoltre, stessa rete protettiva di corda e stessa pavesata con sue feritore, come sopra già
specificato; in più, qui si aggiungono delle tajarelingas (tagliarelle?) nelle antenne degli
alberi - ma non sapremmo dire di che si trattava - e di un rampone (harpeo) al bompesso da
lasciar cadere conficcandolo sulla nave nemica per trattenerla – ma anche per questo
purtroppo andiamo a tentoni. Si tratta comunque certamente in ambedue i casi di armi da
abbordaggio molto imprecise e a quel tempo ormai più teoriche che pratiche, retaggio del
passato cioè di quando non ancora esisteva l’artiglieria navale.
Inoltre stessa rete protettiva di corda e stessa pavesata con sue feritore, come sopra già
specificato, stesse tajarelingas allle antenne e stesso rampone al bompresso. Con
un’ordinanza collaterale Filippo II ordinava che a bordo delle predette navi mercantili
destinate a navigare en flotas, al posto di chiussi e mezze picche risultate armi poco adatte,
ci fossero alabarde e lancioni di Biscaglia con una netta prevalenza delle prime e nelle
seguenti misure: nave piccola, una dozzina; nave media, una dozzina e mezza; nave grande,
due dozzine; con altre prescriveva che le artiglierie maggiori portate fossero di bronzo e
che conveniva sostituire ogni due passamuri con un sagro di ferro colato e inoltre i versi di
ferro e gli archibugi con i più moderni moschetti, di modo che si raggiungessero, rispetto
alle suddette dimensioni di navi, i seguenti numeri: moschetti 20, 30 e 40. Infine tutti,
marinai e passeggieri, dovevano viaggiare armati. Il 5 aprile 1605 Filippo III aggiungerà che
a bordo di ogni nave le artiglierie di bronzo dovevano essere perlomeno due e che averne di
più avrebbe costituito motivo di preferenza nell’accettarne la partecipazione alle flotte; poi,
il 15 febbraio del 1608, si vorrà che le navi maggiori avessero 8 artiglierie di bronzo e otto
artiglieri. Ciò perché le artiglierie di ferro, anche se più leggere e quindi di un peso più
adatto ad essere impiegate a bordo, erano soggette ad arrugginirsi e inoltre dopo
pochissimi tiri si arroventavano e bisognava sospenderne l’uso. A proposito poi delle
differenze tra ariglierie navali di ferro e di bronzo, una ordinanza collaterale dell’imperatore
Carlo Primo aveva a suo tempo specificato quali fossero gli accessori di cui quelle
artiglierie dovevano essere dotate e, mentre la terminologia usata per l’artiglieria di bronzo
è la medesima che descriviamo compiutamente nella nostra opera appunto sull’artiglieria,
per cui non riteniamo necessario qui ripeterla, quella che si riferisce all’artiglieria navale di
ferro presenta qualche elemento da chiarire e dunque diremo che, essendo le canne di ferro
più leggere di quelle di bronzo e quindi più soggette a spostarsi a causa dei movimenti della
nave, occorreva assicurarle ai loro affusti con particolari ceppi di legno di cui non
sapremmo però descrivere la forma e quindi bisognava anche dotarla di battitori, cioè di
martelli per inzepparle con detti ceppi; d’altra parte le cannoniere non dovevano mancare di
serrature di ferro (cst. goznes) e anelli di ferro (cst. argollas) per fissarle quando chiuse e
per sollevarle quando da aprire.
L’Angelucci (v. fonti) riporta l’inventario del corredo e dell’armamento di una nave
acquistata dal duca di Ferrara Ercole II d’Este con atto del 17 giugno 1541 rogato dal proto-
notaio Battista Saracco, nave presumibilmente veneziana a giudicare dal nome Bisenin e
112
dalla circostanza che allora era ormeggiata a S. Biagio di Venezia; aveva una portata di 24
charate (‘carrate’) veneziane corrispondenti a circa 4mila staia ferraresi e dunque, poiché lo
staio di Ferrara era equivalente a dmc. (ossia a litri) 30,862 di oggi (Lazzarini), si trattava di
una nave all’incirca da l. 123.448, quindi 250 tonelli: a bordo, tra gli altri corredi e munizioni
presenti si trovavano le seguenti armi:
Sono bocche a palla di pietra, probabilmente bombardelle incavalcate di quelle che poi
saranno dette da braga, cioè a retrocarica con mascolo, e ne spiegheremo più avanti il
funzionamento.
Sono artiglierie a palla di piombo incavalcate, ma anche in questo caso sono bocche
impropriamente chiamate passavolanti, come abbiamo già visto in un caso precedente,
anche se stavolta non si tratta di cierbottane bensì di quelle allora dette moschetti da braga
e in seguito smerigli; e ciò sia perché a retrocarica, cosa che i passavolanti non erano, sia
perché questi erano in proporzione le bocche più lunghe allora esistenti e quindi le più
inadatte a fare da artiglierie navali.
Ecco invece un normale moschetto da reparo, cioè da posta marittima, incavalcato come i
precedenti ma ad avancarica.
1 spingarda.
12 spingardelle cum li sui mascoli n° 22, computando dui che sono al castello per pegno.
Queste sono piccole e piccolissime bocche da fuoco fatte di due pezzi, incavalcate e a
caricamento da camera, cioè posteriore, ma si trattava di un tipo diverso da quello più tardo
detto da braga; spieghiamo questa differenza che nella nostra opera dedicata all’artiglieria.
Dunque nel 1541 le balestre facevano ancora parte degli armamenti di bordo marittimo;
queste presenti a bordo della Bisenin si caricavano a leva e non a mano o a mulinello;
tiravano vari tipi di dardi da balestra che potevano essere, a seconda se preparati per
113
balestre più piccole da caricarsi tenendole ferme con un solo piede o per quelle più grandi
da due piedi, di canna, di legno o d’acciaio e cioè passatori o verrettoni, ossia saette da
balestra, con normali impennatura e punta di ferro appunto da saetta, muschette a punta
alata per fare peggior ferita e quadrelli a punta e asta d’acciaio quadrangolare.
Anche quando, nel Basso Medioevo, ancora non si erano diffuse le armi da polvere (oggi
diremmo ‘da fuoco’), i marinai arruolati su vascelli mercantili erano stati tenuti a presentarsi
armati, anche se non sappiamo di quali armi in particolare, e, se non l’avessero fatto, le
armi sarebbero state loro fornite dal comandante, ma detraendone poi il costo dai loro
salari; ecco infatti l’art. CXXXIII del il trecentesco codice barcellonese di legislazione
marittima detto Consolato del Mare, poi adottato – o perlomeno rispettato - da tutte le
principali potenze navali mediterranee:
… Ancora, il marinaio è tenuto a portare le armi che avrà convenuto col comandante della
nave e, se non le porta, il comandante può comprarle a debito del suo salario senza
bisogno dell’assenso del marinaio, il tutto essendo annotato dallo scrivano. (Pardessus.
Cit.)
Poiché un’armata genovese era uscita minacciosa dalle sue basi, il re Pedro IV di Aragona,
con un ordinanza del 4 marzo 1354, la quale il 16 luglio 1356 sarà inasprita persino con un
divieto a tutte le imbarcazioni di ingolfarsi, cioè di navigare in alto mare, disponeva le
minlme provvisioni di sicurezza che i vascelli mercantili dovevano adottare nel navigare nei
mari di Catalogna; i vascelli di tre ponti dovevano imbarcare 150 persone e cioè 80 marinai,
40 balestrieri e 30 mozzi (lim/ctm. servicials; sp. grumetes), tutti di età non inferiore ai 16
anni e portatori di armi proprie; quelli di due ponti, ma dalla portata di duemila salme, 60
marinai, 20 balestrieri e 20 mozzi; infine quelli di due ponti o di un solo ponte dalla portata
di mille e cinquecento salme 40 marinai, 20 balestrieri e 20 mozzi. Da questi numeri erano
convenzionalmente esclusi gli ufficiali di bordo e i paggi, ossia i ragazzi aspiranti ufficiali.
Tutti i vascelli dovevano poi essere encuyrades (cst. encorades; ‘incuoiate’), cioè dovevano
avere i fianchi ricoperti quanto più possibile di cuoiame fresco, come abbiamo già spiegato
(Ordenanzas etc. Cit. Pp. 129-131).
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L’art. XVI d’un editto della Lega Anseatica promulgato nel 1447 imponeva a tutti i vascelli
mercantili di quelle città marinare di portare a bordo un numero d’armature proporzionato
alla loro portata; un naviglio (gr. πλοιάρια; cst. e sp. navío) di 100 lastes doveva esser
munito di 20 Manne Harnsch (‘armature da uomo’) e un naviglio più grande o più piccolo
doveva esserlo in proporzione, sotto pena per il suo padrone d’una ammenda d’un marco
d’oro ogni volta che ne fosse trovato privo dagli ispettori delle predette città o dai preposti
degli uffici consolari anseatici in Fiandra e in Inghilterra (ib.) L’art. XXXII del regolamento
anseatico del 1530 - poi ripetuto nel XXXVI di quello del 1591 - faceva obbligo ai marinai di
quelle città di difendere nave e carico in caso d’attacco di pirati sotto pena di perdere il
salario; se poi la nave restava catturata, l’art. XXXVII del predetto ordinamento del 1591
prevedeva la pubblica fustigazione con verghe del colpevole all’uopo legato al ceppo di
prua e questa pena sarà poi confermata dall’art. XXVIII del regolamento del 1614 (ib.)
L’art. XXVI del detto ordinamento del 1530 ci fa vedere i marinai anseatici riconoscibili da
un’ascia, essendo evidentemente quella la loro arma corporativa:
… Item. Nessun marinaio dovrà portare qui (‘a terra, nelle città della Lega’) asce nelle
strade, sotto pena di confisca dell’ascia e sotto pena d’essere punito dal venerabile senato;
nondimeno, un timoniero e un nostromo (“eijn Sturman unnd eijn hovet-Bossman”)
potranno portare un’ascia. (ib.)
… In effetti tutti gli strumenti (di bordo) si dicono armi (τὰ δὲ σύμπαντα σϰεύη, ὂπλα
ϰαλεῖται. G. Polluce, cit. I.IX, p. 65).
L'armata era di tre nave genoese, sei barze, sei galeoni et otto nostre galee et do genoese;
et do bergantini… (D. Malipiero, cit. P. 545)
Dunque navi, cioè vascelli tondi a prevalente vela quadra, barze o caravelle, cioè vascelli
tondi a prevalente vela latina; galeoni, questi vascelli tondi dalla forma più allungata,
provvvisti di un quinto albero e privi del cassero di prua, quindi più veloci e potenti delle
navi e delle caravelle; galee, cioè vascelli remieri di media grandezza e bergantini (gr. e grb.
ἐπαϰτροϰέλητες), ossia vascelli remieri piccoli che potremmo definire quarti di galea, in
quanto invece mezze galee erano da considerarsi le allora ancora poco richieste galeotte,
anche se già apparse sin dall’undicesimo secolo. In realtà, fino a che nel Mediterraneo
116
furono in prevalente uso le medievali galee biremi, di galeotte, cioè di galee minori, non si
sentì ovviamente il bisogno.
117
Capitolo V.
Le esperienze di un passeggiero.
Abbiamo pensato di concludere il discorso dei vascelli mercantili traducendo un po’ dei
Voyages di Jacques de Villamont, interessantissimi appunti di viaggio di un gentiluomo e
cortigiano francese già più sopra ricordato e cioè di Jacques de Villamont, il quale fu
pellegrino in Terra Santa nel 1589, dal momento che non mi sembra che in secoli alcun altro
si sia mai preso la briga di tradurlo in italiano. Egli dunque, come la maggior parte dei
pellegrini europei, pur partendo dalla Francia, s’andò ad imbarcare a Venezia, perché in tal
modo il passaggio per mare, cioè la parte più disagiata di quell’allora impegnativo viaggio,
s’abbreviava di molto rispetto a quello che si poteva fare invece da Marsiglia e inoltre quelli
benestanti avevano così anche l’opportunità di visitare parte dell’attraente Italia, nazione
allora poco attrezzata e comoda per i viaggiatori, ma ricca di bellezze artistiche e di
curiosità. Aveva lasciato la Francia nel giugno del 1588 e, dopo aver viaggiato per diporto in
Italia, era arrivato a Venezia il 4 marzo dell’anno seguente, per poi partire in nave per
levante il 19 aprile. A differenza di tanti altri pellegrini che viaggiavano in galea, come poi
vedremo, egli si affidò alla marineria mercantile, anche a quella turca viaggiando in germe e
caramussali, e inoltre fa delle interessanti considerazioni sui lazzaretti di Venezia che non
abbiamo trovato in altri autori. Si mise d’accordo per condizioni e costi del viaggio con il
patrone della grande nave dal nome Nave ferrea – o qualcosa di simile – diretta a Tripoli di
Siria, il quale era un gentiluomo veneziano che si chiamava Candido Barbaro e da lui i
passeggeri riceveranno solo cortesie e buon trattamento, potendo muoversi sulla nave
dappertutto senza limitazioni; però non gli seppe dire con precisione in che giorno
sarebbero partiti, e allora qualcuno gli dette il consiglio di regolarsi sull’imbarco dello
scrivano:
… dal momento che c’è un proverbio generale e cioè che, dopo che lo scrivano si è
imbarcato, si fa vela immediatamente senza attendere più alcun’altra persona (J. de
Villamont, Libro II. Cit.)
Gli fu inoltre consigliato di portarsi a bordo provviste di cibo salato perché altrimenti
avrebbe mangiato sicuramente malissimo, e inoltre una barile di vino perché quello che si
beveva a bordo era generalmente annacquato per più della metà. Non portò il barvile
d’acqua che pure gli avevano consigliato, ma se ne pentì, perr cui lo portò poi nel viaggio di
118
ritorno. Egli aveva comunque preso accordi per consumare i pasti alla tavola del patrone,
cioè a quella dove si sarbbe mangiato meno peggio, mentre altri passeggeri, o per
mancanza di posto o per risparmiare, pagarono invece per frequentare quella dello scalco,
cioè dell’imbanditore e maestro di cucina, ma anche lì si era generalmente trattati proprio
male. Portò ancora rimedi di farmacia sia contro il vomito sia contro la febbre sia contro la
costipazione del ventre, tre mali molto comuni tra i passeggeri nautici di quei tempi. Si
portò infine anche il letto ed era fatto in questa maniera; si trattava di un a cassa di abete di
5 piedi per 2, nella quale erano riposte tutte le sue cose e sulla quale adagiava il materasso,
un po’ più lungo e largo della cassa stessa e imbottito di lana di Cipro, unica qualità di lana
che non si accumulava. Aggiunse una coperta trapuntata e lenzuola di lino in buon numerro
perché le potesse cambire spesso:
...è necessario cambiarle spesso per evitare l'inconveniente dei parassiti, i quali abbondano
troppo nelle navi, e il modo per sfuggirli è rifornirsi spesso di lino bianco e di avere a che
fare il meno possibile con marinai e con altri passeggeri poveri che non hanno il modo di
mantenersi puliti (ib.)
Pe quanto riguardava gli abiti da portarsi, si era abbastanza liberi, ma facendo attenzione a
un paio di cose:
… e, nonostante nella nave si possano portare tutti i tipi di vestiti che si vorranno,
nondimeno, considerando che in essa potranno esserci diverse nazioni straniere che hanno
in orrore gli abiti corti, io comprai una lunga veste leggera fatta alla turca e di poco prezzo;
perché è molto meglio andarci abbigliati modestamente e non portare su di sé cose che
siamno ricche o desiderabili perché turchi, mori e arabi se ne impadronirebbero
immediatamente, includendo cappellini, coltelli e spille se se ne accorgono, essendo essi
molto amanti di quelle piccole sciccherie. Bisogna anche essre avvistai di non portare nulla
di (color) verde, dal momento che presso di loro nessuno ha il potere di portarne se non
coloro che sono diretti discendenti del loro falso profeta Maometto (ib.) .
Per gli stessi suddeti motivi non era consigliabile di portare più danaro contante di quanto
potesse servire per andata e ritorno, magari calcolando qualcosa di più se si aveva
intenzione di approfittare di quel viaggio per andare a visitare Damasco o Il Cairo o anche
per tornarsene passando per Costantinopoli. Salito a bordo, restò dapprima male
impressionato dal non riuscire ad alloggiare in maniera comoda e tranquilla a causa del
gran numero di persone che venivano a portare le lro mercanzie e i clamori che i marinai
facevano a tutte le ore nel caricare quelle merci e nel levare le ancore, lavori che
accompagnavano con quelli che i marittimi greci chiamavano ϰελεύσματα, cioè canti
cadenzati.
119
Ma il giorno seguente il patrone ordinò il suo posto a ciascuno e fece trainare la nave dal
porto con trentasei barche che aveva fatto venire da Venezia proprio per questo scopo, dato
che il tempo era calmo, e in ciascuna di queste barche c’erano sei uomini che con tutte le
loro forze la trainavano in pieno mare ed era molto bello vederli vogare e tirarsi dietro un
così gran corpo di legno (ib.).
In realtà si trattava di una nave davvero grossa per quei tempi in quanto sotto quello di
coperta aveva ben tre altri ponti e il de Villamiont ne da pure le misure e le principali
caratteristiche, tenendosi presente che il piede comune o dell’Arsenale veneziano misurava
cm. 32 di oggi:
Il primo ponte era alto 12 piedi, il secondo 10 e il terzo 7½. Sotto il castello di poppa, a
livello della coperta, c’era un’ampia sala dove ci si sedeva ai pasti e si trattava di 39
persone, tra passeggeri e ufficiali, quasi tutti a uno stesso lungo tavolo, ma nessuno
osava sedersi se prima non lo avevano fatto il patrone, il nocchiero e lo scrivano;
sopra questa sala c’era un livello in cui si trovavano la camera dello scrivano, quella
in cui dormivano passeggeri e, davanti a queste due, un largo spiazzo che serviva al
maneggio delle vele e dei cordami dell’albero di mezzana, il che significa che si
trattava di un trealberi; al secondo ponte superiore c’era la camera del patrone,
anche questa con uno spiazzo davanti in cui sitrovavano la bussola e il piloto che
governava la rotta; ancora più in alto, al terzo ponte superiore, c’era la camera del
piloto con un altro spiazzo davanti e poi c’era sopra ancora un livello in cuji, in caso
di neecssità, si poteva fare un’altra camera, magari per un opite importante, per
esempio un ammiraglio o un principe; insomma a poppa i livelli, dal basso all’alto
della nave, erano sei o sette, mentre al castello di prua erano cinque o sei.
La nave si difendeva con 24 grosse bocche da fuoco governate da 4 artiglieri, ma a
quale ponte queste fossero il de Villamont non lo dice; probabilmente erano non
troppo in alto per non togliere stabilità alla nave e non troppo in basso per non
essere molto soggette ai marosi. Il patrone aveva detto al de Villamont che la nave
era costata agli armatore cinquantamila scudi, equipaggio compreso, e che di solito
portava un grosso carico di milleottocento pipe o botti di vino, cioè di novecento
tonnellate, il che, scriveva il francese, poteva sembrare forse troppo, ma, date le
120
Quanto al resto della nave, sarebbe troppo lungo descriverla: mi accontenterò di dire che la
vela maestra era larga ottantotto piedi e lunga settanta piedi e che in cima alla coffa
potevano starci comodamente trenta uomini. In breve, era un nave di ammirevole grandezza
che merita più di essere vista che scritta (ib.)
Il de Villamont era uno di quei viaggiatori gentiluomini e cortigiani francesi molto ben
abituato a tavola e quindi ci descrive come i pellegrini erano trattati ai pasti in una nave
veneziana che, quando anche condotta da veneziani, si era di solito, come detto, ben trattati
in tutto per quel che si poteva in quei tempi:
… Sulla tavola si mette il coltello, il cucchiaio, la forchetta e il bicchiere nel quale versare il
vino da un boccaleche è anch’esso sulla tavola;è ben vero che il vino è mescolato per la
metà con acqua, la quale, divenuta putrefatta, non prova certo molto piacere a berla; ma si
ricorre al vino che si è portato in scorta personale. Per i primi due o tre giorni si mangia del
pane fresco, ma, una volta terminato quello, si serve in tavola del biscotto (‘galletta’). La
cosa sembra molto scomoda all'inizio, ma si può immergere il biscotto nel vino o nell'acqua
per ammorbidirlo e così abituarcisi. Per quanto riguarda le vivande, se ne mangia anche di
fresche all’inizio, poi saranno servite in tavola quelle salate, ma nei giorni proibiti dalla
Chiesa si mangiano uova e sardine salate con fave spellate, minestre di lenticchie e di riso
in un po’ d’acqua e olio e a mfine pstao si hanno delle noci e del formaggio, il quale è a
volte buono e a volte cattivo (ib.)
Non era d’accordo il de Villamont con quei pellegrini i quali avevano poi raccontato di quel
viaggio che i marinai li avevano trattato male e con parole villane, arrivando persino al
punto di pungerli da dietro (‘poinçonner par le derrier’); lui questa cattiva esperienza non
l’aveva assatto avuta:
Non voglio dire che i marinai non ti deruberanno se possono e non ti dicono al volo qualche
parola arrabbiata e che sopportiamo molte pene e disagi a causa del mare e del
cambiamento di vita, ma per il resto protesto con verità che è il massimo piacere che si può
avere per la moltitudine di paesi che si vedono dirigendosi verso la Terra Santa... (ib.)
Verso la fine del viaggio si seoppe che a Tripoli di Siria imperversava la peste e pertanto i
pellegrini, sbarcati altrove, dovettero continuarono il loro viaggio con altri passaggi
121
marittimi, ma stavolta su vascelli mediorientali che non risultarono per nulla comodi e
ospitali come lo era stata la grande nave comandata dal gentiluomo veneziano Candido
Barbaro:
… Navigando dunque verso il Regno di Cipro per andare a Damietta, sopportammo un caldo
così grande che fin dal primo giorno fui assalito da una febbre continua, accompagnata da
un veemente flusso di stomaco, tanto che di giorno in giorno le mie forze diminuivano,
perché né bevevo né mangiavo altro che pane e acqua, soprattutto perché il ‘rais’ non
voleva che si accendessero fuochi nel suo vascello né i turchi e i mori che io bevessi del
vino per rispetto del loro Romadan.
Mi diceano mille villanie e tra l'altro che ero una spia della Spagna, di Malta o del Papa e che
dovevo essere gettato in mare, passando e ripassando su di me come su una povera bestia;
e quello che mi rendeva più infelice era che mi passavano così tanti pidocchi che non
potevo provvedere ad ucciderli (ib. L. III.)
Qui si trattava di una germa, vascello da carico privo di coperta e quindi molto scomodo per
i suoi pur tanti passeggeri, i quali dovevano quiandi adattarsi a sistemarsi in mezzo al
carico; più tardi, trovandosi invece su un caramussale, il de Villamont viaggiò in maniera
molto meno disagiata:
… e così m’imbarcai il sesto giorno d’ottobre in un caramussale che faceva vela per
Damietta, nel quale io fui molto meglio accomodato di come lo ero stato nella germa, dal
momento che questo vascello è ben più grande e più pronto alla vela e migliore nel
difendersi (ib.)
Ma comunque il peggio per lui doveva ancora arrivare e fu infatti quando decise di tornare a
casa, anche stavolta via Venezia, approfittando di una nave commerciale veneziana, ma con
equipaggio greco, che si chiamava Trevisana e che stava per partire da Alessandria
d’Egitto. Aveva preso accordi prima con lo scrivano della nave, poi con lo stesso patrone,
un greco di Zante, al quale aveva pure dato, oltre a otto ducati veneziani in pagamento del
nolo e del passaggio, sei scudi e mezzo d’oro perché a bordo fosse ben nutrito; ma poi, una
volta partiti, tutti quegli impegni furono immediatamente disattesi:
… (il patrone) ci trattò molto miseramente per tutto il tempo del nostro viaggio, facendoci
mangiare carne salata puzzolente biscotto (‘gallette’) nero pieno di vermi e facendoci bere
vino peggiore dell’acqua, non mangiandosi nei giorni di magra che delle fave cotte
nell’acqua senza alcun condimento. A quelli che le avevano fatte le provviste straordinarie
sono state di grande utilità.
Se il patrone era avaro e disumano, i marinai erano ladroni, bestemmiatori e pieni di ogni
vizio, derubandoci di notte mentre dormivamo, e perfino lo scrivano della nave, senza che
fosse possibile scoprire l’indomani chi aveva commesso il furto dal momento che il patrone
non ne teneva alcun conto, perché erano tutti greci come lui, una nazione che ci odia più
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dei turchi e dei barbari, preferendo dare le proprie figlie in servitù ai turchi che in
matrimonio ai cattolici; e così , anche il castigo di Dio è caduto sulle loro teste, perdendo il
loro Impero e tutti i loro possedimenti e riducendoli come in servitù in varie parti del
mondo, arrivando io a paragonarli in ostinazione agli ebrei eccetto per quanto riguarda la
fede e il nome di cristiani che portano.
Il patrone aveva promesso di alloggiarmi al coperto, ma, una volta imbarcati, mi disse di
affittare la capannuccia in cui dormiva il nocchiero, il che fui costretto a fare pagando tre
zecchini d’oro e questo solo per poter dormire di sopra (ib.)
... erano trascorse più di due settimane da quando l'acqua aveva cominciato a mancarci e la
stavamo distribuendo a razione, ricevendo ognuno solo una pinta al giorno da bere e per di
più era così piena di vermi e puzzava così tanto che eravamo costretti a filtrarla attraverso
una tela e a tapparci il naso mentre la bevevamo. D’altra parte si faceva cuocere la carne
per due giorni per risparmiare sia l’acqua sia la dispensa, non ricordandomi di aver mai
sopportato tanta sete come in questo viaggio, perché da una parte mi ardeva la febbre e
dall'altra il caldo terribile del tempo, e, se i vermi brulicavano nell'acqua, altrettanto
facevano nel biscotto. Fummo talmente maltrattati che i bisogni della vita ci costringevano
a bere e a mangiare ciò che trovavamo, senza d’altro canto badare alle cose che vi fossero
dentro (ib.) .
Una volta arrivati poi finalmente a Venezia, i naviganti supertisti dovettero poi sopportare
altri 40 giorni di isolamento per quarantena sanitaria.
… Finalmente il 6 luglio arrivammo in Istria, dove la nave ancorò nel porto di Quieto, che
vuol dire porto di riposo, il quale dista cento miglia da Venezia e tutti i vascelli che vengono
sia da levante sia da ponente sono obbligati a farvi sosta e a prendervi un pilota che li
conduca al porto di Malamocco, che dista da Venezia cinque miglia... GIi scrivani di tutte le
navi sono soliti prendere una barca per avviarsi a Venezia portando con sé i passeggeri che
vogliono imbarcarsi, pagando ciascuno un ducato e talvolta uno zecchino; ma succederà
che saranno per dieci, venti o trenta giorni tenuti al Lazzaretto a differenza di quelli che
invece resteranno nelle navi finché non avverrà che le dette navi possano prendere porto a
Venezia così come anche loro (i passeggeri in quarantena), il tutto a seconda delle
123
occasioni dei tempi. Noi passeggeri che eravamo sulla detta nave ci siamo imbarcati nella
barca del suddetto scrivano [...] e dal detto luogo fummo subito mandati dai Signori della
Salute al Lazaretto Vecchio, che è il luogo dove si va a purgarsi per quaranta giorni prima di
mettere piede a Venezia. Al Lazaretto Nuovo si portano (invece) tutte le merci perché si
vendano dopo gli stessi quaranta giorni. Si tratta di due luoghi fabbricati su paludi
circondate dal mare e situati a circa due miglia da Venezia, dove le gondole portano ogni
giorno il necessario per la vita di chi si trova lì, a condizione che paghino le vettovaglie e il
lavoro dei gondolieri.
I fabbricati degli alloggi sono molto belli e divisi tra loro da ampi giardini, nei quali si può
passeggiare avendone licenza dal loro custode, altrimenti si correrebbe il pericolo di
ricominciare la quarantena, anche se non si ha nessun contatto con coloro che sono
ospitati negli altri alloggi, essendo, per così dire, come una vera prigione, eccetto la
speranza che si ha d’uscirnesubito non appena lanave e le persone sqaranno prive di
sospetto di contagio; tuttavia sono restii a darne loro congedo fino a che non si sono
purgati perlomeno per il tempo di quindici giorni….faticano a dar loro il permesso finché
non si saranno purgati almeno per il tempo di quindici giorni... (ib.)
… Dopo essere stati tenuti in cattività per trentasette giorni, finalmentefummo liberati , il 14
agosto, nel qual giorno entrai per la seconda volta a Venezia… (ib.)
Capitolo VI.
I VASCELLI REMIERI.
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Abbiamo trattato finora di navi e di barche, le seconde così chiamate sia quando
propriamente dette sia quando convenzionalmente dette; ora parleremo invece di quelli che
costituiscono il nostro principale tema, cioè dei vascelli remieri (gr. ἐπίϰωπα, ϰωπῆρη
πλοῖα; l. remivagi; navigia remivaga; ltm. vassella (subtilia) de remis; tr. çektiri) da guerra, i
quali, oltre che tali, erano però anche velieri e avevano una velatura simile a quella dei
suddetti vascelli latini; essi infatti navigavano in mare aperto (vn. per schiena de mar,
‘senza cabotare, senza scalo’) normalmente a vela, riservando l’uso dei remi al piccolo
cabottaggio, specie quando mancasse il vento, alla navigazione portuale e alle operazioni di
battaglia; differivano però sostanzialmente dai vascelli latini nel garbo, cioè nella forma,
perché l’uso dei remi implicava uno scafo molto basso di bordo e inoltre di forma molto
allungata. Erano stati chiamati nel Medioevo a Ponente generalmente lenij (‘legni’, ct. lenijs,
sp. leños; navigiis quae ligna dicuntur in Annales genuenses Cit. Anno 1332 e altri),
dicendosi spesso allora ligna et naves per distinguere sbrigativamente i vascelli remieri dai
vascelli tondi, cioè a preponderante vela quadra, oppure ligna et barchae per differenziarli
invece da quelli a preponderante vela latina. Si distinguevano inoltre i lenij de the(o)ris da
quelli detti invece lenij de bandis, perché allora theorie (gra. θεωρίαῐ) si chiamavano gli
ordini di voga - e quindi e.g. de duabus theriis significava ‘bireme, a due remi per banco’, e
significando invece bande (dal gr. wand) ‘murate’; infatti un vascello o non era remiero e
allora presentava lateralmente le murate oppure, se remiero, invece delle murate aveva
battagliole.
Ma dal Rinascimento in poi prevalse per i vascelli remieri la definizione bizantina di vascelli
sottili (gr. ἂϰᾰτοι, se grandi o mezzani, e ἀϰατία se piccoli, da cui il l. naves actuariae, nome
questo con cui però s’intendevano solo quelli piccoli); in gr. si dicevano comunque pure
ϰοῡφα πλοῑα, ‘vascelli leggieri o sottili’ e ϰατέργοι, ‘vascelli remieri in generale’. Si badi
però questa loro sottigliezza rispetto ai vascelli tondi e latini non era da intendersi nel
senso della larghezza bensì in quello dell’altezza, qualità infatti necessaria a permettere la
voga (gr. εἰρεσία, ϰωπηλăσία), ma nel secolo successivo a Venezia s’userà distinguerli
pure da quelle galee dette bastarde, bastardelle o anche quartierate, perché queste, pur
essendo altrettanto basse, erano però alquanto più larghe, specie a poppa. Questo termine
di ligni a Ponente finirà per scomparire per dar posto a quello di fuste (lignis vel fustis),
mentre a Levante il termine lignum era usato in significato generico di ‘vascello’ già
appunto all’inizio del Trecento, come leggiamo in Marino Sanuto il Vecchio (Liber
secretorum fidelium Crucis etc. Cit. P. 315).
125
Nel Basso Medio Evo, per quanto riguarda i piccoli vascelli da carico e da messaggi
impiegati nei porti, lungo le coste e per il supporto logistico alle armate, le categorie
generiche erano tre e cioe c’erano quelli remieri di cui abbiamo appena detto, quelli latini
(ossia a vela latina, magari unica) o barche, detti grippi o griparie nell’Adriatico e nei mari di
Levante in genere, infine quelli anch’essi latini ma dal fondo piatto, utilizzabili quindi anche
nelle lagune o alle foci dei fiumi, magari aiutandosi con qualche remo, chiamati invece leuti.
Delineeremo ora i tratti principali della marineria da guerra medievale, marina che, come
quella antica, era esclusivamente remiera, e lo faremo però soprattutto per quanto riguarda
quella basso-medievale, perché di quella alto-medievale, dromoni a parte, ci sono rimaste
ben poche memorie; le cronache catalane, veneziane e bizantine sono le letture più
importanti da fare a questo fine. Cominceremo con quella fluviale perché, a differenza di
quanto lo sia poi stato nell’Evo Moderno, fu molto importante nel Medioevo, specie
nell’Italia settentrionale. A Bisanzio c’era un vecchio detto, ϰοντῷ πλεῖν, il quale alla lettera
si traduceva ‘navigare con la pertica’, cioè facendo avanzare la barca nel fiume o nella
palude puntando e spingendo una pertica sul fondale, e voleva dire ‘vivere in maniera
acconcia, conveniente’, a dimostrazione di quanto anticamente fosse importante e praticata
la navigazione fluviale (Suida, cit. T. II, p. 347).
Abbiamo già accennato che il nome galeone si ritrova già nelle cronache del dodicesimo
secolo perché nel Medioevo si era già adoperato, ma non, come succederà più tardi a
partire dal Rinascimento, per i grandi velieri di cui abbiamo già detto, bensì per vascelli
remieri fluviali più piccoli delle galee che erano di grande uso per operazioni sia mercantili
sia belliche da condursi appunto su fiumi e laghi (ut vulgo appellant, galeones); il nome
tendeva però a essere usato in maniera un po’ generica per cui detti galioni fluviali
potevano essere o monoponte e di basso bordo oppure vascelli biponte e quindi più alti di
una galea. Saba Malaspina, quando racconta di nunzi inviati nel 1284 dalla regina Costanza
d’Aragona a Corrado di Antiochia, cioè dalla Sicilia all’allora Stato Ecclesiastico, scrive che
essi traversarono il mare ‘in un veloce galeone’ (in quodam aligero galione. Cit. L. X, cap.
XXIV), il che conferma il suo coevo Bartolomeo di Castronuovo laddove questo dice del
nunzio inviato all’inizio dello stesso predetto anno dai messinesi all’imperatore bizantino
Andronico II Paleologo (… Et parato ac dato sibi galeono pro transitu suo… Historia sicula.
L. I, cap. L. Ib.)
In un ordine di Carlo I d’Angiò del 15 marzo 1273 si comanda di approntare due galionos per
dare la caccia ai vascelli, sia corsari sia commerciali, dell’allora ostile Genova che
frequentavano le coste di Principato e Terra di Lavoro, dovendosi spingere in quest’attività
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di contrasto fino a Corneto (‘Tarquinia’) nel basso Lazio; bisognava armarli per due mesi di
missione di timonieri, galeotti, marinai, panatica, armi e quant’altro necessario. I due comiti
o comandanti avrebbero ricevuto un compenso mensile di 27 tareni ciascuno, i timonieri di
20, i militari (supersalientes) di 13 e un terzo e i marinai di un augustale, ricordandosi che il
tareno o tarì era la trentasima parte dell’oncia e l’augustale la quarta; inoltre ogni persona
avrebbe ricevuto ogni mese un quarto di cantario di biscotto [l. buccellatum, maza; gr.
ϰίρϰος, μᾶζα, παξαμάδιον (poi anche παξιμάδιον); fr. gallette; np. fresella; ol. twee-bak,
hardt-broodt] ossia di panatica, mentre, calcolandosi che allora ogni galea riceveva
mensilmente 3 cantaria e mezzo di formaggio e 2 e mezzo di carne salata, lo stesso si
doveva a ognuno dei suddetti due galeoni, ma pro-rata in base al numero delle persone di
bordo. Ma l’attribuire questo nome di galeone, nel Duecento in verità più spesso della 2°
declinazione (galionus-i), a vascelli remieri minori non avrà poi, come già sappiamo, seguito
sul mare, mentre lo troveremo comunque restar in uso per molto più tempo su fiumi e laghi
e così infatti circa due secoli dopo descriverà i galeoni fluviali medievali Giovanni Simoneta
(1420-1490) nelle sue Sfortianae historiae:
… Sono poi i galeoni delle galee più corti, ma più larghi ed alti. Si ergono infatti verso la
sommità divisi in più ponti con le poppe e le prue elevate più in alto. Sono spinti talvolta
con le vele talvolta con i remi, acconci solamente alla navigazione dei fiumi, e portano sugli
alberi più vaste coffe, dalle quali uomini armati con giavellotti, con spiedi di ferro e
insomma con lancio di ogni tipo di dardi aspramente combattono i nemici sottostanti (in L.
A. Muratori, Rerum italicarum scriptores etc. T. 21. Milano 1732).
Abbiamo voluto tradurre noi il suddetto brano perché la traduzione in volgare di queste
historiae fatta da certo Sebastian Fausto e pubblicata a Venezia nel 1543 ci è apparsa
davvero estremamente imprecisa e talvolta anche fuorviante a causa di manifesta ignoranza
dell’evoluzione delle armi in uso avvenuta appena nel secolo precedente; per esempio, tra
le altre amenità, traduce colubrina con serpentina, essendo nel Medioevo quella invece
null’altro che lo schioppetto (grb. ἐλεβολίσκος, corr. di ἐϰηβολίσκος).
Descrivendo una battaglia fluviale combattutasi nel 1427 tra veneziani e sforzeschi appunto
sul fiume Po, il de Redusiis, unico tra i cronisti di storie medievali, spende qualche parola
anche sui suddetti galeoni propriamente detti e sulle ganzerie, queste anch’esse un tipo di
vascelli remieri fluviali medievali per uso sia commerciale sia bellico, ma bassi e sottili,
adoperati su fiumi e laghi veneti e lombardi specie dai padovani e dai veneziani. Poco più
tardi, cioè nel 1438, i veneziani, nel corso delle operazioni che intrapresero contro il
traditore marchese di Mantova, Gianfrancesco Gonzaga (1395-1444), il quale si era alleato
127
con i loro nemici sforzeschi, fecero risalire il Po a un’armata che includeva molti dei predetti
galeoni fluviali, come racconta il Doglioni:
… Intesasi dunque a Venezia questa ribellion del Gonzaga, subito posta insieme vna
potentissima armata di sessanta galeoni, cinque galee e di altri nauigli minori, e creatovi
generale Pietro Loredano, la mandarono su per lo Po a danneggiar il Mantoano… (Giovan
Nicolò Doglioni, Historia venetiana etc. Venezia, 1598.)
Questo gran numero di sessanta fa capire che trattavasi di piccoli vascelli, tra cui
certamente redeguardi, barbotte e gatti di cui poi diremo, e che devono esser stati molto
impiegati i marinai come alaggiatori (l. helcyarii, dal gra. έλϰύειν, ἒλϰειν o anche έλϰέειν,
‘tirare, trascinare’). Ma perché i detti galeoni fluviali da gran tempo non s’adoperavano più
anche sul mare? La ragione è intuitiva e cioè quelle loro alte sovrastrutture e le loro molto
scarse agilità nautiche li avrebbero resi poco adatti a resistere ai venti e alle correnti marine
e quindi anche facilmente rovesciabili; questa considerazione comunque non impediva di
aggiungere alte sovrastrutture anche ai vascelli marini (l. marina navigia), ma solo
all’occasione, cioè per operazioni belliche mirate, e per esempio nel 1081 Roberto il
Guiscardo, volendo tentare la bizantina Durazzo, preparò a Brindisi una grande armata e
fece tra l’altro appunto costruire sulle navi più grandi torri di legno ricoperte di cuoi
inchiodati per difenderle dal fuoco e quindi si preparava ad assalire la città per mare e per
terra (περιζῶσαι τοῡτο διὰ τῶν ἐλεπόλεων ἁπό τε θαλάττης ϰαὶ ἠπείρου. Anna Comnena,
Alexiadis. L. III, 12); non esistendo ancora le artiglierie da polvere, erano dunque allora
comunementre tre i generi di luoghi dei vascelli dai quali si combatteva e cioè coperta, torri
e gabbie. Nello stesso Medioevo usavano i veneziani invece nella guerra nautica, per
elevare i loro combattenti al livello dei difensori delle mura costiere nemiche, vascelli a due
alberi (gr. δυάρμενοῐ νῆες) tra i quali, all’altezza delle gabbie stendevano un solido ponte
impavesato, dal quale si bersagliava il nemico con archi, piccole catapulte, fustibali e
trombe di galera senza dover soffrire così più dello svantaggio di chi combatte dal basso
verso l’alto; tanto leggiamo a proposito della partecipazione veneziana alla quarta crociata
(Flavio Biondo, De origine et gestis venetorum in Opere, p. 283 C. Basilea, 1559), mentre, a
proposito dello stesso avvenimento, Andrea Dandolo scriveva che nel 1204 i crociati
ripresero Bisanzio legando insieme due grosse navi veneziane affiancate, la Paradiso e la
Peregrina, e vi poterono elevare su così delle alte e salde scale che permisero agli
assedianti di scavalcare le mura e impadronirsi della città (Chronicon, l. X, c. III parte 34);
ma il più antico avvenimento bellico ricordato, in cui i veneziani si avvalsero di questo
combatter le mura dall’altezza delle alberature delle loro navi, fu la presa di Ravenna fatta
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dai bizantini e dai veneziani del doge Orso (726-737), città allora presidiata dai langobardi di
Ildeprando, nipote del re Luitprando, e di Perendeo, duca di Vicenza:
… gli alberi delle navi maggiori e l'antenne cariche d'uomini armati, gettati i ponti, furono
sopra
le mura e incominciarono a leuare le difese dal più alto loco della città con dardi e con
sassi… (Bernardo Giustiniano, Historia dell’origine di Vinegia ecc. L. X, ff. 144 verso e 145
recto. Venezia, 1545.)
I veneziani, scesi poi dalle mura all’interno della città e ordinata una formazione a cuneo per
difesa davanti alla porta del mare, la ruppero e fecero entrare l’esercito bizantino. Nel 1348
infine i genovesi che assaltavano Bisanzio soprattutto dal mare lo facevano, oltre che con
galee, anche con tre grandi navi da carico, su due delle quali avevano piazzato mangani che
lanciavano carichi di pietre aldilà delle mura e sulla terza, la più grande, avevano costruito
una larga torre la cui base si estendeva dalla mediana alla prua e la cui sommità superava
in altezza le stesse mura che doveva offendere; da essa, protetti da filari di scudi,
combattenti scelti bersagliavano con successo i difensori bizantini (Niceforo Gregoras,
Historiae byzantinae. L. XVII, par. 3). I càrabi russi, di cui poi di più diremo, erano vascelli
remieri onerari che nelle operazioni di guerra, forse quando ben legati affiancati, erano
considerati adatti – forse perché più ampi e stabili - a reggere l’impianto di congegni e
macchine d’assedio costiero, come leggiamo in un passo del già ricordato Giorgio
Pakymeres, cioò laddove si dice dei preparativi bizantini del 1295 per assediare la ribelle
fortezza costiera di Melanudio, la quale si trovava nel territorio di Mileto di Lidia:
… divisando di legare (tra di loro) con le funi i carabi di quelle acque, inviando anche grossi
tronchi per istallare su di loro torri d’assedio… (ἑπισχὼν τοὺς τῆς λίμνης ϰαράβους συνδεῖ
σχοίνοις, ϰαὶ ξύλα μέγιστα ἑνιεὶς ἑπʹ ἑϰείνων ϰατασϰενάζεται μόσυνας.· In De Michaele et
Andronico Palaeologis libri XIII.T. II, l. III, par. 9.)
Càrabi remieri più piccoli (quindi non dei ϰάραβοι bensì dei ϰαράβια) detti ἐφύλκια
(Esichio) o ἐφόλκια (G. Polluce) si usavano per rimorchiare a forza di remi velieri che si
fossero fermati a causa di bonaccia, come spiega Esichio nel suo Lexicon (cit. p. 290).
Troviamo per la prima volta questo nome càrabo - in origine abbrev. di scafocarabo,
‘vascello-aragosta’, in quanto appunto derivante da ϰάρᾶβος, ϰαράβιον e ϰἅρᾶβίς
(‘aragosta’), da cui quindi caravella e carabottino – attribuito a un tipo di vascelli remieri
onerari medievali usato dai russi nel Mar Nero e nei fiumi suoi affluenti già negli
avvenimenti dell’anno 626 d.C., cioè al tempo dell’assedio avaro-persiano di Costantinopoli,
129
essendone allora imperatore Eraclio Nuovo Costantino, il quale poi sarà ricordato come
Eraclio I° (575-641), come si legge nel Chronicon Paschale scritto da un anonimo
cronachista bizantino contemporaneo (… εἰς αὐτὴν ϰάραϐον… ἐϰ τῶν σϰαφοϰαράϐων… οἰ
σϰαφοϰαράϐοι… etc.) Il nome era però usato nell’alto Medioevo con senso generico di
vascello onerario e non necessariamente remiero, anzi l’uso principale del nome, cioè
quello che ne facevano greci e turchi, si riferiva infatti a velieri da carico e non a vascelli
remieri.
Quando non si avesse da assaltare mura costiere nemiche molto elevate e impegnative, più
leggere scale d’assedio si potevano montare anche su coppie di galere [grb. ϰλιμαϰοφόροι
τριήρεις, ossia ‘galere porta-scale’); ma torniamo ora alle due summenzionate flotte
veneziana e sforzesca che si affrontarono sul Po nel 1427; di esse dunque così scriveva il
de Redusiis:
... Marino Contareno vice-capitano della predetta armata veneziana [...] navigando sul Po
con 50 galeoni, 2 galee, 12 ganzarole e 30 barche... {Marinus Contareno vicecapitaneus
armatae venetorum praedictae […] per Padum navigans cum galeonis L et galeis II
ganzarolisque XII et barchis XXX… (A. de Redusiis, Chronicon. In L. A. Muratori, Rer. It.
script. T. XIX, c. 860-861.)}
La suddetta armata veneziana, pur se più lenta di quella milanese perché era quella che
risaliva il corso del fiume, procedeva in sapiente ordine militare:
… Infatti dapprima avanzavano 30 barche leggere, quindi seguivano 11 galeoni con due
‘castellati’; dopo i quali seguivano due galee che navigavano a voga forzata, i rimanenti
130
galoni seguivano a tergo, nei flutti del Po, scambievolmente incatenati. E avendo dunque i
veneti così messi avanti per primi loro galeoni, avevano infitto un robusto legno di
straordinaria lunghezza e armato di ferre cuspidi, affinché tenesse lontano il fuoco dai
galeoni
Nam primò barchae XXX leves praecedebant, deinde galioni XI duabus in battaleis
sequebantur. Post quos galêae duae sequebantur enixis viribus navigantes, reliquis
galeonibus intra Padi fluenta mutuis nexibus catenatis ad terga sequentibus. Itaque veneti
primis galeonis suis praemissis; singulae prorae robur lignum infixerant mirae longitudinis
ferreis cuspidibus armatum, ut ignem arceret à galeonis…
Perché tante barche leggere a fronte dei soli due grossi burchi da carico che ora vedremo
invece usati dai lombardi? Evidentemente i veneziani non avevano pensato di portarsi
dietro tutte le provviste necessarie bensì di razziarle volta per volta alle popolazioni
nemiche rivierasche del Po, utilizzando appunto leggere e piccole barche atte ad avvicinarsi
a qualsiasi punto di quelle rive fluviali; ma aperché farle andare in avanguardia, visto che
non si trattava di imbarcazioni atte a combattere? Anche questa tattica non sembra di
difficile comprensione e cioè, tenendole avanti si potevano tenere sott’occhio e sorvegliare,
ad evitare così che quei barcaioli (gr. πορθμεῖς; lt- lintrarii, portitores; vn. peateri, bari) civili
disertassero, fuggendo indietro o andandosi magari a nascondere negli anfratti delle rive.
Perché poi le due galee procedevano a voga forzata? Qui il perché è molto semplice,
navigavano contro corrente. Perché inoltre i galeoni fluviali di retroguardia, i quali si
chiamavano propriamente redeguardi, procedevano incatenati tra di loro? In questa
maniera si evitava che qualche vascello nemico, il quale si fosse infilato nella formazione
veneziana e fosse magari arrivato a scorrerla fino alla fine, riuscisse, trovandosi colà la via
chiusa dalle catene, a scompaginarla del tutto. Infine, perché dotare i galeoni anteriori di un
lungo sperone, da quale fuoco nemico li si voleva tenere lontani? Se si fosse trattato di
bocche da fuoco, nessuno sperone avrebbe potuto essere utile ad evitarne i tiri;
evidentemente, si trattava ancora di quei sifoni di prua che emettevano fuoco liquido, ossia
quello che in tempi moderni sarà poi detto impropriamente ‘fuoco greco’. In realtà nella
guerra fluviale, essendo frequenti gli assalti costieri ma rari gli scontri tra vascelli nemici,
armare la prua delle maggiori imbarcazioni con trombe di galea era abbastanza inutile e
infatti Marin Sanuto il Vecchio (1321-1323. Cit.) consigliava invece istallare a prua qualche
grossa balestra da postazione, cioè quelle che ai suoi tempi – siamo all’inizio del Trecento –
erano le balestre da tornio (l. a turno), e inotre di disporre di un numero quelle balestre,
sempre da postazione ma più piccole, che lui chiama a pesarola, perché evidentemente si
caricavano non a tornio come le precedenti ma a torchio (cit. P. 59); ma passiamo ora
all’armata fluviale nemica:
131
… Della quale armata del duca di Milano era una flotta costituita da 41 galeoni, di cui due
(armati) a mo’ di ganzeria, la quale è una specie di nave stretta e lunga, due furono fatte con
tre battaglie (‘parapetti’) elevati verso l’alto a guisa di castelli, al di sopra di ognuna delle
quali si elevava un grande albero, alla sommità delle cui gabbie c’era una struttura
meravigliosamente fortificata, in ognuna delle quali otto uomini maneggiavano spiedi sia
per difesa che per offesa... [Cuius armatae Ducis Mediolani classis erat de XLI galeonibus,
ex quorum duobus in modum ganzeriae, quae est species navis strictae et longae, duae
facte sunt cum III battaleis elevatis in altum ad instar Castrorum, supra quas grandis
eminebat arbor pro singula, quarum pinna erat cabiarum structura mirabiliter communita, in
quibus octo homines pro singula ad defensionem et offensionem sudibus laborabant ( A. de
Redusiis, Chronicon. In L. A. Muratori, Rer. It. script. T. XIX, c. 860-861.)]
Completavano l’armata fluviale milanese due burcli, velieri da carico, che portavano
attrezzature e materiali; i lombardi non disponevano dunque di galee, ma sopperivano con
una grossa ganzara quadriremi:
Pachino de Papia, capitano dell’armata del duca di Milano, delle due fa andare avanti una
grande ganzara quadrireme, la quale con la sua leggerezza, allora favorita dal corso del
fiume, scivola con grande impeto contro le barche dei veneti, le quali, non volendo
sopportarne l’urto, si dettero alla fuga… (Paxinus de Papia armatae Ducis Mediolani
Capitaneus ex duabus unam magnam praemittit ganzaram quadriremem, quae cum sua
levitate, tum fluvii discursu adiuta, magno cum impetu adversus barchas venetorum
dilabitur, quae, impetum sufferre nequeuntes, sibi de fuga, providerunt… Ib.)
Per la cronaca, i veneziani vinsero questa battaglia fluviale, le cui fasi e particolari
comunque risparmiamo al lettore, com’è nostra abitudine. Questi brani ci confermano la
genericità dell’uso del nome galeone o galioncello d’allora, in quanto a quei tempi spesso
riferito, come già accennato, ai vascelli remieri fluviali in generale, di cui i maggiori,
appunto i galeoni, erano, quando monoponte, non più grandi dei bergantini marittimi, e
quindi per esempio anche ai gatti, cosiddetti per avere non una gabbia ma una mezza
gabbia chiamata appunto gatto dai ponentini (l. gatha; sp. gata), in quanto, come gli occhi
dei gatti, unici animali domestici ad averli in posizione frontale, permettevano di vedere solo
in avanti e un po’ di fianco, essendo infatti questi vascelli tenuti in avanguardia; inoltre alle
barbot(t)e, barche da carico invece così chiamate perché, essendo soggette particolarmente
al lancio di dardi incendiari proprio perché il nemico tentava di incendiarne il carico, erano
difese, soprattutto ai fianchi, come da una ‘barba’ di cuoi freschi ignifughi; infine ai già
menzionati redeguardi, così chiamati perché chiudevano i convogli armati fluviali restando
di retroguardia e avendo quindi anche le poppe armate di piccole bocche da fuoco. A
proposito dei predetti gatti c’è da chiarire che questi vascelletti non vanno confusi con gli
omonimi arieti coperti che si usavano negli assedi medievali e di cui diciamo nella nostra
opera sull’artiglieria.
132
Più tardi tutti questi suddetti vascelli fluviali maggiori, quando usati per scopi bellici,
saranno abbandonati e generalmente sostituiti da un unico tipo marittimo detto bergantino,
molto più raramente anche dalla galeotta, perché questa non sarà un vascello
sostanzialmente minore della galea medievale, quindi alquanto grande per navigare
agevolmente in un fiume:
(24 aprile 1509): Item, fo ordinato a sier Sabastian Moro, capetanio electo di l'armada im Po
o in l’Adexe (‘Adige’), qual era in hordine, con la fusta, compita in l'arsenal, (che) manchava
ussir, e (con) le barche di San Nicolò e contrade, fate conzar a furia in l'arsenal, li
redeguarda, barbote e altro, con le artilarie, ita che era una bona e grossa armada per aqua
dolze; e fo (così) terminato (di) soprasieder (in I diarii di Marino Sanuto. T. VIII, p. 124.
Venezia, 1882).
Per esempio, verso la fine del Cinquecento, l’armata fluviale del Sacro Romano Impero, il
quale, per motivi geografici, non disponeva di una sua stabile armata marittima, operava
ovviamente principalmente nel Danubio, aveva base a Vienna e si componeva soprattutto
appunto di bergantini e qualche fusta:
… Nell’arsenale suo di Vienna sono tra fuste e brigantini 50 e può hauer'assai gran numero
di navilij dagli unghari detti ‘nasadi’, il cui fondo è piano, longhi quanto due gondole. Sono
vogati da 20 huomini e hanno quattro ufficiali, il patrone, nocchiero, timoniero e
bombardiero; e queste naui sono quelle che fanno le fattioni. Sua Maestà si serve in questo
d’ungari, schiauoni, italiani, greci e poco de' tedeschi (Tesoro politico ecc. Cit. T. I, p. 162).
Da notarsi poi nel suddetto Chronicon del de Redusiis la grande ganzara quadrireme - un
numero di ordini di remi (grb. θεωρίαῐ; ltm. theriae; it. teorie, ‘file, righe, processioni’) che,
trattandosi dunque di un tipo di vascello sottile per uso fluviale, era del tutto insolito; per
quanto riguarda infine i due galeoni incastellati e gli altri due fatti invece in modum
ganzeriae, cioè privi delle dette alte soprastrutture, abbiamo già spiegato che i galeoni
fluviali medievali della Val Padana potevano essere a uno o a due ponti remieri,
considerandosi quindi i primi vascelli di basso e i secondi invece d’alto bordo. A proposito
invece dei suddetti battalei, essi erano dunque due o tre incastellature costruite, ma solo
quando c’erano esigenze belliche, ciascuna attorno a uno degli alberi, muniti questi anche
di una falsa gabbia per i combattenti; naturalmente si trattava di sovrastrutture adatte solo
per uso fluviale, perché alla navigazione marina sarebbero certo risultate molto inadatte e
pericolose e ciò sia per il peso sia per la soggezione ai venti, come era accaduto nel 1081
alla già ricordata armata napoletana di Roberto il Guiscardo, quando, in previsione
dell’assalto che si andava a dare a Durazzo, si erano costruite sulle navi più adatte delle
133
torri, come si usava quando si voleva combattere i difensori di mura costiere stando alla
loro stessa altezza. Queste torri furono, come anche s’usava, rese ignifughe rivestendole di
ampi cuoi inchiodati nel loro legno; ma, a fronte di questa sua qualità di non far attecchire il
fuoco, il cuoio grezzo e non ingrassato ha il difetto di intridersi d’acqua in caso di pioggia e
ciò infatti puntualmente avvenne poco dopo che la suddetta armata fu salpata da Brindisi a
causa di una tempesta che la colse durante la navigazione; questi cuoi, dunque molto
appesantiti dall’acqua piovana, si schiodavano, pendevano e, spinti come vele dal forte
vento, ondeggiavano e alla fine cadevano, trascinando talvolta nella loro caduta le leggere
strutture che le avevano rette e provocando così in qualche caso persino l’affondamento di
qualche vascello più instabile degli altri (Anna Comnena, Alexiadis. L. III, 12). Si usavano
anche zattere fluviali (l. rates, schediae, naves caudicariae, naves codicariae, trabicae
naves; gr. πλάται, ϰορμοί, σχεδίαι, ἐπηγϰενίδες; fr. rats, radeaux; ol. vlotten; vn. rade; arag.
almadías) beltrescate (grb. ἀγγεῖα), sulle quali cioè erano state costruite sovrastrutture
fortificate (… ganzarolis, & duabus platis Mantuanis beltrescatis… A. Dandolo, Chronicon,
cit. C. 437, t. XII. Milano, 1728; Suida, cit. T. III, p. 123).
Nel suddetto scontro fluviale c’è ancora da notare che il gran numero di galeoni presenti, da
una parte e dall’altra, aldilà di una marcata differenziazione già esistente tra gli stessi soli
vascelli detti propriamente galeoni - e cioè galeoni grandi a due ponti, due tipi diversi di
galeoni grandi ad un solo ponte e galeoni piccoli o galioncelli, fa capire che si trattava del
nome generico che allora si dava ai vascelli bellici che si adoperavano su fiumi e laghi. I
due suddetti contendenti si affronteranno ancora sul Po nel 1439:
… A dì XIV d’aprile del detto Millesimo (‘1439’) Niccolò Piccinino, capitano del duca di
Milano, ruppe l’armata de’ galeoni della Signoria di Venezia e fu una grandissima rotta
nell’Adige; per la qual rotta il prefato capitano passò l’Adige e tolse molte castella in quello
(‘nel territorio’) di Verona e di Vicenza (Ann. Chronicon ariminense etc.. In L. A. Muratori,
Rerum italicarum scriptores etc. C. 935, t. XV. Milano, 1727).
Il giorno 16 luglio l’illustre conte Francesco Sforzia, capitano generale di tutto l’esercito
dell’illustre comunità di Milano, con esercito terrestre e pochi galeoni si scontrò, presso
Casal maggiore nella campagna cremonese, con l’armata dell’illustrissimo dominio dei
Veneti, la quale era del numero di 80 legni, computate galee, galeoni e barche armate…
(Chronicon estense, c. 539. Cit.)
Simoneta nelle sue Sfortianae historiae la dice di 32 galeoni di non exigua altitudine, 2
triremi, 2 biremi e una moltitudine di vascelli onerari e vascelletti attuari, ossia veloci
monoremo, e a quest’ultimo proposito c’è da precisare che in latino la differenza tra vascelli
remieri da guerra e vascelli da carico - questi sostanzialmente velieri – si esprime con
naves actuariae e naves onerariae, come leggiamo in un frammento di Lucio Cornelio
Sisenna:
… uccisi quelli, abbruciano attuarie fino a 20 alberi (‘vascelli’), altresì parecchie onerarie
(quibus occisis, actuarias ad viginti malis, idem conplures onerarias incendunt. In Nonio
Marcello, cit. P. 366.)
Interessante quell’ ‘alberi’ per ‘vascelli’ perché conferma che – almeno sino a quel primo
secolo a. C. in cui scriveva il Sisenna, i legni nautici – da guerra o da carico che fossero –
erano ancora, perlomeno in gran maggioranza, dei monoalbero. Per tornare ora però ai
predetti galeoni, un importante scontro fluviale con l’utilizzo di un gran numero di essi si
era comunque già combattuto nel 1397 tra Gian Galeazzo Visconti, allora duca di Milano, e
una lega alla quale partecipava Venezia; i milanesi persero la loro flottiglia con 6 galeoni
affondati e 36 catturati dal nemico (Guernerio Bernio, Chronicon eugubinum etc. C. 949-950;
in L. A. Muratori, Rerum italicarum scriptores etc. Milano, 1732). Questi galeoni erano
dunque vascelli fluviali usati soprattutto dai veneziani, come dimostra anche il
Commentarius di Pietro Curneo, guerra tra veneziani ed estensi che si combatté appunto
particolarmente sul fiume Po tra il 1482 e il 1484 (novem ex quinque et viginti navibus, quas
galeones appellant. Pietro Curneo, De bello ferrariensi commentarius etc. In L. A. Muratori,
Rerum italicarum scriptores etc. C. 1.200, t. 21. Milano, 1732), e questa loro peculiarità
dimostra che allora i grandi e famosi vascelli dallo stesso medesimo nome che poi
attraverseranno mari e oceani ancora non esistevano.
Il succitato Curneo descrive anche una specie di catamarano fluviale veneziano:
… e rimiravano non senza stupore la nave medesima mandata da Venezia; era infatti di gran
lunga la più forte e robusta delle navi turrite veneziane. Avevano infatti le navi venete turrite
sullo scafo un edificio di due ponti a mo’ di torre con propugnacoli e merli; ma questa (fatta)
su due scafi, a due passi di distanza (l’uno dall’altro), aveva altresì una torre coperta a mo’
di case con finestre, dove si trovavano i difensori, con legni grossi e robusti, e con catene
con le quali elevavano un ponte, con il quale si passava da uno scafo all’altro (ib.)
135
Anche imbarcazione fluviale tipica del nord-ovest dell’Italia era allora quella detta in veneto
belinzeri, secondo la trascrizione delle Memorie del da Soldo, oppure baloneri (cst.
balleneres; np. balloneri; ‘palconaro’), in quella del Chronicon del Bernio:
Nel predetto Chronicon si dice qualcosa della sua struttura e del suo impiego:
…un navilio bellissimo che per nome era chiamato ‘balonere’, il quale era più alto assai
d’ogni gran galeone, nella sommità del quale era artifiziato un ponte per il quale molta gente
si buttava su le mura di qualunque fortezza (Guernerio Bernio, Chronicon eugubinum etc.
Ib. C. 978).
Dunque niente a che vedere con le baleniere oceaniche; si trattava cioè del suddetto
galeone fluviale, modificato, cioè fornito di un alto palco piantato sulla coperta e dal quale i
soldati imbarcati potevano cimentarsi a parità di altezza con nemici che difendessero mura
fortificate prospicienti il fiume o il lago.
Ma la frequente genericità del nome galeone usato per i vascelli bellici fluviali in uso nella
Val Padana, non significa che alcuni di quelli non fossero effettivamente dei galeoni remieri
di tutto rispetto, armati di numeroso equipaggio, come si può per esempio leggere nei
preventivi di spesa fatti nel 1472 a Milano per preparare un’armata fluviale nell’ambito delle
guerre che si combattevano in quei tempi tra lombardi e veneziani (Carlo E. Visconti, Ordine
dell’esercito ducale sforzesco 1472-1474. in Archivio Storico Lombardo etc. Anno III. P. 491
e segg. Milano 1876):
Spese per uno galione per tegnire (‘da tenere’) in Adda, de navaroli (‘marinai’) tanto per uno
mese:
Dunque a bordo di questo galione fluviale, il quale era un vascello remiero, ma a due ponti,
ed era armato d’artiglieria, c’erano ben 77 uomini di equipaggio (navaroli), tra cui un
136
bombardiero; il gran numero fa capire che comprendeva una sessantina di quelli che più
avanti saranno definiti gabieri, ma che al bisogno evidentemente facevano anche da
remiganti e che doveva quindi trattarsi di una bireme avente, nel ponte remiero principale
più basso, una quindicina di banchi per lato; inoltre erano previsti ben 80 uomini
combattenti, tra balestrieri e fanti provvisti di armi difensive, i quali non erano forse troppi
come sembra se si legge che servivano per defendere el fiume de Adda e quindi non solo il
vascello.
Per quatro gatti per usare in Adda, voleno al manco l’infrascripto ordine; per cad(a)uno
gatto:
Erano questi redeguardi, vascelletti monoremo, probabilmente di 3 o 4 banchi per lato, che
costituivano la retroguardia della piccola armata fluviale, da cui il nome; né per essi né per i
precedenti gatti è però indicato, a differenza dei galeoni, alcun numero d’armati.
In effetti, si decise però che i galeoni di guardia al fiume Adda dovessero essere non uno
ma tre, perché oltretutto in tal maniera si sarebbero potuti ingaggiare meno uomini armati
in totale, e che dovessero incrociare tra il Ponte di Lodi e quello di Pizighettone; uno solo
però, quello già sopra descritto, doveva essere di duy sollari, cioè a due ponti, gli altri due
dovevano invece essere due galioncelli a un solo ponte remiero, premettendosi che non era
però il numero dei ponti a rendere un galeone grande o piccolo bensì le sue misure ‘fuori
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tutto’. Per il primo, cioè il più grande, si potè così ora arruolare un minor numero di
combattenti e cioè 30 balestrieri e 20 homini armati solamente, risparmio importante
perché, per quanto riguardava il personale da impiegare, rappresentavano la spesa
principale; ognuno poi dei due galioncelli de uno sollaro, cioè da un solo ponte, era
equipaggiato, oltre che da comitale, 2 paroni, bombardero e magistro da nave, da 34
navaroli e 20 tra balestrieri e ‘uomini armati’.
Questa flottiglia di 7 vascelli era accompagnata da 4 vascelletti minori e cioè da una
barbotta, cioè di una navicella che, come abbiamo già spiegato, avendo i fianchi ricoperti di
pellami ignifughi, poteva avvicinarsi maggiormente alle postazioni nemiche per il
compimento di operazioni particolari, e da tre burgelli (‘burchielli’; ven. burchiele) da
piscatore montati ognuno da 4 uomini, mentre della predetta barbotta manca la specifica
dell’equipaggio.
Si pensava poi di tenere a Lodi un’altra flottiglia fatta di 3 redeguardi spaldati, cioè muniti di
ballatoi laterali, e di 3 barbotte o gatti; pertanto, si decise anche di non far imbarcare
marinai lodigiani sull’armata sopra descritta per riservarli a questi altri 6 vascelli.
Bisognava poi stabilire in quel percorso fluviale, cioè tra Lodi e Pizzighettone, una linea di
scolte, cioè di sentinelle che si passassero gli avvisi l’un l’altra:
… gli sia misso le scolte cum li casotti tanto spessi (‘frequenti) che l’uno olda (dal lom.
oldire, ‘udire’) la voce dell’altro, in modo che l’una voce cum l’altra in uno momento fariano
intendere a li dicti galioni quanto sarà bisogno. Non dubita dicto Phylippo (Filippo di
Eustachio, allora castellano di Pavia) che, servando dicto ordine, et (anche) sentano li
inimici (di) dicti galioni in Adda (e quindi né) ardiscano de butare ponte (fluviale) alcuno né
passare de Lode in zoso (‘giù’) (ib. P. 493 e segg.).
Ma sarebbe stato necessario disporre per questa guerra di fin’anche 25 di questi galeoni
fluviali:
… non gliene essendo se non 15 che fuossino sufficienti ad damnificare la campagna (‘le
rive’), perché li spaldi de li altri picinini (‘galioncini’) sono tanto bassi che’l terreno (delle
rive) è mazore et superchia dicti spaldi, unde dicti galioni picinini sariano una spesa
frustratoria (‘inutile’) a condurli in alcuno loco… (Ib.)
In realtà tre di questi più piccoli si sarebbero anche potuti usare come avanguardia:
Di aspaldati completamente nuovi se ne sarebbero dovuti costruire otto e gli alberi, roveri e
olmi, in genere si andavano a tagliare nei boschi del Pavese o del Piacentino:
… dagando (‘tagliando’) la signoria sua (Galeazzo Maria Sforzia) le rovere et ulmi necessarij
o nel Barco o in Piasentina, como meglio parerà ad sua signoria… (Ib.)
L’equipaggio di questi galeoni grandi sarebbe stato, come già suddetto, di circa 80 uomini
ciascuno:
I combattenti erano ora molti di più di quanti in proporzione ce n’erano sul primo galeone
che abbiamo descritto; insomma per ognuno, di questi 17 galeoni grandi a un solo ponte
erano previsti ben 160 tra balestrieri e scoppiettieri e 60 homini armati, insomma quasi tre
volte di più di quanti se ne volevano a bordo di quello. Ci sarebbero poi stati 3 galeoni
grandi de un’altra sorte, cioè da soli 70 navaroli, 120 balestrieri e 50 ‘uomini armati’ per
ciascuno; poi due galeoni grandi da duy sollari, i quali, pur avendo quindi due ponti, non
erano però più grandi dei precedenti, anzi erano più piccoli perché il loro monte paghe per i
navaroli era inferiore e i combattenti imbarcati solo 100 per ciascuno.
Questa flottiglia maggiore, la quale doveva assommare a 25 vascelli, si completava quindi
con tre galionzelli per ognuno dei quali si pagavano 44 navaroli, ufficiali inclusi, e 30
balestrieri per ciascuno. Insomma, il sovraffollamento di armati su questi legni fa capire
che non si trattava solo di guarnizioni di fanti ma di veri e propri trasporti di milizie che si
facevano per le comode vie d’acqua della pianura padana.
Come si preparavano a queste guerre fluviali dal canto loro i veneziani? Leggiamo il
Malipiero, a proposito dell’aprile 1482 (cit. P. 253); si trattava perlopiù di barche piccole ma
in numero davvero impressionante:
… è stà speso 400.000 ducati et è stà spazzà (‘spedita’) tanta armata in cinque dì:
- 100 barche picole dalle contrade (‘parrocchie’) con 16 homeni per una, interzate de
(marinai) nicoloti et povegioti;
Qui interzate stà solo per ‘con equipaggi integrati’, in quanto ovviamente barche remiere
troppo piccole perché si intendesse che si trattava di triremi.
139
Queste altre 100 erano forzate o per forza, cioè avevano ai remi non liberi volontari bensì
carcerati.
Qui veniamo a sapere che i redeguardi potevano essere di varie dimensioni, al massimo
però da 12 banchi monoremo per lato, e che i loro remiganti erano armadi, cioè, oltre a
remigare, all’occorrenza erano chiamati anche a combattere.
Ecco ora passare a vascelli remieri più grandi, di media misura, cioè a quelli usati
soprattutto nellle guerre marittime; le fuste, come meglio vedremo più avanti, erano
generalmente delle biremi copertate, ma talvolta anche triremi, e quindi 25 banchi per lato
significava che avevano dai 100 ai 150 remiganti ciascuno; anche questi erano remiganti
armati.
Abbiamo già visto che cosa si intendeva per barbotte; c’è qui però da notare che in questa
funzione, cioè di barche da trasporto bellico di provviste e munizioni, i veneziani, come qui
leggiamo, usavano generalmente barche da nave, cioè barcacce portuali (oggi diremmo
‘bettoline’) per andare a prendere e a portare a terra il carico di navi che non avessero
trovato posto alla banchina, ma che fossero per questo rimaste alla fonda in rada, oppure,
per questo stesso motivo, a portar loro a bordo le merci che avrebbero dovuto caricare sul
molo; inoltre burchiele de ruinazo, cioè barcacce adibite al trasporto di detriti edilizi nei
canali di Venezia. Infine, c’è da aggiungere che queste barbotte sono definite ‘coperte’ non
nel senso che avessero coperta - perché in veneziano la ‘coperta’ dei vascelli non si
chiamava così, ma si diceva solaro e in italiano ponte - ma proprio in quel significato che
abbiamo già spiegato e cioè perché ricoperte di cuoi freschi in funzione ignifuga.
I primi 50 galeoni erano dunque stati costruiti nell’arsenale di Venezia, mentre gli altri 20 nel
cantiere nautico di Verona situato sulla riva del fiume Adige, cantiere che poi nell’Ottocento
140
… e per haver homeni da remo è stà mandà in Trevisana, Padoana e Visentina a comandar
homeni pratichi a navegar per le aque de i fiumi. E’ stà fatto capitanio general in le aque
dolce Damian Moro…
Passando però ora alla principale guerra nautica, ossia a quella marittima, diremo che
diventeranno poi obsoleti nel Cinquecento anche il termine l. celoces (gr. ϰέλητες e
ϰελήτια, ’approdatori’; ἐπαϰτρίδες e ἐπαϰτροϰέλητες, ‘vascelli cacciatori’) e i volg. grip(p)o
e griparia; si trattava di nomi adriatici e medioevo-rinascimentali di cui i secondi derivati dai
greci antichi γρίπων (‘rete’) e γρῖπεύς (‘reziario’), indicanti quindi i pescherecci a vela, i
quali, quando piccoli, all’occorrenza diventavano σϰάφαι, o ἐφόλϰια, cioè battelli di
servizio nelle armate, ma comprendevano anche monoremo maggiori usati da carico o da
porta-messaggi (ven. grippi a posta), i quali potevano avere anche equipaggi di una
ventina di uomini:
(24 febbraio 1465:) Adi 21 del presente de qui (Candia) zonsse ser Francesco Damar (in
orig. Aldemari) zenovese, patron de una griparia cum orzi, vini, e megli (‘migli’), vien da
Otranto, e de Puglia… (H. Noiret, cit. P. 88.)
Poco dopo la stessa suddetta griparia è definita grippo, a dimostrazione quindi che i due
termini sono sinonimi. In mansioni di servizio alle armate, specie nei porti, erano spesso
addetti anche altri piccoli legni da pesca detti lembi (gr. λέμβοι) con il loro dim. lat.
lenunculi (in lenunculo piscandi. Gaio Sallustio Crispo, Historiarum libri. L. II, in Quae
supersunt. V. II, p. 54- Lipsia, 1859):
… El general Soranzo, (mandato) con 24 galie, 2 fuste grosse e 78 gripi grossi e 600
stradiothi all’impresa della Pugia (‘Puglia’) e della Calavria, ha messo in terra 7.000 persone
su quelle marine… (D. Malipiero, cit. All’anno 1482. P. 264.)
… Dominus Nicolaus Pisani Capitaneus Generalis cum galèis XXXV, lignis XI, grepariis XX.
[…] et etiam navibus tribus optimè castellatis. (Andrea Dandolo, Chronicon, cit. agli anni
1354-1355. In L. A. Muratori, Rerum italicarum scriptores etc. C. 424, t. 12. Milano, 1728.)
… classe unius et viginti triremium, duarumque biremium, ac celocium, quas grippos
appellant, circiter sexdecim instructa et armata egregie. (Pietro Curneo. Cit.. C. 1.207.)
… navigiolum quoddam, gripus ab adriaticis maritimis appellatus. (Pietro Martire
d’Anghiera, De rebus oceanicis etc. F. 79 verso. Basileas, 1533.)
141
Il termine griparia o griparea (l. celoces) si trova usato, ma qui in senso generico di grippi in
generale, più volte anche dal Monaci (gripareae) e nei decreti ed ordinanze veneziane quale
per esempio quella disciplinare delle galee veneziane promulgata nel 1420 da Pietro
Mocenigo, allora capitano generale del mare di Venezia, ordinanza alla quale più avanti
ritorneremo; esso derivava dal gra. γρίπων (‘peschereccio da rete’) e quindi si trattava di
piccoli velieri (l. navigiola) che avevano quell’origine e che potevano anche essere armati
per operazioni belliche; per esempio nel Trecento le piccole armate di mare veneziane
risultavano composte di galee (vascelli remieri biremi e triremi), legni (‘vascelli remieri
inferiori alle galee’) e greparii, cioè appunto piccoli velieri. Anche un altro termine, indicante
anche questo piccoli vasceIli da guerra, e cioè pistrices (o anche pristices) non più s’usava;
così anche i greci ϰώρυϰοι, barchette primordiali fatte di cuoio cucito, ἀλιάδες, natanti per
la raccolta e il trasporto del sale, ἀμφηρικά, αμφήρεις, cioè le piccole imbarcazioni, magari
anche piratiche (Esichio, cit.), in cui ogni singolo vogatore manovrava due remi (ἀμφηρικὰ
ἀκάτια, λῃστρικὰ ἀκάτια), uno a dritta e uno a sinistra – da non confondersi però con le
δίϰωπα, cioè con le gondole a due vogatori e quindi due remi di cui abbiamo già detto - e
infine i ϰύδαροι, ϰύδαλοι, piccole imbarcazioni dalle perdute caratteristiche. Probabilmente
invece ancora si sentivano nomi come ϰαϰϰώνια, cioè le barche fluviali per il trasporto
degli escrementi animali da concime, e ϰητήνια ‘baleniere’ (l. cetaria). Il suddetto nome
greco di ‘approdatori’ dato a questi piccoli vascelli era probabilmente dovuto al potersi farli
approdare semplicemente spiaggiandoli (gr. ὀϰελλέιν), senza cioè bisogno di andare a
ormeggiarli in qualche porto.
I grippi (vn. anche griparie; l. celoces) erano quei piccoli velieri (l. navigiola) molto usati a
Levante, specie dai veneziani, per trasmettere corrispondenza e messaggi, mentre nella
navigazione fluviale e lacustre si preferivano i remieri detti galladelli o i pertichieri detti
ganzaroli o ganzarole, questi soprattutto costruiti in varie dimensioni in quanto non
soggetti a esigenze di voga, infatti nel dialetto di Chioggia sopravviverà il termine
gansariolo per indicare un piccolo tipo di pesce scombro; anche a Ponente, cioè nel
Tirreno, si preferiva affidare questa funzione di messaggeria a vascelletti remieri e cioè a
fragate, fragatine e, quando più grandi, bergantini. Perché queste differenze? Perché nei
fiumi si navigava ovviamente molto più comodamente a remi che a vela e a Ponente c’era
abbondanza di di remieri forzati e talvolta anche di schiavi africani e mediorientali,
disponibilità che invece mancava quasi del tutto ai veneziani. Non sappiamo che
equipaggio avesse un galladello, ma dalle cronache risulta che, oltre al patrone, cioè al
comandante, avevano anche uno scrivano e quindi dovevano contare perlomeno una
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trentina d’uomini, cioè una dozzina di remi per lato, come un brigantino marino insomma; a
proposito poi del nome legni, esso, come abbiamo già accennato, era sì usato già nel
Medioevo nel senso generico di vascelli latini o remieri, ma indicava in particolare quelle
lunghe e leggere biremi che erano molto usate nel Mediterraneo pur senza avere però il
rango di galee; si dicevano anche fusti, ma quest’ultimo nome sarà poi, nella seconda metà
del Cinquecento, usato preferibilmente al femminile (fuste), anche se la forma maschile
sopravviverà nel Tirreno con il nuovo significato di uscieri.
Altro nome disusato era quello basso-medievale di chelandro (poi anche chelandra),
corruzione dell’alto-medievale gr. chelandio, con cui però talvolta ancora s’indicavano nello
scrivere formale i vascelli remieri usati per il trasporto di cavalli o materiali e quindi non
armati a guerra, come si legge per esempio dell’armata (volg. brigata) di mare che
l’imperatore Federico II nel 1225 s’impegnò a preparare per la prossima sesta crociata,
ossia quella indetta dal papa Onorio III:
… il detto imperatore giurò di osservare questi capitoli, vale a dire che da allora fino al
compimento dei due anni in agosto, si sarebbe recato personalmente oltremare in soccorso
della Terra Santa e vi avrebbe tenuto al suo servizio mille soldati per due anni e avrebbe
portato con sé cento chelandri e vi avrebbe tenuto cinquanta galee ben armate…
(Chronicon Richardi de Sancto Germano in Raccolta di varie croniche, diarij ed altri
opuscoli etc. T. IV, p. 208. Napoli, 1782.)
In sostanza questi chelandi, vascelli remieri monoponte dall’uso sia militare sia civile,
furono gli antenati sia delle galee grosse veneziane del Basso Medioevo sia di quelle galee
grosse ‘mancate’ che nel Tirreno si diranno prima uscieri in latino e poi in italiano fusti e a
Venezia prima marani e poi arsili; nell’armate di mare alto-medievali bizantine si erano
distinti in οὺσιαχὰ χελάνδια (com. οὐσίαι), cioè ‘chelandi da salmerie’ (quindi anche da
trasporto cavalli, da cui poi infatti l’altro nome medievale uscieri), i quali erano biremi da
circa 108 vogatori, e χελάνδια πάμφυλοι (‘chelandi-pamfuli’), queste delle triremi da circa
150 vogatori; nell’alto Medioevo anche questi ultimi potevano essere addetti al trasporto dei
cavalli, quando cioè si voleva trasportarne di più insieme, ed erano in tal caso pertanto detti
ἱππαγωγούς τριήρεις; si trattava insomma di vascelli non certo di basso bordo come le
galee, come si evince dal l. X del De rebus turcicis del già citato Kalkokondilos a proposito
delle iniziative belliche anti-ottomane dei veneziani negli anni che seguirono la caduta di
Bisanzio :
… Avendo imbarcato opliti italici e duemila cavalli in alte navi, gli trasportarono nel
Peloponneso.
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(... Καὶ όπλίτας μὲν Ιταλούς, ἰππέας δισχιλίους, έμβαλόντες ἐς τὰς ύψηλὰς ναῡς
διεπόρθμευον ἐς τἠν Πελοπόννησον·)
La prima menzione di questi chelandi che reperiamo è quella fattane da Teofane Isauro
all’anno 709 della sua Chronographia, dove appaiono però qui usati, anche se
implicitamente, come ἀγραρία, ossia come vascelli ‘da caccia’, cioè da corso (ltm. apta ad
cursum), e infattti; lo stesso autore poi ci racconta che parecchio più tardi, ossia nel 765,
l’imperatore Costantino V capitanò un’armata di duemila chelandi inviata nel Mar Nero
contro i Bulgari, perché questi attaccavano la Romania, e inoltre per entrare nel Danubio a
combattere anche i russi. Ora, a prescindere da quel ridicolmente esagerato numero di
duemila, un’esagerazione allegorica tipica di Teofane, perché solo chelandi e non anche
dromoni? La ragione è intuibile e cioè, non aspettandosi i bizantini grandi battaglie navali
nel Mar Nero, perché né i bulgari né i russi disponevano di forti armate navali (gr. ναυτιϰαὶ
δυνάμεις) ma solo di vascelletti leggeri, specialmente i secondi, sarebbe stato sprecato
inviarvi dei dromoni, e quindi in questo caso l’armata bizantina e formata praticamente solo
di più agili e leggeri vascelli armati ed equipaggiati in questo caso però non per carico ma
da corso, maniera in cui dovevano essere stati armati nel molto più tardo anno 877 anche i
chelandi che chiedeva il papa Giovanni VIII in una sua lettera del 17 aprile all’ammiraglio
bizantino Gregorio, aio di quella corte imperiale, e già vincitore per mare dei saraceni:
… laonde ci è sembrato conveniente di spedirti queste nostre lettere a prima giunta non
solo per rallegrarci teco della tua venuta e per incuorarti a difendere la cristianità contro gli
inimici della croce di Cristo, ma ancora affinché tu ci mandi almeno dieci buone e spigliate
chelandie. che vengano al nostro Porto romano e ci serviranno a spurgare la spiaggia dal
residuo di siffatta schiuma galleggiante di arabi ladroni (Alberto Guglielmotti, Storia della
marina pontificia dal secolo ottavo al decimonono. T. I, p. 84. Roma, 1856).
I chelandi furono dunque i primi vascelli remieri ippagogoi e da carico - ma anche da guerra
di corso - che solcassero il Mediterraneo medievale; e, per quanto riguarda il loro garbo,
ossia la loro forma, è molto probabile che ricordassero il vascello maggiore dei tre bellici
raffigurati nella famosa stele di Novilara (anche se questa è di circa un millennio più antica),
ossia un vascello remiero-veliero ma di bordo non basso come quello delle galee e inoltre
con l’albero posto non a pruavia ma al centro dello scafo come già negli antichi vascelli
onerari. Insomma essi erano porta-cavalli che accompagnavano le armate di galee e quindi
erano cosa diversa dai salandri, vascelli di cui abbiamo già più sopra parlato, i quali erano
invece porta-cavalli che generalmente accompagnavano le flotte di vascelli tondi o velieri;
ma perché nomi tanto simili? Perché evidentemente in origine erano stati lo stesso nome, in
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seguito nei secoli differenziatisi perché sviluppatisi in due ambienti nautici diversi e cioè
uno in quelle dei vascelli remieri e l’altro in quello dei vascelli tondi. L’origine è greca e cioè
da ϰέλες, ‘cavallo da sella’, come già detto, e da ἀνδρών, ‘passaggio, passerella, ballatoio’;
infatti ancora oggi usiamo ‘scalandrone’, per indicare la passerella che dal molo permette di
ascendere a bordo del vascello, dove ‘scala’ non si riferisce a una scalinata, la quale infatti
non c’è, ma a ’scala’ nel senso di ‘approdo marittimo’. Alla corr. salandro evidentemente si
arrivò - attraverso la forma xalandro più sopra già menzionata - per assimilizione in prima
sillaba della ‘a’ della seconda. I vascelli remieri non avevano questa ‘scala’ centrale ma una
o due posteriori di fianco alla poppa, le quali erano fisse perché, se fossero state ritirabili,
avrebbero occupato in coperta spazio prezioso; inoltre avevano anche un passamano (vn.
tientinben) sorretto da candelieri, ossia da sostegni verticali.
I generi di vascelli bellici usati sui mari nei secoli pre-rinascimentali erano dunque sei:
galere, legni armati (’biremi’), galadelli (‘monoremo’) e inoltre navi, salandri e barche (vn.
griparie) armate od onerarie di supporto; ma comunque nell’ordine mandato il 28 giugno
1269 dal re di Napoli Carlo I d’Angiò a Matteo Rufolo, suo secreto (‘governatore’) delle
Puglie, troviamo un breve elenco, più stringente del suddetto nostro, dei vascelli da guerra
che si dovevano allora approntare per la formazione di un’armata nautica destinata
all’impresa di Sicilia, elenco che riassume in un certo senso quanto sinora da noi esposto
riguardo al Basso Medioevo:
… Cum galeas, teridas, saggectias, galiones, varkettas et uxera […] reparari mandemus […]
muniri velimus municionibus et necessariis infrascriptis videlicet assarciis, velis, anchoris,
vexillis, baneriis et pinnonibus…(Giuseppe del Giudice. Cit. Pp. 5-6.)
Nel Basso Medioevo i cavalli della cavalleria però soprattutto si portavano, perché di più
comune reperimento, nelle taride ossia tarete, come si legge, oltre che nella Cancelleria
angioina di Napoli e nelle suddette cronache (E la tarida era bona per adur los cavals…
Cron. Catal. del re Giacomo I. Par. 104), in tutti i documenti genovesi inerenti alle forniture
alla Francia per la preparazione di crociate in Terra Santa, e nella sua Historia sicula
Bartolomeo di Neocastro (1250-1293), a proposito delle guerre tra Carlo I di Francia e Pietro
III d’Aragona per il possesso dell’Italia meridionale, le chiama teridis galeis (o anche galeis
teridis) pro portandis equis (Cap. XXXII. In Giuseppe Del Re, Cronisti e scrittori sincroni
napoletani etc. Vol II. Napoli, 1868) mentre il suo coevo Bartolomeo di Neocastro preferisce
teridas galearum (ib. Cap. LXXVIII), definizione quest’ultima che fa più chiaramente capire
che si trattava di vascelli remieri d’appoggio alle galee antesignani degli uscieri e delle
galee grosse, sia che ne trasportassero le provviste sia i cavalli. Queste taride, velieri
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quindi molto versatili, perché potevano essere da carico, porta-cavalli, armate a guerra e
condotte, in caso di necessità, anche a remi, erano di varia stazza, avendo nel Tirreno e
nella seconda metà del Duecento generalmente ben 112 scalmi per remi, e per esempio
nella flotta franco-papalino-napoletana dell’ammiraglio angioino Narjaud di Toucy
(‘Narzone’) che nel 1286, nell’ambito delle prime guerre per il dominio della Sicilia (1282-
1302), si opponeva a quella catalano-messinese del famoso ammiraglio aragonese Roger de
Lauria, i due grandi stendardi (ltm. stendalia) dell’armata – quello dello Stato della Chiesa e
quello di Carlo d’Angiò, principe di Salerno – erano portati da due grandi teride (‘magnis
teridis’) e non da galee di comando (ib. Cap. CX); questo perché, come abbiamo già detto, le
galee medievale, in quanto perlopiù biremi, erano, se non più corte, meno ampie di quelle
che le seguiranno nel Cinquecento e quindi il necessario luogo di dispiegamento e di
guardia di un grande stendardo non vi si trovava facilmente.
Le prime volte che si legge delle tarete o teride nelle cronache mediterrane è negli Annales
januenses del Caffaro e, per quanto riguarda il Levante, nelle coeve storie del niceano
Giorgio Pakyimeres (c. 1242-1310), il quale, a proposito delle concessioni di navigazione nel
Mar Nero che ai suoi tempi i bizantini rilasciavano ai genovesi, ci dice che questi vi
andavano a navigare più che con le grandi navi con altre di piccole dimensioni che
chiamavano appunto tarite (ἄς ἐϰεῖνοι ταρίτας λέγουσι. In De Michaele et Andronico
Palaeologis libri tredecim. L. V, par. 30). Un elogio alle qualità nautiche delle taretae, usate
appunto come vascelli da carico, troviamo fatto nel primo quarto dl Trecento da Marin
Sanuto il Vecchio, il quale nel suo Levante veneziano le vedeva usare a suoi tempi solo dai
genovesi per servizio della loro enclave di Pera (‘Peyra’), ab antiquo detta in l. Galatae:
... Inoltre, in quanto a naviglio buono per le vettovaglie predette e per il legname da
trasportarsi, le tarete che i genovesi usano attualmente a Pera sia per il loro trasportare
molte cose sia per il loro equipaggiarsi adeguatamente con (solo) pochi marinai; si
aggiunga che a vele spiegate subito navigano attraversando il mare; ciò perché gli scafi
lunghi orzano e guadagnano con il vento contrario meglio di quanto facciano gli altri navigli
più corti (Præterea navigium est bonum pro victualibus antedictis et lignamine deferendo,
taretæ, quibus in Pera utuntur nunc temporis Januenses, tam pro ferendo multa quam pro
paucis nautis commode se muniendo; quamque etiam ut velis extensis mare subito
transeant navigando: eo quod vasa longa ad Orsam incedunt melius et lucrantur cum vento
sibi contrario, quam alia navigia breviora (cit. P. 58).
Interessante questo brano perché ci fa capire che la medievale terida (poi dal Rinascimento
sostituita dalla tartana) non era una nave, cioè un vascello pluriponte a prevalente vela
quadra bensì una barca, ossia un vascello monoponte a prevalente vela latina; pertanto è
qui considerato nella categoria dei vasa longa, vale a dire dei vascelli dal garbo allungato,
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se non proprio sottile come quello delle galee ordinarie, e quindi non tondo, come più tardi
si dirà delle navi. Presso i bizantini invece i cavalli si portavano in guerra con le triremi
ippagogoe dette però soprattutto dromoni ippagogoi (ἱππἂγωγούς τριήρεις…; δρομώνων
ἱππαγωγών…) e talvolta anche navi ippagogoe (νῆες ἲππἂγωγοῐ) semplicemente oppure
con le mahone; nel Tirreno forse talvolta anche con quelle porta-bombarde dette sino alla
fine del Quattrocento arbatoze o albitozi e che l’erudito genovese Senarega così definiva:
In sostanza, i vascelli porta-cavalli dovevano essere grandi e infatti nel Basso Medioevo
erano generalmente i più grandi della triplice tipologia allora usata per le armate di mare e
cioè galee, taride (‘tritae’) e appunto porta-cavalli:
… vela multa, marinis accommodata cursibus, alia cum uteris grossioribus, colligatorum
lignorum structura firmatis pro equis transeundis…
… apparatus innumeros galearum, tritarum, et lignorum grossorum pro equis… (Saba
Malaspina, Historia. L. VII, capp. I e XII. In Giuseppe Del Re, Cronisti e scrittori sincroni
napoletani etc. Vol II. Napoli, 1868.)
Non servivano però le palandarie solo a traghettare cavalli e a fare da batterie galleggianti,
come spiegava anche il segretario Marcantonio Donini nella sua relazione del 1562:
... Furono fatte di nuovo l'anno passato venti palandarie, dieci grandi e altrettante mediocri,
le quali insieme con le vecchie, tra grandi e piccole, computate però quelle che
ordinariamente traghettano li cavalli, non sono manco di sessanta, attissime tutte a portar
cavalli, artiglierie e munizioni; delle quali cinque o sei sono occupate in condurre legnami
dal Mar Maggiore e dal golfo di Nicomedia per l'arsenale, dove con tutto questo se ne ha
qualche poco di bisogno. (E. Albéri. Cit. S. III, v. III, p. 193)
Verso la fine del secolo, secondo quanto si legge nella relazione del bailo a Costantinopoli
Matteo Zanne, letta al senato veneziano nel 1594, i turchi erano diventati però più pratici e
spicciativi nel trasporto marittimo dei cavalli e avevano infatti scoperto che non avevano
più tanto bisogno di mantenere a tal scopo una flottiglia d’apposite palandarie:
... Di palandarie poi, o passacavalli, ne possono avere quanti vogliono perché ogni
'caramussal' si accommoda facilmente a quest'uso. (ib.)
Chiamare nauclearij la gente di poppa era ancora in uso nelle galee alto-medievali
veneziane; però a Venezia si usava talvolta impropriamente il termine l. nauclerii anche per
indicare i marinai in generale e per distinguerli dagli uomini da remo e da quelli da guerra.
La galea poteva anche occasionalmente trasportare dei soldati da sbarco e nel Medioevo
essi erano detti generalmente lancearij, in quanto la lancia non era ancora diventata
un’arma prerogativa della cavalleria, ma, tornando al termine nauclerij, nell’antichità il nome
ναύϰληρος aveva invece avuto un altro significato, cioè quello di ‘impresario di una nave’, e
si diceva anche ναυϰράτωρ e ναυϰρατής. Più tardi, nella marineria bizantina, che a bordo
allora comandasse il còmito ce lo dice Marin Sanuto il Vecchio all’inizio del Trecento (sed
hoc vere quasi totum restat in comito, qui galeæ est rector… Cit. P. 63); ma si evince anche
per esempio chiaramente da quanto Saba Malaspina racconta della spedizione navale
siculo-catalana contro le angioine Reggio e Nicotera del 1284, laddove immagina la
concione esortativa fatta da quello che sarà più tardi chiamato còmito reale agli altri còmiti
della squadra (cit. L. X, cap. XXII).
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Le galee (da un l. alto-medievale galedae e galadae, questo a sua volta da un gr. bizantino
γαλαία) si dividevano nel Basso Medievo in galee leggiere (ma poi, dal Trecento dette sottili,
anche a Venezia) e galee grosse; le prime erano perlopiù biremi e le seconde triremi,
preferite generalmente queste, come abbiamo già detto, dai catalani e dai veneziani, ma
comunque usate in tutte le marinerie mediterranee come galee di comando e talvolta,
specie nel Quattrocento come vedremo, anche per il trasporto di pellegrini in Terrasanta;
ma già allora s’incominciavano talvolta a chiamare galee grosse anche le galee di
mercanzia, le quali in realtà erano invece, come del resto anche le galeazze tirreniche,
vascelli tondi e non sottili, però di bordo alquanto basso per potersi aiutare con i remi, e
così anche gli uscieri per il trasporto di salmerie e cavalleria, i quali ultimi potevano essere
o dei vecchi pamfii (pamfuli, vascelli così chiamati perché originari della Pamphylia) e
dromoni oppure quelle che i veneziani chiamarono marani e più tardi arsili (nel Tirreno
fusti), praticamente degli scafi di galere di mercanzia non armate, non corredate, o anche
delle potenziali triremi bastarde, tutti vascelli che avevano in comune l’essere stati
modificati con l’apertura di un portello d’accesso posteriore per i cavalli e con due timoni
laterali in necessaria sostituzione di quello unico centrale delle normali galee. A volte i
veneziani usavano marani, ossia scafi di vecchie galee grosse ancora atte alla navigazione,
se non più ai lungi viaggi mercantili oltremarini, per trasportare pesanti materiali da
costruzione, cioè per esempio massi e pietre per costruire o riparare moli e argini portuali,
come quello che i 27 novembre 1399 il senato di Venezia ordinò di preparare ai patroni
dell’arsenale perché bisognava trasportare massi per riparazioni da fare al molo del porto
di Candia, in quanto quello che di solito per questo si usava era colà affondato; bisognava a
questo scopo che scegliessero una vecchia galea grossa della misura d’Alessandria, cioè
della stazza di quelle che facevano la linea commercaile Venezia-Alessandria d’Egitto, che
la facessero resegare (‘trasformare’) alla navarescha, cioè a mo’ di nave (‘veliero’),
seguendo le istruzioni del protomastro dell’arsenale; insomma in sostanza bisognava
privarlo della coperta – e quindi anche dei banchi di voga - per poter calare sul suo fondo il
pesante carico - e poi all’arrivo da lì estrarlo – senza impaccio (H. Noiret, cit. P. 104).
Che gli uscieri fossero dunque vascelli più grandi delle ordinarie galere sottili e da
conteggiarsi nel numero dei vascelli tondi, anche se di bordo più basso perché anche
remieri, lo leggiamo nel Chronicon de rebus venetis di Lorenzo Monaci (? – 1428) laddove, a
proposito di preparativi bellici veneziani, così si legge:
… armanturque XXXIII naves longae, quae dicunt galeae, ex quibus XVIII corpulentiores
fuerunt, habentes in pupe hostium pro equis introducendis… (L. X, p.178. Venezia, 1758.)
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Bisogna chiarire che la locuzione ad navarescham si usava per significare qualsiasi aspetto
nautico che fosse peculiare delle navi – nome comune qui usato in generale nel senso di
vascelli tondi – e quindi nel Medioevo, cioè quando la navigazione remiera era ancora quella
preponderante, anche navigare a vela invece che a remi si diceva navigare ad
navarescham; infatti, per fare un esempio, con decreto del 16 agosto 1400 il senato di
Venezia ordinava che fossero subito inviate a Candia due galee sottile armate; ma, poiché
era a destinazione che sarebbero state completamente ciurmate, bastava ora equipaggiarle
appunto ad navarescham (‘a mo’ di nave’), cioè con sola marinaresca, per metterle in grado
di fare quel viaggio a vela.
Alla fine del Rinascimento, cioè dalla prima metà del Cinquecento le triremi diventeranno le
galere sottili ordinarie e le biremi saranno definitivamente declassate a galeotte; di uscieri
non si parlerà più, trasportandosi ora la cavalleria soprattutto in velieri quadri e latini,
essendo diventata la navigazione veliera già nel Cinquecento più agile e dirigibile e con il
vantaggio di poter far viaggiare ora i cavalieri assieme ai loro animali, mentre per galee
grosse s’intenderanno ora solo quelle di mercanzia, chiamate propriamente così a Venezia,
invece in Turchia maone (dal grb. μαγούνες, ‘vascelli in multiproprietà’ e di conseguenza
anche ‘società commerciali’) e galeazze nel Mediterraneo; infine si diffonderanno, alla fine
del Cinquecento, le galere bastarde o bastardelle, cioè quelle che erano sì ordinarie ma più
ampie, specie a poppa, delle comuni sottili, fatte per 4 o 5 vogatori per banco e atte a
portare equipaggi in generale più numerosi di quelli che potevano permettersi le galere
sottili.
In realtà le suddette galere leggiere biremi medievali erano talvolta potenziate con
l’interzamento, cioè con l’aggiunta di un terzarolo o terzo vogatore per banco, talvolta solo
a un certo numero di banchi posteriori, ma, poiché, essendo, eccezion fatta di quelle di
comando, solo delle biremi, non erano sufficientemente larghe e, quando erano potenziate
così, dovevano necessariamente rinunziare a un pari numero di balestrieri; ciò era molto
criticato dal Muntaner, il quale più volte nella sua Cronica sconsigliò il perseguire un
guadagno di velocità del vascello a discapito delle sue potenzialità offensive (Que trezol no
metats en leustol, all’anno 1323) e, se proprio questo talvolta si fosse ritenuto utile, non
bisognava comunque farlo in più di un quinto delle galere di cui si disponeva, sempre però
che si disponesse di ottimi balestrieri di ruolo (lem/ctm. ballesters en taula), quali erano
soprattutto quelli catalani regolarmente assoldati, capaci non solo di un tiro preciso e
potente anche se magari senza l’ausilio del gancio (lem/ctm. fibayll) con cui, in uno spazio
150
adeguato, la balestra si agganciava al bordo superiore della pavesata per una maggiore
stabilità e fermezza del tiro, ma anche abili a costruirsi da sé le loro balestre:
… i quali balestrieri catalani son tutti tali che saprebbero fare una balestra nuova, dal
momento che ciascuno la sa accomodare e sa fare quadrelle e un teniere (lem/ctm. matras,
‘materasso’) e corda e incordare e legare e tutto ciò che pertiene al balestriero; perché i
catalani non intendono che sia (ritenuto) balestriero nessuno se non sappia fare dall’inizio
alla fine tutto ciò che pertiene alla balestra; e pertanto porta tutto il suo corredo in una
cassa, come dovrebbe tenerlo un operaio di balestreria; e nessun’altra gente ha questo,
mentre i catalani lo apprendono dalla mammella (‘dall’infanzia’) e nessun altro popolo del
mondo lo fa; per cui i catalani sono i più veloci balestrieri del mondo.
Per il suddetto motivo gli ammiragli e i capitani degli stuoli dei catalani devono aver la
massima cura a questa singolare eccellenza che presso altre genti non si trova, non
lasciando che si facessero mai lavorare, per cui non è conveniente che tali balestrieri
voghino da terzaroli, che, se lo fanno, perdono l’abilità della balestra. E inoltre i balestrieri
di ruolo fanno anche un altro bene e cioè che, quando vedono un marinaio o un posticcio
che voga al suo banco stanco e desideroso di bere o di mangiare, si fanno avanti e si
mettono a vogare al suo remo per diletto finché quello non habbia fatto ciò che aveva da
fare o che si sia rinfrescato; e così tutti i balestrieri vanno riposatie freschi e fanno andar
anche la ciurma fresca. Non dico che uno stuolo non debba esser tale da non avere dieci
galere ogni centinaio con terzaroli, perché in tal modo quelle possano raggiungere galee
che navighino davanti… (Muntaner. Cit.)
Premesso che il nome stuolo (l. stolus, stolium) era poco appropriato nel caso di un’armata
di centinaia di galee perché meglio significava invece ‘squadra, distaccamento’, in quanto
dal l. extollo (‘cavo fuori, faccio uscire’) e quindi corrispondente al partita che a terra si
usava per un distaccamento di cavalleria, aggiungiamo qui che i balestrieri catalani,
essendo riuniti generalmente in compagnie (lem/ctm. compagñas), erano chiamati
‘compagni di balestra’. Nelle galere, continuava il Muntaner, c’era sì bisogno di gente di
riserva, ma intendendosi per ciò solo uomini a ciò designati (cst. sobresalientes) e cioè
nocchieri (termine questo allora usato come generico e più tardi sostituito da ‘gente di
poppa’), ossia scrivano, timonieri e mastri artigiani, proeri, cioè gabbieri, balestrieri e
remiganti ordinari, e bisognava pertanto lasciar lo spazio disponibile a questi e non
occuparlo perciò con terzaroli, cioè con persone non designate, magari utili
sporadicamente nella guerra di corso ma non in una battaglia reale, ossia in un
combattimento ordinato. Bisogna poi considerare che nel Medio Evo, imbarcando
balestrieri, si dava la precedenza a quelli che, in caso di necessità, sapessero anche
exercere naucleriam, vale a dire fare i marinai.
Negli stessi suddetti anni del Trecento Marino Sanuto il Vecchio scriveva che a bordo delle
galee ogni balestriero avrebbe dovuto avere non una ma due balestre e cioè una maggiore
da usare come arma di posta, vale a dire dalle postazioni di bordo, ed una minore da usare
151
… Ipse autem Papa fuit in una galea anconitana mirabiliter et eleganter fabricata, quae
reputabatur singularissima inter ceteras galeas mundi (Cornelius Zantfliet, Chronicon etc. In
Veterum scriptorum et monumentorum etc. C. 290, l. V. Parigi, 1729).
Il tentativo sarà poi ripetuto, questa volta con successo, da Papa Gregorio XI, il quale il 2
ottobre 1376 s’imbarco anch’egli su una squadra di galere che lo doveva portare a Porto
Pisano (antico porto sito a Livorno Nord) per il suo successivo trasferimento a Roma: la
squadra si componeva stavolta di un minor numero di vascelli, di cui 14 sole galere, ma
perlopiù grosse, cioè triremi, e di una galeotta; anche questo Papa prese posto nella galea
grossa d’Ancona, molto probabilmente ancora quella suddetta di dieci anni prima.
I termini della suddetta evoluzione si cominciano a definire negli Annales dei fratelli Stella
all’anno 1379, col. 1.113, dove si dice di alcuni vascelli remieri dell’imperatore bizantino
Kalojanes (Giovanni V Paleologo):
… Avendo dunque lo stesso imperatore una galera armata di tre remi per singolo scanno e
di trecento uomini o più e inoltre due galeotte, in una delle quali c’erano centodue uomini e
in un’altra novantasei, con otto navigli che in volgare chiamano ‘paliscarmi’ e molti altri
piccoli scafi… (Cit.)
152
Eppure a quei tempi la galeotta non era un legno molto apprezzato, come appare da questo
decreto del Senato di Venezia promulgato il 24 ottobre 1388:
… Si scriva al governo di Creta per quella galeotta di circa venti banchi che è nel nostro
arsenale di Creta e che è troppo grossa e inadatta alle nostre esigenze, che si debba
vendere nel medo che sia ritenuto migliore, dal momento che la galeotta medesima occupa
un volto dell’arsenale in cui c’era una buona galea completa (Item scribatur regimini Crete
per illam galeotam de banchis viginti vel circa, quae est in arsenatu nostro Crete et quae est
nimis grossa et non abilis pro factis nostris, debeat vendere per illum modum qui sibi
melior videbitur, etiam quia ipsa galeota occupat unum voltum arsenatus , ubi stabit una
bona galea completa. (H. Noiret, cit. P.23).
Ma negli anni seguenti si ebbe evidentemente a Venezia più considerazione delle galeotte
da 20 banchi per lato, perché con delibera del 9 novenbre 1408 se ne inviò una a Patrasso
per guardia di quelle marine dannificate dai corsari turchi e si incaricava l’ammiraglio (l.
admiraleus) veneziano di quel possedimento di assumerne direttamente il comando
diventandone così il patrone (ib. P. 27).
La galeotta avrà vita lunga, anzi a Napoli addirittura più lunga di quella delle galere. La
galera che portava l’ammiraglio o addirittura il re era dunque nel Medioevo generalmente
non una semplice biremi bensì una triremi e a bordo quindi aveva, oltre al còmito con il suo
nocchiero ossia luogotenente, anche un vicecòmito a prua, anche questo con un suo
nocchiero che lo coadiuvava. Ecco uno schema della predetta evoluzione dei vascelli da
guerra remieri marini dall’antichità alla prima metà del Seicento in base a quanto già finora
detto:
Minori monoremo:
Triacòntori, pistrici → miuoparoni, legni armati, barche lunghe, gatti, redeguardi, tarete →
fragate e bergantini.
Ordinarie:
Pentecòntori, triere, tragi, liburne → fuste galere leggiere (poi dette galere sottili) biremi o
triremi → galeotte biremi e fuste biremi o triremi, galere sottili triremi.
Di comando:
Tetrere, pentere, liburne quadriremi, liburne quinqueremi → galee grosse (dal sec. XIV
galere bastarde) → galere bastarde (quadriremi, quinqueremi e qualche esaremi).
Da carico e da battaglia:
……………………. → ………….. → Galee grosse veneziane e galeazze.
Dei predetti tragi (gr. τράγοι) poco si sa, se non che in un frammento del Sisenna leggiamo
che potevano essere grandi (… prores actuariae, tragi grandes ac faseli primo. Nonio
Marcello, cit. P. 366) e che il loro nome era tratto da quello di un tipo di conchiglia non
buono da mangiarsi, come leggiamo in Paolo Diacono (Tragus: genus conchae mali
saporis.), il che ci fa dunque pensare che si trattasse effettivamente di un vascello grande e
offensivo. I gatti erano usati soprattutto come vascelli fluviali nell’Italia nord-orientale, ma in
quella occidentale mlto anche come vascelli marini; ecco per esempio l’armata con cui i
genovesi, in guerra con i pisani, assalirono Porto Pisano nel 1125:
Ai tempi di Anna Comnena (prima metà del dodicesimo secolo) si chiamavano galee anche
le velocissime monere (εἰς μονήρη γαλέαν. A. Comnena, Alexiadis. L. VI, 6), molto usate
specie come vascelli messaggeri (… avendo l’imperatore inviata una missiva a mezzo di
una nave a un solo ordine di remi… ἐϰ βασιλέως πεμφθέντα γράμματα ϰαὶ ναῡς σὺν ἐρέταις
μονέρες .Nikeforo Briennio, Commentari etc. L. II, par. 27), mentre più avanti nell’Alto
Medioevo saranno considerate tali sono le diere e le triere; infine poi, dal Cinquecento, solo
le triere saranno dette galee, mentre le diere si chiameranno galeotte.
Una normale galera leggiera biremi medievale aveva generalmente una novantina di
remiganti, compresa una decina di riserva per interzare magari i banchi posteriori o per
rimpiazzare le perdite e i malati; portava inoltre un nujmero di balestrieri – 30, se veneziana -
provvisti di balestre piccole e di grandi - cioè sia di quelle da caricarsi con un solo piede sia
di quelle più grandi da caricarsi tenendole invece ferme con ambedue i piedi, mentre gli altri
uomini di bordo, remiganti compresi, erano in grado di combattere da semplici serventes
masnadae, cioè soldati di fanteria ordinaria (sp. infantes rasos), armati oltre che di daga,
anche di lance d’abbordaggio e di lancioni (cioè di lunghe lance contro-bilanciate come
erano quelle per le giostre di cavalleria) anti-abbordaggio; alcuni, specie graduati e ufficiali,
erano dotati di capsa o cassa, cioè di ‘cassa toracica, lorica’. Anche le galee grosse di
mercato portavano a bordo balestrieri a loro difesa, ma in numero minore rispetto a quello
delle galee sottili da guerra; per esempio il 19 febbraio del 1400 il senato veneziano decretò
che le galee mercantili che arrivavano addirittura sino a La Tana, città nell’estremo oriente
154
della costa del Mar d’Azov sita a poca distanza da quella maggiore di nome appunto Azov e
che nell’antichità si era chiamata Tanais, dovevano portarne solo 15 ciascuna, gente che
però si imbarcava a Creta e non già alla partenza di questi vascelli da Venezia (H. Noiret, cit.
P. 105); a Creta infatti questi soldati specializzati non mancavano e infatti sette giorni prima
un altro decreto senatorio prescriveva di inviare in guarnigione a Corfù 200 balestrieri
arruolati a Venezia e nella stessa Creta, in quanto quelli locali non davano molto
affidamento (ib):
… Molti dei balestrieri di Corfù hanno mogli e figli, il che presenta gravi svantaggi per le
chiamate alle armi. Si scrive al bailo di farne equipaggiare duecento a Venezia o a Creta per
rimpiazzare quelli che fossero disutili o inadeguati (trad. dal fr.)
Per i balestrieri veneziani era previsto anche un armamento difensivo e infatti il 15 dicembre
1403 il senato decretava che si acquistassero a Creta, a spese pubbliche, centum armature
fulcite a ballistario. Ma a La Tana arrivavano anche cocche (‘vascelli tondi’) mercantili
veneziane che viaggiavano di conserva, cioè in gruppo sotto il comando di capo-flottiglia
con la qualifica di capitaneo, e queste, per sicurezza dei loro traffici nei confronti dei pirati
balcanici e, in quel periodo, anche e soprattutto dei corsari ottomani, furono anch’esse
obbligate a prendere a bordo a Candia 15 balestrieri ciascuna; ma, poiché il quindi non
indifferente costo del loro ingaggio ed equipaggiamento gravava troppo su quello delle
merci che portavano, furono presto – il 23 marzo seguente - autorizzate in deroga a
sbarcare questi balestrieri già a Modone o a Corone, cioè dopo aver compiuto il tratto del
viaggio più pericoloso (ib.) Tra detti 15 balestrieri, a seconda della distanza geografica dal
pericolo ottomano, 4 oppure 5 dovevano essere di nobile stirpe, perché erano tempi in cui
si credeva – e forse a ragione – che la nobiltà d’animo e quindi il conseguente
comportamento in guerra derivassero da educazione familiare. L’11 luglio 1401 per il
viaggio di Alessandria fu autorizzata anche una cocca di 500 botti e bisognava che questa
avesse 10 balestrieri a sue spese (ib. P. 148-151); l’11 gennaio del 1406 ne furono auorizzate
due per il viaggio di Siria, le quali dovevano essere imbertescate e imbattagliate, cioè
attrezzate con opere morte da difesa bellica, inoltre dovevano essere equipaggiate con
cento uomini ciascuna, tra marinai e balestrieri, questi con le mansioni che solitamente si
richiedevano ai balestrieri dei vascelli commerciali, cioè che svolgessero anche lavori di
bordo quando necessario; infine, ognuna, oltre che con le solite armi, doveva essere armata
di quattro bombarde, 10 balestre a mulinello con altrettante casse di verrettoni, cento lance
155
da marina, 200 dardi, ossia giavellotti, e altre casse di verrettoni per le normali balestre dei
balestrieri.
Il Noiret trascrive poi anche un interessante decreto del 26 aprile dello stesso 1400 con cui
si mandavano a Candia due galeotte perché l’isola era rimasta contingentemente priva di
vascelli armati a sua difesa, del materiale nautico, dell’altro bellico aggiuntivo da sbarcare
nell’isola e cioè, per ognuna delle due galeotte:
- remi da galeotta in numero di 600. Questo numero includeva sia remi d’esercizio, sia quelli
di riserva sia alcune centinaia da sbarcare a Candia per le esigenze dell’isola.
- Corite (dal gra. ϰόρυθες) da galea, ossia celatine - o cervelliere che dir si voglia - in
numero non ancora definito.
- lancee da galea, non descritte ma presumibilmente del genere delle corte e sottili lance’
da fanteria, in quanto a bordo delle strette galee non se ne sarebbero potute maneggiare di
lunghe come quelle della cavalleria leggera.
- 100 corazze da pedoni, quindi evidentemente delle corazzine, che tali difese di cuoio
ancora si usavano prima dell’adozione delle armi da fuoco leggere e di conseguenza dei
corsaletti di ferro a prova di scoppietto.
Nel caso della piccola armata di 25 vascelli, tra galee, tarete, uscieri e un legno sottile da 52
remi, preparatasi nel 1270 nei porti della Puglia per ordine dato da Carlo I d’Angiò l’11
maggio, quando cioè era ancora re di Sicilia e non ancora di Sicilia Citra, cioè di Napoli,
allo scopo di portare aiuto a Guillaume de Villehardouin principe d’Acaia, ad ognuno dei
predetti vascelli bisognava fornire 100 lance, 300 lancioni, 2.000 quadrelli per balestre sia
da uno sia da due piedi e inoltre un certo numero di loriche (G. del Giudice, cit. P. 7). Questa
flottiglia, certamente nel tempo rinnovata, sarà poi adoperata nell’estate del 1279 per
trasportare in Romania l’angioino Ugo, detto Rosso de Sully, perché inviato colà con delle
milizie ad assumerne il carico di vicario reggente ed al quale l’anno successivo furono
inviate galere con milizie di rinforzo; nello stesso 1280 Carlo I utilizzerà ancora la suddetta
flottiglia, specificandosi che trattavasi di 25 tarite con 2 galere e un galeone di scorta che
allora si trovavano raccolte nel porto di Brindisi e che dovevano approntarsi per farle partire
immancabilmente il giorno 10 aprile di quell’anno 1280. Ogni tareta, la quale aveva un
equipaggio formato dal còmito o ‘comandante politico’, dal suo luogotenente o nocchiero, il
quale si poteva considerare il ‘comandante d’esercizio’, e dai marinari, avrebbe dovuto
caricare 30 cavalli, il che significa anche i rispettivi cavalieri:
… Ordina ancora doversi trasportare cento balestrieri, i più istruiti e valenti che ha fatto
ricercare, cinquanta nel giustizierato di di Terra di Bari e cinquanta in Terra di Otranto, i
quali, oltre di essere esperti e valorosi nell’arte loro, hanno mogli, famiglie e proprietà in
que’ giustizierati. In Archivio Storico Italiano. Quarta Serie, Tomo III. Anno 1879. P. 7.
Firenze, 1879.
156
Perché era utile che questi balestrieri fossero scocialmente ben radicati in quelle terre?
Perché, poiché avevano molto da perdere, si poteva ottenere da loro un comportamento
corretto e un servizio fedele. Questi vascelli dovevano inotre caricare:
6 balestre da due piedi e 6 da un solo piede (con le rispettive bandoliere e corde duplicate,
una cioè per tirare e l’altra, detta ‘falsa’, per riserva; e con ogni altro corredo di ciascuna
balestra).
25mila quadrelli per balestre da un piede e tremila per balestre da due piedi (ib.)
I predetti balestrieri erano tenuti a presentarsi al servizio muniti della loro arma personale e
infatti le predette 12 balestre e parte dei quadrelli non erano per loro, erano da consegnarsi
alla guarnigione di Corfù per munirne il castello di Pariornia allora in ristrutturazione; inoltre
a Corfù, a disposizione del capitano napoletano-angioino di quell’isola Giordano di
Sanfelice, sarebbero anche rimasti 30 degli stessi suddetti balestrieri, di cui 20 destinati alla
custodia del castello di Butrontoi e 10 a quella di Subotoi, ed è interessante qui notare che
essi sono qui chiamati servienti, vocabolo da cui verrà poi il termine europeo ‘sergenti’, ma
che allora aveva solo il significato di ‘soldati scelti’. In realtà, come risulterà poi nello stesso
aprile, alla spedizione verranno poi aggiunti almeno 100 fanti lancieri regnicoli, almeno 20
balestrieri francesi e 20 balestrieri a cavallo (l. equitantes), questi ultimi dunque già allora
esistenti. Bisognava poi che questi vascelli portassero, in dotazione di bordo, cento grandi
scudi (denominari pavesi), ognuno largo quattro palmi, da porre in fila alle balestriere o
fiancate dei vascelli come ripari del ponte di coperta, ed altri 50, più grandi, larghi sei palmi
da usare invece soprattutto come ripari dei ponti di comando.
Sennonché il 22 giugno successivo il re Carlo I scriverà ancora al predetto giustiziero di
Terra d’Otranto in merito ai 50 balestrieri inviati a Ugo Rosso de Sully:
… il quale Sully ora gli ha scritto che que’ 50 balestrieri sono affatto incapaci e inutili,
perché per nulla esercitati nell’arte di mirare e di operare… (ib. P. 20.)
Pertanto il re addebitava al giustiziero i tre mesi anticipati di paga che si erano dati ai detti
balestrieri perché si era reso colpevole di una elezione sbagliata e inoltre nello stesso
giorno scriveva anche al giustiziero di Terra di Bari una lettera dello stesso identico tenore.
Il 24 giugno ordinava al detto giustiziero di Terra d’Otranto di inviare al de Sully altre 12
tarete cariche di armati e di viveri per gli stessi e a quelli di Terra di Bari e di Capitanata di
mandare, sempre al de Sully e a mezzo delle dette 12 tarete, 60 fanti arcieri saraceni, 20
maestri falegnami, 10 mazzonieri (‘muratori’; ltm. murarii), 5 tagliatori di pietre ed alcuni
maestri fabbri ed alcuni esperti in costruzione di macchine da guerra (ib.)
157
Questi vascelli non avevano artiglierie, non potendosi considerare tali le trombe di galera, e
quindi il numero e la qualità dei balestrieri era particolarmente importante; comunque, nel
caso di assedi marittimi, si sgombrava ad alcune la prua per montarvi a ognuna una
briccola con cui battere dal mare la città assediata; e che s’usassero nel Medioevo anche
trabocchetti (fr. trebuchets) abbastanza piccoli da poter appunto esser montati a prua delle
anguste galere di quei tempi lo leggiamo nelle cronache medievali catalane (Per quel senyor
infant En Jacme, lendema, feu arborar dos trabuchs que tragueren de les galees. Muntaner,
all’anno 1283). Per quanto riguarda i legni remieri armati, essi, detti dal Trecento in lem/ctm.
anche fustes de rem (‘legni da remo’), non erano altro che vascelli biremi privi di opere
morte (lem/ctm. armat a plat) dalle dimensioni inferiori a quelle della galera leggiera, quindi
non rientravano nella categoria delle sottili monoremo, cioè di quelle che invece dette
galadelle, monere e più tardi berghentini e fregatine, e andavano pertanto dalla quarantina
alla ottantina di remi in totale (1275: unum lignum de XL remis), non superando quindi la
ventina di banchi per lato come più tardi faranno fuste e galeotte, mentre le galee, anche nei
secoli successivi, non supereranno i 30 banchi per lato, come leggiamo nel Pantera; solo la
famosa cinquecentesca grande quinquereme Faustina, progettata dal veneziano Vittorio
Fausto, arrivava ai 32 banchi per lato, per un totale quindi di ben 320 vogatori.:
… cum galeis XVIII et aliis duorum remorum LIII, quae lingua vulgaris ‘ligna’ nominant… (G.
& G. Stella. Cit. C. 984).
Quelli da 80 remi erano i maggiori, in quanto, quando invece capaci di un armamento di 100
remi e più, allora non si parlava più di legni bensì di galere; in effetti il nome generico di
legni (barchis, lignis et buciis) riguardava vascelli remieri che potevano essere sia da
trasporto commerciale sia, se di molti remi, armati a guerra. I secondi erano talvolta detti
sagitteae e si trattava all’incirca di quei veloci vascelli remieri da guerra di corso che più
tardi saranno detti fuste:
… E poi fecero venire un legno armato di ottanta remi che era di Nicotera ed era il maggior
legno che si sapesse (ib. All’anno 1282).
I legni maggiori si chiamavano nel Medioevo a Venezia anche cantherii, perché costruiti in
cantiere, cioè sui cantheria (‘taccate di legno’). I loro nomi si differenziavano dunque solo
158
per il numero di remi che avevano (legno armato da 24 remi, legno armato da 40 remi, legno
armato da 60 remi, legno armato da 80 remi ecc. (Ib.) E. g. vedi anche: unum lignum de XL
remis Communi Chersi in N. (b) a c. 389 in L.A. Muratori, Rerum italicarum scriptores etc. T.
XII. Milano, 1728); … et lignum subtile unum Curiae nostrae remorum quinquaginta duorum
quod in Apulia esse dicitur… in G. del Giudice, cit. P. 7. Essi erano spesso da 40 remi e si
usavano molto nella guerra di corso, ma alcuni erano sufficientemente grandi e armati da
potersi confrontare anche con galere d’armata (armaron siete leños y eran tales que podian
combatir cada uno con una galera delos enemigos. (Zurita, Anales. T. I, L. III.) Lo stuolo di
24 galee che i veneziani misero in mare contro i genovesi nel 1294 comprendeva anche
quattro di questi legni armati appunto da 40 remi; abbiamo pure visto uno di questi grossi
legni armati remieri a proposito dell’armata genovese del 1351, preferendo però i liguri
quelli da ben 80 remi; in seguito, nel Rinascimento, prenderanno, come abbiamo già detto, i
più precisi nomi di fuste e galeotte. Nel 1242 i pisani, nel prepararsi a una guerra contro
Genova, misero in mare legni da due remi per banco:
Ma, tornando ai predetti episodi di cui narra il cronachista Giorgio Franzes nel suo
Chronicon (l. I, cap. 34), se per i detti 22 remi intendesse 22 remi per lato o in totale non è
esplicitato, ma in genere nei secoli di guerra remiera s’indicava il numero per lato se si
159
trattava di banchi e quello totale se invece di remi, intendendosi per questi i remiganti che li
manovravano; inoltre, come abbiamo forse già accennato, una monoreme con 22 banchi
per lato non era possibile, in quanto sarebbe stata troppo lunga rispetto alla larghezza e
quindi di pericolosa navigazione, mentre una biremi di 11 banchi per lato avrebbe
presentato il difetto opposto, incominciandosi infatti in generale nella navigazione remiera a
parlare di biremi nel caso di una teorie di banchi di minimo 15/ 16 per lato.
Per quanto riguarda le già menzionate varchette (ltm. vachetae o vac(c)et(t)ae o varkettae;
cfr. np. varca), dette anche in it. grippi, esse si utilizzavano per servizio d’armata e ogni
terida, ossia ogni vascello remiero da carico, doveva averne necessariamente una perché a
quei tempi le qualità nautiche e quindi la manovrabilità costiera dei vascelli, anche se
remieri e per nulla grandi quali in effetti erano le tarete, erano limitate; inoltre in caso di
bonaccia con una barca a 8 remi, come era generalmente appunto la varchetta (vulgo detta
vacchetta; l. vacheta), si poteva anche trainare per un po’ la terida:
… perché senza una vacchetta le stesse teride non possono navigare in buon modo,
secondo il parere di quelli che sono esperti di tali cose. (quia sine vaccecta una bono modo
teridae ipsae navigare non possunt secundum consilium in talibus peritorum (G. Del
Giudice, cit. Pp. 31).
Pertanto:
… conti e baroni […] o in loro assenza i procuratori degli stessi […] facciano che si verifichi
affinché nel termine in cui le teride stesse siano complete e preparate a navigare si
provveda di avere infallibilmente le vacchette medesime fatte e complete (… comites et
barones […] vel in eorum absentia procuratores ipsorum […] fieri faciant ut in termino quo
teridas ipsas completas et ad navigandum paratas esse providimus vaccectae ipsae factae
et completae infallibiliter habeantur. Ib. P. 32).
Queste citazioni sono tratte dall’ordine che in data 31 giugno 1277 il re di Napoli Carlo I
d’Angiò inviò ai giustizieri del Regno e in cui si comandava che i feudatari che allora
dovevano a loro spese costruire le teride ossia tarete per la nuova armata che si stava
raccogliendo di provvederle anche di una vacchetta ciascuna che fosse lunga 3 canne e 3
palmi napoletani, cioè poco più di 7 metri, larga in bucca, cioè al centro sotto la coperta da
fiancata a fiancata, 7 palmi, quindi quasi 2 metri, e alta di puntale, ossia del vivo al centro
fino alla coperta, 3 palmi, vale a dire circa m. 0,80, mentre alla prua e alla poppa erano più
alte, rispettivamente 5 palmi e 5 palmi e ¼ (ad modum baccecti, ‘a modo appunto di
vacchetta’). Esse sarebbero state da otto remi, ma da soli sei banchi, perché sui due
centrali avrebbero seduto due vogatori ciascuno, il che significa che molto probabilmente
160
questa imbarcazione aveva una forma più raccolta che allungata. La vacchetta nel Medioevo
spesso accompagnava anche la galea, perché questa, essendo allora generalmente non
una trireme bensì una più piccola biremi, non si poteva permettere di trasportare a bordo un
còpano o fregatina o schifo (gra. σϰάφη; grb. Θύσϰη; vn. galaldelo) degno di questo nome:
… ma essendosi una galea veneziana dello stuolo nemico indugiata presso terra con una
barchetta (cum autem quedam galea venetorum cum vacetta una hostilis extolii ad terram
haesisset… Bartolomeo di Neocastro, cit. Cap. LXXVIII.)
La circostanza che poi, qualche rigo dopo, l’autore chiami questa barchetta (l. scapha; gr.
σϰᾰφίά; σϰάφιον) ‘sagittiam’, si può considerare un semplice errore, in quanto, come
sappiamo le saettie erano vascelli latini non tanto piccoli. Nelle armate esse erano
naturalmente molto utili anche come vascelletti porta-ufficiali e porta-ordini e quindi erano
sempre presenti in buona quantità, come ne leggiamo per esempio nei succitati ordini di
Carlo I d’Angiò re di Napoli e nel De origine et gestis venetorum di Flavio Biondo, a
proposito dei conflitti navali tra veneziani e genovesi avvenuti ai tempi della già ricordata
quarta crociata:
… e parimente il doge Rainerio Zeno (armò) nelle Venezie 15 triremi, 10 tarade e agivano i
veneziani di Tolemaide, onde prepararono quaranta vacchette e dieci altre navi … et pariter
(armavit) Rainerius Zenus dux triremes Venetijs quindecim, taradas decem et qui ex enetis
Ptolemaidae agebant, unde quadraginta vachetas, naves ceteras decem paravere… (De
origines ac gestis venetorumin liber. In Opere, p. 287. Basilea, 1559.)
Oltre alle vachetas, sono particolarmente da notarsi dunque in queste citazioni le taradas
(‘taredas’ o più comunemente ‘taridas’ o anche ‘tarìdes’, come già sappiamo; … tres taridas
Venetorum oneratas pane. Andrea Dandolo, Chronicon, cit. L. X, c. VII, p. XXVII)), perché
nome generalmente non usato nei mari di Levante, e naves ceteas (‘navi cetacee’), cioè
‘navi onerarie tonde’. A proposito delle tarete, vascelli remieri perlopiù portacavalli, negli
anni tra il 1271 e il 1275 si ordinò a Napoli di costruirne di nuove da 28 ordini di remi, con
aposticci che dovevano infatti avere scalmi per 112 remi (quelibet terida habeat remos
centum duodecim quorum medietas sit longitudinis palmorum viginti octo et alia
medietas… palmorum viginti novem). Queste tarete, considerando che la canna napoletana
era lunga m. 2,1164 e il palmo maggiore m. 0,26455, dovevano presentare le seguenti
caratteristiche:
161
- Lunghezza 18 canne (m. 38,10), quindi circa un metro e mezzo di meno di quella delle
galere di quei tempi.
- Larghezza (a cinta in cintam, cioè da murata a murata) 15 palmi maggiori (m. 3,97),
quindi circa cm. 27 di più di quella delle suddette galee. In un’altra ordinanza del 1274 si
dirà invece 15 palmi e mezzo (de cinta in cintam de palmis quindecim et medio).
- Altezza di puntale, cioè al centro della terida, dal fondo alla coperta (a tabula sentinae
usque ad tabulam cohopertae) palmi maggiori 8, cioè m. 2,12, quindi circa cm. 7 di più di
quella di una galea. Nel 1274 invece palmi 7 e mezzo (altitudiniis a paliolo ubi equi
debent tenere pedes palmorum septem et medii).
stesso che si era usato e che si userà in tutti i tipi di vascelli porta-cavalli medievali e
rinascimentali (chelandi, uscieri, marani, palandarie ecc.)
Le navi erano già allora talvolta di due e anche qualcuna di tre coperte, come si legge nel
Muntaner e anche, come segue, nella Crónica del re d’Aragona Pietro IV:
… vint naus grosses appellades: naus de covent (dal l. conventus, ‘società, carataggio’; in.
covenant; it. convenzione), qui son de dues cubertes… (Cit.)
Nel 1423 Genova allestì, con una partecipazione minoritaria della Francia, un’armata in
funzione anti-regno di Napoli e quindi anti-catalana. Si trattava di 13 navi, 21 galere, 3
galeotte e un brigantino, oltre naturalmente a naviglio minore; delle navi, come leggiamo nei
già più volte citati Annales genuenses, nove erano di grandi dimensioni e cioè di una
portata che andava dagli 8mila ai 18mila cantaria; ora, poiché per cantario s’intendevano, a
Genova come a Napoli, cento rotoli (a Venezia invece 100 libbre), il rotolo equivaleva a una
libbra e mezza e la libbra era allora grossius corrispondente a quell’anglosassone odierna,
la capacità di detti vascelli è oggi abbastanza correttamente valutabile. Su ognuna d’esse,
poiché in quell’occasione adibite a trasporti di guerra e quindi affollatissime, erano
imbarcati circa 500 uomini, mentre nella altre quattro, le quali erano piccole e di cui due
erano ballenere, circa duecento. La cosa si ripeté nel 1435, quando i genovesi andarono al
soccorso di Gaeta, assediata dagli spagnoli, e si trattò allora dapprima di tre galere, una
galeotta, 12 navi e appunto 2 balleneras (Zurita, Anales. L. XIII, c. XXV); in seguito, il 5
agosto 1435, con un afflusso di forze più consistente, l’armata genovese sconfiggerà, come
già ricordato, quella di Alfonso V d’Aragona in un epica battaglia nelle acque di Ponza.
Sia le navi armate sia e le barche armate erano detti i vascelli onerari quando armati a
guerra, le prime a opera viva rotonda e prevalente vela quadra, le seconde a opera viva
sottile bassa e vela latina, ma conducibili anche a remi, remi che potevano andare da 6 a 12
per lato; tra queste ultime tipiche e numerose erano nel Mediterraneo le già ricordate taride,
imbarcazioni onerarie generalmente non castellate, ma che spesso s’incastellavano quando
dovevano partecipare a operazioni di guerra, circostanza che dimostra erratissima
l’opinione del Veneroso e cioè che tarida fosse solo un antico nome della galeazza, vascello
questo fabbricato massicciamente incastellato. Più piccole delle taride erano nel Medioevo i
cltm. trabuces, in verità vascelletti nominati solo nella Crònica di padre Marsilio e una sola
volta, i quali sembra non avessero nulla a che fare con il molto più tardo trabaccolo, tozzo e
largo piccolo bastimento adriatico a tre alberi compreso il bompresso, il quale, adibito a
pesca e traffico, aveva sostituito la marciliana. In una lettera- relazione della fine del 1466
163
inviata al nuovo capitano generale Vittorio Capello, da pochi mesi eletto, laddove si
consigliava l’armata sufficiente da tener sempre disponibile contro quelle che potessero
armare i turchi, così si diceva delle navi armate:
... 20 navi grosse de 500 in 600 bote con 100 homeni per una [...] Dico navi de questa
portada, perché sonpiù destre a levarse de porto, a dar remurchio ed a far ogn’altra cosa
che non sono quelle di maggior portada; dico con 100 homeni per una per manco spesa; e
sarano assai, purché le navi siano ben coverte come bisogna, fornite de pali, de dardi, de
bocali, de calcina, de piera e de oglio (D. Malipiero, cit. Parte prima , pp. 39-40).
Per ‘ben coverte’ qui s’intendeva probabilmente che dovevano esser costruite con coperta
completa e non parziale, come a volte si vedeva nei vascelli onerari minori; inoltre
dovevano esser ben fornite di materiali offensivi da lanciare dalle gabbie negli scontri
ravvicinati [e quindi dardi (gr. βέλεμνα), pali di ferro, frecce e pignate incendiarie (bocali),
calcina viva, pietre e olio bollente], perché soprattutto in questo consisteva, prima che
venissero in uso generale le artiglierie navali, la guerra marina ravvicinata tra vascelli prima
che si venisse all’abbordaggio. Le pietre dovevano essere da 25 libbre in su, perché, una
volta lasciate cadere dalle gabbie sul vascello nemico, da quello non potessero essere più
lanciate iin alto in ritorno. Poteva essere utile del materiale per accecare il nemico:
… Alcune pignate di ‘poluere di Vascello’ o altre polvere volative (‘volatili’) o fiore di calcina,
ch'alli vasselli sotto a vento si può dare assai molestia all'impedire la vista, che in uno
abordare il vento sfumi (‘sparga’) della poluere a quei di sotto di maniera che non impedisca
(però) quei di sopra (A. Falconi, cit. P. 4).
… Ed al fine, fino alla Vespera di questo dì, combattuto con sapone, oglio, pignatielli
artificiali, pietre di calce che buttaro sopra le navi nemiche dalle gabbie loro, le redussero
che l’uno non vedeva l’altro ed alcuna volta offendevano li loro medesimi, credendosi
nemici (in L. A. Muratori, Rerum italicarum scriptores etc. C. 1.101, t. 21. Milano, 1732).
Ed ecco come brevemente descriveva una battaglia tra angioini e aragonesi avvenuta nelle
acque di Malta circa due secoli e mezzo prima della predetta di Ponza, cioè nel 1283, il Saba
Malaspina nella sua già citata Historia, opera iniziata nel 1284 e terminata, come l’autore
stesso dichiara, a Perugia il 29 marzo 1285:
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… A ciò i catalani e i siciliani […] lanciavano fuoco acceso, vasi di creta, tinozze, pignatte di
terra cotta pieni di di sego e mistura artificiata di sapone sui tavolati di coperta delle galee
dei francesi all’ovvio scopo che i piedi francesi, inesperti di tali combattimenti, con un
versamento di liquido di tal natura sdrucciolassero pericolosamente, né dessi francesi
potessero stare alla difesa, cosicché, scivolando i piedi, o si precipitassero nell’interno o
andassero a finire nelle tenebrose onde… gettavano certi altri vasi di creta colmi di calce in
polvere mantenuta del tutto asciutta, affinché, ottenebrandosi così la vista dei francesi a
causa della polvere di calce volatile, non potessero vedere (ib. L. X, cap. XV)..
… egli (cioè Roger de Lauria) ordinò i forti e valorosi che dovessero custodire tutt’intorno le
insegne reali, altri che, armati dei ferri più adatti, abbattessero i vessilli dei nemici, altri che
difendessero i gioghi (meglio sarebbe stato dire ‘ruota’) e il castello (più tardi detto
‘rembate’) di prua, altri che non abbandonassero mai le poppe, altri che saltassero
all’arrembaggio del nemico, altri che con astati uncini mantenessero discoste le galee dei
nemici, altri dalle forti braccia che fiondassero pietre ed altri che inanimissero i combattenti
siciliani e suscitassero con la voce le virtù dei combattenti…
Non bisogna però credere che l’uso di lanciare al nemico grosse pietre dalle coffe o dall’alto
delle torri di prua fosse comune, oltre che da bordo dei vascelli tondi, anche da quello delle
leggere e veloci galee, oltretutto perlopiù solo biremi, le quali, oltre al carico delle pietre di
zavorra, non potevano certo permettersi di portare anche un pesante carico di altre pietre,
come del resto di nessun’altra cosa, come leggeremo nell’Historiae byzantinae di Niceforo
Gregoras, laddove narra della riconquista bizantina di Costantinopoli avvenuta nel 1261:
… Ma le triere, le quali navigavano di conserva non molto vicino, usavano come proiettili da
lungi solo i dardi. (αἰ δἐ τριήρεις οὐ μάλα τοι ἐγγύθεν παραπλέουσαι μόνοις ἐχρῶντο τοῑς
τηλεβόλοις βέλεσι. L. V, par. 5.)
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Certo qualche fromboliere poteva anche esserci, come abbiamo letto nelle suddette
citazioni, ma pochi, perché, non potendo far roteare le loro armi in coperta a causa della
strettezza degli spazi e l’affollamento degli uomini, erano sicuramente costretti a
guadagnarsi qualche scomodo, precario e pericolo posto in alto, sulle sovrastrutture delle
opera morte. A proposito di questo argomento, dobbiamo aggiungere che Tucidide nel libro
VII della sua Storia della guerra del Peloponneso ci parla di δελφινοφόροι νῆες, cioè di navi
onerarie ateniesi che, trovandosi adibite ad operazioni di guerra, usarono i delfini che
portavano alle antenne e con essi sfondarono due navi nemiche siracusane… e che cosa
erano questi delfini? Ce lo spiega meglio l’enciclopedista Suida; si trattava di due grossi e
pesanti piombi oblunghi, ai quali si usava dare per vezzo la forma di delfino, che si
appendevano alle due estremità dell’antenna dell’unico albero della nave antica e che,
trovandocisi accostati ad un vascello nemico, si lasciavano cadere su di quello riuscendo
così spesso a provocargli un grosso danno strutturale, talvolta anche l’affondamento
(Suida, Lexicon, graece et latine. Tomo I. Halle e Brunswick, 1705). Questo stratagemma dei
‘delfini’ di piombo era dunque una caratteristica della guerra nautica antica e lo stesso
Suida, citando a tal proposito Tucidide, ne parla come di cose del passato; ai suoi tempi
evidentemente le imbarcazioni erano costruite in maniera ormai più robusta e i ‘delfini’ non
avrebbero funzionato.
Ma, per tornare al suddetto scontro tra Roger de Lauria e Narzone, il primo raccomandò
infine ai suoi di sostenere il primi impeto degli oppositori e poi, una volta che quelli
avessero esaurito le armi da getto e che mostrassero i primi segni di stanchezza, li
attaccassero furiosamente; infine ordinò di dar di remi verso il nemico (Bartolomeo di
Neocastro, cit. Cap.CXI). C’è qui forse da chiarire che ad alcuni valorosi e fedeli cavalieri si
affidava la difesa e conservazione del principale vessillo del vascello durante la battaglia,
conservazione molto importante tant’è vero che ad altri si dava il compito contrario di
cercare di abbattere, con asce o mazze di ferro, il vessillo del vascello nemico il prima
possibile; il nerbo degli armati di bordo si poneva sullla torre di prua, se predisposto,
perché generalmente era quello che andava a urtare il vascello nemico e dal quale dunque
più facilmente poteva arrivare l’abbordaggio degli avversari; d’altra parte alcuni cavalieri di
gran fiducia dovevano trattenersi a poppa – l’estremo baluardo ed estrema difesa della
galea - e non lasciare quella posizione per nessun motivo; le pietre si fiondavano da uomini
postisi in alto, magari a cavalcioni di qualche opera viva, perché essi, dovendole
volteggiare, avevano bisogno di spazio d’intorno; se invece le pietre erano usate con lanci a
166
mano (gr. χειροπληθὲς χερμαδίοι), il lancio doveva avvenire da molto in alto e quindi chi era
addetto a farlo si istallava sulla coffa dell’albero di maestra ecc.
A proposito poi della predetta torre di prua, dobbiamo specificare che esso si elevava nelle
galee triremi e, dove esistenti, nelle quadriremi solo in caso si prevedesse una battaglia di
linea o quando esse dovessero essere usate nell’assedio di alte fortificazioni costiere; lo
facevano soprattutto i provenzali e ancor di più i bizantini, popoli più legati alla tradizione
delle antiche pesanti triere romane di quanto invece non più fossero le repubbliche
marinare italiane:
… e così, avendo allestito il più celermente possibile le loro triere e quadriere, le quali erano
un po’ più di trenta, ed avendo levato torri di legno sulla prua della maggior parte (di quelle),
navigano veloci (… ϰαὶ δὴ τὴν ταχίστην συσϰενασάμενοι τὰς τριήρεις ϰαὶ τετρήρεις αὐτῶν
μιϰρὸν ὐπὲρ τὰς τριάϰοντα οὒσας ϰαὶ πύργους ξυλίνους ταῑς πρώραις τῶν πλειόνων
ἐπιστήσαντες ταχυναυτοῡσιν· Niceforo Gregoras, Historiae byzantinae. L. IV, par. 10).
Che le antiche triere fossero certamente più pesanti delle susseguenti galee si evince per
esempio anche dal numero di vele che portavano a bordo e cioè sette, quindi lo stesso
numero delle vele che useranno poi i vascelli tondi, mentre la galea alto-medievale ne
adoperava, come vedremo, quattro, ma tutte per l’unico albero che avevano, in quanto
l’alberello di mezzana non sarà aggiunto prima nel Basso Medio e l’albero di trinchetto non
prima del Rinascimento; pertanto l’albero, essendo unico e non dovendosi quindi
distinguere da altri, non aveva un nome particolare e assunse quello di ‘albero di maestra’
solo quando appunto sarà aggiunto quello di trinchetto. Da notare inoltre che furono quindi
le vele a dare il loro nome agli alberi che le portavano e non viceversa, come invece
comunemente si crede; ma, tornando ora alle antiche triere:
… da sette vele è spinta la triera, delle quali ciascuna prende nome dall’ordine, (quindi)
‘primo getto (di vele)’, così ‘secondo’ e così via {ἐπτὰ δέ ἐνίοις [leggi ἀνεμ(ια)ῖοις, ‘vele’]
ἀνίσταται ἠ τριήρης, ὦν ἒϰαστος ϰατὰ τάξιν ϰαλεῖται͵ πρῶτος βόλος, καὶ δεύτερος, ϰαὶ
ἐφεξῆς} (G. Polluce, cit. I.IX, p. 60).
Da notare che questo brano è stato sempre mal interpretato e tradotto in quanto si è sempre
acriticamente creduto che quel numero ‘sette’ si riferisse a ordini di remi (gr. ταρσώματα) e
non, come invece in effetti è, alle vele; nessuno cioè si è semplicemente chiesto come si
potessero attribuire sette ordini di remi alle triere, vascelli remieri che avevano invece tre
ordini di remi per definizione! Nel Quattrocento gli ottomani avevano gran preoccupazione
delle navi armate nemiche perché loro non ne sapevano far uso e dunque non ne avevano;
infatti, quando a Costantinopoli arrivava notizia dell’uscita in mare di un’armata veneziana
167
si domandava sempre se contava anche navi (ib.) D’altra parte i turchi erano allora
consapevoli della loro immaturità bellica per mare e, anche se ai veneziani davano con
disprezzo del mercadanti, in realtà ne temevano la potenza marinara:
... Questi (i turchi) fano conto che la Signoria (di Venezia) non possi armar più de 40 galie e
stimano che 4 o 5 de’ suoi (‘loro’) legni siano sufficienti per uno dei nostri. Hanno (infatti)
questa natura – e l’o veduto per esperienzia, che stimano più che non si convien il suo
(‘loro’) nemico e (quindi) provedeno a quel che bisogna senza alcun sparagno. Così voria
che facessino (anche) i nostri (Domenico Malipiero, Annali veneti etc. P 40. Firenze, 1843).
.
Ancora nel Quattrocento una galea grossa commerciale veneziana poteva, se ben armata,
tener testa a una squadriglia corsara turca o moresca, essendo in quel secolo l’uso delle
artiglierie ancora poco significativo e ancora tentandosi, più che di sfondare, di bruciare i
vascelli nemici, come successe nel caso del combattimento avvenuto, per un semplice
equivoco in materia di saluti, il venerdì 30 giugno 1497 nelle acque di Cerigo tra la galea
grossa del Zafo, cioè a una che, comandata dal patrone Alvise Zorzi (‘Luigi Giorgi’), faceva il
viaggio di Giaffa in Palestina portando soprattutto pellegrini – in totale a bordo c’erano,
come sembra, circa duecento persone - e una flottiglia corsara ottomana composta di 5
fuste, 2 galee sottili, 1 barza e 1 schirazzo, episodio del quale poi più avanti ancora diremo.
Questo vascello veneziano, essendosi allora in pace con i turchi, si trovava purtroppo quasi
disarmato, trovandosi a bordo solo 3 corazzine, 25 armi in asta, oltretutto da inastare al
momento, poi qualche spada e un po’ di rotelle e targhette, cioè scudi piccoli tondi e
quadrati, e null’altro, ma seppe egualmente difendersi con grandissimo onore anche se
restandone poi molto malconcio; i pellegrini, perlopiù francesi e tedeschi, come era sempre
in quelle galee da viaggio veneziane, non avendo corazzine per difendersi dalla pioggia di
frecce, si misero addosso i loro strapontini (‘materassini da navigante’) dopo averli bucati al
centro per farvi passare la testa:
… La battaglia durò 4 ore e mezza et non fu turco che montasse su la galea che non
restasse morto. Se la galia fosse stata armada come si conveniva, i turchi non si sarebbero
accostati, ovvero gli avremmo procurato vergogna e giudico che avremmo avuto una delle
maggiori vitlorie che si siano avute già da molti anni. Per grazia di Dio scapolammo dalle
loro mani, ma abbiamo avuto il nostro da fare a resistere non solamente alle loro armi e
artelarie, ma anche a una gran quantità di fuochi che di continuo gettavano in galea, da i
quali per defendersene, è stata consumata tutta l'aqua che avevamo e 200 barili di vino.
Questi fuochi ne hanno bruciato l'antenna, l'artimone, la mezzana e molte cose; e infine
s'appiccò fuoco nel castello (di prua)… (D. Malipiero, cit. Parte prima, pp. 154-158. Nostra
trad. dal veneziano).
168
La galea poi, come ancora si legge in questa lettera-relazione del 6 luglio successivo scritta
dal mercante Zaccaria Ferriero che si trovava tra i passeggeri, andò a farsi raddobbare a
Candia, dove era arrivata a mezzogiorno del lunedì 3 luglio:
…Abbiamo avuto in galea 11.000 frecce, ed una quantità di pignatte di fuoco e di (pietre di)
bombarde. Sono state tirate nella galea alcune pietre di bombarda dalla circonferenza di 4
palmi. Abbiamo 95 feriti con (un totale di) 613 ferite; e tra gli altri, il patrone ferito da 5
frecce. Fin qui ne sono morti 6 e cioè un cavaliere tedesco, il còmito e 4 altri; dei turchi ne
sono morti 30 e molti (sono stati) feriti.
Sono pochi su questa galea che non abbiano avuto danno nel corpo o nella roba. A me è
toccato nella roba, perché si appicco il fuoco nel castello (di prua) e mi ha bruciato 4 forzieri
pieni. Lodato Dio che non mi ha toccato nel corpo!. Mediante il suo aiuto ne farò dell'altra. È
cosa miracolosa che un sasso che venne (‘che fu lanciato giù’) dalla gabbia mi rasó i capelli
et non m'ha fatto danno alcuno (ib.)
Probabilmente fu per lo stesso motivo di divergenze sui saluti che l’anno successivo, cioè il
3 agosto 1498, il provveditore d’armata (gra. ἑπιμελετής) veneziano Benedetto Pesaro, il
quale si trovava alla testa di 5 galee, si scontrò con uno schirazzo turco commerciale, ma
anche ben armato, della stazza di 300 botti, il quale portava un carico di piombo e cera ad
Alessandria; ciò è da pensarsi perché lo stato di belligeranza tra Venezia e Costantinopoli
iniziò solo l’anno seguente. Sullo schirazzo c’erano artiglierie e 150 uomini che si difesero
strenuamente, tant’è vero che alla fine, dopo cioè che era stato alla fine affondato con tutti
quelli dl suo equipaggio sopravvissuti alla scontro – infatti il Pesaro non aveva voluto
catturarlo per evitare appunto rimostranze della corte ottomana, alla fine dunque la galea
del provveditore ne aveva riportato ben 10 morti, ta i quali il còmito, e 86 feriti, inoltre lo
scafo sfondato in corrispondenza della g(h)iava del còmito (più tardi del vice-còmito o del
pennese), cioè del gavone di prua; invece la galea detta Sebenzana, perché evidentemente
costruita a Sebenico, 2 morti e 64 feriti (ib. P. 160)
Nelle infedeli traduzioni ottocentesche in it. delle cronache medievali catalane del d’Esclot e
del Muntaner, documenti comunque molto importanti per averne ricavato gran parte di
quanto abbiamo appena detto del Medioevo, si rende molto spesso erroneamente legni e
legni armati con uscieri, nome questo che si sarebbe invece dovuto usare solo per quei più
grossi vascelli remieri ippagogoi e da salmerie, come abbiamo già detto. Ecco l’armata
veneziana che nel 1361 sbarcò a Candia per reprimere una ribellione di quegli isolani:
Le galere viaggiavano verso la battaglia disposte perlopiù a scala (lem/ctm. en huna escala),
come poi meglio spiegheremo, e, una volta avvicinatesi alla giusta distanza da quelle del
nemico, si ponevano in formazione di battaglia, cioè in linea di fronte (l. equatis proris; gr.
παράταξις), legandosi però l’una alle altre lateralmente per non perdere la formazione; se
invece volevano restare ferme in attesa dell’avvicinamento nemico, allora, oltre a legarsi,
s’ancoravano a poppa. Insomma si cercava di combattere la battaglia su un suolo che,
anche se galleggiante, fosse quanto più stabile possibile, quanto più simile possibile a una
battaglia di terra; ciò perché ancora si seguivano le concezioni della guerra nautica antica,
specie quelle romane. Così avvenne infatti nel 1353 nella già ricordata battaglia di Porto
Conte in Sardegna, nella quale, come sappiamo, un’armata di galere catalane e veneziane
ne sconfisse una genovese:
… ed erano tutte legate, cioè una dei catalani ed un’altra dei veneziani (alternate),
eccettuate 6 galere tra bastarde e sottili che stavano dietro con le 5 navi armate… e, come
furono quasi a un tratto di balestra dal nostro stuolo, i genovesi s’ancorarono per poppa
tutte le loro galere, tranne 10 sottili che stavano dietro le altre loro galere… (Cronaca di
Pietro IV. Cit.)
Ma in quella occasione anche le galere genovesi s’erano, oltre che ancorate, legate tra di
loro, come leggiamo nelle Historiae bizantinae di Niceforo Gregoras, e ciò fecero non solo
per non dar agio a galere nemiche d’introdursi nella loro formazione e così magari
scompaginarla, ma anche per non lasciar spazio di manovra a qualcuna di loro stesse che,
presa dalla paura, volesse magari virare e fuggire la battaglia (Δεσμοΰσι μὲν γὰρ σειρᾶς
δίϰην ἀλλήλαις ἀλλήλας τὰς πλείους ἑαυτῶν τριήρεις ὑπὲρ τοΰ μὴ τῇ διεϰεία ϰαὶ τῷ
σϰεδασμῷ διδόναι πάροδον ταΐς πολεμίαις ναυσι, μηδʹἒχειν ἐϰ τοΰ ρᾴστου φυγοαχεΐν τοὺς
οἰϰείους. L. XXVIII, 24). Dunque frequentemente le galere in formazione di battaglia si
legavano in fila di fronte, magari anche con una sola lunghissima catena non doppia ma
d’acciaio e gelosamente portata da quella Capitana (Admiralea, nel caso di stuoli o armate
genovesi), come per esempio fece l’ammiraglio turco Zaca quando sconfisse quello
bizantino Niceta Castamonita attorno all’anno 1089 e gli prese l’isola di Chio, e lo facevano
non solo per evitare di essere scompaginate da qualcuna di quelle nemiche oppure che
qualcuna delle proprie corresse troppo più delle altre in avanti facendo così perdere l’ordine
a tutte, ma anche per evitare che qualche ciurma (gr. ὐπηρεσία), presa dal panico, virasse e
se ne vogasse via, seguita magari anche da altre perché la paura è contagiosa, e la battaglia
fosse così persa; ma quando ci si trovava vicino alla riva, legate (l. frenelatas) e unite da
ponti (l. injunctas pontibus) che fossero o no, gli uomini potevano sempre fuggirsene, come
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accadde nel giugno del 1266 alla battaglia di Drepano (quam vulgares Trapenam dicunt),
quando il comandante delle galere genovesi alla fine decise di farle schierare non solo
legate tra loro, ma anche davanti alla riva; quando i veneziani le videro così, capirono che
avevano paura e li assalirono con le loro galere urlando. Il risultato fu che lo stesso
Borborigo, i suoi consiglieri, i suoi còmiti e tutti quelli che poterono se ne fuggirono a terra
lasciando i loro vascelli nelle mani del nemico. Il Comune di Genova requisì i beni di tutti
quelli che erano fuggiti e al Borborigo si proibì di tornare a Genova a meno che non
versasse 10mila lire genovesi di risarcimento, 2mila i consiglieri e mille i còmiti (G. & G.
Stella, Annales genuenses etc. Cit.).
Narrando della battaglia avvenuta al largo di Durazzo nel 1081 tra un’armata veneziana e
quella napoletana di Roberto il Guiscardo, Anna Comnena scriveva che i vascelli più grandi
della Serenissima si erano appunto schierati legati assieme, a formare cioè quello che
allora si diceva ‘formare un porto marino’. In effetti i vascelli maggiori si disponevamo in
una forma convessa verso il nemico e, tenendo quelli minori nel mezzo del semicerchio, li
proteggevano; questi ultimi a loro volta potevano così correre in soccorso di qualcuno dei
maggiori che durante la battaglia, oppresso dal nemico, si trovasse in difficoltà
(συναπαρτίσαντες τὸν λεγόμενον πελαγολιμένα, τὰ ομιϰρὰ τούτων σϰάφη εἰς μέσον
ἢλασαν. In Alexiadis. L. IV, 2; VI, 5). Per quanto riguarda invece le formazioni di viaggio
mantenute dalle armate di quei tempi, la predetta Comnena narra anche che nel 1107 quella
di Boemondo di Taranto, capitano di condotta crociato divenuto signore di Antiochia, il
quale si opponeva alle forze di mare approntate da Alessio I Comneno, imperatore di
Bisanzio, sembrava voler riprodurre nella forma una fortezza di terra:
… Boemondo era al centro di uno schieramento di dodici navi corsare (cioè ‘da guerra di
corso’), tutte biremi, avendo quindi acquisito così tanto remeggio da far grende strepito e
fragore col continuo calar dei remi, inoltre avendo disposto intorno a cosifatto stuolo
vascelli tondi (‘navi da carico’)… (Cit.)
Ecco la bella traduzione letteraria – anche se non letterale – che del detto brano fece il
Rossi:
… ecco Baimundo, spiegate le vele, condurre di persona la flotta ordinata nel modo
seguente. Egli, il duce, occupava il centro di dodici armati vascelli, aventi ognuno doppio
palamento e molta copia di valentissimi rematori, i quali, con isforzo, strepito ed urto
concordi e col mai interrotto dimenar delle braccia proseguendo l’impeto del remeggio,
spignevano avanti con moto generale ed uniforme la navale armata. Cingevano poi la
ordinanza altri rotondi vascelli sparsi nell’ esterno giro, rimanendo così ovunque, valgami il
concetto, da navali rocche e palancati difesa, per cui veduta in lontananza da qualche altura
presentavasi con mirabile aspetto quasi città galleggiante fabbricata sulle acque. Fu per
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sorte in quel giorno tranquillissimo il mare spirando piacevolmente il solo Noto, le cui dolci
aure gonfiavano appena le vele delle onerarie, laonde sospinte da poppa solcavan le acque
con facile discorrimento, nè così veloce e precipitoso che perturbata fossene la sempre
eguale distanza da quelle fatte avanzare co’ remi (L’Alessiade di Anna Comnena etc. L. 12,
XXXV. Milano, 1849).
Quelli che il Rossi qui traduce ‘dodici vascelli armati’ in effetti nel testo originale sono detti
‘piratici’, cioè corsari (come già spiegato), termine che non significava necessariamente di
stazza minore, bensì armati e corredati non per la battaglia frontale ma alla leggera per la
guerra di corso:
… navi [...] queste ricoperte da pellami di bue, onde esser protette dal fuoco (… τὰ πλοῑα [...]
βοείαις δοραῑς φραξάμενοι ταῡτα, ὡς εἷεν πυρὶ ἀδῄωτα. Niketas Koniatos, Storie. Alessio
Comneno, l. III).
E anche più tardi nella seconda metà di quel secolo, cioè durante i conflitti tra i bizantini,
sostenuti dai veneziani, e i genovesi di Galata:
… che anzi in verità pure allestirono i fianchi della nave con pelli bovine secche e li
munirono di armi, affinché sufficientemente resistesse al fuoco e a quant’altro fosse
lanciato sulla nave… (οὐ μὴν δὲ ἀλλὰ ϰαὶ τὰ πλευρὰ τῆς νηὸς βόαις αὒαις ἑξήρτυον ϰαὶ
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ὄπλοις ϰατεϰοσμοῡντο͵ ὡς ἁποχρώντως ἁνθεξούσης μὲν πρὸς πῡρ ϰαὶ πᾶν τὸ βαλλόμενον
τῆς νεώς... Giorgio Pakymeres. Cit. T. I, l. V, par. 30.)
Il Pakymeres, il quale nel primo tomo dei suoi scritti pubblicati nel Corpus si dimostra
d’altra parte del tutto digiuno di cose militari – e inoltre anche ad esse disinteressato, qui
sbaglia platealmente, perché ovviamente le pelli bovine risultavano tanto più ignifughe
quanto più erano fresche e quindi non dovevano essere ‘secche’, come lui dice; altra cosa è
invece il secondo tomo, nel quale l’autore tratta volentieri e con discreta proprietà di
linguaggio anche della materia militare, per cui noi pensiamo che in realtà solo uno dei due
tomi sia davvero da attribuirsi alla sua penna. Ma troviamo comunque forniture di pellami o
di panni di setole protettivi da farsi alle armate nautiche di Bisanzio anche in tempi tanto
precedenti, per esempio tra quelle prescritte da Costantino VII Porfirogenito (905-949) nel
suo De ceremoniis aulae byzantinae (II.45):
… cuoiami per i detti tavolati 20… cuoiami per i chelandi 100… panni di cilicio dieci a
dromone… (βυρσάρια λόγῳ τῶν αὐτῶν ϰαλυβομάτων ϰʹ; … βυρσάρια λόγῳ τῶν χελανδίων
ρʹ; … ἀτέγια ϰιλιϰέῑνα ϰατὰ δρομόνιον ιʹ).
Il predetto imbarbottamento, così chiamato perché i cuoi attaccati ai fianchi del vascello gli
davano quasi un aspetto ‘barbuto’, era servito nel Medioevo anche ad attutire i colpi di
pietra delle bombarde e spesso a evitare così che danneggiassero troppo il fasciame (…
inbarbotade le barche, acciò non siano offese da qualche colpo di bombarda di la tera... (M.
Sanuto il Vecchio, cit. Cap. VII. Anni 1321-1323, e M. Sanuto il Giovane, Diarii. Anno 1496. T.
I, col. 334.) Le imbarcazioni d’uso bellico fluviale, se appunto provviste di quel suddetto
cuoiame protettivo, specie se anche incamerate, cioè con la coperta protetta da un tetto
anti-lapidi appunto anch’esso imbarbottato, erano allora pertanto genericamente chiamate
barbotte [… navigis coopertis (barbottas appellant). Pietro Curneo, Commentarius de bello
ferrariensi etc. In L. A. Montanari, Rerum italicarum scriptores etc. C. 1.202, t. 21. Milano,
1732], ma non erano per questo da confondersi con le barchette fatte strutturalmente di
pellami (pelliceis navibus) e talvolta rapidamente costruite per usi occasionali, come
furono per esempio quelle fatte dagli avari o ungari che nel 906, dopo aver sconfitto per
terra il re d’Italia carolingio Berengario I, invasero la laguna di Venezia, dove furono a loro
volta vinti da un’armata di mare veneziana capeggiata dal doge Pietro Tribuno. Questi
popoli avarici, stabilitisi in Pannonia (‘Ungheria’) nel sesto secolo, erano detti ungari in
occidente ma turchi dai bizantini, i quali infatti chiamavano allora l’Ungheria Τοῡρϰια;
dunque da là venivano i ‘turchi’ che poi invasero l’Anatolia persiana, anche se poi, secoli
173
dopo, proprio dall’Anatolia e dalla Grecia torneranno per riconquistare la loro Ungheria.
Anche le galee, pur essendo di basso bordo, si proteggevano fal fuoco in quella maniera
(coriatae galeae), quando necessario; sì perché bisogna chiarire che l’imbarbottamento non
era una condizione permanente, le galee non uscivano già imbarbottate dalla loro base, ma i
loro equipaggi le guarnivano di cuoio solo prima di uno scontro in cui il nemico avrebbe
potuto tentare di incendiarle. Così per esempio si fece a bordo delle galee veneziane che il
30 giugno 1495 assalirono Monopoli, la quale si era data a Carlo VIII di Francia, perché i
suoi difensori avevavo rifiutato di arrendersi (Domenico Malipiero cit. P. 373); ma, su
quest’ultimo episodio conviene trattenersi ancora un momento perché ha altro da
insegnarci riguardo agli usi di guerra di quei tempi. Anche considerando che nei documenti
Bassomedievali la città è chiamata Monopolo e non Monopoli, è molto probabille che
questo nome derivi dal greco antico μονοπώλιον (‘monopolio’), nel senso che si trattava
dell’unico mercato marittimo che fosse abilitato a vendere i prodotti agricoli di quel ricco
entroterra alle navi straniere. Era per l’appunto una città doviziosa e che aveva tanto da
perdere, il che spiega perché non si volle arrendere alla potente armata veneziana,
preferendo così tentare la sorte della difesa armata; e che fosse molto ricca ce lo conferma
lo stesso Malipiero, il quale la diceva esser allora senza dubbio la più importante città del
regno di Napoli dopo la stessa capitale:
… In questa città sono 2.000 homeni da fatti (‘da guerra’), et è ricchissima… La terra è
fortissima da mar e da terra; è grande come Zara, et è più bella; il suo territorio è longo 60
miglia et largo 30; è pieno di olivari, i quali danno 4.000 bote d'ogio all'anno, che importano
70 fin 100.000 ducati; oltra la gran quantità de formenti (frumenti’) et altre cose. Concludo
che de Napoli indriedo, questa è la prima città del Regno (D. Malipiero, cit. P. 374).
La circostanza che i monopolitani non si fossero arresi purtroppo non li fece meritevoli di
accordi e rispetto, secondo la spietata concezione del tempo, e quindi la città, assaltata e
presa dai veneziani, anche se i suoi cittadini non furono massacrati, fu però saccheggiata
completamente e crudelmente:
… Fu cosa pietosa veder tante cose notabili, ricche, spogiade (‘spogliate’) tutte e i homeni e
le donne tormentade da’ galioti per haver danari… (Ib.)
I mori, invece del costoso cuoio, proteggevano dal fuoco lanciato dal nemico i loro vascelli
stendendovi su coperte di lana ben bagnata (… E i mori tenevano le galere coperte da
mante di lana inzuppate d’acqua… Juan Nuñez de Villasan. Cit.).
La fase finale dello scontro marittimo era l’abbordaggio, il quale avveniva generalmente di
fianco, alla mezzania, ma talvolta, sebbene in quel caso molto più difficile da portarsi a
174
termine, si sceglieva di farlo da prua perché questa era la parte meno esposta al predetto
lancio, e gli uomini si affrontavano corpo a corpo fino alla graduale conquista di tutto il
vascello nemico.
Intendiamoci, i remi si usavano soprattutto per uscire dai porti in mancanza di vento e per
andare così a cercarlo in alto mare, poi nelle manovre di approdo o di traino, nel piccolo
cabotaggio, nei fiumi e nei laghi, nei combattimenti e infine dovendosi navigare in tempo di
bonaccia; per il resto i vascelli remieri navigavano in alto mare a vela come i normali velieri,
anzi talvolta meglio dei velieri, perché, oltre a disporre di alcuni marinai specializzati,
avevano a bordo una folla di remieri che, quando non addetti alla voga, erano impiegati in
tutti i lavori pesanti di bordo, specie nell’elevazione degli alberi, delle vele e delle ancore.
Bisogna usare però molti ‘distinguo’, perché, fermo restando che, come principio generale,
nella marineria remiera da guerra si remava molto di più che in quella mercantile, in quanto
nella prima i remiganti, a qualsiasi categoria appartenessero, erano trattati molto più
duramente, più sfruttati e vessati, l’uso della voga andò comunque, dall’antichità all’Evo
Moderno, via via decrescendo nel tempo in misura inversa allo sviluppo di una sempre più
sofisticata navigazione velica. Facevano infine eccezione le galeazze tirreniche, le galee
grosse di mercanzia veneziane e le maone turche, perché in tutti e tre i casi si trattava in
effetti di vascelli tondi di medio bordo, sui quali si usavano i remi solo per aiutare le
manovre portuali, non risultando utili nemmeno per ovviare alle bonacce o a pericolosi
venti contrari; infatti già da una dettagliata relazione anonima coeva della campagna di
Napoli del re Carlo VIII e riportata dal de Bourdeilles sappiamo che alla fine del
Quattrocento in Francia le galee grosse commerciali si chiamavano galere a vela (gallées à
voiles, ainsin les nommoit on alors) e ciò perché avevano una velatura da vascello quadro e
usavano dunque i remi solo per le manovre d’attracco o per uscire dal porto a cercare il
vento. Ciò è dimostrato già da un episodio del 1380, avvenuto cioè durante la famosa guerra
di Chioggia combattutasi tra veneziani e genovesi, quando cioè a Venezia si preparò una
squadra di galere da mandare a Candia e tra queste ce n’erano 5 grosse di mercanzia, le
quali, servendo allora molti remieri per la guerra, furono armate solo d’uno o due vogatori
per banco col proposito di arruolare i molti così mancanti nella stessa Candia prima del
ritorno a Venezia; ora, per galere che allora volevano almeno cinque vogatori per banco,
portarne solo uno o due significava che navigavano regolarmente a vela (Daniello Chinazzo,
Cronaca della guerra di Chioza ecc. In L.A. Muratori, Rerum italicarum scriptores etc. C. 777,
t. XV. Milano, 1727.) In realtà anche nelle galere ordinarie si vogava il meno possibile,
preferendosi naturalmente avvalersi della forza del vento, quando questo andasse in una
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Per quanto riguarda le suddette maone turche, esse si vedono menzionate la prima volta a
proposito dell’assedio ottomano di Costantinopoli del 1453, adoperate dagli ottomani quindi
anche ad uso di guerra ma come vascelli porta-cavalli; poi si ritrovano in una cronologia
anonima nascimentale e cioè laddove si parla dell’armata che i turchi agareni (sciiti) misero
in mare nel 1498 sotto il comando dell’ammiraglio Mustafà Pascià; si trattava di più di 300
vascelli remieri oltre a grandi vascelli da carico e appunto due maone, di cui una si
chiamava Kiamale Reïs e un’altra Mparak Reïs (Corpus scriptorum historiae byzantinae.
Historiae politica et patriarchica Constantinopoleos. Epirotica. P. 55. Bonn, 1849). Le
ritroviamo ancora nel successivo 1499:
(Dicembre:) Il signor Turco fa fabricare nel Mar Maggiore (oggi ‘Mar Nero’) 100 galee sottili e
e 20 grosse a similitudine delle nostre (D. Malipiero, cit. Parte prima, p. 189).
I vascelli remieri si dividevano dunque innanzitutto in grandi, ossia gale(r)e, galee grosse,
galeazze e maone; in mezzani, quali galeotte, bergantini e fuste, fragate o fregate (dal nome
dell’uccello marino) e barche lunghe, questi tutti, galeotte escluse, detti in precedenza, cioè
nel Basso Medioevo, legni, galedelle (anche galladelle e galladelli; dal ltm. galedellus);
infine in piccoli come filuche, castaldelle, speroniere, fisolere, capariole, scovazzere,
grottoline, gondole, schifi, battelli, barchette, sandoni, sandalii (questi erano scialuppe in
origine al servizio dei vascelli bizantini, specie dei dromoni), fregatine, lintri; (l. lintres,
‘piroghe, scorciapini’; gr. μονόξυλα πλοῖα, ‘imbarcazioni fatte di un solo tronco’, ἂδρυα
176
πλοῖα, ‘imbarcazioni prive di alberi’), trabarie, perm(in)e - queste ultime una specie di
gondole turche che facevano servizio tra Costantinopoli, Pera (gr. Peràia, dall’avv. πέρᾰ,
‘aldilà’; l. Peira, Peyra; tc. Galatà) e altre località di quello stretto, da non equivocarsi con le
già ricordate germe - e peot(t)e (‘pedotte, pilotine’) ovvero caic(c)hi, questi ultimi a loro volta
differenti dalle piccole remiere turco-cosacche dallo stesso nome, allora tipiche del
Mediterraneo di levante e del Mar Nero, soprattutto dai caiches o quaiches o anche
quesches (ing. ketch; ol. kits; sp. queche), piccoli velieri della costa atlantica dell’Europa
continentale a un solo ponte e alberati en fourche, alberatura particolare a cui abbiamo già
accennato. Il nome sandalio veniva dal gra. σανδἇλιον, poi corrotto nel grb. σάνδαλον,
nome di un pesce allora esistente, e a Napoli, città greca nell’antichità, fu poi confuso con
quello della calzatura femminile anch’essa greca e chiamata σάνδαλον; infatti ancor oggi i
napoletani chiamano sandalo un’alquanto piatta barca di servizio portuale per il trasporto di
persone e merci e più grande della bettolina (da ‘vitto’, attr. ‘bettola’; sic. tafuraia, dal gr. τό
φορεῖον, ‘barella, portantina’), questa in origine usata appunto per il tasporto di viveri. I
sandalii bizantini erano provvisti di una vela antennata erano equipaggiati di quattro
rematori e un capo-voga. I greci dicevano le più piccole imbarcazioni remiere ἐπαϰτρίδες
πολυήρεις, ‘vascelletti poliremi’; quelle che avevano solo due remi per lato erano dette
ἐπαϰτρίδες ἀμφηριϰαί.
Per quanto riguarda dunque le suddette lintri, si è sempre creduto a torto che le piroghe
fossero imbarcazioni di popoli selvaggi; le ricordava invece già Virgilio nel libro I delle sue
Georgiche al verso 162 (cavat arbore lintres) e Marco Tullio Cicerone, nel suo Brutus,
parlando dell’oratore Curione, racconta che aveva il difetto di declamare piegando
continuamente il corpo da un lato all’altro come se parlasse stando in piedi in una rullante
piroga [Chi parlerebbe da una piroga? (Quis loqueretur e lintre? Par. LX)]. Nel Basso
Medioevo e nel Rinascimento queste imbarcazioni monotronco, quando a vela, erano
conosciute soprattutto con il nome di scorciapini (dal l. scorcium pini, ‘scorza o corteccia di
pino’) e le più grandi spesso servivano le armate di mare a mo’ di grippi o di fregatine
remiere:
I vascelli remieri grandi e i mezzani (gr. ἰουλόπεζοι νῆες, ‘vascelli multiremi’) erano anche
detti vascelli da guerra (l. navigia actuaria, da l. acta, ossia ‘atti, azioni militari’), perché, per
la loro agilità e manovrabilità, molto più atti a combattere dei lenti e impacciati vascelli
177
tondi, la cui attrezzatura velica era ancora molto poco evoluta, e dei veloci ma poco stabili
vascelli latini; potevano inoltre questi vascelli abbordarsi meglio, darsi più velocemente la
caccia e traccheggiarsi più facilmente. Disusati erano ormai nomi medievali quali pamfi o
pamfuli, le(g)nij, ganzar(i)e o ganzer(i)e, ganzaroli, cumbe e lembi.
In sostanza i vascelli remieri presentavano caratteristiche di dimensioni e di peso che erano
logicamente in stretta relazione con i compiti operativi per i quali erano stati previsti e il
numero dei vogatori da impiegarsi quando mancasse il vento doveva di conseguenza
essere in relazione a tali dimensioni e peso. La categoria a cui essi appartenevano era
determinata per semplicità, oltre che per dette dimensioni e peso, anche in base alla
presenza o meno del ponte di coperta; non in base al numero dei remiganti in quanto quelli
senza corsia come le fuste potevano arrivare anche ai tre per banco; li diremo quindi grandi
se galeazze, galee grosse o maone, medi se galere sottili, galere bastarde o galeotte, e
minori se privi di corsia quali le fuste o privi sia di corsia sia di coperta quali bergantini,
fragate, gondole, peote, filuche, castaldelle, schifi, copani ecc.
Le gale(r)e, i vascelli da guerra per antonomasia sino alla fine del Seicento, ma ancora in
uso fino alla seconda metà del secolo successivo, erano di due sorti e cioè bastardelle e
sottili; le prime avevano l'estrema poppa divisa in due, come doi spichi d'aglio (Pantera),
ossia come due mammelle e infatti il termine plurale poppe (gr. πρύμναι) verrà presto in
Italia esteso anche a quel fondamentale attributo femminile, ed erano pertanto a poppa più
quartierate (vn. alla barchesca), cioè più larghe e capaci, e anche erano più reggenti delle
sottili; inoltre a volte erano più larghe interamente, ossia dalla poppa alla prua, e allora si
chiamavano non più galere bastardelle, bensì galere (in)quartierate. Le galere sottili
avevano invece la poppa unita, stretta e aguzza (vn. tagliata o in taglio), erano inoltre non
quartierate anche a prua e pescavano poco; queste così stringate erano più veloci e
andavano meglio a remi, mentre le bastardelle e le quartierate andavano meglio a vela e,
data la loro maggior capienza, potevano portare più combattenti e artiglierie; per il resto
tutte queste galee erano completamente simili. Dobbiamo aggiungere inoltre che una galera
si diceva pianella quando il suo fondo era molto piano e pescava poco.
Per quanto riguarda l’etimologia del nome galea, esso - come di conseguenza anche i suoi
derivati galeotta, galeazza e galeone – è sincopato, nascendo infatti da un originario greco
antico γẵλεοειδής (‘pesce spada’) poi divenuto nel Medioevo γẵλειδάς (l. galeida), ma anche
γαλεότες, γẵλαῖα (vedi e.g. Leone VI (X sec.), Тάϰτιϰα. Constit. XIX, par. 10) e γαλέα-αι (ib.
Constit. XX, par. 74). D’altra parte nel già più volte citato Lexicon del Suida, coevo di Leone
VI, leggiamo:
178
Galéa: il pesce. Anche galéos, ugualmente (Γαλέα. ὀ ἰχθύς. ϰαὶ γαλεὸς, ὀμοίως. T. I, p. 465).
Nel mondo bizantino quel semplificare in galèa che incominciamo a vedere dunque già
nel secolo decimo prese il sopravvento su galeidá e il nome si stabilizzò appunto in
γαλέα-αι, come può confermare la lettura di Costantino Porfirogenito, Teofane, Leone
Diacono e di altri autori inclusi nella preziosa raccolta Corpus scriptorum historiae
byzantinae etc. Bonn, 1828-1897. Da Bisanzio poi si estese a Venezia (galia) e a tutta
l’Europa, ma in Italia troviamo galeide ancora alla fine del tredicesimo secolo:
Anno Domini 1298, in vigilia Nativitatis Dominae nostrae, veneti et cum nonaginta
armatis galeidis et Januenses cum totidem galeidis armatis in mari convenerunt; a
Venetiis vix quinquaginta milliaria latina et in immensum conflictum pariter habuerunt…
(Chronicon excerptum de diversis chronicis etc. In Illustrium veterum scriptorum etc. T.
I. Francoforte, 1583.)
Ma, poiché questo stesso nome galèa era in latino da secoli già usato a significare ‘celata,
elmo’, nei primi tempi, come ci fa sapere il Suida, quando si usava questo termine si poteva
causare confusione e pertanto, quando si voleva sottolineare l’ambiguità di cose di cui si
stava parlando, si usava in Grecia il detto Πλοῖον, ἢ κυνῆ, il quale potremmo oggi tradurre
con un nostro Vascello o cappello? (Cit. L. III, p. 134.)
Frattanto il latino medievale usava ancora spesso triremis, questo dal greco antico τριήρης
attraverso il l. trieris, ma in gr. si diceva anche – e anzi più specificamente - ναῡς τριϰρότος
oppure σϰάφη τρίϰροτος. Nel già più volte citato Lexicon di Esichio leggiamo di particolari
triere dette ψάριδες, delle quali però non sono purtroppo riportate le caratteristiche (Ψάρις:
εἷδος νεὼς τριήρους. Cit. p. 93). Nelle cronache normanne di Romualdo di Guarna leggiamo
che nel 1128 Boemondo d’Altavilla (1108-1130), II di Antiochia, veleggiava appunto verso
quella città con triremis navibus XIX e con aliis sex onenariis, ma nel 1130 il nuovo papa
Innocenzo II arrivò a Pisa portato da una galea pisanorum e più tardi nello stesso anno le
galee pisanorum presero e saccheggiarono Amalfi; infine nel 1129 Ruggero II di Sicilia pose
un blocco navale alla città di Bari con un‘armata che contava, come si riportava, fino a
sessanta velocissime velate galee (stolium, quod, usque ad sexaginta ut fertur, velates
galeae erant velocissimae; questo abbinare i due concetti di velatura e velocità conferma
quanto più avanti si dirà dell’evoluzione dalla triera romana al dromone bizantino e da
questo alla galea. Le galee normanne di Sicilia, per esser tanto veloci, erano
presumibilmente già allora delle biremi, come del resto anche quelle pisane e genovesi;
certamente lo saranno nel 1177, cioè al tempo della pace di Venezia tra l’imperatore
179
Federico I Barbarossa, la Lega Lombarda e l’allora re di Sicilia Guglielmo II, quando cioè
Romualdo di Guarda, plenipotenziario di Guglielmo, vantò che il suo re ogni anno allestiva
le sue biremi per contrastare i nemici di Cristo saraceni e per permettere quindi un viaggio
sicuro ai pellegrini che s’imbarcavano per la Terra Santa [singulis annis biremes suas
praeparat et cum eis armatam militiam destinat. In Cronica (1121-1178)].
Era nel Medioevo in Italia comune anche il diminutivo galedella o anche galadella (lm.
galedelus), questo significante però non una galeotta, perché allora questa era
semplicemente una galea biremi, bensì una monoremo senza corsia, cioè quella che sarà
poi sostituita nel Rinascimento dalla fusta monoremo oppure, se priva anche di coperta,
bergantino monoremo (gr. μονήρης oppure μονῆρες ἀϰάτιον); a Bisanzio, perlomeno nel
decimo secolo d.C., si dirà popolarmente anche μονέριov. Questo suddetto diminutivo
galedella è importante perché evidenzia che il nome basso-medievale galea effettivamente
si originò da un alto-medievale galeda, mentre galera ne è solo una derivazione nata nei
mari della penisola iberica, come tra poco meglio vedremo.
In un editto ligure del 1307 che il Garoni trasse dal della Torre, ma che citò, purtroppo
troppo stringatamente, nel suo Codice della Liguria e col quale, non sappiamo per quale
minaccia allora contingente, si vietava ai finariensi per sicurezza di uscire dal loro porto
salvo che con galee [salvo quod cum galeis, vel lignis armatis exire non possint de Finario
(da ‘Confinario’, poi corr. in ‘Finale’), ben si chiarisce che cosa nel Medioevo s’intendeva
esattamente per galee:
… E s’intendano per ‘galee’ o ‘legni armati’, in questo tempo di pace, quelle che portano più
di un uomo da voga per banco, (quindi) ufficiali e balestrieri a parte; ma in tempo di guerra
s’intendano per ‘galee armate’ quelle vogate ossia che abbiano più di centoventi vogatori
(‘vogerios’. Raffaele della Torre, Cyrologia, P. II, p. 56).
Ciò valeva dunque per le triremi, le quali aveva generalmente 25 o talvolta anche 26 banchi
per lato, e, per quanto riguarda invece le biremi, vascelli da circa 18 banchi per lato - e
comunque da non meno di 16 e da non più di 22 banchi, non potevano dunque certo
raggiungere quel numero di vogatori e infatti nel Rinascimento prenderanno il nome
diminutivo di galeotte, essendo inadeguate alla linea di battaglia e più atte invece a funzioni
di avanscoperta [l. prosumiae (poi prorsumiae), naves speculatoriae; gr. πρόπλοι νῆες,
πρωτόαλοι νῆες], guardia costiera e contrasto della pirateria. A proposito del termine
prosumia, esso si legge tra le citazioni raccolte da Nonio Marcello ed è sempre stato
considerato un nome nautico mal riportato e di difficile interpretazione; niente di più
semplice invece per chi mastichi un po’ di materia militare, perché viene dall’avverbio
180
proto-latino prosum (più tardi prorsum) significante ‘avanti, innanzi’ e insomma si trattava
di vascelletti che andavano appunto avanti alle armate ai fini di avanscoperta.
Nelle antiche triere, non essendo ovviamente stata ancora inventata l’ingombrante
artiglieria, la coperta di prua era abbastanza sgombra da contenere anche un banco per far
seder gli uomini addetti alle manovre e al sifone:
A proposito del suddetto nome galeida, diremo che fu così in Italia per tutto il Trecento, poi
nel secolo successivo fu sostituito appunto dalla sua suddetta sincope volgare galea, forse
per un influsso esercitato dal sempre più importante catalano, dicendosi infatti galea già in
quella lingua, mentre il latino medievale preferiva usare triremis. La similitudine tra detto
vascello e il pesce spada (gr. γαλέα e γαλεὸς) era infatti chiara e semplice, essendo stata
alle sue origini la galea provvista di un forte sperone, strumento diventato poi del tutto
inutile con l’aumentare dell’efficienza delle artiglierie da sparo. Perché poi gli spagnoli
dicessero galera invece di galea si spiega con la loro tendenza linguistica a rendere il
nostro iato –ea con –era e vedi infatti anche gli esempi escalera per il nostro ‘scalea’ e
trinchera per il nostro ‘trincea’. Che il termine non ci fosse giunto dall’antichità era di
comune costatazione:
… Ben si puote affermare ne gli antichi libri greci e latini questo vocabolo ‘galea’ non
trovarsi et essere egli moderno, cioè usato se non dopo che l’Imperio di Roma fu traslatato
in Constantinopoli (Filippo Pigafetta, Trattato brieve dello schierare in ordinanza gli eserciti
et dell’apparecchiamento della guerra di Leone, per la gratia di Dio, Imperatore etc. Venezia,
1586).
Ma quasi due secoli prima del qui citato Pigafetta alla stessa conclusione era già giunto il
cronachista genovese Giorgio Stella:
... Armaverunt januenses maritima vasa decem, quae galeae non vetusto vocabulo dicta
sunt.
... Vasis namque januensibus, galeis appellatis ad praesens,...
... Armata sunt enim Januae vasa sexaginta, non valde prisco vocabulo nuncupata galeae,
...
... Viginti quinque navigia, galeae modernis et non vetustis temporibus nominata, ... (G. & G.
Stella, Annales genuenses (1298-1435) etc. In L. A. Muratori. Cit. Vol. 17, col. 1.066, 1.071,
1.091-1.092 & 1268. Milano, 1730.)
181
E il fratello Giovanni aggiungeva che chiamare ‘galee’ le triremi era in ogni caso da
ignoranti (triremes, nuncupatas modo idiotarum sermone galeas. Ib.) In realtà il nome era di
conio bizantino e ci appare più volte nella sua forma finale γαλέας per la prima volta nel
decimo secolo, cioè nel trattato De cerimoniis aulae byzantinae scritto al tempo
dell’imperatore bizantino Costantino VII Porfirogenito (905-959), specie nei cap. 44-45 del
secondo libro, e poi anche nel l. VIII delle Storie del coevo Leone Diacono, all’anno 972 e
cioè ricordando la preparazione di vascelli da guerra che fece allora l’imperatore Giovanni I
Zimiske per cercare di risolvere il dannosissimo fenomeno della pirateria e delle razzie
esercitate dai taurosciti, popolo che abitava allora la Crimea:
… superavano i trecento, tra lembi e attuari, i quali chiamano ora comunemente ‘galèe’ e
‘monèrii’… (ἐτύγχανον δὲ ὐπὲρ τὰς τριαϰοσίας, συνάμα λέμβοις ϰαὶ ἀϰατίοις, ἄ νῡν γαλέας
ϰαὶ μονέρια ϰοινῶς ὀνομάζουσι (VIII.1).
… con lembi assieme a diciotto tra monoremo e biremi e una triremi (… λέμβοις ὁμοῡ ϰαὶ
μονήρεσι ϰαὶ διήρεσιν ὀϰτωϰαίδεϰα τριήρει μιᾷ. Niceforo Gregoras, Historiae bizantinae
libri XXXVII. L. XXVIII, 18).
In realtà appena nel libro successivo il Gregoras attribuisce all’armata del predetto
imperatore Giovanni V anche delle quadriremi, il che è interessante perché è la menzione
medievale più antica di queste più grandi galee:
Mentre il suddetto nome di γαλέα è,come abbiamo detto, senza alcun dubbio riferibile al
cetaceo dallo stesso nome, non altrettanto si può pensare per il termine γαλεάγρα
182
(‘trappola per mustelidi’, dal gr. γαλῆ, ‘mustela’, e, quindi per analogia, anche ‘prigione,
carcere’), soprattutto in quanto le ciurme bizantine erano composte da volontari salariati e
non da condannati e ciò per una ben consolidata tradizione greca che vedremo poi
continuare nella marineria veneziana, la quale si serviva infatti anch’essa soprattutto di
ciurme greco-schiavone assoldate. A proposito della similitudine tra detto vascello e il
pesce spada il già ricordato d’Aquino cita una chiosa di Filippo Pigafetta alla già da noi
citata Тάϰτιϰα bizantina:
… Il pesce spada, del quale ho preso conoscenza a Constantinopoli, ha nel muso una spada
più d’un braccio lunga, che si confà col becco della galeotta… Le pinne che il pesce
‘galeotis’ tiene al ventre, di qua e di là, dissegnano li remi della galeotta vasello e la coda
parimente di quel pesce rappresenta il timone e la poppa, usando gl’antichi greci di chiamar
la poppa de’ navili ‘coda’… (Cit.)
Erronee sono infine le considerazioni che nel Settecento sia il Muratori sia Desiderio Spreti
fecero su quell’iscrizione funeraria ravennate di un classiario romano includente il termine
galea; abbastanza ben interpretata invece in seguito da Clemente Cardinale, è a nostro
avviso da tradursi definitivamente in questo modo:
Insomma era morto un vecchio timoniero greco di nome Falleo Dioclide, il quale, al tempo
in cui era stato giubilato, serviva su una trireme romana che si chiamava Galea (‘celata,
elmetto’; gr. ), forse perché portava come insegna l’elmo di Minerva, dea, tra l’altro, anche
delle battaglie; qui Galea era dunque il nome proprio di una singola trireme, non un nome
comune, né si ha notizia di altre triremi dell’antica Roma che, per consuetudine, portassero
quello stesso nome e che quindi possano aver dato origine al del resto tanto più tardo
nome comune.
C’è infine da notare, in quanto ai nomi che presero nel tempo i vascelli remieri da guerra,
che, a partire dal secolo successivo a quello della fine dell’impero bizantino (ltm. Imperium
Romaniae), cioè nel greco proto-moderno, s’affiancò a γαλέας il nuovo termine χάτεργον,
col senso di ‘galea carceraria’, cioè spinta da vogatori condannati al remo, il quale quindi
riguardava le triremi e le biremi, e poi anche φοῡστης, ossia l’it. ‘fusta’, per quanto
concerneva invece i maggiori vascelli remieri non provvisti di corsia o addirittura nemmeno
di coperta, non essendo questi infatti mai carcerari, perché non potevano portare un
equipaggio di sorveglianza adeguato e quindi erano adatti solo al servizio dei remiganti
183
... Hora, tornando alla forma della galea, sarei di opinione che, se il quartiero della poppa si
facesse alquanto più stretto del quartiero della prora, verrebbe la galea a caminare con
maggiore velocità; perché, essendo il quartiero della prora più largo di quello della poppa,
romperà e aprirà in modo il mare che il quartiero della poppa, per essere più stretto, non vi
troverà poi tanta resistenza e così con più facilità passerà la galea avanti e, per essere ben
quartierata a prora, reggerà anco meglio sotto le vele. (Cit. P. 71.)
Ma altrove il Pantera ci fa anche capire che al tempo in cui egli scriveva il suo trattato, cioè
soprattutto nel 1612, già prevaleva comunque una concezione più scientifica della nautica e
dell'idrodinamica:
... perciò che la forma proporzionata e regolata con termini matematici, oltre che fa il vaso
più veloce, più sicuro e più forte, lo rende anco più risguardevole e più vago. (Ib. P. 66).
Un altro nome della galera, questo molto raro a trovarsi e ricordato solo dall’Aubin, era il
francese pla(i)ne e non a caso è vocabolo che fa parte del moderno aéroplane; dunque era
nome che doveva riferirsi principalmente allo scafo della galera, cioè a quella parte
principale che anche gli aerei hanno, però con il nome di carlinga o fusoliera. Come può
esser però nato tale inusitatissimo nome? Forse, poiché sappiamo che gli antichi vascelli
prendevano nome generalmente da pesci e mammiferi marini – così come le antiche bocche
da fuoco lo prendevano invece dagli uccelli, non sarà sbagliato ricordare il latino plani
pisces, cioè quei pesci che vulgo furono poi chiamati ‘passere di mare’; ma che forma
abbiano questi e se possano eventualmente aver ispirato anticamente i costruttori di galere
(gr. nτριηροποιόι) non siamo in grado di dire.
Il fusto, ossia lo scafo della galera, cioè la parte sottostante al telaro che reggeva l'unica
coperta, era detto il vivo della galera, mentre tutte le strutture soprastanti erano dette il
morto. Verso l'anno 1600 – ma quanto stiamo per dire vale all’incirca per tutto il precedente
Cinquecento, le galere ordinarie erano lunghe, da tamburo di poppa a palmetta di prua
inclusi (quindi con il solo sperone escluso), 58 cubiti napoletani (m. 42,38), ossia passi
veneziani 24½ circa; erano larghe - le ponentine, ossia quelle tirreniche - circa palmi 22,80
184
(m. 5.55), equivalenti a piedi veneziani 16, mentre le veneziane erano più strette d'un piede
(m. 5,20); infine le ponentine erano alte di scafo sei piedi veneziani (m. 2, o8) e le veneziane
un piede di meno. La larghezza del fondo della galera andava dai 7½ agli otto piedi per le
veneziane e circa un piede in più per le ponentine. Esse avevano comunemente da 24 a 26
banchi di voga per ogni lato, ma se ne trovavano anche moltissime più grosse da 28 e
parecchie da 30 e più banchi, le quali servivano come galere Reali, Capitane o anche
Padrone delle squadre, cioè come vascelli di comando. Non si poteva allungare una galera
più di tanto perché si sarebbe poi dovuto anche allargarla in proporzione, andando così
oltre i limiti d’un vascello sottile, col risultato di renderla troppo pesante, lenta nel corso e
pigra nelle manovre. Questa importante questione è discussa diffusamente dal Pantera
laddove confronta le galere moderne del suo tempo a quelle dell'antichità:
... come si vede per esperienza ne i legni che hanno il corpo molto largo, i quali, se non
sono aiutati dal gran numero de i vogatori, hanno tardissimo moto. Per(ci)ò le galee di
vent'otto e trenta banchi che hoggidì si usano, per haver il corpo più largo ed esser più
lunghe delle galee ordinarie di ventisei, se non si armano a più di cinque huomini per
banco, sono più pigre e più lente nel caminare a remi delle ordinarie armate a quattro o
cinque [...] per esser la forza movente de i remiganti, in comparazione della grandezza e
gravezza del vaso (‘vascello’), molto picciola e poco efficace. Il che mostrò manifestamente
l'esperienza l'anno 1567, quando il Re Catolico fece fabricar in Barcellona una galea di
trentasei banchi di sette remi per uno e con un huomo per remo all'usanza antica, la quale
riuscì molto grave e pigra e poco atta a caminare a remi...(ib. P. 20.)
Vedremo più avanti che cosa significava quel all'usanza antica; dunque, nonostante avesse
ben sette ordini di remi questa galera non riuscì utile e ciò perché, come ben spiega il
predetto Pantera, più lunga era una galera più larga anche doveva essere; il che significava
che il sesto, settimo ed eventualmente anche ottavo rematore, trovandosi molto distanti dal
bordo della galera, dovevano necessariamente essere muniti di remi adeguatamente più
lunghi, quindi anche più spessi per evitare che si spezzassero molto facilmente. Il maggior
peso di questi remi rendeva dunque la loro voga molto più faticosa, lenta e inefficace di
quella degli altri. Tutto sommato, la principal ragione del passaggio al sistema a scaloccio -
sistema che poi spiegheremo - è proprio questa e cioè la necessità d’aumentare il numero
dei rematori senza dover ingrandire la galera né complicare gli ordini di remi; tale esigenza
non si era sentita nel Medioevo perché le galere, fino a Cinquecento inoltrato, erano state in
effetti ancora come quelle dell’antichità, cioè a banchi poliremi - biremi se ordinarie
(leggiere, come nel Medioevo fino al quattordicesimo secolo si era detto), come per
esempio si vede chiaramente nell’affresco senese della battaglia di Punta S. Salvatore di
Spinello Aretino (1346-1410), e triremi se grosse, come nel Medioevo quelle s’erano
185
chiamate), insomma vascelli alquanto stretti in ambedue i casi, non superando appunto di
norma i tre remiganti per banco, eccezion fatta per alcune galere reali, quale per esempio
una quadrireme del re di Napoli Alfonso I d’Aragona. Un’importante differenza da notare tra
le galee medievali e quelle successive stava nel numero dei banchi e quindi dei remiganti;
si perché quelle medievali ne avevano avuto generalmente un numero maggiore,
contandone le biremi perlopiù 27 per lato con 108 remiganti in totale, come più avanti
vedremo, mentre le triremi, specie se iberiche, arrivarono, alla fine del Quattrocento ad
averne talvolta anche 30 con 180 remiganti, e ciò nonostante i pratici della materia
raccomandassero di non superare i 26 banchi operativi; per esempio, nel 1484 Gioan
Andrea d’Oria (1466-1560), soprintendente generale dell’armata di mare spagnola, nella sua
corrispondenza con il sovrano di Spagna Filippo II:
Da alcuni anni in qua si è cominciato a far galere più grandi di quanto si soleva, perché la
maggior Capitana che fosse in armata non aveva più di 26 banchi; ora si fanno di 27 e 28 e,
se Vostra Maestà non comanderà di limitarlo, presto arriveranno a 30. Pertanto riterrei
giusto che Vostra Maestà comandasse che in nessun luogo dei suoi regni si potessero far
galere maggiori di 26 banchi, i quali in effetti, con i due che si mantengono impediti, cioè
quelli del focone e della scialuppa, saranno 28; e creda Vostra Maestà che queste galere
tanto grandi sono, sotto molti aspetti, molto inutili e molto dannose all’armata di Vostra
Maestà e particolarmente perché hanno bisogno di così tanta ciurma per poter camminare
che le altre ne restano disfatte e di molto poco o nessun servizio (Colección de documentos
inéditos para la historia de España etc. Tomo II. P. 181-182. Cit.)
Il d’Oria vuol dire che la ciurma in più per le galere più grosse finiva immancabilmente per
essere sottratta alle altre della squadra, le quali finivano così per avere carenza di
remiganti. Poi invece, nel secolo successivo, troviamo le triremi avere solo 25 o 26 banchi
per lato; perché questo? Erano state le medievali più lunghe? No, non lo erano e la risposta
sta nella circostanza che a prua portavano solo sifoni da soffiar sul nemico materie
incendiarie e non ancora quell’artiglieria di prua che, specie perché bisognosa di rinculo,
avrebbe poi sottratto spazio ai remigi (gr. εἰρεσίαι, ϰωπωτῆρα), cioè alla zona dei banchi di
voga, la quale infatti non era lunga quanto la galea ma era delimitata a prua e a poppa da
zone necessariamente prive di banchi; quella tra la poppa di comando e appunto i remigi
era detta le spalle della galea, in gr. παρεξείρέσια, e quella di prua era il luogo destinato
all’artiglieria principale; ma quando questa comparve a bordo delle triremi? Le galere
napoletane della Tavola Strozzi, la quale sembra rappresentare un episodio del 1464, non ne
mostrano assolutamente e le prime notizie in proposito che ci è stato dato di trovarne sono
quelle del settembre del 1496 nel Diarii del Sanuto, laddove cioè si descrive brevemente la
galera napoletana di Federico d’Aragona, principe di Altamura e di lì a poco nuovo re di
186
Napoli, la quale partecipava al blocco navale di Gaeta, fortezza allora occupata dai francesi
e dai napoletani di parte angioina:
El pizuol (‘La camera di poppa’) di don Federico è tutto soazado (‘incorniciato’) e dorado a
quadri con uno tornoleto vergado, una verga d’oro e l’altra di veludo cremexin, con uno
covertor d’oro et cusini, uno studio (‘studiolo’) tutto dorado con do fenestrele in colomba
(‘a colombaia’) de la galia, zoè verso le canchare (‘gangheri del timone’), con i soi veri
(‘vetri’). Portano uno fanò (‘fanale’) brutissimo. Tutta la sua zurma vestita di rosso fino le
barete. Porta a prova una bombarda, pesa la piera mejo di lire (‘più di libbre’) 120. Tuta la
zurma è incatenata (M. Sanuto, Diarii. T. I, col. 342).
Interessante qui notare che già allora a Napoli s’impiegavano ciurme ‘incatenate’, cioè di
condannati al remo, i quali, nel caso di galere reali, ossia adibite al trasporto di principi di
sangue reale, si facevano vestire in livrea, cioè d’uno stesso colore, berretta inclusa. Inoltre
in quell’occasione Federico, nonostante piovesse molto, volle far visita a una delle galee
veneziane che allora partecipavano al detto blocco:
… Volse veder il pomo dil stendardo e le arme di pizuol (‘le decorazioni esterne all’estrema
poppa’); molto (g)li pia(c)que e el fanò e il pomo e la croce d’argento. Messer (il
sovracòmito) (g)li oferse agradandoli (‘cibi gradevoli’), tamen (‘tuttavia’) nulla volse; e volse
aldir i frauti (‘ascoltare i flauti di bordo’) e andar per tutta la galia fino a prova (‘prua’) e
volse veder manizar (‘maneggiar’) la bombarda e veder la piera (‘il proiettile di pietra’) e
molto (g)li pia(c)que, volendo meterla la sua anche in corador (‘dare anche la sua pietra in
corsia da sparare’). Tornando a poppe, tolse licentia (‘prese licenza di accomiatarsi’)… Ib.
Coll. 341-342.)
Da notare qui quel poppe, perché, più che un errore di trascrizione, potrebbe voler dire che
le galere di comando erano già allora bi-poppute.
Nelle Cronache dei re di Castiglia troviamo parlarsi due volte di galere da 180 remi, quindi
da 30 banchi per lato; la prima volta è all’anno 1370, quando cioè il re Enrico II fece
preparare venti galere per combattere l’armata portoghese ma non si riuscì a reperire un
numero sufficiente di remi:
… Perciò il re fece ripartire i remi che aveva in maniera che ogni galera avesse cento remi; e
quantunque mancassero (così) in ogni galera ottanta remi, il re volle che si provvedesse a
far arrivare con le maree quelle venti galere (fino) alla flotta del Portogallo per combattere
con essa… (Cit.)
C’è poi una clausola del patto di alleanza stipulato il 9 maggio 1386 a Windsor tra il re
d’Inghilterra Riccardo II e la Corona di Portogallo:
187
Lunghezza da ruota a ruota (quindi escludendo il solo sperone): goe 48 (m. 35,57).
Larghezza massima in coperta (“in plano”): palmi 12 (m. 2,96).
Aperta in bocca, cioè misura di cala della carena da bordo a bordo, palmi 16 a 17.
Altezza di puntale (“ad rectam lineam”): palmi 8 (m. 1,98).
Naturalmente il prezzo suddetto era solo per il corpo della galera, oltre al quale gli
acquirenti avrebbero dovuto poi sostenere quelli per l’armamento della stessa, ossia per
sartiame, velame e altre attrezzature di bordo, inoltre calafataggio, spalmatura, marinaresca
ecc.
188
Tra il 1274 e l’inizio dell’anno successivo, su ordine del re di Napoli Carlo I d’Angiò, furono
costruite nei cantieri del regno un certo numero di galee su perfetto modello di una galea
provenzale rossa che era arrivata qualche tempo prima nell’arsenale di Brindisi:
… dello stesso calibro (‘stazza’), forma e tipo della detta galea rossa, tanto riguardo al suo
scafo quanto a tutti i suoi infissi e guarnimenti… [de huiusmodi gallipo, forma et modo
dictae galeae rubrae, tam de corpore eius quam de omnibus afisis (affixis) et guarnimentis
suis. G. Del Giudice, cit. P. 25.)
Poiché, come già sappiamo, il rosso era un colore che distingueva il comando, si potrebbe
qui pensare che la predetta fosse appunto una galea preminente; ma, poiché essa doveva
servire come modello di costruzione per un buon numero di galee, non poteva esserlo e
d‘altra parte si sarebbe dovuto trattare di una trireme, mentre, dalle misure (comunque
approssimate) che seguono, questo non appare. La galea provenzale era dunque lunga 18
canne antiche napolitane e 6 palmi (essendo quella canna divisibile in 8 palmi), cioè m.
39,6825, misura che andava da spalla a spalla incluse (de palma in palmam; più tardi
avremmo detto ‘da ruota a ruota’ incluse). La lunghezza massima dunque non si discostava
molto da quelle che saranno anche in seguito consuete; quella in carena era di canne 13 e
palmi 3, ossia m. 27,5132. Era alta di puntale, cioè al centro dal fondo alla coperta, m.
2,0502625, mentra a poppa m. 3,6375 e a prua m. 2,9982; era larga ‘da cinta a cinta’ (vale a
dire da murata a murata) alla bocca, cioè al centro, m. 3,7037, una larghezza (sp. manga)
che dimostra trattarsi di vascelli strutturati da biremi in quanto, come poi vedremo, quella
delle triremi rinascimentali sarà maggiore di circa un metro e mezzo. All’estrema prua la
larghezza scendeva a m. 1,6754 e all’estrema poppa a m. 1,5873, come da concezioni
nautiche del tempo che poi meglio vedremo; l’angusta corsia centrale era larga m. 0,6613 e
alta sulla coperta m. 0,3968. Su queste galee si vogava con 108 remi (quindi scalmi), il che
significa che, si trattava di biremi con 27 ordini di banchi (gra. ζυγοῖ; grb. ζυγά) e ribadiamo
che non devono sembrare troppi, visto che l’artiglieria non era stata ancora inventata e che
quindi a prua non serviva lasciare libero da banchi uno spazio molto lungo; i remi erano
lunghi m. 6,8783, ma ce ne erano alcuni più lunghi, cioè di m. 7,9365, da usare ai banchi
estremi di prua e a quelli estremi di poppa, zone, come sappiamo, più strette (ib. Pp. 25-26).
Degli alberi e delle vele, le cui misure sono purtroppo giunte sino a noi rese imprecise da
sciatte trascrizioni, possiamo dire che erano allora due e ambedue fissi, cioè il maggiore di
prua circonferente 3½ palmi maggiori (m. 0,9259), alto cubiti 23 (m. 12,1693), con
un’antenna di cubiti 34 (m. 17,9894) e quello minore mediano circonferente 3 palmi maggiori
(m 0,7936), lungo cubiti 14 (m. 7,4074), con un’antenna di cubiti 26 m. 14,2857. La vela
189
maggiore si usava ovviamente sull’albero maggiore, il quale era dunque allora quello di
prua, ed era fatta di 35 ferze, lunga quindi, sia dal lato legato all’antenna, detto appunto
antennalis, sia dal lato del ferzo più lungo, detto invece vallumina (‘ballumina’) 34 cubiti,
cioè quanto l’antenna a cui si legava; quella di mezzana, la quale era destinata invece
all’albero posteriore ed era una vela latina, cioè di forma triangolare, e proprio per questa
sua ideale metà superfice si chiamava mezzana, di ferze 27 era lunga ad ambedue i suddetti
due lati 26 cubiti, ossia m. 14,2857, anch’essa quindi quanto l’antenna a cui si legava. C’era
poi una terza vela, detta terziarolo, di ferze 20 lunga c. 19½ cubiti (m. 10,3174) e così
chiamata appunto perché terza vela della galea, un significato molto semplice, ma di cui poi
col tempo, con il graduale aumentare della complessità della velatura dei vascelli, si
perderà inevitabilmente la memoria.
La circostanza che della vela terzaruolo non si nominassero nell’ordine antennale e
vallumina e che la sua lunghezza non corrispondesse a quella di un’antenna può significare
una sola cosa e cioè che essa era vela di prua, cioè una vela che si legava tra la punta dello
sperone e la sommità dell’albero anteriore per aumentare occasionalmente la velatura.
Circa un quarto di secolo più tardi, cioè alla fine del Duecento, nel regno di Napoli si ordinò
la costruzione di una nuova galea, in relazione alla quale lo studioso Riccardo Bevere
trasse e raccolse dai documeni della Cancelleria angioina numerose informazioni che,
anche se il numero di cubiti della lunghezza è stato riportato palesemente sbagliato in
quanto dovrebbe essere il doppio, tutto sommato confermano le precedenti; però adesso i
remi, cioè gli scalmi, sono 116 (Galea remorum centum sedecim completa ut decet. In
Archivio Storico Italiano etc. Anno 1879. Cit. P. 716), cioè 8 in più di quelli che avevano le
galee precedenti. Questo significa che gli ordini di banchi non erano più 27 ma 29 e
ripetiamo che questo gran numero di ordini era possibile in quanto a questa galee alto-
medievali, rispetto a quelle post-rinascimentali, a prua bisognava lasciare solo uno spazio
per una tromba o una briccola, armi prive di rinculo e quindi bisognose di poca lunghezza
di ponte; d’altra parte non è da supporre che magari nei primi banchi da poppa si facessero
sedere non due ma tre remieri per banco perché la larghezza limitata di queste galee
medievali non lo poteva suggerire. Questo gran numero di banchi, unito alla limitata
larghezza, fa pensare che i criteri di proporzione tra larghezza e lunghezza che saranno poi
adottati per le galee cinquecentesche e – ancor di più – per quelle seicentesche erano
sconosciuti nel Medioevo e che i vascelli remieri cosiddetti sottili lo erano allora realmente,
presentando cioè un garbo molto allungato, garbo che sarà poi mantenuto solo dalle
cosiddette barche lunghe adriatiche.
190
Un altro contratto genovese di costruzione di una galere pubblicato in una miscellanea del
1933 - questo però del secolo successivo perché datato 2 giugno 1383 - disponeva le
seguenti misure:
Qui le tre larghezze suddette sostituivano insieme quella unica detta apertura di bocca che
leggiamo tra le misure precedenti e che era più comune.
Notiamo però innanzitutto che le galere medievali, come del resto già sappiamo, erano,
soprattutto nel Mediterraneo di ponente, in maggioranza delle biremi, quindi più strette e
corte di quelle post-rinascimentali che qui soprattutto ci occupano; per esempio quelle
dell’armata genovese messa in mare da Genova nel gennaio del 1351 contro veneziani e
aragonesi e così ricordate dallo Zurita:
… A metà d’agosto s’ebbe notizia che i genovesi avevano armato sessanta galere, di cui
venti navigavano molto in ordine e quaranta portavano (invece) centoventi uomini al remo e
trenta balestrieri per galera, e che erano partite da Genova e facevano la via di Pera…
(Anales. T. II, L. VIII.)
La battaglia avverrà poi infatti davanti a Costantinopoli. Dunque delle sessanta galere
genovesi venti erano molto in ordine, il che significava che un certo numero dei loro
sessanta banchi (che tanti erano quelli che galere non ancora ingombrate da artiglierie di
prua potevano permettersi), se non talvolta anche tutti e sessanta, erano armati ognuno di
tre rematori, quindi in totale avevano un numero di remiganti intermedio tra 120 e 180; le
altre quaranta galere invece ne avevano solo 120, ossia navigavano a due rematori per ogni
banco. Ecco perché le triremi erano nel Medioevo chiamate grosse e le biremi invece sottili,
essendo cioè le prime più larghe delle seconde in quanto previste anche per un armamento
di tre remiganti a banco; e, quando una triremi, per deficienza di ciurma disponibile,
navigava, totalmente o parzialmente, solo a due remi per banco, ciò non significa che era
diventata una biremi, in quanto sempre una galea grossa, ossia più ampia, restava. Marino
Sanuto il Vecchio (c. 1270 – c. 1343) chiedeva che le galee veneziane fossero pro minori
(‘perlomeno’) disposte ad terzarolos, cioè a tre remiganti per banco, possibilmente anche
ad quartarolos, ossia a quattro remiganti, e, per quanto riguarda quelle di comando, persino
ad quintarolos, vale a dire a cinque remi per banco, perché le diceva decisamente più veloci
191
delle semplici bireme e velocità significava maggiori opportunità di sfuggire non solo a un
nemico superiore ma anche a un uragano (Cit. P. 57); raccontava poi che nel 1290 le galee
veneziane erano ancora tutte ortodossamnete biremi e che solo dopo quella data si era
cominciato a interzarle parzialmente, tanto che ai suoi tempi (1321) l’interzamento era ormai
divenata una prassi comune e generale. Diceva ancora che pochi anni prima che lui
scrivesse, cioè nel 1316, a Venezia si erano provate galee a quattro remi per banco,
guadagnandosene sia in agevolezza sia in velocità rispedtto a quelle a terzaroli. Ma il
Sanuto non si dimostra qui un esperto di navigazione remiera (come d’altra parte non lo
erano molti ai suoi tempi, mancando ancora esperienze che poi si faranno nei secoli
successivi), perché, come abbiamo già accennato, l’aumento del numero dei remi Implicava
anche un aumento della stazza della galea e quind una sua maggir pesantezza; vedremo
infatti, come esempio massimo di quanto vogliamo dire, che le galeazze, le quali, quando si
muovevano a remi, nonostante lo facessero con un gran numero di vogatori, riuscivano al
massimo a fare qualche manovra portuale e, in mancanza di vento, per avanzare dovevano
sempre essere trainate. Probabilmente nell’esperimento del 1316 i veneziani ottennero gli
ottimi risultati affermati dal Sanuto perché non costruirono delle galee apposite di maggior
stazza, ma si limitarono a dire ai remiganti qualcosa del tipo: “Ragazzi, stringetevi il più
possibile.” Sarà infatti solo a partire dalla fine del Cinquecento che, fatta una buona
esperienza di galee bastardelle, cioè, specie a poppa, piu larghe e pesanti, si arriverà a
rendere soddisfacentemente veloci le quadriremi e le pentere.
Altro argomento del Sanuto dovuto a inesperienza troveremo più avanti alla p. successiva,
cioè laddove chiede galee ordinarie con un castello centrale, quindi senza rendersi conto,
più che dell’aggravio che tale altra opera morta avrebbe comportato, visto che ai suoi tempi
ancora mancava quella proderia delle artiglierie, della perdita di navigabilità, perdità che era
invece da considerarsi insignificante nel caso di vascelli fluviali, perché questi navigavano
in assenza di pericolosi flutti e correnti di fianco e con poco veleggio. Comunque egli scrive
presumibilmente attorno al 1320 e, anche se le sue argomentazioni non sono sottili, ci fa
sapere una cosa importante e cioè che trent’anni prima di allora – con precisione ancora nel
1290 - anche le galee veneziane, cioè le ora tanto apprezzate triremi, erano state delle biremi
così come ancora invece lo erano a Ponente le genovesi, le pisane e le amalfitane:
Sapendosi che nell’anno del Signore 1290 quasi in tutte le galee che traversavano il mare
remigavano due remieri per banco, in seguito uomini più perspicaci si resero conto che tre
remieri potevano remigare aldilà di qualsiasi pronostico, come (in effetti) a questo tempo
presente tutti usano (Sciendum quòd in MCCXC Anno Domini, quasi in omnibus galeis quæ
transfretabant per mare, duo in banco remiges remigabant; postmodum perspicaciores
192
homines, cognoverunt quòd tres possent remigare remiges super quolibet prædictorum,
quasi omnes ad præsens hoc utuntur Ib.)
Ma, nonostate fossero dunque all’ora biremi come quelle genovesi, le galee veneziane
erano comunque di quelle più grosse e pesanti, come lo stesso Sanuto narra a proposito
della battaglia navale del marzo 1293 che avvenne nelle acque di Aiaccio Armena tra 28
galee della Serenissima e 22 di Genova, battaglia vinta da queste ultime, le quali attesero
l’assalto del nemico ben frenellate, ossia legate lateralmente tra di loro e inoltre anche unite
da ponti in modo da formare quasi una fortezza difficilmente espugnabile:
… Infatti le galee dei veneziani erano per la maggior parte molto grandi e fortissime e inoltre
caricate per colpire d’impeto e venivano dal mare avendo il vento a favore; mentre le galee
dei suddetti genovesi si presentavano più piccole e deboli e, trattenendosi vicino alla terra,
avevano le prore preparate e armate al’incontro di detto vento (Nam pro maiori parte
venetorum galeae maximae erant et fortissimae et etiam oneratae ad impetum inferendum,
bonumque ventum habentes de pelago veniebant. Galeae vero ianuensium praedictorum,
minores et debiliores galeis suorum hostium existebant, quae prope terra morantes
tenebant proras paratas vel armizatas in contrarium dicti venti. Ib. P. 83.)
Le circostanze negative per i veneziani si ripeterono poi l’anno seguente, quando 60 loro
galee sotto il comando del capitano di stuolo Nicolò Quirino uscirono a a cercarne 40
genovesi che dannificavano i loro possedimenti adriatici e jonici; le avistarono nelel acque
siciliane, alla bocca del Faro, le inseguirono per un giorno, me non riuscirono a
raggiungerle perché troppo più agili e leggere delle loro (quia januensium galeæ
subtilissimae erant, venetorum vero grossìssìmae. A. Dandalo, Chronicon, cit.); ancora poi
qualche anno dopo, cioè l’8 settembre 1298, alla battaglia avvenuta nelle acque di Cursola
in Dalmazia, dove appunto la maggior manovrabilità dei genovesi l’ebbe ancora vinta sulla
maggior forza di quelli:
… avendo i predetti genovesi un numero di circa 60 galee mentre i veneziani di circa 90, con
la (ulteriore) differenza che gli scafi delle suddette galee erano più grandi ai veneziani che ai
genovesi ed inoltre in quelli c’era un maggior numero di gente (habendo januenses prædicti
circa sexagesimum, veneti vero circa nonagesimum numerum galearum, excepto que
januensium prædictarum corpora galearum venetis erant maiora et in eis gens in pluri
numero collocata (ib.)
Successe poi nel marzo del seguente 1299 che i genovesi inviassero due delle loro galee
sino a Methamauco, forse per vedere la reazione dei veneziani; questi, consci ormai che si
trattava di galee più leggere e veloci delle loro, ne cercarono tra le proprie tre che fossero le
più leggere (subtilissimas), le affidarono a tre sopraccomiti stavolta popolari –
193
Anno 1166:
… et cursu velociores dimiserunt illas pisanorum, tamquam ligna aliquibus mercibus
onerata...
… At pisani audientes nos has trigintiduas galêas prasparasse, multò magìs timuerunt,
quàm timueramus de suis, quoniam certi jam multoties experti sunt nostras fuis galêis esse
cursu velociores…
Anno 1242:
… eo quòd ad fugam velociores erant ipsis pisanorum.
Anno 1261:
... Udito ciò, le dodici galere che erano a Portuveneris senza indugio andarono incontro alle
galee dei pisani e le trovarono di ritorno; e stettero vicino a loro tutto il giorno e contro di
loro spesso avanzando e ritirandosi e ferendo molti dei pisani con le frecce, sfidandoli a più
riprese che dodici a dodici venissero in guerra separatamente dagli altri, cosa che i Pisani,
spaventati, non vollero fare; invece tutte le trentasei galee dei pisani, convergendo insieme
contro i genovesi, si affrettavano per catturarli. I genovesi però, veloci come falchi, girando
le terga, spesso si ritiravano rapidamente da loro e poi non cessavano di ritornare con un
corso veloce contro di loro molte volte con le loro bandiere e a mano armata; e così di
giorno beffandoli, venendo la sera li lasciarono e facendo trotta per Pianosa, la quale
194
avevano distrutto, per la Corsica e la Sardegna, catturarono molte navi e galeotte dei pisani
con molto denaro e molti uomini…
Li sconfiggeranno infatti poi del tutto e per sempre nella famosa battaglia della Meloria
(Melera, secondo M. Sanuto il Vecchio) del 1284, dove un centinaio di galee genovesi ne
affrontarono una novantina pisane, anche se, a dire di questo autore, la sconfitta dei pisani
fu dovuta anche all’avere gli stessi nella battaglia il sole di fronte, cioè una cattiva visuale
del nemico. Per quanto riguardava invece i veneziani, questi, considerato che le loro galee
più pesanti delle genovesi già erano, dopo le suddette sconfitte decisero evidentemente di
trasformarle perlomeno in potenti triremi ed è un peccato che, pur trattandosi di un
passaggio miliare ed epocale nella storia della marineria della Serenissima, non se ne trovi
accenno in nessun libro, né vecchio né nuovo, che pretenda di trattare l’argomento; dunque
a partire dall’inizio del Trecento a Venezia le galee biremi militari si abbandonarono per
preferire decisamente quelle più grosse triremi, eventualmente da utilizzare anche ad
quartarolos, cioè col quarto uomo ad ogni banco, e quelle di comando persino ad
quintarolos, anche se in questa maniera si perdeva in agilità di navigazione e in realtà
anche in velocità di corso. Si costruirono quindi da allora galee più larghe e robuste ed
eccone le misure, secondo quanto proposto da Marin Sanuto il Vecchio per la
partecipazione alle Crociate nel primo quarto del Trecento; le tramuteremo anche in metri
secondo questa seguente tabella di misure veneziane:
Galee mediane.
Lunghezza: Uguale a quella delle precedenti (m. 37,44).
Ampiezza di bocca: 20 piedi e un terzo (m. 6,50).
Altezza centrale alla linea di galleggiamento: Uguale a quella delle precedenti (m. 3,04).
Altezza dalla linea di galleggiamento: 7 piedi e 3 dita (m. 2,30).
Galee minori.
Lunghezza: 23 passi e 1 piede (m. 37,12).
Ampiezza di bocca: 14 piedi mezzo (m. 4,64).
195
Le suddette galee grandi sono quelle castellate a prua e a poppa che saranno più tardi dette
galee grosse, vascelli leggermente più piccoli delle galeazze tirreniche, e le galee minori
erano invece le biremi che però i veneziani, come abbiamo già detto, avevano da poco
rinnegato a favore delle triremi; una definitiva conferma delle misure delle galee mediane
medievali veneziane è stata data dal ritrovamento dell’opera viva d’una reale galera
medievale che è stata infatti molto recentemente portata alla luce nella laguna veneziana e
che gli archeologici fanno con giuste motivazioni risalire al periodo a cavallo tra Duecento e
Trecento, relitto quindi unico al mondo nel suo genere, misura 38 metri di lunghezza e
cinque di larghezza centrale, misure che quindi ben confermano anche quelle medievali
genovesi sopra descritte, facendoci solo maggiormente dubitare della già discussa
larghezza della prima; per quanto rigarda l’equipaggio delle galee veneziane in questo
periodo è lo stesso Marin Sanuto il Vecchio (c.1270 - c.1343) che ci da una descrizione che
non è di quello reale, bensì di quello a suo avviso ottimale, il quale doveva dunque
ammontare a 250 uomini in totale:
C’era poi a poppa di solito qualche adolescente che faceva da mozzo al comandante, ma
che non era ufficialmente incluso nel numero dell’equipaggio; questo numro di 250 poteva
occasionalmente poi essere aumentato nel caso al còmito fosse stato richiesto, per
particolari necessità di guerra, a prendere a bordo anche dei soldati da sbarcare e il Sanuto
diceva che il numero massimo degli uomini da tenervi a bordo variava a seconda delle
dimensioni della galea, perché a quel tempo (1321-1323), cioè al tempo in cui, perlomeno a
Venezia, si cominciava a passare dalle biremi alle triremi, ancora si riteneva accettabile e
utile che se ne adoperassero di varia dimensione. Ecco infatti i massimi che egli st stabiliva,
196
Voleva dunque il Sanuto galee triremi di 25 banchi per lato, visto che i remiganti, tra
remigatori e portolatti, erano appunto in tutto 150; non erano previste riserve perché,
all’occorrenza, anche i prodieri erano chiamati a remigare, così come viceversa i remiganti
erano regolarmente impiegati nei più pesanti lavori di inalberamento e velatura e, essendo
quelli veneziani dei volontari scapoli, cioè liberi da ceppi, lacci o catene (dal lt. ex-copulis),
nel caso in cui il nemico venisse all’abbordaggio, si facevano partecipare alla difesa della
galea. lI còmito, come già sappiamo, era allora il comandante della galea, il suo ruolo sarà
poi sminuito e diventerà simile a quello di un nostromo, i gentiluomini di poppa erano eletti
dal capitano generale o dallo stessa Serenissima e avevano un doppio ruolo, cioè fare da
consiglieri del còmito e sorvegliare che la galea fosse condotta in conformità agli interessi
generali dell’armata. Due scrivani contabilizzavano e distribuivano le vettovaglie e gli altri
due le armi; dei nauclerij o gente di poppa facevano parte il nocchiero, ossia il comandante
in seconda, il timoniero con due aiutanti, il barbiero, il tavernaro, l’aguzzino e il cappellano.
30 prodieri possono sembrano troppi, ma solo perché allora includevano i marinai
compagni, cioè quelli che, alle dipendenze dell’aguzzino, sorvegliavano i remiganti. I
balestrieri erano 50. perché, dovendo combattere alle balestriere, se ne poteva colà
appostare non più di uno per banco, e perlomeno quattro di loro dovevano saper suonare
strumenti musicali e cioè dovevano esserci un trombettiere, un pifferaio, un flautista e un
naccarista o timpanista oppure tamburista. I remiganti scelti, cioè i portolatti, termine di
origine latina (portus e latum) equivalente al greco πορθμεῖς, ‘barcaiuoli’, e nelle altre
armate italiane chiamati spallieri, sedevano ai primi banchi a partire dalla poppa e, oltre a
quello di dare il tempo alla voga, avevano anche l’incarico di remare nella scialuppa di
bordo, quando quella fosse usata, cosa che avveniva ovviamente soprattutto quando ci si
ancorava in rada di fronte ad un porto, da cui il loro nome.
Quasi tutti i remieri di Venezia erano, come già sappiamo, volontari e quindi ricevevano una
paga, la quale ammontava all’incirca ai ¾ di quella dei fanti che servivano sugli stessi
197
vascelli; sì perché i veneziani erano, per una tradizione che loro veniva dall’antica classis
romana, convinti che per fare un buon remigante il sistema delle frustate non era affatto il
migliore, perché faceva dei vogatori che potevano anche talvolta esser buoni ma solo per
un tempo limitato, effimero, in molti casi circoscritto addirittura ad una sola missione di
guerra, e che invece, per farne un buon ‘professionista’ della voga, bisognava pagarlo
adeguatamente, come del resto in qualsiasi altro mestiere; ecco infatti he cosa scriveva a
tal proposito all’inizio del Trecento il suddetto Marin Sanuto il Vecchio, da noi già più volte
citato:
… Infatti un vascello ha bisogno di rematori in gran numero adatti ad esso: poiché remare è
un atto o esercizio faticoso, per il quale i rematori soffrono come per una fatica intollerabile.
Pertanto nessuno assunto per un simile lavoro potrebbe sopportarlo, a meno che non gli
fosse del tutto pagato, essendo stato egli addestrato e scelto solo per quello scopo (Liber
secretorum fidelium Crucis etc. Cit. P. 74).
Quello sopra descritto dal Sanuto sarebbe dunque dovuto essere per lui l’equipaggio
ordinario ideale di una galea mediana e sembra già troppa gente per un vascello lungo
meno di 38 metri; ma poi lo stesso autore aggiungerà che, in caso di trasporto di milizie in
un teatro di guerra, la galea grande poteva arrivare ad avere a bordo 400 persone, la
mediana 300 e la minore da 260 a 270; ecco dunque spiegato perché le epidemie
scoppiavano sulle armate di galee tanto frequentemente.
Rafaino Caresino (1314-1390), prosecutore del cronachista e doge Andrea Dandalo (1306-
1354), riassume in l. i naviganti delle galee veneziane di quel tempo nelle seguenti
categorie:
Supracomites.
Comites.
Consiliarii.
Armigeri.
Prodarii.
Balistrarii.
Remigii.
Il titolo di sopraccomito era stato istituito a Venezia nel 1261 dal doge Renier Zen, come si
legge nel Chronicon di Andrea Dandalo, anche se probabilmente essi erano allora limitati
alle sole galee triremi e maggiori in genere:
Nel suo decimo anno dogale il doge fece capitano di 37 galee armate Jacobo Delfino e
sopraccomito di ogni galea un nobile cittadino e decretò che sei di questi fossero
consiglieri del capitano (Decimo Ducis anno armatis XXXVII. galéis Dux Jacobum Delphino
198
Capitaneum, & cuilibet galéæ unum Nobilem Civem Supracomitem fecit, & fex ex ipfis
Consiliarios Cápitanei fore decrevit. In Chronicon, 1261).
Si tratta dunque di consiglieri diversi da quelli del predetto elenco, dove invece il titolo è
generalizzato ed esteso a tutta la gente di poppa in generale, timonieri compresi, e lo stesso
avviene per quello di prodiero, generalizzato però a tutti i marinari, cosa ammissibile sulle
galere veneziane in quanto i remiganti non erano forzati e quindi non c’era bisogno di
personale di sorveglianza ed anche perché le biremi medievali avevano un solo albero. Per
quanto riguarda invece le guarnizioni militari, si era qui evidentemente nella fase di
passaggio dai fanti di marina armati di armi bianche e di archi a quelli invece ‘più moderni’
armati soprattutto di balestra. Infine, diremo che qui ancora il termine remigii significava
‘remiganti’ e non ‘luogo dei remiganti’ come sarà più tardi.
Per quanto riguardava lo stato maggiore che in quei tempi medievali doveva essere a
disposizione del capitano generale dell’armata, il Sanuto elenca il seguente personale
ottimale:
Ovviamente c’erano poi i famuli, ossia i famigli, degli ufficiali e dello stesso capitano
generale; tornando però ora alla già menzionata armata genovese del 1351, di essa si legge
pure nel già ricordato Chronicon estense, dove però con maggior precisione ci si dice che
le galere approntate erano non 60 ma 55 e di tutte si da il nome del comandante, del
proprietario o della città armatrice:
Giovanni Scurtavecchia
Guasparino Apoloniense (’da Apolonio’)
A queste 55 galere s’aggiungevano 5 galee grosse cariche di biscotto, di carni salate (l.
carnes salitae), di balestre, di scale ecc. Infine un portatinus (forse ‘portantinus’) da 60 remi,
cioè un legno armato porta-ordini di cui poi meglio diremo:
… Item unus portatinus cum 60 remis, qui habet officium praecipiendi omnibus parte
admiralii (Chronicon estense. Cit.)
Il predetto elenco è importante perché si tratta della più antica rivista nominale di un’armata
di galere che sia giunta sino a noi. Certo c’è un brano del Muntaner che sembra smentire
quanto più sopra detto; egli vi descrive una battaglia navale avvenuta il 29 dicembre 1325
nella rada di Cagliari per il possesso di quella città tra galere genovesi e pisane comandate
dall’ammiraglio genovese Gaspare d’Oria e aragono-catalane capitanate dall’ammiraglio
aragonese Francisco Carrós; per la cronaca, fu vinta dai secondi i quali così sottrassero
Cagliari al dominio pisano. Il d’Oria, non segnalato e confidando nella sorpresa,
s’avvicinava con i suo vascelli a quelli nemici, i quali si trovavano all’ancora in rada; ma il
Carrós l’aveva ben visto e ordinò a tutte le sue galere di non ritirare l’ancora, ma di tagliarne
la gomena direttamente, perché altrimenti il nemico, capendo da quel trambusto di esser
stato scoperto, avrebbe subito fatto marcia indietro sottraendosi allo scontro, scontro che
invece l’ammiraglio catalano, confidando nelle sue forze, anche se inferiori di numero,
voleva:
... che ciascuna lasciasse andare la gomena (dell’ancora) perché, se l’avessero invece
sarpata, immediatamente quelle se ne sarebbero fuggite, che più velocemente sarebbero
andate quelle con 20 remi di quanto avrebbero fatto quelle dell’ammiraglio (nostro) con 150
(Muntaner. Cit.)
Ci sembra però evidentemente che qui ci troviamo di fronte a due errori del trascrittore,
perché, parlandosi in altri punti di detta Crónica di una maggior leggerezza e velocità delle
galere pisane e genovesi (ταχυναυτοΰσαι τριήρεις. Niceforo Gregoras, Historiae bizantinae,
l. XXVIII, 25), si sarà certo pure qui voluto dire che, anche se dette galere erano soprattutto
delle biremi e quindi con un numero di rematori molto inferiore a quello che avevano le
triremi catalane dell’ammiraglio Carrós, ciò nonostante esse erano più veloci in quanto più
agili e leggere e si sarebbero quindi facilmente sottratte allo scontro appunto approfittando
della loro velocità; infatti minor stazza e minor numero di uomini significava anche minor
disponibilità a scontrarsi in battaglia con delle pesanti e affollate triremi. In sostanza,
secondo noi, quel con 20 remi va interpretato come ‘con 120 remi’, cioè 2 remiganti x 60
201
banchi, e quel con 150 invece come ‘con 180’, avendo infatti le triremi 3 remiganti per i detti
60 banchi. D’altra parte il d’Oria, a volte anche troppo prudente, non avrebbe certo
affrontato delle galee da battaglia con delle piccole monoremo da 20 remi, cioè con quelle
che i greco-bizantini chiamavano εἰϰόσοροι o anche εἰϰοσήρεις, tipo del quale nell’antichità
aveva forse fatto parte anche la pistrice, nome questo del pesce-sega (dal gr. πρίστις,
attraverso i corrispondenti l. pristis, pistris e pistrix) e che questo vascello aveva forse
perché munito di un lungo sperone.
Nel 1296, nell’ambito della guerra tra Venezia e Genova per il predominio sui ricchi traffici
marittimi di merci orientali che dalle rive del Mar Nero, attraverso il Bosforo e i Dardanelli,
andavano a raggiungere l’Europa, una grossa armata di 75 vascelli remieri (μαϰραῖς ναυσὶ)
veneziani, la quale era stata inviata ad assalire Galata, sobborgo genovese di
Costantinopoli, mentre, entrata dall’Ellesponto, s’avanzava nel Mar di Marmara vogando –
evidentemente perché in tempo di bonaccia, s’imbatté in una di biremi genovesi e, forte
della sua superiorità d’armamento, si mise in caccia per andare ad affrontarle; ma quelle,
più leggere e veloci delle grosse triremi veneziane, non si fecero raggiungere, sottraendosi
così a uno scontro sicuramente svantaggioso per loro:
… Mentre dunque quelli (i veneziani) si avanzavano a remi, essendo loro apparse navi
lunghe dei genovesi naviganti non lungi, affrettarono il corso verso di loro; ma, essendo
quelle più leggere e confidenti nella loro velocità, indugiarono per un po’, ma poi, appunto
perché navigavano molto meglio e più velocemente di quelli che si avvicinavano,
mantenevano la distanza. Allora, fatti due o tre tentativi, visto che si sforzavano invano, le
lasciarono perdere e riempirono delle loro navi il porto di Keras [ἐϰεῖνοι δὲ τότε͵ ὠς
προσελῶντες ᾀνήγοντο͵ νῆας μαϰρὰς φανείσας Γεννονἳτῶν ἐγγύθεν πλεούσας ἐπέσπευδον
τὴν (φοράν) πρὸς ἐϰείνας. ἁλλʹ αἰ μὲν ἐλαφραὶ οὗσαι͵ θαρροῦσαι τῇ ταχύτητι͵ ἐπʹ ὁλίγον
προσέμενον͵ ϰαὶ πλησιαζόντων ἑϰείνων ἀὐτοὶ ταχυναυτοῦντες πολλῷ πλέον ἣ πρότερον
ἀπεῖχον διάστημα. τοῦτο δὶς ϰαὶ τρὶς γεγονός͵ ἑπεὶ ἐώρων πονοῦντές ἀνήνυτα͵ ἀφέντες
ἐϰείνους πληροῦσι νεῶν τὸν λιμένα τὸ Κέρας. Giorgio Pakymeres, cit. T. II, L. III, par. 18].
L’armata veneziana poteva far scalo a Keras (porto di Costantinopoli) perché l’imperatore
bizantino Andronico II Paleologo (1282-1328) si era in quella guerra dichiarato neutrale. E’
appunto di questo periodo, ossia dei primi anni del Trecento, la vicenda del corsaro
genovese Andrea (forse un d’Oria), il quale, al comando di due navi ‘pirate’, come le
chiamavano i bizantini, e usando come base lo stesso porto di Costantinopoli, predava in
quei mari vascelli di ogni nazionalità; egli corrispondeva all’imperatore parte dei bottini e
per questo era da lui tacitamente tollerato, ma, poiché, nonostante le raccomandazioni di
Andronico, il corsaro assaliva e depredava molto volentieri anche i mercantili degli odiati
202
… passarono venticinque galere di Genova in ordine di battaglia […] però, vedendo che la
nostra armata si stava loro avvicinando, arrancarono con i remi e si fecero al largo con
tanta velocità (‘ligereza’) che non si poterono seguire e in tal maniera tornarono a porsi
davanti alla nostra armata altre due volte in ordine sia di battaglia, se ne avessero
considerata buona l’occasione, sia di fuggire se fosse loro convenuto, perché in velocità le
loro galere avevano gran vantaggio sulle nostre… (Anales. T. II, L. VIII.)
… e scrisse allora al doge che le galee del nemico erano armate contro i veneziani a mo’ di
corso, tanto agili e veloci nel remigare che a loro piacere e senza alcun rischio potevano
aggredire, inseguire e fuggire; al contrario le triremi veneziane, lente a causa della loro
corpulenza, valevano molto negli scontri ed erano sempre adatte al combattimento aperto e
regolare, dove bravamente combattevano con i nemici… (L. Monaci, Chronicon. L. XII, p.
218.)
In sostanza il Pisani chiedeva al suo governo di fornirgli galere altrettanto agili e veloci di
quelle di cui disponeva il nemico genovese. Questo non vuol dire che generalmente a
Venezia non si apprezzasse il ruolo delle galere leggere da corso (iuxta cursum), solo che
era considerato molto secondario rispetto a quello delle triremi da battaglia e infatti solo
qualche mese prima della predetta richiesta del Pisani il dogato aveva ordinato ai cretesi di
armare, oltre alle solite feudatarie, cioè a quelle di proprietà privata, galere pubbliche
proprio da corso:
203
… oltre alle galee dei feudatari armino a mo’ di corso contro i genovesi; se trovano
armatori, dando loro gratis corpi di galea, armi ed altre agevolazioni ed inoltre panatica,
purché non imbarchino né merci né mercanti, essendo loro il lucro (‘bottino’) suddiviso dei
beni dei nemici… e, se non trovassero chi volesse armare in corso, armino a stipendio
pubblico quattro galee oltre a quelle dei feudatari (ib. P. 211).
Due anni dopo di quanto suddetto, cioè nel 1356, terrà conto Pietro IV d’Aragona nel
preparare un’armata di mare da inviare in Sardegna contro i genovesi e contro i suoi ribelli:
… e si vararono sei nuove galere, due di ventinove banchi perché fossero più agili e leggere
nel corso e le altre quattro di trenta banchi, com’era il più normale (‘como era lo mas
ordinario’) … (G. Zurita, Anales. T. II, L. VIII, p. 268 recto
Naturalmente qui lo Zurita, quando dice ‘29’ e ‘30 banchi, intende per ogni lato e non in
totale. Dunque è pienamente confermato quanto da noi già più sopra concluso e cioè che le
galere medievali, le quali nella loro poca iconografia rimastaci sono generalmente
raffigurate alquanto più corte di quelle moderne, devono questa loro irrealistica immagine
all’economia dello spazio pittorico di cui gli artisti, allora non preoccupati da necessità di
realismo, tenevano molto conto; le galere insomma avevano nel Medioevo alcuni ordini (gr.
στίχοι) di banchi in più di quelli che si potranno poi permettere a partire dallo stesso
Cinquecento, a causa della presenza dell’ingombrante artiglieria che queste ultime
dovranno portare a prua. Chiariamo che per ‘ordini di banchi’ s’intendevano le file di questi
in orizzontale e quindi e.g. una galea da 26 ordini aveva 52 banchi in totale, cioè 26 per lato;
sia in latino sia in greco ‘ordini di banchi’ si diceva, come già scritto, ‘gioghi’ (l. juga; gra.
ζυγά, grb. ζυγοῖ). La predetta circostanza significa una cosa importante e cioè che le
medievali non erano sostanzialmente più corte delle moderne, se si eccettua infatti quel
prolungamento di prua detto palmetta che queste presentavano e che serviva per il
caricamento frontale delle artiglierie, ma la vera differenza con queste stava nella
circostanza che quelle erano spesso più spesso biremi che triremi mentre le moderne erano
quasi tutte triremi. A proposito della detta palmetta, bisogna dire che essa poteva essere
anche comoda per far sbarcare in fretta delle fanterie, facendole calare da lì in schifi e
fregatine, evitando così di dover impacciare e affollare le scalette di poppa; per questo
stesso motivo nel Medioevo, cioè quando le galee non avevano dunque palmetta in quanto
l’artiglieria da polvere non era stata ancora inventata, talvolta in vista della battaglia o dello
sbarco per andare a contribuire a scontri di terra si preferiva togliere qualche banco di
quelli mediani della galera per crearvi un piccolo largo nel quale i soldati potessero
204
affollarsi per scendere o salire a bordo più comodamente da quel punto; così si fece sulle
galee genovesi che si preparavano alla battaglia di Porto Conte in Sardegna avvenuta nel
1353, come racconta Niceforo Gregoras nelle sue Historiae bizantinae (Έξαιροΰσι δʹαὗ τῶν
ἐρετιϰῶν ἐϰ μέσων ἐνίας ϰαθέδρας, ἴνʹὡς ἐν ἐπιπέδῳ τὴν μάχην ποιῶνται ϰαὶ ἀϰωλύτους
τάς τε ἒξελάσεις ϰαὶ ἐπελάσεις ϰαὶ τὰς παρόδους ἔχωσιν. L. XXVIII, 20).
Che nel Trecento le galere catalane fossero più grosse dell’ordinario, cioè in sostanza erano
quelle che, a Ponente, più ricordavano le antiche e pesanti triere della Roma imperiale,
mentre nel Levante erano così le bizantine, è confermato anche da un altro passo delle
predette Historiae bizantinae di Niceforo Gregoras nel quale si narra degli antefatti della nel
frattempo intercorsa battaglia di Porto Conte in Sardegna, avvenuta il 27 agosto 1353, con
la quale Genova perse Alghero, perché la sua armata di mare comandata da Antonio
Grimaldi, la quale contava 65 galere, fu sconfitta dal summenzionato veneziano Nicolao
Pisani, alla cui armata di 30 galee se ne era però in precedenza unita una catalana
anch’essa di 30 vascelli:
… e si congiunse ai catalani con le loro, come dicemmo, trenta triere, grandi e assai cariche
di molti e scintillanti opliti (… ϰαὶ ξυμμιγνὺς τοῒς Κατελάνοις σὺν οὖς εἰρήϰειμεν τριάϰοντα
τριήρεσι μεγάλαις τε ϰαὶ μάλα γε λαμπροῒς ϰαὶ πολλοΐς τοῒς ὅπλοις βριθούσαις. L. XXVIII,
24).
Di detta grandezza si legge anche al precedente anno 1352 negli Historiarum libri IV di
Giovanni VI Cantacuzeno (… ἐϰ Κατελάνων τρεἴς τριήρεις μέγισται.... IV, 31). Anche le
stesse ordinanze marittime catalane del Trecento attestano che si trattava di triremi, come
per esempio si legge nella prima grande ordinanza per galere che la storia ricordi, cioè
quella appunto aragono-catalana promulgata a Barcellona il 5 gennaio 1354 dal re Pietro IV
d’Aragona a beneficio del suo ammiraglio, il catalano Bernat de Cabrera, allora tornato da
una grande vittoria marittima ottenuta in Sardegna sui genovesi; in essa si ordinava che in
ogni dominio di quel re ciascuna galea disponesse di 156 remieri - il che significa quindi
galee triremi di 26 banchi per lato, due dei quali erano palomers (cst.. palomeros, buzos;
“palombari”), cioè erano dei bravi sommozzatori utilizzati per andare a controllare lo stato
del fasciame immerso del vascello, specie appunto la paloma (“colomba; chiglia”) quando
magari si fosse con essa inavvertitamente toccato un fondale scoglioso. In più, dell’ordine
dei remiganti faceva parte anche il senescal, cioè quello che più tardi sarà chiamato
alguacil (‘aguzzino’) e che era in pratica era un esecutore di giustizia (Ordenanzas de las
armadas navales de la Corona de Aragon etc. Pp. 94, 100. Madrid, 1787}. In verità la coeva
Ordinacio dels salaris è forniments dels acordats de les armades aggiunge che, nel caso di
205
galee di 29 banchi (per lato), i remiganti dovevano essere 4 di più, ma, poiché questi numeri
non tornano, deve esser stato molto probabilmente tramandato un errore di trascrizione,
cioè o sono troppi i 29 banchi o sono troppo pochi i 4 remieri in più (ib.)
Prima dell’invenzione dell’artiglieria o canne da polvere, cioè della necessità che le galee
potessero da prua tirare proiettili a fior d’acqua (per il nivello dell’anima o anche di punto in
bianco, come allor si diceva) quelle catalane si distinguevano anche per aver poppa e prua
particolarmente più elevate di quanto normalmente già le avessero le altre galee che si
vedevano nel Mar Tirreno {… Catalani […] cum XXII galeis habentibus altas puppes et
proras aliquantulum elevatas… Saba Malaspina, Cit. All’anno 1282. L. IX, cap. XIX; …
Vertunt igitur versus Regium proras altas… Ib. All’anno 1284. L. X, cap. XXII}. Questa
caratteristica doveva dar loro un aspetto laterale alquanto arcuato e quindi un garbo meno
vantaggioso dal punto di vista della velocità remiera.
Per quanto riguarda invece le galee bizantine, il suddetto autore parla poi di una squadra
composta appunto da ‘due grandi triremi e undici monoremi’ che accompagnava il già
menzionato imperatore Giovanni V Paleologo (1332-1391) in un suo viaggio per mare
(μεγίσταις μὲν τριήρεσι δυοῒν, μονήρεσι δʹἐϰϰαίδεϰα. Ib. L. XXIX, 27); poco più avanti lo
descrive poi ancora accompagnato da veloci monoremi e biremi e da una triremi
(ταϰυναυτούσαις μονήρεσι ϰαὶ διήρεσιν [...] ϰαὶ τριήρει μιᾷ), confermandosi quindi che le
triremi bizantine erano grandi e pesanti (τριήρεσι μαϰραῑς. Giovanni Cantacuzeno,
Historiarum libri IV. I, 26) e di conseguenza meno veloci delle le galee più sottili; e ancora:
Perché poi le triremi bizantine fossero pesanti vascelli sembra fosse dovuto, più che alla
loro stazza, sottile come qualle di tutte le galee, al mantere l’uso antico di portare in guerra
opere morte aggiuntive innalzate in coperta, ossia piccole torri dall’alto delle quali poter più
comodamente bersagliare il nemico; ciò infatti sembra di capire a quanto scriveva il
suddetto Cantacuzeno a proposito dello scontro navale bizantino-genovese avvenuto nel
1348 al largo del sobborgo costantinopolitano di Galata, allora possedimento genovese,
quando cioè le triremi bizantine, prima ancora i vascelli nemici, furono sorprese e messe
fuori combattimento da un improvviso forte vento che tra l’altro abbattè le loro torri di legno
(οἱ ξύλινοι πύργοι. Historiarum libri IV. IV, 11). A proposito di quest’armata che
Cantacuzeno, pur se il suo impero versava già allora in grosse ristrettezze finanziarie dalle
206
quali non si sarebbe più ripreso, aveva fatto preparare e costituire ex-novo per combattere i
genovesi, Niceforo (Niceforo Gregoras, fa un accenno alla sua consistenza iniziale
(Historiae byzantinae. L. XVII, par. 5) e si trattava dunque di nove triremi - definite ‘grandi’
galee - e per il resto monoremo e biremi {… τριήρεις […] μεγάλαι μὲν ἐννέα, μονήρεις δὲ ϰαὶ
διήρεις πλείους,…}; inoltre si era ottenuto da molti dei plutocrati di Bisanzio che armassero
a loro spese scialuppe e piccoli vascelli d’appoggio e cioè lembi militari e vascelli attuari
(λέμβους στρατιώτιδας ϰαὶ ἁϰάτια. Ib.) Il comandante del lembo militare aveva un grado e
infatti in greco si diceva lembarco (gr. λέμβαρχος). Un’altra difficoltà era stata la mancanza
di un tempo sufficiente a fornire ai vascelli ciurme ben addestrate alla voga di
guerra,essendo state in gran parte formate con legniaiuoli e zappatori frettolosamente
reclutati a forza nelle campagne della Tracia, la quale restava in sostanza l’unico importante
possedimento del già molto declinante impero bizantino (ltm. Imperium Romaniae):
… non tutti avendo infatti familiarità con il mare e i remi, ma al contrario per la maggior
parte sostentandosi con il far legna e con la zappa. I quali (vascelli) infatti, essendo solo di
poco avanzati, già non affondavano certamente i remi con la velocità e il buon ordine
militare, ma anzi esercitando perlopiù una voga disordinata e ineguale e deviando dalla
rotta (μηδὲ γὰρ εῒναι πάντας ἐν συνηθεία θαλάττης ϰαὶ ϰώπης, ἀλλʹ ἀπόζοντας τοὺς
πλείους δεηδροτομίας τε ϰαὶ σϰαπάνης· αἱ δὲ μιϰρὸν προβᾶσαι σχάζουσι τὰς ϰώπας, οὐ
μάλα σὺν τάξει ϰαὶ ϰόσμῳ στρατηγιϰῴ, ἀλλʹ ἐν ἀϰοσμίᾳ τὸ πλεῑστον, ϰαὶ ἐτεροζυγοῡσαν
τὴν εἰρεσίαν ποιούμεναι, ϰαὶ τοῡ εὑθέος παραγομένην.) (Ib.)
Nel 1378 Vittorio Pisani, figlio del predetto Nicolao, incontrate nell’Adriatico forze di galere
genovesi inferiori alle sue, vide il nemico fuggire a rifugiarsi nel porto croato di Jadra
(‘Zara’), ma ritenne inutile inseguirlo per due ragioni e cioè che le sue galee erano più
grosse e quindi più lente delle genovesi, anche perché erano in quella circostanza cariche
di frumento e di altri viveri:
… prima, quia galerae venetorum grossiores erant et pigriores; secunda, quia oneratae
erant frumento et aliis victualibus… (A. de Redusiis, Chronicon. In L. A. Muratori, Rer. It.
script. T. XIX, c. 768.)
Il primo gennaio dell’anno seguente egli si trovò fermo a Pola a spalmare (‘insegare’; ltm.
palmizare, palmisare; vn. impalmare; gr. Κονιάειν; sp. despalmar), cioè a rinnovare il sego
che proteggeva la parte immersa dello scafo, con 5 galee grosse e16 galere sottili,
finalmente a due remi per banco, come i due Pisani da tempo dunque sognavano, ma tutte
cariche di frumento, quando inattese si presentarono davanti a quel porto 14 galere sottili
genovesi, mentre altre 10 si erano fermate, non viste, nei pressi di Pola; i veneziani
uscirono ad affrontare il nemico, ma, nel pieno della battaglia, apparvero le altre 10 galere
207
genovesi e i veneziani, presi dal panico, si dettero alla fuga a terra, lasciando ben 15 dei
loro vascelli in mano al nemico con duemila prigionieri, tra remiganti, marinai e balestrieri.
Insomma quest’episodio insegnò che i veneziani non erano da tempo più fatti per
battagliare con leggere galere biremi, come invece appunto ancora facevano molto ben fare
i loro nemici genovesi.
C’è comunque da chiarir meglio che, anche se genovesi e pisani preferivano le biremi - e
ciò risulterà ancora nel 1478 (arribaron seys galeras sotiles de genoveses y una fusta.
Zurita, Anales. L. XX, c. XVIII), ciò non significa che al bisogno non si dotassero anche di
triremi; infatti per esempio nel 1295 i genovesi, cercarono d’intimorire la nemica Venezia,
dichiararono di essere in grado di approntare facilmente contro di lei un’armata di ben 162
galere, in maggioranza triremi (‘CLXII galeas, quarum LXXXX erant triremes, reliquae
biremes’. L. Monaci, Chronicon, p. 256). Per la cronaca, lo scontro principale avverrà il 15
agosto dell’anno successivo all’isola di Curzola, dove le settanta galere genovesi di Campa
d’Oria prevarranno, ma con pesantissime perdite, sulle 90 veneziane di Andrea Dandolo.
Finché, nelle secolari guerre che la opposero a Venezia per il predominio sui commerci di
Levante, Genova ebbe l’opportunità di scontrarsi per mare solo in ‘battaglie fluide’, cioè
potendo sempre sottrasi agli scontri con i più potenti vascelli nemici, avvalendosi di una
maggior manovrabilità e velocità, le cose andarono bene per i genovesi; ma quando,
sbagliarono i loro calcoli e, con la guerra per Chioggia degli anni 1377-1381, pretesero di
andare ad affrontare i veneziani in ‘battaglia solida’, cioè sotto le stesse coste lagunari e
chioggiotte del nemico, allora, dopo i primi successi dovuti alla miglior preparazione e alla
sorpresa, i loro deboli vascelli, anche se numerosi, ebbero alla fine la peggio; e il maggior
danno non fu tanto la perdita di vascelli, perché Genova aveva tante volte dimostrato di
poterne ricostruirne a centinaia, ma fu la perdita di tantissimi uomini di esperienza e valore,
praticamente di un’intera generazione di ottimi combattenti marittimi. Il risultato fu l’inizio di
una irreversibile decadenza della potenza marittima genovese e al contrario di un
consolidarsi di quella veneziana nei traffici di Levante; fu dunque la stessa disgrazia storica
che nel 1284 aveva colpito la repubblica marinara di Pisa per la grande sconfitta da questa
subita alla Meloria ad opera proprio dei genovesi. Insomma la validità della tecnologia
bellica marittima ha sempre nella storia determinato fortune e disgrazie dei maggiori
potentati europei.
Col passare dei secoli, il numero delle triremi aumenterà a discapito delle biremi, fino ad
arrivare al Cinquecento, quando cioè, come già detto, le biremi saranno di numero tanto
inferiore da non chiamarsi più, come già detto, nemmeno galere bensì solamente con il più
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riduttivo nome di galeotte, nome già di qualche uso nel Medioevo, come leggiamo per
esempio nel Muratori (Rerum, t. 12, p. 250, n. I) a proposito dell’armata di mare che verso il
1082 l’imperatore bizantino Alessio chiese al doge veneziano Domenico Selvo d’inviargli in
aiuto contro la minaccia di Roberto il Normanno; soprattutto le biremi non saranno più
considerate vascelli di linea di battaglia, perché troppo meno armate ed equipaggiate delle
triremi nemiche che si sarebbero trovate di fronte; anzi dalla stessa fine del detto
sedicesimo secolo le galere da schieramento di battaglia cominceranno lentamente a
trasformarsi in quadriremi e talvolta anche quinqueremi. Per fare un esempio, l’armata che
nel 1415 il re Giovanni di Portogallo portò a combattere in Africa e che conquistò Ceuta
(Cepta) in Maritania comprendeva 33 navi, 27 galere di tre remi per banco, 32 di due remi
per banco e 120 vascelli minori, quindi numeri pressocché pari di triremi e biremi (Zurita,
Anales, L. XII, c. LII); quella di Giovanni II d’Aragona nel 1469 sarà invece di 15 triremi, 6
biremi e 6 navi grosse d’armata (ib. L. XVIII, c. XXIV). Avrebbe però fatto eccezione l’armata
turca che andò alla conquista di Costantinopoli nel 1453, la quale, secondo lo storico
bizantino coevo Laonikos Kalkokondilos (c.1423-1490), includeva, oltre a numerose triremi,
anche diverse quinqueremi, laddove narra della necessità che ebbero a un certo punto i
turchi di trasportare via terra settanta delle loro migliori galee, per aggirare così gli
impedimenti marittimi predisposti a difesa del porto dagli assediati (διεβἰβασε δὲ πλοῑα ἐς
τὰ ἑβδομήϰοντα, πεντηϰοντόρούς τε ϰαὶ τριηϰοντόρους. In De rebus turcicis, l. I).
Da quanto narra dei suoi tempi il già citato cronachista bizantino Giorgio Franzes, sembra
che i veneziani - e gli italiani in genere - fossero soddisfatti dalle loro triremi e che quindi
non sentissero il bisogno di quadriremi; infatti, a proposito del viaggio fatto in Italia nel
1438 (anno 6945 del calendario bizantino) dal suo imperatore Giovanni VIII Paleologo, del
cui seguito Giorgio fece parte, con il purtroppo vano proposito di chiedere aiuto finanziario
e militare contro la crescente minaccia ottomana, narra che l’8 febbraio, giorno del suo
arrivo a S. Niccolò del Lido, il doge andò a riceverlo in pompa magna per portarlo in città e il
suo Bucintoro, vale a dire il vascello trionfale (triumphalem navem pro more bucentaurum
dictam. Alessandro Peanzio Benedetti, cit. F. 119 recto) di Venezia, era scortato da una
dozzina di galee per l’occasione tanto ornate di ori e pitture e con il personale di bordo
tanto vestito di tessuti intessuti d’oro da aver poco da invidiare allo stesso Bucintoro; si
trattava, scriveva il Franzes, di quelle ‘semitriere’ che i ‘latini’ nella loro lingua – in questo
caso in veneziano - chiamavano quadriere (… ἦλθον δὲ μετʹ αὐτοῦ ϰαὶ ἒτεραι ἠμιτριήρεις, αὶ
ϰατὰ τὴν τῶν Λατίνῶν διάλεϰτον τετραήρεις ἐπονομαζόμεναι, ὠσεὶ δύο ἐπὶ δέϰα… Cit. L. II,
cap. XIV.) In quest’osservazione del Franzes si legge un’implicita stizza perché tanta
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… ed era l’armata di 55 galere di tre remi per banco e portava molte navi grosse per passar
cavalli e artiglieria, le quali in quelle parti d’Oriente chiamavano ‘parendere’ (it. palandarie.
T. 2-2, l. XX, c. LXXIX).
Erano certo in ciò agevolati gli ottomani dall’aver allora un’illimitata disponibilità di
remiganti, sia schiavi cristiani sia volontari – ma in realtà semi-schiavi – mediorientali, sia di
danaro tributario. Ciò detto, ritorniamo ora alle misure delle galere medievali e, sperando
che tutte le suddette siano state riportate con esattezza, specie la larghezza della prima
galera (un po’ poca, come a noi sembra), notiamo che la maggior larghezza della seconda
potrebbe anche giustificare quella d’una triremi, anche se poi la limitata lunghezza della
stessa sembra smentirlo; altra singolarità è che la prima, anche se più corta, era però un po’
più profonda (palmi 8 invece di 7,2).
In effetti, qualche metro di lunghezza in più delle galere del Cinquecento rispetto a quelle
medievali dovrebbe essere giustificato in queste soprattutto dalla presenza della palmetta,
copertino d’estrema prua che, in quanto serviva principalmente ai bombardieri per caricare i
210
loro pezzi, non doveva logicamente esser presente nelle galere quando non ancora non
esisteva l’artiglieria a polvere pirica, cioè prima del Rinascimento, e le galee avevano a prua
solo un sifone, vale a dire un grosso e leggero lancia-fiamme fatto di ferro, ma ricoperto di
rame perché non si arruginisse troppo presto; di tale arma, con la quale si tentava (spesso
con successo) d’incendiare la nave nemica per evitare in tal modo di doverla
sanguinosamente abbordare, così infatti, con nostra traduzione, si dispone nella già citata
Тάϰτιϰα bizantina del sec. IX°:
… Avrai senza dubbio avanti a prua un sifone rivestito di rame, com’è d’uso, per lanciare
sui nemici l’approntatosi fuoco; e in alto sopra detto sifone un falso-ponte di tavole
circondato da una murata d’assi nel qual stiano uomini che combattano chi assale da
prua o che bersaglino tutta la nave nemica con quante armi si conoscano (Constit. XIX,
par. 3. Trad.d.A.).
Il sifone, il quale spesso, perché incutesse più timore al nemico, era a forma di leone o
d’altro animale feroce con le fauci aperte, dalle quali usciva il fuoco, poggiava su banco
quadrupedato (τετράϰουλον) e che fosse uno strumento alquanto delicato, da riparare con
semplici stagnature quando fosse deteriorato dal fuoco, e di conseguenza pericoloso per
chi gli stava dattorno durante il suo uso è dimostrato da una delle voci di spesa che
troviamo al par. II.45 del già citato De cerimoniis:
… si erogarono per un totale di altre 200 libbre di stagno date al fonditore Michele per vari
lavori di stagnatura dei sifoni del naviglio dell’imperatore … 36.0. (ἐδόθη ὐπὲρ ἀγορᾶς
ἐτέρου ϰασιτέρου λίτραι σʹ τὰ δοθέντα Μιχαὴλ χυτῇ λόγῳ ϰαταϰολλήσεως διαφόρων ἒργων
τῶν σιφουνίων τοῡ βασιλιϰοῡ πλοῒμου ͵͵ λς√.)
Supponiamo che la cifra di denaro λς√ voglia significare 36 follis di rame e 0 pentanummi di
bronzo, monetazione in vigore al tempo del predetto trattato. Poco più tardi l’imperatore
Costantino VII Porfirogenito raccomanderà che ogni dromone disponesse di tre sifoni per
poter così sostituire in battaglia quello in uso che si deteriorasse e inoltre che l’armata ne
portasse altri di riserva (De cerimoniis aulae byzantinae. II.45). Inoltre in un’armata s’armava
di soffione di prua anche la naggior parte dei vascelli d’appoggio; nel caso di quella di 20
dronomi prevista dal suddetto imperatore, si doveva armare di due sifoni ciascuno dei 40
usiachi (‘uscieri’) e di un sifone 24 dei 50 pàmfuli. Al predetto scopo incendiario s’usava
lanciare nella nave degli antagonisti anche pignatte di creta molto frangibili e piene dello
stesso materiale igniforo, come leggiamo per esempio nel Chronicon di Giorgio Franzes
laddove si descrive di uno scontro tra vascelli cristiani e preponderanti turchi avvenuto nel
211
1453 nell’ambito del conflitto che sfociò nella conquista ottomana di Costantinopoli e si
dice appunto dei materiali offensivi che dall’alto delle coffe dei primi si lanciavano sui
secondi per contrastarne i tentativi d’abbordaggio:
… essi con pignatte ben riempite di fuoco liquido e con pietre da lungi di rimando gli
ostacolavano determinandosi una grande strage tra di loro (αὐτοὶ δὲ μετὰ χύτρων
ϰατασϰευασμένων τεχνιϰῶς πυρὶ ὐγρῴ ϰαὶ πετρῶν πάλιν αὐτοὺς μαϰρόθεν ἀπεμπόδιζον
διὰ τὸ γίνεσθαι πολὺν φόνον ϰατʹ αὐτούς. Cit. L. III, cap.III).
In tempi precedenti, come leggiamo nello Στρατηγιϰόν del VI° sec. attribuito all’imperatore
Maurizio (539-602), i dromoni dell’Impero Romano d’Oriente alto-medievale avevano portato
spesso a prua, invece del suddetto sifone, una piccola ballista, in modo da poter colpire da
lontano il nemico con più grossi proiettili, e ciò s’usava non solo quando tali vascelli non
dovevano impegnarsi in una battaglia navale, ma magari anche quando erano utilizzati in un
fiume in appoggio a una spedizione di terra; si trattava di una macchina lanciatrice sì di
piccole palle di pietra o di piombo (da cui appunto il nome ballista) spinte sul canale
centrale del fusto, ma soprattutto di grossi quadrelli o giavellotti dalla punta incendiaria,
perché limitarsi a colpire un vascello nemico con un grosso dardo (gr. ἰός, βολίς) appuntito
sotto la linea di galleggiamento per procurargli solo una falla significativa non era cosa
facile, così come non lo sarebbe stata anche più tardi con la pirobalistica.
Certamente i suddetti dromoni, avendo due livelli di voga sovrapposti e quindi essendo più
alti delle galee, erano di queste più grosse e pesanti, e, considerato anche il loro
relativamente non grande numero di vogatori, non erano, come vedremo, affatto
grandissimi.e non erano quindi per nulla da paragonarsi per dimensioni a quelle che poi,
dall’Alto Medioevo, saranno le galee grosse di mercanzia veneziane e le galeazze tirreniche,
queste peraltro vascelli a un solo livello di voga; si trovano comunque storici alto-medievali
che li dicevano grandi vascelli e vedi già Alberto di Acqui (nel sec. XI (navem
immanissimam, quam appellant dromonem. Hystoria hierosolymitanae expeditionis, L. X,
cap. XIV. In Patrologiae cursus cumpletus etc. T. CLXVI. Parigi, 1854), a seguire poi con il
grossissimo dromone da carico che il re inglese Riccardo I catturò nelle acque della
Palestina nel 1191, vascello che, proveniente da Baruti (ltm. Beritum, ‘Beiruth’) carico di
mercanzie e materiali bellici, era diretto ad Acon (‘Acri’) in soccorso di quella guarnigione
mussulmana allora assediata dai crociati, ma il quale, col suo ricco carico di mercanzie e
materiali bellici e soprattutto con i suoi millecinquecento (sic) uomini a bordo (a meno che
non si trattasse di un numero erroneamente esagerato), non poteva certo essere un
dromone classico, per quanto grande potesse essere; a finire con il Chronicon anglicanum
212
… avendo assoldato un trealberi corsaro da gran carico del valore di seimila stateri d’oro e
con duecento rematori, la quale era accompagnata da tre rimorchi (μνριοφόρον ναῦν
λῃστριϰὴν μισθωσάμενος τριάρμενον ἐξαϰισχιλίων χρυσίου στατήρων, ἐν ᾖ ἐρέται μὲν
διαϰόσιοι, ἐφόλϰια δὲ τὰ συνεφεπόμενα ταύτῃ τρία. In Alexiadis. L. X, 8).
Premesso che il Suida, autore bizantino del decimo secolo, parla di ‘onerarie veloci’
(δρομάδας ὀλϰάδας), come però prima di lui già Aristofane e il Polluce e invece più tardi la
Comnena, il che potrebbe confermare l’esistenza di onerarie multivela ribadiamo, come già
accennato, che l’aggettivo ‘piratico’ non si riferisce al tipo o alla stazza del vascello –
trattandosi qui infatti di un grosso remiero, bensì all’armamento e alle funzioni per le quali
era stato noleggiato (e non a caso questo si trascinava dietro tre imbarcazioni nemiche
abbottinate), i duecento rematori possono solo essere attribuiti a un grosso chelandio-
pamfulo monoponte, tipo di vascello veliero-remiero di cui abbiamo già detto. Ma, per
quanto riguarda questo grosso vascello noleggiato dai normanni, abbiamo da esporre
un’altra ipotesi, a nostro avviso più realistica, e più avanti lo faremo. Infine, per quanto
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riguarda l’uso dei vascelli a tre alberi, Giulio Polluce (II sec.) nel suo Onomastikon ne
attribuisce uno già al re di Macedonia Antigono II Gonata (319 a.C. – 239 a.C.).
Fatto dunque come era il dromone tradizionale, cioè a due ponti remieri e quindi con garbo
più tondo che sottile, a causa di questa sua altezza e pesantezza non poteva essere certo
avere, ma nemmeno lontanamente, la velocità della galea, essendo questa appunto sottile e
monoponte, ma forse poteva gareggiare almeno con i larghi chelandi, i quali qui sappiamo
essere, perlomeno a questa tarda epoca, vascelli veliero-remieri. Che comunque il doppio
livello di voga conferisse necessariamente a quel vascello remiero una notevole stazza
erano consapevoli già gli stessi bizantini, come si evince dalle raccomandazioni fatte al
riguardo dall’imperatore Leone VI (866-912) nella sua Тάϰτιϰα:
Ma l’errore di fondo è stato, già a partire dall’Alto Medioevo, proprio quello di credere che il
nome derivasse da ὀ δρόμος (‘corsa, corso, carriera’), mentre esso, allo stesso modo di
quello di galea, deriva semplicemente da quello di un animale marino e cioè dall’omonimo
δρόμων (‘granchio’), nome il cui significato Esichio Alessandrino (V sec.) nel suo Lexicon
spiega brevemente appunto così: Δρόμων͵ ὀ μιϰρός ϰαρϰῖνος· (‘dromone, il piccolo
granchio’). Lexicon. P.n.n. Venezia, agosto 1514. Si potrà obiettare che il vascello così
chiamato non era ‘piccolo’, tutt’altro; ma il raffronto delle dimensioni non è rilevante, perché
Esichio scriveva nel V sec. e del vascello dromone, come abbiamo visto, si comincia a
parlare nelle storie più tardi, cioè nel VI; infatti Esichio, visto che ai suoi tempi ancora non
c’era, non lo include nel suo lessico. Non si capisce però perché non lo includa nemmeno
Suida nel suo, visto che con lui siamo ormai al IX secolo; il primo a includerlo è invece quel
Lexicon di anonimo da qualcuno attribuito a Giovanni Zonaras (XI-XII sec.), ma da altri
considerato precedente: Δρόμων͵ εἶδος πλοίου (‘Dromone, tipo di vascello’). Lexicon. T. I,
c. 570. Lipsia, 1808.
Leone VI scriveva chiaramente che, per operazioni veloci, quali guardie e missioni,
bisognava usare le galee o monere, cioè quei vascelli remieri particolarmente leggeri in
quanto non solo avevano un solo ponte di voga ma erano anche monoremo (... che
chiamano ‘galaie’ o ‘monere’ … οἰονεὶ γαλαίας ἢ μονήρεις λεγομένους. Constit. XIX, par.
10). Veniamo qui a sapere una cosa molto interessante e cioè che galee era un nome che
sostituì gradualmente quello di liburne e fu dato dapprima a questi vascelli nella loro
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versione monoremo e poi fu man mano esteso anche alle liburne biremi, triremi e
quadriremi; sì, perché come si legge chiaramente in Vegezio, dopo la battaglia di Azio del
31 a.C si prese a sostituire i vascelli da guerra romani, sostanzialmente quindi le pesanti
triremi, con le più leggere ed agili liburne, vascelli di origine piratesca nati appunto nella
piratesca Dalmazia settentrionale, e dunque si cominciò a chiamare liburne tutti i vascelli da
guerra romani, qualsiasi numero di ordini di remi avessero, e non solo le monoremo, come
erroneamente credette poi verso il 1300 Marino Sanuto detto il Torsello. Per riassumere, le
liburne sostituirono in epoca romana le più antiche triremi, per poi essere nell’Alto Medio
Evo a loro volta sostituite dalle galee; a prescindere comunque dagli errori - anche fatti da
scrittori medievali – che si possono trovare, in realtà nell’antichità pre-cristiana alle diere e
triere si potevano essere teoricamente affiancate tetrere, pentere, esere ed eptere, a
seconda del numero di remi, ai tempi dell’impero romano liburne di remeggio diverso non
assumevano più quei nomi, perché di vascelli remieri particolari non più esistenti, ma si
dicevano biremi, triremi, quadriremi, quinqueremi, esaremi, eptaremi ecc.
Per quanto riguarda invece i dromoni, vascelli da guerra di origine bizantina, che il loro
garbo o forma non fosse consono a vascelli sottili lo dimostra anche la circostanza che,
quando poi anche in battaglia si preferirono a loro le galee, ai dromoni resterà, per quanto
riguarda la guerra, quasi esclusivamente il compito di tragittare con maggior sicurezza la
cavalleria e infine quello di trasportare materiale bellico di supporto; ecco per esempio
quanto, nella seconda metà del dodicesimo secolo, Guglielmo da Tiro ricordava della
grande armata navale preparata nel 1144 dall’imperatore bizantino Manuele I Comneno per
la sua prima campagna di Antiochia:
… Nella detta armata c’erano effettivamente 150 navi remiere (longae) rostrate, fornite di
due ordini di remi, più atte agli usi di guerra, le quali chiamano comunemente ‘galee’; inoltre
un numero di più grandi, sessanta in tutto, era destinato al trasporto dei cavalli, avendo
usci alle poppe in modo da introdurli e da estrarli liberamente, agevolandosi l’ingresso e
l’uscita, sia dei cavalli sia degli uomini, anche con qualche ponte; infine, ancora più grandi
di quelle, dieci o dodici che chiamano ‘dromoni’ e che erano caricate fino alla sommità di
vario genere di vettovaglie e di molteplici di armi, di macchine e congegni bellici. In Belli
sacri historia etc. P. 493. Basilea, 1549.)
Queste parole di Guglielmo confermano quanto da noi qui osservato e cioè che le armate
medievali di galee erano generalmente costituite da biremi e che i dromoni, poiché biponte,
erano vascelli remieri alquanto pesanti; questo lascerebbe intendere anche la seguente
frase di Teofilatto Simocatta:
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… essendosi disposte onerarie dalla veloce navigazione (di quelle) che generalmente
solevano chiamare ‘dromoni’ (ταχυναυτούσας ὀλϰάδας παραστησάμενος, ἂς δρόμωνας
εἲωθεν ὀνομάζειν τὸ πλῆθος (Historiae. L. VII, par. 10).
In verità il Simocatta si dimostra qui poco esperto di marineria; le ὀλϰάδες erano comuni
vascelli onerari non remieri, mentre i dromoni lo erano e inoltre, anche se remieri alquanto
panciuti, cioè un primo esempio di quella che poi sarà la categoria delle galee grosse e
delle galeazze, non si potevano certo considerare dei velieri né tanto meno onerari. D’altra
parte si smentisce più avanti, cioè quando narra della fuga da Costantinopoli
dell’imperatore Maurizio, il quale, per realizzarla, s’imbarcò proprio su un dromone (…
quella che i più usano chiamare dromone… δρόμωνα δὲ ταύτην εὶώθασι τὰ πλήθη
ἀποϰαλεῖν. Ib. L. VIII, par. 9.) Una scelta che non avrebbe certo fatta se si fosse trattato di
una lenta oneraria.
Vero è che le galee, una volta armate anche di alberatura, cominciarono esse stesse a
navigare a vela di regola e a riservare la voga solo alle manovre portuali, all’uscita dai porti
alla ricerca del vento, al piccolo cabotaggio in tempo di bonaccia e infine al remare con
forza disperata contro vento o corrente contrari quando ci fosse pericolo di andare a
rompersi contro delle scogliere, per cui la ciurma dei remiganti, smise di essere anche
milizia combattente, ma divenne anche marinaresca. Bisogna però anche dire che, se i
dromoni, allora usati solo per uso bellico, fossero stati vascelli troppo lenti, il detto
imperatore bizantino Leone VI non avrebbe deciso, come invece leggiamo nel trattato De
administrando imperio (cap. 51) scritto dal figlio Costantino VII Porfirogenito (905-959), di
usarne per spostarsi per mare al posto del tradizionale chelandio agrario (‘chelandio armato
a corso’) - non sappiamo però quanto scortato – che era stato usato fino ad allora dai suoi
augusti predecessori, come confermano vari scritti, a cominciare dalla stessa Tattica del
suddetto Leone VI laddove ci informa che l’imperatore, quando fosse lui stesso a capo
dell’armata, doveva navigare non su un dromone ordinario, ma su uno che fosse non solo
equipaggiato con uomini di prim’ordine, ma anche più grande e veloce, il quale era detto
pamfulo:
… sarai portato da un dromone più grande e più veloce di tutti gli altri, in quanto, quando
sarai al comando di detto tuo dromone che chiamano pamfulo, sarai a capo di tutta
l’ordinanza di battaglia. (… τὀν δρόμωνα δὲ μεγέθει ϰαὶ ταχύτητι τῶν ἂλλων ἀπάντων
διαφέροντα͵ ὡς ἂτε ϰεφαλήν τινα τῆς παρατάξεως ἀπάσης· ϰαὶ ϰαταστῆσαι τὸν τῆς σῆς
ἐνδεξότητος τοιοῡτον δρόμωνα͵ τὸ δὴ λεγόμενον πάμφυλον· Constit. XIX, par. 37.)
216
Ecco dunque perché ancora oggi diciamo pamfili gli yachts privati particolarmente grandi e
lussuosi. Chiuderemo questa questione dell’ipotetica velocità dei dromoni con
un’osservazione curiosa e cioè che dagli antichi autori greci il dromedario era detto δρομὰς
ϰάμηλος, cioè ‘cammello veloce’; Giovanni Malalas, autore bizantino del sec. sesto, lo
chiama invece ‘cammello dromonario’ [δρομωναρίαν ϰάμηλον (2) (l. XII); ϰαμήλους
δρομωναρίας (l. XVIII)], quindi non da δρομὰς (‘veloce’) bensì da δρόμων (‘dromone’).
Insomma evidentemente per lui, se il cammello era la ‘nave del deserto’, allora il veloce
dromedario era il ‘dromone del deserto’…
Che gli imperatori facessero in precedenza uso di un chelandio, anzi di un chelandio rosso,
di quel tipo da corso detto agrario (εἰς ῥούσιον ἀγράριον. In De administrando imperio. Cap.
51) si legge anche nel cap. 18 del De cerimoniis aulae bizyantinae, opera dello stesso
predetto imperiale autore, e soprattutto nella Chronographia di Teofane, in cui si narra
infatti che nel 789 l’imperatore Costantino VI fu portato in un chelandio a Bisanzio, dove,
per ordine della sua stessa madre, che voleva prenderne il posto, e di consiglieri di questa,
fu poi crudelmente accecato. A disposizione dell’imperatore c’erano sempre stati ben dieci
chelandi agrarii ormeggiati nel fiordo di Stenos sulla costa albanese e, per privilegio
imperiale, equipaggiati appunto di steniti, marinai allora molto apprezzati, essendo in effetti
questi chelandi grandi vascelli remiero-velici generalmente non armati e usati per
l’ordinario in guerra solo come onerari di sostegno, ecceziona fatta appunto per quelli detti
agrarii (‘cacciatori’), cioè un tipo armato, agile e veloce da usarsi, se non in battaglia
formata come invece i tetragoni dromoni, certamente per la guerra di corso. In realtà Leone
VI aveva preso l’dea dal padre Basilio I, il quale, avendo necessità o desiderio di portarsi
dietro un numero molto maggiore di cortigiani, già aveva interrotto la tradizione iniziando a
viaggiare in un dromone equipaggiato sia di rermiganti provenienti dal chelandio agrario di
cui si era dunque sino ad allora tradizionalmente servito sia appunto di marinai steniti (De
administrando Imperio, cap. 51) e navigante di conserva con un secondo dromone che
portava appunto il resto della sua corte e che da questo suo compito subalterno prese poi
appunto il nome di Secondo. Si dirà che avrebbe potuto scegliere di viaggiare con due
agrarii senza ricorrere ai dromoni, ma evidentemente era più facile far viaggiare uniti di
conserva due stabili e forti dromoni che due più leggeri vascelli di corso. I remiganti
imperiali dei suddetti agrarii e poi quindi anche dei due dromoni dell’imperatore erano in
parte russi ed in parte africani subsahariani (ib.), il che significa certamente che erano
schiavi, e la loro gestione dipendeva dal protospatario reale, il più importante funzionario
della corte bizantina; ma, quando i due dromoni imperiali tornavano dal servizio
217
… Dio condurrà il sacro Imperatore con la potente difesa lignea di 6 pamfuli [… Διὰ τῶν ὲξ
παμφύλων δόρϰας (ʹ δόρεας ʹ) ὄσας ὀδηγήσει ὁ Θεὸς τὸν βασιλέα τὸν ἄγιον· Ib. II.45.]
spinto le repubbliche marinare italiane a usare per i loro traffici marittimi extra-mediterranei
galee grosse e galeazze, con la differenza però che quelli erano vascelli molto capaci,
mentre i dromoni avrebberio potuto, come già accennato, solo piccole quantità di merci più
pregiate e degne quindi di viaggiare con maggiore velocità e sicurezza.
Si legge inoltre che differiva dunque dalla galera basso-medievale soprattutto per il suo
taglio o garbo, ossia per la sua forma, perché non era, abbiamo detto, come questa un
vascello proprio sottile ma era invece alquanto tondo, ossia era del genere sia delle triere
dell’antica Roma sia di quelle che saranno poi la galea grossa veneziana e la galeazza
tirrenica, anch’esse del Basso Medioevo; e che non fosse molto sottile si legge nella
menzione fattane da Paolo Silenziario, poeta bizantino del sesto secolo, il quale lo dice
ϰύϰλιος, ‘rotondo’ (ϰύϰλιον εἰσορόωσα δρόμον διδυμάονος ἂρϰτου, in Descriptio Sanctae
Sophiae). Ancora nella predetta Тάϰτιϰα si dispone comunque che i dromoni si dovessero
costruire non troppo corposi, perché non risultassero poi troppo lenti al corso, ma
nemmeno tanto esili da non resistere all’urto di vascelli nemici; essi erano stati introdotti
dai bizantini non in aggiunta alle antiche triere romane ma in completa sostituzione di
quelle, come si evince da un altro passo della stessa Тάϰτιϰα:
… con quelle che una volta si dicevano ‘triere’ ed oggi invece si chiamano ‘dromoni’… (διὰ
τῶν ποτε λεγομένων τριηρῶν͵ νῦν δὲ δρομώνων ϰαλουμένων. Const. XIX, par. 1.)
Ma questo non significa affatto che triere e dromoni fossero vascelli molto simili, anzi il
dromone differiva da tutti i suddetti vascelli soprattutto perché aveva remiganti distribuiti
su due ponti di voga differenti, mentre la triera romana in tutte le immagini che ci sono
d’essa rimaste mostra sempre un solo livello di voga; un’altra differenza era che questa
presentava però due camminamenti laterali sopraelevati di combattimento, mentre i
dromoni, strutturati con due ponti remieri, certamente non li avevano; il peso totale sarebbe
stato infatti insopportabile per un vascello squisitamente remiero. I banchi, prescriveva
l’imperatore Leone VI nella sua Tattica, dovevano essere almeno 25 per fianco, quindi
almeno 50 per livello, volendo in sostanza dire che un dromone ordinario doveva avere non
meno di 25 banchi, ma, mentre ai banchi inferiori sedevano sempre 50 remiganti, cioè uno a
destra e uno a sinistra della stessa fila, i remiganti superiori potevano variare di numero, in
genere da uno a tre per lato di banco; quindi andavano generalmente da un minimo di 100 a
un massimo di 200-220 in totale. Certo è che, nell-ambito dei preparativi per la seconda
impresa di Creta, quella cioè del 949, per l’allestimento di un’armata di 20 dromoni il suo
succitato figlio Costantino VII prevedeva una fornitura di 2.400 remi, cioè 120 a dromone,
219
non essendoci però purtroppo possibile capire dal corrotto testo rimastoci se trattavasi di
remi ordinari o invece di remi di riserva (II. 45). Poiché i remiganti bizantini e generalmente
balcanici non erano criminali condannati alla voga ma generalmente volontari e solo in
minor parte schiavi, essi avevano l’obbligo di fungere anche da soldati e quindi
combattevano regolarmente; molto disposti al servizio remiero bizantino erano gli
τζάϰωνας (‘zàcconi’; corr. di λαϰώνες, ‘lacòni’), cioè i greci di Morea e dei territori
occidentali della Grecia in generale, ottimi quelli dell’arcipelago, e li chiamavano
popolarmente προσελῶντες (‘coloro che spingono avanti’). Anche pronti al servizio militare
navale in generale erano quei costantinopolitani διγενεῖς (gra. δίγονοι), cioè dalla doppia
genìa, che colà dicevano volgarmente γασμοῦλοι (‘gasmùli’); erano quei cittadini, figli di
padri italiani (generalmente mercanti genovesi o anche veneziani) e di madri bizantine, ai
quali evidentemente non si offrivano molte opportunità nella vità civile, costringendoli
pertanto a cercar fortuna nel mestiere delle armi, e si trattava insomma dell’equivalente
greco dei giannizzeri di Napoli, cioè di quei cittadini partenopei figli di padre spagnolo e di
madre napoletana, i quali però, al contrario dei suddetti gasmùli, non si vergognavano della
loro generazione, anzi ne andavano fieri essendo gli spagnoli i conquistatori. Nella lingua
veneziana c’era un termine simile, italianadi, il quale però aveva un significato più generico,
significando figli di stranieri vissuti ed educati in Italia.
I remieri superiori, scriveva Leone VI, dovevano essere i più esperti, combattivi e i meglio
armati, trovandosi in battaglia a maggior contatto col nemico, e manovrando i remi più
lunghi e quindi più pesanti, dovevano necessariamente esser più abili e forti anche nella
voga, infatti i dromoni erano anche letterariamente chiamati δολιχήρετμοι νῆες, cioè
‘vascelli dai lunghi remi’; al contrario quelli del ponte inferiore, poiché adibiti a una voga
meno faticosa e inoltre più riparati dal nemico, erano solitamente i meno esperti ed abili e
dovevano, per quanto riguarda il combattere, solo servire a rimpiazzare i caduti e i feriti dei
ranghi superiori e ciò facevano, salendo in coperta, generalmente armati di picche
predisposte nei pressi dei loro banchi di voga. Probabilmente fu la suddetta disposizione
dei rematori che farà poi preferire le galee ai dromoni e renderà questi obsoleti, cioè perché
ci si rese finalmente conto che vogare a un livello superiore a quello del pelo d’acqua
significava un molto maggior dispendio di energie, il quale naturalmente si risolveva in
minor velocità e minor resistenza allo sforzo; si preferì dunque, ai fini quindi di acquisire
maggior velocità ed agilità natiche, rinunziare non solo ai due livelli di voga ma anche ad un
tipo di combattimento nautico più adatto a una stabile fanteria, quel modo cioè che si era
sempre tenuto nelle antiche triere greco-romane perché facilitato dal potersi combattere da
220
due corridoi laterali sopraelevati, e ci si abituò invece a farlo dalle strette e impacciate
balestriere (gr. πάροδοι; l. interscalmia, balistariae) poste tra gli ordini di banchi di voga e le
basse fiancate. Ma i dromoni avevano una corsia centrale sopraelevata come quela delle
galere? Da un ricordo narrato nel cap. 51 del De administrando imperio, opera che si
attribuisce allo stesso imperatore Costantino Porfirogenito, sembrerebbe di sì; Micaele, il
vecchio protospatario del predetto imperatore, il quale, come spesso avveniva a Bisanzio,
era stato in precedenza a lungo comandante del principale dromone imperiale,
accompagnando il suo sovrano nei viaggi per mare ci teneva a comandare lui stesso
talvolta la voga ponendosi, come ai suoi vecchi tempi, al centro del dromone, il che
significa pertanto ovviamente in posizione più elevata dei banchi.
Questi dromoni erano dunque di varie dimensioni e di vario numero di vogatori, restando
infatti sempre 50 solo quelli del ponte inferiore; inoltre Leone dispone che quelli maggiori,
oltre a una incastellatura sul sifone lancia-fuoco di prua, potevano avere anche un castello
di tavoloni alla mezzania, dal quale si potevano lanciare sul vascello nemico abbordato,
oltre a materiali incendiari, oggetti molto pesanti per sfondarne la coperta e uccidere
soprattutto i poveri remieri sottostanti, castello che ovviamente doveva appesantire non
poco il vascello:
… Ma, nei più grandi dromoni, s’intende da edificarsi con assi anche la detta incastellatura
di legno attorno al piede mediano dell’alberatura, dalla quale alcuni uomini scaglino nel
mezzo della nave nemica o pietre di macina o pesanti ferri come palle cuspidate con le quali
o infrangano la nave o, violentemente cadendo, schiaccino coloro che sono al disotto o
versino qualche altra cosa che possa o incendiare la nave degli avversari o uccidere
direttamente i nemici (Constit. XIX, par. 7. Trad.d.A.).
La presenza di questo castello centrale nei dromoni più grandi depone anch’essa per una
navigazione, a dispetto di quel nome, tutt’altro che agile e veloce naturalmente e fa capire
come in effetti i dromoni e non le galee triremi medievali siano da considerarsi i più diretti
eredi delle pesanti triere dell’antica Roma. Di incastellature sui dromoni parla anche un
brano del poema cavalleresco duecentesco Le roman de Blanchandin, brano citato dal du
Cange, ma si tratta certamente di versi scritti da un poeta molto digiuno di marineria,
perché vi usa chalant (chelando) come sinonimo di dromone, perché di un dromone da
costruire dice che deve avere tre incastellature, dette dall’autore broches ma in seguito
chiama più compiutamente bretesches (‘bertesche’), cioè le voleva a prua, al centro e a
poppa, un numero eccessivo per un vascello remiero. Inoltre dice che deve esser lungo 30
piedi (circa 15 metri), lunghezza quindi del tutto insufficiente per far posto a tre
221
fortificazioni; scrive infine che gli alberi dovevano elevarsi dritti verso l’alto (Li mas en fu
droit contremont) ed è l’unico che accenni all’alberatura dei dromoni, nemmeno Leone VI lo
fa; eppure non è possibile che un grande vascello non avesse anche degli alberi per poter
logicamente sfruttare in navigazione prima la forza dei venti e poi subordinatamente quella
delle braccia umane. Noi comunque pensiamo che, data anche la tardezza dei tempi in cui il
poema fu scritto, tempi in cui i dromoni erano già da considerarsi vascelli del passato, il
nome è stato dall’autore impropriamente utilizzato per un vascello d’altro tipo, improprietà
non infrequente anche nei secoli successivi (Charles Dufresne du Cange, Glossarium etc.
Cc. 902-903. T. II. Basilea,1762).
Disponendo i dromoni di poco luogo, fanterie e cavallerie bizantine per specifiche azioni di
guerra generalmente si trasportavano, come del resto provviste e attrezzature, nei velieri di
sostegno; ma anche allo si sapeva fare di necessità virtù, come leggiamo per esempio in un
episodio della guerra greco-gotica avvenuto nell’anno 548 e che è ricordato appunto nel De
bello gothico di Procopio di Cesarea; Claudiano, uomo del generale bizantino Belisario,
deve andare a combattere il goto Ilauf (‘Ilaulfo’), il quale si è impadronito di alcune località
della costa dalmata, passandone crudelmente a fil di spada gli abitanti, e pertanto imbarca
soldatesche nei così chiamati dromoni (τῶν ϰαλουμένων δρομώνων) e frumento e altri
viveri su navi d’altra sorta (ἄλλα πλοῖα) (l. III, 35). Questo episodio è molto importante
perché ci dimostra che i dromoni erano vascelli bizantini alto-medievali più antichi di
quanto si possa pensare. Ai suddetti vogatori s’aggiungevano gli ufficiali:
… Oltre a questi ci saranno il centarco del dromone, il vessillifero e due timonieri alle
timoniere del dromone, i quali chiamano anche πρωτοϰαράβοι (‘primi ufficiali’); e magari
anche qualcuno necessario al servizio del centarco. Dei rematori prodieri gli ultimi due
saranno il sifonatore e l’altro colui che getta le ancore in mare; ci sarà, sedendo armato,
anche il prodiero in alto sul palchetto di prua e il giaciglio del navarco ossia del centarco si
troverà a poppa e insieme con lui si manterrà in disparte l’arconte, insieme anche
guardandosi dai dardi scagliati dai nemici durante la battaglia, dal qual luogo l’arconte, tutte
le cose vedendo, darà gli ordini per condurre vantaggiosamente il dromone (Ib. Par. 8
Tr.d.a.)
(ναυάρχης, ναύαρχος), pur nascendo come comandante di una sola generica nave militare,
diventerà col passare dei secoli sempre più autorevole e cioè prima il comandante di tutte le
navi d’appoggio di un’armata di triere, poi di una squadra e in seguito anche di un’intera
armata (ναυάρχης στόλου, ναύαρχος στόλου), cioè l’ammiraglio (l. praefectus), quindi
passando a suo carico anche le competenze militari; infatti nel Basso Medioevo a Bisanzio
sarà così chiamato il capitano generale d’armata e ναυαρχίς significherà dunque ‘vascello
ammiraglio’. Poiché però già nell’antichità l’ammiraglio non sempre era disponibile a
guidare di persona la sua armata, disponeva di un diàdoco, ossia di un suo ‘secondo’, cioè
di un capitano generale detto ἐπιστολεύς, nome che così spesso si confondeva con quello
di ἀπόστολος (‘inviato, messo’) che questo finirà col tempo addirittura per significare anche
una spedizione militare navale (G. Polluce, cit. I. IX, pag. 67).
Sempre a Bisanzio, per quanto riguarderà gli ufficiali maggiori di un vascello da guerra
grande, ossia di un dromone o anche di un agrario, troveremo invece chiamato protocàrabo
(πρωτοϰαράβος) il capitano, protelate (πρωτελάτης) il còmito e deuterelate (δευτεροελάτης)
il sotto-còmito.
Se da tre a cinque dromoni dovevano navigare insieme (anche se magari facenti parte di
un’intera più grande armata), si dava ad essi un comandante di distaccamento chiamato
comite (ϰόμης), insomma più o meno quello che nelle armate napoletano-angioine del
Ducento si diceva protontino, nelle veneziane capitaneo e nelle ponentine del Cinquecento
vedremo poi chiamarsi invece cuatralbo, come più avanti spiegheremo. Questo nome di
comite, corrotto però in comito, avrà, come vedremo, molto successo nel Mediterraneo, ma
molto svalutato di significato e ruolo. Per il drungario o capitano generale di un’armata di
mare bizantina (gr. δρουγγάριος τῶν πλωΐμων, mentre ϰαπετανίος quello delle galee
grosse commerciali, per esempio nel 1453 aveva quest’ultimo incarico un certo Antonio (G.
Franzes, cit. L. III, cap. IV), e στρατηλάτης quello di un’armata di terra) troviamo
un’annotazione di spesa interessante tra quelle per l’impresa di Creta dell’anno 911
(Costantino VII, De cerimoniis aulae byzantinae. II.45) e cioè la rameria per la sua cucina
particolare:
… si erogarono per l’insieme di varia ramiera in una dotazione per servizio del capitano
generale della flotta (ossia) per pentole grandi 2, altre mezzane due, pentolini stagnati 4,
cucume grandi 2, tegami grandi 2, orciuolo di rame stagnato 1, fiaschi stagnati 2, catinelle 2
… 24 follis di rame. (ἐδόθη ὑπὲρ ἀγορᾶς χαλϰώματος διαφόρου τῷ δοθέντι λόγῳ τῆς
ὐπουργίας τοΰ δρουγγαρίου τοΰ πλοΐμου ὐπὲρ ϰαϰαβίων μεγάλων βʹ͵ ϰαὶ ἐτέρων
ϰαϰαβίων μεσίων βʹ͵ ϰαὶ χυτροϰαϰαβίων γανωτῶν δʹ͵ ϰαὶ ϰουϰουμίων μεγάλων βʹ͵ ϰαὶ
τιγανίων μεγάλων βʹ͵ χαλϰοσταμνίου γανωτοῡ ἐνος͵ φλασϰίων γανωτῶν βʹ͵ χερνιβοξέστων
βʹ͵͵ ϰδʹ. Ib.)
223
Tra gli scritti aggiunti al De cerimoniis del figlio di Leone VI, cioè del succitato Costantino
VII Porfirogenito, si legge dell’imponente armata di mare con la quale i bizantini, come
suddetto, nel 911 tentarono senza successo la riconquista dell’isola di Creta, da tempo
caduta nelle mani dei corsari dei saraceni (cosiddetti perché si dicevano discendenti da
Sara, moglie ufficiale di Abramo) o arabi, come si sono sempre chiamati nel basso-
medioevo i mussulmani africani, iberici, siciliani e anche sardi - v. Alghero, da al-Jazā’ir, ‘le
isole’, per le sue isolette in antico più numerose, cioè proprio come Algeri; in seguito gli
arabi della penisola arabica furono chiamati ismaeliti (infine sunniti), perché si dicevano
discendenti da Ismaele, unico figlio di Abramo e della sua concubina Agar), distinguendosi
così dai mussulmani mediorientali detti invece agareni (infine sciiti), perché si dicevano
discendenti dalla predetta Agar, ma poi anche musulini (gr.μουσουλινοὶ), specie quelli della
regione della città, oggi irachena, di Mosul. Al par. 44 del 2° libro del De cerimoniis aulae
byzantinae del detto Costantino si trova appunto riassunta la consistenza dell’armata di
mare capitanata dall’ammiraglio Imerio con cui il padre Leone aveva fatto quello sfortunato
tentativo; si trattava dunque di 102 dromoni, ognuno con ciurma di 230 uomini tra rematori,
marinai e cavalieri, ossia ufficiali di comando di bordo e dell’esercito, più una guarnigione
di 70 fanti-arcieri di marina, inoltre di 75 pamfuli, cioè di grandi chelandi da cavalli e da
carico, di cui 33 equipaggiati con 160 tra remiganti, marinai e cavalieri e le restanti 42 con
130. Il totale preciso degli uomini di mare era dunque di 34.037 più circa 7.140 fanti di
marina (gr. ναυμαχόι, επιβάται), ma bisognava poi aggiungere a questi i fanti di terra, cioè
700 mercenari russi distribuiti sui dromoni imperiali, inoltre 5087 mardaiti occidentali,
popolazione di lingua greca della regione anatolica di Attalia, bravi costruttori di galee, i
quali infatti ne avevano messo 15 a disposizione dell’armata, equipaggiate da loro stessi e
destinate soprattutto alla guardia delle vicine coste della stessa Attalia, da dove cioè i
saraceni avrebbero potuto più facilmente ricevere soccorsi a Creta. C’erano però ancora da
aggiungere undici vascelli soprannumerari e cioè 9 càrabi (gr.ϰαράβια), vascelli onerari che
potevano essere anche grandi (ἐπὶ μεγίστου ϰαράβου) e provvisti, come in questo caso, di
mangani, macchine evidentemente da usare in previsione di assedi costieri, e due monere
vogate da prigionierri di guerra. Ogni dromone disponeva di un sandalio, imbarcazione di
servizio di cui abbiamo già detto, e inoltre l’armata aveva 6 aliadìe, queste più lunghe dei
sandalii perché da 8 rematori, le quali, usate anche dai pescatori, servivano nell’armata da
porta-ordini e porta-ufficiali. La parte che avrebbe poi dovuto formare l’esercito di terra era
di circa un quarto delle forze suddette e cioè di 12.502 uomini.
224
Anche nel 935 i bizantini si serviranno di galee in una spedizione di soccorso al re d’Italia
Ugone di Provenza impegnato in una guerra contro i longobardi dell’Italia meridionale suoi
ribelli e cioè i fratelli Landolfo e Atenolfo, signori di Capua e Benevento, e gli altrettanto
fratelli Vaimario e Vaiferio, signori di Salerno [i comandanti delle galee (οἰ ναύϰληροι τῶν
γαλεῶν); la ciurma delle galee, cioè quei mardaiti occidentali di cui abbiamo già detto (ὀ
λαὸς τῶν γαλεῶν͵ ἢτοι οἰ Μαρδαΐται. Costantino VII, De cerimoniis aulae byzantinae etc. L.
II, par. 44); la spedizione, comandata dal prefetto dell’armata di mare (gr. ὀ δρουγγάριος τοῡ
πλοῒμου) Epifanio, comprendeva anche 11 chelandi (sicuramenre ippagogoi) e 7 càrabi,
velieri onerari di cui abbiamo già detto, per un totale di circa 1.900 combattenti trasportati.
Al par. 45 del l. II del predetto De cerimoniis si riassumono anche le forze della seconda
spedizione sfortunata bizantina contro Creta, quella del 949 guidata da Costantino
Gongyles, ma a noi il testo, chissà quante volte copiato e ricopiato, è giunto palesemente
incompleto e confuso, per cui la consistenza totale di quell’armata non vi è più chiaramente
ricavabile; vi si trovano comunque ancora espressi dei particolari molto interessanti, quale
l’essere ogni dromone equipaggiato da 220 uomini e inoltre accompagnato e servito da due
usiai o chelandi usiaci carichi di cavalli e salmerie, l’essere i detti usiai molti (centinaia) e
montati perlopiù da 108 uomini ognuno e invece i chelandi-pamfuli pochi (decine) ed
equipaggiati perlopiù con 150 uomini ciascuno; inoltre anche stavolta partecipavano le
solite 15 galee di Attalia, qualche decina di càrabi, cioè vascelli onerari dei quali già
sappiamo, infine soldatesche mercenarie russe e armene, tributarie slave e volontarie
mardaite. Come di solito avveniva nelle grandi armate inviate ad assedi importanti, anche in
questa alcuni chelandi erano destinati ad essere schiodati e smontati perché l’esercito
potesse utilizzare il loro materiale ligneo per la costruzione di macchine e congegni
d’assedio. In questi casi ovviamente anche i materiali ferrosi ovviamente si recuperavano
per fonderli e farne dei nuovi; per tal motivo, nel caso di vascelli vecchi o del nemico da
eliminare, era in generale preferibile, piuttosto che affondarli, portarli a secco e incendiarli,
in modo da poter poi così recuperarne il ferro, oltretutto già fuso dal fuoco; e fu soprattutto
per tal motivo che nel 1284 i messinesi, bisognosi di ferro per difendersi dagli assedianti
francesi, incendiarono navi e galere che qualche tempo prima, cioè quando i messinesi non
si era ancora a loro ribellati, gli stessi transalpini avevano approntato e lasciato a Messina
per una programmata spedizione in Grecia (Bartolomeo di Neocastro, cit. Cap. XXXVIII).
Nelle storie del Teofane continuato si daranno poi in breve i numeri della terza spedizione di
Creta, quella fortunata del 961 voluta dall’allora imperatore Romano II, ma si tratta di numeri
non realistici bensì da panegirico, vista la loro indubitabile esagerazione:
225
… Le navi erano cioè duemila con fuoco liquido, (di cui) i dromoni mille, i carabi onerari, i
quali portavano cibarie e attrezzature belliche, trecentosette... [Νῆες γὰρ ὑπῆρϰον μετὰ
ὑγροῢ πυρὸς δισϰιλιμι͵ δρόμωνες ϰίλιοι͵ ϰαράβια ϰαματηρὰ σιτήσεις ἕϰοντα ϰαὶ ὅπλα
πολεμιϰὰ τριαϰύσια έπτά (L. VI, p. 10)].
Premesso che per ‘fuoco liquido’ ((ὐγρόν πῦρ) s’intendeva quello che nei secoli successivi
sarà generalmente ricordato come ‘fuoco greco’ in quanto furono appunto i bizantini a
usarlo per primi intensivamente in guerra, diremo che naturalmente è impossibile che
Bisanzio, come del resto qualsiasi altro impero per potente che fosse, potesse disporre di
mille dromoni; oltretutto, sulla base dei numeri precedenti, ciò avrebbe voluto dire mettere
insieme ben trecentomila uomini solo per i dromoni; d’altra parte nella Chronographia dello
stesso Teofane si legge non infrequentemente di altre magnificazioni allegoriche di questo
tipo. Niceforo Focas, il capitano futuro imperatore che comandava quest’ultima spedizione,
mandò in avanscoperta ‘alcune veloci galee, perché tornassero poi a riferirgli sui movimenti
e preparativi del nemico. Questa circostanza fa capire quanto i dromoni, nonostante il loro
nome, fossero delle galee indubbiamente più lenti; inferiorità inevitabile, data la loro
maggior elevazione e il loro maggior peso, inconvenienti dovuti ai loro due livelli di voga:
… saggiamente inviò in avanscoperta veloci galee perché a prender lingua (del nemico)…
[Ἓμπροσθεν δἐ ὁ συνετὸς ταχυδρόμους γαλέας ᾀποστειλας ϰατασϰοπῆσαι γλῶσσαν
προσέταξεν (ib.)]
Prender lingua del nemico significava catturare qualche povero pescatore o marinaio del
luogo per chiedergli o estorcergli informazioni su quanto avesse visto o sapesse
dell’armata nemica. Lo stesso fecero poi i saraceni di Africa e Spagna, chiamati in aiuto da
quelli di Creta, cioè inviarono anch’essi veloci galee (εὐθυδρόμους γαλέας) alla scoperta del
nemico bizantino (ib.); ma del resto i saraceni usavano poco i più lenti e costosi dromoni. Si
legge per la prima volta dei dromoni negli scritti bizantini del sesto secolo e cioè in quelli
del poeta Paolo Silenziario, come già detto, nello Στρατηγιϰόν attribuito all’imperatore
Maurizio (539-602) e nei ll. IX, XI, XVI e XVIII della Cronografia di Giovanni Malalas (c. 491-
578), nel secondo dei quali per esempio quest’ultimo autore tratta delle campagne partiche
dell’imperatore Traiano (113-116 d.C.) e, però certamente attribuendo a quei tempi cose dei
suoi, descrive il detto autocrate viaggiante appunto in dromone nel fiume Tigri ed è
veramente molto improprio che il traduttore del testo in latino più volte renda molto
impropriamente δρόμων con navigium o addirittura con celox. Come già più sopra
accennato, ai tempi del Malalas si usava il termine πλοῑα più per significare ‘scafo’ che
226
‘vascello’, come avverrà invece più tardi, e infatti nei suoi scritti troviamo talvolta πλοῖα
δρομώνων πολλῶν (‘scafi per numerosi dromoni’. L. IX) o anche τὰ πλοῖα τῶν δρομώνων (l.
XVI), intendendosi quindi dire che si erano preparati scafi da attrezzarsi e ancor di più da
equipaggiarsi alla maniera di dromoni. Troviamo poi più volte nominati i dromoni nel
Chronicon di Teofilatto Simocatta (sec. VII).
Che i dromoni fossero in realtà vascelli poco veloci si evince anche dalla suddetta Tattica
dell’imperatore Leone VI (866-912) in cui si dispone di adoperare, oltre a dromoni grandi e
piccoli, per guardie e missioni vascelli remieri non armati da battaglia e a un solo ponte di
banchi:
… Anche quelle che chiamano ‘monere’; e anche le galee (Καὶ ἒστι τά τε μονήρια λεγόμενα͵
ϰαὶ τὰς γαλέας… Cap. XX, par. 74).
Questi nuovi vascelli detti galee, dapprima monoremi ma ora anche evidentemente biremi,
erano, come già abbiamo detto, avevano preso il posto delle suddette antiche e ormai
disusate diere romane che si erano chiamate liburne (gr. λίβυρνα, λιβυρνίδες), specie
perché, essendo come e più di quelle molto bassi sull’acqua, risultavano pertanto anche
molto più leggeri, agili e maneggevoli dei dromoni e non molto più tardi, cioè attorno alla
metà del secolo successivo, cioè del decimo, saranno già preferiti e di quelli più numerosi,
finendo più tardi per soppiantarli completamente.
Certo non ci è purtroppo rimasta, a quanto sinora sembra, alcuna immagine iconografica
significativa dei dromoni bizantini, ma perlomeno abbiamo i resti di un inventario di quanto
fornito a quelli che costituivano il nerbo dell’armata che nel 949 Bisanzio inviò contro
l’emirato di Creta nel secondo sfortunato tentativo di recuperare quell’isola e da tal
documento si possono capire molte cose, specie sulle forze che li equipaggiavano
(Costantino VII, De cerimoniis aulae byzantinae, II.45). Ecco dunque la dotazione d’armi di
un singolo dromone in quell’occasione storica, armi che ci limitiamo ora a inquadrare nella
logica della loro funzione, ma per le quali potremo poi certo fare qualche ulteriore
considerazione confrontandole con quanto ne diceva nella sua predetta Tattica l’Imperatore
Leone VI un paio di secoli prima:
Corsaletti (ϰλιβάνια) 70
Lorichi leggeri (λωρίϰια ψιλὰ) 12
Lorichi comuni (λωρίϰια ϰοινὰ) 10
227
I clibani erano armature di scintillante ferro ben polito del genere dei corsaletti, cioè
armature che copriranno il corpo dei fanti più esposti alle offese del nemico dalle spalle
alla metà della coscia, armi difensive che saranno molto in uso a partire dal
Rinascimento, cioè col diffondersi dei battaglioni di picchieri; questa bizantina doveva,
come leggiamo nella suddetta Tattica, difendere il busto del soldato, se non da dietro,
perlomeno completamente davanti. Nel libro primo del suo Dei magistrati romani
Giovanni Lido (490-557), autore e funzionario bizantino coevo dell’imperatore Giustiniano
I, così definiva i soldati armati di clibani:
I clibani si chiamavano così perché evidentemente in origine specialità dei Calibi, popolo
dell’antichità che si trovava ad est del Mar Nero e che era famoso per la sua abilità nella
lavorazione del ferro e dell’acciaio; ma, per tornare al caso suddetto, è da notarsi che
questi clibani erano 70, cioè dello stesso numero dei fanti-arcieri di marina assegnati a
ogni dromone, ed erano proprio ad essi destinati in quanto soldati che, sia perché poco
potevano muoversi nelle ristrettezze di bordo sia perché destinati ad esser primi negli
abbordaggi, e lo stesso si può dire dei 70 scudi di cuoio impuntiti, da usarsi
evidentemente, più che in aggiunta, in alternativa ai clibani nei casi di un combattimento
meno impegnativo. Gli elmetti sono invece 80, cioè 10 in più sia perché naturalmente più
facili da perdersi in mare sia perché qualche ufficiale avrebbe potuto scegliere di
servirsene, e si trattava di copricapi di ferro che difendevano anche il viso; nella sua
Tattica Leone VI, padre di Costantino, raccomandava che questi elmetti avessero piccola
la τουφία (np. tuppo; fr. toupet), ossia la cresta. Le 10 celate, di ferro anch’esse,
difendevano solo la calotta cranica e il retro del collo; sia queste ultime sia i 10 lorichi
comuni, ossia le toraciere di cuoio cotto oppure di giunchi, sia le 8 manopole dovevano
essere a disposizione degli ufficiali di bordo; le ultime, a quanto leggiamo nella predetta
Tattica; potevano esser sostituite dalle χειρομάνιϰα, ossia da intere maniche di maglia di
ferro, specie dagli ufficiali, i quali anche potevano scegliere d’indossare gambiere di
ferro (gr. ποδόψελλα; gr. περιϰνεμίδες), ossia come generalmente facevano i soldati a
cavallo (l. equitantes), le cui gambe erano nelle mischie tanto esposte ai colpi dei fanti
nemici, e ciò perché nel combattimento navale gli ufficiali, bersaglio naturalmente
preferito degli arcieri e dei balestrieri nemici, erano particolarmente vulnerabili. I lorichi
leggeri, cioè le toraciere di tela di lino ben impuntita per trattenere l’imbottitura di
bambagia pressata, erano 12 in quanto molto probabilmente destinante a essere, durante
il combattimento, indossate da quella parte d’equipaggio addetta al controllo della
ciurma di remiganti, quindi in primis dal còmito. Sempre secondo Leone VI, le spade
dovevano esser portate dai soldati a bandoliera mentre alla cinta dovevano portare un
pugnale (παραμήριον). I 50 archi bizantini con relative frecce, erano usati dai fanti-arcieri
di marina prima che si arrivasse all’abbordaggio ed erano solo 50 perché ufficiali e sotto-
ufficiali non li usavano; infatti anche le giornee (‘sopravvesti’) di munizione e i ‘berretti
da quartiere’ erano 50. Ancora Leone VI voleva che gli archi fossero portati in foderi
ampi, onde poterne essere estratti il più rapidamente possibile, che l’arciere portasse nel
πουγγίος (‘zaino’) corde di ricambio in abbondanza, che la sua grande faretra fosse
provvista di un coperchio protettivo e contenesse almeno trenta o anche quaranta
229
frecce, infine che portasse nella cintola limette per appuntire le cuspidi delle frecce e
protezioni di cuoio per la mano sinistra; ma della fanteria e cavalleria bizantina diremo di
più in altra nostra opera. Per quanto riguarda poi i 20 sandalii armati ognuno di
un’arcobalista a mano con relative moschette (‘frecce quadrellate’), poiché nel caso in
questione si parlava della già ricordata armata di 20 dromoni e ogni dromone disponeva
di un sandalio o scialuppa di bordo, si deve intendere che anche le relative
manubalestre, le quali erano non di legno ma di ferro, quindi sicuramente di tipo da
posta, cioè di tipo più grande e pesante di quello da fante. I 4 uncini catenati sono
strumenti da prolungamento, cioè da usare dopo aver affiancato il nemico per tenerne il
bordo dello scafo avvinto al proprio in modo da evitarne un discostamento che avrebbe
reso così vano l’abbordaggio, per il quale anche servivano ovviamente le varie armi
astate; ben 10mila i triboli da gettare sulla coperta della nave nemica, specie di quelle
degli scalzi saraceni, ma il numero non sorprenda visto che poi, sempre per l’armamento
dei predetti 20 dromoni, se ne calcolano ben 500mila (τριβόλια χιλιάδες φʹ). Un’ultima
osservazione da fare è che tra queste armi mancano le ϰοντάρια non tridentate, cioè i
normali spuntoni da pedone, mentre - a meno che non si tratti in effetti delle stesse
suddette tridentate - sembrano trovarsene 15 di rame incluse nella soprannumeraria
fornitura d’armi offensive fatta al capitano generale (δρουγγάριος, στόλαρχος,
στολάρχης, ναύαρχος) di quest’armata dal provveditore dell’armamento (ϰατεπάνος τοῡ
ἂρματος; l. duumvir navalis, ma ai tempi della Roma repubblicana); quest’ultimo, il
catepano (nome poi corrotto in Europa in ‘capitano’) si diceva τοῡ ἂρματος, cioè del
‘carro’, perché nel Medioevo tutti le forniture e i ricambi d’armamento (frecce, quadrelle,
corde di ricambio per archi e balestre, scudi, materiali e attrezzi per le riparazioni delle
armature, delle corazze e delle balestre ecc.) si portavano in un grande carro, detto in
Italia carro de l’artelarie, che seguiva l’esercito in marcia (vedi per esempio in Angelo
Angelucci, Documenti inediti etc. Nota 114 a pag. 57. Torino, 1969). Dunque la fornitura
complessiva di armi leggere comprendeva spade 3mila, scudi 3mila, spiedi 3mila, frecce
240mila, moschette 4mila; forse c’era anche altro, ma la trascrizione pervenutaci si
chiude qui.
Allo stesso predetto par. II.45, tra i materiali da fornire ancora per la suddetta armata di 20
dromoni notiamo una riserva di 200 materassi in soprappiù (ϰέντουϰλα ϰατὰ περίσσιαν σʹ)
e 100 coltroncini in soprappiù (ἀρμενόπουλα ϰατὰ περίσσειαν ρʹ) c’è quindi da domandarsi
a che cosa servissero, cioè se per il sonno dei soldati o per ripararsi dai colpi nemici. La
seconda ipotesi è la meno probabile, visto che a quel tempo le uniche armi dal tiro
230
penetrativo diretto, cioè non parabolico, erano le ben poche baliste in uso, di posta o da
fante che fossero, troppo poche da giustificare l’approntamento di difese mobili così
abbondanti, né, d’altra parte, considerando invece la prima ipotesi, un’armata che partisse
per una lontana impresa di guerra poteva tener preventivamente conto anche dell’eventuale
necessità e possibilità di un successivo afflusso di rinforzi d’uomini; dunque il motivo da
prendere in più giusta considerazione era che, non esistendo allora le artiglierie, il modo più
usato che nella guerra nautica ci fosse per aver ragione di un vascello nemico - volendosi
certo evitare quello estremo di vincerlo all’abbordaggio - era cercare di incendiarlo e, di
conseguenza, i materassi che a bordo rischiavano di finire consumati dal fuoco erano
sempre molti. Ci sono poi 5 rotoli di grossa corda sericata (’filata’) di sparto (ϰόρδας
μεταξωτὰς παχέας σπαρτίνας εʹ), evidentemente per i grossi congegni d’assedio, e 5 piccoli
per le arcobalestre da fante (εἰς τὰς μιϰρὰς τοξοβολίστρας σπαρτίνας εʹ). Poi, un pò più
avanti nel trattato di Costantino VII, troveremo questi tipi di cordami tra i materiali
soprannumerari forniti alla stessa suddetta armata allestita nel 949.
Abbiamo tralasciato di riportare la fornitura di materiale e attrezzi attinenti più alla
navigazione e al lavoro di marangoni e artieri che alle necessità militari propriamente dette,
specie quelli a peso come la pece, la pece liquida, la canapa o l’olio di cedro, sia perché
esorbitante dal nostro tema, il quale, come si sa, attiene soprattutto al primo secolo dell’età
moderna, sia anche perché non sempre di agevole interpretazione; non vogliamo però
tralasciare le 6 ancore (σιδηροβόλια) e i 6 arganelli per sollevarle (σιδηροβόλιστιϰἀ) per
ogni dromone più le 50 ancore, le 60 funi per dette (σχοινία σιδηρόβολα ξʹ) e i 50 arganelli
di riserva che i chelandi dell’armata portavano; inoltre le sottili lamine di piombo che,
inchiodate sulla parte immersa delle fiancate del vascello, servivano a dar a quelle una
certa protezione dalla corrosione prodotta dalla teredine marina; di queste ultime ogni
dromone e ogni chelandio ne ricevevano cinque dal peso di libbre 30 ciascuna, il che lascia
supporre che ne dovevano essere usate solo due per lato, che dovevano quindi
necessariamente essere ampie e lunghe, ma rivestenti la sola parte alta e centrale dell’
‘opera viva’, cioè ruote di poppa e prua escluse, e che la quinta probabilmente si teneva di
riserva.
Abbiamo sopra accennato ai duumviri navali della Roma repubblicana e riteniamo di dover
precisare che, a quanto narra Tito Livio, questi due provveditori furono istituiti nell’anno
443 a.C. su proposta del tribuno della plebe Marco Decio, in quanto c’era allora da riallestire
e rifornire la flotta della repubblica (T. Livio, Ab urbe condita libri. L. IX, par. XXX). Questo
contraddice platealmente tutta quella storiografia che vuol vedere i romani inesperti di
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guerra marittima prima della Prima Guerra Punica; d’altra parte sostenere che essi,
nonostante l’inesperienza, cominciarono subito a battere sul mare gli esperti cartaginesi è
palesemente contradditorio e improponibile ed è quindi confermato che gli storici,
generalmente digiuni di consecutio militaris, ci narrano purtroppo solo in parte
correttamente il passato; ma torniamo ora alla marineria di Bisanzio.
Leone Diacono, storico bizantino nato attorno all’anno 950 e da non confondersi con il
suddetto omonimo imperatore, ricordando nel L. I - par III - delle sue Storie, lo sfortunato
tentativo bizantino di riconquistare Creta ai saraceni fatto nel 949, tra l’altro così scriveva:
… e preparate triere ignifore in gran quantità, le invio contro Creta (… ϰαὶ τριήρεις
ἐξαρτύσας πυρφόρους μάλα συχνὰς͵ ϰατὰ τῆς Κρήτης ἒστελλεν…)
Insistamo sulla circostanza che le triere bizantine sono dette qui e altrove ignifore
(πυρφόρους) essendo, come abbiamo detto che spiegava l’imperatore Leone VI, armate a
prua di sifoni, più tardi detti trombe o soffioni di galea, che emettevano fuoco liquido, come
allora si diceva, per incendiare i vascelli del nemico, in quanto ciò riteniamo avvalori la tesi
che sosteniamo nella nostra opera sulle origini delle artiglierie e cioè che è praticamente
inammissibile che ai bizantini, i quali per diversi secoli mantennero un solitario primato
nell’uso di detto fuoco liquido e di detti sifoni, non sia da attribuirsi con certezza anche
quello dell’invenzione della polvere propulsiva o da sparo che dir si voglia; invenzione in
seguito magari meglio valorizzata e sviluppata da altri popoli, come spesso accade alle
invenzioni. In un caso Leone Diacono, a titolo di ‘licenza poetica’, chiamerà queste triremi
sifonate anche ‘navi ardenti’ (τῶν ἐμπύρων νεῶν. Ib. L. VII. 7).
Dai suddetti brani si evince poi che al tempo dell’autore ormai le armate dei bizantini erano
da qualche tempo costituite non più di dromoni, come invece ancora evidentemente erano
state ai tempi del predetto omonimo imperatore, ma di galee; il che ci dice che la detta
evoluzione avvenne appunto nella prima metà del decimo secolo. Nei primi secoli del
secondo millennio troveremo infatti chiamare dromoni i soli passa-cavalli e ciò anche nel
Tirreno, forse perché, essendo questi più alti delle galee leggiere, ricordavano appunto quei
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dromoni usati nell’Alto Medio Evo talvolta anche come passa-cavalli in ambedue i mari;
ecco per esempio alcuni dei preparativi fatti nel 1081 a Brindisi dal capitano normanno
Roberto il Guiscardo per andare ad assalire i bizantini a Corfù e poi a Durazzo:
Qui dromoni è, come si vede, detto due volte e cioè sia nella sua dizione propria δρόμωνάς
per indicare i passa-cavalli e sia nella sua più tarda dizione corrotta δέρμωνας per indicare
vascelli da carico generici; è chiaro che in tutti e due i casi doveva certamente trattarsi di
vascelli in cui non era più usato il livello di voga inferiore perché sarebbe risultato
incompatibile con le necessità di carico.
… Avendo caricate diligentemente sulle navi tutte le cose necessarie a un assedio e avendo
fatto entrare nei dromoni cavalli e cavalieri armati… (Καὶ πάντα τὰ πρὸς τειχομαχίαν
ἐπιτήδεια ἐν ταῑς ναυσὶν εἰσαγαγὼν σπουδαίως, εἲς τε τοὺς δρόμωνας ἲππους τε ϰαὶ
ἐνόπλους ἰππέας εἰσελάσας. Ib. L. III, 12).
… sciolti gli ormeggi, allestiti i dromoni, le triere e le monere a mo’ di guerra con riguardo
alle cose nautiche, iniziò il viaggio in buon ordine (λύσας τὰ πρυμνήσια, τούς τε δρόμωνας
ϰαὶ τριήρεις νῆας ϰαὶ μονήρεις ϰατὰ τὴν τῶν ναυτιϰῶν ἐμπειρίαν εἰς πολέμου σχῆμα
διατυπώσας, σὺν εὐταξία τοῦ πλοὺς ἀπεπειρᾶτο. Ib.)
Egli, allestite diere, triere ed ogni genere di navi corsare, le inviò contro Roberto (Αὐτὸς δὲ
διήρεις ϰαὶ τριήρεις ϰαὶ παντοῖον εὶδος λῃστριϰῶν νηῶν ϰατασϰενάσας ϰατὰ τοῦ
Ῥομπέρτου ἐξέπεμψεν. Ib. L. VI, 5).
Anche i veneziani, alleati di Alessio, persa una prima battaglia navale nelle acque di
Durazzo, ne inviarono contro Roberto una maggiore e stavolta lo sconfissero:
I veneziani, allestiti dromoni, triere e altri più piccoli e veloci vascelli... (δρόμωνάς τε ϰαὶ
τριήρεις εὑτρεπίσαντες οὶ Βενέτιϰοι ϰαὶ ἅλλ' ἄττα τῶν μιϰρῶν ϰαὶ ταχυδρόμων νηῶν... Ib.)
Pure il rinnegato Zarca, ammiraglio dei turchi, ne avrebbe allestito a Smirne verso il 1090:
233
E di nuovo allestiva diligentemente navi piratiche (cioè armate da guerra di corso), dromoni,
diere, triere e altre simili navi più leggere (Καὶ αὗθις λῃστριϰὰς ἐπιμελῶς ϰατεσϰεύαζε ναῦς,
δρόμωνάς τε ϰαὶ διήρεις ϰαὶ τριήρεις ϰαὶ ἂλλʹ ἂττα τῶν ϰουφοτέρων νηῶν. Ib. L. IX, 3).
Lo stesso i pisani, ai quali i crociati francesi, dopo aver preso Nicea nel 1097, chiesero uno
stabile aiuto marittimo logistico per poter così ricevere in Medio Oriente i consistenti
rinforzi di cui avevano bisogno per poter continuare quella prima crociata; a dire della
Comnena, Pisa preparò pertanto una grande armata di ben novecento vascelli circa, tra
diere, triere e dromoni e altri remieri più piccoli e veloci (διήρεις τε ϰαὶ τριήρεις ϰαὶ
δρόμωνας ϰαὶ ἔτερα τῶν ταχυδρόμων πλοίων. Ib. XI, 10), ma anche qui per questi dromoni
l’autrice bizantina intendeva però gli uscieri, se non altro perché, come abbiamo già detto, i
veri originali dromoni erano stati un tipo di vascello caratterizzante solamente le armate di
mare bizantine - o perlomeno solo quelle del Levante del Mediterraneo e non quelle del
Ponente. Premesso che naturalmente il predetto numero di novecento è un’esagerazione
tendente a ingigantire le forze nemiche o potenzialmente nemiche che suo padre Alessio si
era trovato via via a dover affrontare durante il suo impero e che la Comnena avrebbe,
pensiamo, forse fatto meglio a limitare invece a novanta, è qui notevole leggere del timore
che la potenza marittima pisana poteva suscitare anche in un impero grande e possente
com’era allora quello romano d’Oriente.
Oltre a questo ormai invalso uso di usare i dromoni per passa-cavalli (o perlomeno di
chiamare questi così) in quanto, adottate ormai le leggere e veloci galee, quelli erano
divenuti obsoleti, c’è qui da notare il mettere in risalto la velocità di vascelli remieri più
piccoli e non dei medesimi dromoni, a riprova di quanto già detto e cioè che il nome
dromoni, pur derivando da δρόμος (‘corso, corsa’), non significava una particolare velocità.
L’imperatore Alessio dunque, temendo dunque l’uscita in mare di tale grande armata, la
quale avrebbe forse potuto esser tentata di rivolgersi contro la ricca Costantinopoli, fece a
sua volta preparare l’armata bizantina; ed ecco quanto di strano e inusitato fece anche
preparare, nella traduzione, certo più letteraria che letterale, fattane nell’Ottocento da
Giuseppe Rossi:
… Imperciocchè nota essendogli la grande sperienza di que’ da Pisa nelle marittime guerre
e con ragione paventando non la sua flotta soggiacesse, guerreggiandoli, a gravi sinistri
disponeva di formare mediante rame e ferro teste leonine o di altri feroci animali con bocca
spalancata, e porre ognuna di esse ad elevazione assai maggiore delle prore, oltre di che, a
renderle vieppiù terribili, comandava si cuoprissero di oro o colori e che dalle fauci
lanciassero fiamme, introdottevi per arcani meati e torti canali, contro al nemico, non per
offenderlo, ma per incutergli colla sorpresa più grande spavento alla vista dell’improvviso e
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nuovo martoro (‘tormento’) uscente dalle terribilissime gole di que’mostri cosi tanto orrendi
allo sguardo (L’Alessiade di Anna Comnena etc. L. 11, XLIII. Milano, 1849).
In realtà la Comnena fu ingenua qui a pensare che tali opere fossero state istallate solo al
fine di incutere spavento; si trattava in effetti di una versione sì più artistica e
impressionante ma anche più efficace di quell’arma lancia-fiamme prodiera chiamata sifone
e più tardi tromba di galera, già più volte da noi menzionata, la quale era comunemente
usata prima dell’invenzione della polvere da sparo e di cui più avanti diremo; anzi, una
nuova miscela di fuoco usata dai bizantini in questo conflitto marittimo con i pisani si
dimostrò offensivamente più efficace di quelle che erano state in precedenza usate e narra
infatti ancora la Comnena che, scontratisi poi effettivamente nello Ionio i vascelli bizantini
con quelli pisani, il conte imperiale Eleemone, sebbene i nemici li avessero più grossi e
potenti dei loro, riuscì con il suo solo vascello a incendiarne ben quattro degli avversari,
essendo questo nuovo tipo di fuoco, sconosciuto ai pisani, composto in maniera che non si
lanciava più, come i tipi tradizionali sino ad allora usati, in alto sul vascello nemico perché
poi vi ricadesse sopra, ma si poteva ‘sparare’ in orizzontale contro di esso
(ἐϰδειματῶθέντες οἰ βάρβαροι τὸ μὲν διὰ τὸ πεμπόμενον πῦρ - οὐδὲ γὰρ ἐθάδες ἠσαν
τοιούτων σϰευῶν ἢ πυρὸς ἂνω μὲν φύσει τὴν φορὰν ἒχοντος, πεμπομένου δ' ἐφʹ ἂ βούλεται
ὀ πέμπων ϰατά τε τὸ πρανὲς πολλάϰις ϰαὶ ἐφ' ἐϰάτερα. Ib. L. 11, XLIV); dunque i pisani, sia
per questo nuovo artificio dei bizantini sia soprattutto a causa di una tempesta che
cominciava a imperversare, furono costretti a ritirarsi. E’ da pensarsi che questo nuovo tipo
di ‘fuoco liquido’, avendo un effetto meno volatile di quello dei tipi precedenti, doveva
probabilmente contenere una maggior quantità di sostanze bituminose grasse e corpose;
dunque in questi conflitti collegati alla prima crociata (1095-1099), se è vero che i bizantini
conobbero per la prima volta - e a loro danno - l’uso della manuballista, ossia della piccola
balestra da fante usata contro di loro dai normanni, come scrive la cronachista coeva Anna
Comnena e come narriamo in altro di questi nostri lavori, essi pure ebbero, in fatto di
armamenti, delle novità da far provare ai loro nemici. Per completezza diremo che
quest’arma fu detta a Bisanzio prima τζαγγρατόξον; poi solo τζάγγρας ο τζάγκρας e
χειροτοξοβολίστρα, infine il nome fu definitivamente latinizzato in μπαλαὶστρα ο
μπαλέστρα. Per quanto riguarda questo argomento dell’armamento dei dromoni,
aggiungeremo infine che Leone VI raccomandava anche una dotazione di mangani, nel caso
si andasse appunto ad assediare una città marittima o anche si prevedessero
combattimenti statici contro armate nemiche; in quel caso si legavano due dromoni
assieme e li si usava affiancati a mo’, si potrebbe dire, di bilancina o di catamarano, e così
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la larga base ruotante di un mangano, troppo larga e ingombrante perché potesse poggiare
su uno solo di quei sottili scafi, si montava appunto su ambedue gli scafi appaiati, come
però forse meglio spieghiamo nel nostro libro dedicato all’artiglieria. Marin Sanuto il
Vecchio spiegava invece la possibilità di applicare pedane di base sui due lati di un solo
vascello privo di ponte e di far scendere così la cassa del contrappeso del mangano nel
mezzo fin dentro lo scafo, evitando in questo modo un’altezza eccessiva della pertica di
lancio, altezza che avrebbe potuto minacciare la stabilità del vascello (Cit. Pp. 79-80).
L’uso di appaiare scafi onde formare una stabile e ampia base per l’istallazione di macchine
d’assedio costiero o fluviale era molto antico e infatti gli storici romani ci raccontano della
grande sambuca costruita nel 212 a.C. dai romani per assediare Siracusa, macchina che
poggiava su ben otto vascelli legati insieme; detto in breve, la sambuca era un sistema con
cui, tirando molte funi da varie angolazioni, si elevava una pedana carica di soldati fino alla
sommità delle difese nemiche e il suo nome era mutuato appunto dall’omonimo strumento
musicale, caratterizzato da molteplici corde sonore. Questa macchina d’assedio non ebbe
però molta fortuna perché risultò alquanto vulnerabile e infatti fu prontamente fracassata e
resa inutilizzabile dagli assediati siracusani (Plutarco, Vita di Marcello). Più successo avrà
nel 1550 la sambuca costruita dagli spagnoli all’assedio di Africa (oggi Mahdiya), allora una
temibile città fortificata turco-saracena sulla costa tunisina; in questo caso la macchina,
ultimo esempio storico dell’utilizzo di una sambuca in guerra, poggiava su quattro vascelli
allineati e cioè due navi all’interno e due galere all’esterno e, nonostante vari tentativi che
gli assediati fecero per incendiarla, contribuì moltissimo alla caduta della piazzaforte
(Tomaso Fazelli, De rebus siculis etc. T. III, p. 255. Catania, 1753).
Ma, tornando ora ai dromoni, circa un secolo dopo vediamo ancora chiamare così i passa-
cavalli:
Anno Domini 1175. Rex Guilielmus Siciliae misit exercitum magnum in Egyptum super
Alexandriam, in principio Iulii; qui exercitus fuit 150 galearum et 50 dermonum
(‘dromonum’) pro equis portandis… (Cronaca pisana del Marangone. Cit. P. 71.)
E ancora, a proposito dei preparativi fatti in Europa per la Quarta Crociata (1202-1204):
… si può dire che i vascelli di quasi tutta l’armata furono costruiti a Venezia per tre anni
continui, circa centodieci dromoni, formati a regola d’arte, per caricarvi i cavalli e inoltre
sessanta tra navi e triremi (πλοῑα δ' ἐτύχθη παντὸς ὡς εἰπεῑν στόλου εἰς Βενετίαν ἐν τρισὶν
ὄλοις χρόνοις, δρόμωνες ἴππων εἰσδοχεῑς πρὸς τοῑς δέϰα ἑϰατόν, εὗ πως τῇ τέχνῃ
πεπηγμένοι, ἑξήϰοντα νῆές τε τριήρεις πάλιν. Efremio, Imperatorum et patriarcharum
recensus. De Alexio Angelo, all’anno 1202.)
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Tra gli importantissimi documenti annotati in margine ai fogli del al Codex Ambrosianus e
trascritti dal Muratori troviamo appunto il contratto originale stipulato nell’aprile del 1201 tra
il doge Enrico Dandolo e i principi franco-borgognoni organizzatori della suddetta Crociata;
ecco i servizi che la Serenissima si impegnava a fornire all’esercito crociato:
Per quanto riguarda invece i pamfii tirrenici, li troveremo usati dai genovesi nel loro antico
ruolo di mercantili ancora alla fine del Trecento:
… e vi trovò anco un pamfulo pur de’ genovesi con cento sacchi di cottone ed il resto de’
pisani… (Daniello Chinazzo, Cronaca della guerra di Chioza etc. In L.A. Muratori, Rerum
italicarum scriptores etc. C. 791, t. XV. Milano, 1727).
Alto Medioevo
Tirreno: uscieri
Adriatico: chelandi
Basso Medioevo
Cinquecento
Tirreno: fusti
Adriatico: arsili
I passa-cavalli turchi invece mantennero sempre il loro nome di parandarie. Poiché anche
nell’antichità i vascelli sottili da remo dovevano necessariamente esser costruiti a misura di
vogatore, essi non potevano, quanto a dimensioni, essere sostanzialmente diversi dalle
moderne galere, fuste e bergantini che sono l’oggetto di questa nostra trattazione; ciò
anche perché sappiamo che ogni triera romana disponeva di un’intera centuria di fanteria,
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cioè all’incirca lo stesso numero di fanti che vedremo affollare in combattimento la moderna
galera. Nel l. II delle Storie di Niketas Koniatos vediamo che circa un secolo e mezzo dopo la
predetta riconquista di Creta, cioè nel 1144, preparando la campagna navale e terrestre di
Antiochia, l’imperatore bizantino Manuele I Comneno aveva approntato un’armata marittima
così diversificata:
Dei pentecòntori abbiamo già detto, dei miuoparoni presto diremo; non si impeciavano, per
proteggerle dalle intemperie, solo le opere vive degli ippagogoi, come erroneamente si
potrebbe credere da questo brano, ma quelle di tutti i vascelli, mentre le parti immerse si
spalmavano di sego, come sappiamo; ecco e.g. un brano tratto dalla Historia sicula di
Bartolomeodio Neocastro dove si narra delle prime guerre angioino-aragonesi (1282-1302)
per il predominio sull’Italia meridionale:
… In seguito, poiché i genovesi restavano inerti in quanto, per il fatto che, preparate le
suddette galee, difettavano di pece per impeciarle, riunito il consiglio, inviarono
ambasciatore al re Alfonso il nobile Francesco da Camilla, loro concittadino, sotto colore di
concludere un accordo con lui riguardo ai danni apportati qui e là dai loro corsari. Avendo
quindi raggiunto un accordo su quelle cose che quello aveva chiesto, poiché la catalogna
abbondava di pece, il detto re, pregatone del predetto ambasciatore, concesse loro
graziosamente di estrarne 400 sporte da trasportare a Genova senza (pretendere) alcun
diritto d’esportazione, (pur) non ignorando che i genovesi ne erano privi e che era
necessaria alle galee che essi preparavano a danno della Sicilia e dei suoi (Cap. CXIV).
In epoca imperiale alle tradizionali pesanti triere gli antichi romani avevano incominciato ad
affiancare leggere liburne biremi, di quelle tanto più agili, veloci e manovriere, inoltre molto
più economiche soprattutto in gestione e quindi più alla portata, per esempio, di quelle che
più tardi saranno le piccole repubbliche marinare italiane, le quali riserveranno di solito alle
triere i soli ruoli di comando; vero è però che Bisanzio sarebbe stata molto ricca e molto
ricche sarebbero anche divenute prima Venezia e poi anche Adrianopoli e infatti questi
potentati continueranno a preferire in guerra l’uso dei dromoni il primo e delle galee triremi
gli altri. Ma quando avvenne questa introduzione delle leggere biremi, le quali, guidate da
alcune triremi di comando, cioè da vascelli a tre ordini di remi come erano le antiche triere
romane, ma comunque anch’esse di queste molto più snelle e leggere, andavano appunto
prima ad affiancarsi e più tardi a sostituirsi a dette pesanti triere e agli altrettanto pesanti
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dromoni bizantini? I romani, come sappiamo, fino all’inizio dell’impero avevano usato triere
molto pesanti, in quanto si trattava di vascelli di bordo non basso come quello che avranno
poi le galee in quanto sopra i remigi, ossia sopra le due teorie laterali di banchi di voga,
avevano due camminamenti sui quali si ponevano a combattere i soldati e questo sia
perché, al tempo della repubblica, le loro battaglie navali erano state molto statiche, in un
certo senso alquanto simili a quelle terrestri, e quindi necessitavano di vascelli molto saldi,
robusti, affollati di combattenti e di conseguenza alti, larghi e pesanti. Quando poi alla
battaglia di Azio Augusto si rese conto del gran servizio che gli rendevano le leggere e più
agili liburne, basse di bordo e prive di sovrastrutture, dei suoi alleati dalmatini,
considerando inoltre che la secolare lotta che Roma conduceva alla pirateria, specie
appunto a quella illirica, si poteva condurre solo con vascelli remieri leggeri e sottili di quel
tipo, come appunto erano quelli usati dai pirati, volle che le liburne biremi, ma in seguito
anche le triremi o maggiori, entrassero a far stabile parte delle sue armate; fu dunque
l’adozione delle liburne un passo intermedio tra l’uso della triera classica e quello della
galea medievale, dotata questa anche di vele. Che nell’antichità romana queste liburne
fossero all’inizio solo delle biremi ce lo dicono molti autori antichi, specie Appiano
Alessandrino e il poeta Luciano, ambedue vissuti nel II sec. D. C., i quali a tal proposito così
si esprimevano:
… I liburni erano un altro popolo illirico che pirateggiava per il Mar Ionio e le sue isole con
vascelli veloci e leggeri, donde oggi i romani chiamano ‘liburnidi’ le biremi leggere e veloci
(Έγένοντο Λιβυρνοὶ γένος ἒτερον Ίλλυριῶν͵ οἲ τὸν Ίώνιον ϰέ τὰς νῆσυς ἑλῄστευον ναυσὶν
ὠϰείαις τε ϰέ ϰούφαις͵ ὂθεν ἒτι νῦν Ῥωμαῖοι τὰ ϰοῦφα ϰὲ ὀξέα δίϰροτα Λιβυρνίδας
προσαγορεύουσιν. Appiano Alessandrino, Illyricum.)
I liburni erano quelli che poi più tardi, cioè nel Medioevo, saranno conosciuti come ‘pirati
segnani’, in quanto Segna era il principale abitato di quella loro regione alto-illirica detta
appunto Liburnia. Le squadre di mare regionali che guardavano l’Impero Romano ed erano
dislocate a Ravenna, al Miseno, sulle coste nord-africane, siriache e del Canale della Manica
saranno quindi da allora formate non più solo da classiche triere ma anche da liburne; c’era
comunque generalmente per ogni grande flotta una dozzina di vascelli maggiori, cioè una
decina di tetrere e un paio di pentere, adibiti evidentemente a vascelli di comando, e infine
una exera per il praefectus classis. Vediamo l’elenco di questi vascelli ricavatone dal
239
Mommsen nel suo volume sui ritrovamenti epigrafici dei tempi dell’impero romano che si
fecero nel Regno di Napoli:
Diomedes
Euphrates
Fides
Fortuna
Hercules
Isis
Liber pater
Libertas
Lucifer
M…
Mars
Mercurius
Minerva
Neptunus
Nilus
Parthicus
Pax
Pietas
Pollux
240
Providentia
Quadriga
Rhenus
Salvia
Salus
Silvanus
Sol
Spes
Taurus
Tiberis
Triumphus
Venus
Vesta
Victoria
Virtus
Non avevano i romani i poco agili vascelli remieri di cui ci si servirà nel Medioevo, ossia
quelli monoponte chiamati pamffi o pamfuli nel Tirreno e quelli biponte detti dromoni in
Levante; avevano invece vascelli fluviali, naturalmente più corti di quelli marini perché
altrimenti avrebbero avuto difficoltà a dar di volta, cioè a virare per tornare indietro. Negli
ultimi secoli dell’impero, le flotte che percorrevano il Danubio, fiume che rappresentava il
suo naturale confine orientale, erano formate da qualche centinaio di lusoriae (corr. di
collisoriae, cioè ‘da battaglia’, equivalenti alle triere marittime), da parecchie decine di
agrariae (cioè attuarie ‘da caccia’, ossia da corso, equivalenti alle liburne marittime) e da
alcune judiciariae, vale a dire ‘da servizio dei finium judices’, cioè dei funzionari confinari
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mercenari cristiani, perché gli arabi non ne costruivano. La quarta menzione sarà fatta,
anche se qui implicitamente, dall’imperatore Leone VI (866-912) nella sua Tattica.
Nell’antica marineria greca e poi anche in quella bizantina c’erano anche quelli che oggi
diremmo catamarani, cioè leggeri vascelli remieri biscafo, allora chiamati miuoparoni o
paroni (gr. μυοπάρωνες o πἂρῶνες; l. myoparones); essi potevano essere da carico
leggero o armati da guerra, μόνωποι, ossia a un solo ordine di remi, quindi delle monere (l.
moneres, gr. μονήρεες o μονήρεις ma anche ἐνήρεις, come leggiamo in Suida), molto usati
questi nella guerra anti-piratica (l. ad piraticam eundo) ma anche e soprattutto in quella
piratica, oppure potevano essere δίϰωποι, cioè a due ordini di remi, pertanto delle diere;
secondo un continuatore di Teofane questi miuoparoni erano da molti per consuetudine
chiamati σα(ϰ)τούραι, da cui evidentemente il nostro zattere, anche se questo termine ha
ora un significato del tutto diverso (ϰαὶ πλῆθος μυοπαρώνων ϰαὶ πεντηϰοντόρων, ἂς
σαϰτούρας ϰαι γαλέας ὀνομάζειν ειώθασι πάμπολλοι. In Historiae byzantinae scriptores
post Theophanem etc. - De vita et rebus gestis avi sui Βasilii Μacedonis. Par. 299. Parigi,
1863). Di essi già si legge nell’antico De verborum significatione di Sesto Pompeio Festo:
Myoparone: tipo di naviglio formato da due dissimili; infatti sia il mydio sia il parone sono
ognuno a modo suo (Myoparo: genus navigii ex duobus dissimilibus formatum; nam et
mydion et paron per se sunt. Cit. Parte I, p. 129.
Quindi i vascelli remieri si potevano dividere in tre classi, ϰουμβάρια i piccoli, σατοῡραι, i
medi, γαλέαι e δρόμωνες, i grandi. Gli ippagogoi (ἱππαγωγοί) erano invece i passa-cavalli,
come già sappiamo; i fortagogoi (φορταγωγοὶ oppure φορτηγὰ πλοῐα) erano le navi da
carico e gli epattrocheliti erano invece le fregate e fregatine. Come già detto, i dromoni
caratterizzarono solo l’Alto Medio Evo, mentre nel Basso non saranno più usati, essendo
però allora ancora talvolta chiamati così l suddetti ippagogoi, come leggiamo a proposito
delle costruzioni navali veneziani del triennio 1201-1203 per la Quarta Crociata [dromoni
cioè ippagogoi (δρομώνων μὲν ἱππαγωγῶν. Niketas Koniatos, Storie. Alessio Comneno, l.
III)], e più tardi prenderanno questo nome generico gli equivalenti levantini delle galee
grosse veneziane e delle galeazze ponentine, come già accennato. Giorgio Franzes nel suo
Chronicon (L. III, cap. III) ci dice che la prima parte dell’armata di mare ottomana che nel
1453 si presentò all’assedio di Costantinopoli si componeva di circa trenta tra triere e
dromoni più centotrenta tra monere, velieri da carico (νῆες) e naviglio minore (πλοιάρια);
ora, poiché il nerbo delle armate medievali era formato dai maggiori vascelli remieri
(triere/dromoni/galee/fuste) e dagli imprescindibili vascelli ippagogoi, come già sappiamo, e
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in particolar modo dovevano esserlo quelle arabo-turche, dal momento che i loro eserciti
erano in massima parte composti di cavalleria leggera, vuol dire che qui per dromoni,
essendo i classici vascelli remieri di questo nome in disuso ormai da secoli, si intendevano
appunto vascelli ippagogoi. Più tardi arrivò la seconda e più corposa parte dell’armata e si
trattava di più di 320 vascelli, di cui 18 triere, 48 diere e per il resto ‘navi lunghe’ (monere) e
onerarie che trasportavano, oltreb alle provviste, un grandissimo numero di arcieri protetti
da giacchi di bambagia, come in quei secoli si usava [τοξότων ἀνδρῶν (μ)παμπόλλων. Ib.] e
tra le quali c’erano anche 25 dromoni onerari (δρόμωνες φορτίοι, in seguito detti anche dal
Franzes τριήρεις ἐμποριϰαί) carichi di legname, calce e pietre, ossia di materiali d’assedio,
ma che, ribadiamo, dromoni in realtà non erano, non esistendo più quelli da lungo tempo e
non essendo stati quei vascelli del passato tali da poter esser caricati nella suddetta grave
maniera (ib.). Si trattava dunque, come già accennato, di vascelli bizantini equivalenti alle
galee grosse veneziane e che erano utilizzati anche dai turchi col nome, come già detto, di
maone. Insomma alla fine i bizantini si videro assediati, oltre che da un immenso esercito di
terra di più di 258mila uomini, anche da una grandissima armata di mare di circa 420
vascelli tra grandi e piccoli, mentre loro non avevano, per difendere una metropoli così
grande e con mura tanto estese, che 4.973 uomini locali, più gli stranieri alleati, specie
italiani, che assommavano a stento a duemila. L’imperatore dette il compito di calcolare il
numero totale, in uomini e armi, di tali scarse forze proprio al Franzes, il quale poi gli
trasmise il riassunto di quei miseri dati con la morte nel cuore, come egli stesso ricorda nel
suo Chronicon (ib.) Infinita vergogna quella dell’Europa che, trattenuta e impedita da un
Papato nel corso della storia sempre dimostrantesi esiziale, sia in Europa sia in nel Nuovo
Mondo, il quale, dopo aver sponsorizzato per secoli le inutili, sciocche e tanto sanguinose
crociate, le quali solo servirono a perpetuare senza fine l’odio dei mussulmani verso i
cristiani, anche nutriva chiara ostilità contro la Bisanzio ortodossa e quindi religiosamente
autonoma da Roma, tanto da chiedere con insistenza alle grandi potenze occidentali,
ancora nel secolo scorso, un urgente intervento armato contro la Serbia ortodossa che
stava avvicinandosi con le sue forze armate sempre di più ai confini della religione cattolica
romana, l’Europa dunque non corse alla difesa di quell’importantissimo baluardo della
Cristianità; si poi aggiunga che Venezia aveva un po’ il dente avvelenato con quell’impero
che aveva sempre privilegiato e agevolato in quelle regioni il commercio genovese rispetto
a quello veneziano; solo alcune centinaia di valorosi volontari italiani, specie genovesi ma
anche veneziani e catalani, combatterono a fianco degli assediati romei (ἂριστοι ἂνδρες
Ἰταλοί τε ϰαὶ Ῥωμαῖοι. Ib.), ma non riuscirono a salvare né Costantinopoli né l’onore
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Nelle riuiere di Constantinopoli, et di Salonichi, et di tutti quei mari usansi certi vaselletti,
che s'appellano Dromognia (Annotazioni al Trattato brieve dello schierare in ordinanza gli
eserciti etc. P. 292. Venezia, 1586).
I tabulata con i quali evidentemente costruirsi sotto-coperta i pavimenti per il calpestio dei
cavalli, stanghe, stangarole e traverse di legno per recintare li stessi e i pectoralia per
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proteggere i petti degli animali dagli inevitabili urti contro le stangarole frontali. Si può
quindi ritenere con un’accettabile approssimazione che in un vascello orientativamente
largo circa 5 metri e mezzo i cavalli fossero ritenuti con il capo verso il centro del vascello
e in due contrapposte ‘stalle’ disposte ortogonalmente rispetto alla chiglia, lasciando
dunque uno strettissimo corridoio centrale per la dazione di foraggio e inoltre anche
strettissime separazioni laterali tra posta e posta per l’asportazione del letame; in sostanza
gli ordini di posta potevano andare dai 15 ai 20, a seconda della lunghezza dello spazio
disponibile, per un totale quindi di 30 o 40 cavalli a vascello.
A quanto racconta ancora il succitato Cantacuzeno, la flotta che il predetto imperatore
preparò un paio d’anni dopo per rinconquistare Lesbo (poi Mitilene), nel frattempo occupata
per ripicca dai genovesi, presentava invece una composizione molto diversa perché su un
totale di 84 vascelli da guerra solo 44 erano triere e diere – le seconde più popolari come
dίcroti - e per il resto monere (ib. II, 29); a parte c’erano poi le solite onerarie di supporto
che seguivano i vascelli combattenti, includendo tra queste ultime ovviamente anche quelli
remieri passacavalli. A quest’ultimo proposito bisogna peré precisare che in guerra, mentre
i vascelli combattenti remieri viaggiavano e - a meno che il maltempo o il mare forte non le
allargassero o anche disperdessero - si muovevano in ordini stretti (l. strigae), i velieri di
supporto – nel Medioevo soprattutto piccole taride – seguivano necessariamente l’armata in
ordine sparso, cioè meglio e più presto che potevano, considerando che si affidavano
solamente ai venti e che in quei secoli le velature erano ancora rozze e poco sviluppate;
ecco per esempio l’armata di Carlo I d’Angiò che il 26 settembre 1282, avvicinandosi un
forte esercito aragonese nemico, s’imbarca abbandonando l’assedio di Messina:
Bisogna a questo punto però chiarire che la denominazione numerica dei vascelli remieri
antichi e dell’Alto Medioevo va suddivisa in tre tipologie, a seconda che si tratti di numeri
semplici o di numeri decadici; la prima, cioè quella delle monere, diere, triere (τριήρεις
διήρεις τε ϰαὶ μονήρεις. G. Franzes, cit. L. III, par. III) e così via fino alle più teoriche che
reali eptere (Giulio Polluce prendeva in considerazione addirittura le ennere), significava il
numero di ordini di voga, intendendosi per tali il numero dei vogatori che sedevano in ogni
singolo banco di voga; la seconda era precipuamente greca e indicava invece il numero di
scalmi – ossia di remi - per ogni lato (e.g. δεχάσϰαλμον αϰάτιον, ossia vascello attuario da
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dieci scalmi per lato); la terza infine con le sue più usate denominazioni di eicosoro
(‘ἐειϰόσορος’), triacòntoro e pentecòntoro - ma anche triacòntero, pentecòntero -
specificava il numero totale dei banchi di voga di un vascello remiero, ossia 20, 30, 50 ecc.
In realtà i termini originari devono esser stati triacòntaro, pentecòntaro ecc., perché derivati
da τριἇϰοντα e τριήϰοντα ('trenta), πεντήϰοντα e πεντείήϰοντα ('cinquanta’) ecc. In verità
generalmente si crede che questi numeri si riferiscano ai vogatori e non ai banchi e ciò
sulla base del Lexicon di Esichio, dove si dice:
E’ ovvio che quel ‘38’ non ha alcun senso e si tratta dunque di un numero mal trascritto,
volendo Esichio evidentemente dire invece ‘30’; ma, come forse abbiamo già detto,
dividendo trenta uomini per due, dovremmo ammettere 15 banchi monoremo per lato, il che
significherebbe uno scafo troppo stretto per esser tanto lungo e quindi si può solo pensare
che o egli voleva intendere ‘banchi’ e non ‘remiganti’ oppure che, essendo ai suoi tempi
ormai passati secoli dall’uso di quegli antichi nomi, non se ne sapesse più il giusto
significato. Certo si potrebbe anche pensare a delle diere in cui uno solo dei 16 banchi per
lato fosse occupato da un solo vogatore, ma si trattava di situazioni che si potevano
verificare solo in caso di carenza di uomini e quindi non per una prassi tale da determinare
addirittura il nome di un tipo di vascello.
Insomma, per fare un esempio, per liburna diera se ne intendeva una che aveva due
vogatori per banco, per vascello triera uno liburna da tre vogatori per banco, per triacòntoro
una liburna da quindici banchi per lato, monoremo o biremi che fosse, e tali dovevano
dunque essere i triacòntori alla cui costruzione accennava Eunapio di Sardi, storico greco
nato appunto a Sardi nel 347 d.C. e che narrò gli avvenimenti del Basso Impero del suo
tempo:
… Si costruirono veloci triacònteri con la subbia (‘lesina’, cioè ‘con il garbo, forma’) delle
libernidi (= liburnidi, liberne, liburne) [Πηξάμενος δρομάδας τριαϰοντήρεις Λιβερνίδων
τύϰῳ. Al n. 25 dei Fragmenta, in Corpus Scriptorum historiae byzantinae etc. Parte I. Bonn.
1829).
Dunque questi vascelli erano stati anche costruiti con il garbo o forma delle liburnae
monoremo aventi appunto 15 vogatori per lato. Per vascello pentecòntoro se ne intendeva
dunque invece uno da 50 banchi in totale, 25 per lato; ma questo doveva essere non meno
di una triera, altrimenti sarebbe stato troppo stretto e lungo e quindi troppo soggetto a
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Liburniche: erano vascelli non del genere delle triremi, ma di quello dei legni corsari, dal
rostro di bronzo, forti, provvisti di coperta e dall’incredibile velocità (Λιβυρνιχαί. νῆες ἧσαν
οὐ ϰαὶ τόν τριηρικὸν ἐχηματισμεύϰαι τύπον, ἀλλὰ λῃστριϰώτεραι, χαλϰέμβολοί τε, ϰαὶ
ἰσχυραὶ, ϰαὶ ϰατάφραϰτοι, ϰαὶ τὸ τάχος αὐτες ἂπιστον. Ib. P. 445).
Qui il Suida ci dice di due importanti caratteristiche delle antiche liburne e cioè che
portavano un pesante rostro di bronzo (gr. ἒμβολον o ἒμβολος) – pesantezza che non deve
meravigliare, visto che poi le galee porteranno a prua le loro maggiori artiglierie – e che
erano provviste di coperta (gr. πλοῖα ϰατάφραϰτα, σεσανιδωμένα πλοῖα; l. solarium), il che
le faceva effettivamente capaci non solo di una dotazione di corredo e armamento
complessi ma anche di trasportare piccoli carichi, magari quelli di merci più preziose, per
esempio i drappi di seta che porteranno poi spesso le galee. A proposito dell’uso di pesanti
rostri di bronzo, se ne parlava già nell’Onomastikon di Giulio Polluce, cioè laddove si
menzionano vascelli libici chiamati ‘montoni’ o anche ‘caproni’ [τινα πλοῖα Λύβια (Λἶβυα),
λεγόμενα ϰριοὶ ϰαὶ τράγοι. Onomasticum grece et latine. I.IX, p. 56. Amsterdam, 1706];
Esichio ci dice che pertanto si chiamavano anche νῆες τραγιϰαί (‘navi capronidi’). In
generale nell’antichità i vascelli remieri da guerra maggiori erano sempre forniti di rostro, in
particolare le triere (gr. χαλϰέμβολα, χαλϰέμβολοι νῆες, χαλϰεμβολάδες νῆες).
Nel libro III delle Historiarum di Agazia Scolastico (sec. VI d.C.) troviamo:
… Avendo dunque armato le triere e quanti triacòntori ci fossero… (τοιγάρτοι τάς τε τριήρεις
ϰαὶ ὄσοι τριαϰόντοροι παρώρμουν πληρώσαντες…)
Qui, primo secolo del Medioevo, ancora vediamo in uso vascelli dell’antichità romana e cioè
le triere, le quali erano, come sappiamo, di circa 25 banchi completi, cioè di quelli lunghi
che andavano da fianco a fianco, con sei remieri per ogni banco, dei quali però tre
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remavano a dritta e tre a sinistra, quindi 150 rematori in tutto; poi i triacòntori, ossia le
liburne da 15 banchi per lato, cioè diere da 60 rematori. D’altra parte in quel secolo era
ancora troppo presto perché si possa pensare che si usassero ancora vecchi nomi (triere e
triacòntori) per vascelli più ‘moderni’ quali le galee triremi e biremi; invece questo è
certamente da pensarsi per ciò che leggiamo nelle tanto più tarde Storie del Cantacuzeno,
cioè laddove si narra dell’assedio bizantino dei ribelli di Tomocastro in Acarnania, avvenuto
nel 1339; vi si dice infatti che agli assediati arrivò un soccorso inviato dai tarentini che
contava dieci triere e tre pentecòntori (δέϰα τριήρεις ϰαὶ πεντηϰόντοροι τρεῑς. Giovanni VI
Cantacuzeno, Historiarum libri IV. II, 37), in effetti tutte triremi, sia le prime sia le seconde,
ma probabilmente di garbo diverso; forse per triere l’autore intendeva delle ‘moderne’ galee
triremi e per pentecontori delle triremi di più vecchio stampo. Insomma il Cantacuzeno, lui
sì, usava antichi nomi a fini evidentementi letterari, non solo ma forse sbagliava anche in
sostanza oltre che in forma, visto che ci sembra molto improbabile che il principato
angioino di Taranto potesse disporre all’occasione di una squadra di 13 legni remieri di cui
non meno di 10 addirittura triere, vascelli questi dalla gestione molto onerosa e di cui in
quell’area allora solo la ricca Venezia abbondava. Per fare un altro esempio che, a nostro
avviso, attesta l’imprecisione del Cantacuzeno in questa materia, un po’ più avanti nelle
sue Storie egli racconta di una spedizione navale genovese inviata nelle acque di Chio che
sarebbe stata composta, a suo dire, di 32 triere (‘τριήρεις, III, 95); ora, come abbiamo già
spiegato, le armate e squadre dei genovesi e dei pisani medievali si distinguevano dalle
altre tirreniche per esser composte per la quasi totatiltà di biremi e ciò sia per la maggior
leggerezza sia soprattutto per il minor costo di gestione, preferendo pertanto generalmente
di sottrarsi alla battaglia offerta da un nemico armato di triere quando non potessero
contrapporgli un deciso vantaggio numerico. Dunque le galee medievali non erano altro che
evoluzioni delle antiche liburne, le quali, ribadiamo, avevano differito dalle precedenti
pesanti triere specie per non presentare i due camminamenti di combattimento sopraelevati
sui fianchi.
Stiamo qui ora parlando del Medioevo bizantino e dell’antichità romana, ma in effetti anche
nell’antichità greca le cose, in quanto a precisione, non sembra andassero molto
diversamente; infatti Erodoto, narrando nelle sue Storie del tempo della battaglia di
Salamina (480 a.C.), ogniqualvolta parla delle squadre e delle armate marittime greche non
menziona altro che pentecόnteri e triere e inoltre lo fa anche ben differenziandole (p. e.
πεντηϰόντερους ϰαὶ τριήρεας. H.36). Si aggiunga che erano quelli secoli in cui ci si affidava
molto alla dea Fama, la quale, come si sa, tra le altre sue caratteristiche aveva quella di
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saper correre molto velocemente, e Cicerone diceva rumor multa perfert (‘la fama porta
lontano molte cose’), concetto che più tardi diventerà il famoso rumor crescit eundo (‘le
dicerie si accrescono propagandosi’). Per farne un tipico esempio, diremo che Giulio
Polluce (II secolo d.C.) attribuisce alla famosa gigantesca nave del faraone Tolomeo IV ben
15 ordini di remi (Πτολεμαίου ναῦς πεντεϰαιδεϰήρης. Cit. I-IX. Pp. 55-56), il quale in verità è
già numero incredibile perché significherebbe circa 1.500 vogatori; ma, come se questo non
bastasse, nel tempo quei numeri continuarono a crescere ed arrivarono, come si sa, a 40
ordini di remi e 4mila remiganti! E la cosa più stupefacente e che su tali frottole oggi
s’impiantano dotte discussioni e si cerca persino di costruire ‘fedeli’ modellini di tale
inammissibile vascello!
Il nome di liburne, corr. di liburnidi, come si evince dal succitato Luciano di Samosata, o di
liburnicae, come invece spiega Renato Flavio Vegezio, trattatista romano del 4° secolo,
derivava dalla Liburnia, cioè dalla regione croata di Zara, porto in cui quei vascelli
trovavano la loro origine; questi vascelli, ancora solo monoremi e biremi nel primo secolo
d.C., erano usati dai potenti pirati illirici narentini e poi dal Medioevo anche da quelli più
settentrionali detti segnani); i romani le avevano adottate proprio per combattere la pirateria
con i suoi stessi mezzi (… navi lunghe di Liburnia, le quali erano molto necessarie a
guerreggiare per mare… Bernardo Giustiniano, cit. L. XIII, f. 189 recto). Appunto nella
pirateria dalmatina detto nome sarà poi nel Medio Evo sostituito da quello da sempre
coesistente di barche lunghe (gra. σϰάφαι μαϰραῖ), detto però solo nel senso che erano di
forma allungata e sottile e non perché fossero particolarmente lunghe; infatti presenteranno
ora una lunghezza sensibilmente inferiore a quella dei suddetti pentecònteri, per non
parlare di quella delle grosse navi onerarie, fin a ridursi poi nel Rinascimento a fuste e nel
corso del Cinquecento anche a bergantini, cioè con una lunghezza ulteriormente diminuita.
Per quanto riguarda ancora i vascelli da guerra romani conviene forse ribadire che tra le
antiche triere usare fino alla battaglia di Azio inclusa e e le meno antiche liburne primigenie
dopo adottate la differenza non stava solo nel numero di remi, ma anche nella struttura; le
prime, con il loro bordo di media altezza, le loro sopraelevate corsie laterali per i soldati che
sovrastavano i banchi di voga, erano vascelli pesanti e lenti; mentre le altre, di bordo molto
basso, prive di sopraelevazioni, anticipavano quelli che saranno poi i cosiddetti vascelli
lunghi alto-medievali, detti poi legni sottili o armati nel Basso Medioevo e disusati dopo il
Rinascimento, quando cioè lasciarono campo libero ai vascelli sottili copertati, cioè le
galee, le galeotte, le fuste, i brigantini e le piccole fragate. Una terza struttura presenteranno
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poi, come già accennato, i suddetti dromoni bizantini, cioè con due ponti di voga
sovrapposti.
Vegezio narra che Augusto volle introdurre le liburne nelle due armate fisse di Roma, quella
di Miseno e quella di Classe nel Ravennate (in seguito trasferita a Grado), dopo averne
apprezzato l’ottimo lavoro fatto come vascelli gregari alleati nella battaglia di Azio da lui
vinta contro Antonio nel 31 a.C. Lo storico bizantino del tardo quinto secolo Zosimo nella
sua Storia nuova (L. V, par. 20) ci dice che le liburne, entrate in auge nelle armate della
Roma imperiale per essersi dimostrate più agili, veloci ed economiche delle pesanti triere e
in seguito anche non meno veloci di quelli che saranno i miuoparoni bizantini, monoremo o
biremi che fossero, erano state usate con detto nome di liburne dai romani ancora nel
secolo precedente al suo, ma erano ai suoi tempi ormai disusate, perché dimostratesi in
guerra invece meno veloci delle nuove galee, biremi o triremi che fossero, essendo queste
sicuramente più attrezzate in velatura e probabilmente anche più basse sull’acqua di quanto
fossero stati i suddetti pentecòntori; bisogna però anche dire che ai suoi tempi, se le biremi
erano dunque in disuso, erano invece già molto usate le veloci monoremo, prive della
pesante coperta, e infatti, a leggere il di poco successivo Procopio da Cesarea (prima metà
del sesto secolo), l’armata bizantina di 500 vascelli comandata da Calonimo Alessandrino e
che nel 533 era andata a combattere il regno vandalico costituitosi in quella parte dell’Africa
settentrionale che più tardi dai cristiani sarà detta Barbaria includeva 92 vascelli da guerra
(gr. & gr. πολεμιϰαὶ νῆες), i quali erano tutti monoremo (μονήρεις) con equipaggi fatti solo
di remieri, atti però, quando necessario, a espletare, secondo la già detta antica tradizione
greca, anche incombenze marinare e a combattere, come molto più tardi si vedrà usarsi
anche a bordo delle monoremo basso-medievali:
… erano tra quelli anche novantadue ‘vascelli lunghi’ monoremo da presentare in battaglia
navale, peraltro anche dotati di copertura, affinché in tal modo i remiganti non fossero
bersaglio dei colpi dei nemici; ora la gente chiama tali vascelli ‘dromoni’; possono infatti
navigare con grandissima velocità. In essi navigavano circa duemila bizantini, tutti anche
remiganti; non essendoci infatti alcun ‘scapolo’ in essi (ἦσαν δὲ αὐτοΐς χαὶ πλοῑα μαχρὰ, ὡς
ἐς ναυμαχίαν παρεσχευασμένα, ἐνενήχοντα δύο, μονήρη μέντοι χαὶ ὀροφὰς ὔπερθεν
ἒχοντα, ὄπως οἰ ταῡτα ἐρέσσοντες πρὸς τῶν πολεμίων ὠς ἤχιστα βάλλοιντο. δρόμωνας
χαλοῡσι τὰ πλοῑα ταῡτα οἰ νῡν ᾂνθρωποι· πλεῑν γὰρ χατὰ τάχος δύνανται μάλιστα. Έν
τούτοις δὴ Βυζάντιοι δισχίλιοι ἔπλεον, αὐτερέται πάντες· περίνεως γὰρ ἦν ἐν τούτοις οὐδείς.
In De bello vandalico, L. I, 11.)
non s’intendesse per nulla invece di quella marittima e dei vascelli in generale. Infatti solo
qualche pagina dopo, a proposito cioè di in un successivo episodio della guerra vandalica,
narra che il capitano generale bizantino Belisario aveva tra l’altro ordinato che i dromoni si
ponessero in circolo attorno al resto dell’armata marittima per farle come da cinta muraria
di difesa, il che non si sarebbe naturalmente potuto pretendere da dei piccoli e leggeri
vascelli monoremo e quindi ciò significa che i dromoni erano ben altri:
Inoltre Belisario comandò che restassero di presidio cinque arcieri per nave condotta e che
i dromoni fosser ancorati tutt’intorno a quelle per proteggerle dalle frecce dei nemici (πλην
γε δὴ ὄτι τοξότας πέντε ἑν νηὶ ἑχάστῃ Βελισάριος ἐϰέλευε μεῑναι φνλαχῆς ἕνεχα, χαὶ τοὺς
δρόμωνας ἐν ϰύϰλῳ αὐτῶν όρμίζεσ&αι, φυλασσομένους μή τις ἐπ'αὑτὰς ϰαϰουργήσων ἵοί
(ib.)
Paragonandosi invece ora le galee medievali alle galere moderne, poiché la palmetta di
queste, non presente nelle prime, non rappresentava un allungamento dello scafo bensì in
effetti solo un’opera morta esterna allo scafo stesso, la lunghezza della zona dei remiggi
delle medievali, ossia degli spazi destinati alla voga, finiva per essere maggiore di quella
delle moderne, perché queste dovevano riservare la prua alle artiglierie, armi che quelle
medievali non avevano, come abbiamo più sopra già detto; infatti abbiamo visto che le
galee costruite tra 1274 e inizio del 1275 in Italia per Carlo I di Francia, anche se biremi,
avevano ben 27 banchi per lato. Di conseguenza, anche se le galere da guerra moderne,
perlomeno dalla seconda metà del Cinquecento, aumentarono la loro stazza col diventare
galere bastarde o quartierate, il numero dei loro ordini di banchi restò sempre di 25 o 26 con
forse qualche raro esempio di 27. Venezia era stata nel Cinquecento la potenza marittima
che più si era lanciata in questi tentativi d’aumentare le dimensioni delle galere, tentativi
falliti finché si era usata la voga a sensile o a zenzile, ossia con impugnatura tradizionale
del remo e con un remo per vogatore; l'esempio più ricordato era quello della galera
faustina varata nel 1529 e sulla quale più ci diffonderemo in un altro capitolo. Ci fu poi
un’altra galea veneziana - questa da 28 banchi - di cui parla il Baifio nel suo De re navali e il
Pantera c'informa che ai suoi giorni, vogandosi ormai da tanto tempo a scaloccio, le galere
maggiori potevano permettersi i 28 banchi, cioè tanti quanti n’aveva avuto verso la metà del
Cinquecento quella ricordata dal Baifio:
... come sono anco hora ordinariamente le ‘Capitane’ di squadra, se ben so che è uscita
dell'arsenal di quella Città (‘Venezia’) alcuna galea sino di 32 banchi per servizio di alcun
Generale, ma ordinariamente non passano vent'otto. (P. Pantera. Cit. P. 22.)
252
D’una galera siciliana abortita proprio perché riuscita troppo grande ci da notizia nel 1571 il
Bonrizzo, residente veneziano a Napoli, in un suo dispaccio al senato di Venezia datato 13
novembre:
… La galea ov’era don Giovanni nella giornata di Lepanto è molto maltrattata; si voleva farla
riparare qui, ma, poiché a Napoli non si trova legname stagionato, verrà mandata (invece)
qui da Messina quella troppo grande costruita già da don Garzia di Toledo e la si ricostruirà
daccapo in proporzioni più piccole… (Nicola Nicolini, La città di Napoli nell'anno della
battaglia di Lepanto, dai dispacci del residente veneto Alvise Bonrizzo, in «Archivio Storico
per le Province Napoletane», LIII (1928), B.N.N. Sez. Nap. Per. 2001.)
Ovviamente, per ridurre le proporzioni di una galera già esistente non serviva altro legname
ben stagionato. Interessante la predetta notizia perché la galera tanto malconcia di don
Giovanni dimostra materialmente come in quei tempi lo stesso capitano generale di mare
(gr. έναρχος στόλου) si mantenesse in prima linea in battaglia e affrontasse così il pericolo
come l’ultimo dei suoi soldati, anzi con più rischio, perché ogni soldato nemico, al solo
intravederlo, subito tentava ovviamente di colpirlo. Il Bonrizzo, dopo aver dato - in un altro
dispaccio del 29 dicembre - notizia che nell’arsenale napoletano si stava effettivamente
lavorando alla trasformazione della predetta galera, il 21 gennaio dell’anno seguente così
ancora ne scriveva:
… Si lavora con molta alacrità alla galera destinata a don Giovanni; è bellissima e,
quantunque contenga ben trenta banchi (s’intende per lato), così proporzionata da
sembrare una galea ordinaria. Il Vicerè voleva farvi adattare la poppa, molto bella, della
galea usata da Sua Altezza a Lepanto, ma don Giovanni ha voluto serbarla per ricordo… (Ib)
… All’inizio del mese di settembre 1568 il Gran Turco inviò in qualità di re o di governatore
d’Algeri Uluch-Alì, rinnegato calabrese, colui che fu in seguito grand’ammiraglio e che per
corruzione noi chiamiamo Ochalì, ma il suo nome è Uluch-Alì, il che in lingua turca significa
‘il rinnegato Alì’, poiché quelli che noi diciamo rinnegati, i mori appellano ‘elche’ ed i turchi
‘aluc’. (Ib.)
253
Da non confondersi questo famosissimo Uluch-Alì, dirà poi il de Rotalier, con un suo
omonimo rinnegato greco, soprannominato d’Escander ou de Candelissa; il de Bourdeilles
nelle sue Mémoires così racconta di lui:
… era nativo della Calabria, dove io ho veduto il luogo e alcuni dei suoi congiunti, i quali
egli veniva talvolta a visitare e ai quali faceva del bene e del favore; era monaco, si dice, e,
mentre se ne andava a Napoli per studiare, fu catturato, poi rinnegò e poco a poco,
facendosi corsaro, progredì come s’è visto. Credo che prese il turbante più per nascondere
la tigna che si dice l’abbia accompagnato tutta la vita, senza che mai riuscisse a
liberarsene, che per altro e, benché egli facesse buona professione di rinnegato, tuttavia
non abbandonò mai la religione cristiana. Ho udito dire questo da monsieur de Dage,
ambasciatore del Re in Levante che l’aveva visto a Costantinopoli. Ho udito tuttavia dire che
era più crudele di Dragut e non aveva così gran civiltà come Dragut, il quale amava i
francesi; così, quando (quest’ultimo) fu impiegato per la Francia e comandato dal gran
Signore di correre il mare, per amor di quella s’impiegò di molto buon grado. Ho udito dire
così da monsieur il Barone de la Garde che l’ha condotto e comandato per ordine del gran
Signore. (Pierre de Bourdeilles, Mémoires, T. II, pp. 75-76. Leyde, 1666.)
Uluch-Alì dunque, fatto capitano generale dell'armata di mare turca dopo la sconfitta subita
a Lepanto, si fece costruire una Capitan(i)a particolarmente grande, forte e bella di ben 36
banchi per lato, i cui remi di scaloccio erano grossissimi e lunghissimi in quanto
proporzionati all'insolite dimensioni di quella galera. Il Pantera, al quale si deve questa
notizia storica, non ci dice però quanti vogatori erano posti a ognuno di questi grossi remi;
certo non meno di 6 o 7. Questo atto di megalomania di quel parvenu, assurto a uno dei più
importanti e prestigiosi carichi dell'impero più potente del mondo d’allora dalla miseria e
ignoranza in cui viveva e ancor oggi certamente da considerarsi il calabrese più importante
della storia, meravigliò persino i turchi, nonostante essi fossero certo abituati a un certo
gusto del gigantismo militare nell'artiglieria e nelle dimensioni dei loro eserciti:
... Della qual galea uscì voce fuora che sarebbe stata meravigliosissima, di maniera che
Sultan Amurat, tirato dalla fama della grandezza e bellezza sua, si mosse di Costantinopoli
per andar a vederla sino alla Torre della Laguna. (P. Pantera. Cit. P. 59.)
Siamo portati comunque a credere che nemmeno questa maxi-galea ebbe un buon
successo, visto che nessun altro più ne scriverà. Il passaggio al remo di scaloccio
permetterà comunque d'ingrandire gradatamente le galere, aumentandone, come abbiamo
già detto, il numero dei rematori, e infatti nel Settecento la galera ordinaria arriverà a una
lunghezza media di m. 47 e a sette rematori per banco. Questo processo d’ingrandimento
comincerà dopo la guerra di Cipro (1570-1573) e infatti in una relazione del 23 marzo1602
254
sulla produzione allora in corso nell’arsenale di Venezia il Provveditore di turno così tra
l’altro scriveva:
… E perché le galee dopo la passata guerra si sono fatte assai maggiori (di) come convenne
a quel bisogno e perché possino portare e quantità di vittuaria e di soldati ancora, li
trinchetti fatti al bisogno delle gallee che innanti la guerra s’usavano sono così picoli che
hora possono prestare poco servizio a queste che hora si fabricano, onde farian bisogno
trentasettemilla brazza di tella da Viadana, (il) che importeria ducati ottomille… (Relazione
del Provveditore sopra le cento galee letta nell'eccellentissimo Senato a' dì 23 marzo 1602,
Venezia, 1868. B.N.N. Misc.103 (8.)
Gigantismi eccezionali e sempre inutili a parte, la forma della galera ordinaria era dunque
lunga, stretta e bassa e c'era una sola coperta, sotto la quale lo scafo era ripartito in sei
camere (ltm. thalami) divise da tramezzi detti parasguardi (vn. partitori; fr. fronteau, cloison,
clisson) - termine che poi verrà corrotto in parasquadri e così ancor oggi usato - e ognuna
d’esse aveva in coperta la sua boccaporta (fr. ecoutillon) con il suo sportello [fr. êcoutille,
panau (oggi panneau)], termine anch'esso oggi ancor usatissimo, ma nella sua forma
corrotta di ‘boccaporto’, mentre nessun autore da noi letto parla anche di posterle o anditi
[fr. couloirs, cour(r)oirs, courriers, allées; ol. gangen] che, come nei velieri, le rendessero
intercomunicanti. Partendo dalla poppa, la prima di queste camere era detta appunto la
camera della poppa ed era riservata alle persone, alle armi e alla roba del capitano, dei
gentiluomini di poppa, dei passeggeri (gr. επιβάτοι, περίνεῳ; l. vectores, ol. anche
scheepelingen) di qualità e altre persone di riguardo; essa era fornita d’una pancaccia
(bancazza) che faceva da letto al comandante e dalla sua estremità posteriore dava in un
minuscolo gabinetto di lavoro riservato anch’esso al capitano, il quale si chiamava lo
scagnetto o scannello (vn. studio o studietto; fr. gavon) e prendeva luce da due finestrelle
rotonde, dette cantarette (fr. cantanettes; vn. fenestrele in colomba), le quali si trovavano ai
due lati del timone (gra. πηδάλιον, οἰήίον, οἳαξ; grb. οἰάϰιον); dalla fine del Seicento, secolo
certamente più ‘luminoso’ del precedente, la luce sarà data invece da tre finestre per ogni
lato dell’ambiente. Dunque nelle galere nemmeno il comandante poteva permettersi di
dormire da solo. Contigua alla camera della poppa era la seconda, detta questa lo
scandolaro, la cui funzione era, oltre a quella di deposito delle armi minute di bordo, di
servire la prima e infatti in essa si conserva il resto della roba della gente di poppa (gr.
πρυμνήται), vale a dire dei predetti ufficiali e personaggi che nella prima camera appunto
alloggiavano:
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... e nei bisogni vi sta anco qualche botte di vino, come è costume delle galee di Malta. (P.
Pantera. Cit. P. 45.)
Beoni questi cavalieri di S. Giovanni! Lo Jal cita uno statuto genovese del 1441 in cui,
all'art. 34, si consente di depositare sopra o sotto il banco dello scandolaro - ossia il banco
che correva tutt'attorno la predetta camera - non altro che l'oro, l'argento, le perle, le
corazze, le celate, i collaretti di ferro, le balestre con i loro verrettoni guarniti, le altre armi e
le armature dei mercanti, eccetto le armi che si portassero come mercanzia da vendere;
insomma bisognava che questo locale riprendesse la sua funzione originale e cioè quella di
luogo sicuro e serrato dove tenere valori e armi e non certo vino o leccornie per la gola
degli ufficiali! Il nome scandolaro significa ‘scala’ e viene dal l. scandilium (‘gradino di
scala’); la circostanza che solo quella scala della galea desse il nome al locale con la quale
vi si scendeva fa pensare che, ai tempi delle antiche triere, avesse una maggiore
importanza per discendere nella poppa.
La terza camera, detta la compagna (dal l. cum pane) o dispensa, era il luogo in cui si
conservavano in botti e barili (vn. vezzotti) il grosso del vino e il companatico, cioè la carne
vaccina salata, quella di maiale, il lardo, le aringhe o le sardine salate, la tonnina, lo
stoccafisso, il baccalà, il formaggio, il burro, l'olio, l'aceto, l’acquavite, il sale ecc. Le botti di
vino andavano conservate con il cocchiume in alto e arrestate al pavimento con dei cunei,
affinché non si mettessero a rotolare; i vini peggiori si mettevano sotto ai migliori, perché
l’esperienza diceva che i vini posti più in alto e quindi tenuti più aerati si conservavano a
bordo meglio e questo era anche il motivo per cui era consigliabile far commercio marittimo
di vino a mezzo di piccole imbarcazioni; v’erano poi in questa compagna anche le tinozze
(fr. bailles; ol. verse-baalien, varse-baalien, week-bakken; vuilen-brassen) in cui si
ponevano a stemperare i cibi (ltm. vianda) disseccati, specie lo stoccafisso (fr. anche moruë
séche; ol. stokvisch; gedroogde bakkeliauw), a lavare quelli che andavano lavati e a
dissalare i salumi perché potessero essere poi consumati; ma come si procedeva per salare
(fr. brailler) a bordo le aringhe, il salume allora più consumato dalla gente di mare? I
francesi, dopo averle debitamente decapitate ed eviscerate, le cospargevano di sale, le
rimescolavano con pale e poi ne riempivano le botti (fr. caquer; ol. kaaken, kaeken); gli
olandesi preferivano tenerle in panieri piatti, da cui poi prenderle a strati da inserire nei
barili e salandole direttamente in queste uno strato alla volta; a terra si usava invece più
spesso cospargerle di sale nei panieri, ma poi, afferrati questi per i due manici, scuotere e
far saltare le aringhe in modo da mescolarle al sale. L’insieme della pesca e della
preparazione delle aringhe si diceva in fr. drogherie, termine il cui significato si è poi esteso
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a dismisura. Il grasso tolto dalla carne salata da cucinare si conservava e si utilizzava per
arricchire le minestre, ma, se esso era troppo salato, si adoperava invece per i lavori di
manutenzione di bordo. Lo stoccafisso, detto allora in Francia volgarmente merluche, si
doveva arieggiare spesso e ciò perché era l’alimento più soggetto all’attacco delle tignole;
questo pesce, era un tipo particolare di baccalà che si pescava principalmente tra le isole
d’assunzione e il Capo Breton e si poteva conservare per lungo tempo in quanto, oltre che
salato, era anche disseccato al sole appeso a dei pali, da cui il suo nome; c’era poi un terzo
tipo di baccalà, detto questo in francese ‘verde’ o anche ‘bianco’ (ol. groene bakkeliauw), il
quale era molto apprezzato e consumato a Parigi e si pescava anch’esso sul grande banco
di Terranova come la maggior parte del comune baccalà [fr. moruë, moluë; ol.
bakkelia(a)uw].
La quarta camera era chiamata, secondo una diceria, il pagliolo [fr. so(û)te, paillo; ch.
pagiolo; cst. pañol] perché generalmente il pavimento era ricoperto di paglia per evitare
attriti con il carico, ma in realtà la versione catalana ci dice che il termine derivava dal latino
penus (‘provvista di viveri’); essa serviva a conservare in barili stagni le vettovaglie secche
o panatica, come il biscotto, la farina, il pane, il riso, la fava, i ceci, l’orzo la semola e i
legumi in genere, i quali prendevano questo loro nome dall’essere generalmente conservati
in sacchi chiusi con legacci – pertanto anche il biscotto rientrava nella categoria dei legumi,
mentre i salumi si conservavano in botti o barili. Bisognava mantenere questo locale ben
asciutto a evitare che le provviste, specie il biscotto, andassero a male e quindi, prima di
riempirlo, andava preparato accendendovi dentro del fuoco che ne prosciugasse l’umidità
raccoltavi, operazione questa delicata e pericolosa per il vascello, come ricorda nel 1628 il
già ricordato Digby nel suo giornale di corso nel Mediterraneo:
Non esistendo allora pratici sistemi di refrigerazione, tutti i cibi freschi erano inadatti alla
provvista di bordo, specie il pane, il quale, a causa dell’umidità marina che trasudava dalle
tavole di legno, si guastava spesso in un solo giorno; il Brasca, il quale di ciò si trovò un
giorno a tavola a lamentarsi casualmente con i frati della chiesa del Santo Sepolcro di
Gerusalemme, così racconta nel suo diario:
… ed, essendo intrati in ragionamenti quanto sia alieno da la natura humana el navigare e
quanto presto si guastano le victualie in mare, maxime el pane, che in un giorno è
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mufolento, levasi in piede el patre guardiano e dice: Piglia uno de questi panni (‘pani’) che
sono sopra la mensa e portalo in nel bucco de la Sancta Croce e puoi portalo in galea e
dove ti pare, che mai si guasterà. Tolsi questo pane e con devozione lo feci toccare el
bucco de la Sancta Croce, puoi lo portai in galea e, quando fui a Vinezia, lo trovai nel grado
proprio ch’io lo tolse in la chiesia del Sancto Sepulchro, videlicet frescho, mondo e bello
como se allora fosse portato dal forno. (Anna Laura Momigliano Lepschy, Viaggio in
Terrasanta di Santo Brasca (1480) con l’Itinerario di Gabriele Capodilista (1458), Milano,
1966.)
A giudicare dal già citato contratto genovese del 1383, sembra che le galere medioevali di
quella repubblica marinara avessero un locale compagna che conteneva anche il pagliolo e
dove quindi si dovevano certamente conservare anche il pane e i legumi; questo
spiegherebbe la ragione del suo nome. La quinta camera, conosciuta ora come la camera di
mezo, ma nel Rinascimento anche genericamente carena, termine questo poi per
sineddoche ridotto nell’Italia del Cinquecento alla sola chiglia mentre in Francia le resterà il
senso d’intera parte immersa del vascello, era contigua all'albero di maestra e in essa si
tenevano le vele, una parte del sartiame, la mercanzia, la roba dei passeggeri non di
riguardo, le armi della bassa forza e dei soldati e le altre provvisioni; inoltre in questa
camera si conservavano le polveri e le altre munizioni per l'artiglieria, perché le galere non
disponevano - come i vascelli più grandi - d’un locale S. Barbara, così detto perché dedicato
alla Santa patrona dei bombardieri. In alcune galere si usava tenere le polveri chiuse in un
cassone posto in un canto, in altre si preferiva mettere tal cassone dietro l'albero di
maestra, cioè all'incirca nel mezzo della camera.
Sesta e ultima camera era quella detta la camera della prora, la quale, sebbene formasse
in effetti un locale unico con quella di mezzo non essendovi tra le due divisione alcuna,
pure aveva questo suo nome particolare perché era munita una sua altra entrata dalla prora,
entrata della quale ci si serviva per incombenze diverse; infatti, mentre dell'entrata detta
all'albore, usata per accedere dalla coperta alla camera di mezzo, cioè alla camera grande
detta nel Medioevo carena, si serviva il còmito per prendere vele, sartiami e le su cose
personali, si servivano anche i passeggeri e da quella si prendeva anche la mercanzia,
dell'ingresso di prora facevano invece uso il sotto-còmito e i marinai per i loro effetti
personali e, soprattutto, per i sartiami e le gùmene. Nella camera di prora avevano inoltre il
loro posto per dormire e per conservarvi i medicamenti sia il cappellano che il barbiero, i
quali dovevano quindi far camerata (dallo sp. camarote), ossia far vita d'alloggio in comune;
in essa poi, come però anche in quella di mezzo, trovavano posto per dormire anche i
marinai e i soldati e vi giacevano infine i malati e i feriti. Non si parla mai a quest’epoca
dell’uso d’amache o brande di tela sospese [fr. branles, (e)strapontins, hamacs, ol. Hang-
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makken]; infatti, come sembra di capire leggendo l’Aubin, si tratterebbe d’un tipo di
giaciglio usato dei selvaggi americani per difendersi dall’attacco d’insetti importuni e
velenosi e adottato dagli europei solo nel diciassettesimo secolo, prima dai filibustieri e poi
dalla generalità dei vascelli, specie da quelli oceanici; infatti anche i pavimenti dei vascelli
erano, come i suoli tropicali, da tenersi lontani, in quanto brulicanti di parassiti.
All'estrema prua della galera c'era infine il gavone, cioè quello strettissimo vano che,
data appunto la sua estrema angustia, non poteva servire da camera; in quest'ambiente,
così come anche del resto all'estrema poppa, non si potevano tenere pesi gravosi perché
ciò avrebbe compromesso la buona stiva, ossia l’assetto di bilanciamento (fr. estive,
arrimage, assiette, tanquage, tangage, contrepoids) del vascello e pertanto nel gavone si
tenevano per lo più materiali poco pesanti come la stoppa o il muschio per calafatare (ltm.
calefatisare), qualche sottile tavola e vimini per acconciare il barilame, il tutto per un peso
totale corrispondente a quello che a poppa si soleva mettere nello studiolo in servizio del
capitano.
Nel Settecento le camere della galera saranno circa in un numero doppio, perché, in un
processo d’evoluzione individualistica della mentalità comune europea, verranno via via
suddivise quelle preesistenti, ma si tratta dunque d’un tempo diverso da quello da noi qui
soprattutto preso in esame.
Lo scafo della galera si divideva in tre parti o quartieri e cioè il quartiero di poppa, che
andava dall'estrema poppa al banco di voga detto il banco della dispensa; la mez(z)ania, dal
banco predetto all'albero di maestra; infine il quartiero di prua. A questi tre quartieri
corrispondevano in coperta tre zone, la poppa, i remig(g)i e la prua; la poppa era la parte
posteriore e più alta della galea, era lunga poco più di cinque metri e, come anche la
sottostante camera di poppa (vn. pizuol, poi ghiava; l. penetrale; gr. ἐνθέμιον), era riservata
al capitano, ai nobili e personaggi particolari, ma vi stazionavano però per necessità in
permanenza anche coloro ai quali era affidato il governo del timone. La galera, a partire dal
Rinascimento, portava ormai solo il timone singolo detto latino o alla bayonisca
(evidentemente dalla città di Bayonne) o ancora alla barchesca, cioè ‘a mo’ di barca’, per
distinguerlo sia da quello che più sopra abbiamo detto alla navaresca, ossia ‘a mo’ di nave’,
sia da quello doppio, cioè consistente in due timoni posti ai due lati della poppa, sistema
antico che nel Rinascimento sopravviveva ancora, ma unicamente in quel tipo di nave da
carico veneziana detta maran, allora ancora comune nei mari di Levante, e che nel Tirreno
medievale si era chiamato generalmente usciero, nome che però, come abbiamo già
spiegato, non derivava dalla loro caratteristica di avere un ‘uscio’, cioè un portellone
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d’ingresso a poppa per l’ingresso dei cavalli, da cui l’impossibilità per questi vascelli di
avere un solo timone centrale, ma dal bizantino οὺσίαι, nome semplificato con cui infatti si
chiamavano in quell’impero i chelandri usaici, cioè la maggior parfte dei vascelli remieri
porta-salmerie e ippagogoi (l. hippagines); ma dal già ricordato contratto genovese del 1383
e dalla Fabrica di galee, trattato anonimo veneziano del Quattrocento, risulta che,
perlomeno in quei secoli, oltre a due timoni latini, di cui uno era però di rispetto, tutti i tipi di
galee veneziane erano anche dotate d’uno o due altri timoni di riserva alla navaresca, detti
anche baonensi, ossia coadiuvati da due grossi remi, a mo' di vascello tondo. Il de la
Gravière da queste misure approssimative del timone di galera latino: lunghezza m.7,
larghezza in basso m.1, larghezza in alto cm. 33, spessore cm. 11 (Jean Baptiste Jurien de
la Gravière, Les derniers jours de la marine a rames., Parigi, 1885). In caso che per avaria si
perdesse in mare il timone, si usava cercare di governare provvisoriamente la galera
passando all'altezza delle due scalette d'accesso alla galera poste - una per banda - alle
spalle (gr. αἱ ἀναβάθραι εις τῶν παρεξειρεσίῶν, ‘le scale alle spalle’), cioè ai due piccoli
copertini posti davanti al quartiero di poppa, due remi dei banchi di spalla, a mo' appunto di
timoneria navaresca o anche di timoneria antica, perché così vediamo nelle poche immagini
rimasteci delle triere dell’antichità. Dietro alla timoniera la poppa terminava con degli sporti
a banco sostenuti dai termini (fr. termes; ol. beeldt-werk, beelden, termen, staat-houten,
hoek-mannen), vale a dire da grandi cariatidi (bl. tuscia) di legno intagliato raffiguranti
angeli (fr. termes angeliques), ercoli, amazzoni, sirene (fr. termes marins), satiri (fr. termes
rustiques), turchi ed altri, figure possenti e non necessariamente ben rifinite, le quali
reggevano un piano di balcone chiuso al di fuori da una piccola balaustrata di colonnelle
dette gelosie e da una scultura figurata detta coronamento; il tutto decorato con ricche
dorature e simboli araldici (vn. arme di pizuol) che andavano naturalmente ripristinate
frequentemente perché spesso cancellate dai flutti e dall'altre intemperie. Il lavoro artistico
d’intaglio delle sculture di poppa delle nuove galere non era quindi eseguito da personale
dell’arsenale, ma s’affidava a partitari (‘appaltatori’) esterni, e particolarmente specializzati
in questo tipo di decorazioni navali era l’arsenale di Napoli. Grandi figure lignee
significative e decorative si erano sempre usate a poppa dei vascelli e Erodoto ci racconta
che i fenici ne usavano alcune rappresentanti loro particolari divinità marine chiamate in
greco Pàttaicoi (Πάτταιϰοι), facendo però l’errore, peraltro corretto dal Suida, di crederle a
prua (Suida, cit. L. III, p. 59), posizione estremamente improbabile perché, a meno che non
fossero una sorta di polene, vi avrebbero ostacolato l’alacre e continuo lavoro dei proeri.
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Talvolta le predette gelosie erano sostituite dalla galleria (fr. galeries, balcons, sardins,
jardins), ossia da una lunga balconata incurvata, scoperta o coperta, la quale circondava
esternamente tutta la poppa ed era soprattutto adibita al passaggio, in modo da non doversi
così necessariamente infastidire il capitano e la gente di poppa in generale, ma vi si
tenevano ordinariamente anche i grossi orci o giare di terracotta in cui si ancora si
conservava l’acqua dolce, se non più l’olio e il vino come s’era invece dall’antichita al
Basso Medioevo; a partire dalla seconda metà del Seicento queste gallerie, le quali
gl’inglesi usavano fare molto grandi e ornate, se coperte, verranno talvolta arredate con
armadi e piccoli letti per dormirvi al fresco e si diranno pure giardini perché spesso anche
utilizzate per tenervi all’aperto i vasi delle piante medicinali da cui il medico fisico e i
barbieri più esperti traevano alcuni dei loro medicamenti; inoltre cominceranno a essere
fatte talvolta anche a prua, spesso solo per puro ornamento, e così sarà per esempio per le
galee veneziane del Settecento, le quali porteranno questi giardini appunto sia a poppa che
a prua. Esistevano vascelli dotati di gallerie lungo le intere fiancate e ciò quando, in
mancanza di una corsia centrale, ci fosse carico tenuto in coperta che rendesse più
accidentato del solito il passare da poppa a prua; a Venezia tali gallerie laterali si
chiamavano spassizai.
Dal giogo (‘trave maestro’) della poppa sino a quello della prua c'erano prima le suddette
spalle, cioè due piazze lunghe meno di due metri, divise dalla corsia centrale, debordanti
dai fianchi della galera e nel cui debordo sbucavano le già ricordate scalette di cinque o sei
gradi che fiancheggiavano la poppa e servivano per salire a bordo della galera; erano tali
piazze munite di banchi lungo le murate laterali (gr. τοῖχοι) che servivano di giorno per
sedere e di notte per dormirvi sopra alla meglio; e poi da queste piazze iniziavano i remiggi
o bancate (fr. chiourme), vale a dire la lunga zona centrale della galera di quasi 29 metri
dove stava seduta la ciurma a vogare, e più propriamente si trattava della sequela di spazi
di cinque palmi (circa m. 1,22) ognuno tra un banco e l'altro, essendo invece ogni banco
largo 2/3 di palmo (circa cm. 16,23). Nella succitata Fabrica di galee l'altezza del banco di
voga viene prescritta in piedi due e 5/6 per quanto riguarda i banchi verso prua, mentre
quelli verso poppa dovevano essere più alti di due dita. Questa differenza d'altezza non
viene motivata, ma noi pensiamo che probabilmente nelle galee veneziane del Quattrocento
si facevano sedere i remiganti più alti a poppa e i più bassi a prua, visto che la Serenissima
si serviva comunemente sia di vogatori dalmatini, del cui arruolamento si occupava
soprattutto il rettore veneziano di Zara, che di greci e i primi erano uomini sensibilmente più
alti e grossi dei secondi. L'interscalmo, vale a dire la distanza tra banco e banco, è detto
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dal Crescenzio di quattro piedi (m. 1,29 circa), ossia tre assi di coperta. Ogni banco di voga
era sorretto all’estremità interna da uno zoccolo (fr. michon) addossato alla parete laterale
della corsia e a quell’esterna da un reggi-mensola attaccata al solo pavimento
Lateralmente alla zona dei remiggi, ai bordi della galera, correvano le bal(l)estriere (fr.
courroirs), cioè due tavolati - uno per lato - larghi una quindicina di pollici, ossia una
quarantina di centimetri, sui quali trovavano posto, tra i remi manovrati dai remiganti, i
soldati, i quali altrimenti avrebbero impacciato sia la voga sia il riposo della ciurma; questa
infatti con i suoi banchi ingombrava tutta la coperta dei remiggi fino alla corsia centrale. Le
balestriere servivano anche per adagiarvi per lungo i remi quando se ne disarmava la galea;
il nome di questi tavolati derivava dall'esser stati fino al Quattrocento incluso il luogo dove
- tra uno scalmo e l'altro - si appostavano i balestrieri per bersagliare il nemico, cosa che
invece ora si faceva con gli archibugi.
Tutta la descritta zona - spalle e remiggi - era divisa da una strada sopraelevata centrale più
alta della coperta di circa un metro e larga altrettanto, la quale permetteva il transito da
poppa a prua e si chiamava infatti corsia [fr. corsi(v)e; vn. corador; sp. cruxía, corredor];
questa era formata da due paretine laterali (galle in veneziano) ed era coperta da un tavolato
le cui tavole, chiamate quartieri, si potevano mettere o togliere secondo il bisogno perché
l'interno della corsia era, come vedremo, usato come comodo ripostiglio sia della tenda che
delle manovre di pronto impiego; terminava a poppa con un palco posto tra le due predette
spalle, lungo circa quattro piedi veneziani e più rilevato d’un mezzo braccio rispetto al resto
della corsia, palco che, detto in veneziano capomartino (gr. ἐπισείων; lem/ctm. tabernacle;
cst. carroza), prendeva, per metonimia, nella marineria di ponente o tirrenica lo stesso
nome d’un pilastrino a esso retrostante, cioè dello stentarolo o stendarolo (dal ltm.
stentarium, ‘stendardo’; gr. στηλίς, στηλίον), così chiamato in quanto, se si trattava della
Capitana o dell’Admiralea (se genovese), vi si alberava il vessillo del capitano generale o
dell’ammiraglio oppure, in caso di combattimento, quello, un po’ più grande, della Corona o
dello Stato, e se invece di una galera sensiglia semplicemente la bandiera della compagnia
di fanteria che quella galera imbarcava; nelle armate catalane medievali i viceammiragli
avevano portato sul detto tabernacolo delle loro galere una bandera reyal, cioè un vessillo
con le armi del sovrano ma più piccolo di uno stendardo; infine diremo che nelle triere
antiche vi si teneva appeso il vessillo del vascello, il quale aveva la forma di una lunga
striscia di tessuto e si diceva in greco ταινία. Sul predetto palco soleva intrattenersi il
còmito a comandare le manovre o la voga.
262
All'estrema prua si alzavano invece per circa quattro piedi veneziani, da una parte e
dall'altra della corsia, due palchi o piazze uguali, unite e chiamate rembate (vn. garide) in
quanto il loro insieme ricordava la forma del pesce-rombo. Sopra queste rembate stavano i
marinai addetti al servizio del trinchetto oppure una trentina di soldati, se si doveva
combattere, mentre in navigazione o in sosta i tavolati che ne costituivano la parte
superiore, detti sbarre, si tenevano aperti e sollevati lateralmente per dare più agio alle
manovre di prua; le strutture sulle quali poi s’abbassavano e poggiavano per combattere
erano forse quelle dette contra-rambate a cui si fa cenno nell’interessantissimo Governo di
galere, trattatello manoscritto post-rinascimentale, opera d’un anonimo capitano della
squadra di Sicilia (Discorso circa il modo et maniera ha da tenere un Capitano in governare
bene la sua galera in tutti viaggij et occasioni li potessero occorrere, cosi parimente de tutti
officiali et ministri di essa (s.d.) S.N.S.P. Ms. XXII.C.7.). Anche in spagnolo si chiamavano
così [(ar)rumbadas], ma il nome era sicuramente di origine italiana perché in spagnolo il
pesce in questione non si chiamava rombo ma molto diversamente.
Le suddette rembate, dette a volte anche rambate o rombate, erano un’evoluzione del
castelletto di tavoloni che abbiamo già ricordato a proposito del trombone che, come
abbiamo visto, s’usava comunemente alla prua delle galere medievali prima dell’invenzione
dell’artiglieria pirobalistica; a sua volta il detto castelletto medievale era stato un’evoluzione
della torre di prua, cioè di un’ opera morta di fortificazione spesso presente nella galera
antica. Il nome rembate veniva per sineddoche dal greco ρεβαμμέναι πρώραι, ‘prore
miniate’, cioè rosse, perché, come poi meglio ricorderemo, gli antichi greci usavano
dipingere appunto di rosso le ‘guance’ (l. genae; gr. παρειαῖ) della prua dei vascelli da
guerra e difatti nell’Iliade, oltre a leggere in diverse occasioni di navi da carico
semplicemente nere - perché già da tale antichità s’usava di proteggerene le opere morte
dei navigli (ma non di quelli piccoli) dalle intemperie marine ricoprendole di catrame, ne
troviamo in una dodici ‘dalle rosse guance (gr. μιλτοπάρῃοι), quindi trattandosi
evidentemente in questo caso di vascelli da guerra:
… Procedevano con lui novanta navi da carico (Τῷ δ' ἐνενήϰοντα γλαφυραὶ νέες
ἐστιχόωντο).
… Avanzavano con lui quaranta navi nere (Τῷ δ' ἂμα τεσσαράϰοντα μέλαιναι νῆες ἒποντο).
… Avanzavano con lui dodici navi dalle rosse guance (Τῷ δ' ἄμα νῆες ἓποντο δυώδεκα
μιλτοπάρῃοι).
… Avanzavano con loro ottanta navi nere (Τοῖσι δ' ἂμ' ὀγδώκοντα μέλαιναι νῆες ἒποντο).
… Procedevano con loro trenta navi da carico (Τοῖς δὲ τριήϰοντα γλαφυραὶ νέες
ἐστιχόωντο).
(The Iliad of Homer etc. L. II, vv. 602-733. Boston, 1835.)
263
Chiamavano comunque le guance di prua anche ale (gr. πτερά). Nella guerra di corso, per
render la galera più leggera e veloce, alcuni, come per esempio il famoso corsaro tunisino
Murat Rais, preferivano non solo non usare rembate, ma nemmeno portarle a bordo.
Sotto le rembate c'era il tamburetto o tarmoletto (fr. tambouret), ossia quella breve parte
iniziale della galera che andava dalla ruota di prua al giogo di prua e che era lunga poco più
di 2 metri e mezzo, ma riuscendo, ciò nonostante, a contenere, oltre all’artiglieria di prua, la
quale era la più importante della galera, anche gli armeggi, ossia le ancore e le loro gùmene,
i proesi, cioè le funi e gomenette con le quali si ancoravano per prora i vascelli; infatti le
galee non avevano quelli che poi saranno detto occhi di cubìa (dal l. cuba, “cisterna di
prua”) cioè i due futuri fori laterali simmetrici all’estrema prua da cui saranno calate e
ritirale le catene delle ancore prodiere. A questo proposito è interessante notare che in
dialetto chioggiano cubìa e cubiare presero a signficare “coppia, paio” e “accoppiare”, in
quanto detti occhi erano appunto due.
Avanti al tamburetto c'era infine un piano basso, triangolare e non pavesato né tanto meno
soppalcato (l. contabulatus), il quale sovrastava il tagliamare e terminava in avanti a punta
con lo sperone e, in quanto quasi a fior d'acqua, faceva parte dell'opera viva (ol. onder-
huidt, buiten-huidt) dello scafo, ossia del fasciame esterno, il quale si diceva in francese –
nel caso delle galere – rombaliere e nel caso dei vascelli tondi franc-bord(age), dovuto
quest’ultimo nome all’originale significato di franc, cioè appunto ‘esterno’, e, anche se
ponte inferiore si chiamava franc-tillac, questa non era una contraddizione in quanto in
origine tale ponte era stato logicamente l’unico dei vascelli e quindi esterno. Questo piano,
detto palmetta, serviva soprattutto, come abbiamo già detto, all'avancarica dell'artiglieria di
prua, ma era anche utile alla manovra delle ancore e dei gavitelli. Lo stesso nome di
tamburetto portava un ripostiglio posto a proravia dell'albero di maestra, nel quale i
bombardieri tenevano una saccoccia di polvere e altri materiali e attrezzi più urgenti per il
servizio dell'artiglieria.
Avanti alla prua e sopra il tagliamare sporgeva in avanti lo sperone [vn. sprone, becco; fr.
éperon, espron, po(u)laine, pouleine, cap, avantage, nez; ol. galjoen, neus], strumento
anticamente chiamato rostro (gr. προέμβολον, ἀϰροτόλιον) e atto a urtare e sfondare il
vascello nemico, ma ora, cioè da quando agli inizi dell’Impero Romano d’Oriente i bizantini,
secondo un uso però già inaugurato dagli antichi rodiesi, gli avevano preferito a prua il
sifone lancia-fuoco, era invece di semplice legno sottile non armato, perché usato solo
come mira del corso del vascello; oltretutto l’urto fatto con l’antico rostro aveva avuto il
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difetto di rischiare di danneggiare la prua dello stesso vascello assalente, quando la stessa
non fosse stata ben fatta. Considerando ora la lunghezza della galera, che abbiamo detto di
m. 42,38, divisa in 47 parti, secondo un calcolo teorico originale del tempo, abbiamo la
seguente ripartizione:
Poppa (5/6 parti) = m. 5,41 max.
Spalle (2 parti) = 1,80
Remiggi (32 parti) = 28,85
Coniglia (3 parti) = 2,70
Tamburetto (4 parti) = 3,61
Tot. 42,37
Le sei boccaporte (fr. écoutilles) delle camere della galera erano botole quadrangolari
adiacenti alla corsia, alcune aperte alla sua destra, altre alla sua sinistra; erano poste tra
banco e banco e quindi quei vogatori interni che sedevano in loro corrispondenza
poggiavano i piedi sopra le loro cateratte [fr. pan(ne)aux]. La prima delle 6, quella cioè della
camera di poppa, si apriva solitamente nel tavolato della spalla destra ed era spesso
rettangolare e posta nell'angolo che la corsia formava con il rialzo del tavolato di poppa; ma
la posizione di tutte queste boccaporte è così indicata dallo Hobier: quella predetta della
camera di poppa, a fianco del capomartino; quella dello scandolaro, al sesto banco di dritta;
quella della compagna, al decimo banco di sinistra; quella del pagliuolo, al dodicesimo
banco di dritta; quella della camera di mezzo, al sedicesimo banco di sinistra presso
l'albero e, quella della camera di prua, al ventitreesimo banco a dritta. Queste sei
boccaporte, le quali saranno invece generalmente sette nelle galere del Settecento, erano
protette da incerate di canovaccio a evitare le infiltrazioni d'acqua; in caso di mare grosso
quelle di prua addirittura si calafatavano temporaneamente.
A causa dell’adozione del più lungo e doppio remo di scaloccio, si era dovuto ingrossare e
allargare di molto anche il grosso telaio (telaro) rettangolare che poggiava sullo scafo della
galera, una struttura fatta di robusti tavoloni spessi un palmo napoletano, la quale era ora
più larga dello scafo stesso di circa un metro per lato e quindi dai lati sporgeva
sensibilmente sul mare; esso era costituito, a poppa e a prua, da due grosse e spesse travi
chiamate i giuochi e, nei suoi lati maggiori, da altre due grosse travi che, iniziando subito
dopo la spalla, finivano alla coniglia (fr. conille; sp. curulla) e si chiamavano le posticcie o,
più raramente, i posticci (grb. προεξειρεσίαι); al tempo dei remi a voga sensile, queste travi
laterali avevano poggiato direttamente sui bordi dello scafo, ora invece sporgevano
decisamente dai fianchi della galera, essendo sostenuti da circa 25 legni trasversali per
ogni lato detti baccalari e lunghi quasi quattro piedi veneziani, che andavano a conficcarsi
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nella coperta della galera e sui quali si poggiavano le reggiole, ossia tavole che riparavano
la gente e la roba di coperta dal cadere in mare. Poiché gli scalmi (gr. σϰαλμοί, ϰοπητῆρες)
dei remi erano piantati su queste posticcie, il telaro assumeva due importantissime
funzioni; la prima era quella di fornire un sostegno al giusto punto d’appoggio dei remi, cioè
al subscalmium (gr. ἐπισϰαλμίς) cosa che non sarebbe stata possibile senza di esso sia
perché che lo scafo della galera, visto dall'alto, presentava una forma a fuso e non a
rettangolo e sia perché tutto il tormento prodotto dal lavorio dei remi restava così assorbito
proprio da questo telaio e non dalle fiancate della galera, le quali, quando appunto erano
state prive di questo importante rinforzo, ne risultavano inevitabilmente presto danneggiate.
La predetta necessità di una gran sporgenza delle grosse posticcie non si era sentita invece
nella costruzione delle galeazze ponentine e delle galee grosse veneziane in quanto questi
vascelli molto più simili di garbo ai vascelli tondi che ai sottili e quindi già di per sé molto
più ampi. Le antiche triere non avevano dunque avuto queste posticcie attorno alla zona
centrale della galea, quella dei remigi insomma, presentavano però un telaio di travi attorno
alla poppa, probabilente per difesa dagli abbordaggi, come leggiamo in G. Polluce:
… le travi prominenti attorno alla poppa si chiamano ‘peritonee’ (τὰ δὲ περὶ τὴν πρύμναν
προὓχοντα ξύλα, περιτόναια ϰαλεῖται. Cit. I.IX, pag. 60).
Le galere portavano ordinariamente due alberi, il maestro e il trinchetto; il primo era alto
nelle galere ordinarie 27 cubiti, ossia m. 19,73 (ma 21,69, secondo il più tardo Furtenbach),
aveva un’antenna di cubiti 50, cioè m. 36,53 (44,58), era spesso due palmi di diametro al
piede e palmi uno ed 1/3 al calcese ed era piantato ai 2/3 della lunghezza del vascello a
partire dall'estrema poppa, vale a dire verso il 17mo banco. Quando si alberava, lo si faceva
discendere dalla corsia in un condotto (gr. ληνός, ἰστοδόϰη) che terminava sulla scassa (gr.
πτέρνα, πέδη, πέδα; fr. michon), posta sul paramezzale della chiglia della carena o
controcarena [fr. contre-quille, (ê)(es)ca(r)lingue; ol. tegen-kiel] della chiglia della galera,
sulla quale lo si doveva imbiettare; invece, quando si voleva disarborare (fr. demâter; ol.
reggen) la galera, magari per meglio occultarla in qualche d’una costa nemica, si abbatteva
l'albero di maestra adagiandolo nella corsia fino allo stentarolo, cioè fino al palco di
comando di cui abbiamo detto. I marinai lo abbassavano tirandone pian piano dalla
quarnara il calcese verso poppa, mentre la ciurma dei remiganti lo sosteneva dalla dritta
con un prodano. L'albero di trinchetto era lungo cubiti 18, ossia m. 13,15 (13,01, sempre
secondo il Furtenbach), portava un’antenna di 32, cioè m. 23,38 (26,99) ed era posto a prua
a poppavia delle rembate; in qualche squadra o stuolo (dal l. ex-tollo, ‘faccio uscire’. Gr.
στόλος, ‘armata di mare, flotta militare’) poi si usava, se necessario per una maggior
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velocità, inalberare anche un albero di mezzana o artimone (fr. mezanin) di 15 cubiti (m.
10,96) con un’antenna di 26 (m. 18,99) tra il maestro e la poppa e anche mezzana (fr.
mezanin) si chiamava infatti la vela che a quello si alzava; le galere di Sicilia per esempio
non l’usavano. Il trinchetto, a differenza dell'albero di maestra, nasceva dalla stessa
coperta, dove era sostenuto da due forti ganasce di legno dette maimoni. Nelle antiche
galee greche i remiganti, i quali, tra l’altro, erano anche adibiti ad abbattere e a reinalberare
l’albero di maestra perché considerati i più esperti in questo importante compito, avevano
un nome particolare, cioè erano chiamati ortiòcopoi (ὀρθιόϰωποι).
Come abbiamo già visto nel caso delle galee del re di Napoli Carlo I d’Angiò del 1274, fino a
Rinascimento inoltrato le galere avevano però portato invece un solo albero, cioè quello
maestro, più uno di mezzana di riserva con la sua antennella; il primo allora disponeva di
due sole vele, cioè l'artimone, lungo in antennale 15 passi, e il terzaruolo (vn. terzarola; fr.
fanon), lungo in antennale 12 passi; il secondo della sola mezzana, dall'antennale d’otto
passi. Non si era usato quindi allora il trinchetto, il quale sarà introdotto in sostituzione del
predetto di mezzana per allontanare evidentemente dal comando di poppa l’impaccio della
manovra d’un albero. Lo Jal si meravigliava di vedere immagini di galee veneziane
quattrocentesche con un solo albero, mentre il materiale elencato per costruirle ne
comprendeva due; avrebbe in verità dovuto capire agevolmente che quello di mezzana con
la sua antenna anche allora s’inalberava solo eccezionalmente per aumentare la velatura.
Era portato inoltre, da queste galee veneziane del Quattrocento, anche un pennone di
rispetto (fr. vergue de beille), evidentemente per una vela talvolta usata dalle galere, la
cochina che poi vedremo. Secondo alcuni autori le galere turche furono molto più tarde
delle cristiane ad adottare il trinchetto, ma non è da credersi tanto se il Diedo, nella sua
narrazione della battaglia di Lepanto, a lui contemporanea, scriveva che l’armata turca,
avvicinandosi a quella della Lega, se ne veniva a vela co’ trinchetti col vento di levante
(Carlo Téoli, La battaglia di Lepanto descritta da Gerolamo Diedo e la dispersione della
Invincibile Armata di Filippo II illustrata da documenti sincroni. P. 20. Milano, 1863.)
All’assedio e blocco navale di Algeciras del 1342-1343 i castigliani, tra i vascelli moreschi
che tentavano di portare soccorso alla città, videro venire una galera a due alberi,
caratteristica evidentemente allora insolita:
… videro venire quella galera che i mori inviavano carica di vivanda e portava due alberi e
due vele e, poiché c’era un forte vento, avanzava verso la città molto velocemente…. (Juan
Nuñez de Villasan, Cronaca del re Alfonso XI di Castiglia. F. 181 recto).
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Gli alberi migliori e più adatti da farne alberatura di galere erano quelli che s’importavano
dalla Fiandra e dall’Olanda, ma molto apprezzati a tal scopo erano anche i pini della Sila
cosentina. L'antenna dell'albero di maestra - detto anche di maestra, se ci si voleva riferire
alla vela che portava - era formata da due lunghe palanche legate insieme, delle quali quella
a poppavia si chiamava penna (vn. ventame) ed era più lunga e sottile di quella a proravia,
detta invece carro (vn. stello); la penna si allungava con un altro pezzo di legno di circa 15
piedi (m. 5,20) chiamato lo spigone, ma questo si applicava solo quando si voleva spiegare
(l. pandere; fr. deferler) la vela maggiore. Il predetto nome di penna derivava dall’essere il
detto legno quello a cui era legato l’angolo superiore della vela latina, angolo che, a causa
della sua forma, si chiamava appunto con questo stesso nome. Anche in due parti erano
divise le antenne di trinchetto e della mezzana. Questa descrizione dell’antenna della galea
è importante anche perché, confrontata con quanto nel secondo secolo d.C. Giulio Polluce
(cit. I.IX, pp. 62-63) scriveva invece dell’antenna dell’antica triera greco-romana, risalta una
grande differenza nautica dei due vascelli; infatti, mentre l’antenna della prima era dunque
mobile, asimmetrica. parallela e convergente con la lunghezza dello scafo, fatta soprattutto
per reggere vele latine, quella dell’antica triera era invece fissa, simmetrica e
perpendicolare, destinata quindi a sostenere vele quadre secondo l’uso di tempi in cui il
veleggiare con vele latine non era ancora conosciuto.
La galera ordinaria portava solo due vele e cioè la maestra e il trinchetto, sempre però che
non si alzasse anche la suddetta mezzana. La maestra era di quattro tipi, ognuno dei quali
si usava a seconda del vento che spirava e uno solo dei quali era quadro, cioè quello
chiamato trevo [vn. cochina; fr. treou, (voile de) fortune; ol. bree-fok), una vela che si usava
da sola per correre durante i fortunali e per montare la quale la galera era, come abbiamo
detto, anche fornita d’un normale pennone che si conservava nella corsia e il cui nome
aveva ovviamente la stessa origine di quello suddetto di penna, essendo inoltre anch'esso,
come le antenne, composto di due pezzi legati; usavano il trevo anche le galeotte e, come
abbiamo già detto, le tartane. Gli altri tre tipi di vela maestra erano latini e si chiamavano
bastardo, borda e marabut(t)o, qui menzionati in ordine di grandezza decrescente. Il
marabut(t)o o marabotto era dunque la più piccola di queste tre vele e si usava con i venti
freschi e gagliardi; il bastardo invece si adoperava solitamente con i venti estivi perché
dolci e temperati; la borda infine con i venti di media forza. Le sole galere di Malta usavano
ancora una quarta vela latina detta artimone o bastardino (acltm. artimons borts. Muntaner)
e di grandezza intermedia tra bastardo e borda, la quale era invece stata d’uso generale nel
Medioevo, come vedremo più avanti nell’ultimo capitolo, quello cioè dedicato alle galee
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medievali catalane. Le vele del trinchetto e della mezzana, ambedue latine, portavano lo
stesso nome dei loro rispettivi alberi, ma la prima, usata alternativamente al trevo o con
esso nelle maggiori tempeste, fino a tutto il Rinascimento era stata chiamata lupo dalla
gente di mare ponentina quando usata di notte tinta di nero per non farsi vedere dal nemico.
Per quanto concerne la velatura che usavano le galere levantine, sia veneziane e sia turche,
rimandiamo al capitolo sulle più antiche galere a voga a sensile, in quanto poco era
cambiato da quell'epoca; solo notiamo che lo Jal attribuisce alla vela detta mezzana delle
galee veneziane del Quattrocento il nome di papafico, nome che invece noi troviamo usato
a quell’epoca solo dalle galeazze o galee grosse e, per quanto invece riguarda le galee
veneziane ordinarie, non solo non prima del Settecento, ma anche come seconda vela dopo
il terzaruolo, usato questo come nei secoli precedenti; d'altra parte l'autorevolissimo
ufficiale generale di galee veneziane Cristofaro da Canal (l. de Canali; in grb. invece
Δεϰανάλης), vissuto nella prima metà del Cinquecento, nel suo trattato Della milizia
marittima, manoscritto che sarà pubblicato per la prima volta a Roma non prima del 1930,
non menziona mai tal nome papafico e nega assolutamente l'uso d’una terza vela sulle
galere sottili veneziane, anzi considera questa mancanza un difetto delle galee della
Serenissima. Forse può aiutare a capire quanto scriveva il Cano a proposito delle vele delle
navi o vascelli tondi che portavano questo stesso nome di papafico (sp. papahigo):
PAPPAFICO: Queste sono le vele principali, la vela maestra e la vela di trinchetto, alle quali
vengono aggiunte altre vele che, una volta aggiunte, vengono chiamate ‘vele maestre’ e, se
singole o sole, ‘vele pappafichi’ (PAPAHIGO: son las velas principales mayor y triquete,
sobre que se añiden otras, que quando estan añadidas se llaman ‘maestras’, y quando
senzillas o solas ‘papahigos’. In Thomé Cano, Arte para fabricar, fortificar y aparejar naos
de guerra y merchante etc. F. 55 recto. Siviglia, 1611).
All'occorrenza, in caso di venti troppo forti, si potevano restringere sia la vela detta maestra
sia quella di trinchetto di circa un terzo, legandole alle rispettive antenne a mezzo di
matafioni, ossia di corde attaccate alle vele stese, e ciò si diceva far il terzaruolo (vn. far la
terzarola; fr. faire le fanon) alla vela. Così fece la flottiglia del corsaro Barbarossa nel 1533
all’isola di Pantelleria, dove, mentre si trovava all’ancoraggio, fu sorpresa da un fortunale:
Le vele delle galere bastardelle erano di solito alquanto più grandi di quelle delle galere
sottili. A proposito del da Canal, c’è da dire che egli apparteneva a una famiglia la quale sul
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mare si era già distinta anche nei fatti di guerra tra Venezia e i turchi che si svolsero dopo la
caduta di Costantinopoli e infatti nel 1470 troviamo Nicola da Canal prima provveditore
d’armata e poi capitano generale dell’armata di mare veneziana:
… il capitano generale del mare dei veneziani di nome Nicola Decanale… (ὂ τῶν Ένετῶν
ναύαρχος τοὒνομα Νιϰόλαος Δεϰανάλης. Giorgio Franzes, cit. L. IV, cap. XXIII.)
In seguito però il Franzes lo chiamerà anche solo Κανάλης, cioè senza il Δε. E’ probabile
che dalla medesima famiglia verrà molto più tardi anche il famoso pittore Giovanni Antonio
Canal detto il Canaletto (1697-1768) e ciò perché in quei secoli le famiglie non avevano
ancora avuto né il tempo né i modi di ramificarsi particolarmente. La circostanza però che in
latino il cognome si trovi sempre scritto de Canali, cioè con un ablativo in -i che invece,
come i latinisti ben sanno, per esser corretto, dovrebbe essere in -e, ci fa prendere in
considerazione un altro più antico cognome patrizio veneziano e cioè Nani, non ritenendo
infatti improbabile che il cognome originario dei da Canal fosse in effetti de Ca’ Nani, ossia
‘da Casa Nani’.
Riteniamo utile adesso riassumere in un quadro, dividendoli per epoche, i nomi delle vele
delle galere cristiane ordinarie in cui ci siamo imbattuti, chiarendo che non si tratta pertanto
di tutte le vele allora usate:
Rinascimento:
Ponentine
artimone fz. 60
lupo fz. 54
borda fz. 32
trevo
Veneziane
artimone fz. 52
terzarolo fz. 36
cochina
Controriforma:
Ponentine
bastardo
borda
marabuto
trevo
trinchetto
Veneziane
cochina
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Settecento:
Veneziane
terzaruolo fz. 48
papafigo fz. 34
cochina fz. 19.
Vogliamo anche riportare per completezza i nomi delle vele delle galere francesi post-
rinascimentali riportati dal già ricordato de la Gravière, anche se citiamo questo autore
sempre ‘con beneficio d’inventario’, sia perché descrive galere più tarde d’almeno un
secolo di quelle che ci occupano sia perché, per palese superficialità, non fa distinzione tra
tempo e tempo, non intravedendo minimamente l'evoluzione che si ebbe tra Medio Evo e
Settecento nella navigazione remiera, inoltre anche per i marchiani errori interpretativi e per
il voler attribuire a quei tempi immagini della navigazione della sua propria epoca:
Si tratterebbe di vele tutte fatte di cotonina doppia, tranne il grand marabout e il grand
trinquet di cotonina semplice.
Ogni galera, come del resto ogni altro vascello abbastanza grande, portava il suo schifo
(dall’gr. σϰάφος, ‘imbarcazione’; td. Schiff; in. ship) o palischermo (dall’gr. πολυσϰαλμοι,
ltm. anche parascernus; lem/ctm. panescal; gr. σανδάλος) o fregatina, ossia una barchetta
chiamata in cst. barco, a Venezia còppano e più tardi in Francia caique o anche chaloupe, il
quale era tenuto al lato destro della coperta in un luogo detto pertanto barcariggio o
barcherizzo e cioè in corrispondenza dell'ottavo banco, dove poteva o stare poggiato su
due cavalletti di legno, sovrastando così i remiganti di quel banco, oppure poteva occupare
il remiggio stesso; nel primo caso questo bastimento mobile della galera era più fortemente
tenuto affinché i forti venti o il piegarsi della galera alla banda non lo facessero cadere in
acqua. Tenendolo sui cavalletti c'era lo svantaggio che si appesantiva e s’ingombrava
alquanto la galera sulla destra e si aveva un po' di fastidio nel prueggiare, cioè nell'andar
contro vento; nel secondo caso si doveva invece rinunziare a un remo. Lo schifo non
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avrebbe dovuto essere tanto piccolo perché in teoria doveva servire anche per sbarcare
fanteria, anzi in tali occasioni e in altre che vedremo spesso più avanti si armava con
qualche piccolo pezzo d'artiglieria; però in realtà e per lo più esso era un piccolo battello di
servizio adatto a portare non più di tre persone, le quali del resto erano sufficienti a
governarlo, e ciò non perché non ve n’entrassero di più, ma perché era pericoloso
sovraccaricarlo di gente, dato il particolare sistema con cui si metteva a mare e s’issava a
bordo; esso infatti si faceva scivolare in mare e si ritirava poi a bordo mollandolo o
tirandolo lentamente con delle barbette sul piano inclinato formato - a mo' di scivolo e di
rampa - dal palamento tenuto a tal scopo dai remiganti con le pale nell'acqua e, per
facilitare questa manovra, la galera si faceva preventivamente sbandare facendo
ammassare tutti gli uomini sul lato destro. Era questa una manovra che era stata resa
possibile dall’adozione dei grossi remi di scaloccio, in quanto molto più grossi e forti dei
precedenti sensigli che si sarebbero spezzati; si trattava di manovre da eseguirsi comunque
con molta attenzione perché, come si può facilmente immaginare, bastava che la ciurma
tirasse più da una parte che dall'altra per far rovesciare a mare lo schifo e farlo così
affondare.
Nel Quattrocento, come si legge nella già citata Fabrica di galee, tutte le galee grosse
veneziane portavano, oltre al còppano, anche una barcha o batel, ossia una piccola
imbarcazione a vela latina e quest'uso di portare a bordo, oltre al caique, pure un canot (gr.
ἐφολϰίς, ἐφόλϰιον; l. scapha; it. fregatina, cst. patache, chalupa; cst. e mrs. zabra), viene
riferito dal de la Gravière anche per le galere francesi post-rinascimentali (Cit.); bisogna
però considerare che il più delle volte questa seconda piccola imbarcazione, per non
ingombrare e appesantire eccessivamente la leggera galea, si portava a rimorchio (l.
remulcum, promulcum), specie se si navigava in condizioni atmosferiche favorevoli che
permettessero appunto i traini. Le scialuppe portate a rimorchio dai vascelli bizantini si
dicevano ἐφόλκαια o anche ἐφολκίδες, appunto dal verbo ἒλϰειν, ‘tirare, rimorchiare’, che
però si diceva anche ἐλκύειν e ῥυμουλϰέιν, da non confondersi però con gli ἐφύλκια o
ἐφόλκια, i quali, come già detto, erano quei piccoli càrabi usati non da rimorchi ma al
contrario per rimorchiare.
Ogni galera portava quattro ferri, termine tipico delle galere, ossia quattro ancore a quattro
bracci curvi all’insù e terminanti a punta di freccia, tipici delle galere e dei vascelli di basso
bordo in genere; due d’essi si trovavano a prora sotto le rembate, poggiati orizzontalmente
ai due lati dell’artiglieria, e due ai fianchi, cioè uno allo schifo e uno al fogone, vale a dire il
luogo per cucinare di cui parleremo; la gùmena di un’ancora ordinaria doveva pesare circa
272
otto cantára. I veneziani chiamavano la maggiore anchoressa e questa pesava 600 libre (kg.
265,50 e s’usava solo durante i più forti fortunali; chiamavano poi la mezzana marzocco e
questa - di libre 550 - si adoperava durante i fortunali di media forza; il terzo e ultimo, detto
sempre a Venezia ferro della posta e nei mari di ponente invece guardiano, pesava 500 libre
ed era quello col quale ordinariamente si sorgeva, ossia ci si ancorava a prora, quando il
mare era abbastanza calmo. Ogni galera portava quante funi e gomene si poteva permettere
e il da Canal scriveva che tra galere levantine e ponentine non c'erano a questo proposito
sostanziali differenze ed era notorio (et ciascuno sa) che la gùmena da galera sottile era
lunga 65 passi (m. 113 circa) e che pesava 10 libre al passo; che una palombara era lunga
50 passi (m. 87 circa) e pesava otto libre al passo; che un provese era lungo 66 passi (m.
114,5) e pesava sei libre al passo. C'erano poi molti altri tipi di funi la cui doppiezza e il cui
peso variavano a seconda dell'uso a cui erano destinati, come per esempio all’ormeggio, il
quale generalmente avveniva di poppa, anche perché in tal maniera il vascello era più
pronto a ripartire quando bisognava farlo in fretta. La fune più grossa in assoluto era l'usto
(ltm. palamarium; lem/ctm. palomer), grossa gomena incatramata che si adoperava per
ormeggiare alle bitte o longoni portuali [l. pali prymesii (da praemitto, ‘metto innanzi’),
tonsillae; gr. λογγόνες oppure λιθοϰλιμένοι. Suida, cit. P. 456] i vascelli più grossi o anche
le galere in tempo di fortunale (fr. anche grand tems, gros tems; ol. anche onweer, swaar
weeder, verleegen weer, verwaait weer, rouw weer, hardt weer). Le tonsillae erano dei pali
appuntiti dal lato che si piantava nel suolo costiero e all’altra estremità invece ferrati per
fortificarli (Sesto Pompeo Festo, cit. P. 539).
Al tempo della voga a sensile le galere avevano portato invece comunemente tre soli ferri, i
quali, come scriveva il già menzionato da Canal, si usavano uno alla volta a seconda della
forza del mare. Se andiamo ancora più indietro nel tempo troviamo le galee grosse
veneziane del Quattrocento, sia le quattro dette di Fiandra sia quelle dette invece di
Romania, cambiando infatti il garbo costruttivo a seconda del viaggio a cui erano destinate,
provviste di cinque ferri di 600 libre ognuno e di cinque canapi o gomene di 70 passi
ognuna e pesanti sette libre al passo, mentre le galere sottili volevano tre soli ferri di 400
libre e quattro canapi da 50 passi a 6 libre al passo; non sappiamo quali ferri avessero
invece le cinque galee grosse di Barbaria. In realtà nel Medioevo - e ancora alla fine del
Quattrocento – si faceva una distinzione tra ancora e ferro, essendo la prima
tridimensionale, cioè a più di due bracci, e il secondo invece bidimensionale, ossia a due
soli bracci contrapposti. Nel Seicento troveremo ancore anche di sei bracci; nel Settecento
le galere ordinarie avranno due ancore a prua, due a poppa e due piccole di rispetto e si
273
tratterà, nel caso delle prime quattro, di ferri più pesanti in quanto più pesanti saranno le
galere di quel secolo; per esempio le galere sottili veneziane porteranno due ancore da
mille libre e due da 900.
Il fogone o fogone (foccolare in toscano; ol. haart) si trovava, per contrappeso e simmetria
dello schifo, in luogo dell'ottavo banco di sinistra e pertanto privava sempre la galera d’un
remo; secondo le descrizioni datane dal già citato Jurien de la Gravière, sostanzialmente
simili anche se così lontane nel tempo, si trattava d’un pesante cassone di legno ferrato a
forma di parallelepipedo e pieno d'argilla, i cui bordi reggevano graticole, fornelli e porta-
spiedi; tale cassone, lungo all'incirca quanto un banco, poggiava su quattro piedritti e
seguiva, per forza di cose, la stessa angolazione dei banchi della sua banda. Sulle galee
veneziane sia il luogo del fogone sia quello dello schifo erano alquanto elevati e protetti da
un’incastellatura della pavesata. In caso di guerra di corso, attività in cui la velocità era
qualità essenziale, spesso il capitano rinunziava a portare il fogone per poter aggiungere un
altro banco di voga a sinistra e inoltre, venendo così a mancare un sufficiente contrappeso
con il lato destro, portava invece del predetto schifo, una fragatina rinforzata, posta su
cavalletti che sovrastavano anche il banco di sinistra e quindi l’intermedia corsia,
imbarcazione che sarebbe stata alla galera molto più comoda del troppo piccolo schifo per
mettere della gente a terra e per fare dell’acqua. Naturalmente, mancando il fogone, non era
possibile servire al personale cibi caldi e la sua alimentazione era decisamente peggiore,
ma tutti sopportavano volentieri anche questo disagio in vista di una compartecipazione
pro quota ai bottini (fr. pillages).
Ora che si usava il grosso remo di scaloccio, i remi (fr. anche gaches, sebbene antiquato)
istallati a bordo erano ovviamente tanti quanti i banchi e si fermavano, come abbiamo già
detto, sopra quelle parti d'opera morta chiamate (a)posticci o posticcie; ogni remo era
legato al suo scalmo (gr. σϰαλμός; l. lorum; fr. tolet, échome; ol. dol, pen), ossia a un legno
lungo circa un piede e piantato nel posticcio, con uno stroppo (dal l. strophium; gr. τροπός,
τροπωτήρ, ἰμάς; fr. anche gerseau; cst. estrobo; lem/ctm. strop), cioè con un pezzo di fune
intrecciata, ma al punto di frizione tra il remo e l'aposticcio c'era un cuscinetto formato dalla
calaverna, ossia da un pezzo di tavola di legno giovane, quindi più elastico, che si applicava
al remo e che si cambiava quando fosse usurato; nell’antichità invece, cioè quando i remi
uscivano della murata (dallo sp. amurada) attraverso quei fori rotondi (l. orbiculati) detti
occhi di scalmo (gr. τρῆματα), per proteggere sia questi sia i remi dal reciproco attrito, si
fasciavano a quel punto i secondi con delle guaine fatte con le pelli più resistenti e
chiamate in l. folliculi e in gr. ἂσϰωματα (nel Lexicon di Suida con accento diverso:
274
... (Il nemico), mas aunque disparò su artilleria, danò poco, porque sus vasos eran màs
altos de ruedas y de trigante (‘dragante’) que los de Poniente...
…tenia la galera de Don Juan cortado el espolón y la de Alì (il capitano generale nemico)
era màs alta y assì entrò y cargò mucho sobre ella... (Lorenzo van der Hamen y León, Don
Juan de Austria. Historia etc. P. 177v. - 178r. Madrid, 1627.)
... Molti non fecero danno a' christiani perché le prove (‘prue’) delle galee turchesche erano
tanto alte più delle christiane che le bocche (d'artiglieria, pur) abbassate sin su i speroni,
portavano ancora tanto alto che cimavano di sopra le pavesate delle galee christiane...
(Historia delle cose successe dal principio della guerra mossa da Selim ottomano a'
venetiani fino al dì della gran giornata vittoriosa contra turchi etc. P. 51v. Venezia, 1645)
Ma perché i turchi preferivano costruire i capi, ossia le prue, delle loro galere così alti? Ce
lo spiega il bailo veneziano Marino Cavalli nella sua relazione sull'impero ottomano del
1560:
... Usano far li capi delle galee assai alti perché non si affoghino tanto nel mare come le
nostre, lo che dà ancora maggior vantaggio nel combattere e non cascano tanto... (E. Albéri.
Cit. S. III, v. I, p. 294.)
Dunque il Cavalli giudicava tale aspetto una buona qualità e non un difetto; ma ai suoi tempi
non c'era stata ancora Lepanto. É certo comunque che alla battaglia all’isola di S. Michele
nelle Terzeire (‘isole Azzorre’), avvenuta il 26 luglio del 1582 e con la quale gli spagnoli
finirono di recuperare quelle isole che erano state sino allora sotto il controllo di don
Antonio di Portogallo (1531-1595), priore gerosolimitano d’Ocrat (‘Crato’), il marchese di
Santa Cruz, per evitare il suddetto inconveniente, prima dello scontro con l'armata di don
276
Antonio, fece tagliare gli speroni dei suoi vascelli e lo stesso, a dire di Giuseppe Buonfiglio
Costanzo (Historia siciliana etc. Venezia, 1604), sembra abbiano fatto i cristiani a Lepanto. Il
Santa Cruz, forse il miglior capitano generale di mare che la Spagna abbia mai avuto, fu
prima generale delle galere di Napoli e poi fu chiamato dal re a comandare l’armata
oceanica della Spagna per fronteggiare il dannosissimo corsaro inglese Francis Drake, il
quale così è definito dal de Bourdeilles nelle sue famose Mémoires:
… le milord Drach anglois, le plus fameux homme de dessus cette mer qui ait esté il y a
plus de deux cent ans et qui a bien donné de l’affaire en Espagne. (Cit. T. II, p. 83.)
Fino a Cinquecento inoltrato, lo sperone era stato dunque molto solido e forte e anche
allora con un orientamento verso l’alto che serviva a ferire la galera nemica al fianco
dell'opera morta, cioè a fracassarle la posticcia, mandandone in rovina tutta la relativa
impavesata, o direttamente questa se quella ancora non c’era; il che era come aprire una
breccia tra le merlature d'una città; non serviva quindi a sfondarle il fianco più sotto e
tantomeno sotto la linea di galleggiamento per aprirle una falla, come oggi si crede. Inoltre
questa sua inclinazione all'insù evitava appunto, anche nelle più forti mareggiate, che esso
cascasse (‘si tuffasse’) nel mare e anche facilitava al tagliamare il suo compito di fendere le
onde, il che rendeva la galera molto più nautica e veloce nel prueggiare, cioè nel governare
(gr. πηδαλιουχεῖν) contro vento. Lo sprone così inclinato era stato arma offensiva anche
delle galere turche, invece i veneziani avevano sempre preferito portarlo lungo e
orizzontale, quindi basso, e anche debole, per esser solo formato da due travicelli; pertanto
non solo si tuffava nell'acqua a ogni più piccolo movimento del mare, dando così grande
impedimento alla velocità del corso, ma in guerra andava a colpire l'opera viva della galera
nemica, ricevendone quindi, a causa della predetta sua debolezza, più danno di quanto ne
potesse infliggere, anzi così fracassandosi e lasciando la prua della sua galera disarmata (l.
exermis).
Che le prue si fracassassero facilmente nello speronare il nemico, quando ciò appunto si
era usato, lo leggiamo nella Cronica del Muntaner a proposito della battaglia che nell’anno
1283 avvenne nella rada di Malta tra le galere aragono-catalane dell’ammiraglio Roger de
Loria e quelle provenzali dell’ammiraglio marsigliese Guillaume Cornut:
… G. Cornut, almirall de Marsella… feu tocar les trompes e lleva volta a les palomeres e be
apparellat e en cuns de la batalla vengue enevers les galees den Roger de Luria e aquelles
den Roger enevers ells; e el mig del port vanse ferir tant vigorosamente que totes les proes
de cascuns de romperen e la batalla fo mol cruel e fellona… (Cit.)
277
Questo documento ci fa capire perché ora lo sperone non si faceva più offensivo come
ancora avveniva dunque a quei tempi medievali, ma solo posticcio, ossia decorativo,
rinunziandosi così all’appoggio che avrebbe potuto dare alle artiglierie di prua e si tratta di
un perché che troveremo confermato nella relazione stesa nel 1560 dal bailo veneziano
Marino Cavalli di ritorno da Costantinopoli, laddove egli scriveva delle galere turche:
... Li sproni delle galee sono posticci perché, se si rompono per qualche sinistro, il 'vivo'
non senta nocumento alcuno... (E. Albéri. Cit. S. III, v. I, p. 292.)
Infatti uno sperone offensivo doveva, per forza di cose, essere molto ben impiantato
nell'opera viva della galera e quindi, in caso fosse rimasto esso stesso danneggiato
dall'investimento fatto sul nemico, anche la nostra galera ne sarebbe potuta restare
facilmente molto danneggiata a prua, forse anche tanto gravemente da renderla ormai
inservibile; inoltre uno sperone lungo e robusto avrebbe ritardato il corso della galera a
causa della sua pesantezza, facendola cadere e ricadere troppo sulla prua, e anche avrebbe
procurato troppo ostacolo al corso e scotimento al vascello, quando avesse opposto
resistenza a onde di prua. Per tali motivi sempre più anche sui velieri si prenderà in seguito
a farli corti e arrotondati, non più utili quindi ad offendere. Insomma nel Cinquecento, con il
miglioramento e il maggior uso delle bocche da fuoco, la pratica dello speronamento di
prua divenne inutile e superata, mentre nell’antichità e nell’Alto Medioevo era stata invece
molto importante, tant’è vero che la potenza dell’urto di prua era a volte potenziata con
l’aggiunta allo sperone centrale di altri due a quello laterali che i greci chiamavano ἐπωτίδες
(Tucidide, De bello peloponnesiaco. L. VII, 36).
Uno degli ultimi apparenti tentativi di usare uno sperone costruito ancora in maniera da
offendere lo leggiamo nella relazione del già più sopra ricordato scontro che le galere
spagnole di Carlo V ebbero con quelle francesi alle isole Hyères nei primi giorni di maggio
del 1538:
… e (quella del capitano) Aguila, poiché è galera molto ben armata e leggera, raggiunse la
Capitana di Francia, la quale le si girò dalla parte dello sperone con l’intenzione di investirla
e, non dandole il vento spazio né prestando quelli dell’Aguila il fianco a una tanto cattiva
ricezione, le passò di lato… (y el Aguila como es galera mas bien armada y ligera, alcanzó á
la capitana de Francia, la cual se le volvió al rostro y quiso embestir con ella, y no le dando
el viento lugar ni los del Aguila poniéndose á tan mal recaudo, pasósele á una banda. In
Colección de documentos inéditos para la historia de España etc. P. 394. Tomo II. Cit.)
278
Un’altra caratteristica delle galere era la gran tenda che si teneva arrotolata nella corsia e si
stendeva su tutta la zona dei remiggi per proteggere i vogatori dall'intemperie, quando la
galera era ferma all'ancora od ormeggiata in porto; in navigazione quasi mai si usava
perché non solo ritardava il moto della galera, ma ne impacciava anche le manovre, e, se il
sole o la pioggia era proprio così forte da non potersene fare a meno, allora, poiché
impacciava anche la visione del mare, bisognava mettere dei marinai di guardia al calcese,
sulle rembate e sulla freccia alla poppa. Era quella invernale fatta di due strati cuciti insieme
con spago sottile, cioè sopra di tela incerata color burro e sotto d'arbascio (anche albagio,
oggi ‘orbace’: sp. frisa), in modo da difendere così sia dalla pioggia che dal freddo, e
quell'estiva invece di canavaccio o di cotonina, per difendere dal sole e dall'umidità della
notte, la prima generalmente a fasce nere e grigie e la seconda bianche e azzurre, alternate
e perpendicolari alla galera; talvolta quella d'albagio si usava anche d'estate per preservare
i remieri da una forte pioggia e in questo caso si doveva però mantenere aperta anche
passata la intemperie, per quel tanto cioè che bastava perché si asciugasse alquanto, e poi
subito si abbatteva perché, oltre ad aggravar troppo la galera, l'albagio di cui era fatta
rendeva il caldo sulla coperta insopportabile.
La struttura che sosteneva la tenda era costituita dal mezzanino e dalle capre; il primo era
una lunga corda tesa che correva longitudinalmente sul centro della corsia della galera e su
d’essa poggiava il mezzo della tenda, da cui il suo nome; le capre erano cavalletti mobili di
legno che si montavano appunto sulla corsia e che reggevano detto mezzanino. La tenda
doveva naturalmente essere ben stesa e aggiustata su questa semplice struttura, mentre i
suoi lembi si legavano alle reggiole laterali della galera e ai filari, cioè ai travicelli che
circondavano la coperta come parapetti; questi filari erano retti dalle battagliole, ossia da
ferri forcuti verticali così chiamati perché in combattimento servivano ad appoggiarci sopra
i moschetti portatili da mettere in mira; potevano anch’esserci battagliole di legno che
reggevano filari più leggeri, i quali erano chiamati infatti filaret(t)i e ciò per completare la
struttura che faceva da parapetto. Per sollevare la tenda dalle bande, sopra le battagliole si
ponevano dei prolungamenti di legno detti appunto battagliolette (vn. pontali). La tenda
aveva quattro porte, ossia lembi apribili, due alle spalle e due alle coniglie, cioè ai banchi
così detti che erano gli ultimi prima delle rembate, ed erano fatte degli stessi tessuti che
costituivano il resto della tenda.
In caso di pioggia la tenda doveva essere ben accomodata, in modo che l'acqua scorresse
bene dai suoi lembi fuori bordo della galera; quando si voleva che essa coprisse meglio la
coperta, si abbassavano le capre che sostenevano il mezzanino e ciò si diceva tesare a
279
basso, ma, in caso di vento freddo, si usava anche completare la tenda tutt'intorno con altre
porte, ossia con pezzi di tenda d'albagio che si attaccavano ai filari e coprivano le
balestriere, circondando così la coperta e impedendo al vento d'entrarvi.
... La mattina, quando si naviga, si deve far la tenda circa un'hora dopò levato il sole, acciò
che, mentre esso ha poca forza e si può sopportare, la galea e le genti possano asciugarsi
dall'humidità e dalla guazza o rugiada che sarà caduta lor sopra la notte. (P. Pantera. Cit. P.
223.)
Quest'osservazione fa capire che l'uso della tenda in navigazione non doveva poi essere
così imbarazzante e poco frequente come si è più sopra invece detto. Nelle ore estive in cui
il sole era invece forte, perché a perpendicolo sulla galera, si usava cannonare (fr.
embrouiller) la tenda, vale a dire si arrotolava ai due lati affinché vi potesse passar sotto il
vento e portar così un po' di refrigerio alla ciurma accaldata; mano a mano poi che il sole
seguiva il suo corso da levante a ponente, si sciamprava, ossia si distendeva e abbassava,
quella parte della tenda cannonata che guardava il sole nascente o calante e si lasciava
così cannonata solo la parte opposta, sempre al fine di farvi entrare il fresco. Quando si
stava all'ormeggio (gr. ὀρμεῖν) con l'asse mediano della galera orientato all'incirca in
direzione nord-sud, verso le ore due del pomeriggio si poteva rinfrescare maggiormente la
ciurma facendo la mezzaluna, ossia si poteva ritirare la tenda dalla sola metà di levante, in
modo che l'altra metà rimasta spiegata bastasse a ombreggiare tutta la coperta; ma ciò non
era ovviamente possibile quando la galera navigava o era ormeggiata nel senso della
latitudine (fr. anche hauteur, bande du Nord, bande du Sud) e allora si doveva solo
cannonare il più possibile dalle bande e, quando si stava in porto, si poteva anche alzare di
più la tenda stessa con le capre, il che i marinai allora dicevano fare il buttafuori.
La tenda estiva si abbatteva la sera e si riponeva in corsia o nella camera di mezzo o anche
nel pagliolo, a seconda dello spazio disponibile; si poteva anche poggiarla - ripiegata - sui
filari laterali, ma ciò solo per pochissimo tempo perché in tal posizione impacciava il lavoro
e ritardava il moto della galera.
La tenda non copriva anche la poppa della galera perché il cassero di poppa era parecchio
più alto della coperta e inoltre la gente di poppa non avrebbe certo voluto respirare il tanfo
emanato dai remiganti e che inevitabilmente si accumulava sotto la tenda; a poppa si usava
quindi un’altra tenda più piccola detta tendale, generalmente bianca, per respingere il calore
dei raggi del sole, e munita di faccia posteriore, la quale si stendeva su un tetto a pergolato
fatto di legni inarcati detti garitte o pertichette o anche furcate; queste erano conficcate e
inchiodate in una trave orizzontale e un po' inclinata detta freccia, fissata per la lunghezza
280
della poppa sopra archi principali detti forbici o pertiche e sostenuta a proravia dal già
ricordato pilastrino chiamato stentarolo. Sopra questa freccia, oppure alla battagliola delle
spalle, si poneva il pennello [fr. girouëtte, flouëtte, gabet; ol. (split-)vleugel, (split-)vaan(tje),
top-staander], ossia una piccolissima banderuola di stamigna, tafettano o tela, di forma
quadrangolare oppure biforcuta alla fiamminga, ossia come una cornetta, od ancora lunga
e stretta all’inglese, la quale serviva per conoscere la direzione del vento, metodo però
questo utile solo se la galera era ferma o quasi, perché altrimenti e ovviamente il suo moto -
soprattutto se veloce - avrebbe fatto restare il pennone volto all'indietro. Sulla poppa dei
vascelli tondi c’era un equivalente del suddetto pergolato, cioè una struttura di carabottino
o di sbarre detta in francese tugue o tuque, soprastruttura che ai vascelli reali francesi sarà
proibita nel 1670 perché li rendeva più pesanti alla vela, permettendosi quindi da allora in
poi solo quelle fatte di cordami.
All’inizio del Trecento Marino Sanuto il Vecchio diceva che le galee si coprivano di vessilli
perché questi contribuivano a intimorire il nemico:
… Inoltre i detti navigli, sia del mare che dei fiumi, devono brillare di vari colori e dipinti per
spaventare i nemici, avendo confaloni e vessilli sulle prue e sulle prue, con pennoncelli
posti sui lati, come si conviene (Liber secretorum fidelium Crucis etc. Cit. P. 59).
Ma, tornando ora ai tempi oggetto di questo nostro studio, diremo che una galera cristiana
ordinaria, mentre sino a tutto il Rinascimento, aveva portato in genere sette vessilli [fr.
pavillons; iac(q)(que)s; ol. haar-doek, vlagge-doek], ora ne portava otto, di stamigna o di
seta, cioè quattro fiamme e quattro gagliardetti (fr. anche galans), con i quali si ostentavano
le armi reali e quelle del capitano generale e potevano servire sia d’ornamento sia per
segnali. Le fiamme (fr. anche pendants; ol. wimpels) erano lunghissime, terminanti a punta
biforcuta (ol. split-tong) e poste in asta verticale; secondo l’autorevole Giovanni Lido (VI
sec.) – autorevole in quanto non era solo uno storico bensì anche un funzionario
amministrativo di carriera dell’impero bizantino – le flamule (ven. flamole) si chiamavano
così perché in origine erano state dei semplici cenci rossi portati sulla punta delle loro aste
dai flamulari, cioè da vessilliferi dell’esercito romano (cit. Lib. I, p. 158). I gagliardetti o
gagliardi o gonfaloni (dal ltm. guntfano-onis) o bandiere chinate erano grandi, triangolari,
biforcuti anch'essi, ma in asta orizzontale pendula. Detti otto vessilli non erano di misura né
convenzionale né ancora d’ordinanza e quindi la loro grandezza variava sensibilmente a
seconda dei paesi e anche dei singoli vascelli, ma quelli quadrangolari erano in genere un
po’ più lunghi di battente che di ghindante; ecco la loro più comune collocazione:
281
Alla fine del Quattrocento il vascello che intendeva combattere inalberava gagliardo di
battaglia. Nel già ricordato Governo di galere i vessilli della galera vengono invece
quantificati in 14, sette per parte, e, per quanto riguarda le galere turco-barbaresche,
queste portavano in battaglia, oltre agli stendardi, infinita quantità di bandiere, come è di
loro costume sparse un po’ dappertutto (Discorso circa il modo et maniera ha da tenere un
Capitano etc.) Il gagliardetto grande all'antenna dell'albero di maestra, per la grande
religiosità di quei tempi, mostrava per lo più l'immagine del santo a cui era dedicata la
galera, immagine dipinta che nei vascelli tondi era invece perlopiù esposta in un’edicoletta
a poppa, luogo che i francesi chiamavano miroir du navire; la fiamma alla stessa predetta
antenna esibiva invece generalmente le armi del capitano della galera. La sola galera
Capitana o Admiralea della squadra poteva portare la bandiera o stendardo quadrangolare
come segno di comando generale (ol. bevel-flag) e di combattimento e lo portava a destra
all’oste, ossia alla spalla destra della galera, a meno che però non si entrasse in battaglia,
perché allora lo portava più alto sul pilastrino di poppa; tuttavia alla galera Patrona e ad
altre che avessero qualche comando minore poteva il generale concedere un gagliardetto
quadrangolare con le armi reali appeso al calcese dell'albero di maestra, d’una forma
dunque che ricordava lo stendardo e che infatti stendardo era anch’esso impropriamente
chiamato. In Spagna, poiché questo gagliardetto quadrangolare era bianco, tale essendo
infatti il colore di fondo dell'armi reali degli Asburgo di Spagna, il comandante a cui si
concedeva prendeva il nome di cuatralbo (‘quadro bianco’) e quindi non perché
comandasse una squadriglia (l. vexillatio) di quattro galere, condizione che d’altra parte
pure generalmente coesisteva, come si evince per esempio dalla lettura del Cervantes
Saavedra e dalla composizione della squadra che la Spagna inviò in partecipazione alla
grand’armata che combatterà poi a Lepanto; il 23 agosto 1571 Giovanni d’Austria si
presentò infatti alla massa di Messina, dove prima di lui erano arrivate, provenienti da
Napoli, solamente le 12 galere toscane, molto ben armate, poste dal duca Cosimo I a
disposizione del pontefice e comandate da Marc’Antonio Colonna, creato capitano generale
del mare dal Papa il precedente 11 maggio; conduceva dunque 25 galere così suddivise:
Gil de Andrada, commendatore dello stesso predetto ordine cavalleresco, e due da Luiz de
Acosta capitano della Padrona reale;
- le tre di Savoia, le quali, a istanza della signoria di Venezia, servivano da galere venturiere,
ossia a solo bottino, sotto il comando di monsignor de Leiny;
- le tre della repubblica di Genova, anch’esse come venturiere, comandate da Ettore Spinola
cavaliere dell’ordine d’Alcántara;
- cinque di condottieri (‘noleggiatori viaggianti’; l. navicularii) genovesi particolari (‘privati’)-
ossia galere di proprietà privata assoldate, noleggiate (condotte) per l’occasione, di cui
quattro di Pier Battista Lomellino e una di Bandinello Sauli.
Per la cronaca, il giorno seguente arrivarono a Messina 10 galere siciliane comandate dal
catalano Juan Francisco de Cardona e 12 dei particolari (‘privati’) genovesi, mentre dopo
qualche giorno da Candia 74 veneziane comandate dai provveditori Girolamo da Canal (?-
1535), detto il Canaletto, e Quirini, poi 11 dei particolari di Gioan Andrea d’Oria con una di
Malta, 30 di Napoli comandate dal loro generale Àlvaro de Bazán marchese di Santa Cruz e
infine altre veneziane e maltesi che porteranno il numero totale a 208. A differenza di quanto
si faceva a Genova, a Venezia non si usava rimarcare tanto la differenza tra galee armate da
privati e galee armate de comun, cioè direttamente a spese di quella Signoria, per cui poche
volte troveremo nelle storie e nelle cronache indicata questa distinzione:
(Febbraio 1497:) Qua (a Venezia) se arma do barze de comun - una de 2,000 bote, l'altra de
1,800 - e la nave ‘Marcela’ de 1,600, Andrea Loredan (essendone) Capitanio (D. Malipiero,
cit. P. 485)...
Questi velieri armati, oltre a essere grossi, erano anche carichi di gente da guerra:
(Aprile 1497:) A’ 18 d'Avril Andrea Loredan, capitanio delle do barze armade, ha fatto vela.
La mazor ha su 420 homeni, l' altra 400 (ib. P. 486).
Ma, tornando ai suddetti numeri di galere ammassate per la guerra contro i turchi, come si
vedrà, essi non corrisponderanno in totale a quello di 203 che, secondo il meticoloso
elenco fattone dal Contarini, si troveranno poi effettivamente in quella battaglia, ma,
dovendosi tener conto che durante il viaggio d’avvicinamento all’armata nemica Giovanni
d’Austria deciderà poi di rinunziare alle peggiori quattro galere (non sappiamo di quale
nazionalità, ma probabilmente veneziane), per distribuirne gli uomini e le attrezzature ad
altre che avevano appunto bisogno d’essere così rinforzate, resta una differenza d’una sola
galera; a proposito poi della nazionalità delle galere, bisogna dire che il Contarini elencherà
come presenti alla battaglia non 12, ma 13 galere papaline, non 30, ma 28 napoletane, non
10, ma solamente 6 siciliane e, per quanto riguarda le veneziane, un massimo di 106 o 107.
Detta armata cristiana comprendeva anche 22 vascelli tondi e 40 fregate.
283
A proposito della suddetta testa di moro o di ‘marmocchio turco’, c’è da osservare che
l’attuale stemma della Sardegna, il quale ne mostra ben quattro, è purtroppo frutto di
un’illustrazione tratta sì da un antico libro ma purtroppo mal disegnata e che ebbe
malauguratamente molta fortuna e molto credito, nella quale cioè il turbantino (detto tortil
nel linguaggio araldico francese) si presentava tracciato troppo basso sino a sembrare
calato sugli occhi, interpretandosi quindi dai posteri non come un tale copricapo, bensì
come una semplice benda che fasciasse gli occhi del ‘marmocchio’! Sappiamo che i sardi
284
non vorranno così facilmente rinunziare alle loro teste bendate perché così fa tanto
affascinante mistero, ma purtroppo la verità è quanto abbiamo teste spiegato e basta
andare a ricercare le immagini più antiche di detto stemma per verificare che trattavasi in
origine di null’altro che di un normale turbantino - o meglio bandeletto – da moro e questa
circostanza che nelle figure originali non si vede mai un gran turbante da mussulmano
adulto ma sempre appunto un turbantino, tanto piccolo da esser confuso più tardi, come
abbiamo detto, con una semplice benda, conferma che l’immagine voleva rappresentare il
capo di un ragazzo o comunque di un giovane pirata. Piuttosto ci sembra storicamente più
affascinante, suggestiva e tutta da spiegare la costatazione che l’originale stemma della
Sardegna coincideva con quello dei pirati barbareschi; ci sarebbe pertanto da pensare a
insediamenti saraceni (‘moreschi’) medievali nell’isola.
Termineremo questo argomento dei vessilli di bordo ricordando la già citata ordinanza
aragono-catalana del 1354, la quale permetteva l’uso di bandiere personali ai patroni
(‘comandanti’) di galea da affiancare a quella del sovrano e a quella dell’ufficiale generale
comandate di squadra o d’armata solo se si trattava di personaggi di chiara nobiltà, cioè
perlomeno figli cadetti (cast. hidalgos), e a maggior ragione se titolati (richomes; cast. rico-
hombres, dal gt. Rike, ‘podere’). Altrimenti un patrone poteva solo inalberare la sua
personale insegna in un piccolo pennone quadro (lem/ctm. panon de quarter; cast.
banderola quadra) o anche a prua come voleva (Cit. P. 95); diremo infine che una galea o
delle galee che decidessero di viaggiare non costeggiando, ma ingolfandosi, cioè
inoltrandosi in alto mare, dovevano far bella mostra dei loro vessillli ad evitare di essere
eventualmente assalite, oltre che da nemici, anche da amici:
Molti elementi decorativi potevano esser dati alla galera dai tendami e abbiamo già detto
della tenda e del tendale, trattandone però solo dal punto di vista strutturale; aggiungeremo
ora che il normale tendale di poppa, a titolo appunto decorativo, era spesso sostituito da
quello detto di garitta, che era di panno azzurro con quattro porte dello stesso panno, due
di poppa e due di prua, il tutto foderato di canovaccio, ma poteva anche essere foderato di
damasco, anzi era comune avere a bordo talvolta anche un tendale più appariscente e
ornamentale, probabilmente quello detto nelli inventari cameretta, cioè uno di damasco
285
cremisi, e bisogna pensare che il più delle volte questi vasti drappi erano intessuti o
ricamati in oro o in argento con disegni floreali, fogliami e stemmi reali o gentilizi. Altri
supporti di decorazione potevano essere dell’impavesate di tappezzeria che, in occasioni di
feste o di domeniche, si ponevano attorno a tutto il vascello e alle gabbie [fr. bastingue,
bastingu(e)re, pavesade, paviers, pavois; ol. schans-kleedt] di panno, tela o cordella], ma
d'estate anche di cotonina; si trattava cioè di strisce di tessuto, generalmente rosso, che si
ponevano verticalmente lungo le fiancate, di solito due alle bande, due alla poppa e una alla
prua, e che servivano anche da paravento durante il combattimento affinché il nemico non
potesse vedere ciò che si faceva in coperta e prendere pertanto una mira precisa. C'erano
poi incerate che si ponevano a poppa in aiuto al tendale per una maggior protezione dalla
pioggia e ce n’era quasi sempre una di cotonina verde e talvolta un’altra di canovaccio
bianco. c'era poi spesso un tendale di cotonina, in qualche caso tinto di leonato (beige) e
bianco, guarnito di due parasole o tendaletti anch'essi di cotonina; c'erano infine ancora un
parafumo e un parasego di canovaccio o di cotonina e, talvolta, una soprattenda di
cotonina, ma di tutti questi ultimi tendami non sapremmo spiegare l'uso pratico se non
andandocene per un’idea in relazione al loro nome, a eccezion del parafumo, il quale era
documentatamente il camino del fogone e si usava appunto fatto di tela. Una galera
ordinaria non doveva però portar ornamenti tali da metterla a paragone della galera
Capitana, della Patrona o con altre eventuali galere di fanò, ossia galere che portavano
fanale di comando (lem/ctm. pharaó; sp. farol, fanal; fr. porter le feu, faire fanal; ol. vuuren,
vuur-voeren); essa doveva infatti poter essere riconosciuta come subordinata anche a
distanza, anche per non dar adito al sospetto che volesse in qualche modo usurpare
prerogative e privilegi delle galere 'titolate'.
Una galera in tenuta di gala era in ogni caso un bello spettacolo e tale sarà descritta nel
Settecento dal de Savérien nel suo Dictionnaire:
... Non c'è alcun bastimento di mare più magnifico della galera. La sua poppa è sostenuta
da termini ed ornata da bassorilievi, d'ornamenti e da modanature dorate. Parecchie delle
sue bandiere, delle sue banderuole, delle sue fiamme e dei suoi stendardi sono o della
livrea adottata dalla nazione alla quale la galera appartiene o di damasco cremisi con ricami
in oro. Sulla bandiera le armi del sovrano sono ricamate in oro od in seta e la tenda è di
damasco cremisi guarnito di frange e di penero d'oro. (Cit.)
Quando una galera di comando doveva portare in viaggio un personaggio di sangue reale,
allora gli ori, i tendami pregiati, i colori e gli ornamenti in genere erano profusi molto
maggiormente; ciò per esempio accadeva ogni volta che bisognava portare a Barcellona
286
una nuova regina, vale a dire una giovinetta d’una Casata reale europea che andava a nozze
con il nuovo re delle Spagne, e nel 1701 fu questo il caso di Maria Luisa di Savoia che
doveva andare a raggiungere il suo sposo Filippo V e che, come già altre volte era stato
fatto per le reali spose, sarebbe stata portata a Barcellona dalla galera Capitana di Napoli,
scelta tra tutte per questo grande onore; così infatti annotava il diarista Angelo di Costanzo,
predicatore cappuccino il quale, come del resto la maggior parte dei cronachisti di quei
secoli, non ebbe la soddisfazione di vedere la sua opera pubblicata:
... Quali (galere napoletane) ritornate in questa Città nel luglio, ebbero di nuovo l'ordine di
prepararsi ad andare a Nizza di Provenza, ove si sarebbe fatta l'unione delle altre galere,
così di Spagna come di Francia, per levare la figlia secondogenita del duca di Savoia,
destinata per sposa di Filippo V Re di Spagna, che calava in Barcellona a giurare li privilegi
di quel Contato. Per la qual cagione si prepararono le nostre galere ed in particolare la
Capitana, mentre si diceva che la Regina voleva far quest'onore alla Capitana di Napoli;
onde si vide tutta la poppa indorata, li remi, il nuovo stendardo, tutti i forzati con giubbe di
damasco rosso con barrette (‘berrette’) in capo e altre bizzarrie, che v'accorse tutta la Città
a vederla ed il giorno prima della partenza vi calò la Viceregina colle sue dame di Corte e
furono complimentate di rinfreschi. E poi a' 27 d'agosto partirono al numero di 15 alla volta
di Nizza. Stavano (ormai a Nizza) di giorno in giorno aspettando l'avviso dell'imbarco della
sudetta Regina, essendo sino ora un mese e mezo che sono partite, col continuo buon
tempo, e non è giunta la nuova del suo arrivo... (Cronaca di Napoli dal 1701 al 1716. S.N.S.P.
Man. XXXI.B.3.)
Con la suddetta Capitana era partito il principe Caracciolo di Santo Buono, il quale portava
un regalo del valore di 300mila scudi mandato dall’allora vicerè Luiz de la Cerda duca di
Medina Coeli (1695-1702) e che i napoletani offrivano alla nuova regina, ma la giovanetta si
faceva dunque molto aspettare; poi finalmente il 25 ottobre giunse avviso a Napoli che la
novella regina si era non solo imbarcata, ma aveva anche fatto tappa a Tolone. Certo
addobbi ricchi, ma non così tanto, furono preparati dalle galere di Toscana che nel 1567
imbarcarono a Palermo Leonora de Toledo per portarla a Firenze, viaggio probabilmente
collegato allo scadere in quello stesso anno del vice-regnato di suo padre Garcia; fecero
sosta a Pozzuoli, dove la predetta signora prese alloggio nel grande e famoso palazzo
paterno (Tutte le vittoriose imprese delle galere del Serenissimo Granduca di Toscana fatte
nei viaggi dall’anno 1565 al 1575. Bibl. Marc. di Venezia. Ms. VI. CVI., B.N.N. Sez. Nap. Per.
2001.)
Nel 1589, leggiamo nel Guarnieri, la lussuosa e appositamente costruita galera toscana
Cristina portò a Livorno da Marsiglia la principessa Cristina di Lorena che andava sposa al
granduca Ferdinando I; Michelangelo il Giovine descrisse tale galera come riccamente
decorata, con i remiganti vestiti di damasco cremisino e con i cavalieri di S. Stefano,
287
elegantissimi, al posto dei normali soldati. Ancora più sontuosa fu la nuova Capitana
toscana che il 16 ottobre del 1600 imbarcò a Livorno la regina di Francia Maria de’ Medici,
figlia del defunto granduca Francesco I, la quale aveva sposato in Firenze per procura il re
di Francia Enrico IV di Navarra e andava a Lione a celebrare tale matrimonio; la predetta
Capitana fu scortata in viaggio da 16 altre galere tra toscane, pontifice, francesi e maltesi
sotto il comando del generale pisano Marc’Antonio Calafati (o Calafatto), e arrivò a
Marsiglia il 3 novembre. Immaginiamo con qual pompa si siano presentate anche le 14
galere (triremis) e gli altri vascelli che la domenica 1° novembre del 1506 arrivarono a Napoli
portando il re Ferdinando il Cattolico e sua moglie la regina Germana de Foix, sposatisi il 18
marzo precedente, a visitare il regno conquistato dal loro Gran Capitano Gonzalo Fernández
de Córdoba, con il quale poi se ne andarono il 4 giugno dell’anno successivo; certo poi con
minor sfarzo, eppure accompagnate da circa 16 galere, il 24 maggio 1534, come annotava
un anonimo diarista partenopeo, arrivarono a Napoli dalla Spagna la consorte del vicerè
Pedro de Toledo, le sue figliuole e tutta la sua servitù e sbarcarono solennemente al molo
grande tra salve di cannonate.
Particolare fu pure l’addobbo delle galere francesi che si trovavano nell’oceano quando il
tre volte generale della squadra remiera di Francia, Antoine Escalin des Aimars, barone
della Garde, piccolo feudo del padre, poi marchese di Brigançon in Provenza (1544-1548;
1551-1557; 1566-1578), un parvenu detto le Capitaine Poulin o anche Poulin de la Garde, lo
fece eseguire a sue spese perché gli si era fatto credere, forse per un crudele scherzo da
cortigiani, che avrebbe dovuto guidarle in Inghilterra dove la regina Elisabetta l’avrebbe
sposato; tali inutili e penosi preparativi così saranno poi ricordati dal de Bourdeilles:
… tra gli altri il più bello fu che tutti i forzati della sua galera ‘la Reale’ ebbero ciascuno un
abbigliamento di velluto cremisi alla marinara (il signor Gran Priore di Lorena aveva già da
molto tempo prima abbigliato i suoi) la poppa e la camera della poppa tutte tappezzate e
addobbate dello stesso velluto con ricami d’oro e d’argento, gonfiato e agitato da tutti i
venti, con delle parole greche che dicevano ‘Benché io sia e sia stato agitato ben forte,
giammai sono né caduto né cambiato’… I letti, le coperte, i guanciali, i banchi di camera e
di poppa (addobbati) alla stessa maniera, gli stendardi, le fiamme, le banderuole, per metà
allo stesso modo e per metà di damasco tutto frangiato d’oro e d’argento; in breve, era una
cosa tanto magnifica a vedersi. Ed in tal superbo apparato doveva entrare con l’altre
galere, le quali potevano arrivare fino a dieci, nel fiume Tamigi fino a Londra… e tutto ciò
non servì a nulla a quel povero signor barone della Garde se non a spendere soldi (più di
20mila scudi) e qualche volta egli faceva preparare così la sua camera della poppa, cosa
che io vidi, e, me indegno, mi sono coricato ed ho dormito nei suoi bei letti, dove si faceva
ottimamente… Infine è morto lasciando ai suoi eredi più onori che beni e a l’età di più
d’ottant’anni… Quanto a me, anche se una volta m’ha fatto perdere un bottino di dodicimila
scudi che m’aveva fatto un bastimento ch’avevo in mare e, non giudicandolo egli di buona
288
guerra né di buona presa, me lo fece restituire, del che mi fece molte scuse, dirò sempre le
sue virtù… (Cit.)
Il ‘gran priore’ a cui il de Bourdeilles qui si riferisce era fra’ François de Lorraine, gran
priore di Francia, fratello del duca di Guisa, il quale, quando era generale delle galere di
Malta, essendo appena stato destituito per la seconda volta l’Escalin, nel 1557 fu nominato
capitano generale di quelle di Francia, distinguendosi in seguito nel corso del conflitto
anglo-scozzese per esser passato nell’oceano con le sue galere ed esser andato fino in
Scozia in soccorso della regina Maria di Lorena-Guisa, un’impresa alla quale partecipò
anche il de Bourdeilles, come questi ricorda nelle sue memorie senza però purtroppo
abbondare in particolari e che deve essere avvenuta in coincidenza del trattato
d’Edimburgo del 6 luglio 1560, perché sulla via del ritorno la regina Elisabetta gli farà grandi
accoglienze. Ebbe come suoi principali ufficiali il signor de Carses, luogotenente generale
della squadra, il signor de Basche Martel, ottimo uomo di mare, il quale infatti sarà poi
chiamato dal duca di Guisa al generalato delle sue galere, e i genovesi e parenti conte
Fieschi e Cornelio Fieschi. Morì il 6 marzo 1563 a soli 29 anni a causa delle complicazioni di
un’infreddatura e il suo posto fu preso dal fratello René, marchese d’Elbeuf, il quale morirà
però, anch’egli molto giovane, nel 1566 all’età di 30 anni, lasciando così posto al nuovo e
definitivo ritorno del capitano Poulin, riabilitato per la seconda volta; quest’ultimo sarà
capitano generale sino alla sua morte, avvenuta nel suo castello della Garde verso le 8 del
mattino del giorno seguente il Corpus Domini del 1578, dunque nello stesso infausto anno
in cui la cristianità perderà anche il re Sebastián di Portogallo (4 agosto) e un altro famoso
capitano generale marittimo, Giovanni d’Austria (25 settembre).
Uno dei più antichi ricordi di opulenti ornamenti di poppa riguarda la galera reale del re di
Napoli Alfonso I di Aragona:
15 settembre 1450. Alfonso fa pagare ducati 12 ed un tarí ad Antonello de Perrino per aver
dipinte le tre tavole della poppa della galera reale, cioè la prima con la imagine di Dio e di
Nostra Donna e la istoria dell'Ascensione e le due de' fianchi con le armi di Aragona e del
Reame di Napoli (1).
Nelle ricorrenze e in altre occasioni quella vista festosa era poi esaltata dall'uso della
musica e infatti a ogni galera si forniva una cassa di legno contenete otto strumenti
1) Camillo Minieri Riccio, Alcuni fatti di Alfonso I di Aragona. Dal 15 aprile 1437 al 31 di
maggio 1458. P. 65. Napoli, 1881.
289
musicali, ossia sei trombette e due clarini, e li suonavano, postisi sulle rembate, quei
remieri che mostravano d'avere più talento musicale:
... Habbiano insieme i lor trombetti e tamburi e simili bellici instrumenti, che non solamente
piacciano a gli amici, ma rechino meraviglia e confusione a gl’inimici loro, potendosi
credere che, si come ne gli eserciti terrestri le imprese, le divise, le bell'arme, le sopraveste
e'l suono delle trombe e de i tamburi hanno forza di eccitar alle lodevoli azioni gli animi de i
soldati e di sbigottir gl’inimici, così, quando le armate navali sono ricche di pompa e piene
di gioia e di festa, si accendano gli spiriti della gloria ne i cuori de i combattenti e se
n’attristino gli avversarij; e, ben che queste paiano estrinsecamente leggiere e vane
apparenze, si vede però che fanno mirabili effetti a favor della vittoria... (P. Pantera. Cit. P.
187.)
Nel Trecento a bordo della galea triremi aragono-catalana c’era stato solo un trombetta,
ossia un clarinettista, evidentemente a scopo più di conduzione della voga e di
trasmissione di ordini che di fare della musica; egli doveva imbarcarsi fornito di spada e
corazza guarnita, come leggiamo nella da noi già pluricitata ordinanza del 1354; invece lo
stato maggiore dell’armata era già allora dotato di una vera e propria orchestrina, la quale
comprendeva suonatori di due trombe, un clarinetto, una cornamusa e un timballo o
timpano o naccara che dir si volesse (Ordenanzas etc. Cit. P. 100), i quali all’atto
dell’arruolamento, oltre al consueto anticipo sul primo salario, ricevevano una tantum
un’indennità di vestiario; il che significa che, quando suonavano, dovevano farlo in livrea.
In effetti il numero dei musicanti di bordo dipendeva allora da cosa ne pensavano i
comandanti naviganti, specie i capitani generali; per esempio, in un’ordinanza catalano-
maiorchina del 20 aprile 1363 relativa alla squadra di 6 galere che si stata allora facendo
armare a Barcellona nell’ambito delle operazioni della guerra che Pedro IV Il Cerimonioso re
di Aragona e conte di Barcellona preparava contro il Pedro I Il Crudele re di Castiglia, visto
che per capitano generale di quella si nominava il procidano Atenolfo, conosciuto come
Olfo da Procida, il quale voleva nella sua Capitana solo i due trombetta, ritenendo
evidentemente altri musicanti inutili e superflui, si disponeva che gli si pagasse appunto
solo per due vestiti l’indennità di vestiario di livrea per musicisti, la quale era valida per 4
mesi, a 4 lire catalane per vestito (Ib. P. 116). Questo Atenolfo doveva essere una persona
abituata a fare di testa sua e probabilmente talvolta anche in contrasto con l’almirante del
regno dal quale in teoria avrebbe dovuto dipendere, perché il suo successore Gilaberto de
Crudiliis, amato consigliere del re Pedro IV, il 22 dicembre 1373 fu nominato dal sovrano,
oltre che capitano generale, anche luogotenente dell’almirante, cioè del visconte Hugo de
290
Cardona, anch’egli consigliere del re, quasi a volerne puntualizzare la subordinazione (Ib. P.
123).
Nel Medioevo s’erano comunque usati a bordo delle galere cristiane, oltre alle naccare o
timpani o timballi, talvolta anche i tabur o thabur (‘tamburi’), ma più raramente degli altri
strumenti, perché questi, essendo normalmente usati dalla fanteria, non facevano parte
della generale dotazione marittima di bordo; ovviamente i tamburini cominciavano a essere
anch'essi presenti quando a bordo c'era almeno una mezza compagnia di fanti. L’11 marzo
del 13399 il senato veneziano decretò che si riformasse una squadra di galee per la difesa
del Golfo, cioè dell’Adriatico da Venezia a Creta, mare che i veneziani consideravano Mare
Nostrum, e che se ne eleggesse il capitaneo, in tale ambito si prescriveva pure che ognuna
di queste galee avesse 25 balestrieri – numero che presto fu però aumentato a 30 - e che gli
emolumenti previsti per detto capitaneo prevedessero stipendio e mensa per 5 musicanti e
cioè due tubetti, due zaramelle (‘cennamelle’) e un naccarino (H. Noiret, cit. Pp. 99-101).
Sulle galee veneziane del Quattrocento, a quanto si legge al par. 239 del già citato diario di
viaggio del Brasca, sarebbero poi stati presenti anche dei liutisti, ma riteniamo che si sia
trattato d’un errore di trascrizione e che originalmente l’autore avesse invece inteso parlare
di clarinisti, in quanto gli strumenti a corde non potevano certo emettere suoni sufficienti
alle vastità marine. Più tardi, aumentando nelle galere ordinarie il numero di vogatori,
aumenterà a 10/12 anche quello dei predetti musicanti. Sulle galere barbaresche, oltre ai
tamburi e alle particolari trombe di quei paesi che gli spagnoli chiamavano añafiles
s’usavano anche le suddette cennamelle.
E del vessillaggio che si usava nel Medioevo prima del Rinascimento sappiamo qualcosa?
Sì, se ne legge nel già più volte citato ordine di Carlo I d’Angiò del 1270; bisognava che
allora ogni galea del regno di Napoli disponesse di un vessillo, di una bandiera e di trenta
pannucellos (‘pannicelli, piccoli panni’, da cui poi le corr. pennoncelli e pennoni), tutto di
zendato, ossia di mezza seta, ogni terida o usciero (cioè ogni vascello non combattente) di
due bandiere e venti pannicelli, il tutto di panno, ossia di lino, come allora s’intendeva,
perché invece nei secoli modermi per ‘panno’ s’intenderà generalmente quello di lana,
inoltre ogni legno sottile (cioè ogni vascello remiero combattente ma non copertato) una
sola bandiera e soli dieci pannicelli, il tutto di zendato; infine ogni varchetta una bandierola
di zendato. Quest’ultimo più pregiato tessuto era dunque riservato ai soli vascelli
combattenti, armi ed insegne da dipingere su tutto questo vessillaggio essendo ovviamente
quelle di Carlo I e della sua casata. Tra queste una galea doveva comunque distinguersi
dalle altre e cioè quella che, accompagnata da altre naturalmente, era destinata a
291
traghettare dalla Slovenia alla Puglia la figlia del re d’Ungheria, novella nuora di Carlo, in
quanto era da fornirsi anche di uno stentario (‘stendardo’), cioè del vessillo reale, e di
tendame di color rosso (ma in altra lettera successiva del 16 dettembre si dirà più
precisamente de scarlato), anche questa una prerogativa che in genere distingueva appunto
le galee ‘Reali’, cioè quelle destinate a portare sovrani o loro familiari (G. del Giudice, cit. P.
7).
In un’anonima cronaca napoletana da noi già citata si descrive brevemente quanto si usava
mettere in atto da quella squadra di galere il 24 giugno, cioè in occasione della festa di S.
Giovanni Battista:
… La sera di detto giorno e nell’antecedente si videro tutte le regie galere dimoranti nella
tarcina (‘darsena’) adorne di infiniti lumi, che resero una vaga vista al numeroso popolo che
concorse a vagheggiarle, e con queste luminarie si sentirono diversi suoni fatti dalli schiavi
di quelle con diversi istrumenti musicali. (Cit.)
Nei porti delle città principali, quando erano appena arrivate delle galere, specie se
straniere, si usava andare a passeggio sul molo per vedere le nuove arrivate e soprattutto
per farne occasione di mondanità e d'incontro sociale. Ciò era tradizionale anche a
Barcellona, ed ecco infatti l’arrivo in quelle acque della squadra delle galere toscane nel
1567:
…e poi, facendo vela, seguì il suo camino alla volta di Barzalona, città principale di Spagna,
ed insu l’ora di vespro, doppo l’usato saluto al arivo di queste galere in tai luoghi, si dié
fondo lungi dalla città un miglio o poco più per esser spiaggia e non porto, ma subito
soggiunse(ro) infinite barchette e fregate alle galere cariche di varij ed illustri signori e
cavalieri, i quai desideravano veder le galere (sic)come veramente son degne d’esser
bramate vedere, essendo hoggi le meglio ordinate e guarnite d’ogni sorta (di) cosa che fece
di bisogno a tai vascelli, e però (‘perciò’) molti de ‘sti detti sen’andorono sopra la Capitana e
con le solite lor cerimonie al(l)a spagnola non mancorno visitare l’illustrissimo signor
Alfonso (Alfonso Aragona d’Appiano) ed offerirsi a quanto gli piacesse lor comandare. In
questo mezzo ne andò (andorno) altri sopra le altre galere, in fra le quale ne venne andare
sopra ‘la Pisana’ et questi tali erono Canonici di santa Madre Eclesia… (Aurelio Scetti,
Diario fino al 17 marzo 1576. In Tutte le vittoriose imprese etc. Cit. Biltm. Marciana, Ms. CVI
Classe VI. Venezia.)
Per amor di cronaca, le galere toscane, chiamate dai barbareschi le galere d’Elba, furono
presto raggiunte a Barcellona da quelle dei particolari genovesi, comandate allora da Gioan
Andrea (Andreetta) d’Oria, da diverse di Napoli e a tutte queste si unirono in seguito le
quattro galere dell’assentista (‘appaltatore’) genovese Lomellino; bisognava infatti
imbarcare le milizie del duca d’Alba destinate in Fiandra e andare a sbarcarle a Villafranca
292
… talmente che il suo nome ancora li riempie ed io non ho quasi mai sentito marinai, forzati,
schiavi, capitani e soldati che non l’abbiano detto il più grande capitano di mare dei suoi
tempi e ben fortunato era colui (come io ho sentito in parecchi luoghi del Mediterraneo) che
293
poteva dire: io ho navigato e combattuto sotto il Priore di Capua; ed, anche che non fosse
vero, molti lo facevano credere per ostentazione e per essere più stimati. Quando andammo
al soccorso di Malta (nel 1565), se ne vide in quelle coste di gente che veniva ad abbordare,
salutare ed onorare il signor Strozzi (Filippo) suo nipote per la sola memoria del suo grande
zio… (Cit.)
Il predetto Escalin, ripreso questo posto di capitano generale delle galere di Francia che era
già stato suo, sarà impegnato nella guerra corso-toscana e otterrà presto un bel successo
contro gli spagnoli quando, proveniente con sei galere da Civitavecchia, dovrà fermarsi nel
golfo corso di S. Fiorenzo per ripararsi da un’improvvisa tempesta (fr. anche grand temps,
gros temps) e, passata questa, avvisterà e attaccherà un convoglio di 11 velieri spagnoli
trasportanti 6mila soldati a Genova, riuscendo, dopo un intenso combattimento, ad
affondarne due e a far perire così tra le onde circa 1.500 nemici; estraneo però alle regole
del potere aristocratico, il capitano Poulin verrà di nuovo destituito nel 1557.
Il descritto costume dei barcellonesi, del resto comune a tutte le importanti città portuali del
tempo, è confermato dal residente genovese in Spagna Giulio della Torre, il quale così
scriverà nel 1622:
... ed è anche solito in quella città, quando arrivano galere, di far il corso e spasseggio de'
cocchi da quella parte del mare sul muolo e sopra la muraglia della terra così le dame come
la Corte ed i cavaglieri. (Raffaele Ciasca, Istruzioni e relazioni degli ambasciatori genovesi.
V. II, p 48. Roma, 1951.)
Particolarmente pomposa era l’accoglienza che si riservava a un’armata che dovesse poi
andare a combattere gl’infedeli ed ecco – nella traduzione dallo spagnolo del Croce - una
descrizione dell’arrivo a Napoli delle 30 galere di Spagna che nel 1575, provenienti da
Genova e capitanate da Giovanni d’Austria, il trionfatore di Lepanto, dovevano costituire il
primo nucleo di un’armata destinata all’impresa d’Orano:
…Entrarono nel porto di Napoli il vespro di S. Giovanni, all’Ave Maria ( cioè il 24 giugno
subito dopo il tramonto), e, nell’entrare, ad ogni galeotto fu dato un fascio di sarmenti
impeciati che ardeva più di quattro torce e che doveva esser tenuto alto col braccio; i
soldati, più di…, furono disposti nelle balestriere ed i marinai nei due lati a prora con
l’archibugio ciascuno ed, a vista delle case della città, vennero legati i remi. La galea Reale
salutò con un pezzo d’artiglieria e subito risposero infinite artiglierie dai castelli, torrioni e
baluardi, accompagnate da quelle delle galee (napoletane) e dall’archibugeria; e
negl’intervalli, mentre si ricaricava, non solo dalle mura di Napoli, ma da tutte le galee,
fregate e feluche che, come formiche, andavano pel mare, si udivano musiche soavissime
di clarini, cennamelle, cornette e violini, trombe, timballi e tamburi con infinite luminarie,
girandole e diverse invenzioni di polvere (‘polvere pirica’), che le minori erano razzi. Si
celebravano tre feste insieme, la notte di S. Giovanni, la venuta di un principe così grande e
294
così amabile e quella di un’armata così grossa. Dissipato il fumo degli spari, sbarcò don
Giovanni coi titolati, i cadetti ed i capitani… (Benedetto Croce, Scene della vita dei soldati
spagnuoli a Napoli in «Studi di storia napoletana in onore di Michelangelo Schipa», Napoli,
1926.)
Anche ad Algeri e negli altri porti della Barbaria l’arrivo o il ritorno di vascelli remieri da
corso era accolto da una folla di baldì (‘cittadini’), soprattutto attratta dalla curiosità di
vedere le prede fatte sia in schiavi sia in roba:
… Quando un vascello torna dal corso e fa scalo in qualche luogo, gli abitanti hanno
l’abitudine d’accorrere, alcuni per vendere dei rinfreschi, altri per comprare il vestiario; altri
infine, semplicemente curiosi, vengono a esaminare gli oggetti ed i prigionieri… (Diego de
Haedo, De la captivité à Alger par Fray Diego de Haëdo. Traduction de Moliner-Violle, Alger,
1911.)
Prima di lasciare di trattare della struttura d’una galera vogliamo dare alcune delle
proporzioni in piedi di Parigi prescritte dall’ordinanza reale di Francia del 3 settembre 1691
e riportate più tardi dal Savérien, perché il lettore possa comprendere anche l’aumento delle
principali dimensioni di questo tipo di vascello da guerra, aumento già iniziatosi in maniera
generalizzata alcuni anni dopo Lepanto, e le misure che le galere avranno raggiunto dopo
circa un secolo dal tempo che è principale oggetto di questo nostro studio:
Piedi Pollici
Lunghezza da giogo a giogo 144 0
Larghezza all’assone maestro (cioè centrale) 18 0
Larghezza da scalmo a scalmo 26 1½
Altezza al puntale (cioè centrale) 7 2
Interbanco 3 10
Lunghezza del banco 6 6
Larghezza del predetto 0 6
Spessore del predetto 0 5
Lunghezza della banchetta 7 0
Larghezza della predetta 1 5
Spessore della predetta 0 1½
Larghezza interna della corsia 2 1½
Altezza della predetta 2 8
Spessore dei quartieri 0 4½
Lunghezza del remo 37 3
Lunghezza dell’albero di maestra, calcese incluso 70 0
Diametro del predetto a 12 piedi dall’estremità inferiore 1 7
Diametro del predetto all’estremità superiore 1 4
Lunghezza dell’albero di trinchetto, calcese compreso 52 6
Diametro del predetto a 9 piedi dall’estremità inferiore 1 2½
Diametro del predetto all’estremità superiore 0 9 2/3
Lunghezza della penna di maestra 68 0
Diametro della predetta a 24 piedi dall’estremità grossa 1 1 1/3
Diametro della predetta all’estremità piccola 0 5 2/3
295
Anche l’armamento da guerra di queste grandi galere era ovviamente maggiore e infatti il
residente veneziano a Genova Cornioni in un sua informativa del 22 maggio 1701 così
scriverà:
… È stata varata ad Arenzano e rimorchiata in questo porto una galea governativa della
portata di cinquanta cannoni; sarà montata da uno dei capitani Viviani. (Ruggero Moscati,
Relazioni degli ambasciatori veneti al senato (Secolo XVIII). Milano, 1943.)
Anno Domini 1175…in mense Iunio alia quaedam pisanorum galea navigavit in Provincia
(‘nelle acque della Provenza’) et unum magnum galeotum venientem de Sancto Egidio,
multis et magnis pannis et caris (‘generi costosi’) honeratum, cepit. (Ib.)
296
Veniva dunque questa galeotta dalla fiera di St. Gilles in Provenza, carica di quei tessuti di
lusso e di altre merci pregiate, le sole di cui potevano caricarsi le galere, non avendo gran
disponibilità di stivaggio e disponendo invece di sufficienti armamenti per difendere da
pirati e corsari il loro carico; erano infatti quei mari di solito frequentati da pirati e corsari
proprio perché percorsi da navigli recanti ricchi carichi; per esempio il 24 giugno del 1175 i
marsigliesi, avendo avuto notizia che la galera del pirata pisano Gerardo (di) Marcuccio
incrociava in quelle acque, inviarono alla sua caccia due galere sulle quali si erano
imbarcati anche dei genovesi allora in quella città per affari e, dopo averla inseguita per
qualche tempo, riuscirono a catturarla in alto mare. Ora invece, cioè a partire dal
Cinquecento, così come la galera ordinaria era tornata a esser stabilizzata nel suo classico
rango di triremi, come lo era stata infatti ai tempi delle triere della Roma imperiale, le biremi
o legni medievali erano state definitivamente ribattezzate galeotte o fuste, mentre i
monoremo, vascelletti senza corsia e perlopiù anche senza coperta, erano chiamati adesso
bergantini, caicchi, fregatoni ecc. Ma di questi poi diremo. Erano dunque in sostanza le
galeotte non altro che le vecchie galere biremi medievali prive di rembate, mancanti queste
perché sarebbero state troppo ingombranti e soprattutto pesanti per i loro pochi remiganti,
e si potevano pertanto ora dire anche ‘mezze galere’; avevano, a seconda della loro
grandezza, da 17 a 23 banchi biremi per lato, anche se nel Medioevo e nel primo
Cinquecento ne avevano spesso avuto anche qualcuno di meno; eccone infatti nel 1380 una
genovese da 14 banchi per lato:
… Giunsero lettere a Venezia con un galladello (monoremo fluviale) che cinque galee
veneziane avevano preso una galea di Pera (colonia genovese sul Bosforo) con tutti gli
huomini ed una galeotta di 28 banchi (in totale) de’ genovesi, che era carica di spezie…
(Daniello Chinazzo, Cronaca della guerra di Chioza etc. In L.A. Muratori, Rerum italicarum
scriptores etc. C. 774, t. XV. Milano, 1727.)
Precisiamo che questa non è la versione originale della cronaca, la quale fu scritta dal
Chinazzo in latino, ma ne è una tarda infedele traduzione in volgare e che, per esempio un
veneto come lui mai avrebbe scritto galere bensì galee. Nel 1409 troviamo una galeotta
veneziana di ben 25 (probabilmente 26) banchi in totale, la quale si doveva dare a Marco
Bembo, rettore di Mykonos e Tinos, per guardia di quelle isole greche (C.N. Sathas, cit. Vol.
I, pp. 32-33); ma può anche darsi chei testo sia erroneo e che si trattasse di una galea e
allora i riportati 25 banchi sarebbero stati per lato. Ora, alla fine del Cinquecento, erano
comunque molto diffuse le galeotte da 18 e da 22; esse portavano tutte ovviamente l'albero
di maestra, ma non tutte il trinchetto; avevano anch'esse una sola coperta e lo schifo; si
297
trattava d'imbarcazioni leggere, molto adatte alla guerra di corso perché velocissime e
molto maneggevoli, specie quando andavano a remi, e inoltre erano imbarcazioni
ἐπιπρώροι, come dicevano i greci, cioè con esse si prueggiava particolarmente bene.
Sebbene tanto vantaggiose alla guerra di corso, la quale si esercitava allora soprattutto
facendo cabotaggio, le galeotte erano vascelli poco usati dai cristiani, mentre lo erano
molto dai corsari turchi e quasi esclusivamente da quelli barbareschi, i quali però fino a
tutto il Rinascimento avevano adoperato quasi esclusivamente le più agili fuste; esse
avevano generalmente (ma non sempre) due remieri per ogni banco di voga e pertanto
anche e soprattutto per questo offrivano, rispetto alle galere, un notevole risparmio
d’uomini. I barbareschi usavano comunque spesso galeotte che in realtà avevano le
dimensioni delle galere:
... Ma in Barbaria si fanno molte galeotte grandi come le galee ordinarie e molto simili alle
galee, se non quanto non portano le rembate né il trinchetto inarborato, e lo fanno i padroni
per non essere sforzati a servire al Gran Turco quando ne sono ricercati, come sarebbono
se fossero galee, che hanno quest'obligo, però (‘perciò’) le mettono fuori sotto il nome di
galeotte. (P. Pantera. Cit. P. 48.)
Verso la fine del Seicento le potenze marinare cristiane di ponente, avendo nel corso di quel
secolo considerato che le biremi in effetti non erano vascelli né tanto potenti, come le
galere, da poter partecipare a una battaglia né abbastanza agili e leggere per i compiti di
guerra di corso e di guardia costiera che si affidavano invece alle maggiori monoremo, ne
dismetteranno quasi del tutto l’uso, restandone comunque per esempio fino alla fine del
Settecento nel Regno di Napoli, però come galeotte da bombe, mentre altre monoremo, le
cosiddette impropriamente barche lunghe, anche sopravvivranno, ma perlopiù nei soli
Adriatico e Ionio, sino allo stretto di Messina.
Bisogna inoltre ricordare, come abbiamo già accennato, che a partire dal Seicento gli
olandesi daranno questo nome di galeotte anche a dei loro vascelli tondi di media
grandezza e di tutto rispetto, generalmente lunghi dagli 85 ai 90 piedi francesi, con i quali
essi raggiungeranno anche le Indie, e inoltre a vari altri tipi di vascelli più piccoli, alcuni
d’una forma che stava tra quella dei predetti e quella delle pinasse, altri di basso bordo che
serviranno da yachts, ossia da ’avvisi’, e altri ancora da pesca; questi vascelli saranno
caratterizzati, oltre che dall’alberatura en fourche, soprattutto dall’aver la loro maggiore
larghezza in corrispondenza della sommità della prua; ma, tornando ora agli altri vascelli
remieri, diremo che similmente ora più usati in guerra, erano i suddetti bergantini ma
ancora di più le fuste, queste però più dai turco-barbareschi che dai cristiani, ambedue
298
nomi che si trovano già nelle cronache della fine del Duecento; il nome doveva comunque
esser già presente nell’antichità, perché dal l. fustis, ‘palo’, a far supporre che
probabilmente le fuste erano stati il primo esempio di vasa longa che sia diventato molto
noto e usato nel Mediterraneo, anteriore quindi alla stessa galea; si trattava di vascelli che,
pur essendo più piccoli delle galeotte, condividevano di queste la forma, eccetto che non
portavano la corsia alta e, nel caso dei bergantini – poi detti anche bregantini e bragantini
(vedi in questo senso lo storico Marin Sanuto), nemmeno la coperta; si potevano quindi
considerare dei ‘quarti di galera’, per usare un linguaggio però più proprio all’artiglieria.
Portavano una sola vela, cioè la maestra, e per ogni lato da 8 a 16 banchi, essendo
comunque molto comuni quelli da 14 o 15, dove vogavano altrettanti uomini a uno per
banco, ma, nel Rinascimento, bregantini (gr. e grb. ἐπαϰτροϰέλητες) e fuste avevano
raggiunto spesso persino i 22 banchi per lato (M. Sanuto, Diarii. T. I - p. I, col. 146), specie
quando ancora erano chiamati lenij; avevano remi assai lunghi e sottili, pertanto dal facile
maneggio, ed erano velocissimi e comodi per il poco spazio che occupavano, per esempio
all'ormeggio, quindi si trattava di legni molto agili e adatti alla guerra di corso e alle
scorrerie costiere. Il loro equipaggio complessivo, specie nelle fuste turco-barbaresche, le
quali erano un po’ più grandi dei bregantini, superava normalmente di poco il numero dei
rematori, generalmente dai 30 ai 40, essendo questi in tali più piccoli vascelli remieri, come
del resto anche in quelli saraceni che li avevano preceduti nel tempo, pure marinari e
combattenti (gr. μάχιμοι αὐτερέται, ‘combattenti che remano da sè’) e non quindi degli
schiavi cristiani come invece erano nelle galere e galeotte e come spesso anche saranno
nei secoli seguenti; ma in realtà, in caso di guerra o di guerra di corsa portavano a bordo
molti più uomini, talvolta addirittura più di 130 e ciò perché, seppure tanti uomini non
servivano alla navigazione, servivano però nelle azioni di guerra che andavano a fare.
Nell’estate del 1504 nei pressi dell’isola d’Elba quattro fuste capitanate dai due famosi
fratelli corsari Barbarossa catturarono in due azioni distinte due galere dello Stato
Ecclesiastico e poi, con tre sole di queste fuste, inseguirono e presero nelle acque di Lipari
una grossa nave spagnola che stava andando dalla Spagna a Napoli, la Caballería, la quale,
benché facesse acqua a causa d’una precedente tempesta che l’aveva colpita, essendo
infatti tutti gli uomini di bordo impegnati alle pompe, cioè a quei due condotti, posti
generalmente uno a tribordo e uno a babordo dell’albero di maestra, per vuotare la sentina,
ossia quell’acqua marcia puzzolente, risultante soprattutto dalla pulizia dei ponti, che si
raccoglieva sul fondo di cala d’un vascello lungo la chiglia e che gli antichi romani
chiamavano più comunemente nautea, e non potesse quindi alla fine sottrarsi alla cattura,
299
pur portava, oltre a un ricco carico di falconi, altri uccelli pregiati e 30 cani di razza, ben 300
soldati, 60 cavalieri aragonesi ed 80 marinai; nell’estate del 1510 poi, mentre una galera
turca dannificava le marine pugliesi portandone via schiavi moltissimi abitanti, come
racconta il diarista leccese Antonello Coniger, quattro fuste barbaresche entrarono
audacemente nel porto di Napoli e s’impadronirono alla sprovvista di tre galere di quella
squadra, le quali erano evidentemente tenute alla fonda prive di guarnizione militare; inoltre
il 29 maggio dell’anno successivo una squadriglia corsara turca, comprendente due barche,
una galera e cinque fuste assalirono S. Cataldo di Lecce, ne presero la torre ammazzando
tutti quelli che vi si trovavano e fecero gran preda (Cit.).
Fino al Trecento i bergantini o brigantini remieri (gr. τράμπιδες, ἂϰάτια, νῆες ἄκᾰτοι) del
Mediterraneo erano stati chiamati anche bragantini; probabilmente questo nome, da non
confondersi però con quello omonimo del più tardo brigantino veliero oceanico, fu dato non
perché avessero qualcosa a che fare con il regno di Braganza o con i grassatori, visto che a
quei tempi briganti aveva il suo significato originario di soldati e non ancora di delinquenti,
ma forse perché si trattava in origine di un tipo di vascello remiero caratteristico del Lago di
Costanza o Lacus Bragantinus, come lo chiamava Plinio in quanto dominato dalla città di
Bragantium, oggi Bregenz. Si trattava di una vascello attuario privo di coperta, usato anche
per il trasporto di merci, il quale poi seguirà la sorte di tutta la marineria bellica remiera,
destinata a terminare sostanzialmente con la fine della repubblica di Venezia; ne troviamo
una prima menzione del nome negli Annales degli Stella all’anno 1.379 (cum duabus ex illis
scaffis quae brigantini dicuntur.), al 1412 (ex iis, quas vulgares galeottas et brigantinos
dicunt, galeottas duas ac unum brigantinum deducens) e al 1419 (unam galeottam cum
altero vase, quia brigantinum vocatur); poi anche negli Anales dello Zurita all’anno 1438, ma
quest’ultimo autore non era, come sappiamo, coevo bensì molto più tardo. Inoltre al 4
settembre 1384 nel racconto del viaggio di Terra Santa del fiorentino Lionardo di Nicolò
Frescobaldi, il quale nelle acque di Venezia andò a raggiungere l’ormeggio della cocca
veneziana che doveva portarlo ad Alessandria d’Egitto condottovi, assieme ad altri
pellegrini, da ‘uno brigantino a sedici remi’, intendendosi 16 remi per lato (Viaggio di
Lionardo di Nicolò Frescobaldi fiorentino in Egitto e in Terra Santa etc .P. 53. Parma, 1845).
A questo proposito dobbiamo dire che il termine cocca si era presto esteso nel
Mediterraneo anche alle navi mercantili più grandi della caravella, specie alle caracche, e
infatti nella stessa predetta relazione di viaggio del 1384 a un certo punto leggiamo il brano
che segue:
300
Un documento fanese del 1586, pubblicato da Mario Bartoletti nel suo Una città adriatica fra
Medioevo e Rinascimento (P. 58. Urbania, 1990), ci da il ragguaglio dell’equipaggio di una
fusta da 20 banchi per lato a quei tempi, un equipaggio più complesso che nel passato, in
quanto l’uso delle fuste era ormai allora in fine perché le galeotte le stavano sostituendo; si
trattava di un vascello da adibire alla difesa di quelle acque e che l’amministrazione
pontificia di Fano pensava di farsi farsi costruire dall’arsenale di Venezia; tralasciamo il
dettaglio dei soldi:
Capitano, (il quale) mena seco per il meno suoi quindici in diciotto (uomini).
Còmito.
Sotto-còmito.
Agozino.
8 marinari
72 vogadori.
36 soldati.
Peotta.
Bombardiero.
Sotto-bombardiero
La fusta era qui comandata non più dal còmito, come nel passato, ma da un capitano, cioè
come le galere; i vogatori, i quali erano volontari perché prendevano una paga e cioè due
ducati il mese, possono sembrare pochi per quaranta banchi bireme, ma evidentemente i
mancanti erano inclusi in quei 18 uomini portati dal capitano. Anche l’artiglieria era
diventata notevole per quel tipo di vascello e cioè ben 9 bocche da fuoco di bronzo, tra cui
tre maggiori su affusti e sei piccole girevoli a mezzo di codesse, ossia poste su cavalletto
fisso, quindi probabilmente si trattava di smerigli da braga o, se a carica anteriore, di
archibugi da posta, artiglierie per fiancate di cui poi diremo.
A leggere il Guillet e l’Aubin, autori comunque molto più esperti di navigazione oceanica
che di quella mediterranea, nella seconda metà del Seicento sia il brigantino che la fusta
subiranno poi notevoli trasformazioni e cioè il primo, ora fornito anche di trinchetto, avrà
generalmente 12 banchi monoremo per ogni lato e sarà ancora molto apprezzato dai corsari
e dai pirati mediterranei per la sua leggerezza, oltre che per la preesistente comodità che in
esso ogni remigante vi era anche marinaro e soldato; la seconda sarà invece
un’imbarcazione, sempre a vela e a remi (fr. à trait et à rames, à la voile et aux rangs), ma
301
usata ora principalmente da bettolina, cioè per la discarica dei vascelli più grossi, e nel
Settecento prenderanno questo nome di fuste tutti i legni che in un’armata navale
serviranno da magazzino, da ospedale e talvolta anche da trasporto di soldatesche.
Più piccole dei bergantini erano le fragate o fregate (vn. fregade; sp. fragatas), ma i turco-
barbareschi però, a quanto scriveva il de Haedo, le dicevano anch’esse bergantini; alcune -
a dispetto del loro predetto nome cristiano (dall’gr. άφραϰτος, privo di coperta) - avevano la
coperta e altre no, e si potevano considerare degli ‘ottavi di galera’; portavano una piccola
corsia e avevano la poppa più bassa, con meno rilievo di quella dei bergantini e priva delle
scale d’accesso che avevano i vascelli remieri più grandi, potendosi infatti accedere a
bordo anche da prua come in una comune barca da pesca; i banchi di questi legni
andavano da 6 a 12 per lato e un uomo per banco, ma a Venezia erano chiamati così anche
dei grossi copani (gr. ϰύπαι) da 8 remiganti in tutto con un nono uomo conduttore a poppa;
i remi erano simili a quelli dei bergantini e spesso in tali vascelli il timone era costituito da
un semplice remo manovrato da un timoniero. Portavano anch'esse una sola vela ed erano
agili e veloci, soprattutto quelle dei corsari, ma quelle che si facevano per il trasporto di
mercanzie erano più grandi e meno veloci. Le fragate ponentine pescavano poco e avevano
la prora e la poppa tagliate, ossia ristrette, e inoltre sollevate all'insù, quasi come quelle
delle gondole veneziane, due caratteristiche queste che le facevano molto più leggere e
veloci degli altri tipi di vascelli, sia quando andavano a remi sia a vela, ed erano infatti molto
usate al seguito dell’armate come avvisatrici, scopritrici e passatrici veloci. Come tutti gli
altri piccoli vascelli sottili anche le fregate non erano in grado di sostenere lo scontro in
battaglia ordinata, ma erano utilizzabili per una guerra di corso minore e in tante altre utili
mansioni, come scriveva il Sereno:
… Le quali, sebbene per combattere a’ fatti d’arme son poco utili vascelli, a traghettar genti,
portar artigliarie e munizioni e a mantener gli esserciti forniti di quanto richiede
l’espugnazione delle fortezze e delle città sono attissime. (Bartholomeo Sereno,
Commentarij della guerra di Cipro e della Lega dei principi cristiani contra il Turco etc. Pp.
53-54. Monte Cassino, 1845.)
Simili alla fragata erano la barca lunga oceanica, di cui poi diremo, e la barca lunga
adriatica, della quale però non abbiamo trovato descrizioni; la seconda fu introdotta dai
corsari uscocchi, di cui anche parleremo più avanti, poi fu adottata dagli albanesi e nella
seconda metà del Seicento anche dai barbareschi; 15 di queste barche albanesi facevano
parte nel 1617 dell’armata veneziana proprio in funzione anti-uscocca. Pur restando più
piccole dei bergantini, le fragate diventeranno più corpose nel Seicento, quando il loro
302
bordo sarà più alto di quello delle galere e presenteranno pertanto delle aperture nel bordo
stesso - a mo' di piccoli sabordi - per il passaggio dei remi; inoltre saranno sempre
provviste di coperta. Pure nel Seicento, gl’inglesi saranno i primi ad attribuire il nome di
fregata a un veliero oceanico da guerra ordinariamente a due soli ponti, lungo, basso
sull’acqua (fr. ras à l’eau), leggero di legname e alla vela, povero d’opere morte e ciò
sempre per aumentarne la leggerezza, armato con un numero di pezzi che poteva andare
dai 36 ai 50, trattandosi forse d’una evoluzione dei cinquecenteschi bertoni di cui abbiamo
già detto; l’unica parte della fregata che si faceva sensibilmente più pesante, per esempio,
di quella d’un flauto era la prua, per cui un tale vascello tendeva a ricadere di più sul naso
(ol. neus, bek), come dicevano i francesi, ossia sulla punta dello sperone. Ci sarà anche una
versione più ‘leggera’ e molto più nota e fortunata di questa moderna fregata, ossia un buon
veliero (fr. fin de voile, leger à la voile) a un solo ponte, molto usato per il corso, armato con
un numero di cannoni che andava dai 16 ai 28, per esempio la francese Le Chasseur, la
quale nel 1657 avrà 180 uomini d’equipaggio e 28 pezzi, di cui 18 in ghisa, confondibile
quindi, più che proprio con il flauto maggiore, con il fiammingo fluijt-boot (anche fluyt-boot,
fluit-schip, vlie-boot, phlibot; ing. fly-boat, fleet-boat, flute-boat, store-ship; cst. filibote; fr.
flibot; it. flibotto, lilibotto, flauto), essendo quest’ultimo, come il nome stesso fa intendere,
un vascello appunto fiammingo il quale era nient'altro che un flauto o pinco piccolo, ma
largo e molto fondo, dai bordi arrotondati, cioè senza squadratura, e dalla poppa
ordinariamente rotonda, provvisto del solo albero di maestra senza parrocchetto e dalla
portata massima di 100 botti. Infine, ci sarà anche un piccolo legno detto in francese frégate
ou patache d’avis (ol. advijs-jacht, advijs-fregat), il quale sarà utilizzato com’avvisatore o
come postale militare, mentre una qualsiasi nave da guerra che allora porterà un numero di
pezzi d'artiglieria superiore al predetto di 50 si dirà, invece di fregata, un vascello,
monopolizzando così un nome che in precedenza, come sappiamo, era sempre stato
comune a qualsiasi legno, grande o piccolo, a vela o a remi che fosse.
Una sorte simile a quello di fregata avrà il nome di corvetta e anche quello di brigantino (in.
brick); ma tornando ora al nostro Cinquecento, diremo ora che i vascelli sottili più piccoli di
tutti erano le filuche, le capariole, le castaldelle e gli altri più sopra nominati; erano tutti privi
di coperta (fr. bâtiments ras), avevano da tre a cinque remi monouomo per lato e una sola
vela. Erano vascelli sottilissimi e velocissimi.
La scovazzera veneziana si vogava con 8 remiganti, ma era pesante e di non facile voga, e
la capariola, anch’essa veneziana, invece con 6; la castaldella si vogava in piedi a cinque
remi per lato; il caico o caic(c)hio si vogava invece sedendo e a 5/6 remi per lato.
303
Quest'ultimo era molto usato nel Mediterraneo orientale e Venezia soprattutto se ne serviva
come velocissimo vascello corriero e porta-ordini e infatti quella repubblica disponeva d’un
certo numero di caicchi publici, con i quali manteneva i contatti con le sue armate di mare e
le sue colonie e mandava e riceveva la posta diplomatica da Costantinopoli, ma erano
spesso usati anche per il corso minore e i più grandi talvolta anche per il trasporto di
piccole partite di legname; a partire dal Seicento troveremo però chiamare con lo stesso
nome (ca(v)ichio), specie dai maltesi e dai veneziani, lo schifo di galera e talvolta anche il
battello di servizio e salvataggio dei velieri. Poco compare a quest'epoca un altro nome con
cui era conosciuto il caicchio e cioè peot(t)a, nome che è quanto restava della locuzione
veneziana barcha di peota (‘pedota, pilota’) – oggi diremmo quindi ‘pilotina’ (gr. πορθμίς,
πορθμίδιον) - e che troveremo più diffuso nell'Adriatico veneziano nel Settecento, quando
anche comuni saranno altre specie di caicchi, quali il peot(t)one, la margarota, barca da 6
rematori che si costruiva a Marghera, e la bissona, questa veloce barca sottile da 8 remi.
Nel 1386 troviamo però usato da Venezia come vascello corriero anche un brigantino.
Le filuche napolitane (dette anche feluche e felucche; dal l. fulica, ‘folaga’), scialuppe di
origine palustre già menzionate nel Trecento, erano i più piccoli dei vascelletti remieri,
equivalenti nel Mediterraneo occidentale ai predetti caicchi levantini, velocissime a cinque,
ma più spesso a sei remi per lato, erano inoltre a vele latine o a saccoleva e a doppia poppa
(gr. ἀμφίπρυμνα πλοῖα) – o doppia prua (gr. ἀμφίπρῳροι νῆες) se si preferisce, quindi a
doppia timoneria, cioè col timone velocemente trasferibile da un’estremità all'altra in caso
di bisogno, e questa particolarità dimostra il loro uso soprattutto palustre o fluviale, cioè
per traghettare velocemente da una riva all’altra o per invertire più agevolmente la rotta in
acque strette, cioè senza bisogno di girare il vascello, un tipo di imbarcazione questo già
menzionato nel VI sec. dal bizantini Agazia Scolastico (ἐπαϰτρίδας τινὰς ἀμφίπρυμνους
δέϰα. Historiarum, l. III) e dal suo continuatore Menandro Protettore (ἒμπαλιν διελθεῑν
παρεσϰεύασε τὸν Ἲστρον ἐν ταῑς ϰαλουμέναις ἀμφιπρύμνοις οτῶν νεῶν. In Excerpta ex
Historia. All’anno 576); anche Giorgio Cedreno (sec. XI) molto più tardi ne farà menzione nel
suo Compendio storico, laddove narra che l’imperatore Giustiniano, attorno al’anno 559
d.C., inviò il generale Belisario a combattere gli unni e gli preparò a questo scopo delle navi
bipoppa (πλοῑα δίπρυμνα) con le quali risalire il Danubio. Giovanni Zonara, altro storico
bizantino, ma questo del sec. XII, scrivendo dei fatti dell’imperatore Costantino su dette
imbarcazioni bipoppa alquanto si dilunga:
… i vascelli erano per la maggior parte monoremi e per il resto biremi e in alcuni di loro si
manovravano timoni sia a prua sia a poppa e avevano anche doppi marinai timonieri e ciò
304
sia nell’andare sia nel tornare, non avendo quindi bisogno di virare di bordo e non facendo
comprendere ai nemici se si stessero avvicinando o si stessero allontanando. (… πλοῑα
δʹἦσαν τὰ μἔν πλεῑστα μονήρη, ἒστι δʹἂ ϰαὶ δίϰροτα; ϰαὶ τισὶν αὑτῶν ϰαὶ ἐϰ τῆς πρώρας ϰαὶ
ἑϰ τῆς πρύμνης πηδάλια ἤσϰητο, ϰαὶ ϰυβερνήτας ναύτας τε διπλοῦς εἷχον, ὃπως ϰαὶ ἑπεὶ
πλέωσι ϰαὶ ἁναχωρῶσι, μὴ ἀναστρεφόμενοι, ϰαὶ τοὺς ἐναντίους ἑν τῷ πρόσπλῳ ϰαὶ τῷ
ἀπόπλῳ αὐτῶν σφάλωσιν. In Epitomē historiarum.)
Il predetto brano è pressappoco uguale a quello che sullo stesso argomento troviamo in
Suida e, poiché quest’ultimo scriveva secoli prima, vuol dire che o Zonara copiò da lui o
ambedue copiarono da un terzo autore a loro precedente. C’è da supporre che solo le
monere, ossia le monoremi, potessero essere attrezzate in tal senso, perché, per potersi
sedere ugualmente da un lato o dall’altro del banco, era necessario che il banco stesso
fosse perpendicolare alla fiancata e non obliquo, anche se magari con doppio scalmo od
occhio di scalmo; c’è inoltre da pensare che, oltre alla possibilità di non far comprendere al
nemico il loro senso di marcia, la doppia poppa fosse anche molto utile a questi vascelli in
caso decidessero di sottrarsi velocemente al combattimento e infatti Esichio le dice
umoristicamente τὰ ἐπὶ σωτηρίᾳ πλοῖα, cioè ‘le navi verso la salvezza’. Naturalmente, se il
vascello remiero non era piccolo e aveva quindi i banchi non perpendicolari alle fiancate ma
inclinati verso prua, non si poteva vogare in questa maniera, cioè all’indietro, se non per un
breve tempo e bisognava al più presto davvero girare il vascello; ciò perché non bastava
portare i remi dall’altro lato dello scalmo ( gr. τροπώσασθαι ναῦν, ‘ristroppare il vascello’),
ma bisognava necessariamente anche che si invertisse l’inclinazione dei banchi. Erano
queste piccole e veloci imbarcazioni bipoppa utilizzate talvolta anche in mare come porta-
ordini e corrispondenza e per passaggi veloci e diventeranno molto comuni e apprezzate a
partire dal Seicento, quando - in versioni più grandi dette feluconi e con maggior numero di
remi – saranno talvolta usate da turchi, napoletani e francesi anche per la guerra di corso di
piccolo cabotaggio e serviranno inoltre al diporto marittimo e lacustre dei regnanti, come
quella riccamente decorata in dotazione alla Corte di Napoli, adoperata per le gite che quei
vicerè e poi re amavano fare nell'acque di Posillipo, e il cui ultimo esemplare ancor oggi si
può ammirare al museo partenopeo di S. Martino. Il battello veneziano aveva due vogatori.
La fisolera, anch’essa veneziana, che sembra si chiamasse così perché utilizzata
soprattutto per la caccia al fisolo d’acqua dolce (colymbus fluvialis), un uccelletto acquatico
una volta molto comune, detto in Toscana Tuffetto o Tuffolino (G. Boerio, cit. P. 224); ma
l’etimo potrebbe essere comune a quello del faselo napoletano (l. phaselus; ltm. faselus),
trovando così ambedue i nomi origine nel l. vascellum. Era spinta questa generalmente da
un solo remigante ed era tanto leggera che un solo uomo poteva portarla sulle spalle come
305
una canoa e pertanto, così come abbiamo già detto per il nome francese pla(i)ne, ha dato il
nome alla carlinga degli aerei, anch'essa necessariamente molto leggera; non sappiamo
però né di quale materiale fosse fatto né se avesse qualcosa in comune anche con la più
tarda battana, altra piccola imbarcazione veneziana che si vogava come la canoa, ossia con
remo a doppia pala e senza scalmo, o con i simili zopoli o ciopoli, leggerissime canoe
fluviali croato-bosniache. C’erano comunque a Venezia anche fisolere più grandi, capaci di
quattro remiganti e, per quanto riguarda il faselo, c’è a notare che Bartolomeo di Neocastro
ne menziona uno bireme, senza però indicarne il numero dei banchi di voga (quandam
faselum biremen ascendens. Cit. Cap. LXXXII).
Terminiamo questa enumerazione dei vascelli da remo più piccoli con lo schifo [vn. còpano;
fr. esquif, caïc(que), chalou(p)pe; ol. boot, schuit, chaloep, sloep], ossia con la barca di
salvataggio dei predetti vascelli tondi e latini, della quale aveva di solito il carico un solo
marinaio (ct. barquer; fr. maistre de chaloupe), esso nei vascelli maggiori era di solito
accompagnata da una seconda imbarcazione più piccola detta in francese canot o scute e
in italiano fragatina; la scafa, imbarcazione napoletana con la quale il re Alfonso I d’Aragona
(1396-1458) attraversava il fiume Volturno quando andava a caccia nelle paludi costiere
nella zona oggi detta Ponte a Mare appunto presso Castel Volturno a nord-ovest di Napoli.
Alla fine del Seicento talvolta si nominerà nel Mediterraneo talvolta un vascelletto da carico
detto schiffo portoghese.
Passando ora alle qualità nautiche dei vascelli sottili, diremo che una buona galera doveva
essere pianella, vale a dire con fondo piano e poco profondo, scarsa di quartieri sia a poppa
che a prua, cioè un po' stretta alle due estremità, ma ben quartierata, ossia larga e corposa,
alla mezzania e così sarebbe andata velocissima a remi o anche a vela con la bonaccia,
proprio perché, per avere fondo piatto, poco pescaggio e poco quartiero, offriva poca
resistenza al mare solcandolo e fendendolo così più facilmente. D'altro canto i vascelli
molto pianelli come le galere, per ogni poco di maretta e di vento fresco che ci fosse, subito
incominciavano a navigare male sia a remi che a vela e risultavano gelosi e insicuri nelle
burrasche; inoltre proeggiavano difficilmente con la maretta perché erano poco quartierati
alla prora, la quale era così sopraffatta e soffocata dal mare, e anche perché erano molto
bassi e quindi, stando il loro scafo per lo più sommerso, procedevano con difficoltà ogni
volta che il mare non fosse del tutto tranquillo. Le galee poi che non erano tanto pianelle,
che pescavano cioè molto di più dell'ordinarie e che avevano maggior quartiero alla prora,
erano sì più reggenti e più sicure nei fortunali, riuscivano sì meglio alla vela con i venti
freschi, andavano anche meglio a remi con la maretta e meglio proeggiavano delle pianelle,
306
erano infine più belle a vedersi per esser più alte di poppa e di prua, ma non erano
altrettanto veloci ai remi né tanto facili al moto e al giro in particolare e inoltre, essendo
molto più quartierate alla prora, proeggiavano più difficilmente col vento fresco e
quest'ultima operazione era molto importante perché, quando una galera si vedeva in balia
d’un mare troppo forte e temeva di non farcela, per salvarsi era utile appunto proveggiare,
cioè sforzare i remi controvento.
Non si potevano certo definire vascelli sottili le galeazze né le galee grosse o galee di
mercanzia veneziane né le maone ottomane, vascelli a remi e a vela latina come le galere,
ma grossi e alti di bordo come i vascelli tondi, vascelli dunque che, a causa appunto di
questa loro mole, navigavano bene a vela, ma male a voga e quindi usavano i remi solo per
uscire dai porti alla ricerca di vento utile e quindi nemmeno in caso di totale bonaccia, cioè
quando non ci fosse nemmeno la possibilità d’orzare, perché, per il loro gran peso, le loro
grandi dimensioni, la profondità della loro carena e la grande altezza da cui dovevano
scendere in mare i loro remi, la loro voga risultava molto lenta e faticosa; erano comunque i
loro remi molto utili appunto nelle manovre portuali e, per quanto riguarda il loro impiego in
guerra, avendo dunque una voga troppo sforzata, dovevano essere in bonaccia trainate
dalle galere, mentre in combattimento, potevano eventualmente usare i remi per un
brevissimo tratto per andare all’abbordaggio del nemico. Ciò significava che in guerra non
potevano mai viaggiare da sole, ma sempre di conserva con delle galere che appunto le
trainassero in caso di mancanza di vento e che le sostenessero in battaglia.
Ci si chiederà a questo punto a che servisse allora tenere a bordo un numero così rilevante
di remieri se poi alla navigazione a voga ben poco si poteva ricorrere; bisogna quindi
chiarire che essi servivano principalmente, come del resto anche nelle galere sottili, a tutti i
molti e gravosissimi lavori di bordo, quali il maneggio degli alberi e delle vele, delle ancore,
delle gomene, gli imbarchi e gli sbarchi dei carichi di provviste e di merci, alla raccolta a
terra di acqua e fascine, gli sbandamenti su un lato del vascello per effettuargli i lavori di
carenamento ecc. Infine anche come remiganti, quando necessario e possibile.
La galeazza era un vascello lungo e largo circa un terzo più della galera sottile ordinaria,
ma, per quanto riguarda l’altezza, quelle ponentine rivaleggiavano con i vascelli tondi;
infatti, così si scriveva in una lunga lettera anonima inviata nel 1588 dall’Inghilterra a
Bernardino de Mendoza (1540/1-1604), ambasciatore di Spagna in Francia, e nella quale si
dava relazione del recente disastro della Invencible Armada, narrandosi tra l’altro
dell’audace impresa di due gentiluomini della Corte inglese, William Harvey e l’italiano
Tomaso Ghirardi, i quali, avvicinatisi di soppiatto in una barchetta alla capitana delle
307
… Questi due si misero a rischio della barca di una nave di scalare la gran galeazza nella
quale era Moncada e vi entrarono solamente con le loro spade, rischio a cui, secondo che
comunemente si ragiona, non si trova un altro simile, se si fa paragone dell’altezza di quella
gran galeazza e di un così picciol battello. (La dispersione della invincibile armata di Filippo
II illustratta da documenti sincroni. P. 141. Milano, 1863.)
Tant'era grande questa galeazza napoletana che anche il de Bourdeilles così ne scriveva :
… cette grande galeasse tant celebre et renommée en ecette armée-là, qu’on pouvoit dire
plûtost une montagne de bois qu’un vaisseau de mer… (Cit. Pp. 190-191.)
Secondo un decreto emanato nel 1520 dal Senato di Venezia e ribadito poi da un’altro del
1549, ambedue menzionati da Cesare A. Levi (Navi venete da codici, marmi e dipinti,
Venezia, 1892), autore comunque da leggersi con molta prudenza a causa delle sue
continue imprecisioni e approssimazioni, le galee grosse veneziane si sarebbero da allora
in poi dovute costruire delle seguenti misure: lunghezza da ruota a ruota passi 27½,
larghezza di bocca piedi 23 e altezza di puntale, ossia del vivo al centro, piedi 9; il che
significa che la lunghezza era molto inferiore a quel terzo in più di cui parlano sia Pantero
Pantera che Famiano Strada e che, in sostanza, le galee grosse veneziane non erano altro
che delle galeazze un po’ più piccole di quelle ponentine, ma comunemente – anche se
erroneamente - i loro nomi erano considerati sinonimi, come fa qui di seguito il Franzes
elencando i vascelli di varie nazionalità che nel 1453 difendevano Costantinopoli
dall’assedio turco:
… vi prendevano parte inoltre tre grandi triere commerciali dei veneziani, le quali gli italiani
sogliono chiamare ‘galee grosse’ o piuttosto dicono ‘galeazze’ (ἒτυχον δὲ ϰαὶ ἐϰ τῶν
Ένετῶν τριήρεις ἐμποριϰαὶ μεγάλαι τρεῖς, ἄς οὶ Ίταλοὶ εἱώθασι γρόσσας γαλέρας ϰαλεῖν ἢ
μᾶλλον εἰπεῖν γαλεάτζας. Cit. L. III, cap.III).
A proposito di questo non numeroso gruppo di galee che vari potentati occidentali avevano
inviato a Costantinopoli per contribuire a una difesa solo ‘di facciata’, esse erano una
quindicina e comprendevano, oltre alle predette tre galee grosse veneziane, tre galee
genovesi, una castigliana, tre cretesi, delle quali una della citta di Xandax e due da quella di
308
Chydonia, qualcuna francese, ed infine alcune leggere veneziane, le quali però si trovavano
lì non tanto per difendere la città quanto più tosto il traffico di merci:
… e altre veloci triere poste alla protezione e sussidio delle merci. [ϰαὶ ἒτεραι τριήρεις
ταχεῖαι πρὸς φύλαξιν ϰαὶ ὐπηρεσίαν τῶν ἐμποριϰῶν τεταγμέναι· (ib.)]
L’imperatore pretese che restassero in zona per difendere invece la città; ma era ben poca
cosa rispetto all’armata approntata dall’invasore. All’inizio del Seicento la galeazza portava
ancora tanti remi quanti ne portava una galea ordinaria di circa 25 banchi per lato – in
seguito arriverà a 32, ma tali remi erano posti molto più distanziati l'uno dall'altro per la
maggior lunghezza dello scafo ed erano anche molto più lunghi e grossi, tanto da dover
infatti esser manovrati da un minimo di sei o sette vogatori ognuno:
... poi che vediamo che il remo delle galeazze è talmente lungo che, per esser ben
maneggiato, ha bisogno di sette e di otto vogatori e anco di maggior numero, secondo che
sono più o meno armate, essendo per la terza parte più lunghe delle galee ordinarie di
venticinque banchi e perciò tarde al moto. Però (‘perciò’), quando le armate christiane
andorono del 1571 (anno di Lepanto) per combatter la turchesca, commandarono i generali
della Lega che, non potendo le galeazze andare a vela per mancamento di vento, dovessero
esser remurchiate dalle galee più leggiere acciò che rimanessero a dietro. (P. Pantera. Cit.
Pp. 23-24.)
Perché si capisca più facilmente la differenza di voga che c’era tra una galera e una
galeazza basterà la considerazione che i remi della prima quasi radevano l’acqua, mentre
sotto quelli della seconda potevano passare e navigare tranquillamente schifi e battelli (gr.
ἀλιάδες; βᾶρεις, βᾶριδες, σκαφίδια). In verità il Contarini nella sua Historia contemporanea
della guerra di Cipro scriveva che, tra i vari aspetti dell’armata cristiana che sbigottirono i
turchi, ci fu anche il vedere le sei galee grosse veneziane che ne facevano parte così
agilmente vogare che mai non avevano creduto… (Cit.); ma si trattava probabilmente solo di
patriottica esaltazione o comunque al massimo d’una breve vogata d’avvicinamento finale
all’armata nemica, perché effettivamente non era possibile spostare con i remi quei grossi
vascelli per lunghi tratti. In effetti si trattava di vascelli che, per la loro imponenza e potenza
d’armamento, impressionarono lo stesso Giovanni d’Austria, come il 24 settembre 1571 fu
raccontato al già citato Alvise Bonrizzo dall’arcivescovo Odescalchi appena giunto da
Messina, dove questi aveva visto il 16 precedente partire l’armata cristiana che avrebbe
vinto poi a Lepanto e ne aveva anche contato le vele:
309
… M’ha detto… che le sei galee grosse destano l’ammirazione generale e che lo stesso don
Giovanni, vedendole, esclamò: ‘Con altre sei galee simili (cioè anche senza galee sottili) mi
batterei contro tutta l’armata turchesca! Che lo stesso don Giovanni vuole indurre il re
cattolico a costruirne dieci eguali per la sua flotta e che dello stesso avviso è il famoso
corsaro cavalier Ramagas, intendentissimo di cose di mare… (N. Nicolini. Cit.)
Portava la galeazza tre alberi con le stesse vele della galera e in più il già nominato
papafico, vela anche questa latina, ma si trattava d’alberi molto più alti e grossi, soprattutto
quello di maestra, per cui erano anche fissi, cioè non correntemente e facilmente abbattibili
come invece abbiamo visto erano quelli della galera; aveva talvolta il timone detto alla
navaresca, cioè a uso di nave, ossia di vascello tondo, come abbiamo già detto, consistente
in un timone affiancato da due gran remi che lo aiutavano a far girare più presto un vascello
tanto grosso e pesante; disponeva, oltre dello schifo, anche d’una barchetta. A poppa e a
prua c'erano due gran piazze per uso dell'artiglieria e dei soldati e tutt'intorno impavesate
alte, solide e fisse, dotate di feritore (fr. meurtriéres, jalousies; ol. schiet-gaaten, musquet-
gaaten) attraverso le quali i soldati sparavano moschetti e archibugi senza poter essere né
veduti né offesi. Dietro l'impavesata c'era una strada o corsia di tavolato, posta al di sopra
dei remi manovrati dai vogatori, la quale circondava così tutto il corpo della galeazza, ma
all'interno d’essa, e sopra la quale si trattenevano i soldati per combattere e per
accomodarsi e riposare in una maniera che, rispetto a quella che si usava sulle anguste
galere, dove i soldati dovevano praticamente tenere le gambe tra i remi in movimento, era
giudicata al tempo più che confortevole.
Anche le galeazze avevano la loro corsia centrale e una sola coperta, sotto la quale c'era
però un maggior numero di camere e stanze rispetto alle galere. Il vantaggio principale della
galeazza era il poter portare molta grossa artiglieria anche a poppa e sui fianchi come una
grande nave e, sempre come una grande nave, d'essere molto ferma e solida in
combattimento. Sei galee grosse veneziane furono le principali artefici della vittoria
cristiana a Lepanto ed erano comandate dai seguenti capitani:
Ambroso Bragadino
Antonio Bragadino
Iacomo Guoro
Francesco Duodo
Andrea Pesaro
Piero Pisani.
Almeno due galeazze napoletane parteciparono alla sopramenzionata e anch'essa vittoriosa
battaglia dell'isole Terzeire, mentre molto più sfortunate furono le quattro, pure napoletane,
che, durante il vice-regnato a Napoli di Juan de Zuñiga conte di Miranda (1586-1595), fecero
310
parte della Invencible armada inviata dalla Spagna contro l'Inghilterra e che con quella si
persero in quel fatidico settembre del 1588, episodio che, se avesse avuto un esito
favorevole alla Spagna, avrebbe potuto far intraprendere un corso molto diverso alla storia
d'Europa e quindi del mondo, come aveva già fatto quello di Lepanto anche se gli storici
ancora oggi non se ne accorgono.
A proposito delle predette quattro galeazze napoletane, vediamo cosa ne scriveva in
latino Famiano Strada (1572-1649), storico coevo:
... le quali (anche) sono spinte a vele e a remi, ma sono del tutto più lunghe e più larghe di
un terzo dell'altre galere. Infatti (queste) non solo avevano armato i ripari molto alti di prora
e di poppa con molti soldati e artiglierie, ma soprattutto avevano tanto guarnito tutt'intorno i
fianchi e i lati i singoli interscalmi e banchi dei remiganti con singoli pezzi d'artiglieria che,
in qualsiasi direzione si fosse girato il vascello, alla stessa maniera nociva avrebbe sparato.
Dal che conseguiva che, poiché questi scanni dei remiganti, a causa delle frapposte
artiglierie, distavano pertanto tra loro molto di più che nell'altre galere, a motivo di questa
grandezza degl'interscalmi, il vascello fosse stato ingrandito con garbo più lungo. (Della
guerra di Fiandra etc. Roma 1639-1648.)
Abbiamo detto della gravosità e delle decisamente scarse qualità veliche delle galeazze,
difetto dovuto essenzialmente all’improprietà della prevalente velatura latina datasi nel
Medioevo al grosso e doppio corpo di quei vascelli; a ciò s’incominciò a ovviare solo dopo
le predette grandi battaglie del Cinquecento, le quali avevano appunto messo in luce, oltre
ai vantaggi, anche gli svantaggi dell’uso bellico di questi vascelli. Il Crescenzio, il quale
scriveva il suo trattato negli anni 1594-1595, c'informa che in Spagna da qualche tempo
avevano convertito le galeazze alla vela quadra, più adatta a scafi le cui forme si
avvicinavano a quelle dei vascelli tondi, così come anche tipico delle galeazze iberiche era
il già menzionato timone alla navaresca, il quale permetteva di governare meglio nel più
agitato Oceano Atlantico.
Ma le trasformazioni più risolutive furono evidentemente quelle apportate dagli stessi
veneziani, i quali erano quelli che più apprezzavano queste galee grosse. Scriverà infatti il
Pantera più tardi, verso il 1610, a proposito della indubbia gravezza di tali vascelli:
... Ma hoggidì, essendosi affinata l'arte e la disciplina sì del fabricare come dell'armare i
vascelli maritimi, si fanno nel meraviglioso arsenale di Venezia da poco tempo in quà galee
grosse tanto agili che, quantunque non siano inferiori di grandezza all'altre fatte prima nel
medesimo arsenale, anzi siano più aggravate d'artigliaria, sono tanto preste e flessibili che
forse concorrono con le sottili in velocità... (Cit. P. 24.)
... sono di tardo moto, se ben s’intende hoggidì che si fanno in Venezia con tanta maestria
(om.) che, quantunque siano grandi come gli altri fabricati molt'anni prima della loro specie
311
e più aggravati d'artiglieria, si movon e si girano facilmente e senza remurchio, quasi come
le galee ordinarie chiamate sottili. (Ib. P. 45.)
Bisogna però sempre tener presente della minor grandezza di questi vascelli veneziani
rispetto alle galeazze ponentine; erano comunque sempre grandi vascelli e i veneziani
usavano vecchi scafi di galee grosse per la formazione di ponti galleggianti provvisori sul
Canal Grande a Venezia o altrove. Il miglioramento nautico delle galeazze in generale ci è
comunque confermato nel 1623 dal Frezza (Fabio Frezza, Discorsi in torno a i rimedii
d'alcuni mali etc. Napoli, 1623), il quale appunto scriveva che al suo tempo le galeazze o
galee grosse (che con l'uno e l'altro nome si chiamano) erano ormai così perfezionate da
poter navigare quasi a pari con le galere sottili. Che dei miglioramenti certi, anche se non
tanto sostanziali, fossero effettivamente in corso evolutivo è dimostrato dalle relazione
della battaglia del canale di Scio che i veneziani combatteranno contro i turco-barbareschi il
tre maggio del 1657. In tale relazione, scritta dal capitano generale dell'armata veneziana
Lazzaro Mocenigo, si nota come, se anche le galeazze della Serenissima in quella
occasione andranno agevolmente all'abbordaggio del nemico come delle comuni galee,
dovranno però in navigazione, quando bisognerà andare a remi per mancanza di vento,
ancora sempre essere tirate a rimorchio - parola appunto derivata dal termine ‘remi’ - e cioè
erano migliorate le loro qualità veliche, ma non quelle remiere, queste ovviamente non
migliorabili su vascelli così alti e grossi; ogni galeazza, data la sua grande stazza andava di
solito trainata da tre galere.
Il primo impiego delle galee grosse e delle galeazze in generale squisitamente come batterie
galleggianti fu proprio quello di Lepanto, perché in precedenza erano state sì molto usate in
campo militare ma come vascelli multimpiego, cioè come navi armate, per esempio dai
veneziani già alla fine del 1379 durante la famosa guerra di Chioggia:
… E fu creato capitano generale di tutta l’armata Andrea Contarini doge […] e fu fatto
ammiraglio di detta armata Vettor Pisani […] In questa armata di galere ve n’erano anco
delle grosse. Le quali furono fatte imbattagliare e così, queste come le altre, furono ben
fornite di munizioni e vittuarie… (Daniello Chinazzo, Cronaca della guerra di Chioza etc. In
L.A. Muratori, Rerum italicarum scriptores etc. C. 732-733, t. XV. Milano, 1727.)
Per la cronaca, le galee grosse imbattagliate erano nove e i loro nove comandanti erano il
generale doge Andrea Contarini, Leonardo Dandolo, Giovanni Trivisano, Andrea Donato,
Marco Barbaro, Polo Faliero, Pietro Mocenigo, Giacomo da Molino e Lorenzo Gradenigo.
Vedremo poi altri numerosi impieghi bellici di questi grossi vascelli veliero-remieri specie
alla fine del Quattrocento.
312
Questi grossi vascelli remieri, per veneziani, toscani, napoletani, genovesi o savoiardi che
fossero, fino a tutto il Rinascimento avevano però avuto un loro ordinario impiego di
vascelli mercantili con il nome adriatico veneziano di galie de mercado o anche galie de
viazi e con quello tirrenico di galeazze di mercanzia (vn.); questi grossi vascelli, ben armati
anche di passavolanti e d’altre artiglierie pesanti, si portavano non solo in Nord Africa
(galeazze di Barbaria) e in Grecia, Mar Nero, Mar d’Azov, Medio Oriente (galeazze di
Romania) a trafficare con i paesi dell'Impero Ottomano, tanto è vero che Venezia doveva
mantenere, oltre alla guardia di Candia, la quale resterà anche in seguito, squadre di galere
sottili fisse per sorvegliare anche quei più lontani traffici (guardia di Beirut, guardia di
Alessandria):
(22 luglio 1412:) Si ordina che una una galea di Creta accompagni fino a Costantinopoli le
galee di Romania a causa degli armamenti che preparavano i turchi (H. Noiret, cit. P. 212.
T.d.A).
Questi vascelli portavano con linee regolari carichi di vino, pepe, zenzero e altre merci
anche in Fiandra e in Inghilterra, partendo già dal Duecento da Genova (il primo viaggio a
Bruges delle galee commerciali genovesi sarebbe infatti avvenuto nel 1297), ma nei secoli
seguenti anche da Venezia (‘duas galeas de Flandria redeuntes’. L. Monaci, Chronicon de
rebus venetis, al 1343), da Porto Pisano, da Napoli e da Barcellona, cabotando veuë par
veuë et cours(e) par cours(e), come dicevano i francesi e come si faceva prima dell’uso
della bussola, vale a dire costeggiando in un interminabile, ma evidentemente lucroso
viaggio tutta la penisola italiana, la Provenza, la Spagna, il Portogallo, la Bretagna, la
Normandia, Southampton, Ostenda, Bruges, Anversa e infine, risalito il Tamigi, andavano a
scaricare le merci residue a Londra; poi, stivate principalmente di lane e di piombo inglesi,
ritornavano indietro a commerciare di nuovo di porto in porto fino a rivedere Genova,
Venezia, Porto Pisano, Napoli; non sappiamo quanto potesse durare un simile viaggio,
certo molto tempo, anche perché dopo magari le galeazze, tornate al loro porto
d’armamento, non finivano lì il loro viaggio, ma proseguivano magari per Tunisi (l.
Tunitium), come dalle cronache risulta che fece nel 1436 la genovese S. Maria del Salvatore.
Queste vascelli, detti appunto allora galee (poi galeazze) di Fiandra perché avevano un
garbo fatto proprio per affrontare l'oceano, per il gran volume di carico che portavano, la
gran manovrabilità portuale, la possibilità di spostarsi a remi, anche se per brevissimi tratti,
quando era assente il vento, l’altezza del bordo e il buon armamento di difesa dai corsari, ne
facevano i vascelli allora più adatti a fare questi gran cabotaggi lungo le coste oceaniche;
essi furono certo i principali vettori del Rinascimento italiano in Inghilterra e la presenza
313
nella lingua inglese non solo di tantissime parole d’origine latina (vedi per esempio
l’affermativo yes, chiaramente derivante da quelli latino ita est e id est, poi nelle
enumerazioni item da idem, inoltre master e anche l’appellativo mister, cioè m.ster, abbr.
tachigrafica di magister, e gossip (‘diceria, pettegolezzo’), dal l. gossypion, tessuto o
indumento di bambagia, cioè di scarso valore), ma anche dal successo ottenuto da
numerose altre parole proto-italiane, vedi il tipico gun, ‘canna’; e il caso di jail ‘carcere’,
accor. di jealousy, ‘sospetto, quindi sbarre od opere difensive istallate per sospetto (per
gelosia) dell’arrivo di ladri o di nemici - vedi i ‘panciuti’ graticolati o traforati che si
ponevano una volta a difesa delle finestre basse - e quindi anche le sbarre del carcere (to
send to jail, ‘mandare dietro le sbarre del carcere’), esistendone d’altra parte una rimanenza
proto-italiana anche nella lingua francese (geôle, ‘carcere’). Si tratta dunque di termini
spesso qui da noi in Italia ormai disusati, talvolta anche dimenticati o il cui significato si è
nel tempo trasformato in altro, mentre all’estero sono ancora lingua corrente e mantengono
il significato originario, ciò dovendosi sicuramente all'esportazione commerciale e culturale
operata prima dagli antichi romani con le loro conquiste e poi dagli italiani medievali e
rinascimentali tramite i suddetti vascelli; vedi ancora per esempio il veneziano antico
delivrar, ‘consegnare’ (in. to deliver) e il saluto di commiato piemontese cerèa (in. cheerio,
‘arrivederci’). E, poiché molta marinaresca che lavorava a bordo delle galee grosse
veneziane era di origine balcanica, si può trovare nella lingua inglese anche qualche parola
greca non intermediata dal latino, quale per esempio il verbo to call (gr. ϰαλέω, ‘chiamo’).
Un esempio poi di parola latina che nell’italiano moderno ha il significato di ‘criminale’ e in
inglese ha invece mantenuto quello che aveva anche nell’italiano rinascimentale, cioè
quello di ‘moroso’, è delinquens-tis (in. delinquent). Introdussero queste galee veneziane di
Fiandra in Inghilterra anche, tra le tante cose d’uso civile e militare, per esempio un’arma
che ebbe colà tantissimo successo e sviluppo, tanto da credersi poi inventato dagli anglo-
sassoni, e cioè l’arco lungo friulano, il quale s’opponeva tradizionalmente a quello corto
detto turco o anche soriano. Amalfi fu l’unico potentato marittimo che non si servì mai
galeazze e ciò perché fu sempre dedita molto di più alla pirateria che ai commerci. Nei
Diurnali di Matteo Spinelli all’anno 1256 leggiamo:
… A la fine de lo ditto mese (‘marzo’) corse traversa (‘si spiaggiò’) una galeazza de
veneziani a la marina de Molfetta e Almazz sarracino, cha era vice-miraglio, ne habbe gran
ricchezze.
314
Perché un vice-ammiraglio saraceno a Molfetta? Perché nel 1230 l’imperatore Federico II, di
ritorno da Terra Santa, non avendo più quella gente, specie veneziana, che aveva
equipaggiato la sua armata di mare all’andata, in sostituzione di quella aveva imbarcato un
gran numero di mercenari saraceni e poi, una volta sbarcato in Italia, non potendo
rimandarli indietro, li aveva dispiegati a difesa di terre e castelli del Meridione in funzione
anti-guelfa; e quelli si erano resi padroni di quanto loro affidato, specie di Lucera,
sposando, oltre a quelle che vi avevano portato con sé, anche donne locali e mettendovi al
mondo una vera e propria nuova generazione di saraceni. All’aurora del 25 maggio 1319 sei
galere armate delle 28 a disposizione dei ghibellini savonesi entrarono nel porto di Genova,
allora dominata dalla fazione guelfa, e s’impadronirono d’una galea grossa pronta per il
viaggio di Fiandra (unam galeam grossam tunc oneratam et paratam versus Flandriam
navigare. In Annales genuenses Cit. Col. 1.035). Per tutta risposta i guelfi genovesi
armarono contro i savonesi 33 galere (quarum decem erant galeae grossae) e una nave
grossa e le posero sotto il comando di Gaspar de Grimaldis (ib.) L’armata approntata contro
gli estrinseci l’anno successivo (‘ghibellini’) includerà tre delle predette galee grosse
allestite pro Flandria (ib. Col. 1.040). Ma le galere di mercanzia genovesi, come quelle
veneziane, andavano a commerciare anche nella cosiddetta Romania, cioè in Grecia, e in
Siria; nel luglio del 1326 accadde che cinque delle predette galere genovesi guelfe,
tornando appunto dalla Siria, incrociassero altre due galere di mercanzia, anch’esse
genovesi ma ghibelline, le quali erano dirette in Grecia. Le galere guelfe attaccarono le
ghibelline e ne catturarono una con tutto il suo ricco carico, mentre l’altra riusciva a fuggire
(ib.) Nel 1336 galere genovesi provenienti da Monaco s’impadronirono di due galee grosse
veneziane che tornavano dal viaggio di Fiandra cariche di merci di pregio; il risultato fu che
l’anno successivo tra Genova e Venezia ci fu guerra (ib.). Nel marzo del 1344 Luciano de
Grimaldis, governatore di Monaco, tuttavia ribelle al dominio di Genova, cominciò a
danneggiare i genovesi piraticamente con una galera armata e prese la galea grossa di
Daniele Cibo proveniente dalla Fiandra carica di panni e di molte altre merci di valore,
tenendola sequestrata con tutto il carico contro la volontà dello stesso Cibo e dei marinai
(ib.). A giudicare però da quanto scrisse lo Zurita nei suoi Anales all’anno 1371, a quei tempi
le galee grosse genovesi che rifornivano Genova di frumento sardo non erano galeazze
bensì dei pamfii o pamfuli (gra. πάμφυλοι, perché forse originari della Panfilia, regione
dell’Anatolia) , come poi vedremo, cioè erano degli scafi di galee grosse non armati a guerra
(algunos navios, que llamavan pamfiles, cargados de trigo, que yvan a Genova… L. X, f. 360
315
verso); nel 1381 l’armata veneziana che venen a combattere i genovesi nell’Alto Tirreno
prese uno di questi pamfuli carico di 100 balle di cotone e altre merci di proprietà pisana.
Nel 1403 galere genovesi di ritorno a Genova s’imbatterono in una galea grossa veneziana e
la catturarono (ib.). Oltre al diario di bordo di due galere da mercanzia fiorentine in viaggio
per e da Southampton nel biennio 1429/1430 sotto il comando di Maso degli Albizzi, diario
pubblicato da M.E. Mallet nel 1967, anche le stesse cronache di Firenze ci testimoniano dei
regolari viaggi con i quali nella seconda metà del Trecento e per tutto il Quattrocento le
galeazze toscane raggiungevano il Canale della Manica e tra l’altro ci raccontano di due
d’esse che, reduci dal viaggio di Fiandra, attorno all’8 luglio 1448 portarono trecento fanti
alla difesa di Piombino, la quale sarà infatti poi attaccata da un’armata marittima
napoletana. Il 17 gennaio 1496 i fiorentini fecero un’incursione nell’arsenale pisano di S.
Vito e dettero fuoco alle cinque galeazze che vi erano custodite; i pisani accorsi riuscirono
a salvarne tre.
Le Cronache di Notar Giacomo dicono d’un viaggio fatto in Fiandra da due galeazze di re
Alfonso d’Aragona, le quali erano partite da Napoli il 5 novembre 1473 sotto il comando del
capitano Anello Pirozo e di cui erano patroni Anello de Preia e Gasparo de Scocio da
Napoli, mentre si ha pure memoria d’un viaggio fatto nel 1455 dalla galeazza mercantile
napoletana di Pietro Pujades. Il viaggio di Fiandra decadde probabilmente agli albori del
Cinquecento e Gasparo Contarini scriveva infatti nel 1525 che al suo tempo tale viaggio non
era più molto frequentato; il Paruta però racconta che l’anno seguente, in occasione della
lega santa stretta a Cognac il 22 maggio tra la Serenissima, Firenze, Roma, Francia, Cantoni
Svizzeri e Inghilterra allo scopo di mantenere la libertà in Italia, a Venezia si decise quanto
segue:
… e perché fosse co’l re (d’Inghilterra) maggiore la loro grazia e auttorità, deliberò il Senato,
sapendo ciò dover al regno d’Inghilterra riuscire commodo e grato, di mettere per lo viaggio
di quell’isola le galee grosse, le quali già alquanti anni non vi avevano navigato. Sono
queste certa sorte di navigij molto grandi fatti a somiglianza delle navi da carico e per lo
medesimo servizio, ma in questo differenti, che con meraviglioso artificio sono in modo
accommodate che trascorrono il mare non solo con pura vela co’l beneficio de’ venti, ma
con forza di remi ancora, come fanno le galee sottili, e di queste sono soliti i viniziani
valersi a navigare per occasioni de’ loro trafichi a’ luoghi maritimi delle lontanissime
nazioni…(Paolo Paruta, Della historia vinetiana [om.] nella quale in libri tre si contiene la
guerra contro Selino Ottomano. L. III, p. 155. Venezia, 1605.)
Ma fu principalmente costume antico che molte galee grosse ordinate alla mercanzia
navigassero in diversi paesi, così de’ christiani come d’infideli, per levare da quelle parti
varie cose, le quali non solamente avessero a servire al commodo de’ cittadini, ma con
grandissimo guadagno si mandassero alle nazioni esterne. Con queste galee erano soliti di
navigare molti giovani della nobiltà, ‘sì per occasione d’essercitare le mercanzie come per
apprendere l’arte marinaresca e la cognizione d’altre cose maritime; altri poi si dimoravano
316
del continuo per molti anni appresso le nazioni forestiere, quasi in tutti quei luoghi ove si
facevano solenni mercati, per trattare le loro proprie e l’altrui facende; quindi nasceva che,
oltre le ricchezze, ne acquistassero la esperienza di molte cose, in modo che, quando
ritornati a casa avevano a prendere il governo della Republica, non rozzi né inesperti si
ponevano ad essercitare i carichi publici… (Ib. P. 156.)
Il viaggio solito a tenersi dalle galee, delle quali poco innanzi habbiamo fatta menzione, che
volgarmente solevano chiamarsi, per li molti negozij che intraprendevano, le galee del
traffico, era tale: dipartite da Vinezia, drizzavano il loro primo viaggio all’isola di Sicilia alla
città di Saragosa, di là erano portate a Tripoli d’Affrica, dapoi, avendo toccato l’isola del
Gerbe non lungi dalle Sirte, a Tunisi; quindi voltavano il suo corso verso il Regno del
Tresimisen, fermandosi principalmente a Tusen e a Mega (sono queste oggidì dette One ed
Orano) come in luoghi più opportuni e più frequen(ta)ti di quelle regioni. Finalmente
andavano a diverse terre del Regno di Marocco, detto in lingua loro ‘di Fez’, a Bedis della
Gomiera ed, avendo già tocchi tutti i porti della Barberia che erano anticamente compresi
sotto’l nome di due provincie, Mauritania e Numidia, si trasferivano nella Spagna,
negoziando in molte città, cioè in Almeria, detta anticamente Abdara, indi in Malica, Valenza
e Forora ancora. Ma il traffico che essercitavano non era in tutti i paesi il medesimo, ma
diverso, perché da Vinezia portavano a’ mori d’Affrica varie sorti di metalli e molti panni di
lana, le quali cose per comprare solevano i mori a certo terminato tempo dell’anno
conferirsi con molto oro ne’ luoghi poco prima nominati; con questo oro passando i
mercanti alle riviere della Spagna, compravano ivi diverse sorti di merce, cioè sete, lane,
grane e altre cose che quel paese produce, e tutte queste erano da loro a Vinezia portate;
tale navigazione, che lungamente e con grandissimo utile era stata da’ viniziani esercitata,
cominciò per le cagioni che di sopra narrato habbiamo, ad essere disturbata e dapoi varij
accidenti sopravvenendo, mutato lo stato delle cose e de’ negozij, è del tutto intermessa e
perduta… (Ib. L. IV, p. 179.)
In effetti, mentre durante il regno di Ferdinando il Cattolico i traffici veneziani non avevano
incontrato problemi, con Carlo V le cose cambiarono molto in peggio, perché questo
imperatore pretendeva che tutto il traffico europeo delle merci barbaresche fosse
concentrato nei porti dei suoi possedimenti africani e cioè di Orano e d’altri centri costieri,
quali Mers-El-Kébir e Mazalkibir, a una sola lega dal precedente, Arzen, a sette leghe, Melilla
nel regno di Tlemcen, Bougie, el Peñon e altri minori, e quindi cominciò a proibire l’entrata
dei vascelli veneziani nei porti dei suoi domini se prima si fossero fermati in quelli in
possesso dei mori a commerciare; inoltre, mentre prima i veneziani avevano sempre pagato
nei domini della Spagna una sola decima e solo sulle sole merci che vi compravano, sotto
Carlo V ne dovevano invece pagare due e su tutte le merci importate o esportate da quei
luoghi; quindi i veneziani avevano abbandonato quel viaggio divenuto non più conveniente
per loro. Un viaggio che invece le galee grosse veneziane continuavano a intraprendere con
buon utile era quello a Creta, Negroponto, Alessandria, Tripoli, Baruti (‘Beirut’), Zafo
(‘Giaffa’) e altri scali del Levante, mentre il viaggio di Siria i veneziani lo facevano con dei
velieri detti navi di Soria; si trattava di viaggi che Venezia proteggeva soprattutto con le sue
galee da guerra di stanza a Creta:
317
(26 agosto 1395:) Ordine del capitano del Golfo, allorché l’ultima galea armata a mercato
sarà entrata nel Golfo (‘sarà ritornata nell’Adriatico’), di licenziare le galee di Creta, le quali
si disarmeranno (H. Noiret, Cit. P. 71. Parigi, 1892).
I turchi, pratici mercanti a differenza degli spagnoli, permettevano questi commerci e non li
intralciavano, trattandosi di traffici che consideravano anche di loro convenienza, mentre
avevano proibito gli scali del Mar Nero a tutte le repubbliche marinare italiane sin dal tempo
della caduta di Costantinopoli e ciò chiaramente per obbligare queste a comprare le merci
provenienti dall’oriente da loro e non più direttamente dalle carovane e dai mercati che su
quel mare s’affacciavano. Quanto durassero questi viaggi commerciali nel Mediterraneo
orientale lo possiamo capire da una nota del Sanuto (Diarii. T.I, col. 400):
… In ditto Consejo di Pregadi, a dì 2 (dicembre 1496), fo posto 3 galie al viazo dil trafego,
con condition dovesseno far do viazi e mezo (all’anno), che l’anno passato le galie non lo
fece(ro).
Quanto a lungo poi durò la predetta ripresa del viaggio d’Inghilterra fatto dai veneziani non
sappiamo, ma nel 1524 tutti i viaggi di Barbaria, Fiandra, Alessandria e Baruti erano ancora
soggetti a regolamenti daziari (Alessandro Moresini, Tariffa ecc.) Il famoso mercante e
navigatore Alvise da Ca’ da Mosto a 22 anni s’imbarcò a Venezia per la prima volta su una
galera mercantile che era in partenza per la Fiandra e che salpò l’8 agosto 1454; certo è che
ora si trattava di veri e propri convogli marittimi, come quello di ben 45 vascelli che il 7
gennaio del 1495, assalito da una violenta tempesta, incappò nelle secche dell’isola di Sein
in Bretagna; delle tre galee grosse di Fiandra che ne facevano parte, cioè quella comandata
da patron Piero Bragadino e due del capitano Polo Tiepolo, il quale era ulteriormente
cognominato da Londra, evidentemente perché colà nato o residente, solo la Bragadina si
salvò, e, per quanto riguarda le altre 42 vele, si credé dapprima superstite la sola nave
Malipiera d’Angelo Malipiero, ma poi arrivò a Londra anche la ‘Zorza’, cioè quella di fra’
Hieronimo Zorzi, carica di vini destinati appunto al mercato inglese, e la notizia di questo
secondo arriverà a Venezia il 5 giugno a mezzo d’un corriero partito da Londra il 16 del
mese precedente; in totale annegarono nel terribile naufragio 500 uomini tra cui più di 20
patrizi veneziani. Il Sanuto, il quale narra questo triste episodio, a dimostrazione della
robustezza e dell’altezza del bordo delle galee di mercanzia, così conclude:
… che fo ‘mirum quid’ che le nave zonzesse et le galie perisse, che raro ‘aut numquam’
galie suol romper et perir in mar per fortuna; benché del 1437, (essendone) capetanio Marin
Mozenigo, in questo medemo luogo do’ altre galie de Fiandra si rompete et el capetanio con
gli altri (finirono) annegati. (La spedizione di Carlo VIII etc. Cit. p: 275.)
318
Ecco la lista dei soli patrizi delle galee grosse morti in quel disastro, elenco che vogliamo
riportare perché il lettore possa avvertire maggiormente la materiale realtà di quel tempo
che oggi ci sembra tanto lontano:
Prima galea:
Nobili di poppa:
Seconda galea:
Alla perdita delle dette tre galee il senato veneziano sopperì all’inizio dell’aprile successivo
decretando che altre tre fossero immesse in quel viaggio d’Inghilterra e il comando di
queste fu poi affidato il 10 dello stesso mese al capitano Domenico Contarini, il quale era
stato capetanio di le galie di Beruto, sennonché poi a queste galee non fu consentito
d’intraprendere il loro viaggio perché, avvicinandosi la guerra contro la Francia, non era
certo conveniente che i vascelli veneziani andassero a commerciare sulle coste transalpine
e per lo stesso motivo non furono quest’anno destinate galere al viaggio di Acque Morte,
approdo (gr. ἐπίνειον, ναύλοχος; vn. navilio) alla foce del Rodano cosiddetto perché
soggetto a marea particolarmente bassa. Altri drammi avevano già colpito nel passato le
319
galee da mercato veneziane; nel 1396 ci fu un grave ammutinamento su quattro galee del
viaggio di Fiandra e alla fine del 1400 altre 4 galee grosse, queste del viaggio di Beyrouth,
naufragarono nelle acque di una località, non meglio identificata, detta Sancta Herinim, ma
si riuscì a recuperare parte delle loro merci (H. Noiret, cit. P. 113).
Tra la fine dello stesso predetto aprile 1495 e l’inizio del mese seguente furono invece
regolarmente deliberate in senato, messe all’incanto a Rialto e provviste di patrone le
consuete 11 galee grosse al trafego (“al commercio”) annualmente destinate ai viaggi di
Levante e si trattava di tre alla Romania (‘Grecia’), delle quali fu eletto capitano Sebastiano
Contarini, quattro ad Alessandria sotto la capitanìa d’Alvise di Priuli e quattro a Baruti
facendone capitano Marco Orio; poco dopo vi furono aggiunte due galee per il viaggio di
Barbaria e ne fu nominato capitano Giacomo Capello.
Come sembra di capire dalle purtroppo lacunose citazioni che lo Jal fa del già citato codice
veneziano magliabechiano intitolato Fabrica di galee e della pure già ricordata ordinanza del
Mocenigo del 1420, inclusa nel codice vaticano den. ‘Urbino – A. 1821’, fino a Quattrocento
inoltrato il traffico mercantile veneziano - sia quello mediterraneo che quello atlantico - era
stato affidato a galee grosse della lunghezza di poco meno di 24 passi, il che è la lunghezza
delle normali triremi del secolo successivo, essendo invece allora riservato il nome di galee
sottili (se dobbiamo credere che lo Jal abbia ben interpretato il detto codice), a galee
veneziane di circa 17 passi e rivelantisi quindi delle biremi, ossia quelle che poi nel
Cinquecento saranno declassate a galeotte (Auguste Jal, Archéologie navale, Parigi, 1840).
Le suddette galee grosse medioevali si dividevano in galee del sexto (garbo, ‘forma’) di
Fiandra over de Londra, destinate ai viaggi atlantici, e galere del sexto de Romania,
destinate invece ai viaggi di Levante, chiamando ancora allora i turchi con l’antico nome di
Romania (Rumli) tutti i loro possedimenti europei in quanto una volta erano stati tutti parte
dell’impero romano; ambedue questi tipi erano forniti d’un argano e d’un tre taglie doppie
per caricare e scaricare le merci. L’argano era uno strumento già presente nella marineria
antica e infatti Giulio Polluce lo include nell’armamento delle triere romane:
… c’è poi una macchina, cioè l’argano o arganello (ἒστι δέ τις ϰαι μηχανὴ, ϰαὶ τροχὸς, ϰαὶ
τροχίλια. Cit. I.IX, p. 64).
Anche in questo caso, come si può vedere, le accentazioni di talune parole non sono più
quelle del greco classico o ellenistico ma sono ‘bizantineggiate’ dai trascrittori. Questo
autore aggiunge pure i verricelli (gr. ϰύχλοι, ϰίρχοι ο anche ϰρίχοι).
Lo Jal menziona le misure prescritte per una galea grossa veneziana del 1318 (lunga passi
23, piedi 1¼ - alta al mezzo della coperta piedi 7, dita due grosse - larga in mezzo piedi 15¼
320
e dita 1); per una del 1320 (passi 23 piedi 1- piedi sette dita due - piedi 16 dita 1); per una
grossa di Fiandra dell'inizio del Quattrocento (passi 23 piedi 3½ - piedi otto meno dita due -
piedi 17½); la galera della stazza detta di Romania - perché era quella che viaggiava verso
Negroponto - dello stesso periodo aveva misure che poco si discostano dalla precedente
(Ib.)
Comunque ogni epoca ebbe le sue galere anche nel campo mercantile; per esempio, a
prescindere dalle misure riportate dallo Jal, misure che purtroppo non abbiamo mai avuto
l’occasione di andare a verificare, probabilmente anche le galere di mercanzia erano nel
Medioevo erano più piccole di quelle che vedremo poi nel Cinquecento e c’è un episodio
che ce lo fa pensare. Nel 1359, preparando un’armata di mare per far guerra al regno
d’Aragona, il re Pietro I di Castiglia detto il Crudele fece sequestrare una grossa caracca
veneziana di più coperte che navigava nelle acque dell’arcipelago di Cabrera per aggregarla
agli altri vascelli che stava raccogliendo a Cartagena e ciò nonostante Venezia fosse allora
sua amica; certo allora così s’usava perché si consideravano le esigenze belliche prevalenti
sul diritto internazionale e sul mantenimento di buoni rapporti tra gli stati. Ma il re, trovate a
bordo della caracca anche una quantità di gioielli e merci preziose, invece di conservarle ai
veneziani, come sarebbe stato suo dovere, non seppe resistere alla tentazione di
appropriarsene. Qualche tempo dopo i suoi consiglieri gli fecero sapere che dodici galee
grosse di mercanzia veneziane stavano per ritornare dal solito viaggio di Fiandra e,
considerato che i veneziani con ogni probabilità gli avrebbero chiesto conto del suo
comportamento a proposito della loro predetta caracca e che non era impensabile si
vendicassero unendosi militarmente al regno d’Aragona contro di lui, tanto valeva a quel
punto cercare di appropriarsi anche delle gran ricchezze di cui quelle galere ritornavano
cariche. Il re, il quale aveva evidentemente bisogno di rimpinguare le casse del suo regno,
accettò il consiglio e invio venti delle sue galere da guerra allo stretto di Gibilterra perché vi
tendessero un agguato a quelle mercantili; ma caso volle che queste, trovandosi a passare
lo stretto in un giorno in cui quelle castigliane si erano dovute un po’ allontanare per
sottrarsi a un pericoloso forte vento, passassero non viste e si salvassero dall’aggressione.
Ora, anche nei secoli successivi si vedranno galere di mercanzia veneziane navigare di
conserva al viaggio di Fiandra, ma mai in numero così elevato, qui addirittura di dodici, e
pertanto c’è da ritenere che anche le galee grosse da carico siano state nel corso dei secoli
ingrandite come lo furono quelle da guerra.
Qual è la prima notizia storica di una galea grossa veneziana che si può trovare? Noi
pensiamo che sia una che leggiamo nell’Alessiade e cioè dove si narra del tentativo fatto
321
nel 1081 dai normanni di invadere l’impero bizantino; la Comnena come abbiamo già detto,
scrive che il conte di Provenza, allora Bertrando II, si era imbarcato in Italia con un suo
contingente militare per andare a unirsi al grosso dell’esercito invasore in Albania e si era
imbarcato su una μνριοφόρον ναῦν λῃστρικὴν μισθωσάμενος τριάρμενον […] ἐν ᾖ ερέται
μὲν διακόσιοι (Cit. X.8. P. 40), cioè su una ‘portarinfuse pirata noleggiata a tre velature e con
duecento remiganti’, ma si tratta di una frase molto contradditoria, perché i pirati non
andavano certo allora in giro con vascelli da carico grossi e pesanti né con dei trealberi
provvisti di ben 200 vogatori né infine si rendevano ufficialmente disponibili sul mercato dei
noleggi. In realtà tutto si spiega se, considerandosi che si trattava di spedizioni di guerra
che si dovevano svolgere nel Levante, anzi in questo caso addirittura nell’Adriatico, si
comprende che quel grosso vascello a nolo poteva solo essere certamente veneziano e,
visti i 200 remieri, certamente una galea grossa veneziana. Perché la Comnena la definisce
‘pirata’? Evidentemente voleva in quella occasione dare del ‘pirati’ ai veneziani visto che
per denaro le portavano in casa il nemico, tutto qui.
Ma il commercio nautico veneziano come avveniva prima che si generalizzasse quello fatto
a mezzo di galee grosse, cioè fino a Trecento inoltrato? Come si evince da antiche
cronache, prime tra tutte quelle di Andrea Dandolo, anche a Venezia si organizzavano
caravane, cioè dei convogli di velieri onerari di cui però più avanti meglio diremo, e,
nominatone un capitaneus, si spedivano soprattutto in Grecia (allora detta Romania), in Mar
Nero e in Medio Oriente. Esse erano spesso scortate da nutriti stuoli di galee, specie nei
tratti di viaggio adriatici e ionici perché i più pericolosi a causa dei pirati dalmatini sempre
in agguato:
… Il doge, per la protezione della caravana la cui formazione aveva preparata, affinché
scampasse dai greci, i quali con uno stuolo erano giunti preso Creta, mandò capitano con
25 galee, armate in 15 giorni, Jacopo Tiepolo, il quale, portandosi prudentemente, fece poi
ritorno in tutta salute. (A. Dandolo, Chronicon, cit. Anno 1276).
Un altro comune uso delle galee grosse e sottili veneziane era quello del trasporto di
pellegrini in Terrasanta, soprattutto francesi e tedeschi. come per esempio quella di patron
Antonio Lauredano, patrizio veneziano, che il 5 giugno 1458 sbarcò colà un centinaio di
pellegrini tra cui anche il già citato padovano Gabriele Capodilista, autore del noto diario di
questo viaggio. Queste galere si riconoscevano in mare perché inalberavano, oltre allo
stendardo di S. Marco, anche quello della Croce cristiana. Sino a tutto il Trecento, i
veneziani trasportarono questi pellegrini con le loro galee grosse, ma poi, nel secolo
successivo, con il grande incremento dei traffici mercantili portato dal Rinascimento,
322
pensarono che non valeva la pena di impegnare in tal modo grossi vascelli che potevano
invece, molto più proficuamente, esser ben stivati di redditizie mercanzie e quindi, forse
con il decreto senatorio del 1414 menzionato - ma purtroppo poco citato - dalla A. L.
Momigliano Lepschy, cominciarono a rilasciare patenti specifiche per il trasporto dei
pellegrini a un paio di patroni di galee sottili, in quanto una sola di queste, talvolta anche
solo biremi, non sarebbe bastata a soddisfare tutte le richieste, arrivando gente a Venezia
per acquistare il passaggio in Terra Santa pellegrini da tutta Europa, cioè sin dalla Scozia e
Scandinavia a nord e dalla Polonia a est. Nel 1520 due galee veneziane dedicate al
pellegrinaggio ancora c’erano e infatti il pellegrino francese Greffin Affagart racconta che in
quell’anno lui e gli altri pellegrini che, come succedeva tutti gli anni, verso Pentecoste si
erano riuniti a Venezia per iniziare da lì la traversata oltremare, ebbero la possibilità di
scegliere appunto tra due e presero a nolo la Delfina, della quale era padrone un certo
Giannotto (homme assez inhumain), perché questa, a differenza della prima, era triremi e
quindi più equipaggiata sicura; infatti anche queste galere di pellegrini rischiavano di
essere assalite da corsari nemici. Avvenne infatti – episodio già da noi più sopra ricordato e
che più avanti ancora ricorderemo - che il 23 giugno 1497 la galea grossa commerciale del
patrono Alvise Zorzi (‘Giorgi’), la quale, in quanto galea soprattutto al servizio dei pellegrini,
faceva il viaggio Venezia-Giaffa in Palestina, sebbene allora Venezia fosse in pace con
Costantinopoli, per divergenze sorte sulle modalità di saluto, materia di cui poi diremo, fu
assalita nel canale di Cerigo da una flottiglia turca composta di 5 fuste, 2 galere sottili e 1
barza e 1 schirazzo; questa galea dil Zaffo, nonostante la grande inferiorità numerica e lo
scarsissimo armamento, si difese con onore ed efficacia, riportandone però gravi danni e
costringendola ad andare a raddobbarsi nell’isola di Candia; dalla descrizione di detti danni
fatta in una relazione del 6 luglio successivo vediamo che le galee veneziane erano allora
già fornite di cassero di poppa, mentre al tempo della tavola Strozzi, come sappiamo, le
napoletane non ancora l’avevano avuto; i veneziani riportarono 90 feriti, dei quali poi 6
morirono a Candia, e tra di essi c’erano anche pellegrini stranieri che avevano partecipato
al combattimento (M. Sanuto, Diarii. T. I, col. 728 e segg.).
Ma quando quattordici anni dopo, cioè nel 1533, il suddetto Affagart compì il suo secondo
pellegrinaggio in Terra Santa, preferì andarvi da Marsiglia con una nave di quella città che
l’avrebbe portato ad Alessandria Egiziaca. Infatti dopo la predicazione anti-gerosolimitana
di Lutero, supportata anche da analoghe tesi demolitorie del contemporaneo Erasmo,
Venezia era diventata molto meno conveniente per un francese in quanto, essendosi
conseguentemente rarefatto sempre di più il numero dei tanti pellegrini di qualità, colti e
323
… La Cocca in sulla quale andamo si chiamava Pola e 'l padrone di detta Cocca si chiamava
Messer Lorenzo Morosini, nobile e gentile uomo di Vinegia. La detta mattina a dì 4 di
Settembre tiramo la detta Cocca tre miglia di lungi a Vinegia e quivi missono le ancore in
mare e compierono il suo carico, che 'l forte erano panni lombardi (1) e ariento (‘argento’) in
panni e rame fino ed olio e zafferano (Cit. P. 53).
Alla fine del Quattrocento i pellegrini erano correntemente portati da Venezia in Terrasanta
più da navi che da galee; ecco per esempio, in in un tempo in cui incombeva la minaccia
della grande armata di mare turca, quanto scriveva alla Serenissima dalla sua base di
Modone il generale da mar veneziano Antonio Grimani:
(1499): Il generale scrive che l'è giunta a Modone la nave di pellegrini di 600 botti. I
pellegrini sono 14 e ha avuto da loro 6.000 ducati che la Signoria gli ha mandato e ha detto
ai pellegrini che ha bisogno della (loro) nave e che li avrebbe provvisti di una casa a terra
dove, senza spesa, avrebbero aspettato un passaggio e gli ha offerto onorevole convitto. E
essi si sono offerti non solamente di cedere la nave, ma anche di dare la vita per difesa
della fede di Cristo e gli hanno detto che essi hanno con loro una buona somma di denari
con offerta di imprestarglieli.
La proposta dei pellegrini non era del tutto altruista, perché in quel modo essi avrebbero
ottemperato ugualmente agli obblighi e alle spese di un pellegrinaggio senza però doverne
324
sopportarne anche fino in fondo i disagi di viaggio. Abbiamo poi il resoconto del viaggio in
Terra Santa fatto in un vascello tondo dallo spagnolo Fadrique Erriquez de Rivera,
marchese di Tarifa, il quale lasciò la sua casa di Bornos il il mercoledì 24 novembre del
1518 e fece ritorno a Siviglia il 20 ottobre 1520; egli si imbarcò a Venezia su una nave di 400
toneles (tonnelli o barili) che si chiamava Coresa, località costiera non lontana da Éfeso, in
quanto di proprietà di coresi nativi di Azio che vivevano a Venezia. Nel contratto d’imbarco
il patrone di quel vascello, Marco Antonio Dandolo, di impegnava ad armarla nella seguente
maniera:
Che il patrone conduca la sua nave ben fornita di artiglieria, armi e marinai per il governo
del vascello e per la difesa dei pellegrini; e che porrà nella nave quattro ‘tiri’ (bocche da
fuoco) di bronzo e di quelli di ferro almeno 20 ‘lombarde’ (bombarde) (Este libro es de el
viaje que hize a Ierusalem etc. P. 39 recto. Siviglia, 1606)
Interessante qui notare che il de Rivera chiama tiros le artiglierie di bronzo e lombardas
quelle, prettamente navali e più leggere, di ferro, a riprova che lombarda era il nome antico
che si usò in Spagna alle origini dell’artiglieria, cioè quando appunto le canne da polvere si
facevano di ferro e non ancora di bronzo; il nome fu poi in Italia corrotto in bombarda.
Purtroppo il marchese dovette poi rendersi conto che gli impegni contattuali presi con i
pellegrini erano dai patroni veneziani molto poco mantenuti e, per quanto riguarda gli
armamenti, ecco di che cosa si accorse:
… dal momento che non portò più di due tiri di bronzo e quasi nessun arma, perché non
vidi se non due paia di corazze, che tutte le altre si mettevano imbottite (‘erano corpetti
imbottiti’) sul petto, come mi capitò di vedere; e i marinai (erano) molto pochi, che, esclusi
gli ufficiali della nave, tra marinai e grumetti non ce n’erano che ventiquatro… e non più di
un lombardiero; e polvere molto poca… il chirurgo era un barbiero; vero è che portava
medicine (ib. P. 40 verso)
La Coresa portava 85 pellegrini, ma c’era una seconda nave veneziana, la Dolfina, che poi si
unirà a quella e ne portava 105; era questa comanndata dallo stesso proprietario, cioè da un
altro gentiluomo veneziano il quale aera appunto della nobile famiglia Dolfin (ib.). Il
trasporto di pellegrini era autorizzato dal Senato veneziano volta per volta:
(13 marzo 1386): … Perché si conceda a Pietro da Creta, nostro suddito, patrone d una nave
che andrà dalle parti di Zaffo ossia Siria, affinché possa imbarcare su detta nave circa
centoventi pellegrini che si dirigono al Sepolcro del Signore e condurli a lle dette parti,
come in circostanze simili ad altri si è fatto (Quod concedatur Petro de Creta, fideli nostro,
patrono unius navis iture ad partes Zaffi sive Syrie, quod possit super dicta navi levare
325
peregrinos centum et viginti vel circa, qui vadunt ad Sepulcrum Dominicum et conducere
illos ad dictas partes, sicut in casu simili aliis factum est ( H. Noiret, Cit. P. 5).
Tornando ora alle maone o galee grosse ottomane, diremo che esse erano grandissimi
vascelli levantini simili alle galeazze cristiane (…maone, non molto dalle nostre galeazze
differenti, scriveva il Sereno), ma ne differivano per l’uso che se ne faceva, trattandosi
infatti di vascelli che i turchi utilizzavano molto più per i trasporti militari che per quelli
commerciali, cioè all’opposto di come invece facevano gli stati cristiani con le loro galeazze
e galee grosse; di conseguenza erano vascelli poco diffusi, nei quali si caricavano
generalmente soldati, cavalli, artiglierie e rifornimenti bellici. Il nome veniva dall’it. magona
(‘emporio, mercato’) e dalla circostanza che in origine vascelli di questa fatta erano stati
armati, caricati e spediti nel Medioevo in Levante da associazioni commerciali italiane,
specie genovesi, del tipo delle moderne società anonime. Dopo l’amara esperienza di
Lepanto, i turchi le rivalutarono molto e cercarono di farle ora a imitazione di quelle
veneziane che li avevano così duramente sconfitti, ma, sicuramente abili nella marineria
leggera, non riuscivano mai altrettanto bene in quella pesante. Comunque i baili della
Serenissima residenti a Costantinopoli nel Cinquecento riportano le maone sempre presenti
nell’armata di mare turca; ecco per esempio quanto nel 1573 ne scriveva Costantino
Garzoni, il quale poteva veder i movimenti della marina turca nell'arsenale di Peràia (Pera),
situato questo proprio di fronte alla città di Costantinopoli:
... Il giorno seguente, cioè il dì de' morti, entrò il Pialì Bascià con centotrenta galere sottili,
molto mal in ordine d'uomini, remi e artiglierie. Entrarono ancor insieme dodici maone, fatte
all'imitazione delle nostre galee grosse, ma non hanno né tanta piazza a poppa e prora né
sono di gran lunga fornite di artiglieria come le nostre; vanno però a remi e alcune d’esse
sono assai buone [...] Alli 19 del medesimo entrò l'Ucchialì con sessantacinque galere
sottili, molte di esse assai buone... (E. Albéri. Cit. S. III, v. I, p. 381.)
Marc'Antonio Tiepolo nel 1576 confermerà al suo doge sostanzialmente quanto scritto dal
predetto Garzoni:
... Si ritrova il Turco (‘il sultano’) al presente il numero di più di trecento galee, più di venti
maone, che non sono altro che galee grosse all'usanza di quelle della Serenità Vostra, circa
venticinque galeotte e molte palandre, che sono vascelli per portare cavalli... (Ib. S. III, v. II,
p. 145.)
Palandre è una corruzione del termine ltm. parandariae che aveva preso piede in Italia. Le
palandre erano in verità usate, oltre che come vascelli porta-cavalli, anche per il trasporto di
materiali vari da costruzione; e che fossero molto usate lo dimostra il nome di palandrana
326
che prese il largo e lungo pastrano usato nei viaggi di mare da navigatori e mercanti, come
si vede nella figura n. 99 (Habito dell’Ammiraglio) del Vecellio (Habiti antichi et moderni etc.
cit.)
... Non pare che (i turchi) abbiano ancora saputo imitare la Serenità Vostra nel numero delle
artiglierie, si come hanno fatto nel voler ridurre le maone quasi veloci al pari delle galee,
perché non hanno più d'un pezzo da quaranta e due altri da venti a prua e dodici per li
fianchi... (Ib. P. 150.)
Quindi queste maone avevano forse migliori qualità nautiche delle galeazze e galee grosse
cristiane in quanto volutamente più leggere, ma certo non pari qualità belliche, e ciò
nonostante gli sforzi poi fatti per migliorarle dal già nominato Ucchialì (‘Uluch-Alì’), quando
questi, dopo la rotta di Lepanto del 7 ottobre 1571, fu capitano generale dell'armata di mare
turca, sebbene questi riuscisse invece nel compito più importante assegnatogli dal Sultano
e cioè quello di portare in una diecina d'anni la cantieristica e la nautica delle galere
ottomane ai livelli qualitativi di quelle cristiane e ciò in virtù sia delle sue grandi capacità
personali, sia delle numerosissime maestranze cristiane schiave o mercenarie che
lavoravano nell'arsenale di Peràia (Pera) e in quello non meno rinomato di Chio, sia dei tanti
rinnegati italiani che impiegava a bordo delle galere stesse; così infatti si legge nella
relazione del 1583 letta al senato veneziano dal bailo Paolo Contarini di ritorno da
Costantinopoli:
... É vero per altro che finora (i turchi) non hanno saputo fare una galeazza che stia a
comparazione di quelle di Vostra Serenità, ancor che ne siano state lavorate molte e che
nell'arsenale ne siano sin al numero di venti; né meno sanno governarle e questo si è
veduto per esperienza a Cerigo, quando le armate s’incontrarono, che il Capitano (Uluch-
Alì), dubitando che gli fussero di impedimento due che aveva seco, le lasciò a Napoli di
Romania; il che si può avere per gran caparra che nell'avvenire siano per far lo stesso... (Ib.)
Il sostanziale fallimento di queste galee grosse turche si evince anche dalla relazione del
bailo Giovanni Moro, la quale è del 1590:
... Ma, tornando alle galee, ne sono al presente a Costantinopoli circa 200, comprese quelle
delle guardie ordinarie; 104 in Alessandria, due in Damiata, due in Cipro che stanno in
Famagosta, sette nella Natolia, 12 a Rodi e circa dieci con 34 fuste distribuite in diversi
luoghi separatamente nell'Arcipelago, dove, se ben v'è una sola galea alla guardia, chi la
comanda vien chiamato 'bei', che vuol dir capo o signore.
Vi sono ancora otto vascelli maggiori, che prima servivano per portar munizione e altri
bisogni per l'armata, ma dopo che, nella felice e memorabile vittoria navale ( a Lepanto)
seguita già venti anni appunto con tanta riputazione della Christianità e con immortal gloria
di questa Serenissima Republica, (i turchi) fecero prova della forza delle galee grosse della
327
Serenità Vostra con perdita di tanti loro legni, n’armarono alcune che, come ho inteso,
riuscirono assai bene; benché adesso, da due in fuora, che servono per portar legnami per
uso dell'arsenale, siano tutte in terra già molti anni, ridotte in poco buono stato. É vero che
sin dall'anno passato fu dato ordine di fabricarne due altre nel Mar Maggiore insieme con 25
galee sottili, ma vi si provvedeva con tanta tiepidezza e con tanta negligenza per
mancamento de' danari che non si potria dire.
Hanno appresso certo numero di galeotte e molte palandarie fabricate col fondo piano
per condurre cavalli, né mancano poi galeoni e caramussali di private persone, che tutti -
bisognando - accompagnariano le armate per portar munizioni e altri apprestamenti da
guerra... (Ib.)
Alla fine del secolo le maone risultavano definitivamente relegate al trasporto di materiali
pesanti e ciò nel contesto del già generale declino della marineria bellica ottomana, come
informava il bailo a Costantinopoli Matteo Zanne con relazione del 1594:
... Nelli squeri del Mar Nero si trovano alcune maone e altre sono in Costantinopoli,
fabricate ad imitazione di galeazze, ma più grevi e non in tutto simili, e si servono di alcune
per portar legne al serraglio e per altri bisogni e se ne contano forse 18 tra dentro e fuora di
Costantinopoli; ma, dopo che hanno introdotti i galeoni, pare che non ne facciano molta
stima... (Ib.)
Secondo l’Aubin, ai suoi tempi - ossia alla fine del Seicento - le maone turche saranno più
piccole e deboli delle galee grosse veneziane, ma chissà se egli, esperto solo di marineria
oceanica, ne aveva mai effettivamente viste, come del resto sembra non averne mai viste,
tanto tempo prima di lui, nemmeno il Pantera, poiché è lui l’unico che dice le maone essere
non delle galee grosse, bensì vascelli a vela quadra e senza remi. Comunque il capitano
pontificio, pur se certamente si sbagliava per quanto riguarda i suoi tempi, s’avvicinava
invece senza saperlo al vero per quanto concerne l’Alto Medioevo; infatti i bizantini
chiamavano mahone tutte le navi da carico o porta-cavalli che seguivano l’armata di galere
(Тάϰτιϰα).
Del tipo della galeazza e della galea grossa veneziana erano pure i bucentori (grb.
πορθμεία), nel senso che anche questi partecipavano sia della nave sia della galera, ma si
trattava di vascelli di rappresentanza posseduti e usati specie a Venezia dalla Repubblica
per comodità del doge ed il cui nome prendevano, anche se impropriamente, pure i ricchi
vascelli di alcuni titolati di prima sfera usati in occasione di feste, cerimonie pubbliche e
traferimenti stagionali nelle ville di campagna della riviera del Brenta; erano un po'
insomma le limousines di Venezia – ma non solo di Venezia, perché comunemente usati
anche in altri stati italiani, per esempio a Roma sul Tevere e nel ducato di Savoia, e stranieri
e infatti il de Bourdeilles ne ricorda uno usato in Francia dal re Enrico II in occasione d’una
naumachia. Pochi sanno poi che in alcuni stati non marittimi dell’Italia settentrionale, per
328
… Et intravit Bucintorum ad Portam Sancti Pauli et ivit Mutinam, tendens versus Pisas, quia
ibi ascendere habet sua Excellentia in Portu Pisano naves seu galeras, quas pro eadem
conducenda Neapolim… (Chronicon estense, c. 544-545. Cit.)
… Die vero XIV mensis junii hora XVII exierunt civitate Ferrariae, intrantes Bucintorum,
comitati a praefatis domino Duce nostro, domino Sigismundo, domino Raynaldo Estense et
quamplurimis nobilibus, usque ad Turrim Fovae et iverunt coenatum Argentam (ib. C. 545-
546).
Per quanto riguarda l’origine del nome, è innegabile che nelle cronache e documenti
medievali quel vascello dogale è in l. dottamente ricordato come navis Bucinatoria, cioè
come di un’imbarcazione dalla quale i bucinatores (grb. (ἰ)βυχανητεῖς), i trombettieri
richiamatori, segnalavano alla gente di Venezia l’arrivo del Doge; ecco per esempio
l’episodio del doge Giovanni Mocenigo che nel 1483 riceve a Venezia Renato duca di
Lotaringia:
… cui intranti urbem Venetias maximi honores impensi fuerunt; nam Johannes dux cum
suis proceribus navi Bucinatoria obviam profectus est et palatium illi marchionis paratum
fuit (Pietro Cyrneo, Commentarius de bello ferrariensi ab anno 1482 ad anno 1484. In L. A.
Montanari, Rerum italicarum scriptores etc. C. 1.213, t. 21. Milano, 1732).
Premesso che negli eserciti antichi romani e in quelli medievali bizantini i suonatori di
buccina (l. bucinatores; grb. βουϰινάτορες) servivano gli stati maggiori, quelli di lituo (l.
liticines; gr. σαλπισταὶ ἰππέων) nella cavalleria, quelli di tuba (l. tubicines; gr. σαλπισταὶ
πεζῶν; grb. τούβιϰες) nella fanteria e quelli di corno (l. cornicines; gr. ϰεραύλαι; grb.
329
ϰόρνιϰες) nei reparti leggeri quali i veliti a piedi e le turme di arcieri a cavallo (l. equitantes),
è pensabile che nelle predette occasioni cerimoniali veneziane si era in origine preferito
ovviamente l’uso della buccina (l. bucina; gra. (ἰ)βῠϰάνε; grb. ίβύϰινον) a quello del lituo o
della tuba, anche perché quella aveva un suono più potente e si udiva a maggiore distanza;
ciò non toglie che in seguito, andando in disuso negli eserciti la buccina, si sia poi a
Venezia semplificato facendo montare sul Bucintoro dei semplici trombettieri. Vero è che le
denominazioni popolari, cioè quella di Bucintoro a Venezia e quella da essa imitata di
Oroburchio a Ferrara, erano già allora le più comuni – anche se quello ferrarese, dal nome e
dalla descrizione del Franzes, appare esser stato più un grosso veliero treponti che un
grande vascello remiero qual’era invece quello veneziano (cit. L. II, cap. 16). Solo a partire
dal Quattrocento il nome si comincerà a travisare anche in bucintaurus e vedi a tal
proposito A. Gabrieli, Libellus hospitalis munificentiae venetorum etc. Venezia, 1°
settembre 1502 e P. Marcello, Vite de’ prencipi di Vinegia etc. Venezia, 1588. Dunque
sembra proprio che il nome del Bucintoro non avesse originariamente nulla a che vedere
con termini marinari; non con bucio [ltm. bucius, buceus,; npm. buc(c)ius, buczus; cst. e
sp. buque, ‘scafo, nave], perché questo non significava vascello remiero bensì
propriamente ‘invaso, capacità di carico’ - quindi per esteso ‘vascello da carico’ - e vedi
infatti, per esempio, bucius ad duas caveas (‘a due gabbie’) qui vocatur Sanctus Salvator,
in Archivio Storico per Le Province Napoletane etc. Anno XXII- Fascicolo I. P. 718. Napoli,
1897; né aveva a che fare con i vn. burchio e buzo, perché queste erano barcacce fluviali e
lagunari non a remi ma a pertica, né tanto meno con le ricche dorature che adornavano
quel vascello; e nemmeno era quindi da ritenersi dovuto alla grande figura femminile, molto
più completa di una semplice polena, che troneggiava sulla sua prua e che rappresentava
la Giustizia di Venezia, ricordando quindi per tale conformazione vagamente a taluni, come
per esempio a Bernardo Giustiniano (Historia etc. P. 121 verso. Venezia, 1545), il
bucentaurus (dal bizantino βουϰένταυρος, ‘il gran centauro’), figura fantastica della tarda
classicità immaginata sulla falsariga di quella del centauro, la quale era fatta peraltro per
metà di toro e per metà di uomo; appare comunque questa prima interpretazione
etimologica fatta dai veneziani impensata e disconosciuta dagli stessi bizantini, visto che lo
storpiavano in Puzidoro (… ϰατὰ τὴν ἐϰείνων πουτζιδῶρον ϰαλούμενον (ib. L. II, cap. XIV);
essi d’altra parte difficilmente ne avrebbero potuto suggerire la giusta etimologia,
considerato che nella loro lingua bucinatores si diceva in tutt’altra maniera e cioè
σαλπιγϰταῖ.
330
Nel 1217, tanto per dimostrare che il nome Bucentaurus era indipendente da quello dei
famosi vascelli cerimoniali e gentilizi veneziani, a Genova tra i magistrati annuali fu eletto
un Johannes Bucentaurus, avvocato pavese (Caffaro, Annales januenses, cit.) I bucintori
cerimoniali veneziani erano più lunghi d’una galera e alti come un galeone senz’alberi (gr.
ἂδρῠς ναῦς) né vele, talvolta con ponte di coperta talvolta invece con sole corsie laterali
stese sui remiggi di voga come quelle delle galeazze, comunque coperti da una volta di
legno scolpito e tutto dorato all’interno, sostenuta tutt’intorno da tre ordini di grandi figure
di legno scolpito e dorato, due laterali e uno centrale; nel caso del detto grande bucintoro
c’erano – su detta coperta o su dette corsie - due gallerie laterali di banchi sui quali
sedevano i più di 200 senatori veneziani per assistere alle funzioni in programma; al centro
della più elevata poppa sedeva il doge con la sua trentina di consiglieri, con il nunzio
pontificio alla sua destra e l’ambasciatore di Francia alla sua sinistra. Per terminare con il
termine buque, aggiungeremo che in cst. suo sinonimo era vaso, anche se questo era più
usato nel senso di vascello completo e meno di invaso.
Che nel Medio Evo – secoli certo molto più poveri sia dei precedenti dell’antichità sia dei
successivi moderni - si fossero usate molto le più economiche biremi, dette in seguito
galeotte, è testimoniato da affreschi veneziani e da codici miniati del Quattrocento, ma
anche di secoli precedenti, quale per esempio quello franco-napoletano del 1352 che riporta
e illustra gli statuti dell’Ordine di S. Spirito o dei cavalieri del Nodo, codice che si conserva
alla Biblioteca Nazionale di Parigi; così inoltre si legge nel cap. XXXIV del Richardi regis iter,
cronaca del dodicesimo secolo scritta da Gahfrid de Winesalf, il quale seguì appunto il re
Riccardo in Terrasanta:
... Classis bellica, quae senis olim decurrebat ordinibus, nunc binos raro excedit.
(Itinerarium pèeregrinorum et gesta regis Ricardi etc. P. 80. Londra, 1864.)
Chiari sono poi, a tal proposito, sono anche gli affreschi di Spinello Aretino nella cappella
del Palazzo Pubblico di Siena, i quali rappresentano la vittoria marittima dei veneziani sulle
forze dell'imperatore Federico Barbarossa e dove tutte le galere rappresentatevi sono
appunto molto chiaramente delle biremi; anche se qui c’è però da considerare che, per
economia di spazio pittorico, spesso l’artista era costretto a rappresentare vascelli di
dimensioni minori del reale, specie nel caso di raffigurazioni di intere armate o battaglie,
stravolgendo a volte talmente l’immagine del reale dall’arrivare a dare all’immagine un
senso più allegorico che storico. E’ questo purtroppo il caso della famosa Tavola Strozzi,
opera che vuole rappresentare un trionfo navale napoletano del Quattrocento – forse quello
331
delle galere aragonesi che nel 1464 ritornarono vittoriose dalla battaglia dell'isola d'Ischia
sostenuta, sotto il comando del de Requesens, contro una squadra angioina, essa, pur
volendo raffigurare una potente squadra reale aragonese, quindi sicuramente fatta
soprattutto di triremi di più di 40-42 metri di lunghezza e di biremi, mostra vascelli di non
più di 14 o al massimo di 15 metri sperone escluso – quindi a livello nemmeno di galeotte,
ma di fuste o di bergantini, dotandoli però di 20 o 21 banchi di voga per lato – cosa da
galere biremi o galeotte – e di tre remi per banco – cosa invece questa da più grande galera
triremi; e che si tratti di vascelletti così corti si ricava proporzionandoli alle figure umane
che in essi si vedono. Inoltre la ventina di banchi di voga è troppo raccolta e compressa in
lunghezza (chiaramente per farcela entrare insomma); le alberature sono troppo piccole e
prive di gabbia, quindi non da galera; il trionfo manca degli addobbi appropriati (bandiere
più grandi di quelle nel quadro mostrate, grandissimi gagliardi cadenti giù dagli alberi e
tendoni decorati fascianti la poppa e la gabbia, in tutto sempre in numero di perlomeno 7 o
8 pezzi. Che manchino poi questi vascelli anche d’opere morte prodiere, ossia di rembate e
di palmette, è cosa invece più ammissibile anche per delle grandi triremi, perché sia il
castelletto di prua medievale sia le rembate rinascimentali erano fatte di tavoloni che si
montavano solo in preparazione d’un combattimento e non in occasione d’un trionfo e, per
quanto riguarda invece la palmetta, questa può esser stata senz’altro una comodità adottata
più tardi, a Rinascimento più inoltrato, per gli artiglieri, i quali invece ora a bordo, tranne
che in casi particolari, ancora non c’erano.
Il de la Gravière cita poco e male, purtroppo come era suo solito in quanto poco
competente, un interessante contratto di servizio firmato da Aitone d’Oria il 25 ottobre del
1337, in cui questo capitano di condotta genovese s’impegnava a servire il re di Francia con
un massimo di 20 galere, le quali avrebbero dovuto, a quanto riporta un po’
superficialmente il de la Gravière, essere equipaggiate di patrone, còmito e sotto-còmito,
due scrivani (ma più probabilmente si trattava di un razioniero e del suo aiutante
scrivanello), un maestro-chirurgo (più tardi detto barbiero), 25 balestrieri armati di tutto
punto e 180 tra marinai e remiganti. Mentre è estremamente probabile che per due scrivani
per galera il de la Gravière intendesse in realtà uno scrivano e uno scrivanello, è molto
superficiale associare i marinai ai remiganti e ciò perché per marinari s’intendevano gli
uomini di destrezza (proeri, ossia ‘gabbieri’) e gli uomini di sorveglianza (compagni), mentre
per remiganti gli uomini di fatica; vero è che, nel caso appunto di volontari, quali erano
generalmente i remieri medievali, ambedue i tipi finivano per far parte della stessa categoria
dei cosiddetti scapoli, specie se si trattava di volontari veneziani. Insomma sulla base di
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400 lance (si trattava di lance leggere, qualcosa insomma tra le picche e le mezze picche, e
si comprende dal loro numero elevato);
1.000 dardi (corti giavellotti da lancio manuale);
5.000 verrettoni, cioè frecce quadrellate da balestra;
30 lance romagnole (romanyoles), armi astate simili alla partigiana;
6 roncole astate, soprattutto utili a tagliare le funi di manovra del vascello nemico;
10 scuri (destrals, così dette perché generalmente usate con la mano destra);
6 falci astate (guadañas) per andare a terra a far legna;
120 pavesi (‘grandi scudi rettangolari dalla base piatta per difesa statica, da poggiare infatti
soprattutto in fila sulla fiancata del vascello a protezione degli uomini’).
100 corazze guarnite.
Questo era però l’armamento prescritto per le missioni di poche galee, ma, in caso di intere
squadre, era il capitano generale a deciderne la consistenza (Cit. P. 94). Le armi da galea
inviate alla fine dl 1394 da Venezia a Creta su richiesta di quel governatore veneziano sono
sostanzialmente ancora le suddette:
Prima balla 1 de canevaza grossa per vesta de curace (qui il canapaccio serviva a imbottire
sottovesti difensive di cuoio, probabilmente raggiungenti il ginocchio).
Item chiodi mataci miera 200 (mataci? 200mila).
Item chiodi per armar pavesi miera 500.
Item stoparoli per armar pavesi 4.
Item lanze de posta, fassi 50 (‘fasci 50).
Item lanze de pedoni, fassi 50.
Item spade de taio 60 (‘spade da taglio’, cioè non solo da punta)..
Item ronchoni 50 (erano ronche astate bipénne).
Item barili de vernise 2.
Item muole da molar 2.
Item barila 1 de ferri de veretoni (quindi i verrettoni da balestra si fornivano a barili) .
Item lumiera d'asta 40 (aste portalumi).
Item squarza velle 40 (‘squarciavele’, specie di falci astate).
Una registrazione del secolo successivo, riportata dalla Simbula, menziona una galera
catalana di 25 banchi a tre uomini a banco, con còmito, sotto-còmito, chirurgo, trombetta e
333
Sabato della caduta (settimana) fu data all'acque la nuova galera padrona di questa
squadra, che è riuscito uno delli più belli scafi che siano stati fabbricati in questo arsenale
per l'intagli della poppa tutta dorata e per il numero di banchi, portandone 27 per ciascuna
banda e fra breve se ne daranno due altre, lavorandosi a tutta fretta, premendo
all'inesplicabile vigilanza di quest'eccellentissimo signor Viceré l'accrescere il numero della
squadra (Avvisi di Napoli. B.N.NA. Sez. Nap. Per. 120).
La seconda delle predette tre nuove galere sarà varata sabato 23 maggio, mentre si
lavorava alacremente anche alla terza.
La suddetta evoluzione avvenuta nel corso del Seicento porterà queste galere quartierate,
ora in qualche caso anche a sei uomini per banco, a sostituire progressivamente quelle che
erano state dette sottili e a diventare così esse quelle communes, anche se usate in numero
molto minore di quanto si faceva in passato; le ultime squadre a rinunziare del tutto alle
sottili saranno quelle turco-barbaresche e, tra le cristiane, quella pontificia. D’altra parte il
nome sottili si era già cominciato a perdere in Spagna nella seconda metà del Cinquecento,
come si evince dagli Anales dello Zurita (diez galeras, de las que llamavan aun en este
tiempo ‘sotiles. L. XV, c LII). ’Per quanto riguarda le galeazze, nella seconda metà del
Seicento vedremo la galeazza ordinaria stabilizzarsi ai 32 banchi - per esempio quelle
toscane - con sei o sette vogatori per ciascuno d’essi e batterie di bocche da fuoco più
ordinate e razionali, caratteristica questa però comune a tutti i vascelli e dovuta ai progressi
compiuti in quel secolo dalla artiglieria in generale; noteremo inoltre all'inizio del Settecento
una distinzione a Venezia tra galeazze e galee grandi chiamate da mercanzia; i conquistatori
napoleonici, dai quali la navigazione remiera venne finalmente abolita in tutt'Europa,
334
... Tale vascello, il quale, per la sua prodigiosa grandezza, assomiglia abbastanza ad una
fortezza sul mare, è stata un tempo in uso in Francia; ma oggi non ci sono che i veneziani
che se ne servono. Ci sono solo i nobili veneziani a comandarle; i quali ancora si obbligano
per giuramento e rispondendone con le loro teste che mai rifiuteranno di combattere
(anche) contro venticinque galere nemiche. Ciò deve farci pensare che la galeazza è un
vascello molto utile e che noi abbiamo forse il torto di non farne per nulla uso. (Cit.)
Il predetto autore enumera le bocche da fuoco portate da una galeazza ai suoi tempi, ma,
poiché si tratta appunto d’artiglieria del Settecento, basata cioè su concezioni francesi che
nel frattempo avranno preso piede in Europa, non riteniamo utile riportarla; spiega poi i
molteplici vantaggi che egli ancora vedeva nell'uso delle galeazze e cioè innanzitutto la
capacità di portare, data la loro grande mole, bocche da fuoco molto pesanti e potenti quali
le colubrine e quindi, al seguito di un’armata e in tempo di calma, di potersi opporre a
distanza anche a un vascello nemico di 100 cannoni; potevano inoltre con i loro remi
rimorchiare (gr. ἒλϰειν, ἐνέλϰειν) un veliero in difficoltà lontano dal pericolo e difenderlo dal
nemico sia con il fuoco della loro grossa artiglieria sia con quello della numerosa
moschetteria di cui pure solitamente erano dotate e qui ordinairement domine le canon (Ib.);
potevano infine, dal momento che pescavano solo circa 12 piedi d’acqua, esser poste sotto
costa a difesa d’una città litoranea come baluardi avanzati sul mare, senza che il nemico
potesse pertanto avvicinarle per tentarne l’abbordaggio e impedendo così, con la loro
predetta grande capacità di fuoco, anche l’avvicinamento d’esiziali vascelli bombardieri
nemici alla città; potevano esse stesse fare da batterie galleggianti di mortai, grevi bocche
di cui pure potevano essere armate, e desolare quindi con le bombe una costa nemica,
preparando così il terreno a uno sbarco della propria fanteria. Quanto sostenuto dal de
Savérien potrà sembrare in parte contraddire quanto già successo nell’ormai lontano 11
giugno 1628, quando cioè la flottiglia del già ricordato corsaro inglese Digby, la quale era
composta di cinque vascelli, ma dei quali tre erano dei mercantili catturati e quindi solo
due, l’Eagle e l’Elizabeth and George, erano veramente potenti vascelli da guerra inglesi,
tanto aveva ridotto a mal partito un pari numero di galee grosse e galeoni veneziani nella
rada d’Alessandretta da obbligare i lagunari a una vergognosa resa. La battaglia, a dire poi
dei veneziani, era stata da loro iniziata perché il Digby, non salutandolo per primo e nei
modi d’uso, aveva dimostrato di non riconoscere la supremazia del generale veneziano in
quel luogo, ma in verità avvenne perché il corsaro inglese voleva impadronirsi d’alcuni
335
mercantili francesi che si trovavano allora ormeggiati in quel porto e i veneziani invece
intendevano difenderne le attività; Kenelm Digby poi così scriverà nel suo giornale di bordo
a proposito di quel significativo scontro:
… Il solo nome delle galeazze era di per sé una cosa che incuteva spavento… Le galeazze
hanno ognuna dalle trenta alle quaranta bocche da fuoco di bronzo di straordinaria
grossezza ed imbarcano dai sei ai settecento uomini. I galeoni erano di circa ottocento
tonelli, uno di essi aveva quaranta grossi pezzi d’artiglieria di bronzo e gli altri trenta…
… tirammo con tale precisione sui galeoni che gli uomini si nascosero nella stiva e
lasciarono le navi alla propria sorte senza più governarle. Le galeazze che vennero in loro
aiuto ricevettero da noi un rude benvenuto, tanto che si ritirarono vogando a tutta forza e si
ripararono dietro le navi inglesi nella rada… Avevano ormai i remi a pezzi e avevano
ricevuto molti colpi mortali… Durante questo combattimento, che durò circa tre ore, noi
sparammo circa duecento colpi dalla nostra nave e solamente da un fianco, perché la
bonaccia non ci permise di virare, e circa cinquecento dal complesso della flotta. Il nemico
ne sparò altrettanti, se non di più, contro di noi. Essi non uccisero nessuno dei nostri
uomini e ne ferirono soltanto pochi, grazie a Dio… Per loro successivo riconoscimento noi
uccidemmo quarantanove dei loro uomini, oltre a ferirne un gran numero… (Cit.)
…tanta era la presuntuosa fiducia che nutrivano nei proprii formidabili vascelli, costruiti
con così ammirevole robustezza e arte che sino a quel momento nessun’altra nave aveva
mai osato di resister loro… (Ib.)
Ma quella dei lagunari si rivelò in tal occasione una potenza bellica solo formale, non
sostanziata dal valore degli uomini, e infatti nel 1647 lo stesso Antonio Marino Capello,
allora ancora generale del mare, sarà richiamato a Venezia e imprigionato ai Piombi per viltà
di fronte al nemico; morirà in quel carcere prima del processo. In effetti la battaglia
d’Alessandretta del 1628 segna uno spartiacque tra il vecchio superato modo statico
mediterraneo di far la guerra sul mare e quello atlantico più dinamico, determinato, efficace
e incisivo portato nel Mediterraneo da quel corsaro inglese:
… i nemici avevano soltanto una fama artificiosamente gonfiata, non conquistata con il
proprio valore, ma basata sulla potenza dei loro vascelli… il che rivelò che cosa l’impeto
giudizioso può fare contro uomini che abbiano più fiducia nei loro castelli galleggianti e nel
numero che nel proprio valore; essi inviarono un umile messaggio per chiedere una pace
vergognosa. (Ib.)
A proposito di questa richiesta di pace inviatagli dal suddetto Capello il Digby aveva però
nel suo diario già meglio precisato:
336
É qua capitata la nave galera 'Fontana' olandese d'Amsterdam, dicesi destinata per Venezia,
la quale, avendo toccato Cadice [..]. Partita lunedì per il Zante la nave galera 'Colonia' e per
Venezia la nave 'Due fratelli', ambidue inglesi... (Avvisi di Napoli. Cit.)
Dunque le galee grosse veneziane del tipo detto di Fiandra, alle quali abbiamo già
accennato, avevano aperto una linea che fu poi evidentemente utilizzata sia dagli olandesi
che dagl'inglesi con grossi vascelli a vela e a remi, quindi dello stesso tipo; le navi-galere
non potavano infatti essere null'altro che delle galeazze e di queste seguivano pure le rotte
mercantili.
Tra coloro che si vogliono oggi interessare di questa materia si fa una certa confusione tra
galea, galeone e galeazza e per esempio alcuni, forse confusi dal quelle cronache medievali
che, come abbiamo già detto, parlano di galeoni remieri fluviali, arrivano persino a credere
che i famosi galeoni marini fossero vascelli che andassero anche a remi; altri, vedi il de la
Gravière, il quale fa suo acriticamente un errore del padre Fournier, hanno scritto che i
galeotti delle galeazze rinascimentali e moderne vogavano sotto coperta, il che non era
assolutamente vero, se si eccettua un particolare e poco pratico tipo di galeazza
medioevale erede del dromone, ancora usato dai francesi nella prima metà del Cinquecento
e menzionato per esempio nella relazione dalla Francia stesa nel 1535 dal residente veneto
Marino Giustinian, laddove tratta dei vascelli posseduti da quella corona:
... Ha cinque galeazze, tra vecchie e nuove, e sono più corte delle nostre galee grosse, più
alte e più larghe, di due coperte e di due ordini di remi, uno per coperta; gl’interiori sono
lunghi piedi ventiquattro; li superiori trentasei, ma poco giovano, che non ponno servire se
non a voltare e guadagnare un cavo e cose simili. Portano artiglieria in gran numero. (E.
Albéri. Cit. S. I, v. I, p. 187.)
337
In sostanza l'eccessiva elevatezza sull'acqua rendeva la voga dei remi superiori molto
difficoltosa, poco pratica e solo utile in qualche particolare manovra; questo è uno dei
motivi - essendo gli altri il peso e il garbo tutt’altro che affusolato - per cui anche le
galeazze, anche quelle più moderne settecentesche, sebbene fornite di ben sette vogatori
per remo, finivano, in caso di bonaccia o comunque di vento non favorevole, per dover
essere trainate dalle galere. Questi grossi vascelli remieri francesi non erano però delle
galeazze, come impropriamente le chiamavano i veneziani, perché non avevano come
queste un solo ponte di remigi; erano invece appunto gli ultimi esempi del dromone
medievale. Nel novembre del 1965 due di queste pseudo-galeazze francesi erano in Levante
a commerciare, come il 27 di quel mese scriveva a Venezia dal Peloponneso il già ricordato
Jacomo Barbarigo:
… Hozi, che è 27 del presente, zonsse de qui do galeaze de Franza, le qual partì da questa
parte za 40 di, tochò a Napoli de’ Puia, donde se parti hozi fa 20 di; dice da (‘di’) nuovo che
re Ferdinando feva fare feste e trionphi, per haver sentido che el re de Franza havea fato
pace con quelli signori (con cui) era in guera… dite galeaze son carg(h)e de pani, mieli,
o(r)gi et altre merze, dieno toccare a Sio, Rodi e Alexandria e, del ritorno, a Rodi e Sio, poi
tornare drieto… (Cit. P. 68.)
Di un’altro dei detti vascelli francesi si parla poi in una cronaca del 1495 a proposito della
flotta d’invasione transalpina preparatasi a Genova su mandato di Carlo VIII di Francia:
La detta galeazza caricherà poi a Porto Pisano artiglierie per l’esercito del re che proseguiva
verso Roma (ib.). Troveremo poi a Napoli tre di questi grossi e antiquati vascelli remieri
francesi:
(Maggio 1495:) Sono a Napoli per guardia del Regno 12 galie sottili, 3 galeazze grosse
francesi, 2 galioni grossi, una nave grossa genoese de 1,700 botti et 8 barche armate a
soldo di Sua Maestà… (D. Malipiero, cit. P. 346-347.)
338
Qualche anno più tardi, cioè nel 1499, la Francia preparò una spedizione navale da inviare in
aiuto di Venezia, allora minacciata dall’uscita dal Bosforo di una potente armata turca, e in
essa ritroviamo ancora le dette pseudo-galeazze transalpine:
… Ai 31 di luglio detto, per lettere da Genoa, 4 galeazze e 24 barze armade in Provenza, con
7.000 fanti preparati per Rodi, vien de ordene del Re de Franza (Luigi XII) a obedienzia del
Generale (Antonio Grimani) (D. Malipiero, cit. Parte Prima, p. 171).
… galeae LVIII et majora galeis VIII grossa navigia, ‘pamfia’ nuncupata, januenses armarunt
(Annales genuenses etc. Cit. Anno 1222. Col. 983).
.
Siamo nel 1222, Genova è in guerra con Pisa; le suddette galere e i suddetti pamfii si
uniscono nelle acque della Corsica ad altre 30 galere genovesi comandate dal praeceptor
(‘capitano generale’) Benedetto Zaccaria e, ora sotto il comando generale affidato a Oberto
de Auria (praeses, armiragius nominatus), sconfissero i pisani nelle acque di Porto Pisano
(oggi ‘Livorno’. Ib.) Ma nei predetti Annales i pamfii sono menzionati più volte:
… aliquas galeas grossas et aliqua non parva navigia, quae pamfi dicebantur, et ligna… (ib.
Anno 1334, col. 1.067)
Nei primi secoli del Basso Medioevo prima i chelandri levantini e più tardi i pamfii tirrenici
saranno sostituiti rispettivamente dalle galee grosse veneziane e dalle galeazze, cioè in
effetti ambedue da uno stesso nuovo tipo di vascello remiero dalle peggiori qualità remiere
ma dalle migliori qualità veliche, adatti onfatti anche al cabotaggio atlantico.
Erano comunque in uso a quell’epoca anche le galere ordinarie, eredi dunque delle liburne
del tempo dell’impero romano, erano dette galee sottili, ma, come abbiamo già accennato,
non tanto nel senso di sottili in larghezza, come si è subito portati a pensare, bensì perché
sottili in altezza di fiancata, altezza limitata perché fatte per un solo livello di voga; queste
s’adoperavano allora, nei loro primi secoli, appunto come le loro antenate liburne
monoremo e cioè soprattutto per azioni di supporto, esplorazione, sorpresa e per la guerra
di corsa, ma anche all’occasione per il fronte di battaglia se già il nemico v’usava questo
tipo di vascelli, come dispone la già citata Тάϰτιϰα dell’imperatore Leone VI:
Apparecchiarai galee grandi e picciole, conforme alla qualità dell’armata de’ nemici co’ quali
combatti, perciocché i saracini e gli sciti del Bosforo non hanno una medesma sorte di
339
apparato di armata, usando i saracini una maniera di vascelli detti ‘cumbarij, maggiori e più
tardi al corso; ma gli sciti usano ‘acatij’ (gr. αϰάτια, ‘brigantini’), più piccioli e più spediti e
più veloci, perciocché scorrono per alcuni fiumi nel Mar Maggiore e per questa cagione non
potriano usargli (‘usarli’) maggiori (Constit. XX, par. 69).
A proposito dei suddetti gumbarii (lm. cumbaria; gr. ϰουμβάρια, talvolta ϰομβάρια), come si
diceva in veneziano, vascelli che il Suida definisce nave rotundae, anche se dall’uso che poi
vedremo farne ai veneziani, non lo sembrerebbe peer nulla, e che Thomas Ryves (Historiae
navalis mediae libri tres. Cap. 24. Londra, 1640), confondeva con le camerae, onerarie
pontiche a vela quadra dei tempi dell’imperatore Nerone. Se si chiamavano così, è probabile
che sotto coperta avessero una particolare disponibilità di cumbe, cioè dei predetti giacigli
per soldati o pellegrini. Dalle storie del Sabellico risulta che anche i pirati narentini avevano
vascelli chiamati gombarie e, come scriveva invece il già citato Giovanni Diacono nel suo
Chronicon, memoria ripresa in quello, molto più tardo, di Andrea Dandolo e inoltre negli
Annali veneti di Domenico Malipiero, li usarono, come già accennato, anche i veneziani e
proprio in una spedizione navale (gr. ἐπίπλοος, ἐπίπλους) mandata contro detti pirati dal
doge Pietro I Candiano nel corso del biennio 847/848:
… inviò contro gli slavi narentini trentatré vascelli che i veneziani chiamano ‘gumbarie’ e a
capo dei quali furono preposti Orso Badoario e Pietro Rosolo; essi (però) tornarono con un
nulla di fatto (triginta & tres naves quas Venetici ‘gumbarias’ nominant, contra Narentanos
Sclavos misit, quibus Ursus Badoarius & Petrus Rosolus præfuerunt. Qui absque effectu
reversi sunt. Cit.)
Queste gombarie sicuramente facevano parte di quella categoria che i bizantini chiamavano
πειρατιϰαὶ νῆες (‘navi corsare’) e λῃστριϰaὶ νῆες (‘navi piratiche’), ma non perché, come
abbiamo appena visto, fossero caratteristici appunto dei pirati saraceni e narentini, ma
perché, come già più volte accennato, erano armati alla leggera, cioè non per una battaglia
di linea o reale, come si dirà più tardi. I vascelli usati dai corsari e dai pirati propriamente
detti erano perlopiù monoremi privi di coperta (μονήρεις πειρατιϰὰς. Giovanni VI
Cantacuzeno, Historiarum libri IV. IV, 17), a motivo della loro insuperabile velocità […
navigando in rotta diretta e velocemente in monera… (εὑθὺς ταχυναυτοῦντες ἐν ἑνήρει.
Giorgio Pakymeres, cit. T. I, l. I, par. 31)], ma si servivano anche di biremi copertate come
quelle - magari di dimensioni maggiori - usate anche dai veneziani e spesso anch’esse
talvolta dette ‘piratiche’ (come abbiamo letto per esempio nella suddetta Тάϰτιϰα), ma non
perché fossero usate per esercitare pirateria, bensì semplicemente perché non corredati e
armati da battaglia; infatti Niceforo Gregoras (c. 1295-1360) parlava addirittura di triere
piratiche [… due triere di tipo ed uso piratici… (δύο τριήρεις ἐπὶ δίαιταν ϰαὶ τρόπον
340
πειρατιϰὸν. In Historiae byzantinae. L. V, par. 3 e 4)] e, un po’ più avanti, persino di una
grossa nave da carico ‘piratica’:
… Venendo dunque poco dopo con forza la borea giù dal cielo, apparve giunta dal largo del
mare anche quella nave oneraria corsara in mezzo a una moltitudine di (vascelli) armati,
quasi un’intera città avanzatasi nei flutti o piuttosto a guisa di un uccello che sui flutti
avesse volato. (ἐπεὶ δὲ μετὰ μιϰρὸν σφοδρότερος ἂνωθεν ϰατεῥῤάγη βορέας͵ ἐπιφαίνεται
ϰατιοῡσα ϰαὶ ἡ πειρατιϰὴ ἐϰείνη ὀλϰὰς ἀπὸ πολλοῡ τοῡ πελάγους͵ μυρίοις ἐστεφανωμένη
τοῑς ὀπλίταις͵ ϰαθάπερ πόλις ὂλη ϰατὰ ϰυμάτων πεζεύουσα ἢ μᾶλλον πτηνοῡ δίϰην
ἐφιπταμένη τοῑς ϰύμασιν. Ib.)
E si trattava in questo caso di una nave oneraria bizantina in precedenza addirittura definita
‘imperatoria’ (ἡ βασιλιϰὴ ὁλϰὰς. Ib.); qui invece si dice ‘corsara’ perché evidentemente
usata dai vascelli armati a corso di quella squadra come vascello d’appoggio, cioè per
tenervi depositato il carico delle loro prede. Abbiamo già accennato che i vascelli corsari e
piratici si distinguevano non tanto per le generalmente minori dimensioni quanto perché
privi delle opere morte difensive che in guerra si elevavano sulla coperta di quelli destinati a
ingaggiare, se necessario, anche battaglie frontali, insomma di linea o reali, come più tardi
anche si dirà.
Il nome gumbarie o gombarie deriva, come già detto, da kύμβη, una alquanto piccola
imbarcazione adibita tra l’altro a servire in guerra vascelli più grandi e che i bizantini
costruivano da una vela antennata e da otto rematori più un capo-voga; ed è quindi
supponibile che si chiamassero così perché magari portavano in coperta o a traino una
cimba [‘cumba’; gr. ϰύμβη, ϰυμβίον (‘piccola cimba’)] o piatta (ts.) di supporto. Infine
diremo che alla fine dell’XI secolo - dunque a distanza di due secoli e più da quegli
avvenimenti - lo storico bizantino Giorgio Cedreno dirà anche lui di questo tipo di vascelli
remieri e confermerà, a proposito dei ripetuti attacchi portati dai mussulmani agareni (sciiti)
di Siria e di quelli saraceni (sunniti) di Creta, Africa e Sicilia ai territori marittimi bizantini tra
l’880 e l’885 d. C., che si trattava di grandi vascelli, ma in più affermando che il loro nome
cumparia era vocabolo saraceno; il che però fa pensare che si fosse limitato a leggere - e
male - il predetto Leone VI:
… avendo armato trenta grandi navi che i saraceni usano chiamare ‘cumpari’… [τριάϰοντα
πλοῖα μέγιστα ἓξαρτυσάμενος (ϰουμπάρια ταῡτα ϰαλεῖν εἰώθασιν οἱ Σαραϰηνοὶ). G.
Cedreno, Historiarum compendium. Agli anni suddetti.]
Ma dire che erano ‘grandi navi’ e che erano trenta è contraddittorio e infatti il Dandolo,
scrivendo che le gombarie inviate a combattere i pirati narentini nel 945 erano 34 (XXXIV
341
naves, quas veneti gombarias nominant), non le definità grandi; probabilmente, dovendo
combattere e inseguire i pirati negli estuari e nei corsi dei fiumi sloveni, si trattava invece di
agili monoremo; ma, per tornare alle suddette liburne o liburnidi o liburniche, in realtà,
come si legge nel Vegezio, autore del quarto d.C., ai suoi tempi esse non erano più solo le
originarie biremi, ma si costruivano anche triremi, quadriremi e quinqueremi; insomma
erano ormai in effetti già delle galee, alle quali ora venendo, diremo che esse, grosse, sottili
o bastarde che fossero, erano sì a più ordini di remi, ma erano ordini posti tutti allo stesso
livello, ossia in coperta, e si trattava allora, cioè nel Medioevo, più di biremi o legni che di
triremi, mentre mai erano state dismesse le monoremo, le quali ora si chiameranno però
perlopiù, se fluviali, galladelli, se invece marini e a partire dal Rinascimento, brigantini,
caicchi e fragate; questa conformazione remiera - a più ordini ma a un solo livello - s’evince
da documenti basso-medievali riportanti elenchi d’equipaggi e, per quanta riguarda la
quantità d’uomini che portavano a bordo, questa sembra esser all’incirca la stessa di quella
delle sagitteae o sagittiae, contr. del più antico saguntiae (da Sagunto, quindi ‘vascelli
saguntini’), ossia quei grandi e veloci vascelli latini medievali il cui nome poi più tardi, come
abbiamo già visto, si contrarrà ulteriormente in saettie. La voga sotto coperta non fu mai più
ripresa, anche se riproposta nel Cinquecento dal Crescenzio, il quale, in una figura del suo
succitato trattato, presenta un tipo di vascello a vela e a remi da lui immaginato e proposto,
ma avendone probabilmente preso spunto dai galeoni fluviali medioevali di cui abbiamo più
sopra detto, e inoltre battezzato galeoncino, il quale appare essere un vascello a metà
strada tra una galeazza e un galeone marino, ma con i remiganti situati sotto coperta; si
tratta però d’una proposta che non fu presa in considerazione da nessuno e, anche se
presentava il vantaggio di diminuire l'angolo d'incidenza dei remi sul livello del mare
avvicinandolo così alquanto a quello dei remi delle galere, toglieva però spazio di carico
interno perché occupato dai remiggi. Comunque sicuramente questo comunissimo errore di
credere che i remiganti delle galeazze rinascimentali sedessero sotto coperta fu dovuto
all'essere i remi di tali vascelli sovrastati dalle predette corsie laterali di tavolato,
caratteristica che, mai ben visibile nelle illustrazioni del tempo, rafforza l'impressione che
fossero i banchi situati sotto la coperta.
Le marinerie ponentine o tirreniche consideravano le galee veneziane e i loro equipaggi e
sistemi i migliori esistenti e quindi i più da imitarsi; i veneziani d'altro canto, pur accettando
questa fama di primato nella navigazione e nella guerra remiera, erano tanto veramente
esperti e superiori da riconoscere anche i molti aspetti in cui le loro galee erano invece
inferiori a quelle di ponente o anche a quelle turche. Nel fare le nostre osservazioni su
342
questo argomento useremo soprattutto come fonte la già citata Milizia marittima di
Cristofaro da Canal, scritta dopo il 1542 e pertanto avvertiamo il lettore che, trattandosi di
circa mezzo secolo prima del tempo che noi stiamo principalmente descrivendo, si parlerà
di galere triremi a sensile o a zenzile (1450-1580) e che in seguito molte differenze
costruttive e operative tra le galere ponentine e quelle levantine furono eliminate dal
comune passare dalla detta voga a sensile a quella a remo di scaloccio. Premettiamo inoltre
che molte delle caratteristiche delle galere a sensile ponentine erano estensibili a quelle
turche, in quanto gli ottomani cercavano d'imitarle considerandole migliori di quelle
veneziane. Il bailo Marino Cavalli, da noi più volte citato, così si esprimeva infatti nel 1560 a
proposito dei galeotti turchi, intendendosi allora per galeotti la ‘gente di galera’ in generale,
ossia remiganti, marinai, soldati ed anche gli eventuali passeggieri (l. classiarii o classici;
gr. τριηρίται; gr. οὶ πλοΐμοι o anche ὀ πλώιμος στρατός; bl. extollerii), mentre in latino
medievale essa era generalmente suddivisa in nautae e supersalientes (naviganti e altri
imbarcati):
... Governano ancora (‘anche’) come li ponentini, dalli quali pigliano volentieri tutte le foggie
che usano questi. (E. Albéri. Cit. S. III, v. I, p. 292.)
percuotevano il mare così ritardando anch'esse il corso del vascello; ciò accadeva anche
perché fin quasi alla metà del Cinquecento i telari veneziani erano stati larghi, grossi e
pesanti, per cui, oltre a gravare con tutte le opere morte eccessivamente sugli scafi,
rovinando quindi presto le galee e facendole durare poco, quando la galea navigava a vela
dell'asta, vale a dire quando si portava la vela attraversata dall'uno dei lati dello scafo e non
nel mezzo dello stesso, come si faceva quando si navigava invece col vento in poppa,
avveniva che la galea si coricava da quel lato stendendosi sull'onde e provocando, con il
margine del telaro tuffato, una grandissima scia che rallentava ovviamente moltissimo il
corso. Negli anni Trenta del secolo però il summenzionato famoso architetto navale
veneziano Vittorio Fausto cominciò a costruire galere provviste del cosiddetto mezzo telaro,
struttura più stretta e posta in maniera che, invece di gravare sulla galea, le dava
sostentamento e, in qualsiasi modo si navigasse, non toccavano il pelo dell'acqua.
Per tutte le suddette ragioni il da Canal avrebbe voluto le galee veneziane del suo tempo più
alte, a imitazione dunque di quelle ponentine, o per lo meno tanto più alte quanto lo erano
quelle progettate dal detto Fausto, le quali sopravanzavano in tutte le loro parti le altre che
si costruivano nell'arsenale di Venezia; ma addirittura egli le avrebbe fatte ancora più alte:
... aggiungo che, se le galee di altra provincia hanno mestiero di una convenevole altezza in
puntale, le nostre lo hanno assai più almeno di quello che esse si fanno e questo
principalmente per cagione de' galeotti dalmatini che sopra gli vanno, i quali, oltre che seco
portano per lo meno tre o quattro mude - o vogliamo dir sorte di panni - nelle galee, tengono
eziandio ordinariamente appresso il barile dell'acqua, uno assai maggior di vino e altre
infinite bagaglie che i nostri più litterati scrittori, servendosi dell'antico vocabulo,
chiamerebbono impedimenti. Il che fa che esse, tutto dì come potete vedere, assembrano
all'occhio di chi le mira poco meno che affondate nel mare e rende loro impedimento
grandissimo così nell'andar (a remi) come nella vela. (Della milizia marittima etc. Cit. P. 156.)
Come qui si vede, il da Canal, uomo del Rinascimento, già usava per sineddoche il termine
‘galeotti’ con il significato che gli diamo noi oggi e cioè riferendosi ai soli remiganti, mentre
in realtà esso aveva denominato in origine tutta la gente di galea. C'era anche un altro
motivo per cui le galee veneziane risultavano più appesantite di quelle ponentine e turche
era il maggior numero d'artiglierie che portavano, argomento però che tratteremo in un altro
capitolo; la maggior altezza in puntale delle galere di ponente era comunque la
caratteristica fondamentale che le rendeva più veloci di quelle veneziane, altrimenti non si
sarebbe spiegato come, quando si navigava a voga, molte volte ciurme ponentine costituite
da tisicucci potevano superare (fr. depasser) nell'arregare, ossia nel vogare in modo
competitivo, quelle veneziane formate invece d'atletici dalmatini, superiorità che non si
poteva certo spiegare solamente con l'altra innegabile circostanza che, come meglio diremo
344
più avanti a proposito dei modi di vogare, la (voga ar)rancata ponentina rendeva molto di
più della stroppata veneziana:
... noi che per ordinario armiamo le nostre (galee) dalmatine di huomini che io vi dissi di
bellissimi corpi [...] nondimeno l'esperienza dimostra assai chiaro che gl’italiani, i corsi, i
sardi, i siciliani, i spagnuoli, i turchi, gli africani e gli etiopi e altre molte diversissime
nazioni che sono in grandissimo numero in catena per le galee di ponente possono non
pure coi loro corpi piccioli e sparuti sempre stare a paragone coi miei schiavoni belli e
grandi, ma molte volte eziandio vincerli e lasciarli a dietro, il che per certo non potrebbono
fare quando solo dalla condizione delle ciurme questa tal prestezza delle galee avvenisse.
(Ib. P. 155.)
Sia per la predetta maggior altezza sia per aver un minor numero di partitori (‘paratie’) lo
scafo delle ponentine era, oltre che più veloce, anche più comodo e abitabile. Il da Canal
preferiva anche le belle poppe delle galere di ponente, per esser quasi sempre fabbricate di
legno di noce in ogni loro parte, pertichette e furcate incluse, così come ogn’altra
guarnizione dei morti (‘opere morte’) di poppa, cosa che non sempre si usava in quelle
veneziane, dove anzi questi morti erano quasi sempre di larice o d'altro legno similmente di
poco prezzo:
... Vorrei dunque che tutte queste parti fossero di noce, perché questo legno è bello ed
honorevole e perché è forte e assai più durevole di molti altri. Sicome io laudo che esse
parti siano gentilmente lavorate e apparenti, così biasmo quella soverchia spesa che vi si
vuol fare di oro e di colori, percioché in pochi dì sono dalle pioggie e dal mare tali
ornamenti guasti, oltre che non aggiungono bontà alla galea. (Ib. P. 68.)
Era comunque bene fare il pagiolo, ossia la tolda o mezza coperta a poppavia, d'altro legno,
perché il noce, essendo per sua natura liscio, quando era bagnato faceva facilmente
sdrucciolare chi sopra vi camminasse.
Diverso e più agevole era invece il maneggio del timone nelle galee della Serenissima,
perché mentre infatti nelle galere ponentine e turco-barbaresche esso si manovrava a
mezzo d'una barra detta argnola, i veneziani lo tiravano da destra e da sinistra con due capi
di fune detti freni e avvolti d'ambedue le parti su due legni detti schelmi, cioè proprio come
le briglie d'un cavallo; questo secondo sistema era considerato molto più efficace perché
l'argnola era ingombrante, estendendosi all'interno della poppa almeno per un braccio e
mezzo, e, quando si voleva mandare il timone a un suo estremo, essa andava a urtare nelle
banche laterali della poppa e quasi impediva tale manovra:
345
... Anzi è tanta differenza dall'un modo all'altro quanto è dal reggere un cavallo col morso o
maneggiarlo senza freno. (Ib. P. 70.)
Il timoniero veneziano era però posto all'esterno senz'alcuna protezione ed era quindi facile
bersaglio al nemico; quello ponentino e quello turchesco (‘turco-barbaresco’) sedeva
invece sotto poppa, dietro una tavola fatta a graticola o a gelosia (fr. à jour), detta
sopratrigante, la quale solo allora alcune galee veneziane incominciavano a usare, e quindi
era molto più protetto; si ovviava comunque sulle galere di Venezia ponendo un pagliericcio
dietro la schiena del timoniero.
Le galere turchesche avevano poi a poppa una comodità che mancava sia a quelle
veneziane che alle ponentine e cioè fissata sopra i sei o sette capi di travicelli, detti
catenelle in veneto e che sporgevano sotto ambedue i lati della poppa per un mezzo
braccio, avevano una tavola della loro stessa larghezza, le cui estremità destra andava a
fissarsi anche alle scalette d'accesso alla galera, queste peraltro mobili, formando così
attorno alla poppa un comodo corridore di balconata per chi volesse andare all'estrema
poppa senza infastidire gli ufficiali e i nobili che colà stazionavano. Questa loggia sarà più
tardi usata anche a ponente, specie nelle galere francesi post- rinascimentali, come si legge
nel trattato di Claudio Bartholomeo Morisoto (Orbis maritimi sive rerum in mari et littoribus
gestarum generalis historia, Digione, 1643), con il nome però appunto di gal(l)erie, nome
che farà fortuna anche nell'architettura di terra per indicare appunto le lunghe logge e in
seguito anche i corridoi. Adottata nel frattempo tale comodità anche dai vascelli tondi,
sebbene in versione per lo più coperta, sarà in quelli chiamata giardino, togliendo così un
poco usato nome a una zona dei remiggi della galera di cui poi diremo.
Altra scomodità delle galee veneziane, rispetto però stavolta a quelle di ponente, era il
portello della camera di poppa situato nel mezzo della poppa stessa, anche se fuori della
ruota, per cui, essendo esso quasi sempre aperto per le ricorrenti necessità, si rischiava
sempre che qualcuno vi cadesse dentro e inoltre non si poteva far dentro quella camera -
almeno nella parte vicina alla scala che vi scendeva - nulla che dall'alto la gente di poppa
non potesse osservare attraverso appunto detto portello; invece le galere ponentine lo
avevano spostato a sinistra, anche se dentro la predetta ruota. Bisogna però tener conto
che la camera di poppa delle galee veneziane era sempre ben fornita d'armi in asta da
potersi prendere così anche urgentemente, tanto da poter in tal modo armare dalle 60 alle
80 persone alla occorrenza, armi che invece nelle ponentine e nelle turchesche erano tenute
nello scandolaro, ma poche in quanto poche queste n’usavano, soprattutto le turche, e
usavano anche tenere quelle poche rinchiuse in certe casse riposte nella corsia. Il perché di
346
questa differenza sta nella circostanza che i galeotti della Serenissima, essendo in massima
parte volontari e non condannati, potevano in caso di necessità anche combattere e quindi
in tali casi c'era bisogno d’armare anche loro oltre i soldati di bordo; quest’impiego di
remiganti combattenti veniva da lontano nella storia ed infatti gli antichi greci avevano un
nome .particolare per loro, li chiamavano αὐτερέται; inoltre, per quanto riguarda i turchi, la
cui tattica di terra non prevedeva l'uso di fanterie ordinate, essi non erano usi alle armi
inastate, come nel 1560 confermava anche il già citato bailo Marino Cavalli:
... Hanno pochissime armi d'asta e quasi nessuna, se bene ora mostrano volerne avere più
che possono da mare e da terra, ma si risolvono alle freccie, all'archibugio e alla spada, le
quali tre cose maneggiano benissimo, e fino alla morte combattono come leoni. (E. Albéri.
Cit. S. III, v. I, p. 293.).
Le galee della Serenissima erano quasi tutte sottili, ossia a poppa stretta, come sappiamo,
mentre tra le ponentine se ne trovavano già parecchie bastardelle, quindi a poppa più larga,
a mo' di nave, il che rendeva queste più salde in navigazione specie col mare di poppa, cioè
quando si correva al dritto del mare come dicevano i veneziani; inoltre la poppa così
quartierata delle bastardelle era più spaziosa di sopra e di sotto, dove, volendo, si poteva
anche costruire un secondo camerino oltre lo studietto del comandante. Ancora dalla
suddetta relazione del Cavalli (1560) apprendiamo che i turchi preferivano le galere
bastardelle:
... Vogliono le galere allargate per mettervi sopra molti uomini da combattere, salvo che ne
hanno da quindici o venti stringate e tagliate per esser preste, si come porta il dovere,
perché tutte non vogliono esser grosse né tutte possono esser veloci. (Ib. P. 292.)
Mentre nelle galere di ponente il tendaletto della poppa era di dietro tenuto abbassato
strettamente, in quelle veneziane si era cominciato nel primo quarto del Cinquecento a fare
in modo che d'estate si potesse tenere sollevata di poppa a mezzo di due ferri lunghi bracci
1½ e posti ai due lati, in modo da far passare più aria e da conferire un aspetto più leggiadro
alla poppa.
La pavesata, ossia la cortina di tavole laterali poste una accanto all'altra su ognuno dei due
bordi laterali della galera, specie in corrispondenza del luogo del fogone e di quello dello
schifo, essendo questi i posti che in battaglia per lo più fungevano da corpi di guardia, era
una struttura mobile che serviva da parapetto per difendere soldati e vogatori dal fuoco
nemico ed era anche munita di feritore; era nelle galere di ponente molto alta e robusta, in
quanto di noce o talpone spesso quattro dita e alto sino al petto dell'uomo, mentre in quelle
veneziane erano di tavola sottile d'abete o di pioppo e non arrivavano che alla cintura, il che
347
... Non portano pavesate, ma tutte le galere son rase, e lo fanno perché dai nemici non
temono di freccie, dalle quali le pavesate li difendariano, ma ben di archibusi, al che quelle
non servono. Noi faremo in vero benissimo a portarne, ma saria bene che facilmente si
potessero levare e che noi usassimo anco degli archi, che sono ottimi e di poco intrigo. (Ib.)
Insomma, o si portavano pavesate leggere che servivano benissimo, ma per riparare dalle
sole frecce e per ostacolare la mira del nemico, e inoltre, appunto per la loro leggerezza,
erano facili da mettersi e da togliersi quando, acquisito vantaggio, si fosse voluto andare
all'arrembaggio, oppure si portavano quelle massicce usate dai ponentini, le quali
difendevano sì anche dai colpi d'archibugio, ma erano più difficili da maneggiarsi e molto
appesantivano la galera; in ogni caso ne l’une ne l’altre avrebbero comunque difeso dalle
potenti palle del moschetto da braccio. Si usavano quindi, come del resto anche le traverse,
ossia barricate, solo in occasione di combattimenti, ma alcuni capitani di galera non le
usavano mai perché ritenevano che appesantissero il vascello e ne ritardassero quindi il
corso e ciò sia che si andasse a remi sia a vela; in effetti si trattava invece d’utilissime
difese, anche perché, oltre a riparare, erano di molto impedimento al nemico che tentasse di
venire all'arrembaggio e l'unico vero difetto che avevano era che, quando si prueggiava,
offrivano resistenza al vento e ritardavano quindi il moto del vascello; ma di ciò non
sembravano preoccuparsi affatto i veneziani, perché essi spesso anche portavano queste
loro leggere impavesate addirittura fisse, cioè inchiodate ai filari; bisognava comunque che
fossero poste in maniera da non esser di molto impaccio anche agli stessi servizi di bordo
della galera, oltre che al nemico. Se comunque un capitano sceglieva di non portarle
temendo che appesantissero la sua galera, allora in caso di combattimento doveva usare
come impavesate da un lato la tenda d’albagio e dall’altro quella di canovaccio,
rinforzandole però con tutti i cappotti e le schiavine disponibili a bordo.
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sottigliezza delle pale faceva sì che i remi tirrenici fossero più leggeri e quindi affaticassero
di meno i galeotti; inoltre la sottigliezza rendeva questi attrezzi più flessibili e quindi più
duraturi perché si rompevano così più raramente, permettendo ai remieri ponentini di
piegarsi maggiormente all'indietro nella voga senza offrir loro troppa resistenza. I veneziani
usavano poi l'acero per fabbricarli, con gl'inconvenienti già detti più sopra. Anche alcuni dei
remi bizantini dovevano, perlomeno nell’Alto Medioevo, esser abbastanza leggeri, se, come
leggiamo nel Suida, si potevano all’occorrenza sostiituire con semplici ventilabri, ossia con
quelle pale che usavano i contadini per spagliare il grano:
… Avendo legato agli episcalmi molti ventilabri, presero a remare. (Πτύα ώς πλεῖστα ταῖς
ἐπισϰαλμίσιν ἐντροπωσάμενοι͵ ἢρεττον· Cit. Tomo I. P. 828.)
I remi a sensile delle triremi, chiamati a Venezia - dall'esterno all'interno - pianero, postizzo
e terzicio, nomi che per traslato prendevano anche i tre vogatori che li usavano, potevano
essere, per quanto riguarda la lunghezza, basati su due diverse concezioni. La prima, la
quale era la più generalmente accettata a Venezia perché si sosteneva che addirittura
raddoppiasse la velocità delle galee, voleva i tre remi di lunghezza rimarchevolmente
diversa e cioè il pianero di piedi 32 (m. 11,10), il postizzo di piedi 30,5 (m. 10,58) e il terzicio
di piedi 29,5 (m. 10,236). Questa soluzione faceva sì che le pale dei remi affondassero nel
mare in punti sensibilmente diversi, dando quindi, dalla punta della pala del pianero a quella
della pala del terzicio, una distanza in mare di poco meno di tre piedi. La seconda
concezione voleva invece i remi d'ugual lunghezza, per cui le punte delle pale predette
entravano in mere a una distanza di soli due piedi, distanza dovuta in questo caso alla sola
differente lontananza dei tre rematori dagli scalmi. In effetti fu proprio questo considerare la
maggior spinta che una più estesa azione dei tre remi nell'acqua conferiva alla galera che
produsse poi l'adozione del sistema di scaloccio, caratterizzato questo da una sola pala, ma
considerevolmente più estesa.
Le galee veneziane avevano l'albero di maestra più lungo e sottile e la relativa antenna (gr.
ϰεραία), anch'essa più sottile, lunga quanto la galera stessa; turchi e ponentini usavano
invece l'albero più grosso e più corto e la sua antenna lunga due volte l'albero. Il sistema
veneziano era migliore perché l'albero corto e grosso, a causa della sua grossezza, era
nella cima meno flessibile e quindi più pericoloso, perché pertanto più soggetto a rompersi
sotto l'urto d’un forte vento; questo difetto si esprimeva allora definendosi tali alberi
cimaruoli; inoltre questo secondo tipo d’albero rendeva più difficile la manovra del volger la
vela ora da un lato ora dall'altro, manovra detta fare il carro e, dai veneziani, gittar da
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brazzo, operazione comunque pericolosa per la stabilità della galera e che quindi alcuni
capitani vietavano ai loro còmiti.
Sia le galere di ponente che quelle della Serenissima avevano poi un altro disturbo alla
manovra di fare il carro e cioè la presenza sulla cima dell'albero d’una mezza gabbia
frontale chiamata, come già detto, gatto dai ponentini (sp. gata), attrezzo però utilissimo
nelle battaglie, come si vedrà; infatti il predetto bailo Marino Cavalli (1560) criticava i turchi
che non l'usavano:
... Non usano mezza gabbia, il che credo sia male perché due o tre uomini da alto possono
far gran male a quelli da basso. (Ib.)
Prima d’iniziare a parlare delle differenze di velatura, premettiamo che all'epoca delle galere
a sensile nella marineria a remi di ponente era ancora in uso una nomenclatura velica
tipicamente italiana, mentre più oltre nel Cinquecento, a causa delle sempre maggior
influenza della Spagna, verrà in uso appunto quella spagnola che abbiamo già dato. La
velatura delle galere a sensile ponentine era sostanzialmente migliore di quella in uso nelle
galee veneziane, perché le prime avevano vele praticamente per ogni condizione di tempo,
mentre le seconde n’usavano un numero minore; non solo, ma le vele veneziane erano
anche più piccole e quindi rendevano le galere adriatiche meno veloci di quelle tirreniche. Il
principale elemento di superiore ampiezza velica delle ponentine era la maggior lunghezza -
e quindi anche ampiezza - del poggiale delle vele, cioè di quella loro parte posteriore che,
sempre più restringendosi, formava quasi come una coda; il poggiale delle vele veneziane,
più corto e stretto, detto pertanto scannato a ponente, faceva ricevere a queste meno vento
e quindi rendeva quelle galere più tarde. Inoltre le vele ponentine avevano anche qualche
ferza (‘telo’) di più sia delle veneziane che delle turche, la cui ampiezza invece si equivaleva.
Per quanto riguarda l'albero principale, poi detto maestro, i ponentini usavano una vela
maggiore detta l'artimone e larga ferze 60, mentre quella maggiore dei turchi e dei
veneziani era invece larga solo 52 (il che quanto alla velocità importi non è da dimandare.
C. da Canal. Cit. P. 83). Quando i venti si rinforzavano i ponentini sostituivano
all'artimone una vela più piccola detta il Lupo, la quale era di di ferze 54 e e poteva
essere tinta di nero, se da usare in ogni caso di notte allo scopo di non farsi vedere dal
nemico; quando però i venti si facevano addirittura impetuosi, allora usavano quella
detta la borda, larga ferze 32. Avevano dunque una vela per ogni qualità di vento, mentre
i veneziani, oltre a quella maggiore già detta e che anch'essi chiamavano artimone,
n’avevano un’altra sola di ferze 36 e detta il terzaruolo, la quale adoperavano sia nei
maggiori sia nei minori fortunali. Le galere a sensile avevano poi già anche loro l'albero
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concepite dal preclaro architetto veneziano Fausto (le quali sono di giusta e perfetta misura
e possono sicuramente portare ogni sorte di vele) (Cit. P. 84.)
Quando tratta delle partizioni interne dello scafo il da Canal diventa poco chiaro e si limita
ad affermare anche qui che il sistema ponentino era migliore, avendo meno partitori, ossia
meno divisioni, di quello veneziano; egli scriveva cioè che le galere di ponente avevano,
escludendo dal discorso quelli estremi di poppa e di prua, solo altri due camerini o ghiave o
ghiavi (vn. gaete (‘gavette’), dal l. cavus e da cui più tardi gavoni), di cui uno era il luogo in
cui albergava lo scrivano di bordo e vi si teneva il pane, la polvere e le palle d'artiglieria, le
saette e tutte le altre munizioni della galera, quindi all’incirca il locale che abbiamo chiamato
pagliolo, ma questo tenere pane e polveri nello stesso locale non risulterà più, almeno per
quanto riguarda le galere di ponente, nella seconda metà del secolo, mentre, come sembra
di capire dalla relazione di Lepanto del Contarini, forse sarà ancora usato nelle veneziane;
l'altro camerino serviva da cantina (vn. caneva) , quindi quello che diremo compagna, e vi si
conservavano gli strumenti della cucina e vi abitavano il cuciniero (l. coquinator; gr.
ἐσχᾰρεύς, παρεσϰαρίτης)) e il bottigliero (vn. canevaro; fr. barillard); probabilmente il
secondo era colui che sarà poi chiamato scalco, ossia mozzo della compagna, del quale
diremo. Tutto il resto della galera verso prua era libero e spazioso a guisa d’una sala
comune a tutti, dove si potevano conservare, oltre al materiale velico e alle gomene, grandi
quantità di vettovaglie o tenervi gran numero di soldati con una certa comodità e inoltre
gl'infermi e i feriti. Insomma; la ripartizione del carico di cose e persone risulterebbe da
questa descrizione diversa da quella che abbiamo già vista in dettaglio a proposito delle
galere ponentine a scaloccio della fine dello stesso secolo.
La fune grossa due dita e detta mezzanino (o anche borosa a Venezia), la quale correva,
come già sappiamo, tesa su tutta la corsia per reggervi infatti nel mezzo la grande tenda,
era, sulle galee veneziane e turche, retta a sua volta da puntali larghi quattro dita e lunghi 13
o poco più, i quali, puntati sulla corsia e per tutta la lunghezza d’essa, avevano all'estremità
superiore un’immorsatura puntata contro il mezzanino e in tal modo lo puntellavano;
appese al mezzanino medesimo c'erano poi delle funi più sottili a tre braccia di distanza
l'una dall'altra, le quali, tesate trasversalmente, andavano legate intorno alla pertichetta
superiore di sostegno delle due pavesate laterali. Questa era la struttura su cui si adagiava,
per così dire, la tenda; ma le predette funi laterali (vn. rigami) costituivano un insieme
abbastanza molle, non permettendo così di tener la tenda sufficientemente tesata, e quindi
questa faceva spesso e in più luoghi sacco, come allora si diceva; inoltre i puntali, posti
com'erano nel mezzo della corsia, impedivano molto il percorrerla agevolmente e infine,
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poiché erano molto mal fissati, bastava un piccolo alito di vento perché una buona metà
d’essi cadesse, andando così a volte a colpire e ferire i sottostanti galeotti seduti sui loro
banchi.
Nel sistema in uso nelle galere di ponente mancavano i puntali di corsia e si usavano
invece, oltre ai rigami, dei puntali assai più leggeri e lunghi, i quali, provvisti d'immorsatura
ad ambedue le estremità, andavano dal mezzanino alla pertichetta inferiore della pavesata
(e talvolta invece sino alla posticcia), dove anche s’immorsavano. Sul mezzanino poi ogni
puntale s’immorsava contro un’altro proveniente dalla pavesata del lato opposto della
galera e, tra un puntale e l'altro, c'erano i rigami a ulteriore supporto della tenda. Questa
struttura sosteneva la tenda più alta e assolutamente molto più tesa di quella veneziana e
rendeva le galere di ponente più spaziose e ordinate in coperta, facendole inoltre esser
dall'esterno incomparabilmente più belle e anche sembrar più grandi e larghe di quelle
levantine. Questo modo ponentino era detto portar la tenda puntellata in cavra e si
trasformerà poi al tempo delle galere a scaloccio, come già sappiamo, in un puntellamento
con vere e proprie capre di sostegno.
Per ciò che concerne i tendali della poppa, le differenze, in verità non di molta importanza
rispetto alla comodità e al vantaggio, erano però tante, a seconda del parere, del gusto
personale e del senso dell'apparenza dei singoli sovraccòmiti e quindi il da Canal non
ritiene opportuno trattarne.
Diversa era la disposizione del fogone e del barcariggio nelle galere di Venezia rispetto a
quella in uso nelle ponentine e anche in molte delle turche, disposizione che, per quanto
riguarda le veneziane, il da Canal non spiega ritenendola evidentemente notoria, mentre
elogia quella delle seconde, dove, come abbiamo già detto, il fogone è su lato sinistro e il
barcariggio su quello destro, ma in maniera che i due luoghi potevano essere
interscambiabili e lo schifo poteva così esser varato e ritirato a bordo sia dalla destra sia
dalla sinistra a seconda dell'esigenze del momento; evidentemente nelle galere della
Serenissima questa intercambiabilità non era predisposta e quindi possibile. Il da Canal
esprime le sue idee anche sull'uso delle bandiere ai suoi tempi, diverso da quanto abbiamo
già visto per le galere di fine secolo; egli ne voleva molte altre oltre alle necessarie (perché
le bandiere porgono alle galere non so che di magnificenza e terribilità) e quindi voleva
bandiere alla gabbia, ai due capi dell'antenna e in genere per ogni dove sulla galera, diverse
e di varia forma a seconda del luogo; ma, quando si combatteva, la bandiera doveva esser
una e posta sul capomartino, come usavano le galee veneziane e turche. In tal modo si
doveva a bordo difendere una sola bandiera, la quale inoltre - stando per così dire al centro
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della galera - prima d'esser conquistata dal nemico, questi doveva, se assaltava da prua, far
molta strada combattendo prima di raggiungerla e, se da dietro, doveva prima conquistar
tutta la poppa; ma il da Canal non spiega perché non prevedeva assalti laterali. Quando poi
la bandiera venisse abbattuta da un colpo d'artiglieria, cadeva nella galera e non in mare,
come facevano invece le due portate in battaglia dai ponentini e tutti sanno come perdere la
bandiera significasse per lo più perdere la stessa galera, la quale non si trovava così più ad
avere quel simbolo aggregatore di tutte le sue forze. I ponentini, poiché, oltre al capitano di
galera, avevano conservato l’uso medievale di tenere in servizio a bordo anche un ufficiale
comandante dei soldati e dell’armamento da guerra (ltm. armiregius), cioè quello che nelle
città si chiamava capitano a guerra); portavano infatti due bandiere, una sulla pertichetta
della spalla destra e l'altra accanto alle sbarre di prua, luoghi in cui il nemico poteva
facilmente o conquistarle o farle precipitare in mare e in ogni caso bisognava che ne
difendessero due invece d'una sola.
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Capitolo VII.
LA GENTE DI REMO.
Abbiamo ritenuto, dovendosi ora parlare della gente di galera del periodo che
principalmente trattiamo e cioè della fine del Cinquecento, d’incominciare dai remiganti o
remieri perché senza dubbio la realtà umana più tragica e interessante presente su quei
tristi vascelli; il nome, come già detto, era in origine chiurma (l. turma; vn. zurma), da cui lo
sp. chiusma, ed ecco da dove verrà poi l’espressione schiuma dei mari, con riferimento ai
pirati), pronunciato però alla spagnola. Cominceremo dalle ciurme delle galere di ponente,
ossia del Mar Tirreno, le quali si componevano di tre ordini di persone, gli sforzati (‘forzati’),
gli schiavi, cioè i mussulmani catturati e le buonevoglie, vale a dire i volontari, e ogni ordine
si distingueva dagli altri per una rasatura particolare, come vedremo.
Gli sforzati (fr. forsaires) erano la gran maggioranza dei remieri ponentini e si trattava di
quei popolari o civili – i nobili erano infatti esenti dalla poena remigationis - che erano stati
condannati a vogare in galera a tempo limitato o a vita, a seconda della gravità dei crimini
commessi, e non si lasciavano mai uscire dalla galera né dalla catena che li teneva avvinti
in nessuna occasione che non fosse una delle poche che poi diremo e ciò finché non fosse
finito il tempo della loro condanna; il loro compito era, molto più che vogare, eseguire tutti i
lavori pesanti necessari alla galera e inoltre cucire le vele, le tende e i vestiti di tutta la
ciurma; si distinguevano dagli altri galeotti per portare il capo e il viso completamente rasi.
Avevano per vitto, scriveva il Pantera, 30 once il giorno di biscotto, cioè di galletta, ma 26
secondo Mateo Alemán nel suo Guzmán (Guzmán de Alfarache, Madrid, 1926) e 36 ai
remiganti francesi nel 1630 secondo il de la Gravière, il quale cita le memorie del
viaggiatore parigino Jean-Jacques Bouchard, il quale usufruiva d’un passaggio di galera
per andare da Parigi a Roma appunto in quell'anno; inoltre ricevevano acqua e minestra, ma
quest'ultima, servita nella gavetta (‘scodella, tafferìa’; vn. vernicale; fr. e ts. gamelle; ol. bak,
schotel), vale a dire in una scodella di legno, fonda e senza bordo, si dava solo quando si
stava in porto o perlomeno all’ancora e, per precisare, tutti i giorni durante la stagione
buona, in cui si poteva uscire a navigare, e un giorno sì e uno no quando in porto ci si
trovava invece per sciovernare (‘svernare’); ciò perché quando non si usciva in mare si
aveva ovviamente bisogno d’un minor numero di calorie e si era notato che, nonostante il
gran freddo che d'inverno si poteva patire sotto la tenda di galera, se mangiavano minestra
tutti i giorni, i galeotti in quella stagione, a causa della forzata inattività, ingrassavano.
Perché poi la minestra si desse solo quando si stava in porto e mai in navigazione,
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La minestra è di tre oncie di fava, condita con un quarto d'oncia d'oglio per ciascuna testa,
e non si da quando si naviga, perché non aggravi la ciurma in tempo che deve essere
agilissima e più atta alla fatica e perché, mentre si camina, non si può far bene la cucina in
galea. (L’armata navale etc. Cit.)
Insomma anche una semplice scodella di fave condite con l’olio si pensava facesse troppo
appesantire i poveri remiganti, i quali si riteneva dovessero essere mantenuti fisicamente il
più asciutti possibile; probabilmente si temeva anche che avessero in navigazione deiezioni
troppo frequenti e fetide. In effetti quando la galera in navigazione faceva sosta in qualche
cala o spiaggia per la spalmatura, ossia per il carenamento, o per altro, si sarebbe dovuto
approfittarne per dare minestra alla ciurma, ma capitava non infrequentemente che il
padrone, volendo risparmiarla, allegasse mancanza d’acqua per prepararla. Le galere che
andavano in corso, poiché dovevano toccar terra il meno possibile come poi spiegheremo,
facevano provvista soprattutto di biscotto, olio e aceto, ma portavano ben poco d’altri
alimenti, quali per esempio cacio e legumi; questi ultimi si potevano infatti cucinare solo in
qualche sporadica occasione, cioè nel caso ci si dovesse fermare necessariamente in
qualche isola deserta.
Ai tempi aragonesi del regno di Napoli ci si preoccupava particolarmente delle forniture di
biscotto alle galere della potente regia armata di mare, allora sotto il comando del capitano
generale Galcerán de Requesens conte di Trivento, ed, essendo diverse di queste poste a
guardia anche di marine di stati italiani alleati, si cercava di costituire depositi di derrate
alimentari appunto anche in città costiere estere. Per esempio, con due dispacci reali del 16
marzo 1467 si richiamava a Napoli il grosso di detta armata napoletana, il quale allora si
trovava in missione nell’Alto Tirreno, eccettuate due galere che dovevano restare a
sorvegliare le marine liguri e cioè quella armata dal nobile Bertoldo Carrafa e quella
patroneata, ossia comandata, dal catalano Simonot de Belprat, e si informava il predetto
capitano generale che a Livorno avrebbe trovato un deposito di biscotto di rifornimento
inviato da Napoli ed affidato ad un depositario in quel porto all’uopo appena nominato:
… et ad sua cautela farrite che, del biscocto assignarà ad qualsevole de le nostre galee,
recuperarà apodixa (‘ricevuta’) del padrone che menarà quella galea a la quale assignarà lo
biscocto (Francesco Trinchera, Codice aragonese o sia lettere regie, ordinamenti ecc. Vol. I,
p. 83. Napoli 1866).
357
La minestra di fave, anche se diffusissima, non era però considerata quella nutritivamente
più appropriata; ecco infatti cosa ne aveva scritto ai suoi tempi il da Canal:
... vorrei che ai miei galeotti fossero dati ogni giorno due sorti di minestra, cioè riso e cece,
variandone or l'una or l'altra e lasciandone fuora la fava come cibo che gonfia e fà gli
uomini di soverchio pesanti e grassi. (Cit. P. 165.)
E con ciò questo gran capitano di mare chiedeva di prendere esempio dalle galere
ponentine che usavano invece allora principalmente la minestra di riso:
... Dico dunque che si osservano diversi modi tra tutte le armate percioché le galee di
ponente usano di dare rare volte ai loro sforzati minestra e quelle pochissime che loro ne
danno elle sono ordinariamente di riso; quanto al pane (‘biscotto’) lo compartono loro
largamente in modo che non ne hanno disagio. É vero che in capo di otto o dieci giorni,
quando eglino affaticati non sono, loro concedono una minestra di herbette la quale ha virtù
di fare purgare i loro corpi, percioché nei tempi che non si affaticano nel remeggiare, non
potendo fare essercizio alcuno, essendo loro tolta la facoltà di partirsi dai loro banchi,
avviene che essi non possono far la digestione che si conviene, onde nasce loro doglie
molte volte e di ventre e di capo grandissime.
Sogliono anco, quando essi hanno sostenuta qualche grave fatica, dar loro della carne e
alcuna volta eziandio del vino, ma questo mal volentieri e quasi non mai per rispetto che
essi, non essendo avvezzi al vino, s’imbriacano sconciamente. (ib. P. 164.)
Le buonevoglie delle galere ponentine, le quali non avevano questo problema della
stitichezza in quanto, come sappiamo, quando non vogavano, era loro permesso di
girarsene sferrati per la galera proprio come lo era a quelle di Venezia, vivevano di quello
che compravano alla taverna della loro galera con i danari della loro paga, eccetto il pane
biscotto perché lo ricevevano di munizione come gli altri galeotti. I remieri delle galere
turche e more erano i peggio trattati; di riso era la zuppa che essi ricevevano, in quanto tale
alimento era quello più solito e tradizionale nell'impero ottomano, ma, come anche diremo
altrove, tale minestra era loro data molto raramente e dovevano in genere accontentarsi del
solo biscotto; questo era trattato al momento di mangiarlo con brodaglie ammorbidenti
dagli stessi remieri, ma nell’antichità greca invece preventivamente da mozzi chiamati per
l’appunto ‘ammorbiditori’ (μαλατήρες), ed era sui vascelli barbareschi spesso non di
frumento, bensì d’orzo, ma anche e per lo più integrato da olive nere, aceto e fichi secchi,
mentre privatamente si potevano portare a bordo anche riso e cuscus. Nell’antichità il
biscotto ra stato fatto generalmente di farro, tant’è vero che è da questo nome che appunto
deriva quello di ‘farina’; il grano era stato in quei tempi roba da ricchi e da dissoluti, come
sembra capirsi da una citazione di Marco Terenzio Varrone (116 a.C.– 27 a:C) che fa il
358
Nonio, attribuendo al termine nefarii (‘coloro che non mangiano il farro’) il significato
addirittura di ‘scellerati’ (cit. P. 79).
Che il biscotto sia rimasto comunque per molti secoli universalmente l’alimento nautico
primario, sia perché sufficientemente calorico sia perché di facile e lunga conservazione,
bastando far attenzione a preservarlo da umidità e da parassiti, lo attesta anche il vecchio
proverbio genovese No bezeugna imbarcâse senza bescheutto (M. Staglieno, Proverbi
genovesi etc. Genova, 1869) corrispondente all’it. Senza biscotto non far fagotto, per dire
che non bisogna darsi ad alcuna impresa senza il necessario per condurla a termine.
... Gli sforzati delle galee di Levante rare volte hanno dalli loro capi minestra e l'ordinario
loro è solo il pane, il quale è anchor loro dato a misura e parcamente. (ib.)
In verità i remieri delle galere turche, schiavi cristiani a parte, non erano in maggior parte
dei veri e propri sforzati, come il da Canal qui impropriamente li definisce, bensì
buonevoglie con regolare soldo, reclutate però in gran parte con metodi forzosi; per quanto
riguarda l'alimentazione della gente di galera turca, leggiamo però anche il bailo Marino
Cavalli, il quale nel 1560 la spiegava in maniera più esauriente:
... Governan gli uomini con gran diligenza e non li lasciano mangiar frutti né salumi, perché
bisogneria bere e, bevendo acqua, si ammalariano presto. Il biscotto, l'aceto e l'olio, cipolle,
agli e qualche fiata pesce è il loro passatempo (‘la loro tavola’); e, per la tavola de' scapoli,
mele, riso, butirro, olio, aceto e lente con poco altro più; ma gli agli e le cipolle sono il loro
vero companatico. Così si mantengono più (esenti) dalle malattie, se bene vanno in
diversissime regioni, e son più gagliardi; né mettono scala in terra. Nelle quali due cose
vorrei che li imitassimo volentieri e in non mettere tanto studio in delicate vivande e
banchetti, come si fà, né in tante pompe di vestimenti e d'argenti, che certo ho veduto farsi
tali cose in galee nostre che a pasti di nozze saria troppo. (E. Albéri. Cit. S. III, v. I, p. 294.)
Il suddetto termine scap(p)oli (dal l. copula, ‘laccio, vincolo, fune, guinzaglio, ceppo,
catena’; quindi con il significato di ex-copulis, ‘fuori dai vincoli’) era molto usato a indicare
la gente di galera libera di muoversi, quindi la marinaresca, i bassi ufficiali e i soldati, per
distinguerla da quella incatenata o comunque anche solo vincolata alla voga, non
includendosi quindi in essa i buonavoglia, anche se quelli delle galee veneziane, a
differenza dei ponentini, vogavano liberi da catene; lo stesso senso di scapoli aveva il
greco ἐπιβάται, ma il Suida lo attribuisce sia ai marinai sia ai soldati della guarnigione di
bordo (cit. Tomo I. P. 802). In realtà, il termine ci lascia capire che in origine i marinari di
galera erano correntemente scelti tra quei remieri che, quando non impegnati nella voga,
più avevano dimostrato impegno nei diversi lavori di bordo, specie in quelli della manovra
359
dell’antenna e delle vele, ed ecco perché ex-copulis, cioè ‘svincolati dai cappi, dalle
catene”.
Tornando ora però all’alimentazione dei galeotti, l'ironia della sorte volle che poi a ponente,
nella seconda metà di quel secolo, si abbandonasse il riso e si adottasse la pietanza di fave
come minestra unica; né Venezia la dismise, anzi, nonostante la suddetta autorevole
opinione contraria espressa dal da Canal, nel biennio 1556-1557 s’accaparrò ingenti
importazioni di fave dall’Egitto e non lo fece certo perché tanta ne fosse la richiesta dei sui
mercati! Certo la fava era un cibo allora molto economico e quindi più conveniente, tant'è
vero che a Napoli, per significare che si andava a lavorare a giornata senza remunerazione
pecuniaria ma con il solo compenso di pasti caldi, uso purtroppo ancora comunissimo
nell’Italia meridionale al tempo della seconda guerra mondiale, si diceva con antico motto
che lo si faceva Pe' na magnata 'e fave; inoltre, ad attestare lo stretto legame che c'era tra la
navigazione e questo legume, citeremo un altro antico detto, anche questo napoletano, che
si usava quando si voleva dire che tutto procedeva regolarmente e cioè La varca cammina e
la fava se coce (G. Marulli – V. Livigni, Guida pratica del dialetto napolitano ecc. Napoli,
1877). Si dava comunque, in alternativa a quella di fave, anche la zuppa di biscotto intero o,
essendo esaurito a bordo questo, di mazzamurro (dal gr. μᾶζα, ‘focaccia’, e μόρια,
‘frammenti, pezzetti’) [vn. frixopo, poi frisop(p)o; fr. mache(-)moure, grignon; ol.
kruimelingen], ossia di piccoli rottami e briciole di biscotto, come si legge nel Guzmán di
Mateo Alemán e nello stesso da Canal laddove descrive la dieta dei remieri della
Serenissima:
... Ma noi costumiamo dar alle nostre ciurme ogni mattina una sorte di minestra che per lo
più è fava e la sera un vernicale (‘gavetta’) di biscotto cotto con l'olio ed onze 17 di pane per
ciascuno. Diamo loro eziandio moltissime volte - quando essi hanno lunga pezza e con
molta forza vogato od in qualunque altro modo si sono affaticati - del vino; ma questo è
dono della liberalità del capitano e sopra còmito delle galee. Né altro ai nostri galeotti per
noi si suol dare. (Cit. P. 165.)
Il Mutinelli (Fabio Mutinelli, Lessico veneto etc. Venezia, 1852) ci spiega che a Venezia si
soleva chiamare anche frisopin chi serviva in galea, perché gente abituata a mangiare anche
le zuppe di frisoppo, e frisopine le loro vedove o orfane alle quali si riconosceva il diritto di
riceverne a titolo di vitalizio (Cit. P. 171). Nel Seicento un’ordinanza del re di Francia
destinata ai suoi vascelli stabilirà che sarebbero stati da considerarsi mazzamurro – e quindi
non utilizzabili per le razioni ordinarie - solo i frammenti di galletta più piccoli d’una nocciola
e ciò evidentemente a evitare ulteriori contestazioni in materia. C’è da considerare che,
360
... E fui anche in un armata n cui non si davano se non nove once a ciascuno dei predetti,
ma quello è il limite massimo; però, venendone meno la necessità, il luogo e il tempo, ci sia
o in denaro in altre cose dai patroni la restituzione ai suddetti uomini della detta gente,
quantunque i detti uomini dal loro stipendio comprino a luogo e tempo vino e vitto come ad
essi sembri e piaccia, (cioè) a loro libera discrezione, mentre che accedono in un luogo in
cui possano ottenere le cose suddette (Et etiam ego fui in armata in qua non dabantur nisi
novem unciæ cuilibet prædictorum, sed illud est ultimum extremorum, sed cessante
necessitate, loco & tempore, sit vel de denariis vel de aliis rebus a dominis restitutio
supradictis hominibus dictæ gentis: quanquam dicti homines ex proprio stipendio emant
loco et tempore vinum & vičtum ut eis videtur & placet, ad suum libitum voluntatis, dum
accedunt ad locum in quo possunt recipere supradicta (Cit. P. 64).
Non potevano ovviamente i galeotti scendere a terra e comprare nelle botteghe del luogo
ma potevano farlo alla taverna di bordo, quando questa fosse stata rifornita dei cibi usali. I
predetti quantitativi di biscotto di regola nel Medioevo risultano ancora proporzionati
persino a quanto parecchi secoli dopo l’Aubin ci dirà distribuito al suo tempo, a norma della
grande ordinanza di marina del 1689, a marinai e soldati dei vascelli da guerra francesi, i
quali riceveranno infatti allora sì 18 once di biscotto per uno al giorno, ma si tratterà d’once
non solo transalpine, ma anche del già ricordato poids de marc, quindi in sostanza d’un
quantitativo di biscotto parecchio inferiore a quello delle dette 17 once veneziane; questo
361
perché la fatica fisica pur certamente rilevante dei marinai non era da paragonarsi a quella
dei condannati alla galera e quindi la razione (fr. lot) di questi doveva essere per forza di
cose molto più generosa; vero è che i francesi risulteranno ricevere pure ¾ di pinta - misura
di Parigi - di vino allungato con altrettanto d’acqua, rinfresco giornaliero che ai disgraziati
remieri di galera si dava solo saltuariamente (un secolo dopo la razione francese giornaliera
di vino sarà detta canade chez les portugais e corrisponderà a un trecentesimo di pipa).
Inoltre, per amor di completezza, aggiungeremo che anche il companatico settimanale
d’ordinanza dei predetti marinai e soldati sarà invidiabile, trattandosi infatti di 4 portate di
carne, 3 di pesce e 7 di legumi, ed eccone anche il dettaglio, dovendosi però tener presente
che i seguenti quantitativi di cibo sono non a uomo, bensì a tavolata da sette uomini,
suddivisione che appunto si userà a quel tempo a bordo dei vascelli francesi da guerra:
Mentre l’Aubin nulla qui aggiunge a proposito del déjeuner, il quale certamente sulle navi da
guerra francesi non mancava, precisa però che tra un pasto e l’altro era servito a quella
parte dell’equipaggio impegnato nel quarto di guardia la già ricordata bevanda d’acqua e
aceto, che gli ufficiali avevano una razione e mezza e che la razione era a tutti raddoppiata
in occasione di festeggiamenti. Nel 1673 si era anche provato in Francia a far fare alle
galere una campagna senza fogoni e ciò per evitare il grande ingombro della legna, del
carbone e dell’acqua che nel loro uso si consumavano, ma questo esperimento non deve
aver avuto alcun successo perché non risulta ripetuto negli anni successivi.
Se poi, invece di andare avanti, volessimo andare indietro nel tempo, potremmo
innanzitutto menzionare l’ordine che nel 1269 Carlo I d’Angiò inviò al governatore delle
Puglie, nel quale, tra l’altro, si istruiva di far affluire a Barletta milleduecento salme di
frumento per l’approntamento della panatica, cioè del biscotto necessario al consumo
dell’armata che si stava allora appunto in Puglia formando per l’impresa di Sicilia (cit.)
Dovremmo inoltre ricordare che il codice di diritto mercantile marittimo che s’osservava nei
mari dell’Europa settentrionale durante il Basso Medievo e che trovò espressione in vari
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tempi e in vari luoghi (Oléron in Francia, Damme in Fiandra, Wisby in Götaland) ci fa sapere,
a proposito dell’alimentazione marittima, una curiosità e cioè che in quei secoli i marinai
francesi della Bretagna avevano diritto a un solo pasto al giorno di munizione, essendo il
costo degli altri da detrarsi dal loro soldo, e a bere vino, mentre quelli della Normandia a
due pasti al giorno perché bevevano solo acqua, e questo è in effetti uno di quei rari segni
storici che, se fossero i soli, deporrebbero per un origine non franca dei normanni; ancora
nel Basso Medioevo, ma stavolta nel Mediterraneo, il già citato Consolato del Mare così
disponeva all’art. C:
… Ancora, è tenuto il comandante della nave o del legno, che sia (però) coperto, a dar da
mangiare a tutti i marinai tre giorni alla settimana carne, cioè la domenica, il martedì ed il
giovedì, e negli altri giorni della settimana zuppa (‘cuynat, cucinato’), e ogni sera di ciascun
giorno companatico e tre volte ogni mattina deve far dispensare del vino e altrettanto deve
fare ogni sera; ed il companatico deve esser come segue, cioè formaggio o cipolle o
sardine od altro pesce.
Ancora, il comandante è tenuto a dispensare vino dal costo contenuto nei tre bisanti e
mezzo; e se trova zibibbo (‘uva passa’) od anche fichi, ne deve far vino; e, se non trova
zibibbo né fichi oppure gli costano più di 30 migliaresi la migliera, il comandante della nave
o del legno non è tenuto a dispensare vino. Inoltre, è tenuto il comandante della nave o del
legnosi raddoppiare la razione (di vino) ai detti marinai alle feste solenni. Ancora, deve
haver servigiali che preparino da mangiare ai marinai. (Pardessus. Cit.).
Anche se chiaramente nomi derivati dal numero mille, non siamo purtroppo in grado di
spiegare che moneta fossero i ‘migliaresi’ e che unità di capacità la ‘migliera’, anche perché
sappiamo che a quei tempi la marineria catalana usava generalmente la livra catalana,
suddivisa in sous (‘soldi’), nei mari di ponente e il besant bizantino in quelli di levante,
valendo il besant tre soldi e quattro denari barcellonesi. A proposito degli ordinamenti
catalani, la già citata ordinanza per l’armata navale del 1354 comminava sanzioni penali a
quei galeotti che frodassero sulle paghe o sui senyals de taula (oggi diremmo ‘buoni
pasto’), facendosene assegnare di non dovuti approfittando della molteplicità delle mesas
de alistamiento (‘banchi di arruolamento’), varie essendo le basi navali della Corona
aragonese, la cui armata era infatti suddivisa tra i porti di Barcellona, Valencia e Maiorca
(Cit. Pp. 90-91).
Nel suo già più volte citato Liber secretorum fidelium Crucis etc. (1321-1323) Marino Sanuto
il Vecchio ci descrive quale era l’alimentazione ottimale da riservare agli uomini di galea e
d’armata di mare in generale, alimentazione valida per tutti perché, come già sappiamo, i
remiganti veneziani erano di regola buonevoglie e quindi non ricevevano razioni di cibo
differenti da quelle elargite a tutti gli altri uomini di bordo. Il Sanuto quindi prescriveva per
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ciascuno al giorno una libbra e mezza di pan biscotto, una misura di vino, essendo la
misura vebeziana la quarta parte di una libbra, un’oncia di formaggio e fave o altro legume
nella misura, sempre giornaliera, di un quarantesimo di quartarola veneziana, cioè
all’incirca un quarto di kilogrammo; inoltre 3 libbre e tre oncie di carne porcina salata, ma
questa solo ogni 30 giorni.
Sempre in materia di cibo, saltando però ora di due secoli al 1530, leggiamo la traduzione
dell’art. IX del regolamento emesso quell’anno dalla Lega anseatica, trattandosi quindi di
alimentazione di marittimi oceanici
Item. Ogni padrone dovrà, secondo le antiche usanze, nutrire la gente del suo equipaggio a
bordo della nave e darle nei giorni grassi, come cibo bollito, del lardo e dei piselli od altri
cibi e della carne di bue; nei giorni magri, della semola, dei fagioli, dei piselli od altri cibi
bolliti e due sorte di pesce salato, come aringhe, merluzzi o merluzzo fresco. (Ib.)
Ma andando ancora più avanti, cioè tornando all’epoca che soprattutto ci occupa e cioè a
quella che segue immediatamente il Rinascimento, è interessante quanto scriveva il già più
volte citato Bonrizzo al suo senato in data 21 gennaio 1572:
In Francia la carne di bue si salava invece comunemente e, perlomeno ancora all’inizio del
Seicento, era considerata in quel paese gustosa solo se condita con moûtarde, ma
riteniamo che questo deperibile e non economico condimento non fosse di corrente
disponibilità nelle cambuse e che quindi anche a bordo dei vascelli francesi come su quelli
delle altre nazioni la carne salata si mangiasse insaporita dal suo proprio brodo.
Nella marineria olandese, sia commerciale che bellica, della seconda metà del Seicento
troveremo invece come pietanza ordinaria la minestra di frumento decorticato (ol. grutte), la
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quale nella maggior parte dei vascelli era servita all’equipaggio come antipasto anche 21
volte alla settimana, in sostanza od ognuno dei tre pasti giornalieri nessuno escluso,
perché le si attribuiva un benefico effetto rinfrescante. Il frumento andava, come il biscotto,
preso ben secco e inoltre ben chiuso nei barili; una volta però che tali barili erano stati
aperti la prima volta, a evitare che si guastasse bisognava sovente rimuoverlo e fargli
prendere aria, perché in tal modo evaporasse la pericolosa umidità che inevitabilmente a
bordo vi si andava a depositare.
In quattro giorni fissi dell'anno la ciurma aveva una razione di carne e di vino e cioè il
giorno di Natale, quello di Pasqua, alla Pentecoste e a Carnevale; la birra e il sidro erano
bevande d’uso comune nella navigazione oceanica, ma non in quella mediterranea. La
buona conservazione degli alimenti, affinché cioè andassero a male il più tardi possibile, ra
una delle principali preoccupazioni d’un capitano di galera; per quanto riguarda l’acqua, si
credeva che quella portata dai ruscelli che discendevano da Settentrione si conservasse
buona più a lungo delle altre e in secondo luogo era stimata quella proveniente da Ponente.
I vestiti della ciurma erano anch'essi di munizione, ossia forniti uniformemente dal sovrano
o dal privato proprietario della galera, e a ogni vogatore si davano due camicie, due paia di
calzoni di tela, i quali, piùche calzoni, dovevano essere per comodità dei pantaloni; una
camiciola, ossia una giubba [dal ltm. zup(p)a; sp. chupa) di panno lunga sino al ginocchio e
per lo più di color rosso, sempre per la già ricordata funzione di nascondere il sangue a cui
questo colore ben assolveva, ma a volte d'altro colore uniforme scelto per quella singola
galera; un berrettino di lana rossa e un gabbano o cappotto d'albagio con cappuccio e
lungo sino ai piedi; d'inverno si aggiungeva un paio di calzettoni pure d'albagio, panno di
lana scuro grossolano riservato infatti al vestiario dei poveri e che in francese si diceva
bureau:
Questo vecchio detto cinquecentesco francese significava che l’amore colpisce egualmente
sia i poveri, vestiti di bureau, sia i ricchi, vestiti appunto allora, come anche gli spagnoli,
generalmente di brunette, cioè di panno di lana fine tendente al nero. Per quanto riguarda le
camiciole rosse dei remiganti forzati, si ricorda l’antico proverbio veneziano Pitosto velada
rossa da ludro che velada verde da disparà; cioè, ‘meglio esser ladri che pezzenti’.
Il Vecellio, nella sua famosa opera sulle fogge di vestiario civile e militare, lavoro dalle belle
e interessantissime illustrazioni, ma dalle didascalie non esenti da imprecisioni, così spiega
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sommariamente la figura che mostra molto chiaramente l’abbigliamento degli schiavi e dei
forzati remiganti:
… Si radono le teste e le barbe tutte da’ mustacchi in fuora e mettono loro una grossa
camicia e una camiciola di griso con un tabarro del medesimo lungo sino a mezza gamba, il
quale ha un cappuccio di dietro a guisa di quelli de’ frati. In testa gli pongono un berrettino
rosso e gli danno un passo di corda da cingersi esso gabbano… (Cit. P. 136. Venzia, 1598.)
Bartolomé José Gallardo (Ensayo, Ensayo de una biblioteca española de libros raros y
curiosos etc. T. I, c.1368. Madrid, 1863) riportava, a proposito del vestiario dei remieri, i
seguenti inediti versi del sec. XVI da lui ritrovati:
Questo tipo di vestiario era generalizzato su tutte le galere sforzate, cioè con vogatori
forzati, d'ogni nazionalità esse fossero, specie però di ponente; ma, a quanto si legge nel
Guzmán dell'Alemán, poteva esserci qualche eccezione; infatti Guzmán, ora forzato di
galera, riceve dal patrone della galera, ossia da un ufficiale di bordo che poi vedremo, il raro
privilegio non solo di poter fare, come tavernaro, un piccolo commercio di viveri a bordo
della sua galera, ma anche di comprarsi un abito fuori ordinanza con il danaro così ricavato:
... convertii, con licenza del mio padrone, quel guadagno in un vestitino da forzato vecchio,
calzone e giubba di tela nera orlata, la quale, poiché si era in estate, era più fresco e a
proposito. (Cit.)
In effetti i remieri (l. remiges; gr. ἐρέται) subivano, tra gli altr'incomodi, anche lo stesso
inconveniente che sarà imposto ai soldati fino al XIX secolo, cioè il dover usare l'unica
uniforme di lana anche d'estate.
Gli schiavi avevano lo stesso vitto e lo stesso vestiario dei forzati, vino incluso, perché in
mare e in guerra, nonostante la loro legge teocratica, i mussulmani generalmente non vi
rinunciavano; e, se anche vi rinunciavano, lo davano però alle ciurme, specie se cristiane,
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delle loro galere, essendo il vino l'unico e saltuario piacere concesso ai disgraziati galeotti.
Gli schiavi si distinguevano però dai forzati per portare una sola ciocca di capelli sulla
sommità del capo e per il resto erano anch'essi completamente rasi. A loro toccava, oltre
alla voga quando necessaria, soprattutto l'aiutare le maestranze nei lavori di bordo e lo
scendere a terra a far acqua, brusca, legna (i corsari barbareschi usavano dire: a far legna e
carne, perché scendevano anche per far preda di cristiani da rendere schiavi), inoltre a
caricare il biscotto o per altre ricorrenti fatiche, quali per esempio caricare le provviste e le
merci a bordo d’altri vascelli che si trovavano in porto, tutte attività che non si potevano
invece affidare ai forzati, i quali in nessuna occasione dovevano essere liberati dalla loro
catena, per il semplice motivo che, trovandosi in terra cristiana, sarebbero facilmente
scappati, mentre i maomettani non avrebbero saputo né dove andare né come confondersi
con la popolazione cristiana. Di tali prestazioni a terra molto abusavano i capitani di galera
a scopo di lucro e questa era un’altra bruttura di quell'infelicissima vita; di ciò si legge nella
relazione scritta nel triennio 1578-1580 dal residente veneto a Napoli Alvise Lando, durante
il viceregnato di Juan de Zuñiga principe di Pietra Perzia (1579-1582):
... Stanno ordinariamente le galere di Napoli al molo senza palamento, senza soldati e
spesso senza la metà della ciurma, la quale vien noleggiata dai capitani a' mercanti, nobili e
altri per scaricar navi e per servizi domestici; di maniera che in un bisogno (come fu quello
dell'anno passato, che all'isola di Capri otto galeotte turche avendo preso due galere di
Sicilia, si spese un giorno per spedir dietro a quelle, non si trovando né remi né soldati) si
può dubitare di sentir molto poco servizio di una spesa così importante che fa il re in quelle
galere, le quali sono con pochissima esperienza e con le ciurme o di turchi schiavi o di
condannati, gli uni che servono dispettosamente e con pericolo, gli altri inesperti e poco atti
al patire l’incommodo del mare (E. Albéri. Cit. S. II, t. 5, p. 469).
A quest'ultimo proposito, tralasciando per ora invece l’accennato episodio avvenuto nel
1578 alle due galere di Sicilia e di cui poi diremo, conviene leggere anche il Pantera:
... Gli schiavi sono quei turchi che si pigliano o si comprano e sono di tre sorti, cioè mori
(‘nord-africani’), turchi e negri. I mori sono i migliori e tra loro ottimi quelli che si pigliano
sopra le fuste o sopra i bregantini o galeotte o galee o sopra altri vascelli da corso, i quali,
per haver fatto l'habito ne i patimenti e nelle fatiche del mare e del remo, sono migliori de gli
altri e sono perfetti vogatori; ma sono per natura talmente superbi, bestiali, traditori e
sediziosi che bisogna osservar bene i loro andamenti, come di gente che alcune volte si è
condotta sino ad ammazzare i patroni.
I turchi non sono buoni nél remo né alle fatiche come i mori, ma sono ben più mansueti e
più docili, tra i quali riescono meglio quelli che si pigliano in mare e nelle fuste e nelli altri
vascelli da remo che quelli che si pigliano in terra o ne i vascelli di vela quadra, che sono
quasi tutti mercanti o passaggieri avezzi in terra alle commodità.
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I negri sono peggiori di tutti e muoiono la maggior parte di pura malinconia. (Cit. P. 131).
I mori - oggi diremmo i maghrebbini - erano quindi considerati gente di indole etnicamente
rissosa e i comandanti di galea dovevano farli sorvegliare in maniera speciale:
… Un uomo che litiga in un esercito di cui faccia parte è colpevole come un traditore,
perché un litigante può improvvisamente sovvertire l'intero esercito e indurlo al nulla (homo
rixator in exercitu in quo fuerit est tam reus quemadmodum vnus proditor: quia unus rixator
totum exercitu subito potest subvertere et ad nihilum prouocare (Marin Sanuto il Vecchio.
Cit. P. 78).
Gli schiavi negri sub-sahariani erano chiamati morlacchi, ma ovviamente non avevano nulla
a che fare con i montanari dalmati d'ugual nome, se non forse l’etimologia del nome (sp.
morlaco, ‘tonto e ignorante’); sulla loro scarsissima adattabilità alla vita del remiero così si
esprimeva anche il Crescenzio:
Immaginiamo che per ostinazione quest'autore intenda un’innata apatia alle frustate e alle
bastonate più dure, fino a quelle mortali, una sopportazione ormai genetica formatasi, in
quella che una volta si diceva la razza camitica, durante secoli di maltrattamenti ricevuti dai
razziatori arabi che scorrevano l’Africa in caccia di schiavi, mentre, per quanto riguarda la
malinconia, abbiamo visto che anche il Pantera vi accenna con statistica freddezza, come
se lo strazio dell'anima fosse solo un semplice difetto. Ma il pessimo giudizio delle etnie
centroafricane era a quei tempi generale, basta leggere per esempio la relazione del Regno
di Portogallo che troviamo tra quelle anonime raccolte nel 1588 nel già citato Tesoro
politico, laddove si dice che le fortezze portoghesi stabilite sulla costa nord- occidentale
dell’Africa (Maragano, Fanier e Mina, cioè, da nord a sud, Marrakech, Akhfennir ed Elmina)
non avevano nulla da temere dalle popolazioni locali:
… essendo nel paese de’ negri, genti più tosto irrazionali che di ingegno, sempre a
competere fra loro per mangiarsi l'un l'altro, come costumano, overo per vendersi a’
christiani di Fanier, Senta e Maragano, luoghi vicini al re di Fetz, potentissimo signore de'
mori (T. I, p. 221).
L’astiosità e odiosità di carattere dei mori o barbareschi verrà confermata anche dai
capitani di galera francesi del Settecento, i quali li accuseranno che dell'abitudine di
derubare i compagni di sventura e quindi di creare tra i remiganti uno stato di nervosismo,
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diffidenza e aggressività reciproche. Anche il Cervantes Saavedra, nel suo Don Quijote fa
dire a uno dei personaggi:
... non fidarti di nessun moro, perché sono tutti traditori. (Miguel de Cervantes Saavedra, El
ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha. Madrid, 1989.)
Sulle galere di Spagna, oltre ai buonavoglia, molti erano anche gli schiavi barbareschi,
perché tradizionalmente gli spagnoli usavano rifornirsi di remiganti razziando gli abitanti
delle coste (gr. παραλίται, παραλιώται) del Magreb; il primo accenno storico rimastoci di
questa loro prassi è del 1426, cioè quando l’armata di mare di Alfonso V d’Aragona, dopo
essersi soffermata sulle coste liguri e poi su quelle campane, sotto il comando congiunto
del fratello del re Pietro e del generale Federico d’Aragona conte di Luna assalì le isole
Kerkenna, prendendone schiavi i giovani maschi appunto per adibirli al remo delle sue
galere; si trattava infatti di gente considerata molto atta a quel faticoso mestiere (… la gente
de aquella isla, que es para mucho trabajo. Zurita, Anales. L. XIII, c. XVI).
I vogatori d’uno stesso banco dovevano sorvegliarsi a vicenda affinché nessuno di loro
tentasse di fuggire; se ciò avveniva nelle galee veneziane, subito agli altri del banco, a
quanto scriveva il da Canal, si troncavano il naso e le orecchie come pena per non aver
scoperto i propositi di fuga del loro compagno; questa mutilazione era, nelle squadre di
ponente e alla fine del secolo, riservata ai solo schiavi, ossia ai maomettani e ai negri non
cristiani, sia come punizione sia come marchio di pericolosità e la doppia mutilazione era
necessaria per distinguere questi schiavi dai semplici ladri, in quanto nel Cinquecento in
Spagna questi ultimi si castigavano con la fustigazione al primo furto, con il taglio
dell'orecchie al secondo, perché ne fosse così riconosciuta pubblicamente la pericolosità, e
con la forca al terzo.
A Venezia invece, per tanti altri versi la più evoluta e civile delle signorie italiane, come del
resto avverrà anche nella vicina Austria ancora nel Settecento, le mutilazioni erano prassi
corrente e giornaliera della giustizia criminale, ma ne riparleremo più avanti; qui ora ci
limitiamo a ricordare la mutilazione della lingua che si faceva ai blasfemi incorreggibili.
Pirma di arrivare a ciò costoro si punivano con la gioia alla bocca, cioè stringendo loro con
un cerchietto le labbra unitamente alla lingua tirata fuori, e così, portatili alla berlina (corrr.
di alla berlinga, cioè ‘al chiacchiericcio, al mormorio’) in mezzo alle due colonne di Piazza
San Marco, come allora a Venezia si usava, li si teneva colà legati ed esposti appunto al
pubblico ludibrio (F. Mutinelli, cit. P. 185-186); detto cerchietto di chiamava gioia, ossia
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anello, baccialetto, perché ricordava la modanatura di rinforzo che circondava la bocca dei
cannoni, detta appunto gioia della bocca.
Lo Stato della Chiesa aveva invece dal canto suo – oggi incredibilmente – l’altro triste
primato della gran facilità con cui vi si comminava la pena di morte, sopravanzando in ciò di
gran lunga tutti gli altri potentati d'Italia.
Nel Medioevo si era praticata molto la punizione del taglio della lingua per tutti i reati di
insubordinazione commessi a mezzo di tumulto o ammutinamento vocale, per esempio
quando lo si faceva contro gli ordini del còmito o per chiedere una paga non ancora
ricevuta o per pretendere che si prendesse porto di disarmo; ecco per esempio la già citata
ordinanza aragono-catalana del 1354:
… se una galea grida ‘paga!’ o grida alcun luogo dove vuole disarmare, i còmiti (còmito e
vicecòmito) della galea siano tenuti a prendere immediatamente quelli che hanno gridato e
a portarli e a denunciarli al capitano, il quale a quelli faccia tagliare la lingua, perché ciò è
un modo di ammutinarsi e richiede un gran castigo […] e allo stesso modo siano puniti con
la perdita della lingia quelli che tale ammutinamento avranno mosso. E questo si fa per
quanto molti danni sono seguiti in molte armate per analoghi annutinamenti {si alguna
galéa crida pagua, ò crida algun loch on vulla desarmar; los cómits de la galéa sien tenguts,
que aquells qui cridarán prenguen encontinent, è aquells denuncien è amenen al capitá, qui
à aquells faça tolre la lengua, car açó es manera de avolot, è qui requer gran cástich [...] è
no res menys sien ponits à perdre la lengua aquells qui aytal avolot haurán mogut. E açós
fá per tal com molts damnatges s'en son seguits en moltes armades per semblants
avolots… In Ordenanzas de las armadas navales de la Corona de Aragon etc. Cit. P. 86}.
Ma, se il taglio della lingua - come del resto anche quelli delle orecchie e del naso - era
ammesso e praticato, invece, in quei tempi di lavori forzati, nella marineria si probiva
ovviamente di condannare a quello di una mano o di un piede; in tal caso infatti il giustiziato
sarebbe diventato inservibile ai gravi lavori di bordo:
… che si ordini che nessuno che sia impiegato in qualsiasi galea per nessuna colpa perda
mano o piede, perché dopo quell’uomo non è più buono a nessuna cosa, considerato che
gli varrà più la morte che la vita; ma sia invece punito col fargli correre la via o la corsia a
frustate, a perdere la lingua, le orecchie o a essere appeso, a seconda della colpa che sarà
(que sia feta ordinació, que null acordat de alguna galéa per neguna colpa no perda puny ne
peu, per ço com despuys aquel hom no es à res bo, perque li valdria mes la mort que la
vida; más sia ponit en correr vila ò cossía ab açots, perdre lengua, orelles, ò en esser
penjat, segons que la colpa será. Id. P. 87.)
Nella giustizia di terra invece per il taglio della mano non c’erano di queste considerazioni e,
per esempio, all’inizio del Settecento la giustizia militare austriaca ancora lo praticava per
punire i ladri.
370
Generalmente nei paesi che si affacciavano sul Tirreno vigevano bandi che proibivano sia ai
laici o secolari che dir si volesse sia agli ecclesiastici di dar ricetto ad alcun schiavo o
forzato di galera che non fosse in grado di mostrare la carta di libertà con il sigillo del
capitano generale delle galere; anzi, chiunque avesse catturato uno di questi remieri perché
trovato privo del suddetto congedo, avrebbe ricevuto un premio in danaro pubblico:
... Né pensate che questi schiavi possano andare molto a longo senz'essere conosciuti,
percioché l'abito, lo havere la testa e mascelle rase gli fà manifesti. E che è più, nell'una
delle gambe i segni della catena. (C. da Canal. Cit. P. 172.)
... I meglio sono gli spagnoli e napolitani, si come anchora sono i più. (Cit. P. 95.)
Anche se all’epoca del Pantera quelli napoletani erano evidentemente ancora reperibili,
certo non erano però più numerosi quanto al tempo dei re aragonesi; ecco infatti l’armata
d’Alfonso II d’Aragona che giunse al porto di Livorno il 5 luglio 1494, come la riporta il
Sanuto:
… la qual armada era galie 35, computa’ 7 per forza, di le qual ne son 5 di Franzin Pastor
corsaro, che fu quello soccorse Rodi al tempo de’ turchi, e 2 dil Re; su una è il suo capitano
don Fedrigo. Le altre 28 (sono) tutte volontarie. Nave 18 di gabia… Su la ditta armada era
zerca fanti 4.800… (La spedizione di Carlo VIII etc. Cit. P. 65.)
371
I dati suddetti sono sostanzialmente confermati dal Guazzo, laddove elenca i vascelli
componenti la stessa armata, e cioè 34 galere, di cui almeno 4 per forza, ossia spinte da
forzati, e tra queste quella del Pastore, 2 fuste, 4 galeoni, tra cui quello del Peruca, 4 navi e
15 o 16 barze (‘navi piccole‘), tra le quali la più grande di 900 botti comandata da lo stesso
predetto Peruca o da un suo parente. Quest’elenco del Guazzo è interessantissimo, in
quanto d’ogni galera è indicato il porto d’armamento e il nome del comandante e d’ogni
veliero il patrone e il numero d’uomini a bordo; dei vascelli medesimi sono omessi invece i
nomi, in quanto fino alla fine del Cinquecento considerati poco importanti (Marco Guazzo,
Historie di Messer Marco Guazzo […] qual hanno principio l’anno 1509 etc. Venezia, 1547).
Accettare di servire al remo di galera non era cosa comune e quindi a chi si presentava per
farlo non si stava certo a chiedere conto del suo passato; per esempio, l’Ordenanza sobre
el arbitrio de reclutas para la Real Armada promulgata nel 1359 dal re Pedro IV, re di
Aragona e Catalogna, disponeva che chi fosse ricercato per un qualsiasi crimine, eccetto
alcuni quale per esempio la lesa Maestà, ma che si fosse presentato a far domanda di
reclutazione nell’armata di mare, nei due giorni precedenti all’arruolamento non potesse
essere più arrestato (Ordenanzas de la Armadas Navales etc. Cit. P. 110).
C’è da dire che i predetti giudizi del Pantera riguardano certamente le sole squadre di galere
tirreniche, perché in effetti i buonavoglia migliori di tutti erano invece quelli usati da
Venezia, i quali, oltre a essere tanto numerosi che le squadre di quella repubblica si
basavano esclusivamente su di loro, non usando che pochissimi forzati e schiavi, servivano
veramente con buona volontà, essendo molto ben trattati e liberi d'andarsene non appena
scaduto il loro impegno; invece nelle squadre della corona di Spagna costoro erano trattati
malissimo, all'incirca come gli schiavi, e, quando arrrivava il giorno in cui avrebbero potuto
lasciare il servizio, vi erano per lo più trattenuti con falsi o malvagi pretesti, per esempio
facendoli indebitare ad arte per obbligarli a restare ancora a lavorare per riscattare i nuovi
debiti, per cui finivano per diventare anch'essi degli schiavi impossibilitati a liberarsi e a
lasciare quella penosissima vita. I buonavoglia erano di gran giovamento alla vita
economica di una galera, perché, oltre a servire generalmente bene, portavano alla ciurma il
beneficio di spendere il loro soldo, soldo che essi soli tra i galeotti avevano, spendendolo
soprattutto nella taverna della stessa galera in cui servivano e ciò con utilità di tutti per il
notevole incremento di liquidità e quindi d'incentivo commerciale che ne scaturiva. Essi
facevano a terra gli stessi servizi degli schiavi e come questi in tali occasioni erano
provvisti di scarpe e di calzette affinché potessero camminare. Quando si combatteva
372
questi volontari erano sferrati e armati affinché partecipassero alla battaglia dando così
aiuto ai soldati e ai marinai:
... e alcune volte da questa sorte di huomini si sono riusciti notabili servitij. Però (‘perciò’)
procurino i capitani di haverne molti e gli trattengano quanto più possono, acciò che non si
partano. (P. Pantera. Cit. P. 132.)
… essendo tutte le galere di Sua Maestà di schiavi e di forzati, questi non posson mai
essere in tanta copia che bastino ad armarne ogni gran numero. Armar di liberi, come fa la
Signoria Vostra (doge di Venezia), non è possibile così tosto, perché, non essendo
introdotto in alcuna parte de’ suoi paesi questo essercizio di buona voglia, non v’è alcuno
al presente che vi pensasse, tanto più che non è ascoso ad alcuno il mal trattamento de’
galeotti nelle galere di Spagna, dove muoiono per disagio di tutte le cose, e l’intendersi
anco per certo che, se pur vi fu alcuno a servire di volontà, è stato poi tenuto a forza tutto il
tempo della sua vita – la qual cosa occorre ordinariamente in coloro che vanno condannati
o per un anno o per quanto tempo si voglia, onde non può havere il misero più speranza
d’uscire e massimamente se è stimato buon remo – ha causato un timore così eccessivo ed
horribile in tutti di quella nazione che forse non basterebbe oro a farne loro venir la voglia.
(E. Albéri. Cit. S. I, v. V, p. 141.)
In effetti, come abbiamo visto, una seppur piccola percentuale di buonevoglie nelle squadre
ponentine c’era. I buonavoglia si distinguevano dagli altri remieri per portare i mustacchi,
mentre per il resto erano anch'essi completamente rasi; due di loro servivano come mozzi
dell'aguzzino, personaggio di bordo di cui parleremo. Ricevevano vestiario, una razione di
373
viveri e vino da marinaio ogni giorno e, sulle galere di ponente, 2 scudi di stipendio mensile
(2 ducati su quelle di Napoli, valendo il ducato napoletano un 10% in meno dello scudo
spagnolo e quindi, equivalendo lo scudo d’oro spagnolo a 2 dobloni e mezzo, all’incirca
2,70 dobloni), sebbene in alcune squadre non prendessero soldo d'inverno; di due scudi
era pure il mensile che prendevano sulle galere di Malta, a dimostrazione che gli stipendi di
galera erano sostanzialmente gli stessi nella maggior parte delle squadre cristiane e ciò a
evitare l'eccessivo passaggio di personale dall'una all'altra alla ricerca d’un miglior salario.
C’era ogni tanto qualche eccezione fatta per occasioni particolari, come fu quella del 1571,
dovuta alla grande Lega cristiana tra il Papa, il re di Spagna e la repubblica di Venezia
stretta il 25 maggio di quell’anno e pubblicata a Venezia il 2 luglio seguente, quando cioè
l’allora vicerè Antonio Perrenot cardinale di Granvelle (1571-1575), pressato dalla Corte di
Spagna a potenziare lo stuolo di galere napoletane, arrivava nel maggio di quell’anno, come
scriveva da Napoli il residente veneto Alvise Bonrizzo, a offrire fino a 8 scudi al mese per i
prossimi quattro mesi di campagna estiva (N. Nicolini. Cit.) Diremo infine dei buonavoglia
che, benché disponessero quindi d’un salario, dovevano vestire come e quando il resto
della ciurma per uniformità estetica. Anche il vestiario dei semplici remiganti (sp. remeros
rasos) poteva talvolta impreziosirsi nel caso di una galea di comando che partecipasse a
qualche evento importante dove bisognava fare una gran figura; fu questo il caso per
esempio del già ricordato incontro tra il doge di Venezia e l’imperatore bizantino Giovanni
VIII Paleologo, avvenuto l’8 febbraio 1438 nelle acque di S. Niccolò del Lido ( Giorgio
Franzes, cit. L. II, cap. XIV).
Secondo una generale convinzione che si ritrovava tra gli esperti ponentini, la principale
superiorità delle galee veneziane rispetto a quelle di ponente stava proprio nell'abbondanza
delle buonevoglie greco-dalmatine, le quali costituivano infatti, come abbiamo detto, la
quasi totalità delle ciurme di Venezia; infatti questi volontari della Serenissima, quando
dotati di corazza, morrione e armi d'offesa, avrebbero potuto combattere come i soldati e
quindi in una galea veneziana inquartata, ossia rinforzata con un quarto rematore a ogni
remo – perlomeno dall’albero alla poppa, come perlopiù s’usava allora, e non equipaggiata
(cst. tripulada) per guerra d'armata c'erano dunque circa 200 remieri potenziali combattenti
(eccetto i pochi forzati e schiavi) più un 30 soldati fissi; dunque in totale più combattenti dei
circa 150 archibugieri d’una galera spagnola o filo-spagnola preparata per la battaglia, dei
quali inoltre 25 o 30 non si potevano calcolare perché impiegati a sorvegliare gli schiavi,
affinché questi non approfittassero del combattimento per ribellarsi, ma che nelle grandi
imprese si potevano considerare pareggiati dall’apporto dei venturieri, tipo di combattenti
374
di cui poi diremo. Il Vecellio, nel descriverne il consueto abbigliamento, definisce questi
vogatori volontari di Venezia uomini forti e anco robusti nelle fattioni e li dice anche usi a
portare, oltre che una coltellaccia, anche un’accetta personale, evidentemente perché tra i
loro compiti c’era anche quello di sbarcare per andare alla fascinata (Cit.).Tutti questi
vantaggi erano però alquanto teorici e vedremo infatti che le cose non andavano proprio
così, tant'è vero che gli esperti veneziani, con la sempre esistita convinzione che l’erba del
vicino è sempre più verde, consideravano invece le loro ciurme di buonevoglie molto
inferiori a quelle di forzati incatenati delle ponentine e ciò da ogni punto di vista.
Che fino alla prima metà del Cinquecento i remiganti volontari di Venezia fossero ancora in
gran parte veneti e che da loro si pretendesse anche l’uso delle armi da fuoco in caso di
combattimento è dimostrato da una ducale veneziana del 7 novembre 1527, documento che
ordinava ai territori della Riviera di Salò e della Gardesana d’inviare al provveditore Gioan
Andrea Moro, il quale allora si trovava a Livorno con 16 galee veneziane per appoggiare
l’armata francese impegnata nella guerra per Napoli e vedeva i suoi equipaggi assottigliarsi
giorno dopo giorno a causa d’una grave epidemia che li aveva colpiti, homini 200 da remo
cum li soi archibugi per integrar le galee… essendo impossibile poterli ritrovar in quelli
lochi dove el si ritrova (Archivio veneto. Anno Quinto. P. 150. Venezia, 1875.); mentre si
mandava ad acquistare i 200 archibugi a Brescia, si ordinava pertanto ai rettori di quei
territori di far subito l’elezione dei detti buonavoglia e poi, una volta ricevute le armi,
d’avviarli a piedi a Livorno via Parma (‘che non è molto cammino’); evidentemente per
invogliare a questo arruolamento, erano state previste paghe più regolari del solito e cioè
tre mensilità anticipate – a lire 10 ciascuna, aggiuntavi un’indennità di lire 4 per le piccole
spese di viaggio, essendo quelle grosse degli alloggiamenti e vitto a carico della
repubblica, ma detrattovi quello che sarebbe stato il costo dell’archibugio, il quale era
purtroppo a carico del volontario; poi avrebbero ricevuto una quarta mensilità al loro arrivo
a Livorno e le successive di mese in mese. Ogni 100 uomini bisognava inoltre eleggere un
capo, ossia un caporale, al quale anche si sarebbero corrisposte le predette paghe, ma a
ducati cinque mensili. Per la cronaca, dei 100 volontari inviati dalla predetta Riviera, i quali
erano pronti a partire per il 18 novembre e il cui capo era certo Giorgio de Flocchis da
Polpenazze, tre morirono per via e solo quattro in galea, probabilmente a causa
dell’epidemia suddetta; certo, se quella squadra avesse anche combattuto, cosa che poi
non fece, le buonevoglie ritornate ai loro paesi sarebbero stati certamente molti di meno. A
proposito del suddetto provveditore Moro, c’è da chiarire che nella Venezia rinascimentale
questo titolo di provveditore aveva acquisito anche il profilo di generale combattente, forse
375
per esigenze contingenti avvenute in un certo tempo, e, poiché troviamo questo doppio
profilo anche nella Bisanzio degli ultimi tempi, ci resterebbe solo da capire quale dei due
potentati abbia preso esempio dall’altro:
C’è poi, sempre a proposito del predetto Moro, da ricordare che è proprio dall’equivoco
questo importante cognome veneziano (in un suo ramo, quello degli scenografi, restato
nell’originale Mauro) che il ferrarese Giovambattista Giraldi (1504-1573) prese fantasioso
spunto per la sua novella de Il capitano Moro e la veneziana Disdemona, poi messa in scena
a Londra con qualche variante dallo Shakespeare.
Perché poi Venezia si deciderà, verso la fine del Rinascimento, ad assoldare sempre di più i
suoi buonavoglia in Dalmazia e in Grecia invece che nelle campagne venete? Per la
difficoltà di trovarne appunto tra i suoi sudditi, i quali, a differenza per esempio di spagnoli
[los buenasboyas de bandera (‘i buonavoglia militari’)] e napoletani, erano poco propensi a
quel faticosissimo, disagiatissimo, pericolosissimo e poco remunerato mestiere, così come
anche risultavano poco adatti al servizio militare in genere. C’è un episodio della guerra che
Venezia combatté sul fiume Po contro Ravenna tra gli anni 1482 e 1484 che ci lascia capire
quanto predetto:
del quinto sec. a.C., e i lessicografi Giulio Polluce ed Esichio d’Alessandria, questi ambedue
del secondo secolo d.C., vediamo che anche nell’antichità s’usavano soldati-remiganti e
infatti in greco si dicevano αὐτερέται (‘coloro che remano da sé’); non troviamo invece un
termine corrispondente in latino e infatti non risulta che i soldati romani, quando imbarcati
sulle triere, fossero addetti anche alla voga e ciò anche se poi a terra fossero, come ben si
sa, anche guastatori e tra l’altro dopo ogni giornata di marcia, stanchi o non stanchi che
fossero, dovessero prendere zappe e pale e costruirsi il loro alloggiamento per la notte;
questa differenza di comportamento dei romani tra guerra di terra e guerra di mare era
probabilmente dovuta sia alla grande disponibilità di schiavi e prigionieri che essi sempre
avevano e sia alla più breve tradizione remiera dei romani rispetto a quella millenaria dei
popoli balcanici.
Nella relazione che il residente veneto Federico Badoero approntò nel 1557 così è scritto
riguardo alla generalità dei remieri delle squadre che servivano la Corona di Spagna:
... Le ciurme di essa armata, che sono al numero di 8.500 persone, la metà in circa è
d'infedeli, l'altra di christiani. Di quelli la maggior parte è di mori e turchi, di questi,
genovesi, milanesi, siciliani, catalani, valenziani, tedeschi d'Austria, Stiria e Carinzia, boemi,
moravi, ungheri, schiavoni, fiamminghi e provenzali che toccano la paga; e questo per
mancamento di schiavi, che già molto tempo non ne hanno potuto prendere; e tra tutti i
galeotti quelli di Spagna sono stimati i più forti e robusti. (E. Albéri. Cit. S. I, v. III. P. 285.)
Il Badoero non è qui abbastanza chiaro, perché, mentre dice che la metà dei remiganti
impiegati sulle varie squadre tirreniche della Spagna è costituita da ‘infedeli’, poi afferma un
mancamento di schiavi, né è possibile che dei maomettani fossero impiegati come
buonevoglie e non appunto come schiavi senza paga; per quanto riguarda i remieri
cristiani, dimentica i napoletani - certamente più numerosi di tedeschi e moravi - e fa creder
che tutti questi tocchino paga, come se si trattasse di sole buonevoglie, mentre, come
sappiamo, la maggioranza dei vogatori cristiani di ponente era costituita da forzati,
chiamando infatti i veneziani quei vascelli galere sforzate. Comunque, a prescindere da
queste palesi inesattezze, rare e gravi a quei tempi specie se fatte da un residente
veneziano, è l'unico che accenni a buonevoglie o comunque a remieri provenienti
dall'Europa centrale. Sicuramente vera è invece la buona considerazione che godevano le
buonevoglie spagnole, ma non perché quella nazione fosse particolarmente abile alla voga,
bensì per lo stesso motivo per cui erano anche tanto apprezzati i soldati spagnoli e cioè per
l'innato senso della subordinazione e la grande capacità di sopportare le privazioni e le
fatiche che in ogni occasione dimostravano; erano però piuttosto pochi, per esser gli
377
spagnoli generalmente fieri e dignitosi e quindi più propensi a fare i soldati che i galeotti
volontari:
... essendo in quella provincia poca quantità di gente vile e contadina. (Ib. P. 261.)
... per sopire la pretensione de' buona voglia spagnuoli che vogavano nelle galee della
Republica, sopra di che si faceva (‘facevano’) dal ministro (spagnolo) incessanti le premure
per il loro rilascio con il mottivo di poco decoro alla nazione, di violenza ed inganno che
moveva l'animo reale a sciogliere da così vergognosa catività (‘cattività’) tanti suoi sudditi,
li quali fu representato essere di qualità ed in quantità tali che meritavano la sua regia e
autorevole applicazione. Soffocai questo fuoco che molto ardeva e nel quale soffiavano
molti ministri d'Italia... (R. Ciascia. Cit. Vol. V, pp. 238-239)
Evidentemente il mestiere del buonavoglia non era dalla Corte di Madrid considerato
disonorevole solamente quando lo si esercitava per il proprio sovrano e ciò perché ogni
tempo e ogni paese ha avuto le sue grandi ipocrisie! In realtà, a dimostrazione che la voga
come mestiere volontario e retribuito era in Spagna tradizionale e che al contrario non
esisteva una tradizione di voga forzata, di condannati al remo insomma, basta ricordare la
da noi già citata Ordinacio dels salaris è forniments dels acordats de les armades del 1354,
dove si dispone che i 156 remiganti di ogni galea percepiscano ognuno sei lire barcellonesi
di salario per quattro mesi di servizio, ma che ognuno di loro dovesse imbarcarsi già
munito di spada, stroppo e puntapiedi personali; premesso che ovviamente non si sarebbe
pretesa la spada se fossero stati dei condannati, il puntapiedi era meglio che ognuno se lo
facesse da sé, adattato il meglio possibile alle proprie caratteristiche fisiche, e il che valeva
a dirsi anche per lo stroppo, robustissimo pezzo di corda dal quale molto dipendeva
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l’efficacia della propria vogata. Insomma, tutto questo deponeva chiaramente per dei
‘professionisti’ della voga e non per dei forzati (Ordenanzas de las armadas navales de la
Corona de Aragon etc. Cit. P. 100).
Se i ponentini non facevano altro che invidiare e considerare migliori le ciurme di Venezia
appunto perché costituite quasi integralmente di buonevoglie e portavano inoppugnabili e
prevedibili argomenti a sostegno di tale loro opinione, i veneziani da parte loro asserivano
l'esatto contrario e sempre dicevano che erano molto migliori le ciurme formate di forzati e
schiavi, come si usavano nelle galere di ponente, e presentavano ragionamenti che
mettevano in mostra l'altra faccia della due medaglie, vale a dire gli aspetti positivi della
voga forzata e quelli negativi della voga volontaria; ci avvarremo pertanto ancora delle
parole dell'ottimo Cristofaro da Canal, il quale così spiega perché Venezia tradizionalmente
non si avvalesse della voga forzata:
... dicono che non si conviene alla nostra Republica, che sempre è stata esemplar di
religione e di santi e pietosi costumi, fare ischiavi le genti battezzate e tenere in servitù gli
huomini liberi, allegando che ella per millecento e più anni ha potuto con le armate sue
volontarie vincere tutti i suoi nemici e acquistar così grande imperio. (Cit. P.173.)
... E che ciò sia vero non vediamo noi che le galee che tal’hora si armano in questa Città
sono le peggiori di tutte le altre, il che nasce solo dal non andarvi se non quei mendichi e
scalzi che vivono tra esso popolo e gli boni se le fuggono. (Ib.P. 174.)
sia le isole greche erano ormai molto spopolate rispetto al passato e ciò era dovuto sia
all'urbanesimo verso Venezia sia per le continue scorrerie dei turchi; gli schiavoni e
gl'isolani greci erano infatti naturalmente portati e ben disposti alla voga sia per la loro
grande dimestichezza col mare sia per la loro povertà, condizione che li spingeva ad
accettare di buon grado un così duro e pericoloso lavoro:
... Li schiavoni ed i greci sono perfettissimi alle fatiche del remo e ai travagli del mare, si
come quelli che paiono dalla natura prodotti all'una cosa e all'altra; ma anzi vi è tra loro non
picciola differenza percioché, se prima alla statura e alla forma del corpo riguardiamo,
trovaremo che li schiavoni avanzano quasi sempre la comune grandezza degli huomini e
all'incontro che i greci per lo più non v'arrivano; quei si veggono grassi e carnosi, questi
nervosi e asciutti. Di qui fò argomento che gli schiavoni siano di complessione debole, il
quale ragionamento è confermato dall'effetto che sempre avviene, che il primo anno che
vengono sulle galere essi infermano o di febre o di strano pericoloso male. Sono appresso
grandissimi mangiatori, ma ben parchi nello spendere e prudenti in compartire i denari delle
paghe loro, in guisa che insino al fine del viaggio non ne sentono mancamento; usano
pulitezza nel vestire e sono sempre mondi nella persona. Trovansi amatori della religione,
fideli osservatori delle promesse né fuggono, come molti altri, ma servono di continuo fino
che è finito il loro tempo. Egli è vero che essi sono tumultuosi e, come si dice, di picciola
levatura come quelli che abbondano di collera e questi tumulti nascono egualmente in tutti
e massimamente quando la loro dimora nelle galere sia più a longo di quello che essi
vorrebbono; ma la loro collera è breve ed ogni picciola riprensione che per via di losinghe o
di minaccie venga lor fatta da qualche huomo di autorità leggiermente gli acqueta,
quantunque, per l'esperienza che io ne ho avuto, molto più oprano le parole dolci che
l'acerbe, perché se questi tali huomini sono timidi sono anco amorevoli molto più. (ib. Pp.
110-111.)
... A' vogadori non si usa dare molto grande stipendio perché tutte queste galere si armano
in alcuni luoghi, si come nella riviera di Schiavonia o Dalmazia, dove gli habitatori, essendo
poveri, per poco prezzo pigliano tale impresa volentieri. (Gasparo Contarini, De
magistratibus et Repubica Venetorum libri quinque. Venezia, 1544.)
… Ma d'altra parte i greci che a cotale essercizio si pongono, si come sono dalli schiavoni
diversi di statura e di complessione così parimente sono di animo e di natura, percioché nel
mangiare agguagliano la sobrietà e temperatezza degli spagnuoli, ma nel bere trapassano i
tedeschi in modo che si può dire che nel vino consumano in un giorno le paghe intiere d'un
mese. Di nettezza e pulitezza non curano e quei pochi panni che vestono sono sempre lordi,
in più parti rotti e sdruciti; a che aggiongendovi l'esser naturalmente neri e diformi, sopra
380
modo si assomigliano non a huomini, ma a quei mostri che si trovano alcuna volta descritti
nelle favole de' romani. Appresso non portano riverenza a Dio né agli huomini e,
quantunque dimostrino di aver qualche poco di devozione alla vergine Madre di Christo,
non di meno per ogni picciola speranza che si desti nell'animo loro di guadagno, non
facendo stima né di fede né di giuramenti, sempre pongono innanzi l'utile all'honestà. Dove
gli schiavoni, per gran tumulto e disordine che da essi ne deriva le galee non abbandonano,
i greci senza strepito e movimento alcuno, per ogni picciol segno che accendi le menti loro,
da soli a soli si dipartono tacitamente e, poiché nell'opere malvagie sono arditi e animosi
molto, nulla temono la pena de' supplizij che potrebbono esser dati; e, che più, hanno la
crudeltà e la ostinazione in modo proprio e naturale che né dolcezza di parole né riverenza
di capitano può muovergli o mitigarli giamai. (C. da Canal. Cit. Pp. 111-112.)
... dunque li schiavoni sono buoni, religiosi, amorevoli, fedeli, prudenti e appresso mondi e
politi, come li dipinge il Contarini, nel vestire e per contrario i greci senza devozione,
malvagi, crudeli, perfidi, imprudenti, implacabili e sozzi nella vita e costumi... (ib.)
Forse non a caso il nome di maraiuoli (‘uomini del mare’) con cui gli isolani greci erano
conosciuti nell'impero ottomano, nome adottato poi anche a Venezia, si trasformò presto in
proto-italiano in mariuoli con il significato di 'ladri' e oggi ancora infatti così lo conserva la
lingua napoletana. Ma la mala fama non riguardava solo gli isolani; per esempio il già
ricordato Digby si trovò molto a mal partito quando, bisognoso di approvvigionarsi di
vettovaglie, fu costretto a far sostare i suoi vascelli a Patrasso, città che s’era ben adattata
alla ladronesca amministrazione turca; infatti alcuni suoi uomini, nonostante la presenza in
quella città d’un console inglese, furono picchiati selvaggiamente e imprigionati, lui stesso
corse il rischio d’essere rinchiuso in prigione e tutto ciò per obbligarlo a mettere a terra le
sue mercanzie e costringerlo così a venderle tutte a prezzi bassissimi o a farsele rubare
tranquillamente; ma egli, non avendo alternative per procacciarsi dei viveri perché con le
sue ripetute scorrerie s’era ormai fatti solo nemici nel Mediterraneo, eccezion fatta appunto
per gli ottomani e i barbareschi nell’onestà dei quali però non credeva assolutamente, si
vedeva quindi costretto a sopportare quei greci ottomanizzati:
… Perciò la pazienza ed il temporeggiare con i loro furori era il miglior rimedio cui
appigliarsi in simili frangenti, visto che questa popolazione è incontrollabile e sorda ad ogni
consiglio nella violenza dei propri impulsi… (K. Digby. Cit.)
Ma per tornare alle popolazioni isolane, gli stessi greci continentali non ne avevano buona
opinione e per esempio uno dei loro più noti ed antichi proverbi, a proposito di chi si dava a
fatiche vane e superflue, diceva Πρὸς Κρῆτα κρητίζων, cioè ‘è come volere andare a
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Lesbizzare. Dar piacere all’uomo con la bocca. Infatti dicono ‘lesbìadi’ le prostitute
(Λεσβιάζειν· πρὸς ἂνδρα στόματύειν· Λεσβιάδας γὰρ τὰς λαιϰαστρίας ἒλεγον· In Lexicon, c.
974. Iena, 1867.)
Il bizantino Suida (X sec.) aggiungerà che a Lesbo anche gli uomini erano soliti praticare la
fellatio penis e a questo proposito cita un verso delle Vespe di Aristofane:
Lesbicare. Insozzarsi la bocca e la lingua con nefanda oscenità. Fellare. Infatti i lesbii Per
questa turpitudine avevano mala reputazione. Aristofane: “Già essendoci orale
accondiscendenza per i convitati.” (Λεσβίσeiv. Οs & linguam nefanda obscenitate polluere.
Fellare. Lesbii enim ob hanc τμrpίtudinem male audiebant. Αriftophanes: ‘”Cum iam ore
morigeratura esset convivis.” Λεσϐίσειν· μολΰνειν τὸ στόμα· Λέσϐιοι γὰρ διεβάλλοντο ἐπὶ
αἰσχρότητι. Άριστοφάνης· Μέλλουσαν ἢδη λεσϐιεῖν τοὺς ξυμπότας· Cit. T. 2, p. 431.)
La predetta cattiva nomea dei lesbii trova conferma nel nome che gli antichi greci davano al
'dildo', cioè al surrogato del pene usato dalle donne per raggiungere la soddisfazione
sessuale, trattandosi allora di un succedaneo fatto di cuoio; infatti si chiamava ὂλισβος,
quindi un nome che palesemente si richiamava all’isola di Lesbo (ὀ Λέσβιος, ‘quello di
Lesbo’). Persosi poi, col passare dei secoli, quel significato etimologico, si attribuirà l’uso
costante di tale attrezzo di piacere soprattutto alle cittadine di Mileto, colonia greca in Lidia,
avendo evidentemente già allora le donne anatoliche, a partire da Elena di Troia in poi,
quella reputazione di licenziosità di cui ancora nel Cinquecento parleranno nelle loro
relazioni i diplomatici veneziani residenti a Costantinopoli (ib. P. 678).
Ciò non ostante, era molto preferibile avere ciurme greche piuttosto che schiavone:
... io eleggo li greci come più forti, più destri e più durevoli alle fatiche e che niuno li avanzi
in sofferire fame, sete, freddo e l'altre corporali necessità che occorrono alla giornata. Non
mi partendo poi dal vogare, che è l'offizio che ricerchiamo, vi affermo che così spesse volte
questo fanno per il spazio di trenta e più miglia in quella maniera che da noi è detta
'stroppata', che è con quanta forza l'huomo può mettersi senza punto fermarsi, termine che
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addimandiamo 'fornellare'. Ed, havendo essi continuato tale fatica senza mai dimostrar
alcun segno di stanchezza, tosto che avviene che la galea getti le anchore e si fermi, il che
accade talhora per un miglio o poco meno lontano da terra, allora si veggono in un tratto
porre i loro vernicali in capo e mettersi destramente sotto i bracci li barili dell'acqua, indi,
senza rispetto di essere infiammati e pieni di sudore, saltando nel mare, nuotando
gagliardamente al litto (‘lido’), al quale pervenuti si rinfrescano nei fiumi e nelle fontane e
nel fine coi pieni d'acqua si ritornano alle galee pur nuotando; né però questi contrari
accidenti che è di passare senza mezzo dal caldo al freddo mortalissimo sopra modo non
nuociono ad alcuno di loro né meno come si essi non di carne, ma di ferro fossero dalla
natura formati; ma dall'altro canto, se alle volte avviene che alli galeotti schiavoni convenga
far quest'effetto, rarissimi sono quelli che non infermino e molti eziandio ne muorono in
pochi giorni. (C. da Canal. Cit. P. 113.)
... Quanto al sostenere i disagi, troviamo sempre i greci forti ed intrepidi, ma li schiavoni
deboli e paurosi, quelli che negli avvenimenti contrarij prendono vigore e questi si
avviliscono; i primi poco si turbano e questi si attristano senza fine. (ib.)
... Che, se il capitano potrà oprare in guisa che loro il vino non venga meno, esso non ne
sentirà mai querela o lamento alcuno. (ib. Pp. 113-114.)
Riguardo alla resistenza degl'isolani greci ai disagi il da Canal racconta un’esperienza del
suo grande avo Hieronimo, quando questi si trovò al comando di 13 galee veneziane
nell'arcipelago greco in pieno inverno e senza pane. Si distribuì allora alla ciurma grano da
macinare con l'intento che se lo macinassero nei loro scali con macine che si trovassero a
terra per poi farne delle focacce; ma, sia perché le poche macine che trovarono non erano
sufficienti a tanta moltitudine di gente sia perché non si ebbe modo di tener le galee ferme
per il tempo necessario in nessun luogo, le misere ciurme furono costrette a mangiar il loro
grano arrostito o, per dir meglio, alquanto riscaldato nella caldaia. Sennonché questo modo
di mangiare il grano risultò alle ciurme, invece che ostico, addirittura preferibile alle focacce
che si usava mangiare a bordo quando le scorte di biscotto erano finite, in quanto nella
farina era per lo più necessario mettere acqua di mare a causa della scarsità delle scorte di
quella dolce e quindi in quella campagna cominciarono a fare per scelta quello che all'inizio
avevano fatto per necessità:
383
... Si avvide adunque per questa tale occasione il Canal che i greci più che i dalmatini erano
possenti a soffrir i disagi, percioché essi né mai del poco cibo si dolsero e questi spesso se
ne rammaricarono; né la qualità del nutrimento - per sé cattivo - hebbe forza non che
d'accidente alcuno, ma di far danno pur ad un solo ed i dalmatini invece in gran parte
morirno e quasi tutti furono soprapresi dall'infermità. (Ib.P. 114)
Inoltre, considerando l'eventualità di dare le armi alle buonevoglie nelle occorrenze della
battaglia, anche in tal caso i greci erano più affidabili:
... certo non si può negare che, appresso l'altre parti da me sopradette, i greci, per esser
agili e destri nella persona, non siano anco più pronti in adoperarsi nelli assalti delle guerre
overo nell'impeto delle fortune; senza che, essendo da natura assai tirati ad ogni picciol
utile, entrano ordinariamente in qualsivoglia pericolo, la qual cosa può apportar molte volte
grandissimo giovamento al capitano. Ma che questa nazione nelle cose di mare sia migliore
di tutte le altre, oltre alle ragioni, giudico buon testimonio alle mie parole il consiglio che
diede Artemisia regina di Charia a Mardonio capitano di Serse, dicendogli che i greci di
tanto avanzano nelle guerre marittime le altre genti di quanto nelle terrestri li huomini
soprastavano alle femmine. (ib. P. 115.)
E certamente la grande vittoria che le galere d’Augusto ebbero ad Azio su quelle di
Marc'Antonio, le prime equipaggiate di ciurme dalmatine e le seconde di greche, non poteva
far testo, in quanto quella vittoria, come si sa, fu principalmente dovuta alla defezione delle
200 galere egiziane di Cleopatra.
Dunque caratterialmente migliori i greci degli schiavoni; ma lo erano, come abbiamo già
detto, anche fisicamente perché corrispondevano ai seguenti canoni:
... I galeotti vorrei che essi fussero anzi di picciola che di grande statura; né carnosi e
corpulenti, ma nervosi e asciutti, che tal complessione gli rende forti e di gran vigore (ib. P.
271)
…quando io elessi il galeotto più tosto greco che schiavone, mezzano che grande, asciutto
e nervoso che carnoso e grasso e somigliantemente più tosto bruno che bianco, dicendovi
che così fatti huomini erano sempre più animosi, più agili, di maggior lena e meno
sottoposti al sudore che verun altro. (Ib. P. 148.)
Il grande apprezzamento delle buonevoglie greche espresso dal da Canal non gl’impedisce
però di rilevare tutti i difetti connessi all'impiego dei volontari del remo e inizia dal sistema
di paga praticato da Venezia; di solito infatti le buonevoglie della Serenissima erano pagate
solo quattro o cinque volte in un’intera stagione di voga e ciò rendeva impossibile la
soddisfazione dei loro bisogni economici giornalieri durante il servizio; ma ciò che di
questo aspetto risultava pregiudizievole per gl’interessi di Venezia era che in tal maniera si
trovavano alla fine del loro ingaggio creditori di molto danaro e quando, ricevuti poi questi
loro avanzi, i quali di solito ammontavano a circa 30 e a volte anche 40 ducati, sbarcavano
con questa buona somma in tasca, affrontavano la vita di terra con più animo e quindi,
384
invece di ritornare poi alle fatiche e ai disagi delle galere, si davano chi a lavorare a terra,
cioè chi a pescare, chi a trafficare, chi ad altro ancora; di conseguenza la repubblica doveva
ogni anno andarsene a cercare di nuovi molto più di quanto sarebbe stato necessario se si
fosse corrisposto alle buonevoglie più danaro da spendere durante il servizio e sarebbe
bastato, secondo il da Canal, arrivare alle sei paghe stagionali. In tal maniera i remiganti
avrebbero vissuto a bordo più comodamente e contenti e non si sarebbero avute, come
invece si avevano, le galee veneziane piene di lamenti e lordure; inoltre, una volta sbarcati
con pochi soldi in tasca a Venezia, cioè lontani dal loro paese natio, non avrebbero potuto
far altro di meglio che farsi reingaggiare al servizio di galera.
Per gli stessi motivi, sia di conforto di vita sia d'anticipo di danaro, il da Canal
consigliava di distribuire alle buonevoglie anche più vestiario:
... Vorrei appresso che questi miei huomini fossero vestiti da capo a piedi due volte l'anno,
il che più che ad altra nazione conviene ai greci per rispetto che, essendo essi poveri e
trascurati, ne vanno quasi tutte le stagioni dell'anno discalzi ed ignudi, e vorrei che i loro
drappi fossero l'estate di buone tele ed il verno di schiavine e di grisi molto perfetti, i quali
però non venissero loro donati, ma venduti, né avesse alcuno la noia di pagare se non finito
il viaggio, la qual cosa recarebbe lor commodo e a noi, come ho detto, o a quel signore che
questo ordine serbasse utile. (Ib. Pp. 116-117.)
C’erano però delle occasioni in cui, dovendosi equipaggiare delle galee con urgenza e non
trovandosi abbondanza di volontari, per invogliarli si dava loro più denaro già all’ingaggio
(trad. dal veneziano):
A quei tempi i nicoloti (isolani di S.Nicolò al Lido) e i povegioti (isolani dell’isola di Poveja)
erano considerati i migliori remiganti della laguna di Venezia e con essi, non sempre
disponibili perché ovviamente pochi, in genere si interzavano, cioè si potenziavano, i
vascelli remieri minori usati nella navigazione del Po; ma. come abbiamo già detto, gli
esperti veneziani ritenevano però generalmente più vantaggiosa la voga forzata e una prima
considerazione da fare per spiegarne il perché era che evidentemente gli ufficiali di galera
non potevano esercitare su quella volontaria lo stesso potere:
385
... percioché, venendo 'sì fatti huomini a servir volontariamente e non astretti da forza, il
nostro capitano non ha sopra di essi piena podestà e l'obedire ed il non obedire sarebbe
egualmente in arbitrio loro. (Ib.)
... havendosi riguardo all'obedienza [...] nessuna altra può agguagliarsi a quella delli
sforzati, onde io spero di farvi vedere 'sì come di obedienza nel vivere così di sigurtà nel
combattere, di velocità nell'andare, di prestezza nei serviggi, di mondezza e di sanità è tanta
diversità nei galeotti, dalle galee sforzate alle volontarie, quanto è da uno solo arboro a una
tutta selva, da un fonte al mare e da un torchio (‘torcia’) acceso al splendor del sole. (Ib. P.
149.)
Vediamo ora il perché di questo drastico giudizio del da Canal, che è poi lo stesso del
Contarini e del Cappello, anch'essi ufficiali generali marittimi veneziani di gran nome a quel
tempo, premettendo però per una più chiara comprensione del nostro lettore che, a
differenza delle buonevoglie delle galee veneziane, le quali servivano libere da ogni ceppo,
quelle ponentine vogavano, come abbiamo già ricordato, incatenate ai loro banchi come gli
schiavi e i forzati:
... dico che dalla catena nasce il timore in questi huomini e dal timore l'obedienza e
percioché eglino a un picciol cenno de marinari fanno prestamente tutto quello che è loro
imposto [...] questi (‘i nostri galeotti’) non temono alcuno, ma fanno la maggior parte delle
cose quali si adoprano a voglia loro, si partono quando lor piace da i banchi e se ne vanno
per la galea travagliando e confondendo ogni cosa; né possono i capitani, con qualche
asprezza castigandoli, ridurli alla debita disciplina temendo che essi, come spesso fanno,
fuggendo abbandonino la galea. La qualcosa dico spesso fanno o da solo a solo o, come
delli schiavoni si disse, tutti insieme. (ib. P. 150.)
Bisognava anzi che gli ufficiali generali veneziani qualche volta formalizzassero la
possibilità che le buonevoglie avevano d’avanzar loro delle rivendicazioni, come si legge
sempre nella Milizia marittima:
... li huomini da remo [...] volli che in ciascuna galea fosse lor data podestà di elegger due o
più capi, i quali in ogni occasione havessero potuto indursi alla presenza mia e proporre
tutto quello che fosse lor di mestiero. (ib. P.187.)
quelle richiedevano, avendo necessità di sorvegliare anche i remieri. Nelle galee veneziane
il numero degli uomini di spada, ossia soldati e marinai, usualmente non superava la
sessantina, mentre il da Canal ne giudicava necessari da 70 a 90; inoltre nelle galere
sforzate il capitano, avendo prima della battaglia necessità d'altri soldati, poteva levar dalla
catena alcuni forzati che gli sembrassero più forti e valorosi e armarli, promettendo loro la
libertà quando avessero combattuto arditamente. Ecco che si spiega perché i veneziani, pur
avendo le più numerose e meglio armate squadre di galere della cristianità, ottenevano
raramente dei grandi successi contro le armate turche:
... gli huomini delle galee sforzate, essendo ritenuti dalla catena, non possono gettarsi in
mare e per conseguenza sono astretti a combattere loro malgrado, dove per contrario i
galeotti delle libbere per ogni minimo accidente vi si gettano con pericolo e danno in tutta la
galea. La qual cosa, come che essa sia tanto importante che nessun’altra, né più non vi
trovano rimedio né sanno ripararvi i nostri capitani... (Ib. P. 152.)
In realtà non si usava dai sovracòmiti (‘capitani di galera’) veneziani applicare in questi casi
alcuna severa punizione, perché non si sarebbe ottenuto altro che scoraggiare dal servizio
di galera tutte le altre buonevoglie, provocandone così una maggior penuria. Non a caso il
famoso antico comando “Duri ai banchi! (‘Tenetevi saldi ai banchi!’) era veneziano ed è poi
diventato a Venezia addirittura un consueto modo di dire, capitava infatti spesso che
bisognasse comandare alle buonevoglie di restarsene seduti e fermi ai loro posti, specie
qando incombeva una minaccia bellica o un pericolo meteorico.
Era dunque vero solo in teoria quello che in generale pensavano i ponentini, cioè che in
occasione di combattimenti le buonevoglie delle galee veneziane, essendo libere dalla
catena, potevano essere armate e trasformarsi in combattenti; infatti ciò si otteneva solo
talvolta e quando la battaglia volgeva al meglio, perché in caso contrario, come abbiamo
visto, preferivano fuggire gettandosi in mare. Un uomo molto sperimentato, quale senza
alcun dubbio era Andrea d’Oria, non sembrava condividere questa generale invidia
ponentina della teorica possibilità che avevano i veneziani d’affidarsi alle buonevoglie
anche per il combattimento, il che è ben dimostrato da quanto racconta il Buonfiglio
Costanzo a proposito dell’armata della lega cattolica stretta tra Venezia, Spagna e Roma
che combatté la battaglia della Prévesa nel 1538 proprio sotto il comando generale del
principe genovese:
armati di corazza, morrione, mezze picche, spade e archi, con corbe di sassi e, con certi
tavoloni nelle bande, portando un lung’ordine di schioppi, li quali con una mina erano
scaricati (tutt’insieme) da un remiere; e però, quest’antico e rozzo armamento non parendo
bastante al principe, che (ne) sicuro ne certo fosse di vittoria, dovendosi azzuffare con
giannizzeri, gente valorosa ed in grosso numero, perché (‘per il che’) richiese al general
veneziano (Vincenzo Capello) che, a maggior sicurtà, ricevesse venticinque archibugieri
spagnoli per ciascuna delle sue galee. Questo partito proposto spiacque al veneziano e
abborrillo, recandogli non poca gelosia, avendo l’escusa in pronto, non potere ciò fare
senza espressa licenza del (suo) Senato, ma che soddisfazione bastevole avrebbe dato a’
colleghi (senatori) con armare le galee, in cambio de’ spagnoli, de’ candioti, atti a
combattere assai valorosamente in mare. Con ‘sì fatta risoluzione navigarono… (Cit. L. III, p.
461.)
In effetti la scarsezza d’archibugieri era un punto debole, non solo delle galere turche, bensì
anche di quelle della Serenissima, come anche ci narra il suddetto autore a proposito della
battaglia di Lepanto. D'altra parte ancora più esagerato era il voler credere possibile un uso
combattivo dei forzati, come anche si legge nel trattato del veneziano da Canal:
... è agevole a comprendere che gli sforzati acquistino la vittoria combattendo, la qual
ostinazione accresce con la speranza di guadagnar la libertà, percioché, venendo al
capitano di queste galee occasione di dover combattere, egli (avendo) conosciuto i nemici
se essi sono o saraceni o cristiani, il che si comprende di lontano non pur alle insegne, ma
al modo di portar le vele e, ch'è più, alle nude antenne e alla maniera del vogare,
sciogliendo all'hora delle catene [...] principalmente quei galeotti che sono differenti di
religione e di setta di quegli che vengono ad incontrarlo e promettendo loro, se
valorosamente combatteranno, la libertà e appresso il particolar utile di tutto quello che
essi prenderanno, è cosa che tanto gl’infiamma e così accresce loro l'animo ed il vigore che
indubiamente vincono. E questo confermano parimente le armate di ponente ed in tutte le
nostre memorie dalla fronte de' nemici non si sono già mai se non vittoriose dipartite. (Cit.
P. 169.)
Eppure il da Canal era stato, come egli stesso afferma, il primo ad addestrare alle armi e ad
armare sistematicamente le buonevoglie di Venezia:
... Dico adunque che, parendomi di oprar cosa di molto caso, ho voluto io essere il primo
de' capitani che abbi comandato galea della nostra Republica che volto si sia a far
disciplinare i galeotti a maneggiar l'archibugio. Il che fino ad hora non hanno eglino fatto
giammai, parendo che bastassero assai, nell'investir l'inimico, lanciargli contro di molte
pietre e, ciò fatto, venire immediatamente alla spada, rimettendosi liberamente a quella
battaglia senza alcun termine d'avantaggio e donandosi - come si dice - alla fortuna. (Ib.
P.133.)
Egli si sofferma poi a spiegare come aveva organizzato questa innovazione a bordo delle
sue galere e come essa avesse portato a ottimi risultati, ma, trattandosi d'un esperimento
che non risulta esser stato in seguito imitato da altri ufficiali generali marittimi veneziani e
388
quindi d’un argomento da non generalizzare, preferiamo non esaminarlo al fine di non
appesantire ulteriormente questa nostra trattazione; è comunque interessante notare che
nel Cinquecento si considerava ancora utile i battaglia il soldato 'lanciatore', ossia quello
adibito a lanciare con le nude mani sul nemico proiettili contundenti, quali palle di piombo e
pali di ferro, ma soprattutto sassi, dei quali, caricati in corbe, le galere medievali erano state
sempre ben fornite; a tal proposito la già citata ordinanza del Mocenigo del 1420 ci fa però
capire che armare le buonevoglie in tal semplice maniera era antica usanza:
... Item: da Corfù in là tutte le arme da huomeni da remo sia in coperta [...] Item: tute le galie
debia ser fornide de piere da man de soto e per coverta... (Ordini et capitoli di Pietro
Mocenigo. Bibl. Vat. A 281. In A. Jal. Cit.)
Lo Jal, il quale cita la predetta ordinanza veneziana, pure ne menziona un’altra molto più
antica , cioè una del 1279 tratta dallo Zanetti e con la quale s’imponeva a tutti i vascelli
forniti di coperta di portare almeno due barcate di pietre e di tenerle a portata di mano;
cambiando poi mari, vediamo che lo statuto danese di Schleswig (c. 1150) al cap. XVIII ci
dice che i pirati dei Mari del Nord di allora venivano usualmente all’attacco lanciando pietre
(Pardessus. Cit.); ma, andando ancora più indietro nel tempo, sull’utilità di quest’arma
primitiva nella guerra nautica medievale così si legge nel già citato trattato del nono secolo
d.C. attribuito all’imperatore bizantino Leone VI, tradotto in questo caso dall’erudito
napoletano Alessandro Andrea:
… e le galere (‘dromoni’) habbiano sassi da tirar con mano, nomati ciottoli, e se ne servano
per arme, che le pietre son buon’arme e certe... (Cit.)
E molto interessante continuare a leggere questo brano della Тάϰτιϰα perché da esso
s’evince chiaramente come si svolgeva un combattimento marittimo nel Mediterraneo
dell’Alto Medioevo, cioè molto prima dell’invenzione delle armi da fuoco:
… Non tirino però le pietre in modo che in quelle consumino tutta la robustezza delle forze e
nel rimanente sian ociosi (‘oziosi’), perche’ nemici, giungendo insieme gli scudi e schifando
(‘schivando’) l’empito, resistan loro ed eglino habbian consumato tutte le pietre, le quali
finite e stancati(si) i tiratori, levandosi gli inimici ristretti, si sforzino defendersi con le spade
e con le picche e, stimati(si) più forti, con (‘a seguito di’) questo empito ammassatisi,
assalendo i soldati stanchi, potriano rompergli (‘romperli’) e vincer facilmente, che così
soglion fare i barbari.
I saracini dal principio sostengono l’empito della battaglia e, poi che veggono i nemici già
lassi e che lor mancano i dardi (‘verruti, pili, giavellotti’); o le saette o le pietre o le altre cose
‘sì fatte, assaliscono furiosamente e spaventano i nemici e dan dentro d’appresso
(‘vengono all’arrembaggio’) con forze e con empito, venendo alle strette con le spade e con
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le spade… perciò che si deve misurar la forza (‘resistenza’) de’ soldati e’l numero de’ dardi
che si hanno a lanciare… (Ib.)
Ecco dunque una guerra nautica combattuta ancora come si faceva nell’antichità, dove i
vascelli, non potendo colpirsi a distanza per mancanza d’artiglierie a lunga gittata, finivano
per essere unicamente dei veicoli di trasporto che portavano i combattenti all’incontro col
nemico, per poi, a incontro avvenuto, diventare essi stessi un campo di battaglia nel quale
avvenivano prima lanci di proiettili a cortissima gittata e poi scontri fisici; perché ciò
avvenisse era però necessario prima attaccarsi strettamente al nemico con grappini
d’abbordaggio e uncini catenati, mentre il nemico poteva, se si riteneva di forze inferiori,
cercare d’evitare la battaglia respingendo i vascelli assalitori per mezzo di lunghe picche
puntate saldamente contro il loro bordo. Un altro modo di cercare di non combattere era
quello che usarono i franco-provenzali degli ammiragli Raymond Marquet e Berlinguer
Mallol contro i siculo-aragonesi dell’ammiraglio Ruggiero de Loria nel 1285, come
raccontava il d’Esclot nella sua Historia de Cataluña etc. Barcellona, 1616:
… Le galere del re d’Aragona infrattanto dettero nelle trombe e nei timballi, e gridarono a
gran voce “Aragona! Aragona!” E quelli delle galere del re di Francia che udirono gridarono
parimente “Aragona! Aragona!” per non far conoscere quali fossero le une, quali le altre. E i
siciliani che udirono gridarono “Sicilia! Sicilia! E i provenzali che stavano con le galere del
re di Francia gridarono egualmente “Sicilia! Sicilia!”, cosicché, quando furono tutte
mescolate, non si poteva facilmente capire quali galere fossero del re d’Aragona né quali
erano del re di Francia. E pertanto don Ruggiero volle che nelle galere del re di Aragona
accendessero un fanale a poppa; e i provenzali che stavano con le galere del re di Francia
fecero altrettanto. E don Ruggiero de Loria, non vedendo possibile altro rimedio, disse:
“Orsù! Visto che è così, faccia attenzione ciascuno, come meglio può, a non far danno ai
suoi; e addosso a quelli, in nome di Dio!”…
È’ interessante infine notare nella suddetta citazione una delle prime testimonianze della
potenza bellica marittima dei saracini, ossia dei magrebini, potenza che poi, a partire dal
sec. XIV, diventerà solo ausiliaria di quella ottomana.
Diremo infine che queste pietre da pugno, dette pure chiacchi da pugno, s’usavano
comunemente ancora nel Cinquecento e Christoforo da Canal (Della militia marittima.
Roma, 1930) scriveva che riuscivano di grand’effetto e un capitano prudente avrebbe fatto
bene a imbarcarne preventivamente almeno due barcate, come del resto si consiglia anche
nel summenzionato Governo di galere.
Oltre al vantaggio che i loro remieri, perché incatenati, non potevano fuggire (vn. fallire), le
galere a voga forzata avevano anche quello della prestezza con cui, ad un toccar di fischio,
erano eseguiti i servizi di bordo e che nasceva dall'esser i galeotti in catena sempre pronti e
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ai loro posti, posti che erano fisicamente vicini ai luoghi in cui andavano svolte quelle
particolari manovre; erano quindi pronti e svelti, non appena i marinai avevano portato la
vela sopra coperta, a legarla all'antenna e a farla così salire sino alla sommità della gabbia
dell'albero e, tosto che i predetti marinai avessero invece portato qualche fune o capo
d'ormeggio [l. rudens; ltm. palamarium, gr. πρυμνήσιον, ωρυμνήσιον; ἐπίγυ(ι)ον], a
svolgerlo, tenderlo fortemente e imbrogliarlo (termine di origine veneziana; in it. ‘legarlo’) in
un momento; bastava poi accennare loro che bisognava aprire o serrare la tenda perché la
cosa venisse eseguita in un batter d'occhio:
… Né è da tacere che, si come la prestezza nasce dalla prontezza che io ho detto, così la
prontezza nasce similmente dal timore, (il quale) partorisce ogni diligenza e bontà che in
questi galeotti si trova; ma da i galeotti liberi non si può ritrarre questo utile percioché non
che stiano a' luoghi loro, ma, come s'è detto, di continuo vanno discorrendo per la galea, si
come quelli che si sogliono valere della libertà loro né hanno, come gli sforzati, i loro capi.
(C. da Canal. Cit. P. 157.)
... lo havere gli sforzati tutti i loro banchi ad una medesima maniera coperti d'un piccolo
pagliariccio di canevaccia e sopra questo, strettamente cucita, una pelle acconcia di
vacchetta di color negro o rovano, come direbbono fiorentini, e dal di sotto di questa
attaccate due correggie alle quali essi appendono l'archibugio di quel soldato che ha la sua
balestriera vicino al banco loro; lo essere eglino vestiti ad una medesima livrea (‘con un
vestiario uniforme’), il tener ciascuno il suo schiavinetto (‘schiavina, coperta da schiavo di
galea’) bene e gentilmente piegato e posto acconciamente nella corsia... (ib. Pp. 158-159.)
Questi e altri vantaggi, già spiegati o da spiegare, rendevano l'ambiente di bordo molto più
razionale di quello delle galee veneziane:
... e sono special cagione della somma politezza ch'elle tengono, la quale invero è tale che
le nostre non si ponno pareggiare seco; percioché queste hanno i banchi carichi d'infiniti
panni coperti con una lorda schiavina, qual con un gabbano sdrucito e qual con una sozza
e fetida pelle di bue col pelo volto alla parte di fuora e tale con un rozzo e ammarcito
tappeto e sono poscia tutti ligati con cento milia capezzi di aggroppata fune ed infine
talmente gonfi e male acconci e assettati si veggono che da ponentini per loro proverbio è
detto:
Anche l'igiene era molto più curata sulle galere di ponente che in quelle veneziane; ecco
per esempio come i remieri inceppati si mantenevano scevri dai pidocchi:
... A questo si aggiunge la nettezza - parte molto necessaria nei soldati e molto più negli
huomini della galea - e questa negli sforzati è non meno debita che ordinaria, poiché è dato
loro per legge da i loro capi e chi non l'osserva a punto è fieramente battuto con una qualità
di sferze che non si adoperano coi fanciulli. Hanno adunque per necessario ordine, dal
quale ne deriva uno infallibile costume, di nettarsi ogni mattina sul levar del sole, ond'essi
vanno dal di fuora della galea, cioè sopra il palamento, appresso la banda di essa galera di
rimpetto ciascuno al suo luogo e tanto di fuora quanto può concedere la longhezza della
catena ed ivi ciascuno con molta prestezza, trattosi i panni d'addosso, con molta diligenza
gli va ricercando e purgando, scuotendo fuora ciò che vi si trova; indi, rivestitigli
prestamente, ciascuno con una scopetta in mano è intento a nettar il luogo che gli serve per
stanza così del giorno come della notte. (ib. Pp. 157-158.)
La lunghezza della catena permetteva a questi remiganti d'andare alla banda pure per
vuotare o scaricare il ventre, come allora pudicamente si diceva, dovendo infatti fare anche
questo in mare, mentre per orinare usavano degli orinali (l. matulae, matellae, matelliones)
in dotazione che si passavano l'un l'altro e poi svuotavano fuori bordo; i buonavoglia
veneziani, non essendo incatenati, andavano anch'essi a defecare fuori bordo, ma in un
punto a loro all'uopo concesso e detto la poggia e cioè a sinistra in corrispondenza del
fogone, luogo dove pure si tenevano a volte piccoli animali vivi destinati alla macellazione.
… Hanno eziandio per ordinario il lavarsi un giorno per settimana e farsi levar tutti i peli a
talché rimangono mondi come noi e, perché nulla possa mancar a tal mondezza, hanno due
mude di vestiti l'una delle quali tengono sotto coperta nella ghiave (‘cavo, cavone’) dello
scrivano e se ne coprono quando è bisogno o per esser bagnati o per levarsi l'immondizia.
Il che nei galeotti liberi non avviene, i quali né mai si lavano se non quando loro viene voglia
di nuotare e di rado adoprano forbici o rasoio di barbiero e, se hanno doppi panni, in capo
di molti giorni se gli vestono; ma parecchi di essi non ne hanno se non quelli che per
ordinario portano, onde ad ogni tempo - e bagnati e asciutti - sono sforzati di tenerseli
sempre; e per questo, di leggieri facendo de' vermini (‘parassiti’), di leggieri eziandione
empiono tutta la galea e, che più, non sogliono nettarsi già mai. (ib.)
Qui il da Canal si riferisce certamente non ai dalmatini, di cui erano fatte la maggior parte
delle ciurme di Venezia e dei quali già decantò la buona igiene e la disponibilità di vestiti,
bensì evidentemente ai greci, i quali, anch'essi apprezzati, come sappiamo, però per altri
motivi, erano per lo più seminudi e ignari d'ogni regola d'igiene:
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... Tornando ai nostri (remieri) affermo che la immondizia è cagione, appresso quello che
sopra ho detto, di diverse infirmità, percioché le loro armi (‘ascelle’) di estate puzzano e dal
fetore si generano poscia doglie di capo e altri mali [...] quegli ch'usano gettarsi sovente in
mare sono per lo più solamente greci, i quali, quantunque tutto dì nell'acque come i pesci si
stiano, sono però sempre sordidi ed estremamente puzzano e quindi principalmente per
cagione d'immondizia apportano le febri ed ogni altro male nelle galee. Hanno tutti 'sì fatti
huomini i capegli lunghi insino agli homeri e le barbe insino al petto, il che fa che essi siano
sempre puzzolenti e pieni di vermini (‘parassiti’), percioché non che essi prezzino nettezza e
politezza ed offizio di barbiero, ma ha questa nazione 'sì fatto costume che anzi si
lascierebbono tagliar un orecchio che permetere già mai che si scortasse loro la barba o
capegli. (ib. Pp. 162-163.)
... La qual sanità per comune opinione viene dall'esser tutti quelli per la maggior parte
schiavi de' capitani delle lor galee, i quali, per l'utile che ne hanno, ne prendono cura e gli
governano in guisa che se fratelli o figli loro fossero; percioché, come fanno i buoni medici,
doppo le fatiche ed i sudori impongono che i marinari o vero che essi stessi l'uno all'altro
scambievolmente si freghino con un drappo di lino tutti gli humori e, poi che sono rivestiti,
non lasciano che per buono spazio, cioè per insino che hanno riposato a bastanza, si diano
al bere o altro disordine commettano; indi fanno recar loro il consueto mangiare - che per
ordinario è il riso - e a quelli che si sono ottimamente affaticati danno a bere vino con bona
e larga misura e di buona sorte, e carni eziandio in 'sì fatti tempi costumano dar loro in
molta copia. Oltre a ciò, non potendo come i volontari andar tutto dì per ogni terra e
conseguentemente né alle taverne né a' chiassi (‘bordelli’), due effetti che indeboliscono e
ammorbano gli huomini, è cosa che sopra modo conserva la loro sanità. Non possono
somigliantemente, come riscaldati sono, col vernicale in capo e barili di sotto il braccio
gettarsi in mare un mezzo miglio e più lontano da terra e andarsene poi così caldi dentro
alcun fiume o fonte ad attinger nell'acque dolci per cagione di bere, come sovente
veggiamo fare ai nostri, il che come io dissi, è cagione che molti rimangono alterati, molti
infermano e molti anco moiono... (ib. P. 160.)
Per quanto riguarda l'alimentazione a cui il da Canal qui si riferisce, abbiamo più sopra già
detto e ribadiamo che differisce da quella da noi in precedenza descritta in quanto lui
scriveva nella prima metà del Cinquecento, mentre nella seconda le cose cambieranno; fa
comunque ora questo autore comprendere un’altra differenza importante con il successivo
periodo della Controriforma e cioè l’abbondanza di schiavi privati al remo delle galee
veneziane. Si trattava di disgraziati comprati dai mercanti d’uomini nei territori balcanici più
interni e non soggetti a Venezia; di russi, lituani, ucraini, georgiani, insomma di slavi di ogni
nazionalità acquistati nell’Europa orientale; di tartari, di calmucchi, di kirghisi e di
innumerevoli altri deportati asiatici che i patroni di galera acquistavano - o direttamente o
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tramite mediatori - perlopiù in mercati della Dalmazia, dei quali il più fiorente, se così si può
dire, era quello di Ragusa.
Dunque le galere ponentine, come del resto abbiamo già visto anche delle turche, erano
certo più ordinate e sobrie delle veneziane, la cui gestione - calcolava il Contarini - costava
alla Serenissima 700 ducati veneziani circa il mese d'esercizio per ognuna, mentre il
Mantelli reperisce la somma di 6.000 ducati castigliani per il mantenimento d’una galera
sottile spagnola verso il 1560 e di 6.666 ducati napoletani per una partenopea nel 1578, fanti
di marina esclusi [Roberto Mantelli, Il pubblico impiego nell’economia del Regno di Napoli:
retribuzioni, reclutamento e ricambio sociale nell’epoca spagnola (secc. XVI – XVII), Napoli,
1986.]; infatti il da Canal, il quale, come sappiamo, le riteneva migliori delle veneziane, così
ancora le elogiava:
... quelle lor galee, le quali tutte sono fatte per commodo e utile e non per pompa come le
altre nazioni, imitando l'essercito di Dario, le fanno... (Ib. P. 159.)
Ovviamente qui il predetto autore per le altre nazioni intende implicitamente solo la sua
Venezia, dato che, come abbiamo appena visto, sulle galere turche si viveva in maniera
ancora più spartana; inoltre le squadre di galere della Serenissima erano travagliate da
gravi pestilenze le cui principali cause erano l'imprudenza e la sporcizia:
... Da questo dunque procedono nelle galee volontarie di molte infirmità, 'sì come petecchie,
quello che noi diciamo mazzucco e mille altre sorti di mali contagiosi che di leggieri d'un ad
un altro si appigliano e di febri pestilenziali parimente, le quali le più volte non saprebbono
guarir non dirò Hippocrate o Galeno, ma Esculapio medesimo. La sanità di quelli nasce
dunque, come s'è detto, dal buon governo de' capitani e sopra còmiti, così il contrario di
questo nasce dalla poca cura che vi prendono i nostri, onde convengono le nostre galee
rimanersi molte volte con poco honore in sioverno (‘scioverno’) o mandracchio che dir
vogliamo, inutili e presso che del tutto disarmate. (ib. Pp. 160-161.)
Premesso che scioverno e mandracchio (dal gr. μάνδρα-ας, ‘zona recintata’, attraverso il
derivato μανδράхης-ου) erano ambedue sinonimi di darsena, arsenale (l. navale, navalia;
ltm. arsenatus; gra. νεώριον; grb. νεώρια, νηοφυλαϰεῖον, νεώσοιϰοι; cst. tarazanas) ed
erano usati, specie il secondo termine, soprattutto nel Levante, questo giudizio del da Canal
non significa però che sulle galere ponentine le condizioni igienico-sanitarie fossero ottime;
è comunque vero che su quelle di Venezia esse fossero veramente pessime e lo
testimoniano le terribili epidemie che appunto la storia ci riporta esser frequentemente
scoppiate soprattutto sull'armate di galee veneziane, ultima quella del 1687 nei porti della
Morea.
394
Otre alle regole igieniche che si praticavano nel Tirreno, gli esperti veneziani ne
invidiavano di quella marineria molte altre; per esempio molto apprezzati erano i seguenti
usi invalsi sulle galere sforzate francesi e dello Stato della Chiesa; il primo cioè che al
ritorno dalle loro missioni i capitani di galera erano tenuti a riconsegnare tanti galeotti
quanti in partenza n’avevano ricevuto e ciò nel caso non potessero giustificare le perdite
con atti di guerra o con grandi e irreparabili incidenti subiti; il secondo che la riconsegna
dei galeotti, oltre che per numero, doveva avvenire anche per nome e altri contrassegni, in
modo che, nel caso fosse stato condannato al remo un gentiluomo o comunque una
persona anche d'altra condizione, ma da buon riscatto, non lo rimettessero arbitrariamente
in libertà per guadagnarne così una grossa somma di danaro, sostituendolo magari alla
catena con un altro remiero comprato a bassissimo prezzo. Questi ottimi ordini non si
sarebbero potuti tenere sulle galere volontarie di Venezia dove, ogni volta che un
buonavoglia moriva, era in facoltà del suo sovraccòmito di trovarne un altro che lo
sostituisse in qualsiasi scalo capitasse, anzi alla fine della missione la Camera dell'Armare
della Serenissima gli avrebbe rimborsato il costo di quell'ingaggio; quest'uso era
dannosissimo - pestilente lo definisce il da Canal - per la buona salute dei vogatori, perché i
sovraccòmiti non avevano quindi alcun interesse a curarli e a mantenerli in vita. Nelle
galere degli stati di ponente invece il capitano era costretto ad avere ogni riguardo per la
salute e la conservazione dei suoi remieri, in quanto, per sostituirne uno fuggito o morto
per ingiustificati motivi, era costretto o a combattere per far credere che fosse morto in
battaglia o a predarne un altro o ad acquistarne uno schiavo in qualche luogo; ma il
combattere per questo solo scopo poneva a rischio inutile tutta la galera, predare era una
cosa malagevole e spesso risultava anche ciò pericoloso e infine il comprare era oneroso,
perché i buoni remiganti molto costavano e d'altra parte di quelli cattivi poco si sarebbe
potuto valere.
La galera sforzata o armata de forcza o per forza, come si diceva nel Quattrocento, era
vantaggiosa rispetto alla libera o armata de bona voglia anche per quanto riguarda i costi di
gestione che comportava, in quanto i remieri buonavoglia percepivano soldo e questa
spesa era molto superiore a quella dei vestiti e degli altri generi di munizione che pur si
dovevano distribuire ai remieri incatenati; inoltre una galera ponentina francese, imperiale,
toscana, maltese, papalina o genovese che fosse - o anche una turca - durava il doppio di
quanto durasse una veneziana, perché le buonevoglie, essendo uomini liberi, volevano
scendere continuamente a terra e bisognava quindi che le galere di Venezia facessero molti
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scali, usurandosi di conseguenza molto di più di quelle di ponente, le quali invece non
facevano scalo se non per le pure necessità di bordo:
... Percioché, non mettendo esse giamai scalla (‘scala’) in terra, mancano di quel continuo
quassamento che è poi cagione che, a breve andare, si scavezzano nel mezzo della
colomba (‘chiglia’), come delle nostre tutte avviene; conciosiacosaché le ciurme libere
vogliono non solo nei loro bisogni andar fuora di galea, ma ad ogni loro beneplacito. Onde
da questo ne segue che le sforzate si conservano 25 e alle volte 27 anni salde ed intere e le
nostre con difficoltà alli 12 e non mai alli 14 pervengono. (Ib. P. 167.)
Inoltre per lo stesso motivo si faceva nelle galee veneziane un gran sciupio di palamento,
perché, affrettandosi esse continuamente a prender posto nei porti dove si poteva mettere
la scala (gra. ἐπιίβάθρα, διαβάθρα) a terra e contendendo tra di loro per arrivare a occupare
la miglior posta, ossia il miglior posto d'ormeggio, sempre succedeva che in queste gare si
stringevano e percuotevano l'una con l'altra, spezzandosi vicendevolmente un gran numero
di remi. Queste arregate avvenivano pure tra le galere ponentine, ma, poiché, come
abbiamo detto, queste facevano scalo molto raramente, le occasioni di danneggiarsi a
vicenda erano dunque molto meno frequenti.
Il frequente disperdersi a terra delle buonevoglie faceva sì che a volte le squadre veneziane
perdevano l'occasione di far qualche buona impresa per il tempo che si doveva perdere ad
andare a sollecitane il ritorno a bordo:
... E dove, per ridurgli alla galea, è mestiero che‘l trombetta o il tamburo vadano sonando in
volta e partitamente questo e quello per la città, gli sforzati, stando di continuo - per così
dire - attaccati al banco loro, al primo fischio del còmito danno i remi all'acque o le vele al
vento e subito mettono in opra il comandamento del capitano. (ib. P. 169.)
Si aggiunga ancora che nei quattro mesi invernali in cui non si usciva a navigare per esser
la stagione inadatta a vascelli di bordo così basso e di voga all’aperto i forzati e gli schiavi
delle galere ponentine potevano esser impiegati nella costruzione a basso costo di
grandiose opere pubbliche, come aveva fatto il principe d'Oria quando fabbricò il porto di
Genova e il Barbarossa, ossia il tanto famoso corsaro barbaresco rinnegato e generale
ottomano Kheir Eddine (‘Il bene della religione’) - soprannominato però, come sembra,
Khizr, quando, dopo essere diventato re d’Algeri nel 1518 al posto del defunto fratello Baba
Arouj, fortificò quella sinistra città; egli poi, costretto dal capo cabilo Ahmed Ben el-Cadi e
dal traditore Kara Hasan ad abbandonarla nel 1520, vi tornerà però l’anno successivo,
provocando con ciò l’assassinio del detto Ahmed, ma riuscendo a insignorirsene di nuovo
stabilmente solo nel 1525 e ricevendone poi nel 1527 il titolo ufficiale di beglerbegi dalla
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‘Sublime Porta', iniziandosi così la lunga reggenza ottomana della città. Si ricordi infine che
i galeotti incatenati non potevano fuggire dalla galera, cosa che invece le buonevoglie
facevano a ogni pie' sospinto, lasciando spesso le galere del tutto disarmate di remieri e
obbligando i loro sovraccòmiti ad andare a ingaggiarne di nuovi in diverse regioni,
anticipando il danaro necessario, soldi che poi avrebbero avuto non prima del loro ritorno
dalla missione, il che per di più con grande aggravio dell'erario pubblico.
Anche il Crescenzio, esperto ponentino e non veneziano, riconosce la superiorità delle
galere a voga forzata e infatti, laddove tratta degli schieramenti di battaglia, dice che le
galere più deboli si ponevano al corno sinistro, così come si faceva con le fanterie più
deboli nelle battaglie di terra, e cioè il predetto corno andava costituito con le galee di
manco peso, anzi galeotte, e altri vascelli leggieri armati di remieri scapoli, intendendosi per
quest'ultimi appunto i remiganti volontari non incatenati; il de la Gravière cita poi il militare
francese Colbert de Maulevrier, il quale nel 1666, scrivendo al fratello, allora ministro di
Francia e tra i principali fondatori della potenza marittima di quel regno, parlava della
campagna anti-turca da lui appena condotta sulle coste di Candia e così giudicava:
... En fait de galériens, il n'y a que les forçats qui puissent bien servir. (Jean Baptiste Jurien
de la Gravière, Les derniers jours de la marine a rames., Parigi, 1885.)
... Ha la Sublimità Vostra i condannati alla galea da quello Stato, ma oltre quelli, in
occasione di guerra e di bisogno, si potrebbe sperare d'averne qualche numero di buona
voglia, parte allettati dal premio, parte dalla persuasione del Duca; ma, per lo vero, si come
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quelle genti sono buonissime alla guerra così non sono molto atte alla marinarezza
(‘marinaresca; tlt’. marinaritia). (E. Albéri. Cit.)
Bisogna qui chiarire che il termine marinarezza già era a quei tempi impropriamente
adoperato per indicare il mestiere di marinaio o anche l’insieme dei marinai di un luogo o di
uno stato, ma in realtà il suo significato originario era stato solo quello di salario pagato o
da pagarsi agli uomini di mare.
Il ducato di Milano, non disponendo di sbocchi sul mare non aveva una sua squadra di
galere e pertanto cedeva i suoi condannati alla Repubblica di Genova a beneficio delle
galere del duca di Tursi e la citazione che segue, anche se è tratta da una relazione
diplomatica d’un secolo più tarda, riflette una situazione già esistente alla fine del
Cinquecento:
… Alla squadra del duca di Tursis (‘Tursi’), solita a stanziare in Genova, manda il
governator di Milano di tanto in tanto i condannati a galea di quello Stato. Questa catena - o
‘ligata’ che chiamano - per uso antico, non si sa come introdotto, ma per inavertenza o
dissimulazione de’ nostri maggiori lungo tempo continuato, entrava liberamente a’ confini
e, con permissione poi di Palazzo introdotta in Città, dopo la ricognizione che nelle case del
ministro (‘legato’) di Spagna e del detto duca si facea de’ medesimi, si conduceva
all’imbarco. (R. Ciasca. Cit. Vol. V, p. 54.)
Qui l’ambasciatore genovese Gioan Andrea Spinola, inviato alla Corte di Madrid, non voleva
certo stigmatizzare l’invio di forzati tanto necessari alle galere armate dai suoi conterranei,
ma solo la circostanza che la loro catena si facesse entrare liberamente in città, spettacolo
certo poco piacevole e non consono al decoro d’una capitale, mentre si sarebbe potuto
certamente farla proseguire per Finale, come si faceva del resto per le fanterie provenienti
dal Milanese, e colà le galere sarebbero andate a imbarcarli con tutto comodo; ma la verità
era che il residente spagnolo li voleva prima comodamente al suo domicilio per assicurarsi
che tra essi non ci fossero suoi connazionali, perché a questi non era consentito vogare su
galee che non fossero quelle spagnole, e il generale delle stesse galee – il detto duca di
Tursi di Casa d’Oria – approfittava anch’egli di tale circostanza per passare i condannati in
rassegna e dare così la sua preventiva approvazione formale al loro imbarco senza dover
per questo allontanarsi da Genova.
La squadra dei particolari genovesi, la quale era formata da condotti di galera, ossia da
proprietari di galere conduttizie (‘da noleggio, mercenarie’), per lo più delle famiglie d’Oria,
Grimaldi, Lomellino, Sauli, Centurione, de’ Mari e nei secoli precedenti anche altre come
Fiesco, Volta, Negro e Spinola, riceveva condannati anche dalla repubblica di Lucca, uso
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che sembra sia stato iniziato dallo stesso principe di Melfi, il quale, informato dal Consiglio
degli Anziani di Lucca del fallimento della sollevazione dei tessitori detta degli Straccioni,
avvenuta nell’aprile del 1531, subito rispondeva rallegrandosi dello scampato pericolo:
… Quando Andrea Doria ebbe ricevuto dalla Repubblica di Lucca la notizia che la sedizione
degli Straccioni era stata vinta, rispose da Pegli il 15 aprile 1532 (sic) per esprimere la sua
incredibile allegrezza. In essa lettera soggiunse:
‘… e perché mi persuado che di quelli malfactori che sono incarcerati ne vorranno fare
diverse demonstrazioni, come in tal caso si richiede, gli raccordo che tengo numero di
galere, delle quali e d’ogni altra cosa mia Vostre Signorie possano disporre come me
medesimo. E per questo e per essere continuamente e maximamente adesso bisognoso di
forzati e huomini da remo, pregole siano contente farmi parte d’essi malfactori; che quanto
sarà maggiore, tanto più obligato mi haveranno e potranno promettersene maggior servizio,
oltra che la punizione di quelli non sarà minore di quella che gli potesse esser data per altra
via (Anziani al tempo della Libertà, registro n.° 544).’
In forza di questa proposta del Doria, che fu accettata, i giudici lucchesi ebbero a
condannare una parte de’ sediziosi alla pena della galera, insolita fino ad allora e taciuta
nelle varie compilazioni delle leggi repubblicane. Anche lo Statuto del 1539 non ne fece
parola, ma oramai l’uso era invalso e nel progresso de’ tempi il Consiglio Generale o i
giudici da lui delegati e investiti d’autorità arbitraria seguitarono ad applicarla non
raramente. Si seguitò del pari a mandare i condannati al remo sulle galere di Andrea e degli
altri ammiragli della sua casa. Sciolta poi la squadra al servizio di Spagna, si fecero
convenzioni per allogare i forzati sul naviglio della Repubblica di Genova. Allorquando i
tribunali lucchesi avevano inflitta questa sorta di pena, i condannati si mandavano a
Viareggio, da dove venivano a levarli gli aguzzini genovesi per mezzo di feluche. A questo
effetto carteggiavano gli Anziani cogli ammiragli Doria; poi i Cancellieri della Repubblica col
Magistrato genovese sulle Galere. La trasmissione a Genova di questi disgraziati cessò nel
1746, avendo quel Magistrato stesso mancato all’invito di mandare a prenderne alcuni e
dichiarato l’anno dipoi che l’eccessivo numero che se ne aveva impediva di accettarne più
oltre… (Inventario del R. Archivio di Stato in Lucca. Vol. II. Carte del Comune di Lucca, parte
II e III. Pp. 406-407. Lucca, 1876.)
Dopo qualche anno allora Lucca concluse con Venezia l’accordo di mandarle i suoi
condannati.
Quanta ciurma (gr. λᾱός) serviva a bordo d’una galera ordinaria alla fine del Cinquecento e
come la si disponeva alla voga? Questa disposizione è stata frequentemente discussa
perché, come al solito, nessuno ha voglia di andarsi a leggere gli spesso ostici e uggiosi
trattati coevi, limitandosi sempre, in materie militari, gli studiosi contemporanei al solo
leggersi e citarsi tra di loro, trasmettendosi quindi gli errori dall’uno all’altro, anche talvolta
aggravandoli; si aggiunga che si sono prese per buone le fantasiose e assurde ricostruzioni
tecniche della voga militare dell’antichità fatte da Marcus Meibomius (De fabrica triremium
liber. Amsterdam, 1671), autore che nulla sapeva di marineria e il cui studio in materia, pur
utilissimo dal punto di vista della ricerca filologica, non è certo di nessunissimo valore da
quello tecnico-storico. Eppure sarebbe bastato rendersi conto che i maggiori equivoci e le
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maggiori oscurità in materia sono dovuti al continuo sottintendimento nei testi antichi di
una semplice parola e cioè banchi. Infatti, quando nell’antichità si diceva vascelli biremi,
triremi, quadriremi ecc. s’intendeva in realtà dire a banchi biremi, triremi o quadriremi; cioè
a ognuno dei banchi disposti all’aperto in coperta lungo le due fiancate corrispondevano
due o tre o quattro remi azionati da altrettanti remiganti seduti su quel banco medesimo; il
che vale inoltre perfettamente anche per le galere medievali e moderne. La detta
disposizione di remi e remiganti s’intende per esempio chiaramente dalla lettura del
Pantera, eppure l’unico dei trattatisti coevi alquanto letti e le cui affermazioni al proposito
tornano con le purtroppo poche e poco chiare immagini pittoriche, grafiche e lapidarie
delle galere medioevali e rinascimentali che ci sono rimaste; il capitano pontificio infatti
così scriveva:
... Per queste ragioni possiamo creder che la Republica di Venezia non assegni alle sue
galee più che quattro huomini al remo e ciò, da poi che si è introdotto il remo grande
chiamato 'di scaloccio'; che prima, quando si armavano le galee a tre e quattro e cinque
remi per banco, secondo l'uso antico, in luoco d'un remo che usano adesso con quattro
huomini, non mandavano fuori le lor galee con più di tre huomini per banco che vogavano
altritanti remi, ciascuno il suo; il qual modo d'armare - come ho inteso da huomini vecchi
che hanno governato galee armate in quella maniera - riusciva meglio che quando sono
state armate con un remo tirato da tre vogatori. Ma, quando se ne mettano quattro ad un
solo remo, caminaranno senza dubbio meglio che se saranno vogate da quattro huomini
con quattro remi. (P. Pantera. Cit. P. 150.)
Spiegheremo poi il motivo tecnico di quanto afferma il Pantera, ma per ora limitiamoci a
prendere nota dell'importantissime affermazioni che in poche righe questo praticone ci ha
dato. Egli scriveva all'inizio del Seicento, dunque ci conferma che il passaggio dal sistema
antico di voga, detto a sensile (dallo sp. sencillo, semplice), ossia un remo piccolo per ogni
vogatore, a quello moderno detto di scaloccio (da ‘galloccia’ o ‘gallozza’, callosità
patologica che si forma sui rami delle piante), ossia un remo grosso per ogni banco e
vogato da più vogatori, avvenne a partire dalla metà del Cinquecento, ma molto, molto
gradatamente. Il Pantera deve aver inteso raccontare delle galere a sensile da vecchi
consiglieri di bordo o ex-capitani quando egli era stato giovane, probabilmente quando era
ancora un nobile di poppa.
Nella sua relazione di Spagna del 1557 il residente veneziano Federico Badoero trattava tra
l'altro delle forze di mare di cui allora disponeva nel Mediterraneo la corona di Spagna e che
erano allora ancora sotto il comando generale del vecchissimo e tanto storicamente
discusso principe genovese Andrea d'Oria, il quale, nato a Oneglia il 30 novembre 1466,
morirà a Genova novantaquattrenne il lunedì 25 novembre del 1560, venendo il suo corpo
400
seppellito nella chiesa di S. Matteo; il Badoero scriveva che tali galere erano tutte sottili da
25 banchi per ogni lato, all'infuori di due bastarde - galere di cui abbiamo detto - e due
quadriremi, ossia a quattro remi sensili per banco, secondo lo stile tradizionale che veniva
dall'antichità, le quali ultime quattro avevano quindi un numero di banchi superiore ai 25.
Poco dopo però chiarisce che molte di queste galere erano a voga di scaloccio, cioè già
dotate del nuovo sistema, e a suo giudizio inferiori alle veneziane sia in strutture che in
armamenti; questa valutazione negativa viene mitigata quando egli tratta in particolare di
quelle spagnole, anche se continua a ritenerle non delle migliori:
... le quali però non sono né di bel sesto né molto ben tenute; vogano molte di esse ad un
remo per banco e sono assai preste. (E. Albéri. Cit. S. I, v. III, p. 261.)
Dunque apparvero le prime galere ordinarie a scaloccio alla metà del secolo, ma questo tipo
di voga, come abbiamo già dimostrato, esisteva anche prima perché precipuo delle
galeazze, galee grosse, maone e parandarie, e che quello fosse il periodo è anche
confermato nel 1560 dalla relazione letta al suo doge dal bailo a Costantinopoli Marino
Cavalli, laddove scriveva delle galere turche:
... Vanno ogni giorno facendo nuove esperienze di voghe, ora con quattro ora con cinque
remi per banco, mettendo tre, quattro e cinque uomini ad un remo; ma per verità non fanno
quel profitto né riescono loro le cose così bene come nell'arsenale di Vostra Serenità. (E.
Albéri. Cit. S. III, v. I, p. 293.)
In genere sempre disposti, come abbiamo già detto, ad adottare le novità che vedevano
sulle galere ponentine, i turchi, solo per quanto riguarda questa trasformazione della voga
delle galere ordinarie da sensile a scaloccio, pur dunque pronti a sperimentarla, furono poi
in effetti più lenti dei cristiani ad avvalersi in grande stile tale innovazione e lo fecero,
sembra, con una quindicina d’anni di ritardo, cioè qualche tempo prima di Lepanto, se
confrontiamo quanto ne dice il suddetto Governo di galere con le affermazioni fatte dal
bailo Jacopo Ragazzoni nella sua relazione del 1571, la cui stesura precedette
evidentemente di qualche mese la detta battaglia:
... Sono le galee turchesche più alte che le nostre e vogano quasi tutte a un remo solo per
banco, tirato per l'ordinario da tre uomini; e sono i loro remi molto più sottili de' nostri e
dicono usarli di quella maniera perché affannano manco i galeotti. (E. Albéri. Cit. S. III, v. II,
p. 100.)
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… È a causa dei nostri peccati che abbiamo abbandonato la vecchia voga. Il nuovo sistema
adottato ci offre un solo beneficio; noi dobbiamo spesso fare dei lunghi viaggi in Spagna, in
Barbaria, in Sicilia, nel Levante e le nostre galere vi sono molto esposte ad incontri con i
corsari barbareschi; noi disponiamo allora i banchi di esse in tal maniera che possono
ricevere quattro o cinque uomini per banco. Abbiamo così la facoltà di rinforzare le nostre
402
ciurme prendendo in prestito uomini dalle altre galere… (Biblioteca Marciana di Venezia –
Sez. Ms.)
Il d’Oria voleva qui dire che la maggior velocità dei più agili e leggeri vascelli corsari nord-
africani si poteva pareggiare solamente aumentando all’occorrenza la spinta vogatoria, cioè
aumentando il numero dei vogatori; questo s’otteneva dunque molto più facilmente
stipando più uomini allo stesso remo, oltre che sullo stesso banco, e ciò senza dover
aumentare le misure dei remiggi della galera.
Il sistema a sensile era stato quello sino allora usato nelle galere sin dalla più remota
antichità e comportava dunque che ogni remigante avesse il suo remo, pur condividendo il
banco con altri vogatori; quindi, a seconda del numero di remiganti che sedevano su ogni
singolo banco della galera, questa poteva essere, come già sappiamo, bireme, trireme,
quadrireme, quinquereme, esareme, eptareme ecc.
Mentre nell’antichità si era combattuto soprattutto con triere, cioè con vascelli a tre ordini di
voga, invece nel Medioevo, evo certo economicamente più povero sia del precedente sia del
seguente, si combatteva, come meglio vedremo, più spesso con le più modeste biremi,
allora dette galeae anch’esse come le triremi, ma erano in realtà le stesse cioè poi nel tardo
Rinascimento prenderanno il nome di galeotte lasciando così quello di galee o galere alle
moderne triremi e, a maggior ragione poi a quelle più tarde a remo di scaloccio, le quali
saranno dette bastarde o quartierate e avranno un numero di remiganti superiore ai tre per
banco. Nel 1560 il vescovo di Mondoñedo Antonio de Guevara, predicatore e cronista,
membro del consiglio dell’imperatore Carlo V, nel 1560 non prendeva proprio più in
considerazione ormai galere d’armata che fossero solo biremi:
... y, al fin de muchas esperiencias hechas en las galeras, resumieron se todos en que la
buena galera ni ha de subir de cinco remos por banco, ni abaxar de tres. (Arte del marear y
de los inventores della y los trabajos de la galeras con muchos avisos para los que
navegan con ellas. Valladolid, 1538 e Barcellona, 1613.)
I banchi di voga a sensile non erano - né avrebbero potuto essere - perpendicolari all'asse
longitudinale della galera, bensì erano obliqui, cioè l'estremità interna del banco era più
arretrata verso poppa di quella esterna e pertanto tutto l'insieme dei banchi presentava la
forma d'una spina di pesce; ciò perché ovviamente gli scalmi dei due, tre o più remi d’ogni
banco erano posti in sequenza e con un banco perpendicolare avrebbero dovuto
coincidere; poiché poi, nelle poche immagini di galere dell'evo antico che ci sono
pervenute, sono stati a volta rozzamente e sproporzionatamente rappresentati degli occhi di
403
scalmo - tanti quanti si voleva che fossero i remi della galera - posti in serie oblique e uno
leggermente più in basso dell'altro, gli archeologi ne sono rimasti spesso ingannati e
portati a credere che, invece di più ordini di remiganti, ce ne fossero più livelli, alcuni dei
quali posti magari sotto coperta; in aggiunta a ciò c’è da osservare che la coperta della
galea, come generalmente le coperte di tutti i vascelli, non era del tutto piatta bensì da
ambedue i lati era lievemente declinante verso la fiancata e ciò al fine di far defluire in mare
sia l’acqua piovana sia quella marina che le onde, quando alte, le lasciavano; quindi il
remigante più interno, cioè quello più vicino alla corsia, sembrava forse stare un po’ più in
alto di quello più esterno, ossai quello più vicino alla battagliola, ma in effetti non lo era
perché le gambe del banco, essendo d’altezza leggermente differente, pareggiavano il detto
declivio della coperta; altrimenti anche il banco sarebbe risultato declinante e quindi
scomodissimo.
Il de Savérien, esperto di marineria vissuto nel settecento, a proposito di quest'argomento
delle galere antiche e nonostante questo tipo di vascelli ancora esistesse ai suoi tempi,
confessava di non capire come nell'antichità fossero stati disposti i rematori e così scriveva
a proposito delle semplicissime biremi:
...On a beaucoup écrit pour savoir comment étoient placés ces rangs de rames; et c'est,
malgré cela, un point d'histoire très-inconnu. (Cit.)
In effetti, qualche esemplare di grossa galera nella quale si vogasse anche sotto coperta ci
fu e abbiamo già detto che, per esempio, n’aveva ancora qualcuna la Francia nella prima
metà del Cinquecento; ma abbiamo anche visto che i remi dell'ordine esterno e superiore, a
causa della loro minore inclinazione sul mare, servivano solo per aiutare a girare il vascello
e comunque, anche se gli antichi fossero in qualche caso riusciti a trovare la giusta
inclinazione per ambedue gli ordini di remi, magari facendo quelli superiori molto più lunghi
degl'inferiori, pure sarebbe stato pressocché impossibile governare la galera, per non veder
gli uni quello che facevano gli altri o, per lo meno, per non poter i vogatori superiori agire in
buona sincronia con quelli di sotto.
Il sistema a scaloccio nelle galere ordinarie si diffuse dunque lentamente, come scriveva il
Pantera, dalla metà del Cinquecento; ma questo, come abbiamo già più volte chiarito,
esisteva già da prima su altri tipi di vascelli a remi, anzi è estremamente improbabile che
un’idea così semplice non sia stata sperimentata anche nell'antichità. Abbiamo già visto
che per esempio le parandarie turche del Quattrocento erano spinte da remi di scaloccio a
tre rematori per remo; ma anche le galeazze, le quali esistevano, come abbiamo detto, ed
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erano usatissime già nel basso Medio Evo, cosa che si legge per esempio nelle cronache
del Quattrocento, e le galee grosse veneziane, anch'esse tanto menzionate dal Sanuto nei
suoi annali dello stesso predetto secolo, e le maone turche non potevano esser spinte a
sensile e ciò a causa della loro mole e altezza, proporzioni che avrebbero in tal caso
obbligato all'uso di remi individuali o troppo pesanti per un uomo solo o troppo sottili
rispetto alla loro lunghezza; dovevano pertanto esser spinte sicuramente a scaloccio, cioè
da remi lunghi, ma anche doppi e pesanti, manovrati ognuno da più uomini seduti sullo
stesso banco. Ora, con la voga di scaloccio, i banchi avrebbero potuto essere costruiti non
più obliqui bensì perfettamente perpendicolari all’asse centrale della galera; e invece si
continuò a disporli obliquamente. Perché? Le galere erano vascelli di linea, cioè in battaglia
si disponevano in linea di fronte, quindi non dovevano occupare lateralmente uno spazio
esterno troppo ampio, cosa che sarebbe accaduta con banchi e remi perpendicolari al loro
asse; quindi si preferiva perdere in potenza di voga, d’altra parte quasi mai necessaria, ma
guadagnare invece in manovrabilità e spazio in combattimento.
Nelle sue Mémoires Pierre de Bourdeilles visconte di Branthôme (1540 -1614), laddove
elogia il già ricordato generale delle galere di Francia Antoin Escalin, il quale aveva ricevuto
questa importante nomina una prima volta il 23 aprile 1544, accenna ai primi esperimenti di
voga a scaloccio sulle galere ordinarie tirreniche e cioè quello del 1535 voluto da Andrea
d'Oria e quella dell’anno successivo in Francia con la costruzione della galera La Reale:
... Era un uomo che intendeva bene il mestiere del mare. Fu lui che fece fare quella bella
galera che si chiamava 'La Reale' e che armò alla galoccia e a cinque per banco, delle quali
per il passato non se n’era veduta alcuna in Francia. In seguito si è continuato tal uso, il
quale è molto migliore di quello vecchio che è stato abbandonato da lungo tempo da tutto il
Levante (cioè ‘il Mediterraneo’, per i francesi). Quella che Andrea d'Oria aveva fatto per
l'impresa di Tunisi e per ricevervi l'Imperatore non era che da quattro e fu considerata a
quei tempi molto bella e superba.
La galera Reale che io dico fu tanto ben fatta e comandata dal valoroso generale che essa è
durata in servizio ordinario più di trent'anni, ancor che essa ha avuto (un) breve ritorno
sotto il defunto signor Gran Priore; e certamente per questo quel defunto patrone, il signor
marchese d'Elbeuf, ne fece fare una molto bella e del tutto simile che si chiamò 'La
Marchesa' dal suo nome. Il conte di Rets l'acquistò in seguito e dura ancora, ma migliore
come veliero. Ella servì da galera generale lui vivente e rese al signor de la Garde la sua
Reale, perché egli servì ancora abbastanza tempo da generale; ma, non potendosene più
servire se non come d'un vecchio cavallo che non ne può più, egli ne fece fare una ancora
più bella e migliore sia della Reale sia della 'Marchesa', tanto bene quell'uomo s’intendeva
della sua professione e l’amava. (Cit.)
Della predetta galera La Reale dava notizia anche Lazaro Bayfio nella dedica del suo De re
navali liber al re Francesco I di Valois, dedica datata 8 settembre 1536; ci sembra pertanto
405
generava spesso confusione e non per niente, come abbiamo visto, il Pantera era
favorevole alla voga a sensile solo fino alla triremi inclusa. Eppure il da Canal aveva una
volta sostenuto con questa sola galera un fiero combattimento di cinque ore contro tre
galere del corsaro barbaresco Bassà Guli, il che significa che, pur deludente dal punto di
vista nautico, questa quinqueremi faustina doveva però esser potentemente armata.
Prima del Pantera però i pareri in materia erano stati molto discordi; infatti il già ricordato
provveditore d'armata veneziano Nicolò Surian, nel già citato dialogo del 1583, lamentava la
scomparsa delle triremi e sosteneva addirittura che quelle potevano star al pari e anco con
avantaggio delle bastarde armate con remo grande di scaloccio manovrato da quattro
uomini (galere inquartate) (Cit.). Dunque, mentre il Pantera considerava le classiche triremi
superiori sì alle galere a scaloccio interzate, vale a dire a quelle con tre uomini a remo, ma
non all’inquartate, il Surian le preferiva anche a quest'ultime; ma, anche se il giudizio del
Surian dovrebbe sembrarci più fondato visto che egli visse quel periodo di transizione e il
Pantera, nato molto più tardi del provveditore, non aveva potuto conoscere le vecchie
triremi, cosa che del resto, come abbiamo visto, egli stesso riconosce, pure il residente
veneziano Giovan Francesco Morosini aveva già dato una testimonianza contraria alla tesi
più tardi sostenuta dal suo connazionale Surian quando, nella sua relazione dal Piemonte
del 1570, così aveva scritto delle tre galere d’Emmanuel Filiberto duca di Savoja:
... Al presente ne tiene solamente tre armate, due delle quali vanno con quattro uomini per
remo e la ‘Capitana’, ch'è la terza, la quale è di venticinque banchi, è più grande assai
dell'altre e va con cinque uomini per remo, usando loro armar tutte le galere con un remo
solo per banco, credendo che in quel modo vadano più forte per la ragion che dicono che la
virtù unita suol crescere, come disunita si sminuisce. E veramente queste galere del signor
duca si possono nominar tra le migliori di ponente, perché io le ho vedute vogar con quelle
della Signoria di Genova e con quelle del signor Gioan Andrea d’Oria, che sono riputate
eccellentissime, e non solo sono andate del pari, ma piuttosto hanno avanzato di qual cosa
in poco spazio, talché in molto si può credere che averiano anco fatto più. (E. Albéri. Cit. S.
II, v. II, pp. 133-134)
Questa testimonianza deponeva dunque già allora per quanto più tardi avrebbe affermato il
Pantera e cioè che il sistema di voga a scaloccio era conveniente dalle galere inquartate in
su; ma dimostrava anche un’altra cosa pure importante, ossia che Genova e Venezia furono
le ultime tra le potenze marittime mediterranee ad adottare il sistema monoremo, perché qui
appare chiaramente che le galere savoiarde in ciò differivano non solo dalle genovesi, ma
anche da quelle di parte del Morosini, cioè dalle veneziane.
Per i predetti motivi ancora all'inizio del Seicento c'erano alcuni che avrebbero voluto che le
galere a tre uomini per banco fossero attrezzate a voga di sensile, come nel passato, e non
407
... sarebbe meglio armar le galee a tre remi per banco, al modo antico che chiamavano -
come lo chiamano hoggi ancora gli huomini maritimi - a zenzile, che con un remo vogato da
tre huomini, e che costarebbe molto meno, valendo i tre remi piccioli la metà meno del remo
grosso, e si risparmiarebbe la spesa di un huomo. Ma, perché non ho ancor veduta alcuna
galea armata in questa maniera, non ardisco di darne giudicio né saprei eleggere il miglior
modo. dirò bene che la moltitudine di tanti remi, al parer mio, sarebbe di grande
impedimento ed incommodo a i soldati, non vedendo come potessero haver luoco e stare
alle ballestriere; e, quando si trattasse di alzare un tavolato sopra di loro, come si suol fare
nelle galeazze per servizio de i medesimi soldati, sarebbe necessario che la galea riuscisse
molto ingombrata e che, quanto più fosse aggravata, caminasse anco tanto meno. (P.
Pantera. Cit. P. 151.)
irrealistiche, come quasi sempre nell’iconografia antica e medievale, o gli antichi fanti di
marina, com'è più probabile, salivano lassù solo un momento prima dell'abbordaggio.
Se dunque da un canto il Pantera scriveva di non aver mai visto galere a sensile e da un
altro, come abbiamo visto, Genova e Venezia ancora ne avevano nel 1570, vuol dire che
queste scomparvero definitivamente solo verso il 1580 e quindi a Lepanto probabilmente di
galere ordinarie a remo di scaloccio ce ne dovevano esser poche o nessuna; a conferma di
ciò c’è la relazione di Savoia del 1570 scritta dal residente veneziano Giovan Francesco
Morosini, nella quale si giudicavano le galere savoiarde di allora qualitativamente molto
superiori a quelle delle altre potenze tirreniche per diversi rispetti, tra cui anche quello di
esser armate con il nuovo sistema dei remi di scaloccio.
In ogni modo, prosegue lo stesso Pantera, le galere si dovevano possibilmente armare
sempre a quattro uomini per remo grosso:
... come fa anco il Re Cattolico (‘il re di Spagna’), il quale, nelle occasioni d'imminente
battaglia, suole armar le sue galee a quattro huomini al remo [...] et questo è veramente il
vero modo di armar le galee. (ib.)
E preferiva questo re piuttosto portare in battaglia meno galere che in numero maggiore, ma
equipaggiati con meno ciurma. In verità però, non più tardi del 1570 Filippo II aveva sì
ordinato che tutte le sue galere fossero armate a quattro uomini per banco, ma non perché
considerasse questo il numero ottimale, bensì perché in tal maniera si sarebbe potuto
all'occorrenza togliere dalle galere fino a un quarto dei remieri per armarne delle altre,
magari utilizzandoli come esperti capi-voga; ma quest'ordinanza fallì il suo intento perché,
seppure quella corona aveva tanti buoni marinai come i catalani, i biscaglini, i maiorchini, i
sardi e gl'italiani in genere, trovava invece difficoltà a reperire galeotti a sufficienza, oltre al
molto danaro necessario per mantenerli; fu quindi quel re costretto a far marcia indietro ed
ha stabilire che ogni galera di tutte le sue squadre del Mediterraneo avesse 164 vogatori a
tre per ognuno dei 25 o 26 banchi per lato della galera sottile ordinaria, inclusi però i mozzi
di bordo; quest'ordinamento, che fu mantenuto anche dal figlio Filippo III, valeva sia per le
galere direttamente mantenute dall'erario regio sia per quelle assegnate, vale a dire date in
assiento, cioè in appalto ad alcuni nobili genovesi, i quali le armavano d’uomini in proprio e
percepivano per questo dal re un soldo complessivo o appannaggio annuo con il quale
dovevano mantenere e rifornire la galera e pagare il suo equipaggio; alla fine del periodo
contrattuale erano poi obbligati a restituire i vascelli nelle stesse condizioni in cui li
avevano ricevuti. Verso la fine del Seicento troveremo questa forma di gestione delle galere
anche nello Stato Ecclesiastico. Un rapporto fatto al re di Spagna il 13 giugno del 1603 dal
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…como por lo que importa más al servicio de Vuestra Majestad que nunca se hallan las
dichas galeras en orden como devieran, tanto que de muchas son pocas las que, quando es
menester, pueden navegar y muchas ha sido menester de dos hazer una... (Modesto
Gambacorta, Discurso del Regente Gambacorta sobre el mantenimiento de las galeras del
Reyno de Siçilia à 13 de Junio 1603. S.N.S.P., Ms. XXII.C.7.)
Spesso infatti le galere erano impreparate all’improvvise partenze perché, oltre a disporre
d’un numero incompleto di rematori per i motivi che poi vedremo, erano anche carenti
d’ufficiali maggiori e minori, perché i capitani generali autorizzavano con troppa liberalità
licenze anche estive, le quali, a norma di regolamento si sarebbero dovute dare solo per
justa causa e cioè solo per gravi motivi familiari (ib.); ma, anche se il Gambacorta non può
affermarlo esplicitamente, in realtà lascia capire che ciò era dovuto alla cupidigia degli
ufficiali generali, i quali concedevano le dette licenze dietro compensi in danaro. Bisognava
dunque che ogni mese si passasse la dovuta mostra, ossia rivista, alla gente di galera per
tenerne sotto controllo la presenza, ma in realtà era molto invalso l’abuso di ritardare tali
mostre di molti mesi proprio per nascondere le assenze dovute a compiacenti licenze o a
mancate sostituzioni di resi inabili o deceduti (ib.); eppure nel passato le galere siciliane
erano state considerate buone, superiori a quelle di Napoli, come aveva scritto il già citato
Badoero nel 1557 e inoltre le galere condotte (‘mercenarie’) dalla corona di Spagna erano
state a quel tempo, vedi la relazione del Soriano che è, come sappiamo, del 1559, esse più
costose di quelle di diretta gestione reale, soprattutto ovviamente di quelle date in partito o
assiento, cioè in appalto a privati:
… Nelle galere proprie Sua Maestà spende 3.500 ducati l’anno per ciascuna e nelle condotte
6.000. Spende manco nelle proprie e li capitani ne hanno più utile perché non stanno armate
più di otto mesi dell’anno, mentre le altre sono obligate per tutto l’anno e li capitani hanno
da far la spesa continua alli schiavi e provvederli quando ne mancano… (E. Albéri. Cit. S. I,
v. III, p.368.)
In realtà un ordine reale del 15 gennaio dell’anno precedente aveva già prescritto di dare in
assiento tutte le galere di Sicilia tranne la Capitan(i)a e la Padrona, ma nessuno si era
presentato a chiederle perché alcune clausole del capitolato d’appalto lo rendevano molto
410
poco conveniente; pertanto ora il predetto Gambacorta sollecitava la ripetizione della gara
d’appalto, ma in termini più appetibili. D’altra parte non si trattava d’idee nuove in Sicilia,
visto che, in un parlamento popolare tenutosi a Palermo il 24 aprile 1561 durante il
viceregnato di Juan de la Cerda duca di Medina Coeli (1556-1565), si era approvato un
donativo per aumentare le galere di Sicilia da 10 a 16, con condizione che (le nuove sei) si
dovessero dare al soldo e che i generali e capitani d’esse galere dovessero essere
siciliani… (M. Gambacorta. Cit.) Il numero delle galere siciliane si era sempre tenuto
alquanto basso perché in caso di necessità, per esempio dovendosi scontrare con molte di
quelle di Algeri, le quali erano sempre una ventina, usavano farlo unite a quelle di Malta.
Nonostante i grandi vantaggi che i partiti (‘appalti’) di galera apportavano, nel corso della
prima metà del Seicento questi saranno però in Sicilia come altrove gradatamente dismessi
per diversi inconvenienti, non ultimo la rapacità dei funzionari reali, dalle cui persecuçiones
infatti nel predetto 1603 certo Cesare della Torre, il quale pare sia stato l’ultimo asientista di
galere siciliane, chiedeva d’essere finalmente difeso (Ib.). Non a caso forse il primo dei due
lunghi generalati delle galere siciliane che furono esercitati da Pedro de Gamboa y Leyva,
iniziato nel 1588, termina proprio in quel 1603, anno in cui egli, il giorno 14 agosto, lascia
l’incarico e, caso più unico che raro, appena il giorno seguente viene sostituito dal
governatore maggiore di Castiglia (adelantado) Juan de Padilla; costui però, alla fine
d’agosto del 1606, morirà in una disastrosa sconfitta che, come abbiamo già accennato, i
siculo-maltesi, sbarcati da una squadra composta di 7 galere siciliane e tre di Malta il 15
agosto a 7 miglia a ponente di Mahomette (oggi Hammamet) in Tunisia, dopo aver preso
facilmente questa città, subiranno dopo qualche giorno a terra in quei pressi combattendo
pessimamente contro forze di reazione soverchianti raccolte in tutta fretta dai mori (Henry
du Henry, L’esclavage du brave chevalier François de Vintimille etc. Lione, 1608), e,
dichiarato ufficialmente decaduto il suo generalato solo il 24 agosto 1609, sarà richiamato il
Gamboa a riprenderne il posto a partire dal seguente 15 settembre, carico che poi manterrà,
secondo il registro degli Uffici di galera citato dall’Auria, sino alla fine di luglio del 1616.
Eppure, sempre secondo lo stesso predetto autore, la squadra siciliana che nel 1613,
essendo vicerè di Sicilia Pedro Giron duca d’Ossuna e conte d’Ureña (1611-1616), riportò
nell’Arcipelago una bella vittoria sui turchi, della quale più avanti diremo, era sotto il
comando del palermitano Ottavio d’Aragona Tagliavia, figlio di Carlo, principe di Castel
Vetrano, duca di Terranova e marchese d’Avola, promosso a quell’incarico proprio in
quell’occasione, evidentemente per i meriti guadagnatisi nell’anno precedente;
evidentemente il de Gamboa y Leyva doveva ormai essere troppo anziano e acciaccoso per
411
poter capitanare di persona le imprese della sua squadra. Nonostante si fosse saputo
dunque in quell’anno che l’armata turca, ora sotto il comando di Mehmed Pasha, era uscita
da Costantinopoli, a dimostrazione della grande fiducia nelle proprie forze marittime
acquisita dopo Lepanto dai potentati cristiani e invece quindi di pensare solo a potenziare
le difese costiere come si sarebbe fatto in passato, il suddetto vicerè subito fece allestire e
inviò nell’Arcipelago la predetta squadra siciliana, allora forte d’otto galere, ponendola sotto
il capitanato appunto del d’Aragona, perlomeno così narra l’Auria nella sua Historia
cronologica terminata nel 1697 e compilata soprattutto attingendo dalla precedente
cronologia dei vicerè di Sicilia scritta dal messinese Antonino d’Amico, canonico della
chiesa di Palermo, per incarico del vicerè d’allora Francisco de Mello duca di Braganza
(1639-1640) e stampata nella stessa Palermo nel 1640; queste otto galere dunque, fatti
dapprima degli schiavi sulle marine ottomane, l’inviarono poi a Palermo utilizzando un
veliero turco carico di mercanzie da loro preso mentre proveniva da Modone e poi, avendo
saputo il d’Aragona di 10 galere turche che navigavano nell’acque di Xame e Naquena
(Samo e Nicaria?), a 30 miglia dall’isola di Scio, le andarono a raggiungere e le affrontarono
il giorno 29 agosto, convincendole tutte alla resa nello spazio d’una sola ora, liberandone
dunque i tanti cristiani incatenati al remo e rimorchiandole infine a Palermo, dove furono
naturalmente accolte con grandi festeggiamenti. In seguito, nel corso del suo viceregnato,
il d’Ossuna invierà anche sei grossi velieri carichi di soldatesca nel Golfo di Venezia, come
allora si chiamava l’intero Mar Adriatico, a dar man forte ai veneziani nel tener quel mare
sicuro dai corsari turchi (Vincenzo Auria, Historia cronologica delli signori Vicerè di Sicilia
(1409-1697). P.63. Palermo, 1697.)
Tornando ora però alla questione dei rematori che bisognava porre a ogni banco, diremo
che tre erano in realtà sufficienti a un normale servizio di scorta o di trasporto di milizie o di
leggeri materiali da un luogo all'altro, ma, per affrontare vere e proprie battaglie marittime
n’erano necessari almeno quattro, altrimenti non si sarebbero ottenute la potenza e la
velocità necessarie in quelle circostanze; anzi, nell'imprese in cui occorreva essere ancora
più veloci, quali il sorprendere una località rivierasca del nemico, devastarla, saccheggiarla,
corseggiare sul mare, costeggiare (gr. ἐν χρῷ παραπλώεῖν; fr. ranger la coste, aller ou
courir terre-à-terre) le proprie riviere per sorvegliarle, ecc., occorrevano per lo meno cinque
uomini per banco, se la ciurma era buona, ossia veterana; ma, se la ciurma era in tutto o in
parte costituita da remieri nuovi e inesperti, allora non si poteva star tranquilli nemmeno
con 5, perché i novizi si stancavano presto e spesso si ammalavano, e bisognava quindi
tenere a bordo parecchi remiganti di più e di riserva per sostituire quelli che venissero
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meno. Se poi la galera era bastarda, ossia più quartierata e pesante della sottile ordinaria,
anche se il numero dei banchi era lo stesso, era consigliabile porre sei vogatori a ogni remo
dalla spalliera (fr. espale), cioè dalla prima fila dei banchi di poppa, alla mezzania e cinque
dalla mezzania alla prua; completamente a sei uomini per remo conveniva infine che si
armassero le galere Capitane o di comando in genere, essendo queste solitamente più
grandi dell'altre e inoltre più bisognose di potenza e velocità; il Morisoto ne menzionerà
infatti una spagnola del suo tempo chiamata Navia e molto apprezzata, la quale era
diventata famosa in quanto, appunto all'epoca di questo trattatista e cioè nel secondo
quarto del Seicento, le galere ordinarie erano arrivate a essere ormai stabilmente delle
quinqueremi, ma non dell’esaremi, ulteriore evoluzione questa che si verificherà solo nella
seconda metà di quel secolo, e infine, già cioè dal primo quarto del Settecento, saranno
dell’eptaremi; questi aumenti di ciurma saranno infatti sempre più agevoli in quanto il
numero delle galere tenderà nella guerra remiera a ridursi sempre di più a vantaggio di
quella velica. A proposito poi dell'armare le bastardelle con un numero maggiore di remieri
dalla spalliera alla mezzania, bisogna dire che più tardi il predetto trattato del Morisoto
consiglierà l'opposto, cioè cinque uomini per ogni banco dalla prua all'albero di maestra e
quattro da questo alla spalliera, e lo spiega così
... maiori enim impulsu prora, qua fluctus finduntur, eget quam puppis. (Cit.)
Le galere preminenti erano dunque armate con ciurma più numerosa; esse generalmente,
dovendo appunto impiegare al palamento un maggior numero d’uomini, erano per lo più
bastardelle, ossia, come già sappiamo, più larghe e forti delle comuni sottili:
... come si vede essere stato usato sempre nelle prime galee che habbiano messe in mare i
cristiani per così fatte imprese sin'à i tempi nostri. (P. Pantera. Cit. P. 148.)
Per quanto riguarda le galere sottili ordinarie, abbiamo appena detto che conveniva
inquartarle (rinforzarle in genovese), ossia armarle a quattro uomini per remo in caso di
battaglia e a cinque in caso di guerra di corso; ma non sarebbe stato allora meglio armarle,
potendo, senz'altro a cinque uomini anche in battaglia? No, perché in tali occasioni le
galere erano generalmente stracariche di soldati e tanta ciurma non avrebbe lasciato loro lo
spazio necessario per muoversi e combattere agevolmente; inoltre tanto carico d'uomini a
bordo avrebbe troppo appesantito il leggero vascello, il quale sarebbe così risultata
impacciata e lenta; infine, poiché alle battaglie si partecipava di solito con molte galere,
413
difficilmente si sarebbe potuto trovare tanta ciurma per tutte; comunque, nelle grandi
armate si soleva tenere sempre una buona squadra di galere rinforzate di ciurma più delle
altre e quindi velocissime, il cui compito era fare la scorta, l'avanscoperta, pigliar lingua dei
nemici, vale a dire, cone già detto, andare a informarsi della loro consistenza e delle loro
mosse, ecc. Queste galere inquintate, ossia a cinque uomini per remo, sia quelle che
avevano i predetti compiti delicati sia quelle bastardelle che facevano da Capitan(i)e o
Padrone di squadra, usavano portare anche vogatori di riserva, generalmente novizi del
remo, i quali in tal maniera, oltre a sostituire gli stracchi, i feriti e i malati, imparavano a
turno la voga:
... Le quali cose tutte vediamo usarsi continuamente nelle nostre galee bene armate, per
che, dove si suole vogare co' cinque huomini per remo, vi si mette bene spesso il sesto, il
quale, se bene è di poco aiuto al remo, 'sì per esser per il più huomo nuovo come per il sito
in che si trova, tuttavia ne i bisogni è di grandissimo giovamento, poi che con questo
supplemento si alleggeriscono i più stanchi con fargli mutar luoco e sostituirgli ne i luochi
de gl'infermi e de i convalescenti e de i morti. (Ib. P. 21.)
Questo privilegio delle galere preminenti e di comando era importante perché sempre
c'erano a bordo uomini più deboli o malati da sostituire e una galera nominalmente da
cinque per banco, se priva di questi rincalzi, finiva per vogare a quattro o anche a meno.
Naturalmente il problema esisteva anche per le galere da tre o quattro uomini per remo, ma
in quel caso i capitani dovevano e potevano semplicemente arrangiarsi, perché sulle galere
ordinarie i vogatori di riserva non erano previsti.
Sulla necessità di una preminenza delle galere di comando anche in fatto di remiganti si
può leggere tra l’altro una raccomandazione del soprintendente generale Gioa Andrea
d’Oria fatta nel 1584 al suo re Filippo II di Spagna:
Se i capitani generali delle galere di Vostra Maestà chiedono prender per assiento le loro
‘capitane’ e ‘padrone’, non importa in che misura Vostra Maestà comanderà di dargliele –
capisco che con ciò avrà un risparmio, ma è da avvertire che le ‘capitane’ devono portare
cinque remieri per ogni banco e le ‘padrone’ quattro, con tener poi sempre un po’ di ciurma
in soprannumero da poterla utilizzare al posto di quelli che si vanno ammalando (Colección
de documentos inéditos para la historia de España etc. P. 181. Tomo II. Cit.)
corsia centrale del vascello. Le galeotte, che Pantero Pantera diceva da i nostri tanto poco
usate, quanto molto stimate da i turchi (cit.), si armavano a due uomini per remo se erano
vascelli da 16 a 18 banchi e a tre se invece da 18 a 22; stavano da qualche tempo
sostituendo le vecchie fuste, le quali erano biremi dai 12 ai 18 banchi per lato.
L'uomo che vogava all'estremità interna del remo a scaloccio, cioè vicino alla corsia, e
pertanto manovrava il girone o giglione (l. manubrium; gr. ἐγχειρΐδιος), ossia l'apice interno
del remo a forma di fuso e lungo circa un palmo, si chiamava vogavanti (vn. pianero) ed era
il capovoga del suo remo; egli, poiché dava l’impulso iniziale al remo, comandava infatti gli
altri e faceva la maggior fatica, dovendo egli solo alzarsi e risedersi a ogni palata; doveva
pertanto essere forte e robusto e dei migliori vogatori della galera. I vogavanti del primo
remo dopo la poppa – in ambedue i lati – erano capivoga non solo del loro rispettivo remo
ma di tutto il loro rispettivo lato della galera; il remigante seduto accanto al vogavanti si
chiamava posticcio, il terzo, quello più vicino al bordo della galera, si chiamava terzarolo
(vn. terzicio o terzichio); se si trattava invece di una quadriremi o quinqueremi, allora al
terzarolo seguivano il quartarolo, eventualmente il quintarolo e così via. Nelle triremi
bizantine s’usava un'altra terminologia per distinguere i remiganti e cioè quelli più interni si
chiamavano traniti (θρανίται) ed erano quindi, in quanto vogavanti, molto apprezzati e
valutati perché scelti tra i migliori; quelli di mezzo erano detti invece zoighiti (gra. ζευγίται;
grb. ζυγίται). Gli ultimi, quelli più esterni che sedevano alla fiancata, dovendo fare il
movimento di voga meno ampio e veloce e quindi meno faticoso, erano di solito i meno
esperti e validi e si dicevano in gra. θᾰλᾰμίται e in grb. θαλάμιοι, ossia ‘camerieri’; infatti nel
Suida vediamo θαλαμίδιοι ϰῶπαι (‘remi talamidici’) spiegato in l. con remi lente remigantes
(T.II, pp. 162; 203). Ma perché questi nomi? I traniti (θρανῖται) perché, come leggiamo nel
Suida, essendo dunque quelli che dovevano fare il movimento più ampio e veloce e quindi
sopportare una fatica maggiore, disponevano di un poggia-piede dal quale darsi la spinta
di voga, attrezzo che si chiamava θρᾶνος o anche θρᾰνίος, nome che non significava
dunque affatto, come diversi studiosi inesperti di marineria remiera hanno poi creduto, che
egli sedesse su un banco (un ‘trono’) tutto suo più alto di quelli dei suoi compagni di voga;
gli zoighiti [ζύγιοι)], vogatori di qualità intermedia e spesso uomini di nazionalità alleate,
erano detti così da giogo (ζεῦγος), perché facevano in un certo senso da intermediari tra
talamiti e traniti come il giogo tra i due buoi, e infatti Omero chiama i vascelli poliremo
πολύζυγοι, ‘poligiogo’; infine i talamiti [‘camerieri’; θαλαμίται, θαλάμαϰες, θαλαμιοί], così
chiamati perché vogavano a fianco alla stretta corsia di fiancata, la quale si chiamava
ϰατάστρωμα, ma era detta ironicamente talamo (gr. θἆλᾰμος, ’letto nuziale’; nome da non
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confondersi però con il sinonimo che, come abbiamo già visto, significava ‘stanza di
coperta’), in quanto di notte serviva da letto a soldati e passeggieri - ma più tardi, quando si
incominceranno ad imbarcare soldati balestrieri, sarà ribattezzata balestriera; dunque il
nome talamiti non era dovuto a un trovarsi questi remiganti ‘nella parte più bassa e scura’
dei remigi, cioè sotto coperta, come leggiamo talvolta anche nei migliori vocabolari! Infatti i
remigi di triremi e galee non erano per nulla su livelli di coperta differenziati, come a volte si
vede erroneamente addirittura raffigurato in libri di autori moderni; ma in questo campo
anche gli antichi talvolta ‘mancavano clamorosamente il bersaglio’ e per esempio il
lessicografo ’Giulio Polluce (Ὀνομαστικὸν ἐν βιβλίοις δέϰα), al secolo Giulio Poliudoiches,
vissuto nel secondo secolo d.C., addirittura scriveva che le suddette tre categorie di
rematori prendevano nome non dal posto a sedere che occupavano nel loro banco ma da
quello di zone differenti della coperta della galea, zone in realtà assolutamente inesistenti.
Il remo di scaloccio era troppo grosso perché le mani dei remieri potessero impugnarlo e
quindi v'erano inchiodate delle maniglie di legno dette maniccie o galloccie (gr.
ἐπιϰωπητῆρες), da cui appunto l'italiano remo di scaloccio e il francese rame à la galoche. Il
remo poggiava, come abbiamo già detto, su un lungo legno orizzontale detto posticcio e dal
quale prese evidentemente il nome il predetto secondo vogatore, perché egli sedeva
appunto vicino a quel legno al tempo delle galere medioevali, le quali, come abbiamo già
detto, erano più spesso delle biremi e queste erano infatti allora le sole a chiamarsi galee,
mentre quelle a tre remieri per banco erano dette in quei secoli non galere, bensì ancora
triremi come nell’antichità (galeae et triremis è non a caso una dizione che si reperisce
frequentemente nelle leggi e prammatiche rinascimentali).
Il remigante teneva il piede sinistro incatenato al banco e fermo su una panchetta molto
bassa posta tra banco e banco sulla coperta e detta banchetta (fr. contre-pédagne), mentre,
vogandosi con forza, con il piede destro montava sulla pedagna (vn. pontapiede), ossia su
un asse attaccato dietro al banco davanti, un piede più in basso, per potersi dare così una
spinta all'indietro, tirare il remo con tutta la forza necessaria e cascare infine a sedere sul
suo banco, il quale, come abbiamo già ricordato, era ricoperto da un cuscino di cuoio
imbottito di canna trita, detto strappontino (gr. ὐπηρέσιον), affinché il vogatore, cascando in
tal maniera sul banco, non si facesse male; questo era però il tipo di voga più impegnativo e
ne vedremo più avanti i vari modi che erano usati. Generalmente la banchetta era
abbastanza larga da servire anche da letto per il vogavanti del banco, il quale aveva così un
giaciglio riservato e privilegiato rispetto ai suoi compagni; dobbiamo però precisare che al
tempo delle galere a sensile sulle galere ponentine essa era stata invece molto piccola e
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detta scalettino, mentre - sempre a quell'epoca - la pedagna non esisteva per niente né a
ponente né a levante, non usandosi ancora vogare dandosi quella spinta col piede destro
se non nel particolare tipo di voga veneziana che si diceva stroppata e che poi
descriveremo, dove però i galeotti salivano col piede destro direttamente sul banco davanti
e quindi non avevano bisogno d’altri sostegni. Facevano eccezione i suddetti privilegiati
traniti greco-bizantini, i quali invece, come abbiamo già accennato, disponevano di uno
sgabello poggia-piedi detto θράνος o θράνιον, da cui il loro stesso nome (ib.) Nel
Settecento le galere francesi risulteranno avere, come si legge nel Dictionnaire del
Savérien, anche un pedagnon, ossia un punta-piede da usare quando si sciava, cioè
quando si vogava per avanzare di poppa, ma l’accenno fattone da questo autore è un po’
troppo laconico perché si possa capire in che punto del banco o del remiggio era situato
(Alexandre de Savérien. Cit. P. 221. Parigi, 1758).
A conferma di quanto appena detto riteniamo interessante riportare dal de la Gravière un
brano delle memorie del remiero Jean Marteille de Bergerac, condannato nel 1701 in Francia
alla galera perché protestante, e ciò perché, anche se si tratta d’epoca molto più tarda, il
passo ben si adatta pure a quella da noi descritta:
... Tutti i forzati sono incatenati a sei per banco. I banchi sono distanziati di quattro piedi e
coperti d'un sacco imbottito di lana, sul quale è gettata una bazzana che discende fino alla
banchetta o predella. Il còmito, il quale è il capo della ciurma, si trattiene in piedi indietro,
vicino al capitano, per ricevere i suoi ordini. due sottocòmiti sono l'uno nel mezzo, l'altro
vicino alla prua. Ciascuno di loro è armato d'una frusta che usa sui corpi affatto nudi degli
schiavi. Allor che il capitano ordina che si voghi, il còmito dà il segnale con un fischietto
d'argento (sp. pito) che porta appeso al collo. Questo segnale è ripetuto dai sottocòmiti e
subito gli schiavi battono l'acqua tutti insieme: si direbbe che i cinquanta remi non ne siano
che uno.
Immaginate sei uomini incatenati ad un banco, nudi come se fossero appena nati, un piede
sulla pedagna, l'altro sollevato e messo sul banco che è davanti a loro, impugnando un
remo d'un peso enorme, allungando i loro corpi verso la poppa della galera e le braccia
distese per spingere il remo al di sopra del dorso di quelli che sono davanti a loro e che
prendono la stessa attitudine; portati così avanti i remi, essi sollevano l'estremità che
tengono in mano per immergere l'estremità opposta nel mare. Ciò fatto, essi si gettano essi
stessi all'indietro e ricadono sulla panca, la quale si piega nel riceverli.
Qualche volta il galeotto rema così dieci, dodici e anche venti ore di seguito senza il minimo
riposo. In tale occasione il còmito od altri marinari mettono nella bocca dei remiganti un
boccone di pane inzuppato di vino per prevenire lo svenimento. Allora il capitano grida al
còmito di raddoppiare i suoi colpi. Se uno degli schiavi sviene sul suo remo, il che succede
frequentemente, egli viene sferzato finché non sia tenuto per morto, poi lo si getta in mare
senza cerimonia. (Cit.)
417
Un tale sprezzo della vita dei remieri era forse possibile al tempo del Marteille perché le
galere erano ormai poche; ma prima, quando le galere erano state tante e i galeotti quindi
sempre insufficienti, non pensiamo che ci si potesse comportare con tanto spreco.
I due migliori vogavanti, ossia i due migliori remiganti della galera, si ponevano ai due
banchi di spalla, i quali erano i primi subito dopo le spalle della galera, quindi in effetti i più
vicini alla poppa, e i cui remiganti si chiamavano pertanto spallieri; il più bravo al banco di
destra, essendo tale lato sempre stato considerato - sia in mare che in terra - il più nobile
dei due e per il semplice motivo che all'ala destra di qualsiasi schieramento di battaglia si
ponevano reparti migliori, e l'altro al banco di sinistra. Questi due uomini, generalmente
alti, sani e robusti, si chiamavano vogavanti spallieri (vn. portoladi) e dovevano avviare la
voga (fr. donner bonne rime; ol. gelijk roen, wel roen) non solo ai loro compagnia di banco
bensì a tutti gli altri vogatori della galera:
... il che è principal causa che la galea camini bene, però (‘perciò’) son trattati nella razione
come buonevoglie e dai capitani sono accarezzati e fadvoriti ed esentati da gli altri servitij
della galea, acciò che facciano più volentieri il debito loro. (P. Pantera. Cit. P. 132.)
Gli spallieri e i vogavanti in generale dovevano essere più alti e robusti degli altri galeotti
perché, trovandosi a remare all'estremità interna del remo, erano obbligati a un lavoro più
duro di quello che toccava ai loro compagni di remo; infatti essi dovevano alzarsi in piedi e
risedersi a ogni colpo di remo anche quando si usava la voga più comoda e corrente, cioè
quella che permetteva ai suoi compagni di restare invece comodamente seduti e ciò perché
il girone, da loro manovrato, doveva ovviamente salire più in alto del resto del remo; di
conseguenza la loro catena doveva essere più lunga di quella che avvinceva gli altri. Inoltre
la voga dei due vogavanti-spallieri era spesso un po' impacciata dalla sporgenza di quella
spessa tavola di legno che formava il già menzionato capomartino, perché questa era non
solo ampia quanto bastasse a farvi stare sopra comodamente in piedi il còmito a
comandare, ma lo era in genere più del necessario e ciò non per un motivo pratico, ma
semplicemente per maggior pompa del còmito medesimo.
Gli altri remieri dei banchi di spalla erano utilizzati, oltre che per la voga, per i numerosi
servizi di poppa. Essi infatti caricavano e ammollavano il mezzanino, cioè la corda che,
come abbiamo già detto, sosteneva la tenda che copriva i remiggi quando si era in darsena
o in cantiere (gra. ηεὡρια, ἐπίνειον, ναύσταθμον, οὐρός, ναύσταθμος, λιμένιον ναύφραϰτον;
grb. ναυστάθμος, σϰεῦος, σϰευἆριον; l. navale; lem/ctm. escala) o alla fonda; si prendevano
cura delle bozze, quando si alavano o ammollavano i capi o gomene con le quali era
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... E comandarono al còmito che non me ne perdonasse nessuna, anzi che avesse molta
cura di castigarmi sempre i peccati veniali come se fossero mortali; ed egli, il quale
forzatamente doveva ubbidire al suo capitano, mi castigava con inusitato rigore, perché alle
ore stabilite non dormivo oppure perché non ricordavo qualcosa. Se, per sovvenire a
qualche necessità, vendevo la razione, mi frustavano, trattandomi sempre tanto male che
senza dubbio dovevano voler farla finita con me. Per aver dunque migliori occasioni di farlo
con loro giustificazione, mi dettero carico di tutto il lavoro della 'coniglia', con intimazione
che, per qualsiasi cosa che ad esso mancasse, sarei stato molto ben castigato. Dovevo
vogare quando necessario come tutti gli altri forzati. Il mio banco era l'ultimo e quello del
maggior lavoro, (esposto) all'inclemenze del tempo, d'estate per il calore e d'inverno per il
freddo per tenere sempre la galera la prua al vento.
Erano a mio carico le ancore, le gomene, il dar fondo ed il sarpare quando necessario;
quando andavamo a vela, avevo cura della orza d'avanti e dell'orza novella; filavo tutti i
frenelli, le sagole che si consumavano in galera; mi occupavo delle bozze, dell'attorcigliare i
giunchi, del farli portare ai proeri e asciugarli per ingiuncare la vela del trinchetto; intugliavo
i cavi spezzati, facevo cavi usati e nuovi alle gomene; dovevo aiutare gli artiglieri a girare i
pezzi; m'occupavo di tappar loro i fogoni, che nessuno si avvicinasse a quelli e di custodire
i cunei, le cucchiare, le lanate ed i calcatori dell'artiglieria, di fare stoppacci dalla filàccica
vecchia, per coloro che andavano alla banda a defecare, che questa è l'infima miseria e
maggior bassezza di tutte, quando porgevo quelli, destinati a un tal sudicio ministero, li
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dovevo baciare prima di metterglieli in mano. Chi era incaricato di tutto il predetto lavoro e
non era stato ad esso avvezzato pareva impossibile che non sbagliasse. (Cit.)
C’erano anche altri banchi dove conveniva porre i migliori vogavanti e cioè uno al banco del
fogone e uno a quello dei trombetti, perché dessero la voga quando si andava a quartiero
alla mezania, ossia quando non vogava il quartiero di poppa dei remiggi, insomma quando
si faceva riposare il terzo posteriore dei galeotti; due altri buono vogavanti dovevano invece
stare ai due banchi che si trovavano ai fianchi dell'albero di maestra, perché dessero la
voga quando non vogava nemmeno il quartiero della mezzania, bensì solamente quello di
prua, quartiero che cominciava appunto da quei due banchi. Vogare a quartieri poteva
significare sia una navigazione tranquilla, senza alcuna fretta d’arrivare in qualche posto,
sia al contrario in battaglia l’avvicinarsi allo scontro col nemico in modo da non farvi
giungere le ciurme esauste (… affrettando la voga, che a uso di battaglia andava a’ quartieri,
scriveva il Sereno).
Oltre a quelli già detti la ciurma doveva eseguire molti altri servizi di vela, dei quali il più
impegnativo era certamente, al comando Izza!, alzare tutti insieme l'antenna dell'albero di
maestra, tirandone i ritorni, cioè le apposite funi legate in basso fuori della corsia,
operazione per la quale l'intera ciurma era a stento sufficiente; Amaina! era il comando
opposto, vale a dire quello di calare l'antenna. I remieri che stavano ai secondi banchi della
poppa avevano cura della manovra delle vette (gr. ὐπέραι) secondo i comandi del còmito;
quelli dei quarti banchi avevano invece cura dell'oste, dandole o togliendole volta o
raccogliendola secondo il bisogno; quelli dei noni banchi dovevano issare o ammainare (da
amaniare) la carnara e si occupavano anche del cordino della vela; quelli del decimo e
undecimo banco di sinistra s’interessavano delle barbette dello schifo, quando questo si
varava o si tirava a bordo; quelli degli stessi banchi di destra dovevano invece accomodare
e assicurare lo stesso schifo bene sui suoi cavalletti affinché il vento forte non lo spingesse
in mare, specie quando la galera era gelosa, ossia facile a sbandare (sp. barloventear);
quelli dei banchi dai tredicesimi ai diciannovesimi inclusi avevano cura delle sarte della
maestra, facendole entrare e ammollare secondo il bisogno; quelli dei sedicesimi banchi
dovevano pure interessarsi delle anche; quelli dei diciannovesimi anche della scotta del
trinchetto; a quelli delle ultime cinque file di banchi prima della prua toccava interessarsi
delle braccia del trinchetto e a quelli delle ultime quattro file si affidava anche l'oste dello
stesso trinchetto; i remieri dei penultimi banchi prima della prora si prendevano cura
dell'orza davanti della maestra e della orza novella, la quale era quella che si teneva di
rispetto in caso si strappasse la precedente; infine i rematori dal fogone all'estrema prua,
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vale a dire quelli dei due quartieri di prua e della mezzania, dovevano maneggiare le vette
per tirare il cannone alla prora e anche ingiuncare la penna del trinchetto.
La predetta grande quantità delle fatiche di manovra riservate ai remieri, oltre al loro più
precipuo lavoro della voga, spiega perché a bordo della galera il numero dei marinai addetti
alla velatura, agli ormeggi e alle ancore fosse tanto limitato.
Quando occorreva portare una disposizione a conoscenza di tutta la ciurma, la si diceva
allo spalliero vogavanti di destra, accompagnandola con il comando Passa parola!; questi
la comunicava al vogavanti destro dietro di lui e così via via fino al vogavanti conigliero di
destra, il quale la passava a quello di sinistra; costui, di vogavanti sinistro in vogavanti
sinistro, la rimandava in avanti sino allo spalliero di sinistra, il quale ripeteva la
disposizione all'ufficiale di poppa dal quale era originariamente partita e così quest'ultimo
poteva verificare se essa era passata correttamente per tutta la ciurma.
Come e dove dormivano i remiganti d’una galera? Si dovevano ranicchiare sulla coperta
degl’interscalmi, come spiega il de la Gravière senza menzionarne però la fonte:
... Quattro uomini almeno dovevano trovar posto in uno spazio la cui larghezza non
superava il metro e 25 centimetri; essi si sistemavano di maniera che i piedi di due di loro
era prospicienti alla corsia ed i piedi degli altri due alle balestriere. Il quinto remigante,
quando la galera si trovava all'ancoraggio, era generalmente ammesso a condividere il
posto dei marinai; in mare, egli ha la risorsa di dormire sul banco. (Cit.)
Il vogavanti però, come abbiamo già detto, in quanto remigante scelto del banco, poteva
dormire di diritto sul già menzionato e largo poggia-piedi detto banchetta, perché il banco,
anche se alquanto allargato dalla presenza del cuscino di cuoio, era pur sempre troppo
stretto per esser comodo. La suddetta disposizione a testa-piedi alternati per dormire si
ritroverà poi adoperata negli eserciti di terra del Settecento, dove i letti da campo e di
caserma per i soldati semplici (l. gregales; sp. soldados rasos) saranno generalmente,
anche se piuttosto stretti, a tre posti.
Nella navigazione a remi, la quale era quella che predominava in battaglia guerra, il primo
accorgimento da usare era il comandare una voga discreta in modo che la ciurma potesse
durarvi a lungo e non si stremasse invece in poco tempo; era però frequente a quei tempi
non solo che due o più còmiti d’una stessa squadra si mettessero a fare tra di loro le
arregate, ossia le gare di velocità tra galere, per semplice vanagloria e con l'unico risultato
di sfiancare così inutilmente le ciurme, ma lo facevano anche i Reali, cioè i còmiti delle
galere di comando, equipaggiate con ciurme migliori, meglio corredate e quindi più veloci,
per mostrare la loro bravura e la potenza della propria galera; questi prendevano dunque
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... si è osservato - ed io ne ho fatto l'esperienza - che ne sono causa quasi sempre i còmiti
per l'ambizione che hanno di mostrarsi più prattici e più intendenti de gli altri e di
commandare a vascelli di esquisita bontà e velocità. (Cit. P. 220.)
Ma l'abuso predetto non implicava solo un eccessivo quanto inutile sforzo di voga, perché
per esercitarlo i còmiti delle galere Capitane approfittavano dell'autorità del loro ufficio
anche per prendersi dalle altre galere della loro squadra gli uomini migliori sia tra i vogatori
che tra i marinai e gli ufficiali; inoltre usavano vele maggiori di quelle adoperate dall'altre
galere e rifiutavano il trasporto di carichi straordinari, i quali lasciavano alle altre, in modo
da essere così più scarichi e leggeri, quando avrebbero potuto invece sopportare tali
sovraccarichi con maggior sicurezza delle altre galere per esser di quelle, come sappiamo,
più quartierate, migliori e meglio equipaggiate; anzi molto spesso i Reali rifiutavano persino
le loro stesse vettovaglie e altri necessari ed essenziali corredi di bordo e imponevano ad
altre galere di portarli per loro, senza aver alcun riguardo per l'altrui incomodo e rischiando
così, una volta allontanatisi dalle loro compagne, di restare privi di vettovaglie e d'altre
munizioni. Il buon generale non avrebbe quindi dovuto permettere che s’impoverisse
l'armamento degli altri vascelli per rafforzare la Capitana, fermo restando comunque il
principio che quest'ultima doveva essere molto ben armata in quanto principale bersaglio
del nemico e anche per una questione di necessaria maggior dignità.
Se non c'era dunque qualche motivo fondato per affrettare la voga, quali per esempio dover
in bonaccia dar la caccia a un vascello nemico in fuga o pigliare la caccia (fr. anche élargir;
ol. ontvlieden), cioè esserne fatti oggetto dal nemico, bisognava sempre avviare la voga più
lenta e comoda possibile, il che implicava un indugio tra una palata e l'altra, in modo che la
ciurma potesse sostenerne agevolmente la fatica specie nei lunghi viaggi; nel gergo di
galera questo tipo di voga si chiamava largatira (vn. voga larga; fr. en dedans du banc) e
corrispondeva più o meno a quella voga di scialuppa che nell’oceano i francesi chiamavano
longue rime e gli olandesi langen wis; non bisogna però pensare che si trattasse d'una
voga di tutto riposo e ne fa l'esperienza il suddetto Guzmán, laddove, seppure avrebbe
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potuto evitarlo perché ormai entrato nelle grazie del suo còmito, prende egualmente
l'iniziativa di mettersi al remo quando la sua galera deve spostarsi dalla foce del
Guadalquivir alla vicina Cadice, perché tra i porti d'ordinario si voga in maniera riposata e
senza frustate, come per diporto, e si stanca invece talmente che alla fine crolla in un sonno
profondo (M. Aléman. Cit.).
La voga detta invece montacasca (à passer le banc) era più impegnativa ed energica, ma
ancora abbastanza agevole; il remigante doveva, spingendo il remo in avanti, portare il
piede destro sulla banchetta, come abbiamo già detto, da quella prendere la spinta
all'indietro e infine cascare sul cuscino di cuoio imbottito del suo banco in modo da
aggiungere il peso del suo corpo alla forza di trazione che esercitava; la sequenza dei
movimenti che includeva il montare sulla pedagna, l'abbassare molto il girone del remo e il
cadere poi con gran forza sul banco si diceva ribalzare (à toucher le banc). Veniva dopo
questa una voga gagliarda e affrettata, quindi veloce, detta la passavoga, la quale era senza
dubbio molto faticosa; infine c'era il rancare o arrancare o far forza (gr. ῥοθιάζειν, vn. far
stroppata), cioè il vogare con tutta la forza possibile, ma, quando i còmiti avevano
comandato col fischietto Arranca!, dovevano far attenzione che lo si facesse con voga forte
e larga e non semplicemente affrettata e veloce, il che avrebbe stancato gli uomini molto
prima e gli avrebbe fatti venire a mancare all’improvviso; questa rancata o voga arrancata si
diceva anche voga battuta, memoria questa di quando si era usato cadenzarla con il battito
di un tamburo. Il I° agosto 1496 il capitano generale veneziano Marchionne Trivisan scriveva
al suo Senato di essersi trovato con la sua squadra a dover navigare contro vento al largo
di Belvedere Marittimo in Calabria ed era stata una dura impresa:
… Item, che sempre avia navegato contra mar e vento né mai un zorno avia auto vento
secondo e che zerca sei galioti erano crepadi per il vogar e vinti erano ammalati… (M.
Sanuto, Diariii. T. I, col. 269)
Il suddetto verbo greco ῥοθιάζειν veniva dall’aggettivo ῥόθιος o anche ῥοθιάς, significante
‘fragoroso, strepitoso’, e questo perché tanti remi manovrati tutti insieme con forza
facevano appunto un caratteristico rumore fragoroso (Suida, cit. L. III, pag. 272).
Nell’antichità e nell’Alto Medioevo non si era ancora cominciato a dare i comandi di voga
utilizzando un fischietto o lasciandone il ritmo alla voce di guida dei semplici vogavanti di
poppa; allora si erano dati ‘a voce di comando’ e per esempio in greco l’esortazione a
vogare, come ci informa il Suida, si dava con il grido Riupapài ! (Ῥυπαπαί). I comandi
vocali, dati da un ufficiale che allora non ancora si chiamava cómito, ma era detto in greco
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PORTISCOLO: è propriamente l’esortatore dei remiganti, cioè colui che tiene quella lunga
verga che è detta ‘portiscolo’, con la quale governa sia il corso di voga sia le esortazioni a
vogare (PORTISCVLVS proprie est hortator remigum , id est, qui eam perticam tenet, quae
portisculus dicitur, qua et cursum et hortamenta moderatur. Nonio Marcello, cit. P. 220).
Plautus, ‘Asinaria’ : … ti lascio sia la mia parte sia la tua del discorso: tu hai il portiscolo
perché si parli o si taccia (ét meam partém loquendi ét tuam tradó tibi: ád loquendum atque
ád tacendum túte habes portísculum (ib.)
Sesto Pompeo Festo scriveva che la suddetta verga si chiamava portisculus perché usata
principalmente nei porti; e non aveva torto in quanto, come abbiamo già spiegato, la voga,
eccezion fatta per le situazioni di battaglia e di bonaccia o di pericoloso vento contrario, si
usava normalmente solo nelle manovre portuali e se ci si voleva addentrare nelle cale della
costa (cit. P. 299).
Vere e proprie cantilene (gr. ϰέλευσματα) erano soprattutto quelle usate per guidare
vocalmente la cadenza di voga e, leggendo ancora il Suida, veniamo a sapere che una di
queste, la quale era tra le più note nella marineria bizantina dell’Alto Medievo, si chiamava:
A undici remi (Έφʹ ἒνδεϰα ϰώπους. Cit. L. I, p. 919) e quindi fa un po’ venire alla mente
quella settecentesca dei ‘15 uomini’ che cantavano i pirati inglesi del Settecento e che
abbiamo appreso dal famoso romanzo di Louis Stevenson (“Fifteen men on the dead
man's chest…”) A dette cantilene i remiganti dovevano partecipare facendo loro da coro,
come leggiamo in Longus:
… l’incitatore cantava loro con la canzone nautica; gli altri, come un coro, echeggiano
all’unisono al giusto tempo di quella cantilena (εἶς μὲν αὐτοῖς ϰελευστὴς ναυτικὰς ᾖδεν
ᾠδάς· οἰ δὲ λοιποὶ, ϰαθάπερ χορὸς ὀμοφώνως ϰατὰ ϰαιρὸν τῆς ἐϰείνου φωνῆς ἐβόων. In
Longi Pastoralium de Daphnide et Chloë libri IV, L. II, cap. XIII, pp. 336-338. Lipsia, 1777).
Non c’era dunque alcun batter di tamburo a cadenzare la voga, come invece si vede
talvolta rappresentar erroneamente nei film storici colossal di un recente passato; un
tamburo si poteva non infrequentemente trovar sì a bordo di una galera, ma perché v’era
usato come strumento musicale festivo o trionfale alla stregua degli altri, e non perché
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con esso si desse il ritmo di voga; infatti il tamburo s’udiva a grande distanza (ricordiamo,
a proposito di bei film del passato, quello che si chiamava appunto Tamburi lontani) e
all’approssimarsi di una battaglia sarebbe stato molto pericoloso, soprattutto se in vista
del nemico, fargli capire che cosa si stava facendo, cioè se si stava accellerando o
ritardando l’andatura verso di lui. Inoltre talvolta la galera, specie se addetta
all’avanscoperta, si trovava a dover forzare un passo nottetempo, cioè a dover passare
nell’oscurità ‘sotto il naso’ del nemico con tutte le luci di bordo spente e senza far rumori
di sorta per non farsi scoprire; e certo in situazioni come quelle i comandi non avrebbero
potuto esser dati a rullo di tamburo!
Per quanto riguarda il gergo di voga della marineria remiera degli antichi romani ben poco
si riesce e recuperare; Sesto Pompeo Festo cita Quinto Ennio (III-II sec. a.C.), primo
grande poeta di Roma, che si esprimeva in un latino ancora alquanto arcaico e del quale ci
è rimasto purtroppo molto poco; nel l. VI – sembra dei suoi Annales - così diceva a
proposito del vogare:
… Poi reclinate (all’indietro) e spingete i vostri petti con i remi. (Postere cumbite,
vestraque pectora pellite tonsis.)
… Traggono all’indietro e quindi riportano i remi al petto. (Pone petunt, exim
referunt ad pectora tonsas.) (Cit. Pp. 538-541.)
Ma tra un gergo e il linguaggio di un poeta c’è di solito tanta differenza… I remi erano
allora chiamati tonsae perché dovevano essere fabbricati molto ben lisciati e arrotondati;
infatti, se avessero avuto una superficie ruvida, in corrispondenza dello scalmo si
sarebbero ovviamente molto presto spezzati.
C’era inoltre sulle antiche triremi anche un flautista o tibicinista (gr. τριηραύλης; l. tibicen,
flatron, gingriator), il quale con le sue melodie accompagnava e abbelliva per esempio
l’ingresso in porto, ma, contrariamente a quanto alcuni oggi credono, non comandava i
ritmi di voga, in quanto appunto strumento melodico e non ritmico; insomma, allo stesso
modo in cui nella guerra di terra i flautisti potevano piacevolmente accompagnare sì la
marcia dei soldati ma non i loro movimenti di battaglia, per i quali occorreva invece il rude
e deciso tamburo.
La rancata di partenza, fatta per raggiungere la velocità necessaria uscendo dal porto, si
chiamava leva. A quanto sembra di capire leggendo i trattatisti della fine del Cinquecento,
all'epoca delle galere a sensile queste voghe eseguite alzandosi in piedi e con movimenti
più ampi erano state possibili solo alle ciurme levantine non incatenate; in seguito, con
l'avvento della voga a scaloccio, esse furono rese praticabili anche dalle ciurme ponentine
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incatenate perché furono contestualmente introdotte allo scopo catene più lunghe, le quali
permettevano quindi ai remieri di discostarsi maggiormente dal loro banco; ciò
nonostante, il da Canal considerava al suo tempo le galere sforzate molto superiori alle
volontarie anche per quanto riguarda la celerità di navigazione e il far forza nel vogare, a
causa della maggior efficacia del tipo di voga usato dalle prime:
... Quanto al vogar le ciurme libere usano longhezza di spazio e tardità di tempo e
gl’incadenati il contrario, il che avviene perché la catena non consente loro adoperarsi in
altra maniera, dove i volontarii, non essendo astretti da alcuna necessità, maneggiano il
remo come a lor pare. Quale adunque di queste due guise di remeggiare - o la 'stroppata'
longa e tarda che usano le genti libere o la 'rancata' veloce e corta che serbano gli sforzati
- sia migliore, più utile e più continua hora mi affaticarò a dimostrarvi.
Voi dovete sapere che gli sciolti, come essi incominciano a tirar il remo, fermano il manco
piede sopra una trave da loro addimandata 'pontapiede', la qual è posta nella bilancia tra
banco e banco, ed indi tanto s’inalzano che aggiongono col pie' dritto sin sopra il banco
che loro è davanti (e), con molta forza pontandovisi, si gettano poi all'indietro verso il loro
banco, in questo modo distendendo e allargando il remiggiare quanto essi più possono. Di
qui è che questa maniera di vogare, come si è detto, sia longa e tarda ed è anco per due
cagioni dannosa non meno agli huomini che l'usano che all'andar delle galee. All'andar
poiché così fatta tardanza fà perdere alla galea l'impeto e la velocità, a gli huomini
conciosiacosaché quel rigettarsi indietro ch'essi fanno con tutta la persona toglie molto
loro di forza e scuotendo loro il cervello gli abbalordisce.
Ma per contrario la 'rancata', come ho detto, breve e veloce - delle quali due condizioni ne
è sola cagione la catena che vieta ai galeotti il montar così alto ed il ributtarsi indietro - è
buona non solo perché ella manca di ambedue le dette incommodità, ma perché eziandio
ella apporta due diversi commodi; l'uno è che la prestezza del movimento che li dà il corto
e veloce vogare tiene di continuo senza riposo e senza fermezza (‘sosta’) alcuna la galea
in una viva fuga e cellerità, l'altro è che, non potendo i galeotti far altro vogando che
levarsi dritti e fermar il loro pie' manco sopra un picciol grado posto loro davanti che
‘scalettino’ sogliono chiamare i ponentini, stanno nel vero e col corpo tutto e col capo e
col cervello più riposati e quieti. (C. da Canal. Cit. Pp. 153-154.)
E che le galere spinte da ciurme incatenate primeggiassero sia nel vogare sia nel
veleggiare si poteva sempre praticamente costatare:
... percioché, contendendo con altre di prestezza, sempre d'assai se le lasciano adietro
occupando di continuo i primi luoghi. (ib. P. 170.)
Vogare all'indietro per mandare avanti la poppa invece della prua, per esempio per ritirarsi
senza però dare al nemico l’impressione che si stesse fuggendo, si diceva siare o ziare
(gra. πρύμνᾰν (ἀνα)ϰρούειν, ἐπαναϰρούειν; grb. ἐπανάϰρουειν; ol. deisen, riemen strjken,
averregts roeijen) ed era comune adagio usare questo verbo nel significato di remar
contro, osteggiare: …e, quando si da una voga, subito ci si arma contro una scia!; invece
sia scorre (vn. e sp. sia voga, fr. faire sressecourre) si ordinava quando da una banda del
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vascello si doveva siare e dall'altra vogare, affinché la galera girasse su se stessa. Palpare
era invece quando si tenevano le pale dei remi nell'acqua con i gironi alti in modo da
frenare il vascello. Il comando Leva remo! significava: 'fermatevi, ma tenete i remi fuori
dall’acqua pronti a riprendere'; se poi la sospensione diventava una vera e propria sosta,
allora si dava il comando Affornella (cioè ‘Affrenella !’), il che significava che si dovevano
legare i giglioni o gironi dei remi giù alle pedagne con delle frenelle o trinelle, in attesa di
riprendere la voga più tardi.
Nell'ultimo periodo della voga a zenzile, cioè nella prima metà del Cinquecento, il sistema
di frenellaggio dei remi era stato diverso, in quanto il collo d’ogni gironcello, ossia del
girone del piccolo remo a sensile, era infilato in un suo anello di ferro fisso sulla coperta;
in questa maniera la parte esterna alla galera del palamento risultava più alta e lontana dal
mare e quindi c'era minor pericolo che le forti onde potessero spezzare qualche remo.
Fino all'inizio dello stesso secolo si era usato invece frenellare i predetti gironcelli sotto
alcuni gradini di legno appositamente fissati sulla coperta e alti 4, sei e otto dita, i quali si
chiamavano infatti scalette, però con l'inconveniente appena descritto. Con l'affermarsi
della voga a scaloccio si ritornò a questo frenellare i remi un po' più in alto, ossia ora alle
pedagne, forse per il motivo che il remo di scaloccio era molto più grosso e forte di quello
a sensile e quindi meno soggetto a rompersi sotto l'impeto delle onde.
Il comando Acconiglia! voleva dire che bisognava ritirare i remi in galera e ciò si faceva
quando s'iniziava la sosta alla fonda o all'attracco. Nella imminenza della battaglia si
potevano legare i remi, invece che alla pedagna, più sù al banco, in modo da tener in
tensione il nemico, facendogli così credere che si tenevano inguala, ossia agguagliati in
mano, pronti ad attaccarlo, mentre magari si stava solo facendo mangiare la ciurma,
impedendo però in tal modo al nemico di dedicarsi alla stessa cosa. Il comando Dritto!
significava che il quartier dritto, vale a dire la metà destra della ciurma, doveva vogare
mentre quello sinistro doveva star fermo, in modo da far così girare il vascello; il comando
Sinistro! si riferiva ovviamente alla manovra opposta.
Portare il vento in mano voleva dire navigare sì a remi, ma con tanta velocità e scioltezza
da far sembrare la galera spinta da un vento gagliardo invece che dal palamento e si diceva
d’una ciurma particolarmente forte ed esperta; invece portare il vento in corsia significava
far avanzare la galera minacciando e picchiando la ciurma, ma non era ragionevole né
proficuo eccedere in tale pratica:
... Guardisi il còmito di batter la ciurma senza causa e particolarmente mentre ella ha il remo
in mano, perché, se ben pare che le bastonate la faccian lavorar con maggior forza,
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Ma come tenere 'allegra' quella sventurata gente che conduceva una vita tanto disumana?
Per ottenere ciò non era buon sistema darle del vino mentre vogava sotto sforzo; piuttosto
la si poteva rinfrescare, termine che propriamente significava fornirle cibi freschi, ma in
questo caso semplicemente ristorarla somministrandole un po' di biscotto, d’aglio, d'olio e
d’aceto diluito in cinque o sei parti d’acqua (fr. oxycrat; ol. eek-waater, azijn-waater),
bevanda questa che si dava anche ai malati credendosi attenuasse i disturbi dovuti alla
calura e alle infiammazioni; il vino le si sarebbe distribuito solo dopo la fatica, per
rinvigorirli e incoraggiarli a rinnovare il loro impegno per l'avvenire, mentre l’acquavite era
solo per la gente di poppa e il tabacco del Brasile, commerciato in balle, entrerà in uso solo
nella seconda metà del Seicento.
Quando a bordo un inferiore rispondeva a un ordine d’un superiore con un Ia va! (‘Già va!’),
voleva dire che ciò che gli era comandato era già in esecuzione; il comando Leva lingua!
significava invece 'Fare silenzio!' Quando si doveva vogare si ordinava alla ciurma di
spogliarsi completamente con il comando Fuori robba!; poi con il comando Arma i remi! si
ordinava di sfrenellare i remi dalle pedagne (lem/ctm. donar rems de llonch) e si dava il
successivo o comando Palamento in mano! (fr. Borde les avirons!; sp. Aguanta!), al che i
remieri impugnavano i remi e ponevano il piede sinistro alla pedagna, pronti così alla
palata. Se il còmito notava che qualche remo era tenuto male, ordinava Palamento inguala!,
ossia 'agguaglia il palamento!'; ma quest'ultimo comando poteva anche includere il
precedente, il quale era così omesso. Infine il còmito gridava Avanti! o Cala remo!, il che
significava 'vogate a passo ordinario'.
Nella Grecia antica e alto-bizantina il comando di smettere di vogare era oóp! (“ Ώόπ “) o
anche oopóp (“ Ώοπόπ “) e i remiganti che restavano appunto fermi con i remi tenuti
orizzontali alla superficie del mare si dicevano ὀρθιόϰωποι, ossia ‘quelli dai remi diritti’;
d’altra parte il comando opposto al precedente, vale a dire il ‘dare il via’ a far qualcosa tutti
insieme, era stranamente quasi uguale e cioè oόπs! (“ Ώόψ “); in ambito letterario il
suddetto ordine oóp! poteva anche avere il senso di ‘andiamo ora ad approdare a terra dove
smetteremo di vogare’ (Suida, cit. L. II, p. 758).
Perché i remieri resistessero a lungo alla fatica della voga era necessario che portassero
bene il remo a poppavia, perché in tal modo avrebbero preso fiato, non si sarebbero
stancati tanto e avrebbero fatto poi maggior forza cascando sul banco. Oltre a far forza nel
429
cascare, essi dovevano anche cascare unitamente, il che era ovviamente importantissimo, e
pertanto il còmito controllava questa sincronia osservando le pale dei remi per vedere se
queste si calavano e alzavano tutte insieme. Nei lunghi viaggi si usava talvolta la voga a
quartiero, cioè si divideva idealmente la platea dei banchi in tre quartieri e si faceva, per
esempio, vogare solamente i galeotti del quartiero di poppa oppure solo quelli di prua o
anche solo i remiganti del quartiero di mezzania, mentre quelli degli altri due quartieri si
riposavano e magari prendevano il cibo. Gli antichi greci chiamavano quelli di mezzania
μεσόνεοι (‘navali di mezzo’) e li consideravano i più importanti, perché, come spiega
Aristotele nel suo Μηχάνιϰα, quelli dalla spinta propulsiva nell’acqua più diretta, forte ed
efficace:
Poiché muovono la nave soprattutto i remieri della mezzania (Διά τί οι μεσόνεοι μάλιστα τήν
ηαῦν ϰινεῦσι. Aristotele, Μηχάνιϰα. P. 61. Parigi, 1599).
I vogatori stessi si rendevano conto con la pratica di quanto avanzasse a ogni palata la loro
galera; misuravano infatti l'effetto della palata in bancate, ossia prendendo come unità di
misura della distanza percorsa l'interscalmo e le bancate, anche con la voga più energica,
non potevano essere più di sette; questa misurazione a occhio poteva solo avvenire a mare
calmo, calcolandosi infatti la distanza tra mulinello e mulinello d'acqua, come lasciati dalle
pale di due remi consecutivi sulla superficie del mare.
Si diceva, specie dai naviganti [l. vectores; gr. ναυβάται, βαρίβαντες, ἐπιβεβηϰόταi,
πλώοντες, (ἐμ)πλέοντες, πλωτήρες, πλωτῆρες, περίνεῳ] francesi, navigare a secco, quando
un vascello avanzava senza remi (gr. ἀπώπητος, ἂϰωπος) né alcuna vela, ma
semplicemente perché il suo stesso scafo era spinto dal vento, ciò facendosi magari nella
guerra di corso per non essere scoperti da lontano; correre per cattivo tempo o per violenza
di fortuna, ossia per tempesta di mare, indicava il lasciarsi trascinare passivamente dalla
forza eccezionale del vento o dei flutti a evitare guai maggiori; navigare col terreno in mano
si diceva invece quando ci si manteneva sempre a vista della terra e, al contrario, navigare
a camin francese quando si andava da un luogo all'altro per la rotta più breve, senza far
scalo intermedio in alcun porto; quest'ultimo modo di navigare era infatti praticato
forzatamente dai vascelli francesi nel Mediterraneo di ponente, mare dove avevano
rarissimi porti amici.
In navigazione il còmito - personaggio che nei vascelli remieri corrispondeva la nostromo
dei velieri, ma che in più governava anche la navigazione a remi - doveva far scendere dei
marinai giù per le due scalette laterali, perché si abbassassero per guardare sotto le
430
reggiole e così controllare che non vi fossero cose che, pendendo da quella cinta di
tavolame laterale, rastrellassero nell'acqua, ossia toccassero il mare ritardando così il moto
della galera, il che talvolta si vedeva succedere a causa di negligenza o di malizia di
qualche remigante; succedeva cioè a volte - per esempio mentre si subiva una caccia - che
qualche schiavo maomettano, per dare una mano ai suoi correligionari che stavano
tentando di raggiungere la galera, approfittasse delle cordicelle che servivano per legare la
tenda alle reggiole e ai filari, le quali erano per comodità lasciate sempre in opera, e vi
appendesse di nascosto qualche cappotto, schiavina o delle camicie ecc., cose cioè che,
trascinate in tal modo sommerse nel mare e quindi invisibili, potevano ritardare così tanto il
corso della galera [come che rimorchiasse un altro vascello, e non farrà la mità del solito
camino (Ib.)]; ciò diventava ancora più certamente dannoso quando si proeggiava o
ponteggiava, ossia si navigava contro vento, e anzi bisognava naturalmente togliere dalla
coperta tutto ciò che potesse offrire resistenza al vento contrario, cioè la tenda, caso mai
fosse spiegata, il tendale, le camerette e ogni altro riparo in tessuto della poppa; a
quest'effetto le galeotte turco-barbaresche portavano queste garitte o camerette di poppa
accomodate in modo che si potessero mettere e levare a seconda del bisogno. Si
toglievano inoltre tutte quelle cose che stessero attaccate ai filari, come porte di tenda o
impavesate, si faceva sedere giù sul tavolato tutta la gente che non dovesse
necessariamente muoversi per il servizio della navigazione, si toglieva il fanale (fr. anche
feu; ol. vuur, lantaarn) - quando questo era molto grande - perché la sua superficie avrebbe
offerto una notevole resistenza al vento contrario, e infine, sempre proeggiandosi e se il
mare non era traverso, ossia se non percuoteva il vascello di fianco, si poteva addirittura
abbassare l'uno o i due alberi perché certo anch'essi ostacolavano il vento.
Mentre i vascelli tondi potevano navigare [fr. navig(u)er, gouverner, faire (routte ou voiles
ou leur course), cour(r)ir, porter (le cap), in qualsiasi mare e in qualsiasi stagione, in quanto
navigli d'alto bordo e dallo scafo profondo, i vascelli sottili come le galere e le galeotte,
essendo di bordo bassissimo, di poco pescaggio e di leggera struttura, erano inadatti ad
affrontare le violentissime tempeste e le altissime onde che squassavano l’Oceano
Atlantico e pertanto, date alcune eccezioni nordiche che poi vedremo, generalmente
navigavano nel Mediterraneo e nel Mar Nero, mari chiusi e relativamente tranquilli, e ciò
all'incirca dal 20 marzo al 22 novembre, date ovviamente non significative dal punto di vista
meteorologico, ma solo da quello tradizionale; ciò perché anche nel Mediterraneo potevano
però esser messe in grave pericolo da un’improvvisa burrasca e non erano stati rari i casi,
come vedremo, di grandi naufragi di questi esili vascelli con centinaia e a volte migliaia di
431
vittime, disastri dovuti appunto al maltempo, come nell’autunno del 1572 avvenne alla
galera papalina San Pietro, la quale, mentre era con l’armata della Lega nell’Arcipelago e
sulla via del ritorno in Italia, finì di notte su uno scoglio in località Pacassò a causa del mare
grosso e affondò, salvandosi solo parte degli scappoli perché prontamente raccolti da due
galere toscane, mentre gli altri e tutti i poveri remieri incatenati ai loro banchi finivano
miseramente affogati; simile triste sorte toccherà nell’ottobre del 1573 a una galera
napoletana nelle acque dell’isola Faviana (‘ricca di fave selvatiche’; oggi Favignana), mentre
la sua squadra tornava dall’impresa di Tunisi. Un altro episodio del genere, del quale però
non sappiamo se abbia fatto anch’esso molte vittime, fu quello delle galere della squadra di
Malta, le quali intorno all’anno 1606, a causa del maltempo, andarono (a) traverso (‘finirono
spinte di fianco’) su un’isola barbaresca chiamata allora del Zimbaro (‘Cembalo?’) e che
oggi non sapremmo individuare, correndo così il pericolo d’esser prese dai turco-
barbareschi; ne restò indenne solo la galera Padrona, la quale corse a Palermo a chiedere
aiuto e allora il già ricordato vicerè duca di Feria mandò in loro soccorso le galere di Sicilia
e L’Arca di Noé, un galeone molto ben armato e vulgo conosciuto come la nave
palermitana, e le salvò. Come se ciò non bastasse, le imprese guerresche delle galere
dovevano essere riservate a un periodo dell'anno ancora più ristretto, ossia quello che va
dal 20 maggio al 24 settembre, come affermava Vegezio, il quale, come del resto tutti gli
autori d’arte della guerra della tarda antichità, era considerato valido e utile ancora nel
Cinquecento, mentre è solo dal secolo successivo che si comincerà ad aver piena
coscienza della modernità della guerra e ciò in conseguenza della sostanziale evoluzione
delle armi da fuoco che si ebbe a partire dalle guerre di Fiandra. Sempre dunque a seguire il
Vegezio, il periodo invece in cui la navigazione, specie delle galere, era sì possibile, ma
poco sicura e andava intrapresa solo per necessità era quello che andava dal 24 settembre
al 22 novembre. Ambigua era poi detta la navigazione dal 20 marzo al 20 maggio, mentre
bisognava assolutamente evitare di praticarla dal 22 novembre al predetto 20 marzo, ma ciò
parlandosi di vascelli sottili perché, per quanto riguarda i tondi, essi potevano navigare in
ogni tempo con molto minor pericolo. Il lettore potrà forse sorridere all'enunciazione di date
così precise, ma in effetti si trattava di convinzioni tradizionali che già al tempo del
trattatista latino scaturivano da secoli e secoli d'esperienza marinara e quindi di tutto
rispetto. Ottima cosa era naturalmente navigare con le galere in piena estate:
... onde soleva dire il principe (Giovann’Andrea) d'Oria che luglio e agosto e'l porto di
Cartagena erano i migliori porti che si trovassero... (Ib. P. 185.)
432
Proprio per aver voluto fare nel 1541 l'impresa d'Algeri contro stagione, cioè nell'ottobre-
novembre, e contro il parere di suoi più esperti capitani, cioè il duca d’Alba, Andrea d’Oria,
Bernardino de Mendoza e Alfonso de Ávalos marchese del Vasto, Carlo V fece andare la sua
armata incontro a quel terribile naufragio davanti alla costa africana di cui la sua
imprevidenza e testardaggine furono le uniche responsabili; in tal disastro l'imperatore
perse, oltre al grande numero di vite umane, più di 140 navi, 15 galere, molta grossa
artiglieria, molti cavalli spagnoli da guerra e inoltre egli e il suo esercito, in conseguenza di
questa sventura, travagliarono e patirono assai senz'ottenerne alcun guadagno; ma Carlo V,
il quale i turco-barbareschi chiamavano Sultan Kalassy, aveva così deciso proprio sperando
che, a motivo della stagione contraria, l'armata turca non se l'aspettasse e che quindi non
avrebbe fatto poi in tempo ad allestirsi e a raggiungere le coste africane dall'Asia minore,
nei cui porti andava a disarmare tradizionalmente proprio a ottobre d'ogni anno. La
consistenza dell'armata preparata da Carlo V contro Algeri ci è data da una precisa
relazione che fu pubblicata a Parigi l'anno successivo (Nicolas Durand de Villegaignon,
Caroli Quinti expeditio in Africam ad Algieram etc. Parigi, 1542) e si trattava quindi di 65
galere comprendenti le squadre di Spagna, Napoli, Sicilia, Stato Pontificio, Toscana, dei
d'Oria e d’altre condotte (‘noleggiate’) genovesi e quattro galere maltesi; 451 vascelli tondi e
latini da trasporto, tra grandi e piccoli, di cui 150 portavano da Napoli e Sicilia 6mila fanti
spagnoli e 400 cavalli leggieri, 100 recavano da La Spezia 6mila fanti alemanni e 5mila
italiani, 200 da Cartagena 700 cavalli spagnoli e 400 fanti insieme a gran massa di bagagli e
alla grossa artiglieria. Gli uomini da sbarco erano comunque in tutto 24mila e quelli
d'equipaggio 12mila. Tra gli ufficiali generali di quest'armata spiccavano Georg Frontispero
(Von Speer?) colonnello dei 6.000 fanti alemanni; Camillo Colonna, figlio di Marcello e
signore di Zagarolo, e augustino Spinola, comandanti dei 5.000 fanti italiani; Giannettino
d'Oria capitano generale delle 36 galere genovesi, tra le quali era la Temperanza, galera che,
come più tardi narreranno vecchi marinai genovesi al de Bourdeilles, era stata in origine
veneziana, poi catturata da Torgud ai lagunari nel Mar Adriatico insieme ad altre tre di cui
era galera di comando, presa infine al corsaro barbaresco da Giannettino, il quale la fece
sua Capitana; Bernardino de Mendoza, generale delle 15 spagnole e, di quelle siciliane,
Fernando Gonzaga principe di Molfetta e duca d’Ariano, allora vicerè di Sicilia (1535-1546), il
quale nel 1535 aveva già accompagnato l’imperatore alla conquista di Tunisi, impresa dalla
quale aveva ricavato appunto quel titolo di vicerè, e nel 1538 si era trovato alla Prévesa
coinvolto suo malgrado nell’ignominioso comportamento d’Andrea d’Oria di cui poi diremo.
Lo stato maggiore dell'armata allestita contro Algeri comprendeva, oltre all'imperatore in
433
persona, i più bei nomi della nobiltà guerriera di Spagna e cioè, tra gli altri, Fernando
Álvarez de Toledo duca d'Alba e capitano generale dell'armata medesima (?-12.12.1582),
Gonzalo Fernández de Córdoba duca di Sessa, Pedro Hernández de Córdoba y Figueroa
conte di Feria, Luiz de Leyva principe d'Ascoli, Claudio de Quiñones conte di Luna e
governatore d'Orano, Pedro de Guevara conte d’Oñate, Pedro de la Cueva gran
commendatore d'Alcàntara e generale dell'artiglieria, Hernàn Cortés marchese della Valle di
Huaxaja e conquistatore del Messico, i suoi due figli Martín e Luis. Era allora beglerbegi,
ossia governatore, d'Algeri il successore del Barbarossa e cioè il rinnegato sardo Khadim-
Hassan-Aga, detto dai cristiani Azanagà, fatto schiavo in Sardegna appunto da Kheir-ed-
Din. Avendosi tenuto dunque in tanto poco conto l'asprezza del tempo in quel periodo
dell'anno, l'armata di Carlo V, partita dalle Baleari, il 20 ottobre dette fondo nella cala di
Capo Matifoux, 18 miglia a est d’al-Djezaïr (‘Algeri’), la quale non era però luogo sufficiente
dove ridurla tutta, mentre si sarebbe potuta riparare completamente e sicuramente
nell'insenatura detta Le cascine, a sole 12 miglia a ovest dalla predetta città barbaresca; e
così, sopraggiunta una fortissima tempesta che durò dal 25 al 26 ottobre, buona parte
dell'armata affondò o naufragò in quella rada, salvandosi sì la maggior parte degli uomini
perché già sbarcati il 23 precedente, non senza trovare resistenza, ma purtroppo non 1.200
di loro, non i loro materiali di guerra e le loro provviste né la maggior parte dei cavalli, i
quali furono, come il resto del carico, gettati a mare per alibare (‘alleggerire’) i vascelli
assaliti dalla tempesta:
… poiché i cavalli non furono risparmiati, tanto i ginetti di Spagna quanto i bei corsieri di
Napoli e altri così belli, così ben scelti e così generosi, i quali erano tanto valsi e costati che
non s’ebbe cuore che non fosse ferito da pietà e da cordoglio nel vederli galleggiare in
pieno mare; fendendolo a nuoto e sforzandosi di salvarsi, sebbene disperando della terra
per esser questa troppo lontana, essi seguivano di vista e di nuoto, per quanto potevano, le
loro navi ed i loro padroni, i quali li guardavano pietosamente affondare e annegare davanti
i loro occhi. A Genova udii raccontare da dei vecchi marinai di quei tempi che la cosa che
più intenerì loro il cuore in tal naufragio fu, dopo quello gli uomini, questo pietoso
spettacolo dei cavalli ed essi non facevano tanto racconto né manifestavano tanto dolore
d’altre perdite quanto di quella. Paolo Giovio ne ha raccontato molto, ma io l’ho udito dire
ancor meglio da altri… (P. de Bourdeilles. Cit.)
Certo che Pierre de Bourdeilles era da considerarsi un uomo degno d’encomio per queste
accorate parole spese a favore proprio d’un animale al quale doveva quella sua inguaribile e
dolorosa menomazione che lo costringeva a vivere a letto sin da età ancor giovanile; ma la
vita di questo prolifico, raffinato, intelligente, anche se un po’ farraginoso autore esula dal
nostro tema. Gettare a mare i cavalli nelle situazioni di pericolo era uso comune e capiterà
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di doverlo fare al largo di Mazalkibir, a una lega da Orano, anche all’armata di velieri che
all’inizio del 1543 condurrà in Barbaria Martín de Córdova y de Velasco, conte di Alcaudete
e signore di Montemayor:
… e colà venne un’altra burrasca abbastanza pericolosa, anzi molto, perché in verità ci mise
in notevole pericolo e affanno, tanto che gettarono dalle navi a mare molti cavalli a causa
del grande affanno in cui si videro. (Francisco de la Cueva, Relacion dela guerra del Reino
de Tremecen etc. Baeza 1543, in «Guerras de los españoles en África», Madrid, 1881.)
Dopo aver tentato inutilmente di prendere egualmente Algeri, Carlo V fu costretto a far
marciare il suoi esercito verso Capo Matifoux per farlo reimbarcare, mentre di nuovo il mal
tempo prendeva a martoriare l’armata e una delle più grosse navi sparì tra i flutti con il suo
carico di ben 400 uomini; altri due vascelli furono gettati sulla costa presso Algeri e gli
spagnoli che li montavano, dopo aver combattuto eroicamente, si dettero prigionieri ai
turchi e furono imprigionati nei famigerati bagni penali della città; la marcia dei cristiani fu
martoriata dalla cavalleria araba, dalla pioggia e dalla necessità d’attraversare dei fiumi e lo
stesso imperatore, in attesa che le condizioni atmosferiche permettessero il ritorno in
Spagna, fu costretto a soggiornare qualche giorno a Bougie, la quale allora, come
sappiamo, era come Tripoli, Tunisi e Orano tenuta da presidi cristiani; infatti, conquistata da
Diego Fernandez de Córdoba Mers-El-Kébir nel 1505, poi il Peñon de Vélez (oggi
Benyounes) nel 1507, il 18 maggio 1509 Francisco Jiménez de Cisneros, arcivescovo di
Toledo e primo ministro, inviato da Ferrando ed Elisabella d’Aragona la prima volta in
Barbaria a capo d’un esercito, aveva preso Orano, principale porto del regno di Tlemcen, e
altri luoghi marittimi minori della costa mediterranea occidentale dell’Africa; ancora, nel
1510 il generale spagnolo Pedro Navarro, andata anche a buon fine l’impresa di Tripoli e
Bougie e sottoposte a tributo Tenès, Cherchell e Mostaganem, lasciò Tripoli il 28 agosto di
quello stesso anno alla testa di 15mila soldati spagnoli e sbarcò il giorno seguente alle
Gerbe con l’intenzione d’impadronirsene, per estirpare anche da quell’isola la pirateria
barbaresca, la quale vi era stata stabilmente istallata dal corsaro Barbarossa nel 1503; ma,
volendo portarsi dietro una pesante artiglieria d’assedio e non disponendo né di buoi né di
guastatori, commise un errore ingenuo e indegno di lui, come riporta il de la Gravière dal
Sandoval, il quale partecipò a quell’imprese del Navarro, cioè la fece penosamente
trascinare e le fece aprire la strada dai suoi stessi fanti, i quali arrivarono quindi il giorno 30
a una agognata sorgente disordinati, stanchi, accaldati e assetati e vi trovarono ad
attenderli, tra fanti e cavalli, 4.500 mori imboscati; furono quindi da questi messi in fuga,
ebbero tremila morti e 500 prigionieri, mentre il resto nel panico generale riusciva
435
spagnoli tra cui lo stesso figlio del suddetto conte, mentre nel 1601, per altre avverse
circostanze atmosferiche, nemmeno un’altra spedizione guidata dal principe Gioan Andrea
d’Oria, soprintendente generale del mar Mediterraneo di Filippo III, riuscirà ad averne
ragione. Il 19 agosto di quest’ultimo anno era infatti stata rassegnata a Maiorca
un’imponente armata di 73 galere, essendosi colà ammassate quelle di Spagna, Napoli,
Sicilia, Savoia, Toscana, Roma, Genova e particolari genovesi, con più di 10mila soldati, tra
i quali molta fanteria inviata dal Milanese dal conte di Fuentes, allora governatore di quello
stato oltre che capitano generale dell’esercito del nord-Italia, e imbarcata a Savona, con
comandanti prestigiosi, tra cui Ranuccio I duca di Parma e Piacenza, Virginio Orsino duca
di Bracciano e Pedro de Moncada vicerè di Sicilia; arrivata tale armata davanti ad Algeri il 1°
settembre, fu investita da un forte vento di levante che la trascinò a ponente,
costringendola infine a tornarsene a Maiorca il 4 successivo con un completo nulla di fatto
e molte galere danneggiate dal maltempo; l’insuccesso fu dovuto al ritardo con cui s’era
arrivati ad Algeri, ritardo dovuto a vari fattori, specie alla circostanza che il Fuentes, per
cedere sue soldatesche al d’Oria, aveva voluto dalla Spagna un secondo ordine di
conferma, che le galere napoletane, andate in corso in Levante nonostante le
raccomandazioni contrarie del principe, erano tornate a Napoli solo il 7 luglio e anche
bisognose di raddobbo e infine anche al maltempo. Le galere dei particolari genovesi
comandate dal duca di Tursi Carlo d’Oria, figlio del principe di Melfi Gioan Andrea, e sei
della repubblica di Genova, caricate in Liguria il 27 giugno le soldatesche italo-spagnole
provenienti dal Milanese, unitesi a cinque del Papa e a quattro del Granduca di Toscana e
avendo fatto sosta a Napoli dal 15 al 17 luglio, arrivarono con queste per prime alla massa
di Messina il 19 luglio, mentre il 24 arrivarono 18 galere di Napoli, le quali non arano state
ancora nemmeno spalmate, quelle di Sicilia giunsero il 1° agosto e quelle di Spagna
arrivarono più tardi di tutte. Gioan Andrea inviò in Levante le galere più forti perché
tenessero i turchi distolti dalla Barbaria, suo vero obbiettivo, e chiese al gran maestro di
Malta, allora Luigi de Vignacourt, d’inviare anche le sue in Levante allo stesso scopo;
imbarcati intanto mille uomini del battaglione di Calabria, l’armata si spostò poi a Maiorca
per nascondere al nemico le sue vere intenzioni e si fornì di piloti maiorchini esperti delle
acque di Algeri; alla fine l’armata si trovò costituita dalle seguenti galere:
- 12 di Sicilia, di cui nove di proprietà del re e tre del duca di Macheda, tutte comandate da
Pedro de Leyva;
- 11 di Spagna comandate dal conte de Buendia;
- 5 del Papa comandate dal commendator Magalotto, suo luogotenente generale;
- 6 della repubblica di Genova, agli ordini del conte Gio (sic), ma di cui era generale
Tomaso d’Oria;
- 4 di Toscana comandate da Marc’Antonio Calafatto, generale delle galere dell’ordine di S.
Stefano.
Dunque 73 galere in tutto; ma le squadre di Spagna, Napoli e Sicilia erano in cattivo ordine e
fu necessario rinunziare a una parte delle loro galere perché le altre fossero fornite d’un
sufficiente numero di rematori. Per quanto riguarda le fanterie imbarcate su detta armata,
tutte sotto il comando del mastro di campo generale Manuel de Vega Cabo de Vaca, c’erano
6.300 spagnoli, così ripartiti.
- 1.600 del terzo di Lombardia, agli ordini del loro mastro di campo Iñigo de Borgia;
- 1.000 del terzo di Bretagna, agli ordini di Pedro de Toledo de Anaya;
- 2.000 del terzo di Napoli, agli ordini di Pedro Vivero;
- 1.200 del terzo di Sicilia, agli ordini del Salazar, castellano di Palermo;
- 500 del terzo Armada, agli ordini del governatore Antonio de Quiñones.
C’erano poi 2.500 italiani comandati da Barnaba Barbo e 1.500 miliziani del Battaglione del
Regno di Napoli, guidati dal mastro di campo Annibale Macedonio, mentre le galere
papaline potevano sbarcare 350 fanti e le toscane 400 oltre a numerosi cavalieri di S.
Stefano; infine c’erano da aggiungere, come la solito, molti venturieri, tra cui il duca di
Parma con 200 cavalieri suoi vassalli e vecchi soldati di Fiandra, imbarcati sulla Capitana di
Carlo d’Oria; Virginio Orsino duca di Bracciano sulla Capitana di Firenze; il marchese
d’Elche, primogenito del duca di Macheda, sulla Reale, e poi Alonzo Idiaqués, generale della
cavalleria leggera dello Stato di Milano e luogotenente di Gioan Andrea d’Oria, Diego
Pimentel, Manuel Manriques, gran commendatore d’Aragona, il conte di Celano, il marchese
di Garesfi (sic), Ercole Gonzaga, Gian Geronimo d’Oria, Aurelio Tagliacarte e molti altri, tra
cui 7 od 8 gentiluomini romani. Il 30 agosto l’armata arrivò in vista delle coste africane, ma
con le galere tutte disperse e ci vollero più di 3 ore a raccoglierle; poi, poiché i piloti non
riconoscevano la costa da quella distanza, furono mandati verso riva con delle feluche,
mentre a bordo s’abbattevano gli alberi e si raccoglievano le vele per prepararsi ad
attaccare a remi; ma i piloti non tornarono che a sera, con gran collera del principe, il quale
temeva fossero stati presi prigionieri o che fossero fuggiti, e riferirono che le correnti
avevano portato l’armata a 50 miglia a levante d’Algeri e quindi si dovette tornare indietro;
si fecero poi scendere in feluche e fregate 300 archibugieri spagnoli e due petardi destinati
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a far saltare la porta della città detta ‘della marina’, ma alla fine della notte cominciò a
soffiare un fortissimo Greco e quindi si fu costretti a far risalire a bordo delle galere queste
soldatesche e ad allontanarsi da quel luogo lasciando che l’armata andasse portata dal
vento. Ci si ritrovò così a Maiorca il 3 settembre e il vento contrario continuò per diversi
giorni; quando si calmò, ripartendo ci si sarebbe ritrovati a destinazione dopo il 10
settembre, cioè dopo che la guarnigione turca della città, la quale s’era allontanata
nell’entroterra per andare a raccogliere il tributo annuale detto garama, sarebbe tornata e
quindi la città sarebbe stata molto più difesa, aggiungendosi a ciò che l’effetto sorpresa
s’era ormai probabilmente perso e che le galere avevano biscotto solo per il mese di
settembre; il principe d’Oria decise pertanto di rinunziare e congedò l’armata. Dopo
quest’insuccesso Gioan Andrea darà le dimissioni e sarà sostituito da Juan de Cardona;
così i d’Oria principi di Melfi non saranno più capitani generali del Mediterraneo, ma presto
in questo prestigioso carico subentreranno i d’Oria duchi di Tursi.
Algeri, dopo aver subito azioni navali offensive dalla flotta inglese nel 1616 e nel 1620, da
quella olandese nel 1619, da quella francese del duca di Beaufort nel biennio 1662-1663 e
ancora da quella inglese nel 1669, dopo aver respinto una spedizione navale francese
inviata da Luigi XIV contro di lei e contro Tunisi, la quale fu costretta ritirarsi con perdite,
dopo esser stata poi ridotta pressoché in cenere da tre bombardamenti navali francesi
vendicatori di quell’episodio e diretti dall’ammiraglio du Quesne (1683 -1684 -1688), dopo
aver messo in rotta uno sbarco spagnolo guidato dal generale irlandese O’Reilly l’8 luglio
del 1775, esser stata duramente bombardata dall’ammiraglio spagnolo Angelo Barcelo sia
nel 1783 che nel 1784, esser stata attaccata nei primi anni dell’Ottocento due volte persino
da navi militari degli Stati Uniti, esser stata pressocché distrutta dalla flotta anglolandese di
Lord Exmouth con un terribile bombardamento iniziato il 27 agosto del 1816, cadrà
finalmente solo il 5 luglio 1830, quando verrà presa dall’armata francese dell’ammiraglio
Duperré e del generale de Bourmont e l’ultimo dei suoi bagni per gli schiavi cristiani, solo
qualche centinaio allora, verrà finalmente chiuso! Ma perché questa città corsara era tanto
imprendibile? Ce lo spiega il residente veneziano in Spagna Lorenzo Priuli nella sua
relazione del 1576:
… l’impresa d’Algieri, la quale è molto ardua per esser questa città sempre ben provvista di
molta gente da guerra, difficile da esser assediata e facile da esser soccorsa, e finalmente
perché di estate non si può tentarla per sospetto (‘il pericolo’) dell’armata turchesca e
d’inverno quella spiaggia è pericolosa da praticare per non vi esser porto da salvar l’armata.
(E. Albéri. Cit. S. I, v. V, p. 239.)
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Allo stesso infausto modo nel 1570, avendo Venezia, Roma e il re di Spagna, pur senza che
si fosse formalizzata alcuna lega tra di loro, formata a Suda in Candia, porto appunto atto a
dar ricetto a grossi numeri di vascelli, un’armata di 180 galere, 12 galeazze e sei navi grosse
per soccorrere Cipro invasa dai turchi e trattenendosi questa in mare senza decidersi a
passare all’azione, sebbene si fosse ormai arrivati all’ottobre, i veneziani persero ben 11
galere, perché queste, mentre si trasferivano il giorno 6 dal porto di Candia a quello di
Suda, andarono a naufragare sulle spiagge dell’isola a causa d'un terribile fortunale di
tramontana; la squadra pontificia di Marc’Antonio Colonna ne aveva appena perse 2 delle
sue 12 nel predetto porto di Candia per lo stesso motivo e il precedente 26 settembre
quell’asburgica di Gioan Andrea d’Oria, sempre a causa del mal tempo, ne aveva già perse
a Scárpanto quattro delle sue 49; quest’ultima disgrazia era avvenuta perché il d’Oria aveva
voluto che le sue galere sostassero all’ancora in rada invece d’entrare in porto, come
avevano invece in maniera ortodossa fatto le altre squadre, pericoloso comportamento del
resto già tenuto dal genovese quando l’armata cristiana era stata a Calamata, e la cosa
deponeva, secondo quanto lascia capire il Colonna nella sua suddetta relazione a Filippo II,
per una sostanziale inesperienza di Gioan Andrea nelle cose pratiche di mare, inesperienza
che, unita alla tradizionale spilorceria dei d’Oria, può senz’altro spiegare poi anche il
criticabilissimo modo di fare del generale genovese a Lepanto, dove permetterà a Uluch-Alì
di salvarsi con un buon gruppo di galere e di conseguenza consentirà all’impero ottomano
una più rapida ripresa dalla gravissima sconfitta. L’anno seguente poi, ossia il fatidico 1571,
come se non fossero bastate tutte queste recenti sventure patite dalla marineria bellica
della Serenissima, accadde, essendosi però ora in piena estate, che il nuovo capitano
generale veneziano, il settantacinquenne Sebastiano Venerio, nell’ambito dei preparativi
della grande armata che i potentati cristiani stavano preparando contro il Gran Turco,
recatosi con 35 galere a Tropea in Calabria per provvedersi colà di vino, venne assalito da
un forte temporale e, poiché il suo ammiraglio (vn. armiragio; luogotenente di capitano
generale), cioè lo schiavone Uranna, pur essendo molto sperimentato e stimato in Levante,
non aveva in realtà conoscenza di quelle coste e non s’accorse della presenza di certi
scogli, vide ben otto delle sue galere andare a fracassarcisi e di queste solo due si poterono
il giorno seguente con molta fatica recuperare; s’aggiungeva poi a tal danno la fuga a terra
di molti galeotti veneti, anche se il cardinale di Granvelle, a richiesta dello stesso Venerio,
dette presto ordine al governatore di Tropea di catturarli; infine negli stessi giorni al
provveditore Barbarico che si recava per lo stesso motivo con altre galere a Melazzo
(‘Milazzo’) la burrasca faceva perderne due che erano andate anch’esse a rompersi in terra.
440
… Non parliamo poi dei turchi, poiché, se sbagliano, sono avvezzi a perdere subito la testa,
perfino a portarla loro stessi al Gran Signore per farsene privare. (Cit.)
Pervenute dunque le dette 15 galere all’altezza di Malta, furono prese da una violenta
tempesta e solo sette riuscirono a raggiungere Tripoli, mentre le altre otto andarono a
naufragare su Lampedusa e vi trovarono la morte ben 1.500 uomini.
Come ci si doveva comportare in una galera sorpresa da un violento fortunale? Bisognava
innanzitutto, con voce familiare ai marinai veneziani, libare (da ‘liberare’, ossia alleggerire) il
vascello il più possibile a evitare che le onde lo sommergessero o che il grave peso
trasportato, sbattuto dalla violenza dei flutti, ne aprisse lo scafo affondandolo. Al comando
far getto! si cominciava a gettare in mare i pavesi e il tavolame o legname di garbo (gr.
ὐποζώματα, ‘legname navale’), ossia di servizio e di rispetto; poi ci si liberava del fogone e
dello schifo, poi dell'artiglieria e di tutto quanto di mobile si trovasse sulla coperta, eccetto
dei barili d'acqua potabile e del palamento, perché con quest'ultimo si faceva da
contrappeso al vascello spinto dalla burrasca, aiutandolo così ad avanzare diritto senza
piegarsi troppo da un lato o dall'altro, e inoltre, passato il maltempo, una galera senza remi
sarebbe rimasta pressocché incapace di navigare. Se tanto non fosse bastato, allora si
cominciava a gettare in mare la mercanzia, l'alberatura, i corredi e le provviste tenute sotto
coperta, iniziandosi dalle più vili o meno necessarie, ma, prima che si addivenisse a tale
disperata e funesta risoluzione, bisognava che il capitano si consultasse con i suoi
principali ufficiali ed eventualmente anche con i mercanti caricatori della merce a nolo, se a
bordo ce ne fosse; in quest'ultimo caso doveva il capitano prendere minutissima nota di
tutto quanto si gettava in mare, in modo da poterne avere un giorno valida giustificazione e,
delle implicazioni legali dell’esecuzioni di un getto si può leggere, per esempio,
nell’Excerpta controversiarum de lege Rhodia de jactu etc. di Johann Heinrich Feltz,
pubblicata a Strasburgo nel 1715. Proseguendo poi nei suddetti gravissimi provvedimenti,
sgombrate dunque ormai le camere sotto coperta, si cominciava, da poppa verso prua, a
demolire i già menzionati parasguardi, ossia i tramezzi di tavole che separavano le varie
camere, in maniera che, se il vascello incominciato a far acqua, si poteva trovare subito la
falla (gr. εὐδιαῖος, gre. ἐυδίαιος), tapparla con cappotti, schiavine, cuoi, placche di piombo,
cordami navali (gr. τοπεῖα), stoppa, sacchi di lana, ecc. e mettersi subito a got(t)are
(‘aggottare, vuotare’) la galera da un capo all'altro senza impedimenti e impacci; inoltre gli
stessi parasguardi si gettavano immediatamente a mare alleggerendo così ulteriormente il
vascello. Nel caso summenzionato della tempesta che colse l’armata dell’ammiraglio Roger
443
de Lauria nel 1285 lo storico Bartolomeo di Neocastro ci racconta che si cominciò col
gettare in mare davvero il superfluo del superfluo e cioè tutto il ricco bottino fatto a spese
dei francesi nella precedente battaglia terrestre di Rosa in Catalogna; ma ciò non bastò a
salvare tutte le galee e ne naufragarono infatti 6 siciliane (cit. L. I, cap. 101). Interessanti le
raccomandazioni fatte ai suoi uomini che il predetto storico attribuisce a Roger de Lauria in
occasione di quel fortunale:
Premesso che qui per talami si intendono dunque le stanze dei castelli di poppa, cosiddetti
perché nelle loro camere vi dormiva la gente di poppa, e non si intendono le balestriere,
cioè le strette corsie di fiancata in coperta che nelle galee di Bisanzio portavano lo stesso
nome, in esse dormendo gente di coperta, e di cui abbiamo in precedenza detto quando
abbiamo appunto menzionato i remieri talamiti, il suddetto passo merita anche qualche altra
spiegazione. Navigare in una tempesta richiede che le galere si tengano lontane l’una
dall’altra per evitare il rischio di collisioni dovute alla gran forza dei venti e delle correnti.
Così allargandosi, inevitabilmente si disperderanno, ma ciò nonostante non dovranno
cercare di mantenere ad ogni costo la giusta rotta perché questo le esporrebbe
maggiormente agli insulti del maltempo; la riprenderanno a tempesta finita, anche se ormai
però non più viaggiando di conserva con le altre. Durante il fortunale, una volta raccolte le
vele per evitare che il violento vento le laceri o che peggio, troppo gonfiandole, provochi la
frattura degli alberi e magari anche il rovesciamento e quindi il naufragio della galera, non
c’è altro servizio che i marinai possano rendere in coperta e quindi sia loro sia soldati ed
eventuali passeggieri dovranno scendere giù nelle camere per dare, con il loro peso,
maggior stabilità alla galera; inoltre, avendo provveduto a rinchiudersi le boccaporte dietro
di sé per evitare che vi entrino poi anche quei flutti che inevitabilmente verranno a spazzare
444
Se vedessi avenire
Che vento ti rompesse
Timoni e t'abbattesse
L' arbore grande tuo,
Metti nel luogo suo
L'arbore tuo minore.
S'abbatte quel, puo' tore
L'antenna e lei rizare, fin che luce t’appare.
In luogo di timoni
Fa spere e in aqua poni;
Di nave, se pur trae
Verso la terra, fae
Tue ancore gettare,
Se non puoi in altro trare,
Le quai fitte, contendi,
E diligente attendi
Le sarte si guardare,
Che tengan' al girare .
(Francesco da Barberino, cit. Pp. 272-273.)
Il modo più efficace d'estrarre l'acqua marina era di farlo attraverso lo sportello, ossia la
boccaporta della camera di poppa, ma poteva capitare che la burrasca fosse tale che le
onde entrassero nella galera proprio per la poppa e allora si doveva fare subito uno
sportello nella corsia immediatamente dopo il tabernacolo, luogo dove minore era il
pericolo delle onde. Bisognava frattanto che si calafatassero e si coprissero di cuoio crudo
445
di vacca tutte le aperture e gli sportelli di tutte le camere dalla poppa alla prua, affinché per
quelli non entrasse il mare nella galera; si doveva infine far andare sotto coperta tutti i
soldati e i passeggeri e ciò sia per aumentare la stabilità del vascello sia perché i paurosi
non infondessero sgomento agli altri. Alla fine, se proprio era divenuto inevitabile per non
aboccare, ossia per non affondare, si doveva far getto a mare anche del palamento. Questi
accorgimenti salvavano molte galere, anche se poi alcune ne restavano del tutto inutili alla
navigazione.
Non tratteremo delle tecniche di maneggio delle vele di quei tempi sia per non esser materia
strettamente militare sia per nostra incompetenza; ci limiteremo pertanto a qualche
osservazione e cominceremo col dire che, quando la galera andava a vela, era molto
importante che ogni uomo stesse al suo posto, perché gli spostamenti di gente da una
parte all'altra del vascello potevano procurare la perdita della stiva, ossia dell'equilibrio
stesso della galera, con un maggior travaglio delle strutture e minore velocità. Non si
doveva quindi permettere a soldati e marinai di mettersi a sedere sui filari, cioè sui parapetti
laterali, e ciò specialmente sottovento, a evitare che la galera piegasse più da un lato che
dall'altro; né d'altronde costoro dovevano, per motivi diversi dal servizio, starsene in piedi
camminando qua e là, ossia stare in bricollo, come allora si diceva d’uomini e cose non ben
compartite sulla coperta, travagliando così la galera ora da una parte e ora dall'altra, e ciò
specialmente con il vento in poppa; bisogna inoltre, sempre ai fini d’ottenere una maggiore
stabilità e un maggior equilibrio del vascello, far sedere la ciurma giù alla pedagna, il che si
otteneva con il comando Senta a basso! (fr. Tout le mond bas!) Era comunque compito del
còmito ordinare la disposizione degli scapoli e soldati da un lato o dall'altro della coperta, a
evitare che la galera piegasse più da una parte e perdesse così la buona stiva. Se, ciò
nonostante, durante la navigazione a vela ci si fosse visti a un certo punto piegare troppo
da un lato, allora da quello stesso lato e all'incirca dall'albero alla prua, secondo il bisogno,
si acconigliavano od intrecciavano o tessevano - che in tanti modi si poteva dire - i remi,
cioè si ritiravano in galera per il traverso della stessa appoggiandoli ai posticci, a evitare
così che le loro estremità si tuffassero nell'acqua rompendosi o che nell'acqua
rastellassero, ossia facessero resistenza al moto del vascello e così lo ritardassero, o infine
che ne potessero nascere altr'inconvenienti.
Bisognava poi stare attenti che, prima d'ammainare la vela maestra, venissero
opportunamente sfrenellati o sfornellati i remi sottovento, vale a dire venissero slegati dalle
pedagne dei banchi alle quali, durante la navigazione a vela, erano tenuti appunto frenellati
o fornellati, cioè tenuti legati per il giglione con un frenello, mantenendone così le pale
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sollevate dall'acqua, ... che diciamo noi propriamente quando i remi si fermano alti dal mare
e fanno parere la galera quasi un uccello che apra e stenda l'ali... (Ib.); ciò si faceva perché
la vela, cadendo giù, vi si sarebbe potuta restare intricata e stracciarsi; allo stesso scopo,
ossia affinché non vi si andasse a stracciare, prima d’ammainare la vela si coprivano con
schiavine la prua e la poppa dello schifo di bordo.
Le galere non s’impiegavano d’inverno se non per motivi di grande importanza, quali
soprattutto la difesa o la conquista di regni, e non solo perché, come abbiamo già spiegato,
di bordo troppo basso per affrontare mari agitati, ma anche perché la gente di bordo, specie
i remiganti che vivevano solo in coperta, quando talvolta si trovavano a navigare in quella
stagione, si ammalavano immediatamente:
… Importa molto che le galere riposino d'inverno e possano tornare nelle loro darsene,
perché è una cosa incredibile e penosisima vedere la ciurma e la marinarezza che si
ammalano e muoiono navigando d'inverno e trovandosi le galere fuori dei loro luoghi
ordinari; inoltre i marinai con molta riluttanza si arruolano per navigarvi se non sia con la
speranza di poter, dopo aver lavorato tutta l'estate, tornare alle loro case e riposare
l'inverno. (Carta de Juan Andrea d’Oria a Felipe II etc.Ca. 1594. In Colección de documentos
inéditos para la historia de España etc. P. 179. Tomo II. Cit.)
cristiani a Lepanto avevano sì portato a più miti consigli il Gran Turco, ma non avevano con
quella vittoria, seppur grandissima, compromesso l'attività dei corsari turco-barbareschi nel
Mediterraneo. Da parte loro i cavalieri giovanniti, cioè di Malta - come del resto dal 1562
anche quelli di S. Stefano - assalivano regolarmente quella grande caravana marittima
(‘convoglio’) di musulmani, ossia di pellegrini maomettani, i quali, riunitisi annualmente al
Cairo a volte anche in 60 o 70mila, andavano alla Mecca a visitare il sepolcro di Maometto e
quindi s’imbarcavano ad Alessandria per Costantinopoli, tanto che fare una caravana o
andare in caravana era divenuto tra le nuove giovani reclute dei predetti cavalieri
gerosolimitani comune modo di dire per significare fare una prima esperienza di campagna
marittima contro i nemici della fede e, un secolo dopo, significherà per loro invece, più
genericamente, fare un corso d’apprendistato per mare; altre caravane annuali erano quella
che si riuniva a Damasco, quella di Babilonia e una quarta che si formava invece a Zibith,
città posta all’imboccatura del Mar Rosso e di cui non sapremmo indicare il nome attuale.
Anche per i pellegrini che ritornavano dalla Mecca si organizzavano tali caravane,
ovviamente per i percorsi inversi. Il 21 ottobre del 1608, leggiamo nel Guarnieri, otto vascelli
del granduca di Toscana Ferdinando I assalirono la caravana d’Alessandria e ne
catturarono molti caramussali, qualche galeone e una germa (Cit.); in genere tale caravana
era formata da 10 o 12 saicá e caramussali, vascelli da carico sui quali s’imbarcava il
grosso dei pellegrini, e poi da una decina di vascelli da guerra di scorta e cioè sultane e
grossi vascelli da 60/70 pezzi d’artiglieria. Anche i veneziani nel Medioevo chiamavano
caravane i convogli commerciali che, scortati da una grossa squadra delle loro galee,
inviavano in Medio Oriente e in Egitto; questo perché il nome caravana, anche se poi
rimasto solo alle teorie di cammelli che viaggiavano nel deserto del Sahara e attraverso i
paesi del Medio Oriente e con le quali i suddetti pellegrini cristiani percorrevano i tratti
terrestri del loro viaggio, non ha in effetti nulla di arabo, turco o moresco, non essendo altro
che una corruzione di carabana, ossia di una teoria di càrabi, cioè dei vascelli onerari alto-
medievali che abbiamo già più volte menzionato. Ecco per esempio notizia di una caravana
genovese del 1217:
Che la guerra di corso fosse esercitata senza sosta dai cavalieri di Malta, come facevano i
barbareschi, è confermato dalla testimonianza del de Bourdeilles, il quale si trattenne in
quell’isola qualche tempo:
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Quest’incessante attività anti-corsara dei giovanniti, i quali erano in guerra spesso chiamati
dai francesi semplicemente les armez, in quanto usavano combattere sempre ben difesi da
corsaletti, faceva ‘sì che quell’ordine fosse legato a doppio filo con la Corona di Spagna e
che fosse da questa particolarmente protetta, come spiegava il già citato Francesco
Vendramino (1595) :
… Della religione (‘ordine’) di Malta tiene esso Re particolare protezione, come anco essa
dipende affatto da’ suoi voleri ed eseguisce prontamente i comandamenti regi, servendo
bene spesso a tener guadate le marine della Spagna ed i regni di Napoli e di Sicilia dalle
incursioni de’ corsari, senza che il Re ne senta interesse alcuno di spesa. (E. Albéri. Cit. S. I,
v. V, p. 473.)
La necessità di non mantenere d'inverno le galere ferme ad ammuffire nei porti era sentita
pure a Venezia, come suggeriva nel 1586 in una sua relazione mons. Maffeo Venerio:
... In questo stesso tempo si potrebbe spingere in Levante una banda di galere, che pure ve
ne sono, a corseggiare, danneggiare le marine, cercando le navi che andassero a
Costantinopoli e tenendo le ciurme esercitate, le quali per il più si avviliscono nei porti e,
molte volte, in conserva (‘compagnia) delle buone sono più d'incommodo che di servizio.
(Ib. S. III, v. II, p. 307.)
Il rinnegato calabrese Uluch-Alì, capitano generale dell'armata turca, usava scorrere talvolta
il mare con gran numero di galere e non per far una determinata impresa, bensì ai solo
scopi di far bottino e di tenere così le ciurme e gli equipaggi esercitati, come appunto fece
nel 1572, quando, mentre era nell'arcipelago greco colla nuova armata costruita in fretta e
furia dopo quella perduta l'anno precedente a Lepanto, intese che l'armata veneziana, forte
di 120 galee sottili e di sei galeazze, non era ancora uscita dai suoi porti per unirsi ai
collegati e venire ad attaccarlo; pertanto, per non lasciare le proprie grandi forze
inutilizzate, ne mandò una parte a infestare le marine cristiane ed egli con 30 galee andò
invece di persona a rivedere e presidiare le coste ottomane, mantenendo in tal modo le sue
genti in esercizio.
Bisognava inoltre che la ciurma fosse nutrita di buon biscotto, vestita di buoni abiti, tenuta
riparata dal freddo e dall'umidità notturna e che la si mantenesse pulita nei corpi e negli
abiti facendole cambiare spesso la camicia e facendo 'sì che si lavasse e stropicciasse
spesse con l'acqua di mare quando la stagione lo permetteva; infatti il sapone non era un
449
genere che venisse fornito ai galeotti di munizione. L'alimentazione con cibo cattivo e
l'insufficiente riparo dal freddo erano i due principali pericoli che, oltre a quelli bellici, la
salute della ciurma correva:
... le genti delle armate navali [...] stando come in carcere, patendo ordinariamente del
vivere, mangiando poco altro che cibi salati e molto spesso guasti e non sani, bevendo
quasi sempre acqua - e alcune volte salmastra o di mala qualità - e vini non schietti,
dormendo poco meno che all'aria sopra un remo o in luoco angustissimo senza una minima
commodità, vivendo sempre in luoco dove si genera e mantiene un perpetuo fetore causato
dal sudore, da i panni lordi e da altre immondizie proprie di quei luochi, e stando esposti
alle ingiurie della pioggia, del vento, del ghiaccio, del sole e d'ogni altro disagio, con la
mescolanza di tanti fiati cattivi, è necessario che incorrano nelle infermità e le attacchino a i
compagni, specialmente dove sono le ciurme o i soldati nuovi e non assuefatti alle miserie
della vita marinaresca. (P. Pantera. Cit. Pp. 207-208.)
Molteplici furono i casi d’armate sconfitte più dall'epidemie che dal nemico e, tra i più
imponenti, quello dell'armata cristiana guidata dal duca di Medina Coeli e che nel 1560 fu
vanamente spedita contro Tripoli; questa, poiché si era dovuta trattenere lungamente prima
a Siracusa e poi a Malta per diversi contrattempi intervenuti, disavventure alle quali poi
torneremo, aveva visto durante quelle lunghe soste forzate ridursi man mano le sue risorse
umane a causa d'infermità contagiose che portarono grandissima mortalità tra gli equipaggi
e le guarnigioni e anche per le continue diserzioni, perché gli uomini, resisi intollerabili i
disagi dovuti alle ristrettezze di bordo, alle malattie e al tedio, fuggivano appena potevano;
l'armata andò dunque a combattere con appena la metà della gente che vi era stata
imbarcata, andando così incontro il 12 maggio a quella famosa disastrosa sconfitta all'isola
delle Gerbe (oggi Gerba), isola appetibile perché considerata uno dei migliori empori
africani e la cui conquista era già stata in passato più volte intrapresa dagli spagnoli con
alterna fortuna; era fallita infatti agli aragonesi nel 1424, quando Alfonso d’Aragona vi aveva
inviato il fratello Pietro alla testa di un’armata, impresa che poi questo re, partecipandovi
egli stesso, ritenterà nel 1426 con 79 navi e 26 galere e questa volta, coadiuvato
dall’ammiraglio e capitano generale delle galere di Sicilia Giovanni Ventimiglia marchese di
Geraci, avrà miglior esito, consolidando infine tale acquisizione nel 1432; persa in seguito
l’isola, la sua impresa era di nuovo fallita alla spedizione di Pedro Navarro nel 1510, come
abbiamo già narrato, mentre riusciva nel 1520 a quella di Hugo de Moncada e di Diego de
Vera; ripersa poi, l’isola sarà attaccata ancora dai cristiani nel 1611 in occasione
dell’impresa dell’isola di Cherchen. Una sventura simile a quella predetta del Medina Coeli
era capitata nel precedente 1551 all'armata turca che era stata tanto tempo all'assedio di
Malta, dove era stata decimata, come dice il Pantera, in parte dai cristiani, ma soprattutto
450
dalla peste nata dall'ozio, volendo così affermare che era principalmente l'inattività a
predisporre la vita di bordo alle malattie epidemiche; ma in verità tali e non scoppiavano
mai nei lunghi mesi invernali in cui le ciurme stavano a bordo quasi del tutto inattive in
attesa della bella stagione e dunque la vera causa erano il grande sovraffollamento e il
conseguente peggioramento delle condizioni igieniche che avevano luogo a bordo delle
galere, quando queste, preparate ad azioni di guerra, erano mantenute troppo tempo in tali
condizioni. Nel biennio 1570/1571 era stata vittima di pestilenze anche l'armata ottomana
che poi il 3 agosto del 1571 prese Famagosta dopo un lungo assedio, tanto che dopo la
vittoria i turchi furono costretti a lasciare in quell'isola molte delle loro galere disarmate per
mancanza d'uomini; ma l'esempio più tragico e più gravido di conseguenze negative per la
cristianità fu quello della potente armata veneziana che nell'anno precedente, mentre stava
da maggio oziosamente raccolta nel porto di Zara in attesa che si stabilissero situazioni
adatte a portare soccorso a Cipro, isola che era stata assalita da un’armata turca forte di
160 galere, 60 tra galeotte e fuste, otto maone, sei navi, un galeone, tre palandre, 40
passacavalli, 30 caramusali e 40 fregate, mentre la cavalleria turca dannificava
rovinosamente lo stesso entroterra istriano per far mancare i viveri a quelle città e quindi di
conseguenza anche alle tante galere che vi stavano raccolte, soccorso quindi urgente, ma
che però per vari contrattempi era ritardato, dopo un paio di mesi di tale inattività e penuria
di viveri dunque l’armata veneziana fu presa da una virulentissima epidemia, la quale, nata
nelle ciurme, si propagò alla soldatesca con tanta veemenza e velocità da fare presto 20mila
vittime e fu inoltre tanto duratura che, secondo il Sereno, all’inizio del 1571, quando si poté
finalmente considerare finita, vi aveva ucciso più di 60mila uomini, tra cui il fiore della
milizia italiana imbarcatasi su quelle galere con lo spirito d’una nuova crociata contro i
maomettani: a Venezia, dove tutti l’anno precedente, data la grande armata raccolta e il
concreto apporto dato alla causa dalla Spagna e dal Papato, si erano aspettati di poter
subito non solo liberare Cipro, ma anche prendere ai turchi altri domini, non c’era invece
ora famiglia che non fosse in lutto e che non temesse che il nemico proseguisse nei suoi
successi a danno del suo benessere:
… Erano tutte le case piene di pianti e d’afflizione, non si vedevano per lo più altro che vesti
lugubri… La plebe, per il mancamento de’ traffichi essendo in somma povertà e miseria
ridotta, si doleva… (B. Sereno. Cit. P. 75.)
Inoltre si dovette poi licenziare dal servizio una grandissima parte degli uomini rimasti
perché resi inabili dalla malattia, ritrovandosi così poi il capitano generale Girolamo Zanne
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solo 70 galere utili delle 81 più due galeazze che sembra avesse in Istria inizialmente, e la
conseguenza di ciò fu che presto si persero Nicosia, Famagosta e tutta l'isola di Cipro
rimasta così senza il necessario soccorso; d'altra parte, come insegna la filosofia cinese, gli
avvenimenti umani più malvagi e sfortunati sono talvolta causa di beni maggiori e infatti,
senza la perdita di Cipro e l'atroce martirio di Marc'Antonio Bragadino non avremmo poi
avuto Lepanto, pietra miliare nel cammino della civiltà occidentale. La rovina accaduta fu
tale che, unita la sua fama a quella d’altri eventi negativi accaduti in quell’inizio della guerra
di Cipro, l’anno successivo sarà difficile arruolare per l’armata non solo a Venezia, ma
anche negli altri stati d’Italia, come racconta il Sereno a proposito di quello ecclesiastico, il
quale, partecipando alla Lega anti-ottomana e non disponendo a quel tempo di galere sue,
aveva assoldato sotto il proprio stendardo 12 galere toscane governate da Alfonso Aragona
d’Appiano, fratello del loro generale Jacopo VI, e provvedute d’ogni cosa salvo che dei
soldati, per cui Pio V nel 1571 arruolò e armò nel suo stato 1.600 buoni fanti, i quali, divisi in
otto compagnie, s’imbarcarono sulle galere toscane a Civitavecchia il 19 giugno:
… benché paresse impossibile di trovare in quei tempi soldati, per esser tutti sbigottiti dalla
mortalità che l’anno addietro era stata nell’armata e dall’eccessivo patimento del vivere,
senza che pur una volta avessero veduto la faccia degl’inimici, per le quali cose, sentendo
nominar le galere, impauriti fuggivano… (Ib. P. 115.)
Anche nel regno di Napoli s’erano infatti trovate quell’anno più difficoltà del solito ad
arruolare, come risulta da alcuni dispacci del residente veneto Alvise Bonrizzo riportati dal
Nicolini; il primo che ne fa cenno, datato 17 marzo, dava notizia della prossima partenza
delle galere napoletane, le quali andavano incontro a quelle di Giovanni d’Austria
provenienti dalla Spagna:
… La partenza forse sarebbe già accaduta, se non s’aspettasse che don Tiberio Brancaccio
faccia un colonnello di ottocento fanti, che dovranno imbarcarsi sulle galee; la cosa non è
facile, giacché è ancor vivo il ricordo dei mille fanti arrolati l’anno scorso dal medesimo
Brancaccio e che, contrariamente alle promesse, furono mandati alla Goletta, donde non ne
tornaron vivi se non un paio di centinaia… (N. Nicolini. Cit. P. 391. Napoli, 1928.)
Ciò nondimeno il Brancaccio riuscirà, per la fine di quello stesso mese, a mettere insieme il
suo tercio, il quale però si tenne insieme solo per qualche giorno, come leggiamo in un altro
dispaccio del 7 aprile:
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… gli ottocento uomini raccolti da don Tiberio Brancaccio sono stati imbarcati su altre navi,
ma, poiché si sparse subito la voce che sarebbero stati inviati alla Goletta, si sono sbandati
quasi tutti, in guisa che ora ne restano appena una quarantina per compagnia. (Ib. P. 393.)
Un’altra virulenta pestilenza comparì nell’agosto del 1646 a bordo della squadra pontificia
impiegata alla guerra di Candia; solo nei primi giorni vi morirono 90 uomini e poi, falcidiata
dalla malattia, la squadra rientrò a Civitavecchia alla fine d’ottobre, seguendo il suo
governatore generale Alessandro Zambeccari, il quale aveva fatto rientro già il mese
precedente, perché evidentemente anch’egli infettato; infatti morirà poi di peste a Roma alla
fine di dicembre e sarà seppellito nella chiesa della Vallicella. Ancora una grave epidemia
uccise nel 1661 metà degli equipaggi dell’armata turca di 58 galere, restandovi morto anche
il suo kapudan pasha, Alì Mazzamama, nome che i cristiani storpiavano in
Ammazzamamma, per cui nacque tra loro la diceria che si chiamasse così perché sua
madre era morta partorendolo; un’altra pestilenza desolò la Morea nel 1668, mettendo in
pericolo l’armata veneziana che colà allora operava nell’ambito della lunga guerra per
Candia, grave situazione che si ripeté poi identica nel 1688, quando la detta armata si
trovava a svernare nel porto di Napoli di Romania. Ma come si potevano difendere dalle
malattie le ciurme, ossia tanti uomini che vivevano non solo tutto l'anno all'aperto, di giorno
e di notte, ma anche incatenati ai loro banchi e a così stretto contatto l'uno con gli altri?
Della tenda che li riparava abbiamo già detto; bisogna aggiungere che nella stagione fredda
si fornivano ai galeotti delle coperte di panno albagio grossolano o di pelle villosa per la
notte dette schiavine, almeno due per banco, e cappotti d'albagio o di zigrino (altra lana
pesante) che i rematori tenevano indosso quando non dovevano vogare; l'isola di
Cefalonia, ricchissima di greggi, produceva buona parte delle schiavine di lana per l'armata
di Venezia. Il Pantera raccomandava di curare i remiganti malati dando loro la normale
assistenza sanitaria che si dava agli scapoli e soldati della galera, ma non tutti la pensavano
così:
... si procuri che gli ammalati siano curati diligentemente, perché lo vuole la carità cristiana
e perché con il buon governo e con i medicamenti si ricuperaranno molti buoni huomini
che, essendo abandonati, si perderebbono [...] vedendosi chiaramente che la buona cura,
accompagnata con i medicamenti, rende la sanità a i galeotti anco nelle istesse galee dove
stanno e che quelli che non sono medicati all'incontro muoiono o tutti o la maggior parte
[...] Il che dico perché ad alcuni pare (non sò se per poca prattica o per avarizia) che ogni
rimedio che si applichi alla gente inferma di galea, mentre sta in galea, sia superfluo e
affatto inutile, perché, come dicono, patendo molti disagi, i medicamenti si gettano via e
non le possono giovare e che, quando pare che la ciurma sia ammalata, o non ha male
veramente o muore.
(P. Pantera. Cit. P. 145.)
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In verità l’opinione pubblica del tempo non era per nulla benevola verso quelli che nel
secolo successivo saranno sempre più spesso chiamati non più remieri, remiganti, sforzati,
schiavi o buonevoglie, ma galeotti, in generale, termine che invece nel Cinquecento, poco
usato, aveva indicato non tanto i vogatori quanto la marinaresca di galera; ecco infatti
quanto ne scriveva Tomaso Garzoni nel suo incolto, ma interessantissimo trattato su
mestieri e professioni del suo tempo, ossia della seconda metà del Cinquecento:
... la ciurma o di liberi o di sforzati, cioè galiotti, mestiero stentatissimo e da gente furfante
c’habbia bisogno di bastonate in luogo di pane o d’una catena in luogo di scarpe, d’una
schiavina in luogo di polizza, d’un remo in luogo di cavallo da cavalcare, perché questa
canaglia non ritien cosa di buon in sé, ma tutte le trufarie si trovano fra quella; le
maledizioni, le bestemmie, l’imprecazioni mostruose, l’impazienze terribili, le ghiottonerie
espresse son più proprie di lor che il biscotto e l’aceto non è per pasto; però (‘perciò’) non è
maraviglia se l’agozino gli marca le spalle come si fa alle bestie, non essendo tra loro e le
bestie quasi alcuna differenza... (Tomaso Garzoni da Bagnacavallo, La Piazza Universale di
tutte le professioni del mondo. P. 874. Venezia 1665.)
E che fossero spesso trattati come bestie è confermato dal de Bourdeilles, che ne fu
pietoso testimone:
… et qui aura veu traiter des esclaves, comme j’eu ay veu, y trouvera de la pitié, car on n’en
a compassion non plus que des chiens et de bestes… (Cit.)
Un altro abuso denunciato dal suddetto Gambacorta era quello d’una disposizione reale del
1568 che permetteva ai capitani generali di vendere gli schiavi che fossero tanto malati da
essere ormai praticamente inabili alla voga; in realtà si vendevano ad altre squadre ottimi
vogatori per vilissimi prezzi con la copertura di certificati medici non veritieri o addirittura
falsi che li avevano dichiarati ormai inabili al servizio, il che significava che la galere
rimanevano carenti d’uomini per qualche tempo, cioè finché non se ne fossero acquistati
degli altri, che questi altri erano poi comprati ovviamente a un prezzo molto più alto di
quello che ufficialmente era stato dichiarato come ricavato dalla vendita dei falsi inabili e
infine, anche quando si erano acquistati gli schiavi nuovi, questi si dovevano addestrare
alla voga e ciò significava per le galere altro tempo con braccia insufficienti (Cit.).
Le galere sulle quali si trattavano schiavi e forzati in maniera alquanto più umana erano le
tre del duca Emanuele Filiberto di Savoia, come risulta dalla già citata relazione stesa nel
1570 dal residente Giovan Francesco Morosini:
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... Tratta Sua Eccellenza (il Duca) le ciurme di queste sue galere, come quello che n'ha
poche, eccellentemente, dando, oltre le minestre nei giorni ordinarij, trentasei oncie di pane
per cadauno, dove il signor Gioan Andrea d’Oria non ne dà più di trenta; per il che il
galeotto, oltre il suo bisogno, ha pane che gli avanza, il quale può vendere a chi più gli
piace e delli denari comprarsi altre cose; e comprano per il più vino, il quale in quelle parti
si ha per buonissimo mercato, tanto che rari sono quelli che bevano acqua.
Oltre questi, hanno quasi tutti essi forzati anco delli altri denari perché, quando non sono
impediti dal navigare, fanno tutti qualche mestiere e, tra gli altri, calzette di riguardo dalle
quali cavano ogn’anno molti denari; e nell'ultima andata a Nizza di Sua Eccellenza, dov'io
mi ritrovai seco, non fu alcuna di quelle sue galere che non vendesse calzette alli cortigiani
per centoventi o centocinquanta scudi d'oro almeno per ciascuna. (E. Albéri. Cit. S. II, v. II,
p. 134.)
Far calzette, berretti e camiciole di lana, scarpe, dadi, stecchi e altri piccoli manufatti da
vendere era infatti generalmente concesso ai forzati di ponente, come si legge anche nel già
citato Guzmán di M. Alemán:
... Appresi a fare calze di maglia, dadi fini e dadi falsi, caricandoli di più o di meno, facendo
loro due assi, uno di rimpetto all'altro, oppure due sei, per i bari che li volevano fatti così.
Anche appresi a fare bottoni di seta di crine di cavallo, stuzzicadenti molto graziosi e forbiti,
in varie forme e colori, decorati di oro, materia che io solo potevo adoperare... (Cit.)
... e si aiutano grandemente, supplendo alla poca provisione del solo biscotto e acqua che
hanno, la qual veramente, se non è aiutata, difficilmente può sostentare i corpi affaticati
lungamente. (Cit. P. 134.)
A tal proposito citiamo una lettera inviata nel 1565 da una squadriglia di galere francesi
inviate ai tropici in viaggio esplorativo:
… Quando siamo arrivati nel detto luogo abbiamo messo i nostri forzati in piena libertà al
fine che potessero occuparsi e dedicarsi ai loro mestieri per guadagnarsi la vita gli uni con
gli altri e trafficare nei detti paesi di qualche mercanzia che ci fosse. (Copie d’une lettere
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envoyée au gouverneur de la Rochelle par les capitaines des galleres de France etc. Parigi,
1565. B.N.P.)
Ecco inoltre un brano delle memorie del capitano Barras de la Penne scritte nel 1713 e
riportato dal de la Gravière, trattandosi quindi però, come nel caso del Marteille, d’epoca
molto più tarda di quella che soprattutto ci occupa:
... Quando si è ormeggiati in un buon porto, sembra che tutta la galera non sia che una
locanda; si vedono tavoli da poppa a prua con gente attorno che non manca assolutamente
d'appetito; il camino, che non è che di tela, fuma dallo spuntar del giorno sino alla notte.
Mangiare e bere sono talvolta, durante una giornata intera, l'occupazione dell'equipaggio e
della ciurma; ci si sforza allora di recuperare il tempo perduto, poiché si arriva qualche volta
in mare a stare tre giorni di seguito senza che si possa accendere il fuoco. Il Re dà ai forzati
il pane, le fave, gli abiti e l'alloggio; egli permette loro, inoltre, di procurarsi con il loro
lavoro di che banchettare [...] La ciurma lavora con assiduità i giorni lavorativi al fine di
potere, le domeniche e le feste, bere in un giorno tutto quello che ha guadagnato durante la
settimana; qualsiasi diligenza si prenda, non si saprà impedire di far più spesa in vino che
in viveri; perciò si vedono pochi forzati diventare ricchi. (J. B. Jurien de la Gravière. Cit.)
Erano però spesso i forzati anche condotti a terra a lavorare a opere pubbliche o per conto
di potenti privati e di ciò anzi da parte degli ufficiali generali di galera molto diffusamente si
abusava, tanto che nella succitata relazione del Gambacorta si richiedevano interventi per
combattere tali eccessi; in Sicilia sotto il viceregnato di Marc’Antonio Colonna duca di
Paliano e Tagliacozzo, gran contestabile del Regno di Napoli e cavaliere del Toson d’Oro
(1577–2.8.1584) fu per tale motivo privato del suo ufficio il contatore e pagatore delle galere
Gaspare Bonifacio.
Dovevano spesso in porto i disgraziati remieri anche divertire i nobili annoiati, specie le
dame che erano portate a bordo delle galere perché si distraessero assistendo a degradanti
esibizioni e giochi che in tali occasioni erano imposti dai capitani e condotti dai còmiti.
Ecco per esempio un episodio riportato da un avviso di Napoli, il quale, anche se d'epoca
molto più tarda, lascia capire che si trattava d'usi inveterati; il giorno mercoledì 17 febbraio
dell'anno 1700, essendo vicerè il già ricordato duca di Medina Coeli, la contessa di Lemos,
la marchesa della Valle, la principessa di Santobuono e la nuora di questa si recarono alla
darsena della città partenopea e salirono a bordo della galera Capitan(i)a di quella squadra,
dove vennero presto raggiunte dal marchese di Lemos, allora generale delle galere
napoletane, e da un principe straniero di Casa d'Harmstadt, il quale si trovava di passaggio
a Napoli; a bordo della galera gli illustri ospiti vennero serviti di rinfreschi e di innumerabili
curiosi giuochi da i forzati di quella, giochi che furono accolti con indicibile sodisfazione di
tutte quelle dame e cavalieri... (Cit.) A proposito della curiosità e dell'interesse che le dame
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del 'gran mondo' manifestavano per queste esibizioni, forse, oltre alla noia procurata
dall'agiatezza, non era estranea la circostanza che, come sembra, i capitani maliziosamente
facessero spesso offrire dai forzati queste esibizioni nello stesso costume totalmente
adamitico con cui erano tenuti a vogare.
Quali potevano essere le esperienze e le sensazioni d'un condannato al remo al momento in
cui veniva per la prima volta portato a bordo d'una galera? Leggiamo che cosa Mateo
Alemán fa narrare al suo Guzmán, appunto condannato alla voga e inserito in un gruppo di
disgraziati suoi pari:
... Subito ci consegnarono agli schiavi mori, i quali vennero con i loro lancioni per
accompagnarci e, legateci le mani con i frenelli che per quello recavano, andammo con loro.
Entrammo nella galera, dove ci fecero raccogliere a poppa in attesa che il capitano ed il
còmito venissero ad assegnar ognuno di noi al suo banco e, quando arrivarono, se
n’andarono passeggiando per la corsia e i forzati dall'una e dall'altra banda cominciarono a
chiamarli chiedendo che li mettessero a loro. Alcuni dicevano di tenere lì da loro un
poveretto inutile, altri che quanti c'erano in quel banco erano tutti gente fiacca. E, vedendo
che cosa più convenisse, a me toccò il secondo banco avanti al fogone, a un dipresso alla
capanna del còmito, ai piedi dell'albero. E Soto fu posto al banco del patrone...
Quando mi portarono al banco, quelli mi dettero il benvenuto, al che volentieri avrei
preferito delle scuse. Mi dettero il vestiario di conto reale; due camicie, due paia di calzoni
di tela, giubba rossa, cappotto d'albagio e berrettino rosso. Venne il barbiero; mi rasero la
testa e la barba, il che mi dispiacque molto perché era cosa a cui molto tenevo; ma mi
convinsi che così andavano le cose e che altri erano precipitati da posti più alti del mio [...]
Il mozzo dell'aguzzino venne subito a mettermi un ceppo con il quale mi attaccò alla branca
di catena degli altri miei camerati. Mi dettero la mia razione di ventisei once di biscotto;
capitò che fosse quello giorno di minestra e, poiché ero nuovo ed ero sprovvisto di gavetta,
ricevetti il mazzamurro in quella di un compagno; non volli inzupparvi il biscotto, lo mangiai
secco come fanno i principianti, finché col tempo mi feci esperto.
Il lavoro per il momento era poco, perché, poiché le galere si raddobbavano ed erano già
spalmate, la ciurma non serviva ad altro che a dare alla banda, quando ce lo comandavano,
perché con il sole non si liquefacesse il sego. Tutti i vestiti che portai in galera li misi
insieme e li vendetti; ne ricavai una sommetta di danaro, la quale unita ad un altro po' che
avevo portato dal carcere e non sapevo come né dove poterlo tenere custodito e segreto
per far fronte a qualche necessità che sempre può capitare o per farne qualche impiego, da
potermi trovare per lo meno con sei 'maravedì' quando n’avessi bisogno; e, poiché colà non
avevo né baule né cassa né scrittoio chiuso dove poterlo custodire, mi feci un po' inquieto,
senza saper che farne... (Cit.)
... Mi procurai filo, ditale e ago, feci una tasca segreta, dove, cucendolo molto bene, lo
portavo senza perderlo d'occhio, al sicuro dagli amici suoi e nemici miei, i quali sempre me
lo andavano insidiando, specialmente un famoso ladrone, mio camerata che mi sedeva
vicino, tanto che non fu possibile derubarmene né durante la notte né nelle oscurità, visto
che lo custodivo in quel posto. Infatti, quando mi sentiva dormire, mi tastava tutto e, poiché
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... Inoltre perché lo tenevo più vicino ed, in quanto tale, avrei potuto omaggiarlo con facilità
e per esser lui quello che dispone di tutto. Così mi incuneai poco a poco al suo servizio,
guadagnando sempre terreno, procurando di passare avanti agli altri tanto nel servirlo alla
mensa, come nel montargli il letto, tenergli ordinati e puliti i vestiti, tanto che di lì a pochi
giorni già mi guardava. Non piccola mercede ricevevo dal suo guardarmi, sembrandomi,
ogni volta che mi guardava, una bolla od indulto di frustate e che mi mandava con ciò
assolto da colpa e da pena. Ma mi ingannavo perché, siccome sono naturalmente severi e si
cercano tali per tale ufficio, mai guardano per prendere in considerazione o gradire il
buono, bensì per castigare il male; non sono persone che dimostrano gratitudine, perché
tutto loro è dovuto. Gli uccidevo di notte le zanzare, gli massaggiavo le gambe, gli facevo
vento, gli scacciavo le mosche con tanta puntualità che non esisteva principe meglio
servito, perché, se servono questo per amore, il còmito per timore del cerchio (‘frusta’) o
del cordino (‘scudiscio’) che mai gli cade di mano; e, quantunque sia vero che questo modo
di servire non è tanto perfetto e nobile quanto un altro, per lo meno il timoroso ci mette più
attenzione. Tra una cosa e l'altra, quando lo vedevo privato del sonno, l'intrattenevo con
storie e racconti piacevoli; sempre tenevo pronti detti arguti con i quali provocargli il riso,
perché non era poca soddisfazione vedergli la faccia allegr... (Ib.)
Tanto fece insomma Guzmán che il còmito gli fece cambiare banco e lo passò al suo
servizio personale - con il carico dei suoi vestiti e della sua mensa - in luogo del forzato di
nome Fermín di cui si era sino allora servito.
A bordo d’una galera, oltre che dai nemici esterni, bisognava guardarsi anche dall'insidie
che potevano tendere i remiganti nel tentativo di fuggire. Di giorno, quando si navigava, la
guardia ai remieri era fatta dall'aguzzino, personaggio di cui parleremo, dai soldati e dai
marinai di servizio; questi, con l'armi a portata di mano, li sorvegliavano ed erano sempre
pronti a intervenire a ogni minimo accenno di sedizione castigando rigorosamente i
responsabili, magari anche uccidendoli se ciò si fosse reso necessario alla sicurezza della
galera; soprattutto importante era il compito dei soldati di poppa, i quali da quell'elevata
posizione potevano osservare il comportamento di tutta la ciurma. I soldati comunque,
tranne la spada e il pugnale di cui mai si privavano, dovevano tenere tutte le altre armi sotto
coperta a evitare che i remieri potessero impadronirsene; l'aguzzino e i suoi aiutanti
ispezionavano poi periodicamente le catene e i ceppi dei galeotti e scrutavano nei loro
sacchi contenenti gli effetti personali per sorvegliare che non vi fossero tenute nascoste
armi, lime o altri attrezzi atti a sferrarsi nascostamente per poi ribellarsi all'improvviso.
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Quando non si navigava, cioè quando si era in porto o alla fonda, sia di giorno che di notte
la predetta sorveglianza della ciurma era demandata ai marinai detti appunto di guardia, di
cui diremo; essi, in parecchi e ben armati, accompagnavano anche i vogatori a terra,
quando questi erano mandata a far acqua, legna, fascine o altri servizi, e li sorvegliavano
durante il lavoro. Quando la sera si faceva la tenda vi si dovevano accendere sotto dei lumi
detti lampioni di corsia, in modo che l'oscurità non favorisse i tentativi di chi voleva
sferrarsi o segarsi la catena che l'avvinceva al piede e così fuggire. Se nottetempo qualche
remigante limava la sua catena o i suoi ferri e scappava, la responsabilità e l’oneroso
risarcimento della perdita economica così subita dalla galera erano addebitati ai predetti
marinai di guardia; se invece la fuga era dovuta a negligenza o maldestrezza
nell’allacciamento dei ceppi alle catene, per cui una maniglia o una chiavetta se ne fosse
uscita dalla sua sede, oppure a un loro difetto intrinseco o anche a una loro rottura, ma
avvenuta precedentemente alla notte della fuga e tenuta sino a quel momento ben nascosta,
ossia coperta con cira, si come sogliono fare (P. Pantera. Cit.), allora la responsabilità era
dell’aguzzino; per i predetti motivi, quando avveniva la fuga di qualche remiero, di solito
subito fuggivano anche l’aguzzino e i compagni - personaggi di cui poi diremo - che erano
stati di guardia quella notte e che avevano il compito di sorvegliarli e infatti il capitano di
galera prudente, a evitare queste ulteriori fughe, doveva per prima cosa ordinare che tutti i
predetti venissero messi subito ai ferri (vn. imbogadi) sino al chiarimento delle loro
responsabilità. I remieri non dovevano scapolare (itm. da cui ‘scappare’), dice il Pantera,
non solo nell'interesse del servizio, ma anche in quello della società civile e per i seguenti
motivi:
... ricuperano la libertà il più delle volte huomini sceleratissimi, che con i vitij e con le
perverse intenzioni possono turbar la pace e la tranquillità delle case e delle persone
private e dell'istessa republica, ed essendo stati convinti di bruttissimi delitti e perciò
condannati a così acerbo supplicio come è servire in galea ed havendo vivuto, mentre ci
sono stati, in una sentina di tutte le corruttele, non si deve credere che si siano punto
emendati. (Cit. P. 247.)
Spesso i disonesti ufficiali di galera provocavano finte fughe di schiavi ormai ben
addestrati alla voga, mentre in realtà se li erano venduti a una galera di un’altra squadra;
comprato in seguito a loro spese un altro schiavo in sostituzione di quello perso, avevano
egualmente realizzato un buon guadagno e provocato un danno alla loro galera sia perché
questa restava per parecchio tempo priva d’un uomo sia perché il più delle volte il nuovo
venuto non era pratico di voga come il precedente e andava addestrato; nella già ricordata
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relazione del Gambacorta del 1603 si faceva notare come dalle galere di Sicilia fossero
infatti negli ultimi tempi avvenute troppe fughe, oltre che di forzati, anche di schiavi, il che
rendeva il fenomeno alquanto sospetto (M. Gambacorta. Cit.).
Non rare erano anche le fughe in massa, specie dalle galere turco-barbaresche, perché
queste impiegavano ai remi in gran parte schiavi cristiani; notevole fu per esempio quella
che avvenne nel 1572 dall'armata ottomana, dalla quale fuggirono tutt'insieme molti schiavi;
della cosa fu avvisato Giovanni d'Austria, generale di quella cristiana, e gli venne precisato
che - e per la predetta fuga e per una pestilenza che aveva ucciso molti altri uomini - i turchi
potevano ormai disporre di non più di 100 galere e 40 fuste, sia per esserne rimaste tante
disarmate d'uomini a Negroponto e a Malva sia per esserne dovute ritornare parte a
Costantinopoli per la stessa carenza; l'armata turca era quindi molto indebolita e le sue
risorse umane andavano via via sempre più scemando perché continuava a morirvi molta
gente d'infermità e di fame; solo le sue galere di comando avevano ancora circa 120 soldati
per una, mentre nelle altre non c'erano che militari inesperti perché appena reclutati e
ciurme rese inabili dalle malattie. Nonostante queste notizie così incoraggianti, ai generali
della lega cristiana non riuscì quell'anno di ripetere il grande successo ottenuto a Lepanto
l'anno precedente; infatti, mentre la loro armata se n’andava con vento prospero a
incontrare quella del generale nemico Uluch-Alì in maniera che costui non avrebbe potuto
sfuggire la battaglia, il vento si voltò diametralmente contro i vascelli cristiani, per cui le
navi a vele quadre non poterono procedere e, dopo molteplici tentativi di rimorchio fatti
dalle galere e resi inutili dalla forza del vento contrario, per non abbandonarle alla
discrezione del nemico fu deliberato in una consulta di guerra di rinunziare all'impresa, il
che avvenne ovviamente con gran danno di tutta la cristianità, la quale avrebbe potuto in
quell'occasione infliggere probabilmente il colpo mortale alla potenza ottomana.
Che le navi e i vascelli a vela quadra in genere fossero in quei tempi così poco manovrieri
da aver sempre bisogno in guerra d’una scorta di galere che li difendesse ed eventualmente
trainasse, anche se per brevi tratti, quando mancava il vento è dimostrato, oltre che dal,
predetto, da numerosi altri episodi delle guerre marittime che si svolsero nel Cinquecento;
la fine della guerra remiera sarà infatti dovuta, non alla necessità di portare a bordo un
maggior carico d'artiglierie come taluni hanno pensato e scritto, ma al grande sviluppo
della manovrabilità dei velieri che si avrà a partire dal Seicento. Che ciò sia vero è
confermato dalla semplice costatazione che le grosse navi in grado di portare numerose e
pesanti artiglierie già esistevano anche nel Quattrocento e già si usavano in battaglia in
appoggio alle galere proprio per il loro ruolo di baluardi marittimi irti di cannoni e colubrine.
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Tornando all'argomento delle fughe, diremo che due in massa da galere napoletane ne
avvennero nel 1648, approfittando quei forzati della violenta rivoluzione anti-spagnola allora
in corso a Napoli, rivoluzione capeggiata dal partito filo-francese d’Enrico II di Lorena duca
di Guise, il quale aspirava al trono del regno. La prima accadde il sabato 18 gennaio dalla
galera S. Francesco Borgia, mentre questa, proveniente da Baia, s’avvicinava alla Capitale; i
forzati, quasi tutti del partito popolare, ammazzarono il còmito e il sotto-còmito, ferirono
gravemente il capitano spagnolo e, fuggendo, lo portarono prigione al duca di Guise. La
seconda fu la mattina di domenica 2 febbraio dalla galera Capitana di Napoli che si trovava
allora con altre in porto a Pozzuoli; i forzati, approfittando dell’assenza del loro capitano e
del generale della squadra, scesi a terra per sentir messa, s’impadronirono della galera e
con essa si misero in fuga, ma furono inseguiti, cannoneggiati e moschettati dalle altre
galere, in particolare da quella di nome l’Annunziata; arrivati a Capo Posillipo, molti forzati e
schiavi fuggitivi, aiutati dal popolo napoletano, sbarcarono e fecero perdere le loro tracce,
ma a bordo della loro galera ne furono trovati poi molti uccisi dagli spari degli inseguitori.
Due altre memorabili di schiavi cristiani avvennero nel 1562, la prima nell’agosto ai danni
d’Uluch-Alì e della quale più avanti diremo e la seconda il mese successivo dalle quattro
galere che il famoso raïs turco Kara Mustafà aveva condotto in Anatolia per costruirvi una
fortezza costiera; egli impiegava tutti i remieri schiavi in tale edificazione e una sera
permise a buona parte dei suoi equipaggi d'andare a una festa a terra e quelli che rimasero
a bordo s’addormentarono; 172 schiavi cristiani ne approfittarono per sferrarsi e, prese
l'armi dei soldati turchi così addormentati, li ammazzarono tutti in silenzio, raïs incluso; poi
s’impadronirono della miglior galera, cioè d’una di quelle catturate ai cristiani alle Gerbe
l’anno precedente, e, dopo aver acceso del fuoco molto ritardato alle polveri dell'altre tre,
s’allontanarono lentamente dal porto per non dar sospetto, vogarono infine forte sino a
Messina. Qualche tempo dopo una galera ottomana con ciurma di 200 cristiani fatti schiavi
in Algeri capitò una notte all'isola di Scio dove, vedendosi mal sorvegliati, i remieri si
liberarono dalle catene, uccisero circa 90 turchi con il loro capitano e, condotta via la galera
con 30 soli maomettani superstiti, andarono a salvarsi alla solita Messina, terra promessa di
tutti gli schiavi cristiani che erano impiegati al remo nelle galere del Gran Turco. Nel 1575 il
generale Uluch-Alì mandò una sua galera, rinforzata di schiavi ai remi, ma con pochi soldati,
a esplorare gli andamenti dell’armata che Giovanni d’Austria stava preparando per
l’impresa d’Orano; a bordo di questo legno c'era un giovanetto napolitano schiavo del
capitano, il qual per suoi dishonesti appetiti lo amava grandemente e si fidava molto di lui
(P. Pantera. Cit.); questo ragazzo, quando si arrivò in prossimità della costa siciliana, pensò
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di liberarsi e si accordo a tal scopo con gli altri schiavi; così, mentre egli ammazzava il
capitano, gli altri s’impadronirono d’alcune armi e uccisero i turchi dell'equipaggio
fuggendosene infine in Sicilia. Non potendosi portare a bordo delle donne, i rais turchi
usavano frequentemente trovarsi qualche schiavo giovanetto da usare a mo’ di femmina,
categoria di poveri infelici il cui nome i francesi traducevano con il loro bardaches, termine
probabilmernte derivante da bardes, ossia da quei giovanetti che nelle corti medievali si
tenevano ufficialmente con il ruolo di cantori e poeti.
Trovare qualche arma disponibile era per gli schiavi cristiani delle galere turco-
barbaresche, quando volessero ribellarsi, più facile di quanto lo fosse a quelli maomettani o
ai forzati delle galere ponentine e ciò perché a bordo delle prime s’usava che i buonavoglia
tenessero armi attaccate ai loro banchi, in modo da potersene subito servire in caso
fossero chiamati a soccorrere in combattimento i loro soldati; inoltre era anche uso su
quelle galere che nella dispensa o compagna, locale in genere ben sorvegliato a evitare i
furti di vettovaglie, si conservassero alcuni yatagan ‘di pronto soccorso’, ma accadeva
spesso che il dispensiere (gra. τᾰμίας; fr. maître-valet) era uno schiavo cristiano, il quale
poteva quindi anche decidere di aderire a una rivolta di cuoi correligionari. L'ultimo dei
predetti episodi, scriveva saggiamente il Pantera, dimostra che non bisogna mai fidarsi d'un
uomo che si è offeso, perché l'offendente scrive l'ingiuria nella polvere e l'ingiuriato nel
marmo, detto questo notissimo in quei tempi, ricordato infatti anche dal Centorio [Ascanio
Centorio degli Hortensii, pseud. di Castaldo, Giovan Battista ( 1480-?), Quattro discorsi di
guerra. Venezia, 1557-9]. Bisogna però tener conto della grande differenza di sensibilità
sessuale che c'era tra il mondo semitico e quello jafetita, essendo nel primo considerata la
pederastia un comportamento normale e nel secondo invece abnorme; a tale costume dei
turchi si riferisce anche il Cervantes Saavedra, laddove fa narrare a uno dei personaggi del
suo Don Quijote d’un don Gaspar Gregorio, giovane bellissimo, oggetto dell'interesse del
vicerè d'Algeri:
... Mi turbai, considerando il pericolo che don Gregorio correva, perché tra quei barbari
turchi di più è tenuto e apprezzato un ragazzo od un bel giovanotto che una donna, per
bellissima che sia. (M. de Cervantes Saavedra. Cit.)
tutti andati ad alloggiare a terra, erano rimasti a bordo solo 12 o 13 guardiani per i
remiganti, di cui 108 erano schiavi cristiani; questi, guidati da due di loro più intraprendenti
e cioè lo spagnolo N. Navarro, nativo di Lorca nella Murcia, il quale era stato catturato nel
forte di Tunisi quando la Spagna aveva perso quel regno, e il ventiquattrenne genovese
Giovanni, detto però Gil de Andrade perché, come quel valoroso condotto di galere
spagnolo, era orbo, cioè privo d’un occhio; uccisi tutti i guardiani, tranne un rinnegato
catalano desideroso di ritornare cristiano, approfittando di un buon vento favorevole, la
galera in due giorni di vela arrivò a Maiorca, dove i fuggitivi, ostentando quattro grandi
stendardi catturati con la galera, andarono in processione alla chiesa principale a rendere
grazie alla Madonna, come allora s’usava quando si sbarcava da un viaggio lungo o
periglioso; il Navarro, gravemente ferito nel combattimento, dopo tre giorni morì e gli altri
cristiani si spartirono il ricavato della vendita della galera catturata; 49 di loro armarono
presto un bergantino sotto il comando del predetto genovese Giovanni e la mala sorte volle
che questo legno, affrontato da 2 fregate o bergantini d’Algeri mentre si trasferiva da
Maiorca a Barcellona, fu da questi catturato e quindi i cristiani superstiti a questo
combattimento, riportati subito ad Algeri dove arrivarono il 30 agosto seguente, si
ritrovarono così presto di nuovo schiavi in quella città; Giovanni, quel giorno stesso appeso
per i piedi all’antenna della galera S. Angelo, la galera personale cioè del rinnegato
veneziano Hassan Pachà, allora governatore d’Algeri, la quale era stata l’anno prima
conquistata ai cristiani, come poi meglio spiegheremo, vi fece il giorno seguente da
bersaglio alle frecce e ai colpi d’archibugio degli algerini e così fu ucciso; il suo corpo fu
poi gettato in mare.
Un tentativo di ammutinamento fallito e soffocato nel sangue fu invece quello iniziato alle
nove del mattino del 15 maggio 1580 a Kelibia in Tunisia, porto in cui tre corsari algerini,
cioè i raïs Mami Gancio, rinnegato veneziano, Margia-Mami e Caré, si trovavano in sosta,
impegnati a far spalmare le loro tre galeotte da 22 banchi; gli schiavi cristiani del primo,
approfittando d’un momento in cui la maggior parte dei marinai e dei soldati era a terra e
l’unica galeotta con la attrezzature in opera era la loro, quindi le altre due non avrebbero
potuto inseguirla, cercarono d’impadronirsene, ma, decimati dall’archibugiate, dovettero
arrendersi; i due capi della rivolta, un diciottenne moresco di Andaraje di Granada di nome
Alonzo e un rinnegato greco dell’isola di Chio, subito legati a un ferro di galera piantato
sulla spiaggia, furono prima bersagliati con le frecce e poi, ancora vivi, bruciati, mentre gli
altri cristiani rivoltosi subivano la pena della bastonatura. Di diversi altri episodi
d’ammutinamento e fuga di schiavi cristiani a Messina o a Malta, avvenuti nel periodo 1562-
463
1628, si trova notizia sia nell’Archivo General de Simancas sia nella Biblioteca Nazionale di
Madrid (Maurice Aymard, Chiourmes et galères dans la seconde moitié du XVIe siecle in «Il
Mediterraneo nella seconda metà del '500 alla luce di Lepanto». Firenze, 1974).
Le ciurme più pericolose erano dunque quelle costituite in gran parte di schiavi, persone
che avevano sempre una speranza di libera vita nel loro paese natio e quindi sempre
tentavano di fuggire, mentre i forzati sapevano che per loro non ci sarebbe mai stata
tranquilla e duratura libertà né in terra cristiana né tra gli ottomani.
Prima di lasciare l'argomento dei remiganti di galera vogliamo parlare del loro reclutamento.
Come ci si poteva procurare delle buone ciurme? É ancora il Pantera che ce lo spiega:
... si come [...] con i grossi salarij, coni donativi, con le promesse e con gli altri mezi si
persuadono gli huomini a servire in galea per soldati e per marinari e ne i bisogni si
farebbono venir dalle remotissime parti del mondo dove si volesse, quando fossero sicuri
del buon guadagno, così reputo impresa molto difficile persuader gli huomini liberi a
maneggiare un remo ed esporsi alla servitù d'una catena e alle battiture e a gl’innumerabili
incommodi della galea, a i quali, se la necessità o la sciocchezza di molti vagabondi e per
altro mancipii vilissimi e abiettissimi de i vitij non gli conducesse a termini di vender se
medesimi, si può credere che non si trovarebbe mai huomo alcuno che spontaneamente
volesse sottomettersi ad una vita così infelice e piena di tanti miserabili ed horribili
accidenti. Per questo non si può mettere insieme una buona ciurma senza molta industria
ed è necessario valersi d'alcuni modi non usati ne gli altri negozij e perciò giudicati violenti
e forse riprensibili da quelli che, presupponendo i pericoli universali minori di quello che
sono, hanno il gusto delicato. (Cit. P. 136.)
E che la vita del remigante di galera fosse molto dura e precaria ce lo conferma il già citato
Frezza, il quale nel 1623 scriverà che, sia pure in tempo di pace, nella squadra di galere di
Napoli moriva ogn’anno più del 10% dei galeotti (Cit.); vedremo poi che vita fosse quella in
tempo di guerra.
Che cosa doveva dunque fare il principe per avere sempre un numero sufficiente di remieri,
cosa difficile per tutti quelli cristiani e solo un po' meno per quello ottomano? Innanzi tutto
bisognava istruire tutti i giudici della giustizia criminale di sbrigare senza indugio le loro
cause e di condannare al remo per un periodo proporzionato alla colpa riconosciuta, invece
che ad altre pene detentive, corporali o pecuniarie:
... condannando quelli che meritano pena capitale a perpetua catena, la quale, se bene è
agguagliata alla morte, è però minor della morte. (Ib. P. 137.)
A tal proposito così scriveva di Napoli il residente veneto Girolamo Ramusio nel 1597,
quindi durante il viceregnato d’Enriquez de Guzman conte d’Olivares (1595-1599):
464
... Per supplir al molto bisogno di ciurme, la Vicaria (la corte criminale di Napoli) è
facilissima a condannar in galea e così per cosa minima, anco di due ducati, come per caso
importante, e così un meccanico come altro di onesta condizione, perché è cosa certa che
altrimenti non si poteriano ciurmar più di trenta galee. (E. Albéri. Cit. Appendice, p. 347.)
Ma non tutte le condanne al remo sarebbero poi riuscite abbastanza utili alla squadra di
galere:
... Tra gli sforzati quelli che son condannati per poco tempo non sogliono riuscir molto
bene, ma quelli che sono condannati per lungo tempo o a vita riescono molto buoni tanto al
remo quanto ad ogn’altro servizio e perciò deveno esser accarezzati e ben trattati
specialmente nel principio del servizio, perché, passato il primo anno, cominciando ad
assuefarsi alle fatiche e a i disagi della galea, durano poi assai. (P. Pantera. Cit. P. 130.)
Nella sua relazione del 1559 sui domini della Spagna il residente veneziano Michele Soriano,
laddove sosteneva che il regno di Napoli era in grado di mantenere molte più galere di
quelle che allora aveva, così spiegava questa sua opinione:
… Perché non mancano nel regno legnami e altre cose necessarie per li corpi di galere, né
mancano armi né soldati né capitani né marinari ed, in quanto a uomini da remo, serviriano
tanti ladroni che sono in quel regno e, non bastando questi, si potria valere in ogni bisogno
delli schiavi dei particolari, che sono infiniti; e di vettovaglie non è in altra parte del mondo
maggior copia che in Sicilia, Puglia e Abruzzo… (E. Albéri. Cit. S. I, v. III, p. 351.)
Tutti coloro che, o perché nobili o perché inabili alla voga, fossero stati condannati a pene
pecuniarie, avrebbero dovuto o comprare schiavi da inviare in galera al loro posto o
avrebbero dovuto mantenere un certo numero di buonevoglie in servizio, numero maggiore
o minore a seconda della qualità del condannato o della gravità del suo reato. Inoltre, se
necessario, il principe doveva chiedere condannati agli stati suoi vicini che gli fossero
amici o alleati e che non avessero loro proprie esigenze marittime; doveva mandare rigorosi
bandi in tutte le sue terre contro i vagabondi, i quali nel termine di pochi giorni avrebbero
dovuto uscire dal suo stato sotto pena della galera, e subito dopo fare arrestare i
trasgressori di detti bandi che mai mancavano, trattandosi cioè di gente disutile così
definibile:
... che non habbia arte o, havendola, non l'eserciti o non serva o faccia professione di
coltellatore o - come si chiama in Napoli - di 'smargiasso', che è una specie d'huomini
oziosi, giocatori, bestemmiatori ed insolenti che, portando indegnamente la spada per
molestare ed ingiuriar con minaccie e con brutti modi le persone quiete, sono causa della
ruina delle case; senza farne processo né perder tempo, gli facciano pigliare e mettere alla
catena, onde non solamente il Principe haverà buoni galeotti, ma farà insieme notabil
465
beneficio al suo Stato, purgandolo da sì fatte immondizie di gente che è sentina de i vizij e
vive di tradimenti, non facendo altro che seminar discordie e tener vive e fare immortali le
inimicizie e tramare assassinamenti e sedizioni, essendo all'incontro vile, infame e del tutto
inetta a qual si voglia virtuosa operazione. Simili a questi sono i guidoni, i furbi, i poltroni e
affatto perduti cercanti che, fingendo d'esser infermi o stroppiati o gentilhuomini caduti in
povertà o pazzi o spiritati o soldati venuti dalla guerra o per altro degni di compassione,
vanno per le città chiedendo l'elemosina e consumando all'incontro il tempo nelle hosterie,
ne i giochi e nei rubbamenti [...] Contra questi più tosto mostri che huomini eserciti il buon
Principe l'auttorità sua, anco per beneficio della republica, facendoli carcerare e visitar da i
medici e da gli huomini prattici de' maneggi del mare, e mandi in galea come vagabondi tutti
quelli che saranno atti al remo, almeno mentre durarà l'impresa che trattarà. (P. Pantera. Cit.
P. 138.)
Questo discorso del Pantera ben si adeguava soprattutto all'Italia centro-meridionale, zeppa
di briganti e criminali d'ogni risma, e cioè ai regni di Napoli e Sicilia e allo stato della
Chiesa, anche se in effetti dal banditismo non era esente a quei tempi alcuna regione
d’Italia; la stessa città di Napoli, pur essendo allora la maggiore capitale d'Italia e una delle
prime d'Europa, era, come narrano le cronache di quei tempi e specie del Seicento,
infestata e tormentata oltre che dai predetti smargiassi (sp. guapos), anche da lacché e altri
facinorosi, da lazzaroni e vagabondi, da ladri e borseggiatori, da taglieggiatori e mendichi;
questi ultimi trovavano in quella metropoli terreno e mentalità tanto fertili alla loro attività
che i cronisti del tempo lamentavano a volte l'impossibilità di camminare liberamente per le
vie cittadine senza esser disturbati continuamente da tali pitocchi, i quali spesso erano -
allora come oggi - addirittura forestieri trasferitisi a Napoli proprio perché attratti dalla
notoria facilità con cui in tale città si poteva esercitare impunemente l'accattonaggio;
eppure si trattava allora d'una città ricca d'ogni possibilità di lavoro sia artigianale che
operaio e nella quale non c'era commercio, manifattura o arte meccanica che non venisse
esercitata. Ma naturalmente l’abbondanza di pitocchi e malintenzionati non era un problema
che affliggeva solo il regno di Napoli ma, così allora come oggi, tutte le grandi città, come si
legge nella versione francese di un’anonima relazione veneziana del 1569 alla quale poi
torneremo:
Premesso che per persone di sacco e corda s’intendevano in quei secoli appunto i
vagabondi, i quali usavano infatti portare tutte le loro cose a spalla in un sacco o
affastellate con la corda (persone di sacco e corda, come si suol dire. Da Gregorio Leti,
L’Inquisizione processata, opera storica e curiosa. P. 265. Colonia, 1681), diremo per
esempio che già alla fine di quel secolo era ben nota a Parigi la Cour des miracles, cioè il
cortile d’un grande edificio sito fuori della porta di Montmartre e adibito ad albergo per i
tanti mendicanti di quella grande città, i quali, dopo aver tutto il giorno elemosinato in città,
specie nei dintorni della Corte reale, impietosendo i passanti con pretese zoppie, gibbosi,
storpiature, sciancature, mutilazioni, malformazioni, cecità, idropisie e altre malattie, se ne
tornavano a questo loro ricovero, ognuno portando il cibo elemosinato – perché questo si
dava loro generalmente e non danaro, trattandosi molto spesso di pezzi di carne di seconda
scelta che affidavano all’oste di quel pubblico albergo perché ne preparasse loro una
zuppa, e, in attesa che quella fosse pronta, come per un’improvvisa sequela, per l’appunto,
di miracoli, mettevano da parte le loro grucce e riprendevano la loro sanità fisica,
mettendosi a ballare in detto cortile tutti insieme ogni sorta di ballo, ma soprattutto sfrenate
sarabande.
Nel 1571, come abbiamo già ricordato, sollecitato dalla Corte di Spagna a fare tutti gli sforzi
possibili per potenziare l’armata che la lega cattolica stava approntando contro l’impero
ottomano, il vicerè di Napoli cardinale di Granvelle aveva ordinato che si catturassero e
mandassero alle galere tutti i vagabondi e disutili che si riuscisse a trovare nel regno, aveva
sollecitato tutti i tribunali del regno a commutare le condanne penali o a composizioni
monetarie a quattro mesi di voga forzata e a inviare in galera anche i condannati al remo
che si fossero appellati contro tale sentenza; aveva anche invitato con appositi bandi i
contumaci e i fuoriusciti che non fossero colpevoli di troppo gravi reati a venire a servire in
galera in cambio d’indulto (sp. buenasboyas de carcel), ma con risultati quasi nulli, sia
perché tutti i latitanti, vivendo alla macchia, prima o poi si erano dovuti inevitabilmente
rendere colpevoli di reati non indultabili, sia perché nessuno aveva fiducia nei bandi reali e
tutti temevano che, una volta entrati in una galera, non ne sarebbero mai più usciti se non
morti. La situazione comunque presto cambiò e infatti, come si legge in un altro dispaccio
del Bonrizzo, questo del 29 dicembre di quello stesso 1571, gli aspiranti remiganti ora si
presentavano giornalmente, sia perché per la prima volta si era visto finalmente a Napoli
congedare per l’inverno i buonavoglia della campagna precedente sia per la speranza del
promesso bottino.
467
... don Chisciotte alzò gli occhi e vide che per la via che faceva veniva una dozzina d'uomini
a piedi, infilati per il collo in una gran catena di ferro come i grani del rosario e tutti con le
manette; li accompagnavano due cavalleggieri e due pedoni, i primi con schioppetti a ruota
ed i secondi con brandistocchi e spade, e, non appena Sancho Panza li vide, disse: 'Questa
è una catena di galeotti, gente forzata del re che va alle galere... (M. de Cervantes Saavedra.
Cit.)
Erano infatti tali condannati considerati gente del re, ossia di proprietà del sovrano, e
questa era l'unica garanzia che avevano di non essere lasciati trascuratamente morire dagli
aguzzini in quanto questi avrebbero poi dovuto risponderne appunto alla regia corte. Uno
dei predetti galeotti avvistati da don Chisciotte, uno del quale evidentemente più si temeva
la fuga, era avvinto più strettamente degli altri:
... Camminava incatenato in maniera diversa dagli altri, perché portava al piede una catena
tanto lunga che se l'avvolgeva per tutto il corpo e due gogne al collo, una nella catena e
l'altra era di quelle che chiamano 'guardamico' o 'piedamico', dalla quale discendevano due
ferri che arrivavano alla cintura e nei quali si attaccavano due manette dove portava le
mani, chiuse con un grosso lucchetto, di modo che né poteva portare le mani alla bocca né
poteva abbassare la testa verso le mani... (Ib.)
... Coloro che sono stati condannati alle galere considerano un usbergo e un onore l'esser
così condannati e a voce alta si pubblica che 'tizio è schiavo di Sua Maestà', dal che gli
vengono strane presunzioni come se fosse una dignità, perché subito viene ritenuto un
mascalzone e un rubadiritti chi non gli da da mangiare o di quello che ha, e subito è di
rancio e di buffet e deve aver razione d’olio e di biancheria e delle altre comodità [...
‘Essendo ormai insomma’) un uomo che non ha nulla a che vedere con la giustizia perché è
galeotto di Sua Maestà. (Christóbal de Chaves, Relacion de la cárcel de Sevilla. In Aureliano
Fern ández-Guerra y Orbe, Noticia de un precioso códice de la Biblioteca Colombina etc. P.
53. Madrid, 1864.
468
Era dunque il condannato alla voga forzata proprietà del sovrano e infatti, una volta che un
capitano di galera l'aveva fatto mettere alla catena del banco, non poteva più toglierlo di lì
senza una particolare licenza del capitano generale che comandava la sua squadra e ciò
doveva avvenire anche se si fosse trattato d'un forzato che avesse finito di scontare la sua
pena, d’uno schiavo promosso mozzo di camera o riscattato dalla sua nazione o anche d'un
buonavoglia che non intendesse rinnovare il suo ingaggio. Un breve manoscritto datato
17 marzo 1576 e da noi qui già citato che si conserva alla Bibl. Marciana di Venezia al n. CVI
Classe VI e che fu dato alle stampe per interessamento d’A.V. Vecchi narra, in verità con
povera invenzione e qualità letteraria, le vicissitudini d’un condannato al remo toscano dal
1565 al 1575, periodo cruciale per le galere del ducato soprattutto perché include
l’esperienza di Lepanto. Dalla chiara facilità d’attingere dai giornali di bordo che l’anonimo
autore dimostra sembra chiaro che dietro lo pseudonimo d’Aurelio Scetti, musico fiorentino
si nascondeva in realtà un ufficiale di galera. Dunque il protagonista narra perché e come
viene condannato, come viene associato al carcere fiorentino detto delle Stinelle e poi come
il 23 luglio del 1565 viene trasferito a Pisa:
…una mattina fu cavato fuora e condotto in Pisa in una torre spaventosa e tremebonda in la
quale era(no) menati tuti (coloro) che da i lor principi e signori eron terminati ala galera per i
lor falli… (Cit.)
Viene lasciato in questa spaventosa torre fino al 13 novembre, quando viene portato via
mare al porto di Livorno:
…e una mattina, a guisa di cane, al lascio (‘laccio’) legato per il collo fu condotto a Livorno
sopra la galera detta ‘la Firenze’ ed ivi da tutti i capitani delle galere fu giucato a dadi come
qual si fusse cosa di gran valimento ed, essendo tocco al capitano della ‘Pisana’, fu menato
sopra la detta galera… (Ib.)
Oltre che la commutazione delle condanne alla galera e le retate di questi miserabili
mercanti di povertà il Pantera consigliava di trattenere i forzati al remo anche quando fosse
finito il tempo della loro pena, almeno finché non fosse conclusa l'impresa di guerra
intrapresa, e ciò per non indebolire le galere quando più c'era bisogno di remiganti esperti;
già comunque era invalso il costume di non liberare i forzati nel periodo in cui le galere
navigavano, ossia dal 15 marzo sino a quando si andava a svernare, e questo anche se
avevano ormai scontato l'intera condanna; si poteva magari mitigare quest'ultimo periodo
di galera dando a questi disgraziati assoggettati a violenta servitù, come la definisce il
469
Pantera, la razione giornaliera che si dava alle buonevoglie. Non bisognava poi graziare i
forzati a ogni pie' sospinto, come usava fare il Pontefice, perché questa pratica risultava
molto dannosa per le galere in quanto le privava degli elementi veterani, cioè di gente
esperta che avrebbe dovuto invece restare a servire al remo tutto il tempo della sua
condanna in modo da insegnare la voga ai condannati nuovi e inesperti incatenati al loro
stesso banco; anzi bisognava cercare con parole amorevoli di convincere i forzati,
avvicinandosi la scadenza della loro condanna, a restare a servire al remo, ma stavolta
appunto con trattamento di buonavoglia. Nelle galere pontificie invece, come ben sapeva il
Pantera che n’aveva comandato una, la Santa Lucia, molti condannati non arrivavano a
servire più di tre o quattro anni - alcuni anche molto meno - per la facilità con cui riuscivano
a ottenere la grazia, istituto che nello Stato Ecclesiastico faceva dunque contraddittoria
concorrenza a quello della pena di morte, anche questo infatti di frequentissima
d'applicazione. Insomma dagli stessi condannati andava innanzitutto machiavellicamente
salvaguardato il servizio del sovrano o della repubblica:
... il quale, essendo publico, comparandosi col privato, deve esser anteposto dalli sforzati al
proprio commodo... (P. Pantera. Cit. P. 139.)
Altro metodo, questo molto spicciativo, per far remiganti, ma che era stato in uso però più
nel Medioevo, era quello di fermare in mare le barche dei pescatori, specie se di altra
nazionalità, catturarne gli occupanti, specie se si trattava di pescatori di corallo, uomini
questi sempre forti e resistenti, e metterli al remo della propria galera. Molto usato
soprattutto nell'impero ottomano era poi quello di comandare alle comunità od università,
come allora si diceva nel regno di Napoli, che fornissero ognuna un certo numero d’uomini
da remo volontari, i quali sarebbero stati remunerati con razione e con soldo, e in caso
mancato adempimento che pagassero una pesante pena pecuniaria da destinare a un fondo
da utilizzarsi per trovare galeotti per altra via; questo sistema era però nelle province
soggette alla corona di Spagna estremamente improbabile, non esistendo in quei paesi una
tradizione di buonevoglie così generalizzata come invece nei territori balcanici appartenenti
alla repubblica di Venezia. Infatti nel 1573 così scriveva il residente veneto a Madrid
Leonardo Donato:
... Di galeotti di buona voglia la esperienza ha dimostrato che, quantunque la Spagna sia
amplissima di marine, non di meno non ci è gente che di propria volontà voglia concorrere
alla paga del remo. (E. Albéri. Cit. S. I, v. VI, p. 396.)
470
Ciò confermava nel 1584 il residente Matteo Zanne, sempre a proposito delle squadre di
galere di Filippo II:
... Quest'armata sottile Sua Maestà la può accrescer difficilmente, perché non usa di armar a
ruolo come si fa in Levante e come usa la Republica (di Venezia), e l'introdurlo sarebbe con
gran fatica. (Ib. S. I, v. 5, p. 352.) )
Lo stesso concetto è ribadito nel 1598 da un altro residente veneto, Agostino Nani:
... L'armata sottile è di ottanta galere ordinarie e difficile è che si accresca per mancamento
di arsenali e di galeotti, perché di schiavi ne hanno pochi e poco modo di far genti di buona
voglia, perché il rolo non è in uso e saria difficilissimo introdurlo. (Ib. S.I, v. V, p. 488.)
Bisogna però dire che un concreto vantaggio a non usare le buonevoglie c'era e cioè quello
economico; infatti costoro, tranne che nei mesi invernali in cui le galere erano disarmate,
dovevano esser pagati e quindi la gestione delle galere ponentine, le quali utilizzavano per
lo più forzati e schiavi, gente cioè che non aveva diritto a soldo, ma solo a razione, costava,
come già allegato dal da Canal, sensibilmente di meno di quella delle veneziane. Più
semplice era trovare remiganti di buona voglia nel regno di Napoli, dove essi nel 1597
costituivano in media ben la metà d'ogni ciurma, come scriveva il già citato Ramusio:
... In arsenale (a Napoli) ora si ritrovano tredici galee che si poteriano varar di breve [...] Vi è
difficoltà in ciurmarle; gli schiavi e condannati sono per la metà, nel resto si supplisce con
buone voglie che servono dalla metà d'aprile sino alla metà di novembre per due scudi il
mese con il vitto, come hanno i marinari. (Ib. Appendice, p 347.)
... Hanno pochissimi uomini di buona voglia, così perché il costume dell'armar di Sua
Maestà (Filippo II) è tutto di sforzati e di schiavi, come perché l'introduzione dell'armar a
rotolo (‘ruolo’), nel modo che usa la Signoria Vostra, m'è stato detto che non saria quivi
tollerabile, essendo le ordinarie gravezze di tante sorte e così eccessive alla povera gente
che chi volesse aggiunger quest'altra angaria potria, con il troppo tirare, romper la corda.
(Ib. S. I, v. VI, p. 416.))
Abbiamo già detto della voga volontaria come della principale usata a Venezia e ciò a
motivo dell'ampia disponibilità di buonevoglie dalmatine e greche che aveva quella
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signoria; infatti nel Medioevo si era in quella repubblica molto usato fare come si faceva a
Ponente e cioè che i sopraccomiti (ltm. supracomiti) di galea mettessero banco in piazza
dove accettavano le richieste di arruolamento:
(26 gennaio 1416): … Ma il resto di detta banda si raccolga nel modo che di solito si faceva
dapprima, quando la comunità si armava, cioè che si debba piantar bandiera del si
esponevano nella strada le bandiere del ballivo e del capitano e raccogliere quanti più
uomini volontariamente sia possibile… (Residuum vero dicte zurme debeat solidari eo
modo, quo solebat fieri primo, ad tempus quo comunitas armabat, videlicet quod debeat
poni banderia baiuli et capitanei in platea et solidare voluntarie quamplures homines fieri
poterit (H. Noiret, cit. P. 148)
(1463): … Questa relazion ha fatto deliberar che Orsato Zustinian, Capitan e Procurator
eletto, per avanti Capitan Generale, mella banco la mallina seguente con 4 sopracomili,
Nicolò Longo, Francesco da Molin e do altri (D. Malipiero, cit. Parte Prima, p. 22)
(1472): … El General (Pietro Mocenigo) […] se ha ridutto verso la Turchia dalla banda de
Scio e ha messo la zente in terra e ha fatto gran preda e ha menà via molti presoni, i quali è
stà venduti e 'l tratto (‘ricavato’) fo diviso tra le ciurme (ib.)
Dopo di che il capitano generale Mocenigo prese, saccheggiò e incendiò la città di Smirne:
tornò a Candia con trecento schiavi e il da Canal con duecento, tutti presi nell'arcipelago
ottomano, uomini con la quale fu rinforzata l'esausta armata veneziana; l’operazione fu però
infamata dalle gravi violenze a cui i soldati del Quirini si lasciarono andare a danno dei
cristiani abitanti l’isola d’Andro, alienando quindi a Venezia l’animo delle popolazioni
greche di quelle isole. Questo sistema delle razzie d’uomini, che alcuni oggi credono usato
in grande stile dai soli turco-barbareschi in danno dei cristiani, fu invece usato
bilateralmente e soprattutto dalla signoria di Toscana, il quale in tal modo si provvedeva di
tanti schiavi per le sue non molte galere da poterne armare tranquillamente, se avesse
voluto, anche diverse altre; la superiore preparazione ed efficienza delle galere toscane era
ben nota e riconosciuta da tutti e, per farsene un’idea anche oggi, basta leggere il
manoscritto CVI/VI della Biblioteca Marciana di Venezia; questo, intitolato Tutte le vittoriose
imprese delle galere del Serenissimo Granduca di Toscana fatte nei viaggi dall'anno 1565 al
1575, è una narrazione cronologica delle puntuali e proficue imprese di corso che
sistematicamente ogni anno quelle galere compivano ai danni dei turco-barbareschi
soprattutto nell'arcipelago greco, imprese seconde per efficacia solo a quelle delle galere di
Malta, le quali erano quattro nel periodo attorno al biennio 1575/6, e, nonostante la povera
forma letteraria e lo pseudonimo con cui l'anonimo autore ha tentato di camuffarla, si
capisce chiaramente che è tratta dai giornali di bordo di quelle stesse galere, essendo
quindi in tal senso un documento cinquecentesco più unico che raro; l’operetta, visto che
s’intitola al ‘Granduca’ e non al ‘duca’ di Toscana, è certamente successiva al 1576, perché,
come si sa, l’elevazione a granducato fu concessa dal Papa a Firenze appunto in quell’anno.
Ma già nei secoli precedenti si era riconosciuto un certo primato di quelle galere, cioè
quando erano state biremi pisane, come leggiamo nelle Annali senensi di Nerio di Donato,
cioè laddove ricordano il ritorno dalla Francia in Italia del Papato nella persona di Urbano V
nell’anno 1367:
Papa Urbano V gionse in Porto Pisano a dì primo di settembre sull’ora del Vespero ed avea
in sua compagnia […] cinque galee de’ viniziani e cinque galee di Napoli e tre galee de’
pisani e 4 de’ genovesi; e quelle de’ pisani erano di maggior virtù imperoché ine (‘vi’)
camminò più volte e (quindi) fenne la pruova (in L. A. Muratori, Rerum italicarum scriptores
etc. T. 15. Milano, 1729.)
La gestione dello Zanne, uomo timoroso perché molto più esperto di mercatura che di cose
di guerra, fu presto a Venezia molto criticata sia per non aver egli saputo porre un rimedio
alla terribile pestilenza che gli aveva semi-distrutto l’armata sia per alcuni soprusi
d’arruolamento forzato di cui fu accusato sia e soprattutto per non aver poi portato aiuto a
473
Cipro dopo la caduta di Nicosia, avvenuta il 9 settembre 1570, allegando di non esser per
quell’anno più tempo di farlo; il 13 dicembre dello stesso 1570 il senato di Venezia lo
sostituì eleggendo al suo posto il provveditore Sebastiano Venerio e dando incarico a
questi d’inviarlo a Venezia in stato d’arresto perché, tenuto in stato di detenzione nel
palazzo ducale, vi fosse messo sotto processo, procedimento che sarà ancora in corso il 14
ottobre 1572, giorno in cui lo Zanne morirà di qualche sua non specificata infermità all’età di
76 anni. Furono inquisiti anche altri due alti ufficiali e cioè Iacopo Celsi e Sforza Pallavicino,
e inoltre, inviati dal senato 3 sindici, ossia tre inquisitori, vennero individuati e puniti con il
carcere o l’allontanamento per i loro venali soprusi anche il sopramassaro Antonio di Negri,
ossia lo scrivano di razione o provveditore dell’armata, e parecchi sovraccòmiti,
quantunque si trattasse per lo più di nobili appartenenti alle stesse famiglie dei senatori, e
ciò si fece anche nella speranza di trattenere al servizio veneziano gli scoraggiati soldati
forestieri che si erano su quell’armata tanto volentieri imbarcati. Venezia non era dolce con i
suoi generali incapaci o pavidi e ne avevano saputo qualcosa non solo, com’è noto, il
Carmagnola nel 1432, ma anche Niccolò da Canal, destituito e arrestato nel 1470 perché,
essendo al comando dell’armata inviata al soccorso di Negroponto assaltata dai turchi,
l’aveva tenuta pressocché inattiva e fu quindi ritenuto responsabile della caduta dell’isola
avvenuta in quello stesso anno.
A chi volesse saper di più della vicenda dello Zanne non possiamo comunque che
consigliare la lettura dell’ottimo studio fattone dal Tucci:
… La posizione dello Zanne si fece ancora più difficile nell’aprile del 1571, quando
arrivarono a Venezia gli scafi di alcune galere messe in disarmo: lo stato di sporcizia in cui
si trovavano e le esalazioni che emanavano avvalorarono la convinzione che la peste, causa
prima del disfacimento della flotta, fosse stata in gran parte provocata da malgoverno e
negligenza dei capi… a Venezia s’era diffusa la convinzione che la peste, che nella forma di
‘mal de mazzucho et petecchie’ – come precisa Pompeo Colonna – aveva mietuto tante
vittime a bordo delle galere (più di ventimila persone, come si diceva), aveva trovato facile
esca nella denutrizione degli uomini: chi avrebbe dovuto fornire i viveri s’era invece
appropriato del denaro… (Tucci, Ugo, Il processo a Girolamo Zanne, mancato difensore di
Cipro in «Il Mediterraneo nella seconda metà del ’500 alla luce di Lepanto», Firenze, 1974.)
Protagonisti e testimoni dettero però svariate opinioni sulle ragioni per cui scoppio tale
pestilenza, ma la verità in simili casi era sempre la stessa e cioè la grande sporcizia
nell’incredibile assembramento in cui tanti uomini erano tenuti per tanto tempo.
Nel successivo 1571 Venezia tentò un altro sistema per rinfoltire gli ancora scarsi ranghi
delle sue ciurme; offrì ai banditi (‘esiliati’) dalla repubblica la completa remissione patto che
ognuno mantenesse a sue spese un numero di remieri stranieri proporzionato ai reati da lui
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Il metodo ingannevole più originale e diffuso era comunque certamente quello del gioco
pubblico dei dadi che si usava sulle coste tirreniche. Un funzionario della Corte sedeva in
pianta stabile a un tavolino posto in una baracca costruita in un luogo portuale e offriva un
prestito, pare per lo più 20 scudi, ai vagabondi, ai mendichi, ai disperati d'ogni genere
perché giocassero con lui; se avessero perso, avrebbero saldato il loro debito servendo in
galera come buonevoglie sino al rimborso totale. Così molti vendevano la propria libertà per
fame o per sregolatezza e si trattava tristemente spesso di giovanissimi appena al di sopra
dei necessari 17 anni d'età (18 nel secolo successivo), i quali o non avevano mai avuto
famiglia o da quella erano stati precocemente abbandonati o avevano già qualche conto in
sospeso con la giustizia; questi si lasciavano dunque convincere a tentare la fortuna,
giocando così non solo il proprio avvenire ma per lo più anche la propria vita, poiché dal
remo della galera raramente si tornava, contro un giocatore scaltro e consumato quale
doveva certamente essere l'uomo che la Corte aveva eletto funzionario di questo
drammatico gioco:
... Potrà anco il Principe aprire un gioco publico in tutte le città del suo dominio e
particolarmente di marina, come si usa in Napoli, in Genova, in Sicilia e altrove, mandando
huomini destri e di buona maniera che semplicemente e senza intelligenza o fomento di
fraude alcuna prestino denari a chi vorrà giocare e, perdendoli, gli sconti servendo in galea
per buonavoglia; a che molti sviati e vani giovani si lasciano indur facilmente per la
commodità del denaro, sperando vincere e restituirlo, dove che all'incontro, riuscendo il
contrario, sono sforzati a lasciarsi metter la catena al piede e starci vogando sin che escano
di debito. (P. Pantera. Cit. P. 140.)
Non sappiamo dove il Pantera abbia visto svolgersi il predetto gioco pubblico nel modo da
lui descritto, perché diversamente e concordemente viene invece spiegato dai residenti
veneti nelle loro relazioni; cioè in realtà le regole di tal gioco erano ancora più demoniache
di come le voleva il bonario capitano pontificio, perché ambedue i giocatori sfidavano la
drammatica sorte, come, a proposito dell'uso di Napoli, scriveva il già citato Ramusio nel
1597:
... Quando gli spagnuoli vogliono galeotti, costumano tener al molo una bandiera reale e
una tavola ove si danno dieci ducati a chi li vuole, con obbligo che l'uno giuochi a' dadi con
l'altro il denaro del Re; quello che perde resta con i ferri ai piedi e l'altro restituisce il danaro
del Re e si parte col guadagnato. (E. Albéri. Cit. Appendice, p. 347.)
Considerando che un buonavoglia delle galere napoletane percepiva, come abbiamo visto,
un soldo di 2 ducati il mese, è facile capire che i 10 ducati perduti difficilmente potevano
476
... Per alcuni ministri a ciò deputati si mette banco in diversi luoghi publici con danari, carte
e dadi. Quivi concorrono diversi sviati e vagabondi, che non mancano, quali toccano danari
ed i loro nomi si scrivono e se gli sborsa 12 scudi per ciascuno, che sono tre paghe
(bimestrali di buonavoglia). Subito l'uno gioca i suoi con l'altro; quello che perde è
immediatamente posto alla catena dove, per i 12 scudi che ha avuto, è obbligato servire per
sei mesi per rispetto del vitto e del vestito che si diffalca; e quello che ha vinto restituisce i
12 presi e se ne va per i fatti suoi con i guadagnati; onde si può dire che l'uomo giuoca sé
medesimo alla galera; e questo è modo ordinarissimo. E, quando con questo i ministri non
han potuto trovare numero che basti per supplire al bisogno, pigliano espediente di
comporre i banditi e di accordare i carcerati per debiti civili con i creditori, mettendo quelli
al remo. (A. Albéri. Cit. S. II, v.V, p. 478.)
Un accenno al predetto gioco era stato fatto anche dal Bonrizzo in un suo dispaccio del 25
dicembre 1571 con il quale, tra l’altro, dava notizia di quanto si stava facendo a Napoli per
rafforzare la squadra di galere:
… Ieri sono stati inviati ordini efficacissimi ai baroni e ai ministri regi di mandare a Napoli
tutti i delinquenti di pena capitale per farne altrettanti remieri; né a Napoli mancano
vagabondi, i quali nel giocare pongono come posta il futuro ingaggio su d’una galea. (N.
Nicolini, cit.)
Un ulteriore strumento era quello d'imporre a coloro che avessero schiavi atti al remo di
prestarli alla Corte per tutta la durata dell'impresa di guerra e il loro servizio sarebbe stato
ricompensato con il vitto e il soldo che si dava alle buonevoglie.
477
Un secolo prima vediamo una diversa consuetudine, quedta veneziana, alla quale, in una
sua lettera del 6 ottobre 1496 al Senato di Venezia, accenna Bernardo di Ambrosii,
segretario di Marchionne Trevisan, capitano generale delle 16 galee veneziane e delle 4
napoletane alla fonda a S. Maria della Fortuna (‘Gajola di Capo di Posillipo’), a 4 miglia
marine da Napoli, perché Venezia era allora alleata degli aragonesi di Napoli nella guerra di
predominio che opponeva questi agli angioini di Gaeta; poiché a dette galere mancavano
remiganti e i veneto-aragonesi bloccavano Gaeta e ne stavano organizzando l’assedio, per
brevità si deliberò di assoldarli direttamente in quel territorio e di inviarli poi alla detta
armata via terra:
Dunque si dava un sostanzioso anticipo sulla paga che poi si sarebbe ricevuta, ma il
percettore doveva presentare la malleveria di una persona conosciuta che garantisse per lui
nel caso poi disertasse.
(17 giugno):… e per interzarle del tutto, son stati presi 10 uomini da ogni traghetto e messi
100 uomini per galia per soldati; e questi sono stati presi dalle scuole dei battuti, a 250 per
una… (Ib. P. 167.)
(15 settembre): … sono stati comandati 500 galeotti per interzare le galee grosse…(Ib. P.
180.)
Spieghiamo: anche se si trattava di galee grosse, non disponevano di più di tre uomini per
banco e questo dimostra che, oltre a essere un po’ più piccole della galeazze tirreniche,
perlomeno allora erano meno equipaggiate; d’altra parte, come già sappiamo, si usavano i
remi solo per manovre portuali, perché in caso di bonaccia, quando in pace, si quei vascelli
478
… El General (Antonio Grimani) […] ha mandato in Candia ad armar 20 navi che sono in
quel porto […] e ha fatto scaricare le galee del traffico per poterle adoperare; e ha ordinato
che siano fatte le spese (‘pagato il dovuto’) a certi Mori che erano su le dette galee; e ha
intrattenulo a Modone sette navi e le fa scaricare e armare (ib. P. 168).
Dette galee grosse, poiché erano da usarsi in guerra, furono alquanto modificate:
… Le galee del traffico e di Barbaria che sono in armata hanno fatto alcuni bastioni a mezza
galea con i corridori alti quanlo sono le garide (‘rembate’) del castello (di prua) e sono
benissimo armate (ib. P. 172)..
Insomma avevano incastellato a difesa anche il centro della loro coperta. Qui si fa
distinzione tra quelle commerciali (del traffico) e quelle invece di Barbaria, ossia le galee
grosse che portavano i pellegrini in Terra Santa. Le armate veneziane del tempo erano
costutuite dunque da tre tipi di vascelli e cioè galee sottili, in maggioranza, galee grosse e
navi grosse, mentre quelle ottomane da quattro, ossia galee sottili, fuste, navi grandi e
piccole e parandarie; quest’ultime erano sempre in gran numero nell’armata perché, come
sappiamo, gli esrciti turchi erano costituiti per la maggior parte da cavalleria e quindi i
cavalli da trasportare via mare (l. transfretare) erano moltissimi.
Non vogliamo comunque chiudere l'argomento degli arruolamenti di marina senza parlare
anche del modo di coscrivere i galeotti che si usava nell'impero ottomano, il quale, come
Venezia, si serviva molto di buonevoglie dell'arcipelago greco, molto ben pagate e
accarezzate dalla Gran Porta, la quale ne riconosceva evidentemente anch'essa il gran
valore; però Costantinopoli usava in massima parte una quarta categoria di remiganti e cioè
quella innumerevole della leva di mare forzosa che s’imponeva in maniera tributaria a tutti i
vastissimi territori a essa soggetti. Si trattava di salariati come le buonevoglie, ma di
salariati obbligati a vogare, i quali avrebbero fatto volentieri a meno di lasciare i loro villaggi
479
per andare incontro a tante fatiche, privazioni e pericoli e di cui infatti la massima parte non
v'avrebbe fatto mai più ritorno. Una delle prime relazioni del Cinquecento riportate
dall'Albéri, quella del bailo Marco Minio redatta nel 1522, menziona l'abbondanza d’uomini e
di mezzi di cui allora disponeva il Gran Turco per ricostituire ogni anno la sua armata di
mare:
... Ed ogni volta che Sua Eccellenzia (il sultano) voglia far armata, con poca sua spesa
quella fa metter in ordine, perché tutto il paese è obligato a darli per ogni dieci uomini
(abitanti maschi) un uomo pagato per mesi quattro, da esser posto sopra detta armata; le
stoppe e altre simil cose che vanno nel 'concier' (‘risarcimento’) di quella, tutte 'etiam' li
sono mandate per angarie e similmente il biscotto per detta armata, il quale è in
grandissima quantità. (E. Albéri. Cit. S. III, v. III, p. 74.)
La predetta abbondanza di pane sarà confermata nel 1558 dal bailo Antonio Barbarigo:
... Quando (il sultano) arma, fornisce comodamente la sua armata di pane per averne grande
abondanza, oltre quello che portano seco al suo (‘loro’) partire le galee. Fa fare li biscotti a
Modon, a Lepanto, alla Prévesa e alla Vallona ancora. (Ib. p. 152.)
Questa grande disponibilità di grano - e quindi anche di biscotto - si manterrà per tutto il
Cinquecento e su d’essa si esprimerà infatti ancora nel 1592 anche il bailo Lorenzo
Bernardo (Ib. S. III, v. II.).
Nel 1557 il residente veneziano a Costantinopoli Antonio Erizzo, a proposito dei remiganti
usati dai turchi, si dilunga sugli schiavi cristiani che anche erano adibiti alla voga; si
trattava di proprietà dello stesso sultano, provenienti dalle prede di guerra che facevano i
suoi capitani di terra e di mare, oppure di proprietà dei raïs di galera o d’altri personaggi
che li tenevano proprio per quest'effetto per ricavarne il compenso previsto. La cosa è
confermata anche dal Vecellio:
… Da i ministri del Turco vengono fatti molti schiavi nelle prese delle città e di quelli si
servono in varij essercitij. Il viver loro è pane e acqua… ed , ogni volta che il Gran Signore
arma, li padroni li mettono al remo sopra le galere. (Cit. P. 382r.)
Tutti gli altri remieri erano salariati direttamente e la loro paga era quantificata dall'Erizzo ai
suoi tempi in aspri mensili 200, equivalenti a 4 ducati veneziani, ma questo per i primi
quattro mesi di servizio perché, se poi il periodo stagionale di voga si prolungava, si
corrispondevano ogni mese solo aspri 150:
480
... E per questo effetto il Signor (‘il sultano’) pone l' 'avarìs', il quale, se ben è angaria
personale posta per cavar uomini da remo dal paese, non di meno, perché pare che questi
non siano tanto atti alla galea, è scossa (‘riscossa’) la maggior parte in danari... (E. Albéri.
Cit. S. III, v. III, p. 129.)
Il non esser atti al remo, non si riferisce qui ai veri e propri turchi, i quali erano buoni
vogatori, bensì alla maggior parte degli altri popoli mediorientali soggetti a Costantinopoli,
spiega l’Erizzo al suo doge, popoli quindi ai quali invece d’uomini si richiedeva danaro per
pagare, tra l'altro, un buon soldo ai suddetti mercenari greci:
... Delli quali ne sono gran parte dell'isola di Candia, sudditi di Vostra Serenità, e li
chiamano 'marioli', 'sì come io so avergli scritto molto particolarmente altre fiate; ed è
materia di estrema importanza che ha bisogno di gagliarda provvisione. (Ib.)
Era dunque dannosissimo che tanti sudditi della Serenissima servissero sulle galere
nemiche perché vi ricevevano un trattamento molto migliore, come ci informerà l'anno
seguente il bailo Antonio Barbarigo:
... Arma (il sultano) ogni anno in Costantinopoli circa trenta galee libere (cioè di
buonevoglie) e tutti sono cristiani, che altro non fanno che star lì per andar in galea, per
esser benissimo trattati e pagati, e questi sono greci la maggior parte, candiotti, zantiotti,
cefaloniotti e corfiotti, sudditi nostri, quali loro li chiamano 'marioli'. (Ib. S. III, v. III, p. 152.)
Più tardi, nel 1576, il bailo Marc'Antonio Tiepolo attribuirà invece, come vedremo, la scelta
fatta da questi remieri greci a una loro condizione di necessità trattandosi di gente bandita
dai possedimenti di Venezia, gente che, a dire del bailo Daniele Barbarigo nel 1564, ai suoi
tempi abbondava:
... di uomini di remo ( i turchi) ne possono trovar con denari quanti vogliono in
Costantinopoli, Andrinopoli (sic) e Bursa e sono ancor ben forniti di capi da comando, tra li
quali sono duecentosettantacinque 'rais' [...] Li denari per pagar gli uomini da remo li
cavano dal paese di quelli che sono obligati a dar uomini per tal effetto. (Ib. S. III, v. II, pp.
34-35)
Sulla leva di mare forzosa in uso in quell'impero più e meglio si dilungherà nel 1573 il bailo
Costantino Garzoni:
... D'uomini da remo ne hanno infiniti, se bene pare che di essi vi sia qualche difficoltà
nell'armare e questo nasce perché, avendo il Turco (‘il sultano’) il suo stato pochissimo
abitato rispetto alla molta grandezza di esso, è astretto, volendo far grossa armata, pigliar la
gente da remo sino nei confini del suo imperio, come sarebbe a Bassora che è due mesi di
cammino lontana da Costantinopoli; il che è causa, per le fatiche che patiscono gli uomini
in così lungo viaggio e per le diverse mutazioni d'aria, di molte infermità e d'assai mortalità
481
in quella gente, della quale il Gran Signore (‘il sultano’) verrebbe poi ad avere molto
mancamento se non si supplisse comandando gente per cinquecento galere, mentre se
n'ha bisogno per trecento; il che sempre è facile al Gran Signore, avendo molti sudditi e
mirabile obedienza da essi. Vera cosa è che, continuando il Turco a far così grossa armata
per l'avvenire come ha fatto per molti anni passati, il suo stato è per disertarsi da sé stesso
in breve; ma o non conoscono ancora questo danno notabile, essendo 'sì grande lo stato
che possiedono, o, se pur lo conoscono, forse non si curano di rimediarvi, essendo la gente
turchesca solita riguardare al benefizio e util presente e non al futuro. (Ib. cit. S. III, v. I, p.
421.)
Lo stesso Garzoni modera però, poco più avanti nella stessa relazione, questa sua
catastrofica previsione:
... seguitando il Gran Signore a fare così grande armata come ha fatto questi ultimi anni è
forza che diserti del tutto il suo stato di gente, morendone infinita ogni anno; se bene è
altresì vero che, essendo grandissimo il suo imperio, vi bisognariano tanti anni di guerra
continua per distruggersi affatto, che saria più facil cosa che in questo tempo l'imprese sue
lo ampliassero in modo che, innanzi che si vedesse la distruzione del suo imperio,
succedesse quella de' cristiani. (Ib.. S. III, v. I, p. 433.)
Il Garzoni si dilunga poi sulle modalità della leva di vogatori fatta dai turchi e spiega che, in
quell'anno in cui si era deciso di far uscire l'armata, si spedivano - di solito il primo gennaio
- ordini a tutte le province di quel vastissimo impero, sia a quelle maomettane sia a quelle
cristiane, affinché si levassero remieri secondo la quantità delle galere che s’intendeva
approntare e la maggior parte di questi era comunque richiesta all'Anatolia, riuscendo gli
abitanti di questa provincia tra i migliori remiganti dell'impero. Di solito le province
dovevano fornire un uomo ogni 10 case e alcune volte eccezionalmente ogni 5, secondo il
bisogno, come fu per esempio l'anno seguente alla rotta di Lepanto, dove così tanta ciurma
si era persa nel disastro generale. Volendosi poi dare a qualche provincia una maggior
gravezza, si chiedeva alle stesse di mandare non uomini, bensì mille aspri in luogo
d’ognuno di loro - corrispondendo allora 50 aspri, la moneta turca, a un ducato di Venezia -
e tali danari si spendevano poi per l'esigenze dell'armata. Coloro che erano obbligati ad
andare a servire come remieri potevano esserne esentati se facevano un donativo a chi
accettasse d'andare in vece loro, in genere dai 1.300 ai 1.500 aspri a seconda della difficoltà
che s’incontravano nel reperire il sostituto, avendo anche l'obbligo di consegnare costui
vivo ai reclutatori per le galere e di dare al sultano - ossia all'erario imperiale - 150 aspri in
rimborso del biscotto che il remiero succedaneo avrebbe mangiato in galera dalla partenza
da Costantinopoli sino all'uscire dai Dardanelli, cioè per le prime 200 miglia; da questo
secondo punto egli avrebbe cominciato a mangiare il biscotto di conto reale e a percepire la
482
paga, ossia 4 aspri il giorno al vogatore maomettano e 3 a quello cristiano, più 2 libre di
biscotto il giorno e null'altro che il remigante non dovesse pagarsi di tasca sua; ciò
continuava sino al ritorno nei Dardanelli, dove, prima d'entrare, tutti erano pagati senza
difficoltà dei loro avanzi, ossia dei saldi loro dovuti.
C'erano poi nell'armata di mare ottomana galere appartenenti a particolari, ossia a raís che
armavano per proprio conto ed erano ingaggiati dal sultano con tutte le loro galere fornite
di completo equipaggio ed equipaggiamento, il che però, come vedremo, avveniva anche a
ponente, e c'erano ancora galere di sforzati, gente presa dalla strada, ma sia le prime che le
seconde costituivano una netta minoranza rispetto alla quasi totalità delle galere che era
invece armata di conto reale e le cui ciurme erano formate dai predetti due tipi di stipendiati
(l. stipendiarii):
... Si armano inoltre da diversi circa quaranta galere fornite di uomini tutti pagati dai loro
padroni con mille trecento aspri per uno e queste sono le migliori, anzi le sole buone di
tutta l'armata turchesca; altre venti galere si armano di persone vagabonde. (Ib. P. 424.)
Gli stessi concetti espressi dal Garzoni vengono più concisamente ripetuti in un’anonima
relazione veneziana del 1575 a proposito delle forze di terra e di mare del sultano Amurat III:
... Il modo che si tiene in armare le galere è che, come è deliberato di far armata - che per
l'ordinario è avanti il primo di gennajo - si spediscono comandamenti per levare galeotti
quanti ne fà bisogno e la maggior parte è quasi sempre di Natolia, usandosi di liberar quelli
vassalli che sono andati un anno dall'andar l'altro, e la contribuzione si fà o sopra le teste o
sopra le case, come è diversa l'usanza delli luoghi, contribuendo per ogni galeotto a
ragione di aspri mille; ma, oltre li comandamenti per far venire li predetti galeotti, se ne
spediscono per tutto l'imperio o parte, avvegnaché secondo che si vuol fare l'impresa
grande così si fa la gravezza.
Li aspri si mettono nel 'caznà' (‘erario’) e li galeotti si dispensano alli 'rais' per mettere nelle
galere, essendo in libertà di essi 'rais', se non gli piace qualunque di essi galeotti, metterne
un altro in suo luogo a suo beneplacito e a tutti si dà subito mille aspri per uno e poi il
soldo, se sono cristiani aspri tre il giorno e se sono turchi quattro, e libre due di biscotto il
giorno e nessun’altra cosa.
Si armano ancora circa quaranta galere di schiavi (cristiani), che si può dir esser le sole
buone, e altre venti di genti vagabonde. (Ib. S. III, v. II, p. 315.)
Le migliori predette 40 galee erano però, a quanto scriverà il bailo Marc'Antonio Tiepolo
l'anno successivo, scarsamente affidabili in combattimento:
... Ora di tante galee pochissime si tengono armate se non ha il Gran Signore l'animo a
qualche impresa, bastando solo venti galee che si tengono distribuite per le guardie di Scio,
di Metelino, di Negroponto, di Rodi, di Cipro e d'Alessandria; le quali galee, per esser tenute
di continuo armate, sono con altre venti - che si armano pur di schiavi - le migliori di tutta
l'armata, che in tutto saranno quaranta, benché queste ancora divengano in occasione del
combattere poco buone, tenendo in sé stesse il nemico, che è lo schiavo cristiano, il quale
483
in quel tempo procura (di) non perder l'occasione, come s’intende esser occorso nel giorno
della vittoria delli Curzolari (‘Lepanto’), nel qual molti schiavi sferratisi, nelle proprie galee
ferivano e ammazzavano i turchi. Eccettuate adunque queste galee delle guardie, restano
tutte l'altre nell'arsenale aspettando il bisogno o la volontà del Gran Signore. (Ib. S. III, v: II,
p. 150.)
Sulla poca affidabilità delle ciurme di schiavi e cristiani e su difficoltà dovute alla corruzione
dei funzionari reali si era espresso già nel 1571, anno appunto della grande sconfitta subita
dai turchi a Lepanto, il bailo Jacopo Ragazzoni:
... Di gente di remo non sono le galee turchesche per l'ordinario fornite benissimo e sono in
gran parte armate di cristiani loro sudditi, de' quali non possono intieramente fidarsi, né è
da lasciar di dire in questo proposito che, se bene il Signor Turco ha paese grandissimo e
potrebbe però (‘perciò’) aver gente da remo per molto maggior numero di galee, stenta però
assai ad armare queste che al presente si trova, perciocché i descritti (‘coscritti’) facilmente
si liberano con denari che danno alli ministri del Gran Signore. (Ib. S. III, v. II, p. 101.)
Da notarsi qui il termine descritti, molto più proprio e significativo del più tardo ‘coscritti’,
perché infatti le reclute (gr. νεηλάται, νέωροι, νεώραι), oltre a essere elencate nei ruoli per
nome, vi erano anche appunto descritti nei loro tratti e segni caratteristici (colore del pelo,
cicatrici ecc.) Sulla celerità dell'armamento delle galere ottomane così si esprimeva nel 1558
il bailo a Costantinopoli Antonio Barbarigo:
... Molte volte tutti li sangiacchi (‘governatori’) de' suoi paesi mandano tutte le sue ciurme
ad un tatto con un capitano e una bandiera, talché in pochi giorni tutta l'armata è all'ordine;
e l'anno passato, che armarono 120 galere, io vidi in un giorno ispedirne 90 ed il restante
'fra otto o dieci giorni. (Ib. S. III, v. II, p. 153.)
Per quanto riguarda poi gli aspetti finanziari della predetta leva il Barbarigo dava notizie
diverse da quelle comunque parecchio più tarde del Garzoni e infatti così scriveva:
... Quando questo Signor (turco) arma, arma con suo gran vantaggio, perciocché è obligato
ogni villaggio dare quella quantità di uomini secondo la sua compartita e quell'uomo a chi
tocca, se non vuol andare in galera, manda al 'casnà' del Signor 3.000 aspri; e di questo,
ogni fiata che arma, paga il Signor tutta la sua armata e n’avanza venti e 30.000 ducati per
volta perché, se per detta armata fanno di bisogno 20.000 uomini, ne fa comandar 40.000 e
di quelli che non vengono in tanto numero paga l'armata e avanza. (Ib. S. III, v. III, p. 152.)
... Quest'armata - o parte o tutta - com'esce dallo stretto apporta al Gran Signore utile e non
mai danno alcuno, perché di gran lunga è molto maggior somma di denari quella ch'egli
trae de' suoi regni per armarla - ch'è una ordinaria e solita gravezza ch'egli suol riscuotere
484
per tal cagione - che quella ch'egli spende in essa armata. Né voglio lasciar di dire a Vostra
Serenità un secondo beneficio che riceve questo Gran Signore nel mandar fuora detta sua
armata; e questo è che non solo con questo mezzo si esercitano tutti gli uomini che in essa
si ritrovano, facendosi sempre più arditi e più pronti nel combattere, ma non ritornano mai
nello stretto se non ricchi di molte prede che fanno di continuo a danno de' cristiani.
Da questi due gran beneficij che ne riceve il Gran Signore, oltre la riputazione ch'egli
conserva con questo mezzo e augumenta sempre nel mare, io traggo questa conclusione,
che rare volte saranno quelle che egli ogni anno non abbia a mandar fuora, per beneficio e
grandezza del suo imperio, la sua armata; se però per qualche grave accidente, come alle
volte occorrer suole, non restasse di mandarla. (Ib. P. 165.)
Quando però l'armata da costituirsi non doveva essere particolarmente grande, non c'era
nemmeno bisogno di far venire remiganti anche dalle province lontane, come nello stesso
1562 spiega al suo doge un altro relatore e cioè Marc'Antonio Donini, segretario a
Costantinopoli:
... Né meno gli (‘al sultano’) bisognerà troppo faticarsi a far venire gente da remo della
Grecia e della Natolia, quando però si facesse armata da ottanta galere in giù, imperocché,
oltre che si ritrovano in Costantinopoli tanti schiavi - e del serenissimo Signor e d'altri - che
possono vogare quaranta galere; se ne possono armare anche più di 15 altre, quasi tutte di
sudditi della Serenità Vostra che sono chiamati 'marioli', delli quali, se bene ne partiron
molti per causa della proibizione del vino, pare però che una buona parte d'essi se ne sia
ritornata,'sì per non poter star nella loro patria come anche per essersi ricordati della
grossa paga che gli vien fatta. Di maniera che, armandosi a questo modo intorno a sessanta
galee, non vi è poi difficoltà di ritrovar in Costantinopoli ciurme per il bisogno di altre trenta
e più, essendo stati veduti molti turchi già due anni serrar del tutto le loro botteghe per
andare in galea. Di modo che, quando il serenissimo Signore si risolvesse di armare un
numero di cento galee, prometto (‘assicuro’) a Vostra Serenità che, usandosi ogni poco di
estraordinaria diligenza, non gli accaderebbe far venir altre genti di fuora per questo effetto,
'sì come si soleva fare l'altra volta che fui in Costantinopoli; e tanto meno ora, quanto che
molti, che quando andarono al Zerbi (battaglia di Gerba del 1560) non avevano un paro di
camicie che fossero sue, al presente, al presente si ritrovano padroni di 15, 20 e 25 schiavi
guadagnati, oltra danari e robe, in quella impresa. (Ib. P. 193.)
Il Donini conclude pertanto che i turchi, a quanto pare molto meglio pagati quando
vogavano di quanto lo si fosse sulle galere cristiane, per la speranza d’un tale guadagno
sarebbero stati più che pronti ad andare in galea alla prima qualsivoglia impresa che il
sultano avesse voluto intraprendere per mare, per lo meno fino a che i cristiani non fossero
riusciti a dar loro una buona lezione:
... Il che mi dubito che si farà con molta difficoltà per la continua esercitazione a patire che
fanno quelle genti, le quali per il vero stimano al presente assai poco li cristiani e hanno
ragione, poiché si ritrovano di gran lunga superiori d'un sol volere e senz'alcun bisogno,
contra quel che soleva essere negli anni passati. (Ib.)
485
Per gran fortuna nostra il Donini fu cattivo profeta e nove anni dopo i turchi perderanno a
Lepanto tutta questa loro sicumera. Sulla cattura e l'utilizzo dei cristiani ridotti in schiavitù,
cattura che avveniva non solo in occasione delle uscite dell'armata ottomana, ma anche
continuamente a opera delle fuste e dei bergantini corsari dei leventi, come i turchi
chiamavano impropriamente i barbareschi (ma dall’it. ‘Levante’, ossia ‘levantini’), è
interessante leggere ulteriormente la stessa suddetta relazione del Donini:
... Sono oramai accresciuti in tanto numero li legni de' 'leventi' che, se fossero uniti, come
forse saranno un giorno per far qualche segnalata impresa, a volerli combatter di certezza
vi bisognerebbe una grossa armata. Questi hanno per l'ordinario buonissimi vascelli e
presti, perché ogni tratto li spalmano di nuovo per poter facilmente raggiungere chi fugge e
salvarsi quando gli vien data la caccia. Hanno al remo buonissimi uomini e per la maggior
parte sudditi di Vostra Serenità, delli quali, se ne pigliano alcuno che a ciò non sia atto, lo
vendono o barattano più presto nella Natolia che in altre parti... (Ib.)
Ciò perché, vendendoli in altri luoghi, n’avrebbero ricavato un prezzo molto inferiore, in
quanto il compratore poteva temere che lo schiavo, restando vicino a domini della
repubblica di Venezia, facilmente se ne sarebbe fuggito, oppure sarebbe stato liberato dai
residenti veneziani, sempre molto presenti sulle rive del Mediterraneo; invece, venduti e
portati all'interno dell'Anatolia, a giornate di marcia dalla costa, i poveri disgraziati potevano
perdere ogni speranza di potersi un giorno liberare e quindi si vendevano in quella regione
a un prezzo molto superiore.
Benché con gli accordi di pace del 2 ottobre 1540, stipulati tra Venezia e Costantinopoli
dopo l'ultimo conflitto, i turchi si fossero impegnati a non permettere, favorire o agevolare
le attività anticristiane dei leventi, questi facevano in effetti tutto quello che volevano negli
stessi porti dell'impero ottomano, dove a loro piacimento si facevano fabbricare vascelli, si
provvedevano di vettovaglie, vendevano pubblicamente le loro prede e i cristiani che
catturavano e tutto ciò sotto gli occhi dei ministri e dei funzionari turchi, i quali - e per gli
accordi suddetti e perché spesso e volentieri i leventi dannificavano anche le popolazioni
rivierasche dello stesso impero ottomano - avrebbero dovuto invece perseguitarli; ciò
nondimeno i leventi che erano accettati al servizio del Gran Turco con regolare provvisione
e salvo-condotta, quando dovevano venire a Costantinopoli per qualche negozio di stato,
usavano lasciar prima i loro schiavi sudditi di Venezia a Metelino o in qualche altro luogo,
per timore che questi venissero fatti liberare dai baili di Venezia:
... e, se pur ve ne conducono alcuno, dicono o provano per testimonij musulmani che li
hanno comprati o che hanno loro prestati danari con obligazione ch'essi li abbiano a servire
per qualche numero di anni nella fusta o galeotta loro, facendo appresso ch'essi medesimi
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schiavi confessino l'istesso per forza di bastonate; di modo che li detti leventi offeriscono
poi essi schiavi per la quantità del danaro ch'hanno detto aver esborsato come di sopra e a
questo modo non v'è rimedio di poter liberare alcuno di loro [...] e così si vanno
miseramente disabitando li luoghi della Serenità Vostra, con malissima sodisfazione delli
parenti di questi suoi infelicissimi sudditi. (Ib.)
I baili veneziani non erano infatti autorizzati a disporre di danaro pubblico per ricomprare gli
schiavi che fossero risultati sudditi della repubblica, ma regolarmente comprati o ingaggiati
dal loro padrone; evidentemente il reato di ricettazione, almeno per quanto riguarda gli
schiavi, non era allora riconosciuto.
Il Donini riferiva anche che, a partire dal novembre del precedente 1561, si era cominciato a
ripristinare vecchie fuste e a costruirne di nuove per poi venderle ai leventi nello stesso
arsenale di Costantinopoli e si salvava la forma dei capitoli di pace stipulati con Venezia
vendendo questi vascelli ai raïs di galera, i quali poi le rivendevano privatamente ai leventi e
questi ultimi dichiaravano di voler portare le fuste in Barbaria, in modo che i baili veneziani
non potessero trovar ufficialmente nulla da obiettare:
... Di che essendomi più volte doluto col magnifico bassà e col magnifico beglierbei del
mare, dicendo che, partendo questi di qui con li legni nudi, li forniscono di gente nelli
luoghi della Signoria Vostra contra li eccelsi capitoli della pace, li quali in questa parte sono
malissimo fatti, peggio intesi e pochissimo osservati dalli ministri del serenissimo Gran
Signore. (Ib.)
... che d'altra maniera non farebbe se non mettere le sue galee in manifestissimo pericolo
d'esser prese, essendo le galeotte e fuste d'essi leventi fornite di buonissima gente, usata a
patire ogni sorta di fatica e di disagio e che, quando gli occorre menar le mani con le galee
della Serenità Vostra, lo fa così gagliardamente che è una maraviglia. (Ib.)
487
… che più ostinato cimento non si è veduto in altre battaglie. Ben era da credersi tale la
costanza in barbareschi, Delli quali ne sono gran parte dell'isola di Candia, sono della più
fiera e indomita natura che fra’ turchi si possi ritrovare… (Vittoria dell'armata veneta nel
Canale di Scio contro i turchi nel 1657, ai tre di maggio. Venezia, 1882. B.N.N. Misc. 111 (43.)
Ancora nel 1659 il luogotenente generale del mare francese Paul, redigendo un rapporto sui
corsari barbareschi, affermerà con insistenza che gli equipaggi delle navi mandate a
combatterli avrebbero dovuto essere preferibilmente composti di marinai ‘ponentini’, ossia
della costa atlantica della Francia, perché quelli provenzali, pur essendo ottimi uomini di
mare, erano letteralmente terrorizzati dalla sola fama di quei terribili scorridori del mare. Ma
perché questi corsari di Barbaria - e anche quelli turchi - combattevano così fino all'ultimo
sangue specialmente quando erano affrontati dalle galere di Venezia? Perché i veneziani
avevano da tempo, per imposizione appunto papale, rinunziato allo schiavismo, pur tanto
praticato nel passato, essendo infatti ora, come sappiamo, la quasi totalità delle loro ciurme
costituita da buonevoglie; dunque non cercavano schiavi per le loro galee, contrariamente a
quanto si voleva invece intensamente nell'impero ottomano, e di conseguenza, per una di
quelle singolari intrinseche contraddizioni che hanno sempre afflitto il cattolicesimo, non
facevano prigionieri, obbligando i leventi a tale accanimento combattivo come ultima
occasione di salvarsi la vita:
... non trattandosi solo della libertà loro, ma della vita propria, sapendo certissimo che,
quando sono presi dalle Sue galee, non sono altrimenti fatti schiavi, ma fatti morire, contra
quel che fanno le galee di altri principi; e perciò combattono sino che possono star in piedi
e per il più delle volte si salvano col fuggire o col dare in terra, che, se fosser sicuri della lor
vita, non succederebbe forse così. (E. Albéri. Cit. S. III, v. III, p. 196.)
Dare in terra (fr. echoüer), cioè il gettare il proprio legno sulla costa del proprio paese o di
un paese amico, per cercar scampo nella fuga a terra, era il più solito e obbligato modo che
la gente di mare avesse per scampare a vascelli nemici troppo più forti e sfuggire alla
cattura o peggio alla morte, rimettendoci così la sola imbarcazione; ecco perché un buon
generale o capitano di mare doveva cercare di far allontanare il nemico dalla sua propria
costa prima d’indurlo ad accettare il combattimento, ma anche il capitano nemico doveva
cercare di non avvicinarsi alla sua o a quella di paesi suoi amici, a evitare che i propri
uomini, invece di scegliere di combattere sino all’ultimo sangue, in quella via d’uscita
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troppo confidassero. Già nel nono secolo l’imperatore bizantino Leone VI – o chi per lui –
sconsigliava al generale di mare di combattere nei pressi delle coste del suo stesso paese:
… non combatter presso il tuo paese proprio, in cui sperano i soldati quel ch’è in proverbio
‘Salvarsi nel mostrar sol della lancia’ (‘fuggire subito senza combattere’), ma più tosto
presso al paese nemico, perché i nemici, nella lor terra, antepongano la fuga alla battaglia…
Percioché son pochi – o che tu risguardi a’ romani (‘bizantini’) o a’ barbari – che
antepongano la morte onorata alla fuga disonesta e vergognosa. (Cit.)
Bisanzio dunque, almeno per quanto riguarda il valor militare, non si poteva certo dire
simile all’antica Roma!
Nel 1624 il generale veneziano Antonio Pisani, trovandosi al comando di una squadra
formata da 8 galere e da due galeazze, avvistate a Itaca quattro fuste corsare di S. Maura
(Levkás) che avevano cominciato a saccheggiare quell’isola nei pressi di Itaca, le attaccò e
costrinse i loro equipaggi, ormai sbarcati, a cercare scampo nella fuga a terra; a bordo delle
fuste erano però rimasti 10 turchi che furono catturati e presto decapitati senza pietà.
Nel 1634 il grosso galeone a tre ponti del corsaro tripolino Amet Raïs fu assalito nel canale
dell’Isola di Negroponto dalla squadra delle galere toscane comandata da Ludovico da
Verrazzano; i barbareschi, dopo aspro e sanguinosissimo combattimento, si rifugiarono
sotto coperta, dove, nonostante fossero oppressi dai fuochi artificiati lanciati dal nemico,
resistevano timorosi d’essere tutti uccisi dai vincitori anche se si fossero arresi; solo
quando si resero conto di non esser stati vinti da veneziani, bensì da toscani, s’arresero. In
quella campagna, particolarmente fortunata per i toscani, essi catturarono anche la galera
Capitana di Chio, soprannominata - chissà perché -Vinagro, vi liberarono 200 rematori
cristiani e li sostituirono con i 120 turchi catturativi.
Quando proprio ogni difesa era ormai inutile, molto spesso i corsari maomettani si
facevano saltare in aria dando fuoco alla loro santabarbara, per tentare così di trascinare
perlomeno con loro all’altro mondo anche buon numero di nemici infedeli, perversa pratica
questa tuttora purtroppo ancora praticata dai fanatici mussulmani e che, come ben si sa, si
è tanto intensificata ai nostri giorni a causa del terrificante potere distruttivo raggiunto dai
moderni esplosivi; anche se non intendiamo certo dire con questo che alla Serenissima si
debba addebitare anche ciò che avviene oggi. Per esempio nel 1662 il Corsaro napoletano
Carini, il quale operava con patente di Malta e perlopiù coadiuvato da vascelli comandati da
cavalieri gerosolimitani, attaccò nelle acque di Zante tre vascelli turchi, uno dei quali fu
catturato, uno si fece saltare in aria per non subire la stessa sorte e il terzo riuscì a fuggire;
nel giugno del 1669 la caravana d’Alessandria fu attaccata nelle acque di Rodi da 13 galere
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corsare maltesi e d’altra nazionalità e i cristiani ne catturarono una sultana, mentre un’altra,
anch’essa per non esser presa, si faceva esplodere.
A prescindere comunque dalla pragmatica spietatezza dei veneziani, nata soprattutto dalla
secolare pratica con la sanguinarietà dei loro nemici mussulmani, i barbareschi erano in
ogni caso molto combattivi di natura, soprattutto perché la loro religione, ieri come oggi,
insegnava valori ultraterreni molto più attraenti di quelli cristiani e quindi quasi a desiderare
la morte, specie se poteva arrecar danno agl’infedeli; nel settembre del 1509 sei galere
napoletane intercettarono nelle acque di Ponza sei fuste barbaresche e, postesi
all’inseguimento, le costrinsero ad accettare il combattimento, ma mal gliene incolse,
perché, nonostante il grande vantaggio di forze, ebbero la peggio e solo tre delle loro galere
si salvarono.
Nel 1495 i veneziani, come racconta il Sanuto, affrontarono nelle acque di Modone e con
forze molto superiori una fusta corsara turca montata da 95 uomini, i quali, bersagliando i
cristiani di frecce, combatterono tanto tenacemente da restar vivi solo in 25; i vincitori non
si lasciarono però commuovere da tanto coraggio e il loro comandante, il quale in
quell’occasione era lo stesso capitano generale Antonio Grimani, dimostrò ancora una volta
la consueta mancanza di pietà dei lagunari:
… El qual ordinò fusse(ro) ligati le man et li piedi et butati in mar per anegarli, et cussì fo
fatto; unde el capetanio loro, quando era ligato, se la rideva, et li fo dimandato da quelli
sapeva la lengua la cagione dil suo rider; rispose: ‘io ne ho anegati tanti christiani con le
mie man che l’è raxon (‘ragione’) sia anegato ancora mi da christiani. Et cussì fonno butati
in mar… (La spedizione di Carlo VIII etc. Cit. PP. 307-308.)
Ma quella del raís turco era sicuramente solo stizza e non verità, perché i prigionieri che i
turco-barbareschi facevano erano da loro considerata merce preziosa, schiavi da vendere
negli appositi mercati d’Algeri, di Costantinopoli, del Cairo e d’altri luoghi di Barbaria e
dell’impero ottomano e quindi, eccezion fatta per vecchi, storpi e malati, sicuramente non li
sprecavano gettandoli in mare. Certo ci furono sanguinose eccezioni, come fu quella del
1499, anno in cui i turchi del sultano Bayazid II, i quali stavano con un’armata di mare
aggredendo i possedimenti veneziani in Grecia, inviarono un corpo di cavalleria di seimila
uomini in Friuli, regione che i veneziani, non aspettandosi una tale azione, avevano allora
lasciata priva di difese, e colà i turchi depredarono e distrussero a loro piacimento, facendo
un numero grandissimo di prigionieri tra i civili friulani (vn. e sl. furlan, cioè boreani, ‘gente
del nord’); poi, sulla via del ritorno, accorgendosi di non poter procedere abbastanza
speditamente con tale massa di cattivi al seguito, ne trucidarono crudelmente la maggior
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parte continuando a portarsene dietro solo i più validi e pregevoli (Guicciardini, Storia
d’Italia).
La spicciativa prassi veneziana di uccidere subito i leventi e i corsari turchi non appena
catturati in combattimento fu uno dei più pretestuosi motivi tra quelli che Mehmed, il Gran
Vizir del sultano Selim II, espresse al bailo veneziano a Costantinopoli per giustificare le
pretensioni turche su Cipro; ma anche i pirati della Dalmazia subivano la stessa sorte e ciò
soprattutto sin alla fine del secondo terzo del Cinquecento, cioè sino a che le triste attività
di costoro erano state rivolte, oltre che contro il naviglio mercantile turco, anche contro
quello di Venezia. Christoforo da Canal che, come abbiamo visto, propugnava di convertire
le galere della Serenissima dall'uso di ciurme volontarie a quello di forzati e schiavi, da lui a
ragione ritenute molto più efficienti, chiedeva di conseguenza anche che, come si faceva a
ponente, s’incominciasse a far schiavi i pirati adibendoli così alla voga, invece
d'ammazzarli, e che i giudici veneziani iniziassero a condannare al remo i criminali – perché
anche i lavori forzati non erano da gran tempo più ammessi dalla legislazione veneziana,
ispirata da un grande rispetto della libertà personale, abbandonando in cambio la barbara
tradizionale pratica, unica in Italia anche se ben presente altrove in Europa, per esempio in
Austria, di punirli con l'amputazione di parti del corpo, in modo da ottenersi gradualmente
la predetta trasformazione:
... oltre che ciò farebbe senza fallo gran parte de' nostri rettori più pronti e più solleciti nelle
spedizioni de' rei, la qual cosa, 'sì come ella procede dalla pietà che hanno di privar quei
meschini d'alcuno de' loro membri, così la prontezza nascerebbe dal doverlo senza offesa
condennare alla catena; dal che seguirebbe, senza pregiudizio della giustizia e con utilità
del publico, contentezza grandissima de' prigioni.
Non sarebbe egli ancora meglio e più utile nostro di fare schiavi i cimeriotti e gli uscocchi
che prendono così spesso de' nostri piccioli legni e in cotal numero valersi di loro e non è
l'uccidergli, come facciamo subito presi, senz'alcun giovamento di noi? Certo sì [...] affermo
che del dominio di questa Republica si potrebbe agevolmente ogni anno almeno armare
due galee, onde [...] in breve tempo, così facendo, verremmo a esser padroni d'una
numerosa armata. (C. da Canal. Cit. Pp. 172-173.)
... (I turchi) hanno molta difficoltà e mancamenti d'uomini da comando e da remo e d'altre
cose; e si sa certo da persone pratiche del paese de' turchi che, armando essi un altr'anno
o due come hanno fatto l'anno passato, al sicuro, per la gran penuria e mancamento
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d'uomini, rovinariano e debilitariano li loro luoghi e che in somma son più quelle cose che
spaventano che quelle che posson nuocere (ai cristiani)... (E. Albéri. Cit. S. II, v. II, p. 299.)
Lo stesso predetto argomento è portato anche dal bailo Marc'Antonio Tiepolo nel 1576 e
lo fa a proposito degli elementi di debolezza dell'armata di mare turca sui quali Venezia
poteva fare sicuro affidamento:
... Ma quello su cui si può fidare è il mancamento di uomini da remo, i quali, si come ho già
detto, per le continue estorsioni che patiscono in diversi modi gli uomini delle ville
(‘villaggi’), son già ridotti all'estremo, 'sì che in molti luoghi non vi sono più ville, onde il
paese è incolto, e quelle che vi sono anco vuote, 'sì che non vengono tolti ora gli huomini
che soprabondano al coltivar i terreni, ma anche quelli appunto che bisognano per quel
lavoro mancano.
Solevano anco abondare gli schiavi e del Gran Signore e di private persone, ma ora questi
non bastano per più di venti galee. Soleano esser anco li mariuoli – in tal modo
chiamandosi quei candiotti che, banditi di Candia, s’intertenevano in Pera su le taverne - 'sì
numerosi che bastavano almeno per trenta galee, ma ora questi ancora mancano quasi del
tutto, di maniera che, se vuol mandar l'armata il Gran Signore, è necessario caricare le ville
molto più che non era solito a farsi, non solo perché armi (ora) più grossamente, ma per la
strettezza de' mariuoli e de' schiavi.
É ben vero che va distribuendo il peso in maniera che tutto l'impero si risenta ugualmente,
mandando li comandamenti d'anni in anno non nelli luoghi dell'anno addietro, ma negli altri
non tocchi, 'sì che nel termine de' quattro anni tutto l'imperio abbia sentita questa gravezza;
la quale è grandissima perché, come già dissi, non mandando uomini, sono obligati a
mandare venti scudi per ciascuno, onde vengono ad impoverire in un medesimo tempo e
d'uomini e di denari perché pochissimi ne tornano vivi, quelli massimamente che son
chiamati sino dall'estreme parti de' confini di Persia e del Mar Rosso, molti de' quali,
camminando più di due mesi, nel patimento di tanto viaggio muoiono in quello; molti
muoiono subito in arrivando e molti ancora nelle galee e il resto quasi tutto quando
ritornano alle loro case, onde veramente può dirsi che il levare quegli uomini sia appunto il
levarli per sempre dalle loro ville; per lo qual inconveniente si udiva in mio tempo molti a'
confini abbandonare le proprie case e fuggire dentro al paese di Persia. (Ib. S. III, v. II, Pp.
146-147.)
Sul nome di mariuoli diremo tra breve a luogo più opportuno; c'è invece ora da immaginare
quanto terribile fosse la tragedia della voga forzata ottomana, molto peggiore di quella - già
penosissima - in uso negli stati cristiani; tragedia che si andava anche ad aggiungere a
quella della schiavitù in cui erano ridotti i tanti esseri umani catturati nella continua guerra
di corso che le due religioni si combattevano nel Mediterraneo, a quella dei fanciulli cristiani
dei Balcani che erano sottratti alle loro famiglie e portati a Costantinopoli perché
divenissero giannizzeri (dal tr. jenni-cierì, ‘nuovi soldati’), a quella degli schiavi fatti dai
tartari nell'Europa centrale, e senza contare infine le sanguinosissime guerre che
continuamente gli stati europei si combattevano; storia quindi soprattutto d’orrori quella
dell'umanità! Il Tiepolo aggiunge poi altre considerazioni che fanno capire in quale
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disprezzo i turchi - ma anche i veneziani - oltre tutto tenessero quelle centinaia di migliaia di
poveri giovani mediorientali che rapivano alle loro case per farli poi morire di stenti:
... Manda (il sultano) i comandamenti per lo più innanzi gennaro per far venire li galeotti, né
si fà differenza da turchi a cristiani, sendo le ville indifferentemente obligate a questa
gravezza, ma par non di meno così fatta provvisione farsi più volentieri nell'Asia perché,
sendo l'Europa più piena di cristiani, dai quali soli e non da' turchi cava sempre i putti per li
serragli, i quali sono il seminario della milizia [...] viene serbata l'Asia, come piena de'
turchi, per la gravezza de' galeotti, gente certo inutilissima ad altro che al remo, benché a
questo ancora poco atta; però (‘perciò’), quando vien detto 'zacali', che così si dicono i
galeotti di quella parte dell'Asia, vien detto persona vilissima.
Si conducono adunque questi galeotti e, per ciascuno di quelli che non vengono, vi sono li
venti scudi che io dissi, ma, perché molti sono li morti in viaggio e più è il denaro che si
riscuote che non è il numero de' galeotti, avviene che il Gran Signore con questo sempre
mette denaro in 'caznà', il quale anco si fa maggiore perché, nel medesimo tempo che
comanda gli uomini in Asia, nel medesimo ancora comanda li venti scudi per un numero di
galeotti in Europa, sicché avanza questi con gli altri già detti.
Ai galeotti turchi deputa quattro aspri, ma al cristiano tre il giorno, e due libre di pane senza
altro, col quale (sostentamento) hanno a passare la vita, o basti o non basti. (Ib. Pp. 148-
149).
Sul termine zacali però il Tiepolo sbagliava; esso infatti sarà meglio spiegato da Matteo
Zanne nella sua relazione del 1594, intendendosi infatti con esso i greci del continente e
non i remiganti provenienti dai paesi interni del Medioriente, i quali invece i turchi
chiamavano kürekci; infine, sempre a proposito delle varie categorie di gente da remo (l.
gens a remis) di cui poteva disporre Costantinopoli, è anche interessante leggere la
relazione del bailo Paolo Contarini che è del 1583 e con la quale ci sarà meglio chiarito
come le migliori galere turche fossero quelle ciurmate con schiavi cristiani e greci
mercenari, mentre di quelle con ciurme di remiganti mediorientali ci fosse poco da fidarsi:
... Ha il Capitano (il generale Uluch-Alì) al suo servizio molti rinnegati italiani, a' quali ha
dato il carico di capitani di galea, di sangiacchi, di beglierebei, come era Assan Bassà in
Algeri (dico era, perché non posso se non pronosticar male, essendo tanto perseguitato dal
Capitano), li quali hanno molti schiavi e assan Bassà solo ne tratteneva sin 2.000, gli altri
300 e 400 per uno; tanto che computati li schiavi del Signor, quelli del Capitano del Mare (il
predetto Uluch-Alì) e de' suoi rinnegati, averanno sempre sin 10.000 schiavi sufficienti per
vogar il remo, che alli bisogni montariano tutti sopra l'armata; e si può dire che le galee
armate di questi schiavi e de' marioli, cioè de' greci che vanno a servir col donativo che gli
dà il comune (le buonevoglie), siano il nervo dell'armata turchesca, perché quelle armate di
zaccali e ciurme levate da terraferma restano presto inabili al viaggio, infermandosi gli
uomini e morendo in breve tempo per non esser atti né assuefatti al mare la maggior parte
di essi. (Ib. S. III, v. III, P. 223.)
493
Verso la fine del secolo decimo-sesto la sovrabbondanza d’uomini da remo di cui i turchi
avevano sempre disposto grazie alla vastità del loro impero, incominciava dunque a
diventare un ricordo del passato e ciò a causa soprattutto della grande e mortifera
pestilenza che aveva colpito quei paesi nel 1585 e della guerra contro i persiani, conflitto
iniziato nel 1577 e durato ben 13 anni, nel quale fino al 1586 gli ottomani avevano già perso
seicentomila uomini, avendovi quindi impegnato quasi tutte le loro risorse umane e
arrivando pertanto persino a sguarnire le loro difese verso l'Europa cristiana, come si legge
nella relazione del bailo Maffeo Venerio del 1586:
... e anche l'Ucchialì, dovendo questo settembre passato passare in Mar Nero con ventidue
galere, levò per armarle ogni sorte di gente inutile per età e per complessione e molti greci
ancora furono tolti con violenza. (Ib. S. III, v. II, P. 297.)
... Ma d'uomini da remo, ch'è una delle parti più importanti e più essenziali che si ricerca per
potersi valere di armata potente e numerosa, il bisogno è maggiore, benché non
n’assegnino più di 150 per galea in ragione di tre per banco. Onde si può certamente
affermare che questi non corrispondano alle gran comodità che i turchi hanno di ogni altra
cosa, perché, oltre che il contado resta, come ho detto, abbandonato in molti luoghi dagli
abitanti per le continue estorsioni dalle quali sono oppressi, i miseri che servono sopra le
galee sono così mal trattati che quei pochi che hanno ventura di sopravviver al servizio
corrono pericolo di morire mentre, afflitti per tanti patimenti, si mettono senza alcuna
comodità in viaggio - molte volte lungo - per tornar alle loro case; 'sì che, quando sono si
può dir in porto, fanno spesse volte miseramente naufragio della vita.
Che se i contadini della Serenità Vostra, benissimo trattati sopra le sue galee, patiscono
assai con perdita di molti di essi solamente per non esser avvezzi al mare, si può
chiaramente congetturar ciò che possa succedere a quelli che sono gravemente oppressi
da ogni sorte di calamità. I contadini della Serenità Vostra stanno - si può dir - tutti
vicinissimi a questa Città (di Venezia), ma quei miseri galeotti, chiamati da parti lontane,
sono costretti a camminar alcune volte più di due mesi avanti che arrivino a Costantinopoli.
Questi sono ajutati dalle proprie ville, che oltre qualche particolar donativo gli assegnano
un tanto il mese appresso l'ordinaria provvision di questa Serenissima Republica, con che
possono onestamente trattenersi; ma quelli, se bene a loro nome si raccoglie dai vilaggi
certa quantità di danaro, come dirò poi, ne godono però la minor parte e intanto partono da
casa con quel che possono senza l'aiuto degli altri. Questi sono ben trattati dalli clarissimi
sopraccòmiti o governatori (‘comandanti di galea veneziani’) che siano, i quali, conforme
alla loro nobiltà e alla loro educazione, hanno davanti agli occhi, oltre il timor di Dio, il
proprio onore che li eccita ad aver cura di essi e ben trattarli; ma in quei 'rais', che sono,
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come ho detto, i capi delle galee (turco-barbaresche), non si scuopre alcun termine di
religione né di bontà civile, non considerando altro che il loro utile privato; e per(ci)ò non si
vergognano a levar anco dalla bocca di quella misera gente parte di ciò che lor viene
assegnato dal Gran Signore per sostentamento della vita.
Oltra di questo, costumando i turchi per l'ordinario disarmare (di uomini) l'inverno le loro
galee, hanno sempre (‘ogni anno’) bisogni di nuovi galeotti per armarle, con che si vien
maggiormente a disertare il paese di tal sorta di uomini; i quali, perché siano a tempo in
Costantinopoli, essendo, come ho detto, molti di essi chiamati da parti lontane, costuma il
Signor Turco di fare scrivere il mese di dicembre e di gennajo quel numero di
comandamenti che fa bisogno destinati in diverse parti, con carico a chi ne ha la cura di
raccogliere in un medesimo tempo - da quei villaggi ove prendono gli uomini - tanta somma
di danaro che basti per dare ad ognuno di essi 1.000 o 2.000 aspri secondo la possibilità del
luogo; i quali danari, quando si arma, sono consegnati al 'rais' della galea, cui non mancano
pretesti per tenerne una buona parte per suo uso, come fa ancora (anche) del biscotto,
dando ad ognuno per il resto del suo viver, se son turchi, aspri quattro il giorno, ma, se son
christiani, tre solamente.
A beneficio del Gran Signore doveria poi andar - quando non si rubasse dal Capitano del
Mare o da altri ministri, come succede per l'ordinario - tutto quel danaro che avanza o
perché gli uomini siano mancati o perché fatti inabili, come spesse volte occorre, per
essere diventata quasi ordinaria questa gravezza che i turchi chiamano 'avarìs', la quale,
per avanzar il danaro se ben non si arma, si riscuote però in contanti con sommo interesse
de' popoli e de' villaggi, che in Costantinopoli e in ogni altro luogo è obligo a pagarla e
l'inverno passato in particolare fu riscossa con gran rigore per somministrar le paghe ai
soldati. Quando si arma poi, si mettono in luogo di molti di questi galeotti - e
particolarmente di quelli d'Asia che sono più tristi degli altri - (altri)tanti schiavi con
benefizio ai loro padroni degli aspri che se gli dà per testa. (Ib. S.III, v. II, Pp.352-353.)
Anche gli ottimi remiganti mercenari greci ora mancavano perché il problema dei banditi
candioti, i quali tanto giovamento portavano all'armata turca, sembrava esser stato nel
frattempo finalmente risolto dalla Serenissima non obbligando più quelli semplicemente a
espatriare, bensì condannandoli al confino:
... Soleva il Signor Turco servirsi per il passato di un’altra qualità d'uomini attissimi a
questo servizio, per il più greci sudditi della Sublimità Vostra, banditi di Candia e di altri
luoghi, che, vivendo oziosamente sopra le taverne in Costantinopoli, soleano tutti
indifferentemente - quando veniva l'occasione - esser messi al remo e li chiamavano
marioli. Con questi si sono armate altre volte venti e più galee che facevano sempre buona
riuscita, ma adesso sono privi in gran parte di questa commodità per le provvisioni fatte
con molta prudenza da questo Serenissimo Dominio, non potendosi al presente bandire
alcuno dall'isola di Candia che non gli sia riservato qualche luogo dove possa viver sotto
l'ombra sua; e però (‘perciò’), privi di questa commodità, sono necessitati maggiormente a
gravare il contado. (Ib. S. III, v. III, pp.353-354.)
Il bailo Lorenzo Bernardo, confermando con la sua relazione letta ai senatori di Venezia nel
1592 questa ormai evidentemente stabile carenza di remiganti maraiuoli, aggiunge quella
degli schiavi cristiani, generalmente pur'essi buoni vogatori, mentre non sembra
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concordare col Moro in materia di minor reperibilità anche delle ciurme di terraferma, ossia
maomettane:
... Di galeotti per armar le loro galee si solevano (i) turchi servir di tre qualità d'uomini:
schiavi, maraiuoli e uomini del paese. Li schiavi sono ora talmente diminuiti ed ogni giorno
vanno mancando per morte, per fuga, per riscatto e per rinnegar la nostra santissima fede
che, dove prima ne solevano esser in mano del Gran Signore, del Capitano del Mare (Uluch-
Alì) e delli 'beì', cioè capi del mare, otto o diecimila, ora son certificato che non ve ne sono
appena tre in quattromila, che non armariano venti galee.
La guerra di Persia, che ha durato tredici anni, non ha acquistati schiavi alla Porta (‘la Corte
ottomana’), perché per la loro religione non possono li turchi far schiavi né persiani né
armeni né ebrei. Le galere poi della Serenità Vostra, con molta loro lode e reputazione a
Costantinopoli, hanno dissipate e tagliate a pezzi tutte le fuste che in gran copia solevano
stanziare a Durazzo e alla Valona, in maniera che ora tanti sudditi di Vostra Serenità si
preservano da' turchi, che prima da quelle fuste solevano essere fatti schiavi; e Nostro
Signore Iddio, che ha particolarmente la protezione di questo Stato (di Venezia), ha operato
'sì che la superbia turchesca si sia acquietata, 'ché dalle galee della Serenissima Republica
tutte le fuste di levantini che sono ritrovate nel Golfo (‘nel Mar Adriatico’) giustamente
possono esser tagliate a pezzi come publici ladri; il che non solo più volte mi è stato
approvato per buono dal maggior 'Bascià' (‘dal Gran Visir o primo ministro’), ma li medesimi
levantini chiaramente confessano che questa è la pena che aspettano quelli che vanno per
rubare nel 'Golfo dell'Oro', che così da loro è chiamato questo nostro Golfo per le molte
ricchezze che ritrovano in quello. E, se piacesse a Dio che una sol volta le galee della
Serenissima Republica potessero tagliare a pezzi due o tre galeotte di levantini (sic; leventi)
di Barbaria, che vengono qui dentro alle volte a rubare, come è successo quest'anno, certa
cosa è che ciò li spaventaria di maniera che, senza altri comandamenti della 'Porta', mai più
molestariano questo Golfo. Onde, Eccellentissimi Signori, per questa via è meglio procurar
di non perdere li nostri sudditi e la nostra roba che, da poi presi e depredati, procurar con
comandamenti di ricuperarla. Poiché li comandamenti da questi ladri (i leventi) poco sono
stimati né fanno conto degli ordini del Gran Signore e ciò dicono liberamente li magnifici
'Bascià' e il Capitano del Mare. Però (‘perciò’), poiché piace a Dio farne questa grazia, che il
rimedio a questi mali sia in mano nostra, proviamo con la buona guardia delle nostre galee
di farli per questa via astener dall'entrare in esso e liberiamo non medesimi da tanto danno
e indegnità.
É vero che in Barbaria - e principalmente in Algeri - s’intende ritrovarsi otto sino in diecimila
schiavi christiani, ma di questi ogni giorno molti si riscattano, molti sono venduti a
particolari che li applicano ad altro essercizio che al vogare. É vero che di questi sono
armate le trenta galere e galeotte, caicchi e fregate che stanno alla guardia e vanno in corso
per le coste della Barbaria, ma, oltre di queste, poche galee poteria armar questo Gran
Signore di essi schiavi in occasione di far armata generale.
Solevano trattenersi gran numero di maraiuoli di ogni nazione, ma la maggior parte
candiotti, sopra le taverne in Costantinopoli e in Pera quando il Gran Signore solea spesso
far armata, ma, essendo stato ciò intermesso per tanti anni, tutti hanno preso altro partito,
onde l'anno passato con ogni esperienza fatta non poterono armar una sola galea di gente
di questa qualità. (Ib. Pp. 336-338.)
Si dica dunque oggi dagli storici quel che si vuole, ma il complesso d'inferiorità marittima in
cui Lepanto fece improvvisamente piombare Costantinopoli fu vero e reale ed è innegabile
che da quella fondamentale battaglia in poi il tono della minaccia turca sul mare sarà e
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resterà poi sempre molto smorzato rispetto ai cent’anni precedenti; sebbene il kapudan
pasha ‘Alì Mazzamamma’ verso la metà del Seicento si darà molto da fare per rinnovare
l’armata ottomana, facendo cioè venire in Turchia molte maestranze europee, specie inglesi,
a costruirvi vascelli d’alto bordo, nel diciassettesimo secolo Venezia, pur soccombendo per
terra contro gli sterminati eserciti ottomani e perdendo Candia in una lunga serie di
aggressioni iniziate nel maggio del1645 e terminate solo nel 1669, cionondimeno per mare,
combattendo spesso anche da sola, avrà in sostanza la meglio, come per esempio a
Santorino (Thira) nel luglio del 1651, quando il capitano generale Alvise Mocenigo, alla testa
di 24 galere e 6 galeazze, essendo generale di queste ultime Francesco Morosini,
sconfiggerà l’armata del suddetto kapudan pasha, consistente in 60 galere e 6 maone,
restando preda dei veneziani quattro o cinque vascelli nemici inclusa l’ammiraglia di
Costantinopoli, un vascello da ben 80 bocche da fuoco, mentre altri 5 saranno incendiati; il
‘Mazzamamma’ riuscirà a fuggire, ma vi resterà morto Mehemet Pasha, un generale inviato a
comandare l’assedio di Eraclea allora in corso. Come pure ai Dardanelli nel giugno del 1656,
quando l’armata veneziana, appoggiata da quella pontificia e da quella maltese comandata
dal napoletano Gregorio Caraffa, conseguirà una grande vittoria su quella ottomana di
Sinan Pasha, e inoltre come nel 1668 a S. Pelagio, dove, dopo ben cinque ore di
combattimento, i veneziani prenderanno ai turchi cinque galere e libereranno ben 1.100
rematori cristiani. La lega cattolica inoltre prenderà ripetutamente le principali piazze
ottomane in Morea, per esempio la fortezza di S. Maura nell’agosto del 1684, presa da
veneziani, toscani, pontifici e maltesi, i quali il mese successivo conquisteranno anche la
stessa fortezza di Prévesa con un assedio che la costringerà a capitolare; poi nell’agosto
del 1685, durante la seconda campagna cristiana di Morea, cadranno nelle mani della Lega
prenderanno anche Castenuovo e, dopo 47 giorni d’assedio, Corone; nell’estate del 1686
cadranno anche Navarino, Modone, Napoli di Romania, alla fine di settembre dell’anno
successivo sarà la volta di Castel Nuovo di Cattaro, nel giugno del 1690 di Malvasia, ultima
fortezza turca della Morea, e nel settembre del 1694 dell’isola di Chio; infine nel 1696 i
veneto-pontifici sconfiggeranno ad Andros l’armata marittima ottomana allora comandata
dal turco Hadji Hussein detto ‘Hassan Mezzomorto’, così soprannominato dai cristiani
perché si diceva che fosse sopravvissuto a un lungo coma traumatico – ma più
probabilmente ciò avvenne, come nel caso già ricordato di ‘Alì Mazzamamma’, per
traslazione da similitudine con il suo vero nome. Tutto ciò ci serve a dimostrare come dopo
Lepanto la Lega cristiana, anche se non più dotata dell’apporto asburgico, saprà, almeno
per mare, contrastare con successo lo strapotere ottomano. Chiaramente la minaccia
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marittima turca, anche se non più con il successo del secolo precedente, continuerà e
infatti le forze marittime del Gran Turco non solo saranno sempre determinanti nel suddetto
progressivo acquisto di Candia, ma minacceranno anche Messina, e nel febbraio del 1695,
ancora sotto il comando del predetto ‘Hassan Mezzomorto’, scampato con la fuga dalla
sconfitta di Andros, batteranno sonoramente l’armata veneziana di Antonio Zeno, dopo
averla già combattuta l’anno precedente nelle acque di Smirne unitamente alla squadra
pontificia d’Anton Domenico Bussi e alla maltese del conte Sigismondo di Thurn, e
riprenderanno definitivamente Chio alla Serenissima, tanto che lo Zeno verrà processato e
l’anno successivo sarà sostituito da Alessandro da Molin; infine nel 1715 i veneziani
riperderanno ancora la Morea e questa volta anch’essa per sempre. Anche i corsari
barbareschi diventeranno nel Seicento un po’ meno temibili e, come abbiamo già ricordato,
il 3 maggio del 1657 una squadra veneziana guidata da Lazzaro Mocenigo sconfiggerà nel
canale di Chio quell’algerina comandata dall’olandese rinnegato Mehemet Rais, il quale vi
resterà ucciso e dei suoi 15 vascelli solo 6 riusciranno a fuggire.
Insomma, se non ci fosse stata Lepanto, quel potentissimo impero sarebbe sicuramente
riuscito a superare le sue maggiori difficoltà d’allora e cioè quelle che riguardavano il
reclutamento remiero; ma leggiamo ancora il Bernardo:
Di gente di terra ferma, come noi soliamo dire, il Gran Signore poteria armare quante galee
gli piacesse per la grandezza del suo imperio, ma in fatti sono genti assai inferiori di bontà,
manco atte e peggio trattate delle nostre. Ogn’anno, nel mese di novembre, è solita quella
Maestà mandar fuora un suo comandamento per il qual sono obligati tutti li sudditi
provvedere quel numero di galeotti che comanda il Gran Signore; e viene caricata questa
gravezza in ragione di un galeotto sopra ogni quindici o venti case e più e manco, come
ricerca il maggiore o minor numero de' galeotti che comanda Sua Maestà; e, quando il
galeotto a cui tocca non voglia andare a servire, è obligato a pagar un tanto; il qual
pagamento, quando non si ha intenzione di mandar fuora armata, entra in borsa del Gran
Signore, il quale, avendo introdotta questa gravezza per ordinaria, ogni anno ne cava
zecchini trecentomila, oltra più d'altrettanto denaro che viene maneggiato con questa
occasione di assolver quello e condannar quell'altro dalli ministri che vanno fuora e dalli
'cadì' (‘giudici’) ai quali è commessa questa esecuzione. (Ib. S. III, v. II, p. 338-339.)
... Il re ne trae poi beneficio particolare nel 'carazo' (principale imposta turca) di un tanto per
testa, poi nell' 'avarìs' de' galeotti che è fatta gravezza ordinaria convertita quasi sempre in
danari, perché non si fidano de' christiani se non sono alla catena; con tutto ciò in
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occasione d'armate grosse si valgono al remo di christiani in libertà - il che avviene però di
rado - e questo mostra che non è empietà levare al nemico in tempo di guerra i sudditi
christiani perché si viene a privarlo di molte commodità. (Ib. S. III, v. III, Pp. 387-388.)
... L'armar che si soleva de' marioli non è dimesso affatto, ma non se ne ha numero
considerabile e il disarmare ogni anno è consumo e perdita di molta gente, ma risparmio di
armezzi (‘armeggi’). Il Capitano (Generale) vorrebbe introdurre di decimar (‘prender uno
ogni 10’) li 'peremezini' turchi, che sono li barcajuoli di Costantinopoli, per mescolarli con le
ciurme greche di terraferma che dicono 'zacali' e noi 'falileli'. (Ib. P. 402.)
L'alternarsi nelle relazioni delle due dizioni maraiuoli e mariuoli può significare che la prima
significa non altro che ‘gente di mare’, mentre la seconda sarebbe contaminazione con
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... Il medesimo (mancamento) avviene degli schiavi, che è (sono) il fondamento delle
ciurme, essendo quelli del re atti a servire al remo ridotti al numero di 4.500 e non più,
perché non si fanno schiavi se non christiani, né tutti i christiani s’impiegano nell'armata,
come (per esempio) gli ungheri, i rossi (‘ucraino-cosacchi’) e simili, che non sono nati a
questo; onde gli schiavi sono pochi rispetto al numero che soleva, non essendosi fatte
prede generali in terra da molto tempo, ma solamente di vascelli particolari; e la Barbaria
sola ne somministra all'armata, avendone copia, massime di francesi presi sotto pretesto
che seguissero la parte di Navarra; questi sono oltre il bisogno di trenta galeotte di corso
che può armare e altrettante fregate...
Li tartari del Caffa (‘Crimea’) provvedono anch'essi Costantinopoli di gran numero di
schiavi che rubano in Polonia, in Moscovia e in Rossia (‘Ucraina’), però questi non valgono
per armata, ma solamente per le case private, che, tanto d'uomini quanto di donne, non si
servono di gente pagata, ma di schiavi, che riescono cari (‘graditi’) a maraviglia...
Le galee delle guardie ordinarie, che sono circa trenta ripartite a diverse custodie, sono
armate di schiavi, la maggior parte di particolari, e queste nell'armata tengono il primo
luogo dopo le barbaresche. (Ib. Pp. 403-404.)
... Il Cicala si è tolto (‘prefisso’) in certo modo per impresa di voler negoziare con Vostra
Serenità il concambio (‘lo scambio’) generale degli schiavi, al che io credo che Essa (‘Ella’)
non vorrà attendere, perché, quando la trattazione andasse innanzi, esso pretendaria che la
Serenità Vostra gli mantenesse la parola, se bene egli in conto alcuno non la compirà, oltre
che per altri rispetti è da considerar se convenisse farlo; onde, per ostare a questa istanza,
saria bene che non stessero schiavi turchi sulle galee della guardia di Candia per la facilità
500
che hanno di far sapere di loro a Costantinopoli mediante la frequenza de' caramussali
(mercantili turchi), ma che si riducessero sulle galee che navigano in Dalmazia. (Ib. P. 429.)
Per chiudere finalmente l’argomento dei remieri di galera, vogliamo citare un passo di
Samuel Sharp, viaggiatore inglese del Settecento che fu a Napoli nell'anno 1765, perché si
tratta d'acute osservazioni applicabili perfettamente anche alla realtà dei secoli precedenti;
pare dunque che, tutto sommato, la vita dei galeotti che svernavano nella darsena
napoletana non fosse poi così male:
... duemila galeotti sono sui vascelli nella darsena. Costoro, incatenati come li si vede, a due
a due, lasciano supporre che debbano molto soffrire, buttati lì sul ponte, ma vi assicuro che
la loro condizione è preferibile a quella di molti poveri che si sdraiano stanchi nella strada. I
galeotti ricevono una certa quantità di pane dal Re, qualche volta anche un vestito, e sono
sino ad un certo punto esenti dal lavoro, ciò che soprattutto rende la vita di un povero
napoletano addirittura felice. si occupano principalmente, a bordo dei vascelli, del loro
benessere e, quasi potrei dire, a procurarsi delle comodità. Se il galeotto è un sarto od un
calzolaio od uno che abbia fatto in libertà qualche altro mestiere, costui si guadagna
sempre qualche soldo e ne serba pur sempre un mucchietto per fornirsi di qualcosa che
specialmente desideri. Come ho già detto, è il governo che pensa a provvederli del
necessario e talora anche del superfluo.
Le navi sono poco distanti dalla mia casa. Mi diverto talvolta a meditare sulla vita e il
costume di questa gente. I napoletani non sono in verità un popolo allegro e spensierato,
ma i galeotti non sembrano null'affatto più malinconici degli altri; un uomo che li abbia
studiati quanto me non direbbe mai più, quando volesse fare un pietoso paragone: 'è
infelice come un condannato alle galere'. Ho notato persino, a bordo d'uno di quei vascelli,
un suonatore che li divertiva con musica vocale e strumentale; supposi lì per lì che fosse
uno di loro stessi, ma poi seppi invece ch'era un povero diavolo ch'essi pagavano quando
si sentivano disposti a stare allegri; e penso ancora che questo sciagurato dove trattar da
buoni padroni quelli che noi chiamiamo mascalzoni. Ora, se un popolo così flemmatico e
serio come l'italiano trova tanto da divertirsi a bordo di un vascello di galeotti, che diamine
mai farebbero gli allegri francesi sopra vascelli somiglianti a Marsiglia? In un modo o
nell'altro ecco certamente della gente più gaia e felice de' nostri concittadini? Ma, dico, non
potrebbero invece adoperar questi cialtroni a migliorare le malagevoli strade di questo
regno con grande onore e grande profitto della nazione e con poca spesa? Ahimè, ve l'ho
già detto: qui il governo è pessimo... (Samuel Sharp, Letters from Italy etc. Pp. 128 e segg.
Londra, 1767.)
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Capitolo VIII.
LA GENTE DI CAPO.
Poiché nell'antico gergo marittimo, la prua dei vascelli, specie della galera, si chiamava
capo (sp. cabo; fr. cap. 239), trovandosi infatti nella stessa posizione della testa d'un
animale, di conseguenza per gente di capo - gente de cabo in spagnolo - s’intendeva la
marinaresca (gr. ναυτιϰόν), cioè l'insieme dei marinai e delle maestranze di bordo, la quale
infatti alloggiava a prua, luogo dove in parte anche lavorava, e si distingueva quindi dalla
gente di poppa, ossia dagli ufficiali maggiori della galera, i quali invece vivevano quasi tutti
a poppa; infatti in veneziano ormeggiarsi di fronte a terra si diceva ormeggiarsi di cao (‘di
capo’); tale locuzione ha quindi molta relazione con quelle ‘capo di corda’, ‘capo di fune’,
‘capo di spago’, dove il termine ‘capo’ sta appunto per ‘pezzo apicale’ del rotolo, non
avendo quindi nulla a che fare con il termine capo quale sincope tachigrafica di canapo né
con quello di cavo, sincope questa del veneziano canevo. La suddetta distinzione era
importante in quanto le due comunità di bordo non dovevano affatto confondersi, concetto
che per esempio l’Aubin, a proposito dei grandi velieri, ancora esprimerà così traducendo la
sua fonte olandese:
È (proprio) della gravità degli ufficiali generali e anche dei capitani il tenersi dietro l’albero
di maestra; sarebbe uno sminuirsi il tenersi (invece) davanti l’albero e tra l’equipaggio. (Cit.)
Ecco un esempio veneziano di come la prua fosse chiamata capo; si tratta di una relazione
inviata a Venezia il 30 dicembre 1528 dal provveditore veneziano dell’isola di Zante, Giovan
Francesco Badoero, in cui, tra l’altro, si spiegava che in quel porto si sentiva la necessità di
un molo regolare, cioè più alto e più lungo di quello allora molto limitato che c’era, e ciò sia
per per permettere l’attracco di un numero maggiore di galee sottili sia perché anche le
galeee grosse di mercato che andavano in Levante potessero fermarsi a Zante a mettere
scala a terra, cosa ora molto scomoda e problematica perché si trattava di vascelli alti di
capo, cioè appunto di prua:
… tegno etiam che le galie grosse nel andar in Levante facilmente potria metter schala in
terra, perché in capo de le galie sono piè(di) N.º 10 (e) 1/2 e piu’ (C.N. Sathas, Cit. P. 257).
In effetti nei grandi vascelli tondi il padrone - capitano nel caso di vascello armato - pur
esercitando il comando supremo, attendeva anche alla supervisione della manovra
dell’albero di maestra e di quello di mezzana, lasciando soprattutto al nostromo la cura del
502
trinchetto, del bompresso e dell’uso d’ancore e gomene, e ciò per evidenti motivi di una
conveniente spartizione dei compiti. Per ciò che concerne le galere invece egli, detto allora
patrone, ne era stato il comandante (gr. τριήραρχος, τριηράρχης) nel Medioevo-
Rinascimento, ma ciò però per le sole triremi, infatti il comandante delle normali biremi, il
còmito (l. rector), anche se era aiutato dal vice-còmito, non avrebbe potuto controllare da
solo un vascello tanto più grande e numeroso d’uomini; ora invece, dalla fine del
Rinascimento, nei vascelli armati in generale e quindi soprattutto nelle galere, il padrone era
stato ridotto a comandante in seconda, essendo subentrato nel comando in prima il
capitano militare.
A quanto detto faceva eccezione l’evoluzione storica delle galere catalane, grosse triremi
che, come anche quelle bizantine, erano quelle che materialmente più avevano conservato
delle pesanti triere dell’antica Roma; a norma infatti della già citata ordinanza del re Pedro
IV di Aragona e Catalogna promulgata nel 1354, si affidava ora la responsabilità della loro
navigazione direttamente al còmito, mentre al padrone (lem/ctm. patró) era lasciato il
comando dei soli aspetti militari e delle azioni di guerra. Se però si accorgeva che il còmito
stava commettendo qualche errore, poteva e doveva riprenderlo. In effetti questa
sostanziale autonomia del còmito nel comando della navigazione non era una novità, anzi,
come poi meglio vedremo, era addirittura quanto gli restava dal comando totale della galera
che aveva avuto in precedenza, cioè fino appunto a quel Basso Medioevo, quando si era
considerato che troppi erano così i compiti che gli erano stati assegnati e che bisognava
liberarlo dalla parte militare e politica della conduzione del vascello; da parte sua il padrone,
fino ad allora solo responsabile amministrativo, acquisiva dunque a bordo il massimo
potere, salvo poi, come vedremo, a dover tornare dopo qualche secolo, cioè nel tardo
Rinascimento, alle sole sue antiche mansioni amministrative e a lasciare il comando in capo
a un nuova presenza di bordo e cioè al capitano militare (in vn. sovraccomito), personaggio
in genere di nobili origini. Nella marineria remiera aragono-catalana questo cambiamento si
istituzionalizzò con la già più volte ricordata ordinanza del 1354:
… sia ordinato che ciascuna galea che s’armerà nella signoria del Signor Re debba avere un
patrone alla testa dei balestrieri, cosicché la poppa sia meglio guardata in caso di
combattimento e che sia più temuta [sia ordonat, que tota galéa que s'armará en la Senyoria
del Senyor Rey haia haver un patró si terç de (‘hi tambè dos’) companyons, per ço que la
popa sia mils guardada en cas de batalla, è que sia mils temut. Cit. P. 94].
Premesso che i companyons del patrone non dovevano effettivamente essere più di due
scudieri balestrieri, come spiega un’altra ordinanza aragono-catalana contemporanea:
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… deve portare a sue spese due scudieri abili e idonei, ognuno con balestra, crocco (da
balestra) e corazza guarnita, e duecento verrettoni, di cui cento da prova e 100 di magazzino
[deu metre à sa messió dos escuders abtes è suficients ab sengles ballestes è crochs è
cuyraces fornides è cc viratons, c de prova è c de matzém… (ib, P. 97.)]
... Questi da naviganti sono detti huomini da comando e da noi altri con più polito vocabulo
marinari chiamati, né giudico cosa di molta importanza che più d'una che si altra nazione si
prendano, percioché ho conosciuto per longa prova che così de' nostri viniziani come de'
greci, de' schiavoni, de' corsi e de' genovesi molti a tal offizio riescano eccellenti, che
habbiano maggior contezza e più piena esperienza dell'arte marinaresca... (Cit. P. 117.)
In Francia invece il significato marittimo di capo era rimasto ben chiaro e lo sarà ancora per
molto tempo, come si può vedere dal vocabolario di anonimo del 1681:
Cap, C’est une pointe de terre ou rocher avancé en mer, l’epron ou devant d’un vaisseau se
nomme aussi ‘cap’. (Termes desquels on use sur mer dans le parler avec les pièces et
parties d’un vaisseau et des manoeuvres etc. Le Havre (de Grace), 1681.)
La predetta errata denominazione prenderà sempre più piede, tanto che nei ruoli degli
equipaggi di galera che si rinvengono sovente tra i documenti marittimi del Seicento gli
ufficiali veramente di comando non sono più detti gente di poppa, ma vengono accomunati
ai semplici marinai (sp. marineros rasos) appunto sotto la voce gente di capo. In questo
capitolo parleremo dunque della sola gente di prua, quindi dei marinai e di quelle
maestranze impiegate sulla galera sotto il nome di bassi ufficiali.
L'aguzzino (dall'ispano-moresco alguacil, attraverso il proto-italiano algozino), era un
personaggio che i veneziani chiamavano invece con un eufemismo compagno di stendardo,
come c’informa il Sereno, epiteto forse nato da consuetudine d’eleggere a quel carico un
compagno, ossia uno dei marinai di guardia ai remiganti, della galera Capitana o Reale,
l’unica che portava infatti stendardo (fr. vaisseaux pavillon, pavillons), ossia il vessillo con i
colori dello stato o regno a cui la squadra o l’armata apparteneva, eccezion fatta agli
stendardi coniati per imprese particolari, come per esempio quello conferito all’armata della
Santa Lega di Lepanto; egli era l'ufficiale a cui toccava la responsabilità della custodia della
ciurma ed era in ciò aiutato da due mozzi fissi. Doveva soprattutto sorvegliare i galeotti
affinché non fuggissero né da bordo né quando erano mandati a lavorare a terra sotto
scorta armata; doveva pertanto ogni sera rivedere catene e maniglie dei remiganti per far
eventualmente sostituire quelle che non fossero più affidabili e doveva poi mettere le
controcatene ai condannati a vita e a tutti gli altri dei quali si sospettassero propositi di
fuga; doveva accertarsi che fossero ben compartite le guardie notturne dei marinai e che al
suono dell'Ave Maria, cioè all'imbrunire, venissero accesi sotto la tenda gli ampioni e le
lanterne di coperta affinché la ciurma restasse visibile tutta la notte; almeno due volte il
mese doveva far la cerca, ossia ispezionare diligentemente tutta la roba della ciurma per
vedere se qualcuno vi nascondesse lime o altri strumenti atti a liberarsi segretamente dalle
catene per poi fuggire. Il da Canal scriveva che, nella marineria veneziana, l'aguzzino,
accettando il suo posto, prometteva per pubblica scrittura e dava garanzia di risarcire con
505
25 scudi la repubblica per ogni vogatore incatenato che fosse fuggito; una simile ammenda
era anche prevista in tutte le squadre di galere ponentine. Secondo poi Jean-Jacques
Bouchard, il già citato viaggiatore, sulle galere francesi del 1630, quando cioè ne era
generale il pari di Francia Pierre de Gondy, duca di Rets e conte di Joigny (1626-1635), uno
dei due mozzi dell'aguzzino aveva il titolo di sotto-aguzzino e doveva ispezionare i ferri dei
forzati tre volte per notte; ma come potevano allora dormire quei disgraziati? Il secondo
mozzo aveva invece il compito di ferrarli e sferrarli.
L'insieme delle catene conficcato in un singolo banco per incatenarvi i galeotti si chiamava
branco (vn. branca); a queste catene si univano i ceppi messi ai piedi dei galeotti e che,
nonostante la loro collocazione, erano detti maniglie (vn. gambetti; sp. calcetas; l. cupi,
compedes, pedicae, vincula, custodes pedum, nervi, corrigiae, boiae; gr. ξυλοπέδαι,
ποδοϰάϰ(ϰ)αι, ποδοφῠλᾰϰαί poi ποδοφύλαϰαι); catena e maniglia erano trattenuti insieme
da un altro ferro detto perno e da un cuneo di ferro detto chiavetta (fr. goupille; ol. spie,
speil), il quale si conficcava a forza battendolo sopra un’incudine con un martello detto
mazzetta; tale chiavetta si poteva poi togliere con uno scalpello detto buttafuori e sempre
però con l'ausilio dell'incudine e della mazzetta. Il lavoro di ferrare e sferrare i galeotti era
materialmente eseguito, come già accennato, non tanto dall'aguzzino quanto dai suoi due
predetti mozzi. A Venezia per branca s’intendeva non solo il predetto insieme di catene
d'ogni banco, ma per estensione anche l'insieme dei galeotti d'uno stesso banco, incatenati
quindi da una stessa branca di catene, e per numero di branche d'una galera si voleva
quindi dire il numero dei banchi per ciascun lato; infatti nell'anonima relazione, da noi già
ricordata, del viaggio compiuto a Costantinopoli dall'ambasciatore veneziano Jacopo
Soranzo nel 1581, in occasione cioè delle feste indette per la circoncisione del giovanetto
Mehmed, figlio del sultano Amurat III, così si legge:
... Per portare dunque Sua Signoria Illustrissima, insieme con la compagnia e famiglia
(‘servitù’) sua alla volta di Costantinopoli, furono comandate dalla Serenissima Signoria di
Venezia due galere di ventotto branche di ciurma buonissima e quaranta soldati per
ciascheduna, che furono quella del clarissimo Giovanni Pesaro, dove montò la persona
dell'illustrissimo signor ambasciatore con parte de' sopradetti gentiluomini, e quella del
clarissimo Lorenzo Priuli, dove ebbero luogo gli altri, dividendosi poi con egual porzione la
famiglia e robe. (E. Albéri. Cit. S. III, v. II, p. 212.)
Doveva poi l'aguzzino occuparsi di far radere spesso la ciurma sia per igiene, in quanto
quei poveri sventurati erano tormentati anche dai parassiti, sia per estetica sia per
contrassegno, come abbiamo già visto a proposito delle diverse categorie di remieri;
doveva sorvegliarla maggiormente quando s’adibiva a caricare provviste sulla galera,
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doveva andare a guidare personalmente il branco, ossia il gruppo dei galeotti che erano
mandati a lavorare a terra, li accoppiava a due a due con una catena ai piedi; questi branchi,
condotti appunto dall'aguzzino e tenuti sotto buona scorta di compagni armati, erano
portati ad attendere a vari servizi di rifornimento della galera, primo tra tutti l‘acquata, vale a
dire a far la provvista d'acqua (fr. faire aiguade; cst. hazer la acquada) in luoghi costieri
dove si sapeva ci fosse una fonte adatta a questo scopo, come per esempio Acqualadrone
sulla costa messinese, posto così chiamato perché evidentemente abituale sosta dei
corsari moreschi che infestavano il Mediterraneo; inoltre far raccolta di legna e brusca per il
calafataggio e il carenamento, operazioni queste alle quali poi torneremo, ma solo per
quanto riguarda le implicazioni concernenti la guerra. A chi comunque volesse saperne in
dettaglio, consigliamo la lettura della da noi già più volte citata Breve instruzione
appartenente al capitano de vasselli quadri del capitano toscano di lungo corso Alessandro
Falconi, Pp. 9-12. Firenze, 1612. I suddetti branchi di galeotti si mandavano però a terra ad
eseguire anche altri lavori pesanti, per esempio la costruzione d'opere pubbliche e la
spalatura della terra che faceva da bersaglio degli scolari della locale scuola d'artiglieria,
oppure a caricare o scaricare altri vascelli in porto, cosa molto comune nei porti in cui
svernavano le galere e dove i remiganti facevano quindi le veci di facchini (da ‘sacco’,
quindi in realtà sacchini; l. sarcinatores) o bastagi portuali [gn. camalli; fr. tanqueurs,
gaba(r)riers; ol. tsjuuwers] e persino a eseguire lavori alle residenze private di nobili e
personaggi, i quali facevano poi per questo adeguati regali ai capitani e agli altri ufficiali
delle galere. Poiché le merci erano generalmente caricate appunto da lavoratori portuali, ma
scaricate perlopiù dagli stessi marinai o remiganti, era molto importante che tutti gli addetti
a questo gravoso compito collaborassero con lo stesso impegno e pertanto, nella marineria
francese, quando tra compagni non si era a tal proposito soddisfatti gli uni degli altri, si
fermava temporaneamente il lavoro e si dava luogo a una specie di processo detto de
l’action de guindage, ossia ‘sul tema del lavoro di sollevamento’. Quando poi ci si trovava in
porto o alla fonda su costa amica bisognava, come abbiamo già detto, mandare a lavorare a
terra gli schiavi, perché i forzati avrebbero chiaramente tentato di fuggire e di tornare ai loro
paesi natii; il contrario bisognava fare quando si sbarcavano branchi per approvvigionarsi
in terra nemica o in isole deserte, cioè si evitava di mandarvi gli schiavi perché anch'essi
nemici, quindi pronti ad approfittare dell’occasione per tentare la fuga, e si dovevano
mandare quindi invece in tal caso a lavorarvi i forzati, non però quelli condannati a vita e
disposti a correre pertanto qualsiasi rischio fuggendo anche in paese ostile, e inoltre le
buonevoglie o al limite anche marinai e soldati.
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Nel 1579 alcune galere turco-barbaresche sbarcarono circa 300 uomini nei pressi d’Ostia
per far provvista d'acqua e contro di loro fu subito inviata una spedizione militare pontificia
comandata da Paolo Giordano Orsino, la quale, benché contasse ben 500 uomini e
comprendesse una banda di cavalli e fanti mercenari tedeschi, non riuscì a scacciare i
corsari; questi infatti si difesero benissimo, coperti anche da un nutritissimo fuoco
d'archibugeria che proveniva dalle loro galere, e non tornarono a bordo se non quando
ebbero finito d'approvvigionarsi d'acqua.
L'aguzzino era una delle sole quattro persone di bordo autorizzate a fustigare (it. rizzar a
banco; sp. arrizar) la ciurma, essendo le altre tre il capitano, il còmito e il sotto-còmito;
raramente egli era uomo onesto e pietoso:
... Sia rigoroso e lontano da ogni interesse, che suole esser causa della fuga di molti di loro
(‘dei galeotti’) e delli strazij che fanno gli scelerati aguzini di quelli che sono in concetto di
haver denari, battendoli e facendoli lavorar più de gli altri, con aggravarli di contracatene
senza causa e travagliarli con altri modi crudeli per cavarne alcuna cosa. (P. Pantera. Cit. P.
124.)
Anche all'aguzzino toccava far imprigionare i colpevoli di qualche delitto e, occorrendo, far
eseguire le sentenze criminali; doveva inoltre ispezionare spesso i barili dell'acqua potabile
per controllare che non si guastasse, il che avveniva facilmente, come tra l’altro racconta il
Brasca del suo viaggio marino verso la Terrasanta:
… E fu proprio nel tempo ch’el mare ne acolse in bonaza, senza vento alcuno, e con tanto
calore che non si poteva stare, per modo che l’aqua devenete marza, puzolenta e con li
vermi dentro, talmente ch’el ne convenete fare la panata di quela aqua (‘usarla per
panificare’, invece di berla) e similmente l’aqua cocta (‘l’acqua calda per cucinare’). Pensati
como doveamo stare, che certo fu miraculo e non rasone che ne campò (‘che ne
scampammo’). (A. L. Momigliano Lepschy. Cit.)
Sorvegliava inoltre l’aguzzino che non si prendesse più d'un barile d'acqua per banco alla
volta o, dove l'acqua era invece tenuta nelle botti, non più d'una botte per tutti alla volta,
assegnandone ai remiganti maggiore o minore razione giornaliera a seconda della
lunghezza della navigazione che si dovesse fare quel giorno. Quando d'acqua ce n’era
poca, non se ne permetteva l'uso a bordo se non per bere e per gli ammalati, tanto più che
la scorta di questo tanto prezioso elemento era molto importante anche ai fini bellici,
essendosi talvolta dovuto rinunziare a una buon’occasione di dar battaglia per mancanza
d’acqua da bere; fondamentale era poi una grossa provvista d’acqua per chi praticava la
guerra di corso, perché un vascello corsaro correva i maggiori pericoli d’essere catturato
508
proprio quando era costretto a toccare terra in paesi ostili oppure nelle isole disabitate, in
quanto nelle cale di queste ultime usavano mettersi in agguato squadriglie nemiche:
… il terreno deve esser il maggior inemico che habbi il corsale… (P. Pantera. Cit.)
Gli ufficiali potevano farsi refrigerare brocche d’acqua potabile con il metodo di far ruotare
le stesse immerse in una soluzione d’acqua e salnitro, sistema spiegato a stampa per la
prima volta nel 1550 dal medico spagnolo Blas Villafranca (Methodus refrigerandi ex vocato
salenitro vinum, aquamque ac potus quodvis aliud genus etc. Roma, 1550), e ciò perché
naturalmente, navigandosi d’estate, non sempre la galera era investita da venti freschi ai
quali poter esporre dette brocche, né c’era ovviamente a bordo la possibilità di refrigerarla
con altri sistemi usati a terra e cioè coprendola di neve o immagazzinandola in profondi
pozzi; secondo il mineralogista Giacinto Gimma questo metodo era stato trovato proprio da
semplici galeotti, i quali però sembra che lo usassero generalmente in maniera troppo
semplificata e impropria, perlomeno a giudicare dalle sue parole:
… Il rinfrescare col salnitro inventato da’ marinari delle galere, privi di pozzi, di neve e di
aria fresca in tempo di calma, non è lodato, perché apporta sete continua, fa febbri aride,
infiamma il polmone, toglie l’appetito e cagiona molti mali; e teme il Santorello che la cattiva
qualità del salnitro non si comunichi colla bevanda… (Giacinto Gimma, Della storia
naturale delle gemme, delle pietre e di tutti i minerali etc. Tomo II, p. 450. Napoli, 1730.)
Per la cronaca, il Santorello citato era il nolano Antonio Santorelli, primo lettore (‘ordinario
di cattedra’) di medicina e filosofia (‘scienze naturali’) nella scola (’università degli studi’) di
Napoli e poi protomedico del Regno (1583-1653). Che il metodo fosse secolare, quindi molto
probabilmente davvero inventato dalla pratica marittima, e inoltre non per tutti, ma riservato
a bordo ai soli personaggi di qualità (di paraggio, come allora si diceva), è dimostrato da
una delle registrazioni d’archivio fiandresi del Cinquecento citate dal Finot e si tratta
dell’ordine di fornire salnitro alla nave dell’imperatore Carlo V, il quale appena il mese
successivo abdicato a favore del fratello Ferdinando I:
(4 agosto 1556:) … - idem, au porteur dudit mandement 400 livres de salpėtre pour le
mettre dans le navire de l’Empereur pour «rafreschir ses buivraiges (‘beuvrage,
breuvage’)» (Jules Finot, Inventaire sommaire des Archives Départementales antérieures
a 1790 etc. Tomo VIII. Lille, 1895.)
Per tutti i suddetti servizi l'aguzzino aveva sotto di sé i marinai che di volta in volta si
trovavano di guardia, oltre ai due predetti mozzi fissi, dei quali uno era tra l'altro addetto a
picchiare la ciurma per suo conto con un cordino che era detto scandaglio, forse perché
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lasciava profondi segni nella pelle; invece il pezzo di corda che nella marineria da guerra
oceanica il prevosto adoperava allo stesso scopo si diceva in fr. dague e in ol. dag(ge). Il
posto dell’aguzzino era al di sopra del banco che era detto dello scandolaro, perché si
trovava all'incirca in corrispondenza di quel locale, e dove conservava tutti i suoi ferri,
catene e maniglie; da quella posizione l'aguzzino aveva sott'occhio tutta la ciurma. Gli
strumenti per far lavorare a terra i galeotti, ossia zappe, pale, picconi e accette, erano
invece tenuti nella compagna, camera che, in quanto principalmente adibita a dispensa, era
ben sorvegliata. In combattimento doveva stare nella camera di poppa e nello scandolaro
per esser pronto a tappare eventuali falle che il nemico procurasse alla galera e per esser
pronto a questo doveva tenere a disposizione molti sacchi e cappotti per un intervento
provvisorio che durasse sino alla fine della battaglia. Premesso che tutti gli emolumenti
corrisposti nelle squadre di galere ponentine che da ora in avanti riporteremo sono, se in
scudi pontifici, tratti dal Pantera, il quale, come sappiamo, scriveva nei primi anni del
Seicento, e, se in ducati napoletani, da registri d’archivio del 1594 citati dal Mantelli (R.
Mantelli. Cit.), diremo appunto che l’algozino prendeva 3 scudi il mese sulle galere pontificie
- ducati 34 e grana 44 l‘anno su quelle napoletane - e due razioni il giorno (l. duplicarii);
nelle galere di Francia dormiva nello scandolaro, dove pertanto sorvegliava anche le armi di
bordo che in tale camera erano tenute.
I timonieri della galera erano otto marinai ai quali si affidava il maneggio del timone o
governaglio; essi obbedivano ai comandi del piloto o del consigliero, e poi del capitano e
del còmito, i più consueti dei quali erano Alla via! (‘Tieni dritto!’), Leva mano!
(corrispondente al Poggia! della navigazione a vela) e Pesa mano! (equivalente invece
all'Orza!). Il timoniero non poteva regolarsi sulla bussola perché questa era posta lontano
da lui e quindi doveva continuamente ricevere i comandi di guida dal piloto, dal consigliero
o comunque da chi era posto alla bussola, strumento che, specie di notte, doveva esser
guardato continuamente; per tale motivo il da Canal scriveva che sarebbe stato meglio
sistemare di fronte al timoniero un piccolo bossolo da navigare, in modo da renderlo più
autonomo (il che ancora non ho veduto in alcuna galea); ma evidentemente ai suoi tempi
era proprio quest'autonomia decisionale nella rotta da scegliere che non si voleva dare al
semplice timoniero. Si capisce dunque perché potevano, specie navigando di conserva di
notte, incidenti come quello che avvenne nel 1420, mentre guidava l’armata che il re Alfonso
V d’Aragona, detto il Magnanimo, inviava in Sardegna a reprimere i suoi ribelli; durante la
navigazione a vela notturna tra Maiorca e l’isola la Reale (‘Capitana Reale’) fu investita
violentemente da poppa dalla galera di Juan de Eslaba che la seguiva troppo dappresso e
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rischio d’affondarsi, mentre la maggior parte della sua dormiente ciurma, sbandando molto
il vascello, finì in mare e chissà quanti remieri ne perirono, dal momento che si trattava di
gente che, pur lavorando per mare, in gran maggioranza non sapeva nuotare (Zurita,
Anales, L. XIII, c. IV).
A poppa bisognava sempre tenere una zanca, ossia un timone di riserva semplificato, nel
caso che quell'ordinario venisse a mancare a causa d'un temporale, d'un sinistro o d'una
cannonata. Poiché non tutti i predetti otto marinai erano impiegati al timone allo stesso
tempo, bensì a turni, il còmito li utilizzava anche per altri servizi di bordo, quali spalmare di
sego l'opera viva dalla chiglia alla linea di galleggiamento, incatramare gli alberi e le
antenne, ormeggiare la galera, maneggiare le vele e inoltre per tutti i servizi di poppa sia
della galera sia della persona del capitano; insomma quelli che non erano al timone
dovevano far in tutto il servizio da marinai, specie in caso di tempesta, e da soldati quando
si combatteva; in quest'ultimo caso si davano pertanto loro le armi e il loro posto di
combattimento era alla poppa in generale, anche se, poiché erano appunto adibiti anche ai
normali servizi da marinaio, erano inclusi nel numero della gente de cabo e non in quello
della gente di poppa. I marinai in guerra, uomini che all’occorrenza dovevano anche loro
prenderre le armi e combattere, erano chiamati dagli antichi greci statìdi (στατίδες), cioè
all’incirca ‘uomini in riserva’. Sulle galere francesi quattro di loro erano chiamati
propriamente timonieri e gli altri quattro invece capi di guardia, in quanto, necessitando il
loro compito d'intensa attenzione, gli otto si alternavano al timone in quattro guardie o
quarti giornalieri e cambiavano in concomitanza del cambio dei quattro marinai detti parte e
mezza (l. sescuplicarii) di cui ora anche diremo. Quelli che in navigazione stavano di
guardia al timone dovevano ovviamente stare nel luogo detto timoniera, ossia nell'arco
terminale dell'altezza della poppa detto appunto rota della poppa, dove sedevano su una
bancaccia come quella su cui dormiva il capitano e che era posta proprio dietro alla stessa
timoniera; gli altri si trattenevano parte all'oste e parte sulla corsia per far i servizi di vela.
Prendevano 3 scudi pontifici mensili – da 26,40 a 27,65 ducati napoletani l’anno - e due
razioni giornaliere per uno come l'aguzzino.
I quattro marinai detti parte e mez(z)a (l. sescuplicarii) erano così chiamati perché
prendevano una razione e mezza di viveri il giorno, oltre a 2 scudi pontifici e mezzo di
stipendio mensile - 30 ducati napoletani annui; essi corrispondevano ai gabbieri [l. velarii;
ol. vit-kijker (del maestro), neus-kijker (del trinchetto)] dei vascelli tondi e pertanto
dovevano essere giovani, agili, forti e coraggiosi; infatti a essi toccava salire sopra il
calcese maestro per far la scoperta e la guardia diurna, la quale iniziava all'alba ed era
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divisa in quattro turni, e da quella posizione potevano scorgere a circa 20 miglia di distanza,
soprattutto la mattina e la sera, cioè quando i raggi del sole non abbagliavano la vista.
Anche di notte facevano la guardia, ma a prua sulle rembate, e inoltre dovevano esser
pronti a ogni altro servizio di galera che il còmito o gli altri ufficiali loro comandassero;
infine, come ai timonieri, anche ai parte e mezza si davano armi perché potessero
partecipare al combattimento, ma si trattava di balestre, spade e rotelle, almeno sino al
tempo di Lepanto, perché evidentemente si pensava che i marinai, dovendo esser impiegati
alle manovre anche durante la battaglia, non avrebbero avuto modo d’usare armi dal
caricamento complesso come gli archibugi. Il loro posto era dunque di giorno sul calcese di
maestra, se addetti alla guardia, di notte sulle rembate e, quando si combatteva, alla prua in
generale o alle balestriere, a seconda di come era lor comandato.
Il termine proeri s’era usato nel Medioevo sia sulle navi mercantili che sui vascelli armati
per definire la bassa forza di bordo in generale, la ‘gente di prua’ insomma, la quale, come
abbiamo già detto, era così chiamata perché a prua alloggiava e perché operava perlopiù
sulla metà anteriore del vascello, cioè soprattutto alla velatura e alle ancore, in
contrapposizione alla ‘gente di poppa’, ossia agli ufficiali; ora invece erano così chiamati in
particolare da quattro a sei marinai di galera giovanissimi ai quali toccavano i servizi di prua
e particolarmente quelli del trinchetto; dovevano pertanto esser molto agili per poter salire
e in un certo modo volar per le sarte, per gli albori e per le antenne (P. Pantera. Cit. P. 124) e
a tal proposito ecco un brano del già ricordato Itinerario di Gabriele Capodilista, in cui si
descrive un saggio di funambolismo dato a bordo della galeazza Loredana da quei giovani
marinai per festeggiare l’arrivo del vento favorevole al loro corso:
… E perché fino a quella hora non avevano may habuto vento alguno in poppe, ogniuno se
allegrò e iubilava e non solamente li peregrini, ma etiam li marinari, i quali, per leticia
facendo uno solazo, si posero alquanti giovani aptissimi de la persona insieme e,
ponendosi uno di loro al principio de una corda, la quale sosteneva l’arbore di la galea che
è appellata per li marinari ‘gomena’, montarono altri per la dicta corda, ponendosi i piedi su
le spale uno a l’altro, tanto che tochavano la gabia ed ogniuno stava dretto in piedi su le
spale al compagno e, stati aliquanto nel modo predicto, quello el quale era primo a
sostenere el carico si rimose e tuti li alteri venivano giù ad uno ad uno per modo che niuno
caschò né posse male el piede. Il che a tuti li videnti parse una meraveglia; ed oltra questo
ascendevano e descendevano e per le corde e per la vella cum tanta cellerità e destreza che
non solo a homeni o a simie o a maimoni, ma a occelli saria bastato; e molte cosse altre
haverian fatte s’el dicto vento fosse perseverato, ma, essendo cessato fra doe hore e
levatose lo vento contrario, gli bisognò attendere al governo di galea… (A. L. Momigliano
Lepschy. Cit.)
dovevano esser buoni nuotatori (cioè gente da guazzo, come dicevano i veneziani), perché,
quando si andava a ormeggiare (gr. ὀρμίζειν) in luogo sospetto o in paese dichiaratamente
ostile, non c'era tempo di calar a mare lo schifo, la cui conduzione in quei casi pure era loro
incombenza, per portare a terra il capo di posta o provese, ossia il cavo d'attracco, ma ve lo
dovevano portare più velocemente a nuoto appunto i proeri, trainandolo con una sagola;
erano poi adibiti a vari servizi minuti, come per esempio tagliare giunchi e stuoie per farne
frettazzi da pulire la galera e ricavare filastica da vecchi canapi per farne moscelli, stroppi e
stoppacci (sp. estoperoles). Dipendevano questi ragazzi dal sotto-còmito e il loro posto era
quindi alla prua, cioè al piede del trinchetto, sul tamburetto davanti alle rembate e sullo
sperone; in combattimento dovevano probabilmente anche loro essere armati di balestre
come gli altri marinai. Prendevano uno scudo pontificio e mezzo di soldo mensile, mentre a
Napoli lo stesso stipendio dei predetti compagni, e una razione il giorno.
Il principale compito dei 16 compagni (lm. compagnones) o marinai di guardia era quello
d’assistere l’aguzzino nella sorveglianza della ciurma, il che avveniva soprattutto in porto
perché ovviamente in alto mare i galeotti non potevano fuggire, ma solo ammutinarsi, cosa
però molto più difficile e rara. Li sorvegliavano quindi di notte in galera e di giorno li
scortavano a terra, quando i branchi vi erano condotti a lavorare (da qui il loro nome di
compagni nel senso di ‘accompagnatori’) e bisognava pertanto che fossero uomini attenti,
coraggiosi e tali da infondere timore, in modo che i condannati e gli schiavi, portati magari
in un luogo solitario a faticare, non pensassero a rivoltarsi e li ammazzassero per fuggire:
... come avenne a quelli della galea Santa Lucia, prima che dalla Santità di Nostro Signore (il
Papa) ne fosse dato il governo a me, della quale alquanti branchi di schiavi e di quei galeotti
che si chiamano buonevoglie, essendo stati condotti a far legna in un bosco e
accorgendosi che i lor guardiani erano huomini vili, si sollevorono improvisamente contra
di loro e, ammazzato l'aguzino con tutti quelli che non si poterono salvar fuggendo con le
accette e con i zapponi che tenevano in mano per far legna, si sferrorono e rimisero in
libertà tanto gli schiavi quanto le buonevoglie. (P. Pantera. Cit.)
Abbiamo già spiegato che, nonostante fossero volontari, quando si vogava le buonevoglie
ponentine erano per forza di cose incatenati al banco come gli altri remieri e quindi anche la
permanenza a bordo della galera poteva diventare insopportabile anche per loro.
Naturalmente, in caso di galere volontarie, i compagni necessari potevano essere di minor
numero.
In caso di combattimento anche i compagni erano - almeno sino al tempo di Lepanto -
armati prima di balestre e in seguito di archibugi come gli altri marinai, come si legge nel
summenzionato Governo di galere, ed erano poi posti alle balestriere come soldati perché
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dessero il loro contributo bellico; in navigazione il loro posto era però normalmente alla
prora, dove servivano al trinchetto, ma ovviamente dovevano condividere anche le manovre
di maestra e gli altri servizi di bordo. La notte, quando non si navigava ed essi erano di
guardia alla ciurma, erano in corsia, dove si alternavano alle guardie o vigilie; nelle squadre
di galere della corona di Spagna e in quelle di Genova queste erano quattro: prima,
seconda, terza e diana e quest'ultima era la più faticosa perché durava sino allo spuntar del
giorno; comunque ogni guardia durava più o meno ore a seconda dell'uso nazionale e a
bordo dei grandi velieri il suo cambio era annunciato dalla campana di bordo, strumento
che anche serviva per chiamare l’equipaggio alla preghiera o ai pasti:
... E perché per l'hore giudicano i pilotti nostri il viaggio che fà il vascello e altro modo non
hanno da conoscere l'hore salvo il rologgio d'arena, che loro chiamano 'ampolletta'
(‘clessidra’), e le pallottole (‘pallottoliere’) con che il numero dell'ampollette segnano, quali i
maliziosissimi ed empij marinari, per presto uscire di guardia, ordinariamente rubbano e
falsificano voltandole e calcolandole prima che la rena finisca di trascorrere; (mentre) altri,
vinti dal sonno, doppo trascorsa, insieme seco dormire la lasciano, pendendo sopra le loro
spalle la perdita o salvazione d'una armata... (B. Crescenzio. Cit. L. III, p. 350.)
Dal trascorrere della rena nella clessidra è ovviamente derivato in italiano l'uso di questo
stesso verbo per indicare il passare del tempo in generale; gli orologi meccanici (fr.
montres) si useranno a bordo solo all’incirca dalla metà del Seicento.
Sulle galere fiorentine le guardie o vigilie erano tre di quattro ore ognuna e su quelle
veneziane, spiega il da Canal, erano sei, cioè tre notturne e tre diurne, in quanto, poiché i
buonavoglia non erano, come sappiamo, incatenati, bisognava ben sorvegliarli anche di
giorno perché non fuggissero; ma si trattava di guardie sicuramente meno rigide, visto che i
lagunari usavano tenere in galera solo otto compagni e i ponentini - allora - più di 12, come
ora vedremo. Sulle galere di ponente, se la guardia notturna doveva essere fatta in
navigazione, generalmente dei quattro compagni destinati a ogni guardia uno si poneva a
reggere il timone invece d’un timoniero, uno a coadiuvare il piloto nella rotta da tenere, uno
di vedetta sull'albero e uno scorreva la corsia avanti e indietro (C. da Canal. Cit.). Nella
marineria inglese e in quella reale di Francia si usavano guardie di quattr’ore ciascuna,
iniziando ordinariamente quelle notturne - ovviamente le più importanti - la prima alle 20, la
seconda a mezzanotte e la terza alle 4, mentre la marineria mercantile francese le poteva
usare di tre, di tre e mezza o anch’essa di quattr’ore, finendo però nel Seicento per
generalizzarsi quelle di tre; i turchi usavano guardie di cinque ore. Poiché la terminologia
marittima francese faceva precisamente corrispondere al mediterraneo garde l’oceanico
quart, si può pensare molto probabile che il primo di questi termini, germanico, sia null’altro
514
che una derivazione dal secondo, il quale derivava invece più direttamente dal dominante
latino dell’antichità.
Anche diversi erano i modi di calcolare l’inizio e il finire del giorno civile che usavano i vari
popoli; i naviganti ponentini li facevano andare da mezzanotte a mezzanotte, ma nel
Seicento i francesi adotteranno il modo degli astronomi, i quali li calcolavano invece da
mezzogiorno a mezzogiorno. Gl’italiani meridionali e orientali li consideravano da occaso a
occaso, per cui l’ultima ora, la ventiquattresima, detta ora dell’Ave Maria, era appunto quella
che includeva il tramonto, quindi al nostro mezzogiorno erano per loro le diciassette; ma
poiché naturalmente la durata del giorno varia costantemente durante l’anno, in teoria si
faceva partire l’ora prima venti minuti dopo il tramonto e quindi per esempio, in tempo
d’Equinozio, la nostra ora una era per loro le ore sette e mezza; in pratica la determinazione
dell’ora era alquanto soggettiva e molto poco precisa. I norimberghesi al contrario
computavano le 24 ore da aurora ad aurora, cioè come avevano fatto gli antichi babilonesi,
e lo stesso si faceva ad Algeri, dove il mezzogiorno era l’ora sesta, iniziandosi quindi colà il
computo delle ore col sorger del sole, il che coincide con l’ora canonica della Chiesa e ci
ricorda le origini semitiche di questa. I naviganti olandesi avevano un modo tutto
particolare di calcolare le ore; essi infatti dividevano il giorno in otto frazioni di tre ore
ciascuna nel modo che segue:
I compagni della squadra pontificia, alla quale tanto spesso si riferiva il Pantera, essendo
egli d’una di quelle galere il capitano, percepivano 2 scudi ecclesiastici mensili – 18 ducati
napoletani l’anno - e una razione giornaliera.
Il nome compagni era d’origine veneziana e infatti sulle galere ponentine, ancora alla metà
del Cinquecento, questi marinai di guardia erano ora chiamati invece nocchieri, come si
legge infatti nel trattato del da Canal, mentre abbiamo già visto che ancora un terzo
significato questo nome di nocchieri aveva avuto nel Trecento aragono-catalano:
... quelli huomini che noi 'compagni' e i ponentini 'nocchieri' sogliono addimandare, nel
numero de' quali parmi che per noi (veneziani) si pecchi molto, perché nostro costume è di
non ricever (‘riceverne’) più che otto e questi ai molti bisogni della galea non bastano; onde
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io direi che in ciò seguitassimo l'usanza de' ponentini e de' turchi, i quali, come in qualche
parte più cauti e più avveduti di noi, non ne tengono meno di 12 e molte volte insino a 16 ne
prendono. (Cit. P. 117-118.)
Invece furono poi, come abbiamo già visto, i ponentini a imitare i veneziani e a ridurre il
numero dei parte e mezza ad 8, ma comunque alla epoca del da Canal, tra parte e mezza,
compagni, timonieri e quattro proeri abbiamo dunque dai 30 ai 35 marinai sulle galere di
ponente, il che corrisponde abbastanza al numero di 29 dato invece per le galere turche alla
fine dello stesso secolo, galere che evidentemente non avevano invece imitato quelle
veneziane, come si legge nella relazione presentata dal bailo Giovanni Moro nel 1590, anche
se le proporzioni delle predette qualifiche differiscono alquanto:
... Per servizio di ogni galea (turca) sono nominatamente descritti (‘elencati in ruolo’) alcuni
officiali trattenuti per l'ordinario (‘in permanenza’), cioè còmito con aspri sette il giorno di
paga, patron con 6, sotto còmito con 5, come hanno anco gli altri sino al numero di nove,
che sono compagni, tutti tolti dall'ordine degli 'asapi' (‘marinaresca di galera’) o de'
bombardieri, valendosi per maestranze degli schiavi della professione. Quando si arma poi
il 'rais' ha cura di trovar venti marinari, per ognuno de' quali ha dal Gran Signor aspri 1.000
di donativo, oltra gli aspri quattro il giorno e il biscotto, come hanno i galeotti; ma per rubar
anco in questo, come fanno nel resto, ne hanno (di marinai) sempre molti di meno. (E.
Albéri. Cit. S. III, v. III, p. 354.)
I 20 predetti marinai sono confermati dalla relazione del Bailo Lorenzo Bernardo, letta due
anni più tardi di quella precedente del Moro, ma il Bernardo aggiunge interessanti
osservazioni sugli aspetti finanziari dello armamento d’uomini destinato a ogni galera turca
e sul relativo peculato commesso dai rais:
... Sopra ogni galea, oltre li sopradetti officiali, il 'rais' fa montare venti altri marinari sopra le
galee sottili e venticinque sopra una bastarda con donativo di ducati dieci (ciascuno) al
montar in galea e aspri tre al dì, onze venti di biscotto per testa il giorno, che dà il Gran
Signore, e medesimamente vengono ordinariamente pagati al 'rais' centoquarantuno uomo
per galea per il vogare con il medesimo donativo di ducati dieci all'entrar in galea, aspri tre
al dì di paga al turco e due al christiano, con le onze venti di biscotto per testa.
Il 'rais', cioè sopracòmito, ha di sua regalia la decima di tutti li donativi dei ducati dieci
per testa, che importa buona somma; avanza poi le paste e biscotto di molti marinari e
galeotti che sempre mancano e in molte altre maniere avanza e ruba al suo Signore...
Se la galea è armata per una guardia e che abbia da star fuora secondo la volontà del
Gran Signore, ogni anno dà esso il donativo alle ciurme e marinarezza; ma, se è armata per
andar a qualche fazione e tornare dopo tre, quattro o sei mesi, se ben fosse poi stata fuora
molto più non si ripete...
Li soldati poi che montano sopra le galee de' turchi sono o giannizzeri o 'spaì' pagati
ordinariamente dal Gran Signore e di questi ne mette ora più ed ora manco si come ricerca
l'occasione. (Ib. S. III, v. II, p. 344.)
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Della differenza tra galea sottile a galea bastarda abbiamo detto; considerando poi che,
come ci tramandano gli stessi baili veneziani, i turchi non usavano impiegare più di tre
vogatori per banco, i predetti 141 adibiti a ogni galera significano che questi vascelli erano
da 24 banchi per lato; infatti, detratto un banco sostituito dal solito fogone, i rimanenti 47 -
a tre uomini ciascuno - danno proprio il totale di 141. C'è anche da notare che la razione di
biscotto di 20 once corrispondeva quindi - se si considera l'oncia veneziana - a circa 580
grammi.
Usare per maestranze di bordo - personaggi di cui presto parleremo - gli schiavi della
professione significa che per i necessari mestieri di bordo (cuochi, carpentieri, ferrari,
calafati ecc.) erano utilizzati dai turchi schiavi cristiani già esperti di quelle arti; anzi nel
Seicento troveremo vascelli tondi turchi armati da guerra e con guarnizioni di soldati
ottomani, ma equipaggiati con marinaresca formata totalmente di schiavi cristiani.
Un brutto vizio dei capitani generali di mare della famiglia d'Oria e dei capitani di galera
genovesi in genere era quello di tener a bordo di solito - per la tipica e ben nota
‘parsimonia’ di quella nobilissima nazione - pochi scapoli, ossia marinai, non più di 10 o 15,
numero sufficiente alla manovra ordinaria, ma non a quella di combattimento; la prima
memoria di tale avarizia che si ritrova nelle antiche cronache e quella della battaglia
avvenuta la domenica 30 maggio 1379 nelle acque di Gaeta tra 10 galere genovesi e 14
veneziane. Oltre al maggior numero di vascelli i veneziani avevano a bordo anche maggior
numero di soldati e vinsero:
… le galee de’ viniziani per forza d’arme, però che avevano per ogni galea quaranta
combattitori con lance dapposta (‘da posta’, ‘da postazione’), chi dice fussino inghilesi e chi
dice fussono brettoni, ruppono l’armata de’ genovesi… (Cronaca pisana di Ranieri sardo. IN
A.S.I. Tomo VI, parte II. Firenze, 1845.)
Ancora questo fu il motivo per cui nel 1535, mentre Carlo V prendeva al Barbarossa La
Goletta (4 luglio) e Tunisi (2 agosto), città questa che nel 1270 era stata già conquistata dai
cristiani, ma allora guidati da un altro Carlo e cioè da quello che poi sarà il I d’Angiò, e ne
infeudava il precedente signore di quel paese Muley-Hassan, il signore d’Algeri riuscì a
sfuggirgli:
... e fuggono le occasioni di ritrovarsi nelle fazioni (‘combattimenti’) e dalla perdita delle
occasioni sono nati tanti danni e tante vergogne, come nella Corte (di Madrid) publicamente
si disse; tra le quali viene ricordata la vergogna al tempo che l'Imperadore (Carlo V) pigliò
Tunisi, che riuscì a Barbarossa di fuggire, il quale con quattordici galee osò affrontarne
ventisei del Principe d'Oria, che era andato alla bocca del porto perché egli non potesse
uscire, ma le sue galee non vollero combattere per non avere scappoli; e da cinque in sei
anni in qua diversi accidenti (si) sono incontrati di questa sorte. (E. Albéri. Cit. S. I, v. III, p.
288.)
517
Proprio per finanziare la predetta impresa di Tunisi e le altre contro gl’infedeli che
sarebbero venute, il papa Paolo III aveva concesso a quella corona la decima su tutti i
benefici ecclesiastici di Spagna, ricca concessione detta la Crociata; per poter quindi
ottenere quella così importante rendita, la Spagna dovette ricostituire le sue ormai
trascurate squadre fino a riportarle a quel potenziale di 100 galere imposto dalla relativa
bolla papale e, nel maggio del 1535 infatti l’imperatore, forte del predetto grosso contributo
finanziario, fece ammassare nel porto di Cagliari una grande armata di 91 galere, un numero
di fuste e bergantini e 202 velieri più altri vascelli di mercanti e venturieri, per un totale di
361 vele; in questo numero erano incluse 150 vele che portavano 10mila soldati e che erano
state raccolte a Málaga, tra le quali c’erano 80 navi grosse, inclusa una maggiore di ben 6
gabbie che chiamavano la Capitana, ma che sarebbe poi servita come nave-ospedale
dell’armata; inoltre 24 velieri portoghesi, di cui 2 galeoni grossi e il resto caravelle. Tra le
galere ce ne erano nove genovesi, le quali erano però state armate a spese dello Stato della
Chiesa e di cui il pontefice aveva fatto capitano Paolo Giustiniani e generale delle fanterie
Virginio Ursini; in tutto Carlo V portò a quella guerra, secondo il Buonfiglio Costanzo,
32.700 uomini - numero che però ci sembra un po’ eccessivo – e cioè 12mila fanti spagnoli
di nuova leva sotto il comando del conte di Tendilla, 5mila fanti spagnoli veterani
provenienti dall’Italia, 6mila fanti italiani, 7mila fanti tedeschi, infine 700 uomini d’arme e
2mila celate spagnole, essendo i primi cavalleria pesante e le seconde leggera. Arrivata il 17
giugno sulle coste della Barbaria, quest’armata prese dapprima Ustica, poi l’imperatore,
sostanzialmente non del tutto esperto di cose di guerra tranne forse per quanto riguardava
l’artiglieria, avendo ritardato troppo a iniziare a battere La Goletta con i cannoni d’assedio,
ne subì parecchie rovinose sortite che stavano mettendo a mal partito il suo esercito; ma
poi si rifece tanto terribilmente da costringere lo stesso corsaro Barbarossa a fuggire da
quella fortezza, come racconta il de’ Marchi che ne raccolse testimonianze dirette:
… l’horrenda e gran batteria che fece la maestà dell’imperatore Carlo V alla Goletta, che con
più di 130 pezzi la batteva per mare e per terra e fu tale che la terra tremava e l’acqua del
mare s’intorbidava e gli huomini che erano dentro s’assordivano per il gran strepito che
faceva l’artegliaria, del che fugirno parte de essi turchi e morri (‘mori’) che entro vi erano;
del che furono (‘essendo’) ripresi da Barbarossa, dicendo(g)li che per viltà erano fuggiti,
(g)li risposero certi capitani dicendo(g)li:
‘Ancora (‘anche’) tu sei fuggito e prima che te habbi (‘ti sia’) sentito urtare le mura addosso
né sentirti (‘o ti sia sentito’) tremare la terra sotto, come se fusse stato il terramotto; non
pareva batteria, ma pareva Volcano e Mongibello, quando mai più fa romore e getta li
grandissimi lampi di fuoco e povvere in aria così spessegiava(n) le poderose palle
dell’artegliarie del gran Carlo d’Austria, tuo e nostro nemico mortale’.
518
Queste parole sentì (‘io sentii’) refferire a molti e massime a schiavi cristiani che
parlavano la lingua turchesca e d’alcuni mori. (Francesco de’ Marchi, Architettura militare.
Roma, 1810.)
... al tempo della Prévesa, quando Andrea d'Oria, capitano generale dell'armata di Carlo
Quinto imperatore e della nostra e di quella del Pontefice, cercò di farci danno mettendo
l'armata nostra con tradimento in mano di essi turchi, lo che causò che la Repubblica
nostra, vedendosi esser aggabbata, cercò di far la pace con turchi con tanto nostro danno,
dandoli tanti danari e lasciando liberamente nelle mani loro la città di Napoli (di Romania,
nel Peloponneso) e l'isola e città di Malvasia, oltre tante isole che per causa di tal guerra si
persero nell'Arcipelago... (E. Albéri. Cit. S. III, v. III, p.159-160.)
… Non è dubbio che in questa giornata il principe non avesse perduta gran riputazione
dell’antico valore e a questa volta fu, come Cicerone disse di Pompejo, ‘nessun capitanio’…
e i veneziani entrarono in sospizione grande che quella ritirata del Doria non fosse stata
senza qualche gran trama… (Cit. P. II, l. III, p. 85.)
Quest’autore spiegava il comportamento rinunciatario del d’Oria con la diffidenza in lui nata
nei confronti dei veneziani, quando questi s’erano rifiutati di prendere a bordo delle loro
519
galere gli archibugieri spagnoli offerti dal genovese per sopperire alla loro carenza d’armati
e gli avevano così fatto credere di non voler veramente combattere; ma si tratta d’una
spiegazione poco credibile, viste le gravi perdite che Venezia subirà in quello scontro
subito affrontando coraggiosamente e quasi da sola il nemico. In sostanza era avvenuto
che il d’Oria, allora capitano generale della lega cristiana anti-ottomana stipulata l’8 febbraio
precedente tra Carlo V, Ferdinando suo fratello, Venezia e lo stato della Chiesa, pur
disponendo di un’armata formata da 134 galere, 60 grosse navi, un grande galeone
veneziano, vascello-ammiraglio dei vascelli tondi della Serenissima comandato da
Alessandro Bondumier, più altre vele minori per un totale di circa 300, 30mila fanti e 2mila
cavalli, ossia superiore a quella del Barbarossa e di Torgud, la quale consisteva in 87
galere, 30 galeotte e 50 tra fuste e bergantini, nel settembre, incontratosi col nemico tra la
Prévesa e S. Maura, dopo aver più volte sfidato il Barbarossa a battaglia, s’era poi
platealmente sottratto allo scontro, perdendovi così, oltre alla faccia, anche alcuni vascelli,
e inoltre, sempre platealmente, aveva omesso di portare soccorso all’armata veneziana di
Vincenzo Capello, la quale era stata duramente impegnata dal nemico, specie al galeone
predetto, il quale, pur assalito da forze soverchiantissime e colpito in ogni sua parte, si
difese tanto eroicamente da danneggiare seriamente diverse galere turche e da riuscire,
anche se molto mal ridotto, a tornare a Venezia; il Guazzo nella sua Cronica, laddove
descrive questa battaglia (descrizione che raccomandiamo a chi ne volesse ben conoscere
lo svolgimento), riporta anche un accurato e interessantissimo elenco dei danni ricevuti in
tale occasione da questo vascello. A dire del Guazzo - anche se di ciò non si trovano in
verità conferme in nessun’altra fonte - la natura vendicò però i veneziani, perché, ottenuta
quella vittoria e mentre faceva rotta verso la Valona, l’armata del Barbarossa fu sorpresa da
una terribile burrasca nella quale perse ben una settantina di vascelli e i superstiti ne
restarono molto danneggiati (cit.) La fortezza di S. Maura sarà poi rasa al suolo e
saccheggiata nel giugno del 1625 dalla squadra di Malta comandata da Pontalier Tallamey; i
cavalieri giovanniti, utilizzando 4 fregate, la sorprenderanno infatti con uno sbarco notturno
e ne trarranno 178 schiavi, molti dei quali ricchi mercanti e corsari. Il suddetto rinunciatario
comportamento del d’Oria si ripeterà l’anno seguente 1539 in occasione del suo mancato
soccorso a Castel Nuovo di Cáttaro in Dalmazia (tr. Nova), fortezza che era stata da poco
presa ai turchi dal capitano generale veneziano Vincenzo Capello ed era ora guardata da
3mila spagnoli colà inviati in punizione dalla Lombardia, perché vi si erano resi colpevoli
d’ammutinamento, per ordine del marchese del Vasto; comandava quella guarnigione il
valente governatore Sarmiento, il quale era il capo naturale di quei soldati in quanto sino
520
allora appunto era stato mastro di campo della fanteria spagnola nel ducato di Milano; il
castello fu attaccato dall’armata del Barbarossa e cadde senza che Andrea d’Oria, il quale si
trovava ancora in zona con le sue forze, facesse nulla per soccorrerlo; il Sarmiento cadde
con tanti dei suoi nel tentativo di difendere la breccia aperta dalla batteria dei turchi e si
racconta che il Barbarossa ne chiedesse la testa da inviare a Costantinopoli, secondo un
crudele uso dei generali ottomani per dimostrare al loro signore l’ottenuta vittoria, ma tanto
ingente e confuso era l’ammasso di soldati morti su quella breccia che non fu possibile
trovare il corpo del valoroso spagnolo. Questo strano modo di comportarsi del d’Oria
(ancore qu’il eust eu ces deux fois deux des belles armées qu’il avoit jamais euës, de
Bourdeilles) andava anche questa volta certamente da individuarsi nella suddetta e
inconfessabile taccagneria nazionale e inoltre nella volontà di voler risparmiare le proprie
galere, le quali erano da tutti gli armatori particolari genovesi considerate solo un buon
investimento e una sostanziosa fonte di reddito; ecco la conseguenza di non portare un
sufficiente numero di marinai e quindi di unirsi alle crociate contro i turchi più per
apparenza che per sentita partecipazione. Eppure erano passati solo sette anni da quando,
mandato da Carlo V a tentare Algeri, s’era comportato in quell’impresa addirittura
temerariamente, restandone infatti duramente sconfitto dal Barbarossa, il quale in tal
occasione gli uccise 1.400 uomini e gliene ridusse in schiavitù altri 600, non solo, ma poi si
mise a perseguitare il d’Oria per mare e ne pagarono le spese le coste italiane e provenzali
che in tal occasione vennero devastate da quel corsaro; ed erano trascorsi solo cinque anni
da quando aveva portato dalla lontana Genova un coraggioso e utile soccorso all’allora
imperiale Corone, città vicina a quella di Modone e che, presa con Patrasso dallo stesso
d’Oria in nome dell’imperatore l’anno precedente, cioè nell’autunno del 1532, approfittando
della circostanza che l’armata turca era già a svernare a Negroponto e l’esercito di terra del
sultano Sulaiman s’era ormai ritirato dal suo primo tentativo di prendere Vienna, era ora
assediata da 90 galere del sultano Sulaiman; il generale genovese aveva forzato il blocco
nemico con sole 26 galere e due grandi navi da carico piene di rifornimento per gli
assediati e così era riuscito a ritardare d’un anno la perdita di questa sua così recente
conquista, la quale infatti sarebbe poi ricaduta nelle mani di Sulaiman solo nel seguente
1534; ma quando aveva compiuto queste bell’imprese egli era ancora da poco passato con
le sue 12 galere dalla parte di Carlo V, avendo infatti ricevuto da questo la nomina a suo
capitano generale del mare il 12 settembre 1528 in rimpiazzo di Pedro Navarro, contratto
che gli avrebbe garantito, oltre a vantaggi e privilegi per la sua Genova, un compenso di
6mila ducati annui a galera e, alquanto più tardi, il titolo feudale di principe di Melfi nel
521
regno di Napoli; quindi il famoso capitano di condotta genovese aveva in quel tempo
evidentemente ritenuto di non poter già cominciare a risparmiarsi! Infatti nel 1532 il
residente veneziano Niccolò Tiepolo, di ritorno dalla Spagna, così leggerà nella sua
relazione a proposito delle spese militari che Carlo V doveva sostenere:
… Paga infine delle medesime entrate le quindici galere d’Andrea d’Oria, dandogli… ducati
seimila per galera… finché se gli provvederà d’uno stato promessogli nel regno di Napoli.
(E. Albéri. Cit. S. I, v. I, p. 44.)
Il compensare dei loro servigi i nobili genovesi con feudi meridionali era una comoda
soluzione adottata dalla Corona di Spagna e ne ebbero infatti, oltre ai d’Oria, i Grimaldi, i
Cattaneo e i Grillo, tre cognomi che infatti non a caso ancora oggi si trovano tra quelli della
buona borghesia napoletana.
L’unico a difendere il principe di Melfi fu Pierre de Bourdeilles, il quale nelle sue memorie
così scrisse:
Insomma è come dire che le cose non andarono così per suo demerito, ma per il grande
merito degli avversari che sfortunatamente si trovò a dover combattere; e questo è un
giudizio che può in parte corrispondere alla verità. C’era allora in Francia un’improbabile e
forse artificiosa diceria che voleva il Barbarossa essere un francese rinnegato:
… Se è vero che era stato francese, come ho detto altrove, (allora) ha fatto onore
all’aggettivo ‘francese’ e, se non lo è stato, è da lodarsi di dovunque egli fosse, poiché
spaventò non solo i cristiani, ma (anche) gli arabi e i mori, avendo fatta la guerra agli uni e
agli altri per mare e per terra e avendoli resi tributari… (Ib.)
Al dannosissimo vizio del risparmio a ogni costo che si coltivava sulle galere genovesi
accenna anche il Badoero laddove dice che al suo tempo, ma come del resto anche in
seguito, la maggior parte della marinaresca delle squadre di galere degli stati soggetti alla
Corona di Spagna era costituita da genovesi:
... Quasi tutta la marinarezza di tutte le galere è di genovesi, uomini diligenti e intendenti,
che, come è noto, in cento miglia di riviera altro mestiere non fa quella gente che navigare,
e sopra le loro particolari (‘private’) galere tengono ordinariamente pochissimo numero di
scapoli... (E. Albéri. Cit. S. I, v. III, p. 286.)
E infatti, riferendosi poi alla sola squadra di Spagna, aveva infatti già detto:
522
... Quasi tutti li marinari sono genovesi, siciliani e napoletani, perché li spagnuoli, da'
biscaglini e quelli d'Asturia in fuora, non s’intendono di marinarezza. (Ib. P. 261)
Qui il Badoero dava conto delle squadre di galere a disposizione di Filippo II, ma la
marinaresca genovese e italiana in genere era molto richiesta e utilizzata anche per
equipaggiare (ctm/sp. tripular, dal l. tribus, “popolo, gente”) vascelli tondi e latini, cioè
velieri grandi e piccoli, mediterranei od oceanici che fossero, e ciò anche per una questione
di numeri, nel senso che la scarsa popolazione della Spagna era drammaticamente
insufficiente a far fronte a tutti gli impegni civili e militari che la Corona andava assumendo
nel Vecchio e nel Nuovo Mondo. Una quarantina d’anni più tardi i marinai genovesi saranno
ancora in numero molto prevalente sulle galere di Spagna e lo scriverà Gioan Andrea
d’Oria, soprintendente generale dell’armata di mare spagnola, in una sua risposta al re di
Spagna Filippo II inviata da Aranjuez e datata 12 maggio 1594:
In altri tempi le galere di Spagna non solo venivano in Italia, ma vi restavano anni interi:
sarebbe meglio che, almeno a due a due, una buona banda di esse fosse là nello stesso
tempo in cui un’altra uguale di quelle d'Italia si trattenesse su queste coste, perché là
fornirebbero molte cose che sono migliori e più economiche che qui e la gente
s’impraticherebbe dei porti e delle coste di là, cosa che ritengo necessaria. Perché, anche
se i marinai che portano sono per la maggior parte genovesi, stare sempre qui fa loro
dimenticare ciò che sapevano e inoltre, così facendo, verrebbero a prestare servizio in
queste galere più volentieri di quanto non facciano ora. Concordo poi con Vostra Maestà su
quanto sia importante fare uomini di mare perché non ce ne sono e sono necessari…
(Solian las galeras de España en otros tiempos no solamente venir á Italia, pero estar allá
años enteros: convendria que á lo menos de dos en dos fuesen allá una buena banda dellas
en tiempo que otra igual de las de Italia estuviese en estas costas porque se proveerian allá
de muchas cosas que hay mejores y mas baratas que acá, y la gente se haria plática de los
puertos y costas de allá, cosa que tengo por necesaria. Porque aunque los marineros que
traen son la mayor parte ginoveses, el estar siempre por acá les hace olvidar lo que sabian,
y con hacerse esto , de mejor gana vendrian á servir en eslas galeras de lo que agora
hacen. Acuerdo á V. M. cuanto importa hacer hombres en la mar por que no los hay y son
menester. In Colección de documentos inéditos para la historia de España etc. Tomo II, pp.
172-173. Cit.)
Insomma, sulle galere di Spagna i marinai erano per la maggior parte genovesi, così come
si potevano trovare del resto molti genovesi, in questo caso rinnegati, anche nelle
marinarezze di quelle turco-barbaresche; quindi, se si parla di Mediterraneo, si può senza
dubbio affermare che il primato della competenza nella navigazione era ben condiviso tra
genovesi e veneziani; inoltre a Genova i competenti di galere erano infiniti:
… A Genova ci sono così tanti che prenderebbero galere in assiento che, anche se l’armata
di Vostra Maestà fosse in maggior numero, credo che le prenderebbero tutte [En Génova
hay tantos que tomarian galeras por asiento que aunque la armada de V. M. fuese de mayor
número, creo que las tomarian todas (Ib. P. 181)].
523
Ma, tornando ora al Badoero e all'insoddisfazione della Corte proprio nei confronti dei
generali e capitani di condotta di galere genovesi al suo servizio, il diplomatico veneziano
aggiungeva:
... Ed ho sentito a' principali Signori arditamente dire che Sua Maestà (Filippo II) dovrebbe
tramutare il governo delle galee da' genovesi in quello di suoi vassalli, perché a questi può
ella comandare e tagliar loro la testa ed (inoltre) quelli minacciano sempre che, se lei non
(li) vuole, serviranno la Francia; dal quale essempio si può vedere che la virtù disunita ha
poca forza. (Ib. P. 288.)
Un altro comportamento ambiguo dei d’Oria fu quello che tennero più tardi nella guerra di
Cipro e soprattutto a Lepanto, quando cioè Giovann’Andrea, il quale prima della battaglia si
era sempre implicitamente dimostrato non incline a cercarla, anzi sempre pronto al
disfattismo – comportamento già tenuto nel 1570 e, come si legge nell’opera di Guido
Alberto Quarti (La battaglia di Lepanto nei canti popolari dell'epoca, Milano, 1930),
denunziato dal generale veneziano Girolamo Zanne in alcune sue lettere al suo senato e da
Marc’Antonio Colonna in una sua relazione a Filippo II, poi durante la battaglia si dimostrò
chiaramente non disposto a rischiare le sue proprie 11 galere, preoccupazione
probabilmente condivisa anche dagli altri condotti di galera privati genovesi che lo
seguivano, e ciò nonostante Filippo II gli pagasse ben 10mila scudi annui per il servizio
militare d’ognuna d’esse, come risulta da un documento originale del 23 ottobre 1570 anche
questo ricordato dal Quarti; il d’Oria comunque ricambiava lo Zanne d’egual moneta
denunziando in una sua che le galee veneziane mancavano di circa un terzo della
necessaria ciurma e che, per quanto riguarda gli scapoli e i soldati, nessuna superava gli 80
uomini, carenza vera alla quale poi Giovanni d’Austria dovrà porre rimedio, convincendo il
Venerio ad accettare di prendere a bordo almeno tremila fanti ponentini, ripetendo pertanto
una trattativa già avvenuta tra Andrea d’Oria e i veneziani tanti anni prima alla Prévesa, così
come pure dovranno accettarne le predette galere venturiere di Savoia e della repubblica di
Genova, anch’esse arrivate a Messina mancanti d’un numero sufficiente d’armati; ma resta
certo che poi a Lepanto Gioan Andrea d’Oria, invece di gettare nella mischia il corno destro
da lui comandato, come avrebbe dovuto, e andare così in supporto della battaglia e del
corno sinistro già tanto duramente ingaggiati dal nemico, spaventato forse dal vedere
giungere addosso alle sue 54 galere le 93 galere e galeotte d’Uluch-Alì, le farà discostare
sensibilmente dal luogo dello scontro, dando così al predetto generale del corno sinistro
turco l’agio non solo di catturare la galera Capitana di Malta, la S.Giovanni, assalita da ben
sette nemiche, portandone a Costantinopoli lo stendardo in trofeo, maltrattarne molte altre
524
sia della destra cristiana sia della battaglia, ma anche di fuggirsene con cinque o sei delle
sue migliori galere, alle quali poi, approfittando appunto di quel varco offerto loro dal
d’Oria, se ne aggiungeranno molte altre dello stesso corno ormai sbandate così portando il
totale delle galere e galeotte turche salvatesi a Modone e a Lepanto a una quarantina, ma di
queste, come pare, una sola di fanale delle 40 che aveva l’armata turca, cioè quella dello
stesso Uluch-Alì, e una decina tanto malridotte da essere irrecuperabili; altrimenti il
successo della Lega a Lepanto sarebbe stato veramente totale, perché alla Sublime Porta
non sarebbe rimasto nemmeno quel capacissimo corsaro che era il rinnegato calabrese. Il
d’Oria sarà per questo suo comportamento molto criticato già dagli altri generali cristiani
partecipanti alla battaglia, come riferiva il Diedo:
… Qui molti molte cose hanno detto intorno alle operazioni dell’illustrissimo d’Oria: alcuni
ch’egli ha mancato all’ufficio suo e che per non essere conosciuto ha nascosto la sfera
celeste, la quale portava per gran fanò tra’ due piccioli, e che l’essere andato tanto lontano
dalla battaglia è stato cagione che molte delle nostre galee hanno ricevuto grave danno e
che ha (‘avrebbe’) potuto spingersi innanzi e affrontarsi con Ulucchi Ali, né però ha voluto
farlo perché ha avuto animo di salvarsi quando avesse veduto perdere i nostri ed hanno
insomma lasciato intendersi che il detto signor Gioan Andrea si era portato non altrimenti
che se avesse avuto intendimento con Ulucchi Alì, il quale, avendo lo istesso pensiero di
salvarsi, quando i suoi avessero perduto, come s’è veduto che ha fatto, è stato a vedere in
qual parte piegasse la vittoria non men che si abbia fatto esso illustrissimo d’Oria. Altri
poscia favellano in contrario, dicono che il signor Gioan Andrea ha sodisfatto ad ogni
officio suo e che per altro non ha rimosso la sfera che per serbarla, essendo quella dono
fattogli dalla moglie… e di giudicio essendosi allargato in mare per fuggir di essere
intorniato da loro (‘dai nemici’), com’egli sospettava che far volessero, come quelli che con
lor legni, per essere in maggior numero, teneano più largo spazio di mare che i nostri;
perciò che, quando avesse altrimenti fatto, assai maggior percossa venivano a ricever le
predette nostre galee… (Carlo Téoli. Cit. Pp. 34-35.)
Certo è che in guerra un saggio e prudente comportamento non può mai dar adito a tanti
dubbi e critiche da finire per sembrare vigliaccheria o addirittura collusione col nemico;
probabilmente quindi i genovesi, come al solito, sfuggirono lo scontro frontale non
sentendosi sufficientemente equipaggiati per la battaglia e ciò nonostante fossero stati,
come tutti in quell’armata, sottoposti alla supervisione d’un comando generale; infatti lo
stesso Girolamo Diedo, a proposito della fuga d’Uluch-Alì a Modone, dove poi si disse
falsamente che vi fosse arrivato gravemente ferito, così poi commentava:
… il che forse non avrebbe fatto se il signor Gioan Andrea attendeva a seguitarlo, come non
fece per non aver seco, per quanto dicono, quel numero di perfette galee che si
richiedevano in questo caso. (Ib. P. 37.)
525
… e don Gasparo d’Oria, da uomo coraggioso, proprio quando la battaglia (sulla sua galera)
era più accesa, pensò bene di fuggirsene con una barca che teneva legata alla poppa e si
rifugiò su una galera che gli stava dietro e che era di un suo fratello. (Cit.)
Un’osservazione poi che troviamo nella Cronaca del re Alfonso XI di Castiglia, già citata, ci
fa capire quanto fossero considerati interessati al denaro i genovesi anche nel Medioevo. Il
predetto re infatti, sconfitto il 5 aprile 1340 pesantemente per mare da preponderanti forze
del sultano del Marocco Abu l-Hasan, chiese, nel nome della Cristianità, un aiuto in galere al
Portogallo, al regno d’Aragona e anche al Comune di Genova, essendo questi ultimi uomini
che erano molto intendenti della guerra di mare e che avevano molte galere; si offrì però
anche di remunerarli molto bene:
… perché i genovesi hanno sempre avuto il costume di aiutare chi desse loro denaro e al di
là di questo non ha mai contato né cristianità né alcun altro valore… (Cap. CCXV, f. CIX
verso)
Genova gli inviò 15 galere sotto il comando dell’ammiraglio Egidio Boccanegra, fratello del
doge Simone, venendogli a costare ogni galera genovese, oltre a tutto il biscotto che
sarebbe stato necessario, 800 fiorini d’oro mensili e, quella dell’ammiraglio, 1.500. Due anni
dopo, all’assedio e blocco navale di Algeciras, città del sultanato moresco di Granada,
Alfonso dovrà ancora mettere in conto l’avarizia degli alleati genovesi, stavolta nel
preoccuparsi di ciò che i mori avrebbero potuto architettare per far entrare nel porto della
predetta città galere cariche di rifornimenti di soccorso:
… E, anche se ora i mori non s’azzardavano a entrare e a portarvi dette galere, avrebbero
potuto dar gran quantità di doppie (‘monete d’oro’) ad alcuni di quei genovesi che stavano
526
di guardia perché li lasciassero passare e mettere in città le galere cariche di viveri…. (ib. F.
181 verso).
Su quest’argomento della propensione genovese a evitare in mare gli scontri d’armata c’è
da fare comunque un’ulteriore osservazione e cioè che probabilmente l’aver preferito per
tutto il Medioevo le galere biremi, per la loro maggior maneggevolezza e velocità, alle più
lente e pesanti triremi, aveva abituato quei consumati navigatori –come anche i pisani - a
doverosamente sfuggire la battaglia con armate decisamente superiori, perché fatte in tutto
o quasi di triremi, com’erano quelle catalane e castigliane, e questa tendenza continuò,
come dire, ‘d’abbrivo’ anche nel Cinquecento sebbene anche le armate genovesi fossero
ormai in quel secolo formate di triremi.
In realtà erano gli stessi catalani ad ammettere la leggittimità di sottrarsi alla battaglia
quando il nemioco avesse forze indiscutibilmente superiori; ecco per esempio la più volte
citata ordinanza aragono-catalana del 1354:
… E’ pertanto cosa certa che due galee che vadano di conserva debbano sottrarsi a tre che
le incalzino […] E ugualmente sia da intendersi di tre galee contro quattro e di quattro
contro cinque e di cinque contro sette {Car certa cosa es, que dues Galées que vaien en
conserva, deuen escapar à tres quels encalçen [...] E axi mateix sia entés de tres Galés à
quatre, è de quatre à sinch, è de sinch à set. Cit. P. 91}
Interessante qui notare che, arrivatisi a disporre di cinque galee, non bastava più che il
nemico ne disponesse di una sola di più per sottrarsi legittimamente alla battaglia, ma
occorreva che ne avesse almeno due di più; e questo era logico, altrimenti anche grosse
armate si sarebbero magari potute correttamente non affrontare a causa di una sola galea di
differenza. Naturalmente questa regola aveva le sue eccezioni, per esempio se una delle
due galee in fuga fosse rimasta indietro e pertanto fosse stata impegnata dal nemico, l’altra
non poteva esimersi dal voltarsi e correre a portarle aiuto, salvo pesanti pene a carico del
capitano o del còmito che non l’avessero fatto.
Ma, per tornare ora a dire delle attitudini alla navigazione dei popoli del tempo, quali erano i
migliori marinai levantini? Ce lo tramanda il militare veronese Giovan Matteo Cigogna:
... Nell'essercizio navale e maneggio di mare adunque i greci, per l'antico uso e assiduo
navigare [...], non hanno paragone, percioché sono pazienti a tolerare fame, sete, fatiche e
altri incommodi e sono gente sagace, accorta, ingeniosa e presta; ma tra gli altri i ciprioti, i
candioti e i corfioti sono eccellentissimi; quei dal Zante e altre isole e terre circonvicine al
mare lodevolmente riescono... (Il primo libro del trattato militare di Giouan Mattheo Cigogna
Veronese etc. P. 66r. Venezia, 1567.)
... schiavoni, la natura de' quali è d'essere più atta a i remi e ad ogni altro laborioso servizio
di nave e galere, non solo a fatiche del mare, ma anco di terra, percioché sono di fortissima
natura e buona complessione; ma non bisogna che a loro manchi la vettovaglia. (Ib. P. 66v.)
E qui il Cigogna fa i nomi dei migliori e più noti navigatori levantini del suo tempo, cioè della
metà del Cinquecento; tra i greci, il defunto Manoli da Paris, il meraviglioso Vatica' di Cipro,
della cui esperienza egli ebbe esperienza diretta, e infine Giorgi Selvaggio; tra i veneziani
Paolo Terribile e aloigi Finardi, tra i dalmati Michele e Pietro da Lesina, Antonio Versaio e
Giovanni dalla Vrama (Questi tutti per padroni di navi e còmiti sono eccellentissimi, tanto
che la Schiavonia tutta illustrano. (Ib.)
Premesso che, per Schiavonia, i veneziani intendevano i territori aldiquà del Danubio e
invece i bizantini quelli aldilà (Suida, cit. T. III, p. 333), il predetto autore concede inoltre che
si trovassero buoni naviganti e marinai anche in paesi non soggetti alla Signoria di Venezia:
... Da Ragusi e Sio si cavano ancora ottimi naviganti, come per isperienza si vede. Gl’inglesi
sono buoni, i portughesi migliori e quelli di Marsiglia ottimi e rari... (Ib.)
… Questi marinari sono molto valorosi e arrischiati in ogni sorte di fortuna (‘tempesta di
mare’) e navigano di continuo per gran vento contrario che essi habbiano… (Cit. P. 282r.)
… gl’inglesi, per la moltitudine de’ porti e dell’isole, hanno una grandissima copia di navi e
di marinari e nel mare vagliono assai; possono fare ne’ bisogni da (‘circa’) cinquecento
navi, delle quali cento e più sono coperte, e molte per uso della guerra continuamente sono
servate in diversi luoghi… (E. Albèri. Cit. S. I, v. II, p. 253.)
Ed ecco un altro residente veneziano, questo restato anonimo, ma del tempo della regina
Mary (1553-1558), il quale considerava le virtù marittime principali in quei popoli:
… Ma ciò che loro è più proprio è d’attendere alle cose di mare, nelle quali fanno molto
profitto e n’escono meglio e più valorosi che in terra; il che, siccome è conosciuto da loro
così vi pongono ancora le maggiori forze che habbiano, con le quali accompagnando anco
l’ingegno e l’ardire, fanno mirabili prodezze secondo l’occasione, stimando poco la morte in
tutti i casi. (Ib. P. 388.)
Giovanni Michiel, altro residente veneziano in Inghilterra (1557), non riportava però esser
più al suo tempo molto efficienti, come lo erano invece stati nel passato, i vascelli
conservati dagli inglesi solo per gli impegni bellici:
528
… hora non se ne trovano in essere a fatica quaranta, che - o sia per negligenza o per
necessità per avanzar la spesa - parte sono stati venduti parte sono affatto innavigabili;
però questi pochi che restano, con quelli delli particolari sudditi delli quali il Re si serve in
ogni occasione come proprij, pagandoli come fa, (e), quando il bisogno stringe, anco delli
forastieri, non solamente suppliscono alla difesa, ma sariano in un bisogno considerabili
per l’offesa, perché è nome che se ne ritrovino sparsi in diversi porti dell’isola – tra grandi e
piccioli – e di tutte sorte, atti però a servire e andare contra il nemico, un numero così
grande che, se si unissero insieme, siccome potriano in tempo di bisogno ad un
comandamento del Re, facilmente si potria arrivare anco ad una quantità straordinaria di
molte centinara – e meglio di dugento, come dicono gl’inglesi… (Ib. P. 297.)
Inoltre i marinai inglesi erano poco pretenziosi, come farà capire più tardi - per sentito dire
da altri - il già ricordato Agostino Nani (1598):
… Dice che la regina (Elisabetta) potria mettere in mare (immediatamente) circa 150 vascelli,
che nell’espedizione dell’armata la regina sta presente alla rassegna de’ soldati e marinari,
a’ quali dà (solo) un vestito e uno scudo per ciascuno e il resto si paga nel ritorno col
ritratto delle prede. (Ib. S. I, v. V, 491.)
Alla fine del secolo il Crescenzio definirà i portoghesi principi della navigazione e ciò alla
luce delle loro grandi imprese transoceaniche; per quanto riguarda poi i francesi, bisogna
aggiungere che, oltre ai marsigliesi, apprezzati marinai dovevano già allora essere i bretoni,
anche se ne troviamo conferma solo a partire dal Settecento:
... Bretagne [...] en général le peuple de ce pays est bon marin, de sorte que cette province
fournit plus de matelots que toutes les autres de la France. Durant le siége de la Rochelle le
Roi tira d'un seul bourg quatorze cens matelots. (Alexandre de Savérien. Cit. P. 49.)
Si potevano poi, anche per il Cigogna, considerare ancora validi marinai, oltre ai veneziani,
anche altri italiani come genovesi e siciliani, ma era innegabile che, da quando erano state
scoperte le Americhe, si era determinata una sostanziale inferiorità delle attitudini marittime
degli italiani in genere a causa della pochissima pratica che avevano avuto occasione di
fare con l'oceano. Infine qualche parola del predetto veronese sugli ottomani:
... I turchi sono accortissimi e astuti sopra il mare; navigano con brutti vasselli mal forniti
d'artiglierie, ma combattono alla disperata; stanno nel mare - con le sue genti e ciurme -
nettissimi e mondi più che altri che i mari solchino. (G. M. Cigogna. Cit. P. 66v.)
1534 il bailo veneziano a Costantinopoli Daniello de' Ludovisi, la buona disciplina e perizia
nelle cose marittime nasce dalla gran pratica del commercio marittimo e non dai saltuari
episodi bellici:
... Ma i turchi non sono mercatanti ...] e se dalla Natolia, ovvero altri luoghi del Signor Turco,
escono fuste di corsari, quali in tal modo acquistano qualche perizia delle cose marittime,
niente di meno sono genti disordinate e confuse che, dal rubar oziosamente in poi, non
poteria un principe sopra esse far molto fondamento...
In quanto poi appartiene all'armar le galee, oltre li galeotti non hanno si può dire, alcun
marinaro od altri periti di milizia da mare e così dico di capi come di uffiziali inferiori. (E.
Albéri. Cit. S. III, v. I, p. 18.)
Lo scarso interesse che infatti i turchi avevano sempre sino allora dimostrato nelle cose di
mare aveva fatto sì che anche il loro valor militare si sviluppasse e dimostrasse
principalmente nella guerra terrestre; questo disinteresse comportava, tra l'altro, l'affidare il
comando delle loro armate generalmente a noti corsari e non a generali di carriera, come
invece facevano i cristiani, i cui generali di mare, pur praticando anche la guerra di corso,
non erano certo da considerarsi alla stregua dei corsari barbareschi, e a tali deleghe dette
inizio lo stesso sultano Sulaiman nel maggio del 1533, quando pose la sua armata di mare
sotto il comando del re di Algeri, cioè il famoso corsaro Barbarossa, il quale tanto lo aveva
voluto per poter fare l’impresa di Tunisi. Il corsaro, per ottenere questo, aveva dovuto
recarsi a chiederlo di persona a Costantinipoli; partì da Algeri il 17 agosto del 1533 con 18
vascelli tra cui 7 galere (la sua ‘capitana’ era una bastarda) e per il resto fuste e galeotte,
flottiglia che era posta sotto il comando del suo capitano generale Hay ed-din, detto
Cacciadiavoli (sp. Cacha Diablo), e del luogotenente di questi, cioè del già ricordato Khadim-
Hassan-Aga, detto dai cristiani Azanagà; durante il viaggio incontrò un’altra flottiglia di
corsari dell’isola di Gerba ((Los Gelves) di 15 vascelli, tra i quali una galea veneziana
catturata, e ne convinse il capitano ad unirsi a lui. Insieme aggredirono varie località
marittime italiane e la prima fu Rio Marina all’isola d’Elba, dove catturarono circa trecento
persone, trattandosi per la maggior parte di donne e bambini e di uomini solo 15, perché
tutti gli altri erano riusciti a fuggire senza preoccuparsi di restare magari a difendere le loro
famiglie, come a quei tempi crudeli purtroppo spesso nelle località marine s’usava. I corsari,
prima di andarsene, bruciarono l’intero paese e la sua chiesa. Incontrarono poi 12 navi
genovesi che andavano a sud caricare frumento, le combatterono e vinsero, catturandone 6,
le quali, portate all’Elba, furono depredate e bruciate; durante il combattimento il
Barbarossa, il quale voleva impadronirsi della galea veneziana catturata dall’altro corsaro,
ne fece uccidere il capitano con un colpo di scoppietto sparato da una delle sue fuste e poi
530
ne affidò il comando a uno dei suoi adalid (‘luogotenenti’). Comandò poi che ci si fermasse a
far acqua all’isola di Ponza; senonché un gruppo di pescatori, vedendoli arrivare, corse a
rifugiarsi in una torre costiera molto forte e da lì cominciò a bersagliare, con molto
successo, i vascelli nemci appunto con un passavolante di cui la torre era dotata; una palla
attraversò da prua a poppa tutta la galera bastarda di comando, passando tra lo stesso
Barbarossa e un suo garzone rinnegato addetto alla sua persona e provocando ai due un
terribile spavento che durò loro per tutto quel giorno (de lo cual quedaron tan espantados
que no se les quitó el miedo en todo aquel dia. In Colección de documentos inéditos para la
historia de España etc. e segg. Tomo II. P. 383. Cit.); ); non sembra dunque che il famoso
corsaro Barbarossa fosse un uomo particolamente coraggioso. Dopodiché 33 vascelli
corsari, a ciò convinti da quel solo passavolante, rinunziarono a far acqua a Ponza e
andarono a farla a Ventotene (‘Benteta’), isola però piccola e quindi scomoda da far
prendere acqua a una così numerosa squadra; scorserro poi la vicina piccola isola di Santo
Stefano, la quale allora si chiamava Isola di Madreventre, probabilmente perché rotonda
come il ventre di una donna gravida, e poi tornarono a Ventotene, dove però nel corso della
norre seguente i 15 vascelli dei corsari di Gerba si eclissarono e con loro anche uno dei
vascelli dello stesso Barbarossa, la cui ira fu però lenita dalla circostanza che con lui era
rimasta la galea veneziana, in quanto ormai governata da uomini suoi.Si spostarono ancora
a sud e, passati nei pressi dell’isola di Càmara (‘Levanzo’), si fermarono a far acqua a quella
di Favignana, dove, per non essere scoperti da Trapani, si ancorarono sulla costa
occidentale nei pressi di una fortificazione abbandonata e l’acqua da quel luogo era molto
lontana, per cui fecero la loro acquata con molto disagio. Questo è un altro particolare del
racconto che dimostra quanto lo scorrere il Mediterraneo non fosse poi per i corsari
barbareschi quella passeggiata che oggi si crede. Giunse poi il Barbarossa all’isola
Pantanalea (oggi ‘Pantelleria’), dal gra. παντανάλιος e παντανήλιος), cioè isola ‘senza sole,
buia, tetra’, che tale dové apparire a chi così la battezzo, e la razziò di tutto il suo bestiame e,
in un grande banchetto generale organizzato a terra, lo fece arrostire per dare carne fresca
da mangiare ai suoi uomini. Prima di arrivare a Negroponto i vascelli del Barbarossa
incontrarono un gruppo di fuste di corsari turchi minori e, come era prassi delle flottiglie dei
maggiori corsari barbareschi di quei tempi, alcun di quei vascelli furono presi per passare i
loro equipaggi a riempire i vuoti dei propri e poi, non essendo, così disarmati, d’alcuna
utilità al barbarossa, furono bruciati a evitare che cadessero magari in preda a nemici
cristiani. Un’altra fusta di corsari subirà poi la stessa sorte nella località costiera di Corìo
nel’isola di Negroponto.
531
… L'armata sua sarà mal armata, senza soldati della Porta (‘ottomani’), con pochi marinari e
li suoi (‘i barbareschi’) eziandio, per quanto s’intende, non molto valenti. (Ib. P. 20.)
Invece il Barbarossa con essa, ridotta infine a 83 vascelli, tra cui 7 erano galeoni e fuste e
per il resto galere, dopo aver evitato Messina, perché guardata da 500 spagnoli e da 300
siciliani, e dopo aver compiuto alcune devastazioni al Faro e sulla costa calabrese di fronte,
s’impadronì di Tlemcen, città situata ventuno leghe a occidente d’Orano e soggetta a una
signoria africana sua nemica, e poi prese anche Tunisi; ma bisogna dire che non sarà quella
una salda impresa tant'è vero che appena l'anno successivo gli algerini ne saranno
scacciati da Carlo V e dovranno ritirarsi a Bona; vero è che lo stesso Kheir Eddine si rifarà
nel 1536, quando cioè, dopo aver evitato la squadra guidata da Andrea d’Oria e da un certo
altro condotto genovese ricordato in quell’occasione semplicemente come il signor Adamo,
rientrerà ad Algeri e, approntata una squadra, la porterà a prendere e devastare Porto
Mahon a Minorca, città dalla quale porterà ben 800 abitanti schiavi ad Algeri. Sempre
secondo il de' Ludovisi, Sulaiman e Ibrahim Pasha, suo sadri-azem o vezir-azem, ossia
primo ministro, fatte delle tardive considerazioni, quasi si pentirono poi d’aver affidato tutta
la loro armata di mare al Barbarossa:
... Sono il Gran Signore e Ibrahim entrati in qualche pensiero che non sia stato ben fatto il
tanto fidarsi di Barbarossa, non rimanendo altra armata a Costantinopoli salvo che
tristissimi legni da potersene poco valere [...] Quelle veramente che si truovano
nell'arsenale sono trentanove corpi di galee grosse malissimo condizionate e si può dire
'alla matta' (‘prive di opere morte’), senza barche e alcun altro armeggio di qualunque sorte,
e venti 'fra legni sottili e bastarde medesimamente di mala condizione. (Ib. 19-20.)
Ecco di nuovo la suddetta distinzione tra galee sottili, bastarde e grosse, ma fatta ora in
epoca molto precedente a quella che abbiamo letto nella relazione del de’ Ludovisi, il che
significa che a Costantinopoli le galere bastarde si costruivano già allora; aggiunge poi il
de' Ludovisi qualche parola sul carattere del Barbarossa (Medelin c. 1476 - Costantinopoli
6.8.1548), nuovo kapudan pasha, vale a dire capitano generale dell'armata marittima,
succeduto in questo incarico al sangiacco di Gallipoli:
532
... Il detto Barbarossa […], essendomi io con lui ritrovato, mi è parso molto altiero e
superbo. É di età di cinquanta e più anni. Ha con sé un fratello del re di Tunisi (Al-Rascid),
che tiene per servirsene in alcuna occasione a voltar quel regno, e ha ancora Cacciadiavoli,
corsaro turco. (Ib. P. 20.)
Le suddette considerazioni del de' Ludovisi verranno sostanzialmente confermate nel 1554
dal bailo Domenico Trevisano, laddove afferma che il sultano, pur trovandosi gran
disponibilità di materiali e galeotti, non era mai stato in grado sino allora di far uscire in
mare grosse armate:
... e ciò per la non grande abondanzia di persone pratiche del mare. E dico con mio dolore
che, se non fossero li greci e sudditi della Serenità Vostra che vanno di propria volontà al
servizio del Turco nelle galee per scapoli e galeotti, non si trovariano nelle armate di quella
maestà, si come si trovano in quelle della Serenità Vostra, galee bene o almeno
mediocremente condotte [...] Ma costoro, tatti dall'utile della paga straordinaria che toccano
in contanti di aspri settecento e alcuni novecento e anco della paga ordinaria, essendo in
tutto essa paga ordinaria maggior di quella che Vostra Serenità dà alli suoi galeotti,
lasciano le proprie case e vanno in Costantinopoli per tal servizio; e il medesimo anco
fanno molti che vanno per marinari con gli navigli, abbandonando poi li loro padroni, e molti
anco che sono banditi, non potendo stare in casa, provvedono per tal mezzo a lo loro
vivere. (Ib. P. 147.)
E a questo punto il Trevisano da al suo doge dei suggerimenti sul modo d’evitare che i
marittimi della Serenissima, approfittando degli scali a Costantinopoli, abbandonassero le
loro navi per passare al molto più remunerativo servizio turco:
... per le navi che vanno al viaggio di Costantinopoli, direi anco che fosse bene che a questo
viaggio non potesse andare sopra alcuna nave né naviglio alcuno garzone di meno di sedici
anni, perché vanno con molto pericolo di farsi turchi, si come è intervenuto in mio tempo ad
alcuni che sono stati disviati e fatti turchi... (Ib. P. 148.)
E pure si doveva cercare d’evitare - cosa che solo verso la fine del secolo sarà, come
abbiamo visto, decisa dalla repubblica - la pena del bando, allora molto comune specie per i
rei giudicati in contumacia:
... perché, senza dubio alcuno, la pena del bando è la certa e principal causa che molti non
solamente vanno ad abitare in Costantinopoli, ma vanno alli servizij del Turco, con danno
delle cose di Vostra Serenità... (Ib.)
Ma nei commenti del Trevisano s’intravedono già i segni della necessità di cambiamento di
valutazione della qualità della marinaresca turca e infatti pochi anni dopo, cioè nel 1560, il
bailo Marino Cavalli leggerà in senato che le galere turche erano ormai diventate buoni e
temibili vascelli:
533
... Il Turco può mettere insieme centocinquanta galee, per quel che ho veduto io, e sono
assai migliori che non solevano, perché ha uomini essercitati con l'armar che fa così
spesso e perché li corpi delle galee son fatti di miglior sesto che prima, pigliando la forma
delle galee ponentine che han preso. (Ib.)
E, non ostante fossero per lo più tenute d'inverno esposte all'intemperie e non al chiuso dei
volti, come allora si chiamavano i capannoni a volta (l. testudines, camerae,
loca camerata, ‘tetti a volta’) degli arsenali, le galere turche erano molto manutenzionate,
tanto da durare molto di più di quanto duravano quelle cristiane:
... Le galee durano diciotto o venti anni al Gran Signore e le tengono per lo più in acqua allo
scoperto, che è cosa miserabile. Questo procede da ciò che ogni sovracòmito
(‘comandante, capitano’), che loro chiamano 'reis', ha per consegnata la sua galea ed ha
carico di disarmare, di governar li remi e di tutto quello che accade vicino al corpo della
galea nell'arsenale, il che tutto fà assettare alli galeotti prima che partano (‘siano
congedati’); e, durando tanto il suo essere sopracòmito quanto la galea, è forzato avergli
estrema diligenza, tenendola in piedi e navigabile più che può, perché ad averne una nuova
gli costaria più di ottocento ducati di donativi (‘bustarelle’) a diversi. (Ib. 292.)
... Gli uomini delle galee sono il sopracòmito, detto 'reis', il còmito, sottocòmito, parone e
quattro altri uomini da aspri quaranta al dì, ma tutti senza biscotto; poi venticinque inferiori
per la navigazione e il veleggiare, che toccano aspri quattro al dì, il pane e aspri settecento
per una fiata (cioè come ingaggio). Vi sono ancora centoquarantotto uomini di remo con il
pane e aspri ottocento per una fiata e, quando bisogna, altri scapoli che vivono alle taverne
(cioè comprandosi il vitto alla taverna di bordo) e sono christiani, candiotti per il più, delli
quali, se vi fosse buon ordine - e di ottimi arcieri ancora - Vostra Serenità si poteria
benissimo servire levandoli ai turchi e facendo abondanza a sé, 'sì che non le bisognaria
pagar gli schiavoni con otto paghe avanti tratto (‘anticipatamente’). Vi sono due soli
bombardieri e quaranta giannizzeri, ovvero sessanta 'spaì', ma vagliono più li quaranta che
li sessanta. (Ib. 293.)
Perché allora avevamo 148 vogatori e alla fine del secolo, come abbiamo già appreso dalla
relazione del Bernardo, n’avremo solo 141? Doveva quindi trattarsi di galere da 25 banchi
per lato - detratto il solito sostituito dal fogone - e con tre vogatori per remo, il che darebbe
un totale di 147; evidentemente era ammesso un remiero di riserva per ogni galera. Alla
differenza di valore tra soldati giannizzeri e soldati spaì torneremo a suo luogo; certo è che
nel giudizio degli esperti militari cristiani del tempo gli unici soldati ottomani di valore erano
appunto i giannizzeri e i rinnegati, praticamente quelli nati cristiani nei territori una volta
costituenti l’impero bizantino. Innegabile e notoria era comunque l’ottima disciplina militare
dei turchi, la quale si poteva costatare quindi anche nella milizia marittima:
534
... Li turchi non giuocano né bestemmiano né s’imbriacano in galea. Hanno alquanti buoni
marinari e dietro quelli vanno gli altri e questi bastano. Hanno dieci overo quindici capi
bravi, come Curtogli, Caramustafà, Deliafer, Carabrucchi, ma de' corsari non si fidano molto
e si servono d'essi come li medici di cose velenose, cioè in poca quantità, e accompagnati
con tutto il resto dell'armata. (Ib. pp. 294-295.)
Sul grande servizio che però i vascelli barbareschi rendevano all'armata ottomana così
s’esprimeva il bailo Antonio Barbarigo nel 1558:
... Con questa armata sempre si accompagnano quaranta e cinquanta fuste di corsari, le
quali precedono sempre per cinquanta o sessanta miglia detta armata e le servono per
un’antiguardia, perché queste stanno in continuo moto, vanno e vengono e sempre portano
avviso dell'inimico e vanno depredando tutte le isole e luoghi di marina e quanti navilij li
capitano nelle mani, dalli uomini de' quali intendono quello che fà il nemico e subito né
danno all'armata avviso; talché si può dire che questa sorte di legni sia la salute propria di
tutta l'armata, oltre che da questi ne cavano non picciola utilità rispetto alla parte de' bottini
che danno al Capitano di detta armata. (Ib. S. III, v. III, p. 153.)
Nel 1562 il già citato Marc'Antonio Donini confermava una raggiunta efficienza dell'armata
di mare ottomana, dovuta però soprattutto al personale cristiano che le costruiva le galere e
che su d’esse navigava:
... Può armare il serenissimo Gran Signore intorno a 170 buonissime galee per il viaggio
lungo e sino a 200 per viaggio corto, oltra li 'leventi', che sono anch'essi in molto numero. Li
corpi (‘scafi non corredati’) delle galee che da certo tempo in qua sono state fatte
nell'arsenale di Costantinopoli (quello di Pera) da maestri christiani, delli quali parecchi ne
sono sudditi di Vostra Serenità e di altri luoghi di quelle parti, pure cristiani, 'che i turchi
non sanno far cosa alcuna di queste che sia buona, prometto (‘assicuro’) a Vostra Serenità
che sono (così) belli, così buoni, così bene intesi e così presti al remo, alla vela e al timone
ch'è una maraviglia; oltre che portano buonissimi alberi, antenne, sarte, remi e ferri, il che
non faceano gli anni passati, più presto per negligenza di chi n’aveva la cura che per
mancamento di materia, della quale n'hanno ora maggior copia che prima, se bene in
diverse parti, tanto che, per ogni poco che un albero o un’antenna si sia risentita, la mutano
subito che si avvedono del bisogno e specialmente quando hanno da uscir fuora. (Ib. Pp.
191-192.)
Dopo aver elogiato il valore dei summenzionati rais, il Donini insiste però sul determinante
apporto della marinaresca cristiana alla marineria da guerra ottomana, specie di quei greci
dell'Arcipelago sudditi di Venezia:
... Possono parimente esser chiamati pratici e bene intelligenti gli uomini da comando, delli
quali molti ne sono sudditi di Vostra Serenità, che, essendo stati discepoli nelle galee di Lei
di buonissimi e valentissimi uomini di questa professione, si ritrovano ora maestri d'altri in
quelle parti; alcuni delli quali si sono fatti turchi per diversi accidenti che gli sono occorsi e
alcuni altri servono in quell'arsenal sendo christiani, parte per esser banditi dall'isole di
Vostra Serenità e parte per il grosso pagamento che gli vien dato; il qual è anche cagione
535
che i turchi non hanno ora quella fatica che avevano già alcuni anni per ritrovar molta gente
da comando, imperocché un fratello delli sopra detti chiama l'altro e così li parenti e gli
amici; e li chiamati vi vengono prontamente, senza aspettar troppe repliche, o cacciati dalla
fame o per guadagnare in quattro mesi quel tanto che fanno in un intero anno nelle galee di
Vostra Serenità. (Ib. 192.)
Una dettagliata consistenza delle forze di mare ottomane di questo periodo si ritrova nella
relazione letta in Senato nel 1564 dal bailo Daniele Barbarigo, il quale, dichiarandosi tuttavia
poco intendente delle cose di stato turche, si astiene dal commentarne la qualità:
... Ha poi Sua Maestà (‘il sultano’) per le cose di mare in Barberia legni armati settantasette,
oltra dieci che sono in golfo (‘nell'Adriatico’) e in altri luoghi, che vanno rubando (‘in
corso’); delli quali settantasette ne sono in Tripoli galee tredici e galeotte otto, in Algeri e
Bona cinquantasei. Nell'arsenale di Costantinopoli [...] si trovano in terra galee novantadue
e in acqua settantuna e quattro galeotte e dieci maone. Ne sono poi fuora in Alessandria
galee sei, a Rodi dieci, a Metelino due, a Negroponto una [...] e, come fanno grande armata,
lasciano alla guardia dell'Arcipelago venti galee, le più triste. (Ib. S. III, v. II, p. 34.)
Il bailo Jacopo Ragazzoni ci da invece la predetta consistenza al 1571, ossia agli albori della
battaglia di Lepanto, consistenza dalla quale già si evince la grande importanza che aveva
in quell'armata lo stuolo di galere del rinnegato calabrese Uluch-Alì e dei capi-corsari suoi
compagni, non a caso l'unico che riuscirà a salvarsi da quella catastrofe bellica:
... In quanto poi alle forze di mare, si trova al presente il Signor Turco il numero di
duecentodue galee armate, computate 'fra esse quindici in venti galeotte. Oltre le quali vi è
Occhiali corsaro con venti 'fra galee e galeotte e molti altri corsari, de' quali non si può ben
sapere il particolare; i quali corsari tutti sono obligati di servir sempre in occasione che il
Gran Signore armi. A Costantinopoli restorno al partir mio quindici sole galee in arsenale,
per il più innavigabili. (Ib. P. 100.)
comandante dei 200 spagnoli (secondo altri solo 150) che difendevano il Peñon (‘la Rupe’,
in sp.) del porto d’Algeri, forte preso il 6 maggio di quell’anno, dopo 15 giorni di batteria e
21 d’assedio complessivi, appunto da Kheir-ed-Din, il quale disponeva di 1.200 uomini
imbarcati su 12 galeotte da 18 banchi e 2 da 22, più naviglio minore; poiché il supplizio del
Bragadino è tristemente noto, riportiamo qui di seguito, come narrato dal de Haedo, quello
subito appunto dal Vargas, ormai prigioniero, verso la fine dell’agosto seguente, dopo che
per ironia della sorte, nonostante i maltrattamenti e i consueti tre piccoli pani quotidiani con
cui erano unicamente alimentati dai barbareschi gli schiavi cristiani, era riuscito a guarire
dalla grave ferita riportata nell’assalto finale:
… Dei turchi s’impadronirono allora di Vargas, lo distesero al suolo e uno di loro si sedette
sulla sua testa, un altro sulle sue gambe secondo l’uso; poi con delle grosse corde di
canapa gli somministrarono dei colpi così forti e così numerosi che la fatica li prese e altri
dovettero dar loro il cambio; gli frantumarono così inumanamente le ossa e le viscere da
ucciderlo sul posto. Martin de Vargas, per quanto si poteva giudicare, doveva avere una
cinquantina d’anni, egli era di media statura, la sua barba nera presentava qualche pelo
bianco, la sua carnagione era piuttosto bianca che bruna… Appena che fu spirato,
Barbarossa, il quale aveva assistito a tutto il supplizio, fece togliere il cadavere e i turchi lo
portarono nel cortile per poi gettarlo a mare… (D. de Haedo. Cit.)
L’inumazione dei morti cristiani sarà infatti consentita ad Algeri solo a partire dalla
reggenza del già ricordato Hassan Pachà, figlio di Kheir-ed-Din Barbarossa, il quale
acconsentirà alla fondazione di poverissimi cimiteri per cristiani fuori dalle porte di Bab-el-
Ued e di Bab-Azun sulla riva del mare. Tornato el Peñon finalmente in mano degli algerini, il
Barbarossa lo fece unire alla terra ferma con la costruzione d’un molo fatto con i rottami
ricavati dalla demolizione del forte spagnolo, molo che più tardi Salah Raïs (1551-1556)
riparerà e ingrandirà utilizzando materiali tratti dalle rovine archeologiche dell’antica città
romana di Rusgunium; ma, tornando ora allo strazio del Bragadino, aggiungeremo ora
qualcosa a quanto comunemente se ne sa e cioè che il montenegrino vizir Lala Mustafà
conquistatore di Cipro, il quale era proprio colui che aveva ordinato di far tale scempio del
disgraziato governatore veneziano, trovandosi in seguito a parlare con ambasciatori
cristiani, si scuserà più volte pubblicamente di quell’atroce episodio, adducendo che, se
aveva violata la fede data ai difensori di Famagosta e aveva poi usato infinite crudeltà
contro i governatori e i soldati di quell'eroica piazza, lo aveva fatto perché tale era stata la
volontà del sultano Selim II. Ancora nel 1573, come testimonia il bailo Costantino Garzoni,
la pelle del povero Bragadino era tenuta in aperta e lugubre mostra nell'arsenale di Peràia;
forse proprio in quell’anno, a seguito della pace sottoscritta nel marzo con i turchi, i
veneziani avranno ottenuto che venisse sottratta a quell’impietosa e insolente esposizione
537
e venisse a loro consegnata, perché infatti si troverà poi sepolta in un’urna di marmo nella
chiesa dei SS. Giovanni e Paolo di Venezia. Una lettera del Bragadino, da lui inviata il 1°
marzo 1561 da Costantinopoli, dove probabilmente si trovava in missione, al senato
veneziano e ad altri principali principi cristiani, fu pubblicata a stampa a Lione in quello
stesso anno; con essa egli voleva mettere in luce che la Gran Porta stava attraversando un
momento politico molto preoccupante, essendo quell’impero allora minacciato da tutti i lati
da nemici potenti e agguerriti; tale missiva è interessante perché testimonia del carattere
del Bragadino, certamente ottimo e valoroso soldato, ma osservatore politico poco acuto e
alquanto fantasioso (Marco Bragadino, Lettre envoyée de Constantinople à la tresillustre
seigneurie de Venise et à plusieurs autres seigneurs et princes chrestiens etc. Lione, 1561.
B.N.P.)
In disaccordo con i relatori suoi predecessori, il succitato bailo Ragazzoni non credeva in
un’ormai raggiunta efficienza delle galere turche e il suo giudizio sostanzialmente negativo,
espresso poco prima della battaglia di Lepanto, sembra presagire la grande disfatta
marittima dell'impero ottomano:
... Di sartiami vanno (quelle galere) non molto ben provviste, non perché manchi lor modo di
averne a bastanza, ma perciocché non hanno ancora fondato ordine sopra questa milizia di
mare; il che quando facessero, ponendo nelle cose di mare quel pensiero e quella diligenza
che pongono nelle cose da terra, sarebbe da temere che non accrescessero anco in questa
parte grandemente le forze loro, non mancando loro la commodità delle cose necessarie
per fabricar maggior quantità di galee e fornirle, potendo con la forza del denaro supplire a
quelle cose, nelle quali avessero qualche difficoltà. (E. Albéri. Cit. S. III, v. II, pp. 100-101.)
… E tanto più minutamente e bene saranno i fatti seguenti descritti quanto per la lor
descrizione non ho havuto bisogno della relazione di alcuno, poi che il tutto con l’intervento
e presenza mia essendo passato, non ho lasciato cosa alcuna ad essi appartenente che
diligentemente non habbia notato. (B. Sereno. Cit. P. 75.)
Il Sereno, il quale poi nel 1576 si farà monaco cassinense, ebbe molte informazioni di prima
mano anche per quanto riguarda l’armata ottomana e infatti così scriveva in un suo altro
manoscritto autografo:
… Né paia strano a chi legge che de’ fatti e consigli (‘propositi’) de’ turchi habbia potuto
minutamente scrivere il vero, poi che da Mahemette Bei, sangiacco di Negroponto, vecchio
e prudente consigliero, e dal secretario generale della stessa armata nemica, che nelle
nostre mani sono stati lungamente prigioni, ho di tutto havuto pieno ragguaglio. (Ib.
Prologo, p. XL.)
Persa dunque a Lepanto dal sultano Selim II la maggior parte delle sue galere, egli tentò
pertanto di ridotarsi d’una consistente armata di mare nel più breve tempo possibile e il
conseguente affrettarsi dei lavori negli arsenali di Costantinopoli, del Mar Maggiore e
dell'Ellesponto sarà molto più tardi ancora portato per esempio dal Pantera:
... Et a i tempi nostri si è veduto Selim Gran Turco, dopo' la rotta havuta nel golfo di Lepanto
l'anno 1571, in cinque mesi d'inverno fabricar tante galee che l'anno seguente mandò contra
i christiani (e) sotto il governo d'Uluzzalì (‘Uluch-Alì’) una più numerosa armata che quella
dell'anno antecedente, havendo messo in acqua centotrentadue galee e dodici maone. (P.
Pantera. Cit. P. 60.)
Ciò nonostante si può dire che la rotta di Lepanto riportò la marina da guerra turca
all'inefficienza che aveva patito nella prima metà del secolo e ne da testimonianza il bailo
Marc'Antonio Barbaro nel 1573; egli scriveva che nell'arsenale turco esistevano ora circa
286 galere e 14 maone, oltre a molte palandre, ossia palandarie, quindi passacavalli, un
numero enorme che il sultano avrebbe, se avesse voluto, accrescere ancora di molto per la
grande abbondanza dei legnami da costruzione navale (gr. νήïα; ὓλη) che gli venivano dalle
coste del Mar Maggiore (‘Mar Nero’):
539
... E si è veduto che, quando gli fu data la gran rotta (a Lepanto), in sei mesi rifabricò cento
venti galee, oltre quelle che si trovavano in essere, cosa che, essendo preveduta e scritta
da me, fu giudicata piuttosto impossibile che creduta anco da poi che dette nuove galee
furono armate. Ma, così come non possono mancare a' turchi corpi di galee, così di
marinari, officiali, bombardieri e simil gente di professione da mare n'hanno mancamento
grande, poiché la rotta che dette loro Vostra Serenità (veramente non solo lui) privò quasi
affatto quell'impero della milizia marittima, la quale non si può così facilmente rimettere
come quella di terra, essendo che quella ha bisogno di più tempo e maggiore esperienza e
che generalmente i turchi a questo essercizio sono mal atti [...] Onde poco si deve stimare il
numero delle loro galee, potendo essere cagione più di confusione che di benefizio,
massimamente ora che, per la grazia del Signore Iddio, non solo è levata a' turchi quella
superba impressione che christiani non ardirebbero affrontarli, ma che per lo contrario gli
animi loro sono talmente oppressi dal timore che non ardiscono affrontarsi con i nostri,
confessando essi medesimi che le loro galee sono in tutte le parti inferiori alla bontà delle
nostre, così di gente più atta al combattere come dell'artiglieria, galeotti e di tutte le altre
cose pertinenti alla navigazione. E veramente è così e noi non ardiremmo mandar sino
(‘persino’) in Istria quelli vascelli così mal condizionati ch'essi mandano in parti le più
lontane e alle maggiori fazioni. (S. III, v. I, p. 306-307.)
… Nell'armate hanno una sorte di gente che chiamano asappi, de' quali ne pongono al
numero di venti per galea , e servono per peoti, timonieri, maestranza, patroni e comiti e
questi per il più sono intrattenuti da continova paga; oltre de questi per huomini di spada
pongono quanti giannizzeri e spahì che gli pare secondo le occorrenze. Gli anni passti,
oltre queste, genti fecero venir fino dagli estremi confini di Perſia una nazione chiamata
chiurdi (‘curdi’), delli quali si fervirono all'armata per huomini di spada, ma si come questi
sono stimati ferocissimi in terra così non riescono in mare. De gl'huomini da remo ne hanno
mancamento, con tutto che il loro imperio sia così grande e i loro commandamenti esseguiti
con grandissima diligenza e severità, non havendo rispetto ad alcuno de' suoi sudditi per
queste così grandi e continue armate,di che tutto il suo paese estremamenre si lamenta,
poiché pochi di quelli che vanno a seruire ritornano alle loro case, essendo quella gente
mal atta al mare, molto maltrattata, e la maggior parte si muore; e quel che più importa è
che, convenendo, ogni volta che armano, far provisione d'huomini, le loro galee sono
armate di gente nuoua, inesperta e poco atta a patire il mare, d'onde procedono le malattie
che li distruggono. È anco questa gente abietta e vile per essere tenuta in gran servitù. Però
(perciò) di pochissima considerazione possono essere le galee armate di questa gente,
onde poco anche si deve stimare il numero di esse, massime hora che, per la grazia di Dio,
non solo è levata a’ turchi quella superba impressione che i christiani non ardirebbono
attaccarli, ma il contrario, gl'animi loro oppressi dal timore che non ardissono affrontarsi
con li nostri, confessando essi medesimi che, se loro galee sono in tutte le parti inferiori
alla bontà delle nostre così (‘come’) di gente più atta a combattere, come di artigliaria ed
altre cose pertinenti alla nauigazione - e veramente non ardiremmo mandare infino in Instria
(antico nome dell’Istria) quelli vascelli mal condizionati ch'essi (invece) mandano a tutte le
più lontane e maggiori fattioni, talmente che in tutta l'armata, benche numerosa, non vi
sono cinquanta buone galee atte a far fattione, le quali, essendo in gran parte armate de gli
schiavi proprij de’ rais e capitani, tenendoli per fondamento delle loro ricchezze, non gli
vogliono perciò arrisigare (‘arrischiare’); l'altro (motivo) è che essi si ritirano tanto più dal
combattere quanto che conoscono il pericolo grande che soprastà per il timore che hanno
delle sollevazioni de i loro proprij schiavi (Tesoro politico ecc. Cit. T. I, pp. 565-567).
Secondo il Barbaro non c'erano allora in tutta l'armata turca nemmeno 10 galere atte a
combattere e, d'altra parte, essendo le galere turche in gran parte equipaggiate con gli
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schiavi degli stessi rais, cioè appartenenti agli stessi capitani di galera, questi non avevano
ora alcuna intenzione di rischiare in battaglia tal loro capitale umano, capitale redditizio in
quanto il sultano ben pagava ai raís il servizio di voga prestato dai loro schiavi, e inoltre
temevano che in guerra questi schiavi, per paura d’affondare con i loro vascelli come era
accaduto a migliaia di loro appunto a Lepanto, si sollevassero contro di loro; dunque la
potenza marittima ottomana era ormai inesistente:
... Concluder dunque si può esser le forze loro marittime, benché in apparenza grandissime,
niente di meno molto deboli; la qual cosa si può comprobare non solo per le cose ora dette
e per la propria loro confessione, ma con l'esperienza ancora che si è veduta ed osservata
tante volte che non hanno i turchi vinto mai in mare dove sia stata loro mostrata la fronte,
così nelle generali fazioni come in altre occasioni minori. (Ib. P. 107.)
Quest'ultima affermazione dimostra la grande confidenza che si era presa, a proposito del
pericolo turco, a Venezia dopo Lepanto, quando invece solo poco prima della metà del
secolo Christoforo da Canal, nonostante tutto quello che i baili veneziani del suo tempo
andavano scrivendo nelle loro relazioni da Costantinopoli, aveva presentato nella sua
Milizia marittima le forze di mare turco-barbaresche come più che temibili e quasi sempre in
guerra prevalenti su quelle veneziane. Il da Canal però si riferiva unicamente al suo tempo,
perché in precedenza Venezia aveva più volte sonoramente sconfitto sul mare il Gran
Turco; si possono ricordare per esempio le grandi vittorie dell’eroico provveditore d’armata
trecentesco Piero Zeno, la prima avvenuta nel 1334, quando cioè, essendo questi al
comando d’un’armata veneto-franco-malto-cipriota, sconfisse sonoramente nel golfo di
Smirne quella turca di 200 vascelli leggeri, distruggendone o catturandone 50, uccidendo
5mila turchi e potendo così dopo effettuare uno sbarco in Anatolia; l’anno successivo lo
stesso Zeno, al comando di 100 galee veneziane, vinse di nuovo i turchi nei mari
dell’arcipelago, ne distrusse la nuova armata e sbarcò di nuovo in Asia Minore; nel 1343,
ancora, con pontifici, ciprioti e cavalieri rodiani, sconfigge in mare per la terza volta i turchi,
sbarca, conquista Smirne e s’inoltra nella terra ferma, ma, soverchiato da forze nemiche, è
sconfitto e ucciso in combattimento. Ancora, non sapeva il da Canal dell’altra bella vittoria
ottenuta sull’armata della Gran Porta nel Mar di Marmara nel giugno del 1416 da Piero
Loredan, evento nel quale i turchi persero numerose galee e numerosissime fuste,
trovandovi la morte moltissimi rinnegati cristiani che equipaggiavano i vascelli ottomani, e
furono costretti a trattare la pace con Venezia. Ma, tornando alla paura dei cristiani che
dopo Lepanto prese i turchi, i quali invece ancora prima dell’inizio di quella battaglia li
avevano come al solito dileggiati e disprezzati chiamandoli galline bagnate, ossia polli che
scappavano solo a spruzzargli dell’acqua, questa è dimostrata dai fatti navali che seguirono
541
quella capitale battaglia, fatti che il Cervantes Saavedra, il quale a Lepanto era stato e vi
aveva anche perso l’uso della mano sinistra colpita da un’archibugiata nemica, nel suo Don
Chisciotte fa in parte narrare a un capitano spagnolo di fanteria fatto prigioniero da Uluch-
Alì a Lepanto e messo da questo rinnegato al remo della sua stessa galera Capitana:
... Mi trovavo il secondo anno, che fu il 1572, a Navarino, alla voga nella ‘Capitana’ di tre
fanali. Allora mi accorsi dell'occasione che colà si perse di prendere in quel porto tutta
l'armata turchesca, perché tutti i 'leventi' e giannizzeri che in essa erano imbarcati erano
certi di dover esser attaccati dentro il medesimo porto e tenevano apparecchiati i loro abiti
e 'passamache', che sono le loro scarpe, per fuggirsene subito a terra senza aspettare di
essere combattuti: tanta era la paura che ora loro faceva la nostra armata. Però il Cielo volle
diversamente [...] In affetti Uccialì si rifugiò a Modone, che è un’isola contigua a Navarino, e,
mettendo la gente a terra, fortificò la bocca del porto e se ne stette tranquillo finché il
Signor Don Giovanni (d'Austria) se n’andò. (M. de Cervantes Saavedra. Cit.)
Il predetto giudizio sprezzante delle forze di mare turche post-lepantiane espresso dal
Barbaro nel 1573 si può però moderare con quello letto in senato dal già citato Costantino
Garzoni nello stesso anno:
... Di forze marittime il Turco non è meno potente che di terrestri, con tutto che abbia avuto
in esse maggior rotta che tutti gli altri imperatori suoi predecessori [...] Ha posto il Turco
questi ultimi anni così buon ordine a questa sua milizia di mare che in poco tempo ha dato
notabile augumento a queste sue forze [...] Hanno ancora qualche mancanza di gente da
comando, il che non mi pare strano, avendone persa tanta nella giornata navale di Lepanto,
ma di questo ancora si rifaranno in breve tempo avendo loro tanto numero di vascelli
(‘mercantili’) che navigano ordinariamente nel Mar Maggiore e nel Mediterraneo.
D'artiglieria, se bene non ve ne sia in molta abondanza, non ne hanno però alcun
mancamento e dopo la rotta della loro armata si sono serviti, per rifarne della nuova, di un
numero di campane che tengono in alcuni magazzini a Trebisonda conservate per tale
effetto. (E. Albéri. Cit. S. III, v. I, pp. 419-421.)
... tanta è la facilità che hanno costoro di fabricarne; il che può esser da ognuno facilmente
creduto considerando che, dopo una così gran perdita d'armata, ne hanno fatto una nuova
di dugentocinquanta galee in meno di sei mesi, con tutto che allora non ve ne fossero più di
sessanta fornite nell'arsenale. (Ib. P. 423.)
542
Si esigeva talvolta in quell’arsenale, come scriveva il Sanuto che avvenne nel 1474, che per
abbreviare i tempi, turni d’operai lavorassero a lume di torza anche di notte. La maggior
parte dei vascelli così costruiti era però, come sappiamo, tenuta a svernare in acqua perché
i volti a disposizione non erano sufficienti a contenerne un così gran numero. Morto il
crudele Selim II nel dicembre del 1574, gli successe il figlio Amurat III, il quale già l'anno
seguente, superata ormai la fase d'emergenza post-lepantiana, si preoccupò che il suo
impero fosse in grado di ripresentare in mare un’armata grande e potente, attirando negli
arsenali le migliori maestranze dei suoi possedimenti con l'offerta d’ottimi stipendi e con
doni, affidandone la rapida realizzazione ai suoi principali intendenti delle cose di mare e
soprattutto a Mehmed Bassà e a Uluch-Alì; infatti nel 1576 il bailo Marc'Antonio Tiepolo già
attribuiva al sultano una certa sufficienza di marinaresca:
... né meno gli mancano gli uomini di comando, perché, quantunque ognuno non sia
eccellente, è non di meno bastante a navigare con gli altri; ed è stata così fatta la sua
fortuna che, tutto che abbiano navigato lontani paesi e corso grandissimo spazio di mare,
come fu alla Goletta, correndo anco più d'una mala fortuna, pochi sono stati li legni persi e
pochissimo il disconcio patito. (Ib. S. III, v. II, p. 146.)
Però, nonostante gli sforzi e l'impegno profusi soprattutto da Uluch-Alì, la potenza militare
marittima turca non tornerà mai più ai livelli pre-lepantiani e lo confermerà la relazione del
bailo Paolo Contarini, letta in senato nel 1583:
... Oltra questa milizia di cavalleria e di fanteria ha Sua Maestà (‘il sultano’) quella di mare, la
qual al presente, per il valore e molta esperienza di Ucchialì suo Capitano, è benissimo
regolata; e certo, quando fusse mancato questo soggetto, in questi quattro anni che
quell'impero è stato occupato nella guerra di Persia e non ha mandato fuora armata
d'importanza, le cose da mare sariano andate a male e in molta confusione, perché, se ben
nell'arsenale vi erano 180 galee, erano però molte di esse innavigabili e le altre così mal
condizionate che avevano bisogno di molto tempo e di molto lavoro per essere racconciate;
e l'arsenale era così mal fornito di legnami, palamenti, sartiami, vele e finalmente di ogni
altra cosa che non si averebbe potuto disegnar di cavar numero rilevante di galee se non in
progresso di molto tempo. (Ib. S. III, v. III, pp. 220-221.)
Certo la continua vigilanza e le continue insistenze d’Uluch-Alì, il quale aveva più volte fatto
intendere al sultano il cattivo stato in cui si trovava l'arsenale e aveva molte volte condotto
il gran visir a visitare quel cantiere perché si rendesse conto di persona delle sue grandi
necessità, avevano fatto sì che venissero fabbricati 100 corpi di galera sulle marine del Mar
Maggiore e del golfo di Nicomedia, perché queste si trovavano più vicine ai boschi da cui
provenivano i necessari legnami:
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... e queste galee sono state da lui tanto sollecitate che finora ne sono state condotte in
Costantinopoli ottanta fornite di albero, antenna, palamento e sartiami, che non vi manca
altro che artiglieria, munizioni e uomini. (Ib. P. 221.)
... Hanno i turchi quantità e commodità di legnami e d'ogni altra cosa per fabricar galee e ne
possono far quante vogliono in breve tempo, né questo si deve mai metter in dubio,
essendosene massime veduta l'esperienza l'anno dopo la rotta della loro armata, che in sei
mesi hanno potuto fabricar e armar tante galee. Il mancamento è d'uomini da comando, e di
bombardieri, perché dell'una e dell'altra sorte ne hanno pochi che siano sufficienti. (Ib. P.
223.)
La relazione del bailo Gian Francesco Morosini, la quale è di due anni successiva alla
predetta del Contarini, testimonia l'ottimo lavoro compiuto nel frattempo da Uluch-Alì:
... Le forze marittime con le quali il Gran Turco difende il suo impero sono tali che non ci è
nel mondo altro principe che ne mantenga maggiori di lui, perché ha nel suo arsenale un
grandissimo numero di galee e ne può molto facilmente far d'avvantaggio quando vuole,
perché ha abondanza di legnami, di ferramenti, di maestranze, di pegola, di sevi e di ogni
altra cosa necessaria per questo effetto.
É vero che al presente non si ritrovano in pronto tutti quelli armezzi che sariano necessarij
per armar i corpi delle galee che sono in essere - e molto meno quelle che di nuovo il Gran
Signore ha ordinato che si facciano - ed ha mancanza di cotonine di che fanno le vele e
d'altre cose, ma è così grande la sua possanza che con prontezza e facilità, quando gliene
venga voglia, potrà far provvisione di tutto quello che gli manca, come ha già dato principio
a provvedere...
De galeotti, quando il gran Signore vuole dal paese uomini e non denari, n’avrà sempre
abondantemente per far ogni grossa armata, si come, anco avendo tanta gente pagata [...]
potrà sempre mettervi sopra quel numero di soldati che vorrà; li quali anco vi sogliono
andare molto più volentieri che non vanno per terra così per la commodità, come anco per
la manco spesa. (Ib. Pp. 261-262.)
Gli schiavi e i mercenari cristiani costituivano però sempre il nerbo dell'armata, data la poca
predisposizione degli ottomani alla precisione e alle arti meccaniche in genere, doti che
nella marineria erano molto importanti:
544
... É ben vero che la fortezza dell'armata turchesca consiste in trenta ovvero quaranta galee,
che sono armate di schiavi christiani, e tutto il resto è simile e forse peggiore delle galee
che si armano qui di contadini e tutte insieme confessano li medesimi turchi che non sono
così buone come quelle de' christiani. (Ib. P. 262.)
Il Morosini a questo punto esorta retoricamente i principi cristiani a investire del danaro per
riscattare tutti quegli schiavi cristiani che si potesse, in modo da privare l'armata turca di
buona parte dei suoi uomini migliori e renderla così molto meno pericolosa, oltre che
liberare così tanti infelici, gente per lo più d’ottimo livello professionale:
... e questo saria procurando con destro modo di ricuperare tutti gli schiavi christiani che si
possono con denari, perché questi sono li marangoni (‘carpentieri’), li calafati, li compagni,
li còmiti, li padroni e anco li galeotti che fanno buone le loro galee... (Ib.)
Ma anche allora come oggi il danaro era evidentemente più importante della lungimiranza e,
d'altra parte, i principi cristiani, ormai rassicurati dal successo di Lepanto, non temevano
più tanto i turchi per mare quanto continuavano a temerli per terra, eccezion fatta per
Venezia, il cui compito strategico principale continuava a essere il contenimento marittimo
e sud-occidentale dell'espansionismo ottomano, in ciò avvalendosi a mare della sua grande
armata di galere e a terra della sua poderosa cintura di ben presidiate fortezze, mentre il
tradizionale contenimento nord-occidentale era fornito da Vienna. Uno dei maggiori punti di
forza della marineria remiera turca era il servizio continuo prestato da tutte le categorie di
marittimi, eccettuandone i soli remieri:
... Tutta la gente necessaria per armare, dalli galeotti in fuora, è tutta ordinariamente pagata,
così uscendo come non uscendo armata, e di continuo sono trattenuti con soldo ordinario
500 'reis', che noi (veneziani) chiamiamo sopracòmiti, e numero grande di 'assap', che
servono per marinaresca, di maniera che con poca spesa più dell'ordinario manda fuora
quel Signore la sua armata; anzi molte volte con guadagno, perché, sempre che vuole
armare qualche quantità di galee, pone una gravezza che dimandano 'avarìs', la quale non
solamente supplisce al pagamento che si dà alle galee, ma n’avanza ancora di continuo una
buona parte. Queste genti pagate sono le muraglie, le fortezze, li terrapieni, li baluardi e le
cortine che difendono e assicurano li grandi e immensi stati posseduti dal Gran Turco e
tengono in continuo sospetto tutti gli altri principi del mondo, poiché, senza toccar tamburo
(di reclutamento) né far altro moto, sono sempre pronti d'andare dove bisogna. (Ib. Pp. 262-
263.)
La carenza di marinaresca sulle galere del sultano sarà confermata anche nel 1590 dal bailo
Giovanni Moro, il quale, in un’ampia disamina delle forze di mare turche, riporta pure
l'insufficienza dell'artiglieria e conclude per un’ormai sostanziale inferiorità di quella pur
vastissima armata:
... Potria (il sultano) forse desiderar quantità di uomini da comando, massime buoni ed
esperti, che non ne ha tanti che suppliscano al bisogno; e l'istesso si può dire d'ufficiali,
bombardieri, marinari e altri tali [...] Queste galee adunque, se bene armate di nuovo e con
tre uomini per banco, da quelle de' capi e de' corsari in fuora che ne hanno quattro e alcune
anco cinque e quelle del Capitan (Generale) sino a 7, non possono far buona riuscita e
perciò l'armata del Turco, benché sia numerosa, ha sempre poche galee di considerazione,
che rare volte passano il numero di sessanta, e sono quelle armate di schiavi; appreso alle
quali si può mettere anco quelle de' corsari obligate di accompagnar e stare all'obedienzia
del Capitan del Mar, di cui, oltre le fuste, ne sono al presente in Barbaria poco più di venti;
e, se bene le chiamino galeotte, sono però da 23 e da 24 banchi, grandi quasi come galee. Il
resto dell'armata serve per fare numero e per combattere venendo l'occasione, ma non
poteria, bisognando, raggiunger il nemico né scampar da esso.
L'armata dunque del Signor Turco merita di essere stimata più per la quantità che per la sua
qualità e in effetto quelle galee non sono provviste - al par di quelle della Serenità Vostra -
né di numero e perfezione di artiglierie né di bontà di galeotti né manco delle altre cose che
spettano alla navigazione; e quelle poche ancora che, come ho detto, si possono chiamare
il nucleo dell'armata turchesca e in cui principalmente confidano hanno ancora esse questa
imperfezione, che essendo armate di schiavi, che è uno de' più certi capitali che abbia il
Turco, i suoi padroni vanno sempre circospetti ne' pericoli per non avventurarsi; anzi
quant'è maggiore tanto meno si vogliono arrischiare, sicuri che gli schiavi, per desiderio
della libertà e di vendicarsi delle ingiurie che ricevono continuamente da chi li comanda,
sempre che se gli appresentasse l'occasione e che lo potessero fare, si scoprirebbero suoi
aperti e crudeli nemici. (Ib. Pp. 351-355.)
Del perché le galere barbaresche venissero passate per galeotte abbiamo già detto;
sebbene questi vascelli tenevano il primo luogo nell'armata ottomana in riconoscimento del
loro espertissimo apporto, pure ripetiamo che i turchi non si fidavano molto dei loro
tributari mori in generale, come scriveva nel 1594 il bailo Matteo Zanne:
... Sotto nome di turchi si comprendono li mori di Barberia e di tutto l'Egitto, che, se bene
sono mussulmani come gli altri, non di meno i turchi li hanno per inclinati a sollevazione e
ribellione e per infedeli; e però (‘perciò’) li tengono soggetti quasi come se fossero schiavi,
né li ammettono ad altri officij né carichi che di giustizia e nel paese proprio. (Ib. P. 390.)
Ciò nondimeno il sultano aveva ormai - alla fine del secolo - ben poco potere sulle galere
barbaresche, come spiega lo Zanne a proposito della sovrabbondanza di schiavi di cui
disponeva la Barbaria:
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... Questi (schiavi) sono oltre il bisogno di trenta galeotte da corso che (la Barbaria) può
armare e altrettante fregate, (le quali,) e per remo e per combattere sono gli migliori vascelli
e li più temuti dell'armata turchesca e de' quali i christiani hanno da fare maggior caso; ma
né il Re né il Capitano dell'armata se ne possono dire padroni, essendo che li giannizzeri di
Barberia hanno fermato tanto il piede in ogni cosa che dipende da quelle marine che ormai
il Signor non ne dispone se non in quanto a loro piace; e li bassà oggidì non sono mandati
(in Barbaria) per comandare, ma per rubare e per poter donare estraordinariamente al Re e
alla Porta. (Ib. P. 403.)
Mentre ottima era la marinaresca barbaresca, anzi sulle fuste di quei corsari ogni marinaio
era anche soldato e quindi doppiamente apprezzabile, non altrettanto si poteva dire di
quella ottomana:
... Per la marinarezza il Re trattiene (‘stipendia in permanenza’) con poca paga un buon
numero di persone che dicono 'asapi' e, quando questi non bastino o piuttosto non
valgano, ne posson prender dalli caramussali, che sono (però) navaruoli e non galeotti;
onde si verificherebbe la mia proposta (‘opinione’), che le galee sarebbono - oggi come oggi
- per far numero piuttosto che per fazione. (Ib. Pp. 402-403.)
Ce sont des batailles celles-là bien renduës et debattuës, non pas celles où nous ne
rendons de combat pour un double et où la pluspart s’enfuyent, comme nous en avons veu
de nostre temps… (P. de Bourdeilles. Cit.)
contemporaneo e molto più altolocato pashà Vizir o secondo pashà Cicala), il quale morì
qualche giorno dopo per le ferite riportatevi, e prese ben sette galere al nemico; inoltre nel
luglio del 1616, essendo alla testa stavolta di 10 vascelli siciliani – sembra fossero otto
galere e due galeoni, prevalse su 12 galere o galeotte del corsaro algerino Hassan Agà;
ancora nel 1617, sempre alla testa della squadra di Sicilia, s’imbatte in 12 galere turche e ne
catturò di nuovo sette, ottenendo in seguito ancora altri successi, anche se minori.
A bordo d'ogni galera c'era poi un barbiero, ossia un basso chirurgo o pratico di chirurgia
che dir si voglia, il quale, oltre a quello continuo, ma minore, di mantenere ben rasa la
ciurma, perché tra i peli si andavano ad annidare i pidocchi, aveva anche l'importante
compito di curare gli ammalati e i feriti; doveva quindi essere ben esercitato nell'arte della
comune chirurgia e saper non solo medicare le ferite, ma anche trattare rotture e
slogamenti d'ossa, estirpare tumori superficiali, curare ascessi, piaghe, catarri e le altre
malattie conosciute; egli prendeva comunque ordini e istruzioni dal medico fisico della
squadra, personaggio unico che era imbarcato sulla galera di comando e del quale anche
parleremo. Il trattamento delle ferite di guerra era allora, come si può ben immaginare, del
tutto rozzo, insufficiente e antigienico e quindi molto spesso finiva per risultare mortale
anche solo una ferita ricevuta in un arto, anzi in un piede, come successe a Lepanto a due
valorosi esponenti della famiglia Orsini e cioè a Orazio di Bomarzo, morto in seguito a due
ferite avute alla coscia, e a Virginio di Vicovaro, deceduto invece per un colpo ricevuto al
braccio; le cure allora più praticate erano il salasso, ottenuto sia col taglio di vena sia a
mezzo di coppe, ossia ventose, le energiche purghe col sale inglese, i bagni nel vin caldo
nel caso di malattie da raffreddamento, i bagni di mare in caso d'infezioni cutanee o di
dissenteria, l’assunzione ripetuta di neve sciolta in caso di febbri molto alte, infine la
somministrazione di medicamenti quali fomenti, unzioni, polveri e anche sciroppi a base
d’oli di rosa, d'altea, di viola, di camomilla, ecc.; ma spesso tali terapie, invece di curare,
affrettavano gli esiti funesti delle malattie, come pare sia avvenuto al già ricordato ex-viceré
di Sicilia Marc’Antonio Colonna, il quale nel 1584, trovandosi a Medina Coeli in Spagna, colà
si ammalò e morì prematuramente, secondo alcuni avvelenato:
… si sentì gravemente oppresso dal male, indi, curato da i medici forse con soverchia
violenza di purghe e nel cavar sangue, in sette giorni spirò a mezza notte nel primo
d’agosto, non avendo ben finiti quarantanove anni dell’età sua… (V. Auria. Cit. P.63.)
Bevendosi allora acque non depurate e mangiandosi molti cibi conservati in maniera
tutt’altro che sterile, molto importante era ovviamente il disporre di vermifughi:
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…per che il detto mal di vermi per la varietà dell’acque suol (far) succedere infermità gravi,
come in molti lochi e parti si à visto, che per detta mutazione di acque nel porto di Suda
nell’isola di Candia morsero vintimilla persone per la mutacion dell’acque. (An. In Ugo
Tucci. Cit.)
La terribile pestilenza a cui si riferisce il succitato anonimo autore è quella, già ricordata,
che nel 1570 falcidiò l’armata veneziana che si era appena raccolta alla massa nei porti
istriani e che poi, nonostante fosse così malridotta, si trasferì a Candia col poi non riuscito
disegno di salvare l’isola di Cipro dall’aggressione turca; il che farebbe datare la stesura del
trattatello in questione a tempo successivo all’anno predetto, anche se sicuramente
successivo di poco dal momento che gli armamenti leggeri che in esso si prendono in
considerazione sono ancora quelli della fine del Rinascimento. Tornando ora al nostro
barbiero, diremo che egli cercava comunque principalmente di migliorare il vitto dei suoi
degenti, anche se nei limiti delle poco varie provviste di bordo, considerandosi, in un’epoca
di comunemente scarsa nutrizione, questa accortezza già un’importante cura essa stessa, e
quindi, se disponibili a bordo, somministrava uova, pollame, crastato (‘castrato’, castrone),
(a)mendole (‘mandorle’), cotognate e zuccaro, alimenti allora rari e costosi e che si
tenevano a bordo proprio per i malati e i feriti unitamente ad altri meno pregiati quali prugne
secche, passola e miele. In Francia l’uovo era addirittura considerato le meilleur morceaux
qui se peût manger e si mangiava insaporito da un pizzico di sale (d’Amorny). Quando
aveva molto lavoro bisognava mantenergli un aiutante detto barbierotto, il quale era scelto
tra gli schiavi o i buonavoglia; non certo tra i forzati che, in quanto delinquenti, erano
persone inaffidabili per un compito tanto delicato e inoltre erano pronti alla fuga in ogni
occasione. Il posto del barbiero era nella camera della prua, locale dove egli anche teneva
in un cassone i suoi strumenti e attrezzi, i suoi medicamenti e una provvista di pezze e
sfilacci per le medicazioni; quando si combatteva, si sistemava nella camera di poppa dove
medicava i feriti. Prendeva 4 scudi pontifici il mese - ducati napoletani 34,44 l’anno - e due
razioni il giorno; trattandosi quindi d’un salariato, le sue prestazioni erano gratuite per i
malati e i feriti, tranne però in alcuni casi e, a questo proposito, ci sembra utile citare il Cap.
XV del già citato codice marittimo di Carlo XI di Svezia, il quale, anche se molto più tardo
del tempo da noi considerato, ben riflette gli immutati doveri e diritti di questo ufficiale
sanitario (sv. barberare):
Il barbiero impiegato a bordo d’un vascello sarà tenuto di tagliare i capelli, di fare la barba e
di curare tutte le ferite e malattie di ciascun uomo dell’equipaggio, senz’altra ricompensa
che il suo stipendio. Se egli avrà accettato qualcosa da qualcuno, dovrà rendergliela
interamente…; ma, se il malato è colpito da un male contagioso o se è stato ferito fuori del
549
servizio del vascello, gli pagherà un equo onorario convenuto amichevolmente o regolato
da tre ufficiali del vascello, i quali non avranno più interesse per l’uno che per l’altro.
(Pardessus. Cit.)
Insomma, era gratuita la cura dei mali procurati dal lavoro di servizio, ma non di quelli
dovuti alla vita privata o anche alla vulnerabilità naturale del corpo, quali per esempio le
pestilenze. D’altra parte gli sarebbero stati pagati, come spese del vascello, i medicamenti
da lui portati a bordo e consumati.
Le maestranze di bordo erano cinque e cioè il mastro d'ascia (maestro d'asse in proto-
italiano) o marangone, vale a dire il carpentiero [ol. (scheeps)-timmerman o anche bouw-
meester e bÿl], il quale era nella squadra di Sicilia anche detto maestro fabro, in quanto
doveva in effetti saper riparare anche le ferramenta, e poi il calafato, il remolaro (vn.
remero), il barilaro (fr. tonnelier; ol. kuiper) e infine il cuciniero. I primi quattro dovevano
esser pronti a prestare la loro opera anche durante il combattimento, cioè preparati a
tappare subito e provvisoriamente con sacchi e cappotti le falle procurate dal nemico con
l’artiglieria o con un investimento, per poi - a fine battaglia - sostituire tali mezzi
d’emergenza con assi di pino coperti di stoppa e catrame che i francesi chiamavano
palardeaux, o meglio con placche di piombo, di ferro o di rame [fr. palardeaux, pelardeaux;
tampons; ol. (mosch-) lappen, (houte-)(smeer-)(yser-)(kooper-)proppen, sluit-stukken]
guarnite di stoppa e altri materiali come pece navale o resina; per tale motivo nel corso
della battaglia, provvedendo spesso a tale bisogna nella camera di poppa l’aguzzino, come
abbiamo più sopra detto, il mastro d’ascia e il barilaro si potevano porre nel pagliolo e nella
compagna, locali dove avrebbero avuto pure il compito di passare vettovaglie ai soldati
fermi ai loro posti di combattimento in attesa di scontrarsi col nemico, mentre in tal caso
avrebbero potuto esercitare quest’incarico di tura-falle nella grande camerata di mezzo e di
prua il calafato e un consigliero o, in mancanza di questo, una persona di fiducia, i quali due
personaggi avrebbero dovuto quindi pure passare in alto ai combattenti polvere, palle e
corda-miccia, mentre magari i mozzi vi avrebbero potuto svolgere il compito di mandare in
alto agli artiglieri sacchetti da carica di polvere pieni e ai soldati fiaschi di polvere
d’archibugi di rispetto, ricevendo da sopra quelli ormai vuoti da riempire, uso quest’ultimo
importantissimo in combattimento e non solo per il tempo che si fa risparmiare al soldato
combattente, ma soprattutto perché gli si evita il grande pericolo rappresentato dai barili di
polvere; infatti, come si raccontava esser purtroppo avvenuto a parecchi nel corso della
battaglia di Lepanto, i soldati allora usavano tenere accanto a loro nei morioni o nei cappelli
la polvere presa dai barili, per cui spesso accadeva che la stessa, accesa da qualche favilla,
bruciava loro le mani e la faccia lasciandoli inabili a continuare a combattere; era altrettanto
550
spostandola lungo detto fianco, e così si vedeva in qual punto il leggero tessuto fremeva a
causa del risucchio provocato dalla forza dell’acqua ch’entrava nella falla; il sistema per far
affondare nell’acqua la vela è sì spiegato dal Guillet, ma non con sufficiente chiarezza
(Georges Guillet, Les arts de l’homme d’epée ou le dictionnaire du gentilhomme etc. Parigi,
1681.)
Il remolaro, oltre a costruire e rassettare remi, doveva controllare di quando in quando tutti
quelli posti in opera sulla galera per vedere se erano ben bilanciati sopra i posticci, magari
aggiungendo o togliendo loro del piombo di contrappeso, e accomodandoli in maniera che
potessero esser maneggiati agevolmente; egli aveva un aiutante detto remolarotto, il quale
era scelto tra i proeri o tra i compagni, e sulle galere Capitan(i)e, le quali erano parecchio
più ricche d'uomini, c'erano a volte anche un aiutante del calafato detto calafatino (fr.
calfatin; ol. breeuwers-maat o breeuwers-knegt) e uno del barilaro detto invece bottarino;
ovviamente in alcune galere anche il mastro d’ascia poteva avere un garzone o aiutante. Il
barilaro, oltre ad aver cura di tutti i barili di bordo e delle botti e botticelle [fr. boutes,
bouteilles, bidons, gonnes, tonnes, tonneaux, fûts, fûtailles, caques, barils, bar(r)illets,
bar(r)iques, muides; ol. tonnen, fustagie, vaaten, vat-werk] della stiva, doveva provvedere la
galera di buglioli, ossia di giare, vasi, mastelli, bigonce, tinozze, secchie di doghe o mezze
botti che dir si voglia [fr. bailles, baillottes, baquets, seilleaux, liéges, corb(e)illons, frisons,
pots; ol. baalien, tobben, leggers, (broodt-)korfen, flap-kannen, flip-kannen, pullen, flabben,
kitten], per il trasporto dell’acqua o del vino da distribuire all’equipaggio, per spalmare (vn.
impalmizar) il sego e per aggottare; il suo principale compito era quello di controllare che
nessuno dei tanti barili destinati alla provvista d’acqua perdesse, perché il disporre a bordo
di più o meno acqua potabile era differenza d’importanza troppo vitale. Prima dell’adozione
dei barili, avvenuta negli ultimi secoli del Medioevo, la provvista d’acqua, come del resto
quella d’olio e di vino, s’era portata in anfore di terracotta come nell’antichità, potendo le
grandi botti trovar posto solo sui vascelli tondi più grandi; per esempio nella sezione
decima d’un notissimo testo di diritto medievale islandese detto Grágás, sezione dedicata
alla materia marittima (Um Scipa-Mepferp), s’impone ai padroni di vascelli mercantili di
portare a bordo una quantità d’acqua non minore d’un anfora ogni sei uomini (Pardessus). Il
cuciniero, la cui dimora era, come abbiamo già detto, la predetta compagna, doveva
preparar da mangiare alla gente di poppa e alla ciurma, che la gente di capo e quella di
spada doveva provvedere a sé stessa.
In navigazione il posto dei predetti maestri era alla prora di giorno e sopra le rembate di
notte, perché dovevano fare ognuno un quarto di guardia in compagnia d’un parte e mezza;
552
cucchiarate, come si usava a terra, e ciò non solo per necessità di sveltezza, ma anche per
motivi di sicurezza, perché tenere in coperta durante la battaglia - o anche quando solo si
sparava a gazzarre, cioè a salve (vn. piezaria), nei porti, per festeggiare o salutare (da cui il
detto ‘far gazzarra’, per dire far baccano) - dei barili di polvere aperti era ovviamente cosa
più pericolosa della stessa artiglieria del nemico e infatti si potevano ricordare diversi gravi
incidenti avvenuti in tal modo; il sacchetto da carica s’introduceva nella canna del pezzo
prima della palla, si spingeva giù con un calcatore e poi, per farne uscire la polvere, si
forava con uno stilo d’acciaio introdotto nel buco del fogone.
Doveva inoltre il bombardiero di mare aver miglior cognizione dei fuochi artificiati da guerra
di quanto ne dovesse avere quello di terra, in quanto tali fuochi, ormai in disuso sulla terra
ferma, ancora invece si usavano con un discreto successo nella guerra di mare, specie le
pignatte di fuoco (fr. pots-à-feu; ol. vuur-potten, smook-en-stink-potten) e le cosiddette
trombe di galera o di fuoco, dette anche soffioni, insomma le trombe o sifoni di fuoco prima
solo incendiario, in seguito anche ‘armato’, che, di misura maggiore se fissi sulla prua di
dromoni e galee oppure più piccoli e portatili, cioè legati alla cima di mezze-picche, si erano
usati in battaglia, soprattutto nel precedente Medioevo prima che fosse inventata la polvere
pirica, per appiccare il fuoco al vascello avversario e per contrastare il nemico che venisse
all’arrembaggio; di questi sifoni si legge infatti nella Chronographia di Teofane Isauro,
scritta all’inizio del nono secolo, già laddove si narra della prima offensiva navale
mussulmana contro Costantinopoli iniziata nel 674, quando cioè l’imperatore Costantino IV
dota i suoi vascelli da guerra (triere, monere e dromoni), oltre che dei sifoni di prua, anche
di un nuovo tipo di mistura ignigena presentata a Costantinopoli da un certo Gallinico o
Galenico o Gallieno, un pirotecnico o alchimista o architetto di Eliopoli di Siria per tal
motivo assunto dal predetto imperatore. Si trattava di un ‘fuoco liquido’ che sarà chiamato
in seguito fuoco greco (ma nel senso di ‘fuoco bizantino’) e che, acceso nell’aria, era in
grado poi di bruciare anche in acqua e che quindi, attaccato alla superficie immersa del
vascello nemico da esperti nuotatori e sommozzatori (sp. buzos), lo incendiava appunto a
partire dalla carena; probabilmente era, come già detto, un’innovativa mistura formata, oltre
che da tradizionali sostanze come colofonia, bitume, solfo, resine e trementina, soprattutto
di calce viva. I mussulmani, dopo aver così perduto molti vascelli a causa di questa nuova e
a loro sconosciuta arma, furono alla fine costretti a fuggire e a rinunziare alla presa della
città, mentre i bizantini non osavano inseguirli per timore che tale inestinguibile fuoco
s’attaccasse anche ai loro stessi vascelli; perlomeno così narrano quelle antiche cronache,
le quali anche aggiungono che in episodi successivi sarebbe stato ai greci in mare
554
sufficiente mostrare ai vascelli saraceni che si stavano preparando all’uso d’uso di quel
fuoco per farli fuggire; anzi narrano che anche nel secondo assedio turco di Costantinopoli,
cioè quello avvenuto a cavallo tra il 717 e il 718, il ‘fuoco liquido’ dei bizantini ebbe un
effetto risolutivo.
Dunque il fuoco greco si disse così non perché, come potrebbero pensare alcuni, nelle sue
misture fosse quasi sempre presente la pece greca, sostanza che, essendo molto più
sigillante della comune pece navale, era usata con gran vantaggio nella preparazione di
ordigni incendiari da usarsi in presenza di pioggia o di umidità in generale, ma perché
storicamente usata la prima volta dai bizantini; che fosse poi davvero inestinguibile, cioè
che bruciasse anche sott'acqua e che anzi talvolta l'acqua lo alimentasse invece di
spegnerlo doveva esser vero solo parzialmente, trattandosi in realtà di preparati più
dimostrativi che pratici, e infatti, dopo quel primo e forse unico uso, la storia ne perderà
traccia. Restarono comunque in uso comune i ‘fuochi liquidi’ in generale e in una quantità
di formule e di misture, di cui alcune in verità ancora dette inestinguibili, che gli esperti
d'artiglieria del Cinquecento prescrissero nei loro libri; infatti il Sereno menziona tali fuochi
a proposito della battaglia di Lepanto, conflitto al quale, come sappiamo, lui stesso
partecipò; si aggiunga che già dal Medio Evo si era cominciato a potenziarli con la polvere
pirica e il loro uso è quindi così proseguito fino agli albori dell’Età Contemporanea.
Teofane poi racconta che l’anno 709 anche l’imperatore Giustiniano II ordinò di armar di
sifoni i dromoni e le galee biremi (probabilmente queste genovesi mercenarie) da inviare
contro due grandi flotte di vascelli carichi di grano (ϰατίναῐ σιτοφόροι), una saracena e una
egiziana, di cui a Bisanzio si era saputo esser state allestite dai maomettani, essendoci
stato evidentemente in Africa il tempo del raccolto (σίφωνας πυρσοφόρους ϰατασϰευάσας,
εἰς δρομώνας τε χαὶ διήρεις τούτους ἐμβαλών,); e inoltre, all’anno 805, cioè laddove narra
della presa bulgara della città bizantina di Mesembria (oggi Nesebar) situata sulla costa del
Mar Nero, ancora Teofane scriveva che i bulgari vi trovarono, tra l’altro, 36 dei suddetti
sifoni navali e una provvista di mistura di ‘fuoco liquido’ da emettere con essi sui vascelli
nemici:
… laddove trovarono anche 36 sifoni di bronzo e non poco fuoco liquido da emettere con
quelli (ἐν οἷς ϰαὶ σίφωνας χαλϰοῡς εὗρον λς', χαὶ τοῡ διʹ αὐτῶν ἐϰπεμπομένου ὐγροῡ
πυρὸς οὐϰ ὀλίγον). (Teofane. Cit.)
Di detti sifoni si legge anche nella già ricordata Тάϰτιϰα bizantina del IX° sec., dove appunto
l’imperatore Leone VI, come meglio spieghiamo nel nostro lavoro sulle origini
dell’artiglieria, consigliava di dotarne individualmente di piccoli alcuni soldati scudati che
555
Bulifon, accadde per esempio in occasione del viaggio in Italia del nuovo re di Spagna
Filippo V; infatti il giorno 17 aprile 1702, lunedì dell'Angelo, il re sbarcò a Napoli e, durante
le solite salve sparate dalle galere napoletane per accoglierlo, su una d’esse successe il
seguente incidente:
... trovandosi il cannone infocato per il suddetto sparo, se pose fuoco (in) uno di cannoni
mentre lo stavano carricanno, del che ne perirno cinque... (Antoine Bulifon, Cronicamerone
(1670-1706). S.N.S.P. Man. XXII.A.10 e B.N.NA. XXI.A.72)
Ed ecco un altro episodio dello stesso genere, narrato anche questo dal Bulifon e
riferentesi anche in questo caso al predetto viaggio in Italia di Filippo V. La domenica 11
giugno 1702 arrivò dunque a Finale Ligure (l. Finarium, ‘borgo confinario’) ) il predetto re, il
quale proveniva da Napoli accompagnato da una grande squadra di galere; fu colà accolto
da moltissima gente e, tra gli altri, da alcuni diplomatici genovesi inviati a tal scopo da
quella repubblica a bordo d’alcune sue galere, le quali festeggiarono l'arrivo con salve
d'artiglieria:
... E accadde che, mentre ricaricavasi un cannone già riscaldato dal foco precedente, il
cannoniere, fatto in pezzi, fu portato in aria e ne venne di ciò incolpato l'agiutante, ché
(‘perché’) mantenne il dito sopra il fogone per levare l'aria. (Ib.)
Il Bulifon vuol qui dire che, avendo l'aiutante del bombardiero premeditatamente otturato il
fogone dopo lo sparo, non era potuta circolare aria rinfrescante all'interno della canna e
quindi, quando subito dopo il bombardiero aveva voluto ricaricare il cannone
introducendovi un’altra carica di polvere, questa, trovata l'anima tuttora surriscaldata dal
tiro precedente, aveva preso immediatamente fuoco uccidendo così lo stesso bombardiero,
il quale, per forza di cose, stava ancora davanti alla bocca del pezzo; ma forse l'aiutante era
qui stato accusato ingiustamente, perché questi incidenti, i quali, se la bocca da fuoco
crepava, potevano anche mandar a fondo una galera, accadevano di solito per semplice
trascuratezza dei bombardieri, i quali non pulivano e rinfrescavano con sufficiente
frequenza la canna dei loro pezzi con le lanate [fr. è(s)couvillons; essuieux], come si
sarebbe invece dovuto. In realtà in quest’altra nefasta occasione i morti furono tre e i feriti
due.
Ma Filippo V era evidentemente un sovrano che portava una terribile scalogna ai poveri
bombardieri e un terzo incidente di tal genere doveva purtroppo accadere anche in
occasione del suo ritorno dall’Italia; 12 galere francesi lo stavano infatti riportando in
Spagna, quando, nel passare davanti ad Antibes, furono avvistate dal cavaliere Claude
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Fourbin de Janson che allora in quel porto per caso si trovava a bordo d’un suo vascello,
essendo egli comandante della squadra navale francese che in quegli anni incrociava
nell’Adriatico e nello Ionio con il duplice compito di far fallire eventuali tentativi di sbarco
austriaci sulle marine orientali del regno di Napoli e d'intercettare i legni che, risalendo
l'Adriatico, portassero ai porti austriaci di Trieste, Pola, Fiume, Segna ecc. rifornimenti,
specie granari, destinati all'esercito cesareo; nel salutare dunque doverosamente il sovrano
un cannone del predetto vascello scoppiò e uccise parecchi uomini dell’equipaggio,
restandovi leggermente ferito lo stesso Fourbin.
D’un incidente simile capitato a una galera del re di Napoli Alfonso d’Aragona verso
l’ottobre del 1494 racconta anche il Sanuto; si trovava allora l’armata di quel sovrano a
Gaeta, timorosa di fronteggiare quella dell’invasore Carlo VIII di Francia, quando
all’improvviso scoppiò un violento temporale e due galere aragonesi andarono a fondo:
Doveva il bombardiero chiedere al suo capitano licenza di recarsi a terra ogni tanto,
approfittando delle soste dell'armata, per preparare su qualche spiaggia le sue misture
incendiarie o esplosive per farne fuochi artificiati, il che fatto a bordo sarebbe risultato
scomodo e soprattutto pericolosissimo per l'intero vascello, in quanto il più di tali misture
si preparava a caldo in grossi pentoloni perché queste lavorazioni implicavano quasi
sempre la liquefazione sul fuoco di sostanze molto incendiarie. Il capo-mastro poi, nel caso
si fosse dovuta sbarcare l'artiglieria per utilizzarla in un assedio o in qualsiasi altr'azione di
guerra, la comandava anche a terra ed erano sotto la sua responsabilità non solo lo sbarco
e poi il reimbarco dei pezzi, nelle quali operazioni non era difficile che qualcuno dei più
pesanti finisse in mare e che si dovesse pertanto recuperare con gran fatica, molta perdita
di tempo e dishonore e vergogna per lui stesso, ma anche il loro incavalcamento sugli
affusti a terra e il successivo scavalcamento per riportarli a bordo.
Il posto dei bombardieri era alla prua sotto le rembate, cioè in quel luogo che abbiamo detto
tamburetto, dove essi durante il combattimento erano generalmente riparati da cortine di
legno o da stramazzi, protezione di cui invece non godevano quando dovevano caricare i
pezzi, perché in quel caso dovevano avanzarsi sulla palmetta dove erano completamente
esposti al tiro del nemico. Ognuno di loro doveva, insieme a un aiutante, aver cura di due
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pezzi e ciò tanto sulle galere quanto su ogni altro vascello da guerra; ogni bombardiero si
alternava nelle guardie con l'altro e con i due aiutanti, sia perché i loro pericolosi materiali
andavano continuamente sorvegliati di giorno e di notte, sia perché, in zona di guerra,
bisognava tenere e guardare uno stoppino sempre acceso in modo da poter dar subito
fuoco ai pezzi caricati in caso di un’improvvisa necessità. Un bombardiero papalino
prendeva 4 scudi pontifici mensili - ducati napoletani 34,44 annuali - e due razioni
giornaliere, mentre gli aiutanti-bombardiero erano pagati quanto i marinai detti parte e
mezza. Sulle galere di Francia il capo-mastro dell'artiglieria, colà detto majordome, sembra
dormisse nella compagna.
Alcune attività di bordo s’affidavano ai remiganti o in aggiunta alla loro voga o in
sostituzione d’essa; dalla ciurma si traevano infatti i trombetti, ordinariamente 8, ai quali si
assegnava l'esecuzione delle salve e dei segnali militari, quando necessari; a costoro si
dava, oltre alla razione giornaliera ordinaria, anche mezza razione da buonavoglia come
incentivazione a imparare a suonare più volentieri:
... E perché un buon concerto di trombetti honora la galea e apporta a chi vi sta gran
ricreazione e alleviamento d'animo, se saranno schiavi o buonevoglie che se ne dilettino, si
doveranno accarezzare e avantaggiare in alcuna cosa e particolarmente non permettere che
vadano a travagliare in terra se non per necessità. (P. Pantera. Cit. P. 134.)
Della ciurma faceva parte anche il portunato, ossia un galeotto della categoria degli schiavi
che doveva avere cura completa dello schifo (gra. πορθμεύς; l. lintrarius) e cioè condurlo,
tenerlo pulito e ben conservato e procurare che venisse riparato quando necessario; egli
prendeva una razione migliore di quella che toccava agli altri schiavi e cioè quella d’un
buonavoglia.
Su quelle galere dove si faceva taverna, ossia dove si vendevano cibo e vino a chiunque
potesse pagare, il tavernaro o i tavernari erano anch'essi uomini della ciurma. L'utilità delle
taverne era grande perché loro tramite entravano nella galera molti generi alimentari che
altrimenti a bordo non si sarebbero mai visti; inoltre, anche se il tavernaro era l'unico
galeotto a guadagnarci direttamente, gli altri remiganti, aiutandolo in tanti servizi e trasporti
di merci, ne ricevevano vantaggi e ricompense; erano poi le taverne molto utili agli
eventuali passeggeri poveri della galera, perché, mentre quelli di riguardo partecipavano
alla tavola del capitano, questi potevano comprarsi alla taverna le loro vivande al minuto:
... Però ('perciò’ le taverne) sono necessarie, ma non si deve permettere che gli ufficiali ci
habbiano capitali ne parte alcuna, perciò che non sol privano le povere ciurme di quel
guadagno, ma con l'auttorità dell'officio fanno molte estorsioni e illicite alterazioni, di
maniera che la robba si paga il doppio e asciugando le borse de i compratori e dell'istessa
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ciurma, che è sforzata - sin che ha denari - a passar per le lor mani e non può avanzar cosa
alcuna; (così) la riducono a tanta miseria che nelle sue necessità, che sono molte e grandi
specialmente quando travaglia navigando, non può ricevere un minimo ristoro. (Ib.)
Nella marineria francese oceanica era stata consuetudine che i capitani, anche quelli dei
vascelli reali da guerra, facessero a bordo essi stessi commercio di taverna, vendendo
all’equipaggio soprattutto vino, acquavite e in seguito anche tabacco; ma nel Seicento
questa pratica sarà vietata dal re per non potersi più ammettere che gli stessi capitani
agevolassero e istigassero in tal modo i marinai a consumare il loro soldo e i loro effetti
personali per l’acquisto di generi viziosi. Nelle galee catalane medievali poteva vendere vino
qualsiasi marinaio ma a patto che non ne guadagnasse più di cinque soldi alla libbra, pena
il sequestro del vino o del guadagno (Ordenanzas de las armadas navales de la Corona de
Aragon etc. Cit. Pp. 87-88)-
Dalla ciurma si traevano anche i mozzi di bordo [fr. mousses, gourmettes, pages, garçons
(de bord), valets; ol. (scheeps-)jongen, swabbers, mussen], ossia i servitori delle camere e
degli ufficiali, primi dei quali erano quelli di poppa e si trattava d’uno o due schiavi più
giovani degli altri, dell'età di 11 o 12 anni, i quali servivano il capitano (ol. kajuit-wagters) e
vestivano in maniera diversa da quella tradizionalmente in rosso e in blu usata per la
ciurma; essi infatti vestivano generalmente solo di blu ed è da tale uso che probabilmente
nascerà quella tradizione internazionale di vestire di turchino la gente di poppa, cioè gli
ufficiali delle marinerie da guerra; nel Settecento si userà sui vascelli da guerra francesi
chiamare Bleu, Oficier bleu, Lieutenant od Enseigne bleu un ufficiale facente funzioni
d'ufficiale maggiore. Il capitano o il generale doveva però far attenzione che questi mozzi di
poppa non udissero nulla dei suoi piani operativi, perché non li riferissero in qualche
maniera ai nemici loro correligionari; pertanto, se uno di questi schiavi si dimostrava troppo
curioso e faceva troppe domande, si usava distoglierlo subito da un tale comportamento
con qualche mano di bastonate (B.Crescenzio. Cit. P.484). Che i mozzi fossero
tradizionalmente alquanto maltrattati, evidentemente al fine di farne marinai ben asserviti
alla gente di poppa, ce lo dice anche l’Aubin:
…se essi mancano in qualche cosa vengono ben castigati e sono così poco risparmiati che
una volta, ma egualmente ancor’adesso, alcuni praticano di castigarli una volta la settimana
anche se non l’hanno meritato. (Cit.)
Per essere trattati così i mozzi oceanici – quelli cioè a cui vuole riferirsi l’Aubin traducendo
la sua fonte olandese, figuriamoci che cosa dovessero soffrire quei poveri ragazzi a bordo
delle spietate galere! Altri mozzi di bordo erano quello dello scandolaro, un forzato addetto
560
alla custodia delle armi e delle cose personali del capitano e dei passeggeri di riguardo; lo
scrivanello, altro forzato che nelle galere di comando serviva il patrone, ossia il razioniero, e
doveva quindi saper scrivere e far di conto per annotare tutte le entrate e gli esiti dei generi
di munizione e delle genti di bordo, compilando per gli scapoli e soldati le cartelle o polizze
delle razioni consegnate, e per registrare e consegnare ai mercanti destinatari tutte le
mercanzie che pagavano nolo, riproducendo sul registro di ciascuna il merco (‘marchio’) e
gli altri contrassegni, ossia quelli che oggi, nelle polizze di carico marittime, vengono
definiti 'marche e numeri' della singola partita di merce; lo scalco o mozzo della compagna
(fr. dépencier, dépensier, maître-valet; ol. bottelier), chiamato dai turchi ‘compagno’ e al
quale toccava l'aver cura di tutte le vettovaglie che entravano nella galera e il distribuire a
tutti gli uomini di bordo le loro razioni di vino, aceto, olio e companatico, che quelle di
biscotto o panatica erano dispensate dal mozzo del pagliolo, detto pertanto pagliolero,
oppure dallo scrivanello predetto; pure un forzato era il mozzo della camera di mezzo, il
quale doveva aver cura delle cose del còmito, dei basso ufficiali, dei marinai e dei
passeggeri non di riguardo e doveva inoltre dar fuori e rimettere abbasso le vele e insomma
custodire tutte le cose che si tenevano in detta camera; allo stesso modo il mozzo della
camera della prora aveva cura della roba del sotto-còmito, degli altri marinai ed era quindi
custode (gra. ναύφαρϰτος, ναυφύλαξ; cst. tenedor) di gomene e sartiami per ormeggiare la
galera, di buglioli, coffe, moscelli, sagore, trinelle, vale a dire di tutte le corde leggere, le
quali a lui toccava fabbricare quando mancassero, e di tutte le altre cose di bastimento, di
nolo (gra. ναῦλον, πορθμίον) o di munizione o personali che in detta camera di prua erano
conservate; il barbierotto, il quale, come abbiamo già detto, era il mozzo del barbiero di
bordo e si trattava di solito d’un buonavoglia o d’uno schiavo, in modo che si potesse
mandarlo a terra a procurarsi le cose che servivano agli ammalati; a costoro egli aveva il
compito di fare e di dar da mangiare, di somministrar i medicamenti prescritti dal barbiero e
di servirli, come un infermiere in piena regola, in tutto ciò di cui avessero bisogno; aveva
infine il compito di servire la persona del barbiero e d’aver cura delle sue cose private. I
mozzi avevano lo stesso trattamento dei remiganti; quelli poppa ricevevano però spesso il
vestito due volte l'anno e non una sola come gli altri galeotti e ciò evidentemente per
mantenere più alto il livello di decenza del quartiero di poppa; essi, perché potessero
adempiere le loro funzioni, si lasciavano circolare per la galera con la sola maniglia alla
caviglia, oppure, se si trattava di funzioni da svolgersi non troppo lontano dal loro banco, si
tenevano incatenati con un ramale (‘diramazione’) di catena più lungo, come succede al
561
protagonista del Guzmán de Alfarache quando gli viene affidata la cura degli effetti
personali d’un gentiluomo di poppa (M. de Cervantes Saavedra. Cit.).
Della ciurma facevano infine parte i cuochi che cucinavano per il capitano, per gli ufficiali e
per i marinai e, quando la galera era in sosta, anche per la ciurma stessa; il loro posto era ai
banchi che stavano ai due lati del fogone e ciò significa che la loro attività di cucina era
complementare e non sostitutiva di quella della voga.
Nelle galere barbaresche il còmito era chiamato bach-rais; il capo-cannoniere, bach-tobji; il
patrone, khogia; il barbiero, bach-gerrah; la gente di capo, baharia; la gente di poppa, sotta-
rais; la gente di spada, yoldach; c’era poi un rais-etterik, ossia un ‘capitano delle prese’, il
quale aveva il compito d’andare a guidare in porto i vascelli catturati.
562
Capitolo IX.
LA GENTE DI POPPA.
Erano così detti gli ufficiali maggiori di marina perché alloggiavano appunto a poppa e
inoltre a poppa si trattenevano la maggior parte del tempo. Nella marineria veneziana il
comandante di galera era detto sovrac(c)omito (poi sopraccòmito), titolo che già troviamo
in una deliberazione del Senato veneziano del 1385, e, quando tale grado non aveva ancora
ricevuto, si diceva governatore di galera, cioè gli si dava lo stesso titolo non militare che
aveva il comandante di galea grossa commerciale, ma più tardi in qualche caso fu detto
anche direttore; era poi detto τριηράρχες il comandante di una triera bizantina, avendo però
il titolo di ἃρχων (‘capitano generale’) quello della ναυαρχίς, ossia del vascello pretorio o di
comando; inoltre era detto raïs quello dei vascelli remieri turco-barbareschi e capitano (ltm.
capitaneus) in tutte le altre marinerie, con l’aggiunta che, per quanto riguarda quella delle
galere condotte (‘noleggiate’) private genovesi, il proprietario di sei o sette galere, pur
venendo chiamato anch'egli capitano, aveva titolo di capo de' provvisionati, per tali
intendendosi dei capitani di condotta pagati da tempo immemorabile sempre dallo stesso
principe conduttore, come se fossero appunto dei provvisionati, qual era soprattutto il caso
delle galere dei particolari (‘privati’) genovesi condotte dalla Corona di Spagna sin dai tempi
di Andrea d’Oria. Il suddetto nome veneziano di sovracòmito venne a sostituire quello
precedente di patrone o padrone (ltm. patronus); questo, il quale sopravvisse invece ancora
per qualche secolo nelle altre marinerie remiere da guerra, si era in precedenza a sua volta,
ma nelle sole triremi, sovrapposto al precedente còmito che si legge sia nel Consolato del
Mare sia nel già ricordato Capitolare dei Patroni e dei Provveditori all’Arsenale di Venezia,
evincendosi chiaramente da questi documenti che sino alla prima metà del Trecento la
galera leggiera medievale era stato comandata appunto dal còmito, coadiuvato costui da un
sotto-còmito, mentre in seguito si uniformerà a quella allora detta galea grossa, ossia la
trireme, il cui còmito era sovrastato dal patrone. Il conferimento di questo titolo di patrone -
o padrone o patrono - come comandante in prima era stata nel Medioevo prerogativa della
marineria mercantile, galee grosse e galeazze da mercanzia incluse, già dapprima e vi
resterà fino all'inizio dell'Ottocento, sopravvivendo nei vascelli remieri da guerra solo nei
sottili minori quali le fregate.
Nei primi secoli del Basso Medioevo dunque il predetto patronus era mancato sui vascelli,
sia su quelli mercantili sia sulle galere, e il comandante era stato dovunque il comitus; e
563
che costui allora lo fosse lo leggiamo per esempio nella Cronaca pisana del Marangone,
all’anno 1172:
… Anno Domini MCLXXII, indictione V, pisani tres galeas armaverunt, quorum capitanei et
gomites Gallus Taliapagani et Iacobus quondam Rambotti Cerini et Alberigus PasceMosca
fuerunt… (Cit. P. 67.)
Ma, poiché con la maggior diffusione delle galee grosse o triremi, il còmito non riusciva più
a occuparsi di tutto, lo si assoggettò a un padrone, il qual divenne così il comandante della
galera, mentre il comandante di un gruppo di più galere (magari anche solo di due) aveva
titolo di capitano:
… La galea una e una galeotta di Pisa e (‘di cui era’) capitano Andrea Gambacorta e padrone
della galea Simone di ser Lapo da San Casciano e della galeotta padrone Piero Tosi
(Cronaca pisana di Ranieri Sardo, all’anno 1376).
.
Ma anche ciò si rivelò poi insufficiente, specie in tempo di guerra, e quindi spesso il
padrone era affiancato da un armiregius (anche armiragius, sincope del l. armiger regius,
‘scudiero reale’), cioè da un ufficiale che comandava la guarnizione militare della galera,
equivalente quindi al governatore dell’armi di un corpo di cavalleria pesante o a quello di
una città (gr. πολέμαρχος), personaggio questo che si incominciò a dire nel Medioevo
armirajo (poi armiraglio) e poi, dal Cinquecento, capitano a guerra. I veneziani chiamavano
armiragi i capitani di cavalleria turchi:
… Temeres, armirajo di 1.000 lanze, era entrato per forza in castello lì a Cajaro per farsi
soldan… (M. Sanuto, Diarii. Anno 1496. T. I, col. 331.)
… tra de armiragii de 1.000 lanze ed altri armiragii ed homeni de conto (ib. Anno 1497. Col.
639.)
quello che già era a Venezia il capitano zeneral da mar, comandante supremo di tutta
l’armata di mare di uno Stato o di un Regno, titolo superiore quindi a quello di semplice
capitano generale, in quanto quest’ultimo era solo il comandante di squadra [l. praefectus
classis; tlt capitaneus classis; gr. στολάρχης, στόλου ἀρχηγὸς, ϰόμης τοῡ στόλου o μέγας
δρουγγάριος, in seguito (ϰαθολιϰὸς) ναυάρχης]; ma riprenderemo questo alquanto
complesso discorso più avanti.
Nelle galere il titolo di padrone di galera ancora esisteva nel tempo che soprattutto ci
occupa, ma sminuito perché, in occasione dell’attribuzione al comandante di quello di
capitano, era passato, come presto vedremo, al comandante in seconda, ossia all’ufficiale
contabile che sino ad allora s’era invece chiamato scrivano (l. scriba, ltm. scribanus; vn.
masario); probabilmente l’affidare un ruolo più importante e meglio retribuito allo scrivano
di bordo era stato dovuto anche alla difficoltà di reperire dei contabili che accettassero di
darsi alla così pericolosa e disagiata vita di mare per un misero stipendio; e, che fosse
difficile trovarne, è testimoniato sin dall’antichità da quanto ne scriveva Festo:
Lo scrivano navale, cioè quello che lavorava a bordo di una nave, tra gli scrivani era quello
che godeva della minor considerazione, a causa anche dei pericoli a cui il suo ministero
andava soggetto (Navalis scriba, qui in nave apparebat, inter aliud genus scribarum
minimæ dignitatis habebatur, quod periculis quoque ejus ministerium esset objectum.
Sesto Pompeo Festo, De la signification des mots etc. P. 287. Parigi, 1846).
Per comprendere quale fu il tempo dei predetti cambiamenti bisogna considerare che, nel
suo trattato scritto verso il 1540, il già più volte citato da Canal ancora usava talvolta il detto
titolo di patrone riferendosi al sovracòmito. Forse Venezia volle adeguarsi, senza però
scimmiottarle, alle altre marinerie mediterranee che stavano proprio in quello stesso tempo
adottando un nuovo nome, quello appunto di capitano, per il comandante sia dei loro
vascelli sottili da guerra sia dei loro vascelli tondi armati a guerra, cioè per quelle che già
nel Quattrocento erano state le navi armate, per esempio le cocche armate da Venezia nel
1417.
Il nome di patrone al comandante in prima resterà quindi nel Mediterraneo alla marineria
mercantile e ai soli vascelli remieri da guerra mediani (fuste e bergantini) e piccoli (fregate,
fregatine, caicchi ecc.) - così come anche sembri proprio che nell’antichità romana i
comandanti di liburna si chiamassero navarchi; ma in quella di Bisanzio alto-medievale essi
si dicevano ναυάρχοι o anche ναύχληροι, se però si trattava di comandanti di vascelli
mercantili d’appoggio all’armata di mare, ma eccezion fatta per i τριήραρχοι o τριηράρϰαι (l.
trierarchi), cioè per i prefetti o comandanti di triera, e per i δρομώναρχοι (‘dromonarchi’),
565
ossia quelli dei dromoni] - e ciò restò per moltissimo tempo, ossia sino a Ottocento
inoltrato, ma poi sarà anche in quest’ultima adottato il titolo di ‘capitano’, il quale farà la sua
apparizione anche sui mercantili oceanici, dove però non sostituirà, ma solo s’alternerà a
quello tradizionale di ‘maestro’ (maître, master, maestre). C’è infine da aggiungere che in
documenti del Trecento il patrone dei vascelli mercantili si trova talvolta chiamato armatore
e in effetti poteva anche esserlo, ma sul significato più restrittivo di quest’ultimo termine
più avanti diremo.
Nel Cinquecento il patrone, cioè il comandante sia della trireme ponentina, la quale era ora
diventata la galera sottile ordinaria, sia della bireme, cioè la ex-ordinaria ora declassata a
galeotta, presero entrambi il nome di capitaneo, titolo che nel precedente Medioevo era pur
esistito ma, come sinonimo di rettore, ossia col significato di comandante di un
distaccamento di vascelli, galere o navi, poche o parecchie che fossero, mentre la galera
levantina era, se veneziana, comandata da un sovracòmito e quella turco-barbaresca da un
rais. Pertanto dal sedicesimo al diciottesimo secolo: primo: capitano; secondo: còmito;
terzo: sotto-còmito, mentre il patrone era confinato al ruolo di addetto amministrativo e di
comandante luogotenente quando il capitano era assente. Il comandante di un
distaccamento di galere ponentine, francesi escluse, si diceva invece ora, come abbiamo
già spiegato, cuatralbo; ma nei secoli medievali precedenti si era chiamato - Adriatico
veneziano escluso - protontino (dal gra. πρῶτος, ‘primo’, ed ὂντες, ‘che sono’), nome che a
Genova era stato poi alterato in portantino. Quedsto protontino, come il suo successore
cuatralbo, aveva diritto a un suo vessillo. I francesi avevano un titolo equivalente chiamato,
come sembra, in l. corporalis, ossia ‘capo di squadra’, a quanto si evince da un ordine di
Carlo I d’Angiò del 15 maryo 1274 con cui comandava al suo vicario di Sicilia di predisporre
vascelli per contrastare le attività corsare dei genovesi e di altri; si doveva cioè armare 6
galee e 8 galeoni dai quali formare due squadriglie composte ciascuna di 3 galee e 2
galeoni, una comandata da Guglielmo Cornuto e destinata alla guardia dei mari siciliani di
levante, cioè tra Siracusa a Malta, e l’altra da Guglielmo di Sant’Onorato per i mari invece di
ponente, ossia da Palermo e Trapani a Pantallaria. Del compito da affidare ai rimanenti 4
galeoni l ’ordine non dice, ma probabilmente erano da mantenere di riserva (G. Del Giudice,
cit. P. 17).
Ma, per tornare ai comandanti dei singoli vascelli, ci rendiamo comunque certamente conto
che questo discorso dell’evoluzione dei loro nomi dal Mille alla fine della marineria remiera
può riuscire piuttosto complicato; cercheremo ora pertanto di riassumere quanto detto per
quella ponentina, cioè tirrenica, in maniera schematica, considerando che il comandante di
566
galea si chiamava in l. praefectus (‘prefetto’) ancora nel dodicesimo secolo, come ai tempi
nell’antica Roma:
fuste e monoremo
còmito
vice-còmito
tarite da guerra
còmito
vice-còmito o nocchiero
Cinquecento e Seicento.
A questo proposito riteniamo interessante riproporre l’elenco dei prefetti delle galee
veneziane che presumibilmente componevano lo stuolo che nel 1174 assediava Ancona dal
mare in appoggio all’esercito di Federico Barbarossa che la assediava invece da terra, in
quanto si tratta del più antico elenco di comandanti di galea in cui ci sia stato dato di
imbatterci; il Dandolo che lo riporta sembra volerli ascrivere invece ad uno stuolo, solo di
qualche anno successivo, che cioè nel 1177 avrebbe sconfitto quello del predetto
imperatore Barbarossa in una fantomatica battaglia nautica che si sarebbe svolta nelle
acque del promontorio istriano di Salbloicum [poi Salvore (S. Salvatore) e Savudrija in
Croato), scontro però in realtà improponibile, soprattutto perché si sarebbe svolto solo
qualche mese prima della Pace di Venezia, cioè di quella fine delle ostilità tra Federico e il
Papa che si concordò appunto nella metropoli lagunare, essendo quindi totalmente
impossibile che l’imperatore abbia potuto accettare per una capitolazione di pace la
mediazione di un nemico che l’aveva appena battuto; senza contare altre improponibilità e
cioè che Venezia abbia potuto solo in qualche anno fare un tale totale cambio di campo, che
567
Daniel Bragadenus.
Leonardus Fradellus.
Francifcus Georgius.
Stephanus Zianus.
Jacobus Tomisertus.
Ma, per quanto riguarda appunto i mari di Levante, a Venezia il comandante di galera, il
quale doveva essere un nobile, sarà poi chiamato sovraccòmito sin dal Tredicesimo secolo
(e.g. Andrea Dandolo, Chronicon, agli anni 1298-1299), il che dimostra che il còmito gli
preesisteva come ‘secondo’ del prefetto; la galea grossa commerciale veneziana era
comandata invece da un governatore, ma, se la si armava per usarla in guerra, allora o la si
metteva sotto il comando di un sovraccomito oppure, se il suo governatore era riconosciuto
esperto anche di guerra nautica, ci si limitava a lasciarlo al suo posto dandogli però il titolo
e lo stipendio di sovraccomito. Tra i turco-barbareschi il comandante di un vascello
remiero, piccolo o grande che fossse, era detto invece raïs o reïs (dal l. rex, ‘reggitore’) e
quindi portava questo stesso titolo anche il comandante di un legno remiero mussulmano
inferiore, galeotta o fusta o bergantino che fosse. Nel Medioevo generalmente i patroni di
galere biremi erano dei semplici pratici di navigazione (sp. mareantes), mentre quelli delle
triremi, considerate galere di rango reale, cioè adatte a ospitare anche lo stesso sovrano,
erano di conseguenza personaggi di qualità. Per quanto riguarda la marineria mercantile,
chiariamo che patrone era titolo mediterraneo e maestro atlantico.
Durante la navigazione il capitano di galera si tratteneva presso la sua già menzionata
bancazza, ossia, per sineddoche, nella camera di poppa, seduto sulla sedia che colà aveva,
ma talvolta usciva allo stentarolo per osservare come andassero le cose nel suo vascello,
oppure, quando ci fosse necessità di far rancare la ciurma per uscire da un porto alla
ricerca di vento favorevole, doppiare un capo con vento o correnti ostili o per dar la caccia
in bonaccia a un vascello nemico, andava su e giù per la corsia; se si navigava di notte egli
se ne stava seduto su una sedia al predetto stentarolo oppure assiso sul bandile, ossia
panchina di banda, della banda destra della poppa, percorrendo però ogni tanto la corsia
per controllare la voga o le vele e consultando spesso la bussola, mentre durante il
combattimento se ne stava allo stendardo, ossia all’incirca allo stesso ultimo luogo, perché
da esso si poteva tener sotto controllo tutta la galera. Doveva evitare il più possibile di
scendere a terra durante il viaggio, perché quella era l’occasione che spesso la ciurma
aspettava per ammutinarsi, come era spesso successo specie ai raïs turchi; ma se proprio
lo doveva fare, allora doveva prima ben raccomandare la sua galera al patrone e al còmito,
essendo quello, come abbiamo già detto, il suo secondo e questo il suo capo operativo.
569
Percepiva, nella squadra dello Stato Ecclesiastico, 10 scudi mensili, mentre 120 ducati
annui in quella di Napoli, più la paga mensile di 2 piazze morte (diremo nel prosieguo di che
si trattava) a indennizzo delle sue spese di rappresentanza e infine 4 razioni di vettovaglie
(avantaggiate di qualità) il giorno perché potesse così esser liberale e ospitale alla sua
tavola; infatti egli poteva avere qualche invitato fisso alla sua tavola, in genere passeggeri
di riguardo o militari volontarï, ma, nel caso questi non avessero saputo ben attenersi alle
norme dell’etichetta conviviale, non avrebbe esitato a mandarli a mangiare con la bassa
forza (fr. envoyer à la gamelle). Non era certo un compito facile il suo e il Pantera, egli
stesso comandante di galera, ne sintetizzava i motivi in queste poche seguenti parole:
... per le spesse e repentine mutazioni de i tempi, per la rapacità de i ministri, per la poca
discrezione de i marinari, per l'insolenza de i soldati e per l'angustia de i luochi... (Cit.
Proemio.)
Doveva ora essere e buon marinaio e buon comandante, perché da lui dipendevano tutti gli
uomini della galera, eccezion fatta di quelli della guarnizione militare, cioè della fanteria di
marina presente a bordo, la quale, specie se in buon numero, aveva a bordo un suo proprio
comandante militare. Se in combattimento il capitano era gravemente ferito o ucciso, cosa
probabile visto che in tale occasione stava spesso nella scoperta corsia, i suoi servi o
confidenti dovevano cercare di tener la cosa nascosta a bordo, ma non portandolo sotto
coperta, perché abbandonare il campo di battaglia sarebbe stata per lui cosa disonorevole,
bensì coprendolo subito con una schiavina affinché non si vedesse:
…questo di far occultar il capitano la sua morte non è per altro se non che non ci è cosa
che avilisca più i soldati che veder il loro capitano o mal ferito o amazzato. (Ib.)
Per il motivo opposto neanche i nemici dovevano accorgersene. A proposito delle buone
qualità marinaresche che ora anche gli si richiedevano bisogna dire che, nonostante
l'innegabile primato di Venezia nella marineria remiera e la bontà di galere e galeazze che si
costruivano in Italia, per quanto riguarda quella velica, gl’italiani non erano considerati tra i
migliori navigatori del mondo, come oggi erroneamente e sciovinisticamente si crede, ma ci
si limitava a ritenere i genovesi i migliori del Mediterraneo; e lo stesso già più volte citato
Crescenzio a riconoscerlo onestamente, seppure con quelli accenti fortemente
nazionalistici tipici del suo tempo:
... Iddio ci è testimonio, marinari mediterranei, che altro non è il desiderio nostro che
manifestare la verità al mondo in cosa 'sì pericolosa come è la navigazione e bramare che la
nazione italiana, anima e quinta essenzia di tutte l'altre, scacci da sé il manifesto torto che a
570
sé stessa procaccia; poscia che, eccedendo ella tutte l'altre nazioni in tutte l'altre arti
liberarli, mechaniche e miste, in questo solo resta ella a tutte l'altre inferiore. (Cit. P. 409.)
Quest'inferiorità era in parte dovuta a motivi oggettivi e cioè all'essere gl’italiani abituati a
navigare per lo più nel tranquillo Mediterraneo e ben poco si spingevano ad affrontare il
tempestoso oceano, dove la navigazione era resa estremamente pericolosa dai forti venti e
dalla violenza dei flutti e dove pertanto rendeva un marinaio veramente esperto del mare e
del governo d'un vascello. L'Aubin, nel suo Dictionnaire, alla voce Levantins così scriveva:
... Nei porti oceanici si dice 'equipaggio levantino' quello arruolato nei porti mediterranei. I
levantini passano per cattivi artiglieri e per essere poco adatti alla fatica; d'altronde essi
sono molto agili nel correre sui pennoni. (Cit.)
... Proibisca la bestemmia efficacemente ed ogn’altro vizio e sopra tutti quell'enorme che
tanto dispiace a Dio e tanto puzza. (P. Pantera. Cit.)
Insomma ai disgraziati galeotti era proibito anche il triste sollievo dell’onanismo, sia perché
peccato da confessarsi sia per il fetore che in coperta lo sperma rancido avrebbe emanato,
specie quando si viveva sotto la tenda, aggiungendosi poi a quello fisso del sudore e della
sporcizia prodotta dagli stessi remiganti.
A proposito della bestemmia è molto interessante leggere il primo articolo dell'ordinanza
per la disciplina marittima che fu promulgata nel 1420 dall'allora capitano generale del mare
di Venezia Pietro Mocenigo:
... Primo: chi biastemarà Dio over la sua Madre e Santi e Sante, si el sarà huomo da remo sia
frustado da poppe a prua, si el sarà huomo da poppa debia pagar soldi cento. Sia tegnudo
ciascun sopracòmito mandar ad essecuzion la detta pena, dagano notizia a messer lo
Capitano di quelli contra fecesse. (Cit.)
Più avanti descriveremo questa comunissima pena del dover correre da poppa a prua sotto
le frustate dei compagni. Doveva dunque il capitano anche prevenire la sodomia,
impedendo che a bordo anche solo se ne parlasse, secondo l’antico principio che il
prevenire procura meno dolore del reprimere (lem/ctm. los devant anants darts menys
nafren, ‘i dardi anteriori feriscono di meno’); a tal fine non doveva permettere che
s’imbarcassero giovani sbarbati né proeri troppo giovani, ordinando inoltre che questi,
anche nell’interesse del servizio, dormissero in coperta e non di sotto nelle camere. Un
episodio di severa repressione della pederastia è riportato in un frammento di un’anonima
cronaca napoletana della fine del Seicento:
(Aprile 1671:) …Trovandosi un certo schiavo della galera di S. Teresa havere forzosamente
commesso vizio nefando con un figliuolo di 12 anni dentro uno schifo dietro la torre di S.
Vincenzo e trovato in flagrante dalla guardia de’ spagnoli che vigilava nella garitta ivi vicina,
fu carcerato. (Il) quale, dopo haver confessato il tutto ai giudici competenti, fu condannato a
morte, ma l’Avvocato de’ Poveri di dette galere andò così dal duca di Ferrandina generale
come dal signor Viceré rappresentandogli che non poteva haver luogo la condanna di
morte, stante che la confessione di detto schiavo non conteneva havere emesso il seme
intra vaso… (Raccolta di varie croniche, diarij ed altri opuscoli etc. Napoli, 1781-1782.
B.N.N.)
Nel frattempo il predetto reo, poiché maomettano, si era fatto cristiano per cercare d’evitare
così la pena capitale, ma nonostante questo espediente e nonostante il parere contrario
dell’Avvocato dei Poveri (‘patrocinante gratuito’) delle Regie Galere, il quale, ricoprendo a
quanto pare anche la ben più importante carica d’auditore delle stesse galere, non voleva
572
…per il che ad un’hora di notte della medesima giornata di martedì fu eseguita la giustizia
sopra un palco nel largo della Tarcia, dove, doppo esser stato strangolato (‘garrotato’) detto
schiavo, fu abbruciato come sodomita. (Ib.)
Ogni capitano generale poteva aggiungere agli ordini di repressione più comuni degli altri
particolari a sua scelta e poteva diminuire o aggravare le pene previste come meglio
riteneva e ciò secondo le colpe, la qualità dei trasgressori e la convenienza dei tempi,
avendo come uniche remore la sua personale prudenza, l'utile del suo principe e la cristiana
moderazione. Al di là delle predette proibizioni, il capitano doveva fare in modo che la sua
ciurma fosse però trattata quanto meglio era possibile, perché spesso in battaglia questa
poteva, se voleva collaborare, essere di grande aiuto:
... la ciurma non sia deufradata delle sue razioni e provisioni né battuta senza legitima
causa, come occorre molto spesso per l'avarizia de i cattivi officiali che, dove sperano
guadagno, usano grandissima crudeltà, sforzando i meschini galeotti a saziar con denari la
loro ingordigia. (C. da Canal. Cit.)
In parole povere: ‘o mi paghi o sono botte’. A proposito di danari, bisognava che il capitano
permettesse ai suoi galeotti di guadagnarsene un po', perché anche la loro vita, senza un
minimo di disponibilità economica, sarebbe stata insopportabile, e già sappiamo quali
piccoli lavori artigianali fossero loro concessi quando erano inattivi in porto e ciò si faceva
anche per sottrarli al pericoloso ozio:
… Però (‘perciò’) commandarà al còmito che gli faccia lavorare l'inverno, mentre si starà in
ozio ne i porti, acciò che guadagnino alcuna cosa e possano supplire a lor bisogni [...] ed,
occorrendo che si ammalino, veda che siano curati e aiutati secondo i bisogni. (Ib.)
Che le buonevoglie veneziane potessero, durante i periodi di sosta nei porti, scendere a
terra e cercarsi dei lavoretti occasionali per integrare il loro magro salario era
tradizionalmente permesso; per esempio si offrivano come bastasi, cioè facchini. Ciò
accadeva per esempio nel 1496 a Napoli, nel cui porto si trovavano galee veneziane e
vascelli di altre nazioni uniti in una coalizione anti-francese; gli ufficiali della Serenissima
erano molto preoccupati per la città era in preda a una pestilenza e temevano che i loro
remiganti, i quali tutti i giorni scendevano a terra a guadagnarsi del danaro, tornassero la
sera a bordo contagiati:
573
… A dì 9 novembrio vene lettere di Napoli: [om.] La peste deva gran fastidio e che
Castelnovo era zà infetato e la regina era fugita fuori. 2 barze de’ spagniuli erano amorbate
e li galioti di la nostra armada andavano in le case amorbate per bastasar a guadagno (‘per
sfacchinar a pagamento’), ‘adeo’ erano in gran pericolo. E li lochi circomvicini erano tutti
pestilenti… (M. Sanuto, Diarii. T. I, col. 376.)
Nelle galere pellegrine di Venezia i remiganti, non essendo in esse problemi di sicurezza
militare ostanti, scendevano a terra a vendere i loro manufatti praticamente in ogni porto
abitato.
Il capitano aveva la facoltà d’esentare qualsiasi uomo di bordo dal servizio, se si trattava di
persona che lo meritasse particolarmente o anche se fosse stata cosa conveniente alla
stessa galera, ma doveva evitare il più possibile d’elargire simili esenzioni, le quali non
infrequentemente erano causa di sollevamenti e tumulti a bordo vuoi per l'invidia vuoi per
l'ingiustizia insita in ogni privilegio; comunque generalmente il capitano non s’immischiava
nei casi personali della ciurma, dovendola per forza di cose considerare un semplice anche
se importantissimo strumento di navigazione e non altro; infatti il predetto Guzmán di
Mateo Alemán, posto al remo d'una galera spagnola comincia a rendersi presto conto che
non il capitano, ma il còmito è il vero padrone suo e di tutti gli altri disgraziati remieri:
... Che, quantunque sia vero che lo è di tutti il capitano in quanto signore e capo, giammai
suole per la sua autorità intrigarsi con la ciurma; sono persone principali e di qualità, non
s’interessano di minuzie né sanno chi siamo... (Cit.)
I veneziani richiedevano che i nuovi sopraccomiti non fossero semplicemenrte dei giovani
nobili ma che avessero maturato una certa esperienza e infatti un decreto senatorio del 30
maggio 1402 prescrivevva che quelli eletti a Creta non avessero meno di trent’anni. A un
capitano di galera che navigasse nei mari di ponente era sufficiente conoscere l'italiano per
farsi intendere dovunque, sia nel Tirreno sia lungo le coste atlantiche dell'Europa centro-
meridionale; infatti tale lingua era non solo ben intesa negli scali di Provenza e della
Spagna, ma anche in quelli di Fiandra e d'Inghilterra e ciò grazie soprattutto ai regolari
traffici che Venezia per tanto tempo aveva esercitato con quei due lontani paesi a mezzo di
grosse galeazze mercantili, le quali, appunto per questo, erano state dette galeazze di
Fiandra. Se però andava a navigare nei mari di levante allora italiano e latino non gli
bastavano più e bisognava che conoscesse lo schiavo (‘slavo’), il greco e il turco, perché,
se anche sulle coste dalmate l'italiano andava ancora bene, meno l'intendevano in Grecia e
quasi per nulla nell'Arcipelago, specie dalle parti della Turchia. Se poi apprendere tutte e tre
le suddette lingue non gli era possibile, allora poteva tralasciare il turco, perché in effetti
574
gran parte delle genti soggette alla Gran Porta ottomana erano slave o greche e inoltre la
maggioranza degli stessi turchi ben intendeva le altre due lingue. In realtà i capitani di
galera veneziani e ponentini, invece di dedicarsi allo studio delle lingue, preferivano servirsi
nei mari di levante dei trucimani, ossia d'interpreti, anche se presso i veneziani ciò era
molto raro in quanto le loro ciurme erano costituite appunto da greci e dalmatini.
I predetti trucimani (termine probabilmente derivato dalla contaminazione latino-germanica
tra traducere e mann), volgarmente detti dragomanni (ltm. drugomani), erano in genere
cristiani che risiedevano a Costantinopoli, dove esercitavano appunto il delicatissimo
mestiere d'interprete; si ricorda per esempio quello personale del sultano Amurat III, un
lucchese rinnegato chiamato dai turchi Orimbei e che era stato in precedenza dragomanno
della Signoria di Venezia. Sulla ovvia importanza di questi trucimanni nei negozi
internazionali, specie in quelli che Venezia trattava con Costantinopoli ai fini commerciali,
ma anche a quello di contenere l'espansionismo turco in Europa, si dilunga il bailo Lorenzo
Bernardo (1592); ma, non essendo argomento direttamente pertinente al nostro principale
assunto, non ne parleremo più oltre e solo diremo che poteva essere una lucrosa attività,
come si evince da quell’adagio tedesco del tempo che diceva: Der beste Dollmetscher
(‘interprete’) ist Gold und Geld, rammentante quelli italiani, validi ancor’oggi, La legge è
oscura ma l’oro la chiarisce e La legge è l’oscura luna e l’oro il sole che la illumina . Da
queste ultime considerazioni si deduce comunque che quella tanto chiacchierata ‘lingua
franca’, quel gergo marinaro e mercantile cioè che si parlava in tutto il Mare Nostrum e nel
Mar Nero, specie ad Algeri, per potersi intendere, ossia quell'esperanto ante-litteram del
mare fatto di parole storpiate tratte dalle principali lingue latine, soprattutto dall’italiano e
dallo spagnolo, dove ogni verbo s’impiegava per lo più solo al modo infinito, non aveva
allora alcun carattere d’ufficialità ed era lasciata alla povera gente sia del mare che delle
coste; quale fosse l'origine di questa lingua franca - e cioè in effetti la condizione di
schiavitù di tanti cristiani e la continua, nutrita presenza di tanti cristiani rinnegati tra i
turco-barbareschi - si evince da quanto ne dice il Cervantes Saavedra nel suo Don Quijote,
laddove fa raccontare a un capitano di fanteria della sua passata cattività ad Algeri, finzione
in cui l'autore nasconde la sua propria passata esperienza di prigioniero dei barbareschi;
infatti, il 26 settembre del 1575, mentre tornava ferito in Spagna da Napoli con suo fratello
Rodrigo sulla galera spagnola El Sol, questo vascello, dopo un’ostinata difesa, fu catturato
e portato ad Algeri da tre galeotte algerine comandate dal corsaro Mami Arnaute (‘Mami
l’Albanese’), famoso rinnegato albanese; ad Algeri, dopo uno sfortunato tentativo di fuga
nel 1577, visse in cattività nel bagno sino al 1580, quando cioè riuscì a riscattarsi tramite i
575
padri trinitari per la grossa somma di 500 ducati d’oro – o di 100 scudi d’oro, come dice il de
Haedo, una perdita economica comunque dalla quale lo scrittore non riuscirà più a
risollevarsi; dunque così egli a un certo punto fa dire al suo personaggio:
... mi si rivolse in una lingua che si usa tra schiavi e mori in tutta la Barbaria e anche a
Costantinopoli, la quale non è moresca né castigliana né di alcun’altra nazione, bensì un
miscuglio di tutte le lingue, con cui tutti ci capiamo; dico dunque che in questo tipo di
linguaggio mi domandò che cosa cercavo in quel suo giardino e a chi appartenevo. (M. de
Cervantes Saavedra. Cit.)
Nella sua Historia de Argel il de Haedo così scriveva a proposito di questa lingua franca:
… La terza lingua in uso ad Algeri è la ‘lingua franca’, così chiamata dai mussulmani non
perché parlandola essi credano d’esprimersi nella lingua d’una qualunque nazione
cristiana, ma perché a mezzo d’un gergo in uso tra loro essi s’intendono con i cristiani,
essendo la ‘lingua franca’ un miscuglio di diversi vocaboli spagnoli od italiani per la
maggior parte. Gli si è poi introdotta qualche parola portoghese dopo che, da Tetuan e da
Fez, era stato portato ad Algeri un grandissimo numero di gente di quella nazione, fatta
prigioniera nella battaglia che perse il re di Portogallo don Sebastián ( Alcazarquivir, 4
agosto 1578). Aggiungete alla confusione e alla mescolanza di tutte quelle parole la cattiva
pronuncia di quei mussulmani, i quali non sanno coniugare i modi e i tempi dei verbi come i
cristiani a cui tali vocaboli appartengono. Questa ‘lingua franca’ non è che un gergo o
piuttosto un linguaggio da negro da poco portato e arrivato in Spagna dal suo paese;
nondimeno questo gergo è d’un uso così generale che s’impiega per tutti gli affari e tutte le
relazioni tra turchi, mori e cristiani e (queste) sono tanto numerose che non c’è turco o
moro, anche tra le donne e i fanciulli, che non parli correntemente tale linguaggio e non
s’intenda con i cristiani. Ci sono pure tanti mussulmani che sono stati prigionieri in Spagna,
in Italia od in Francia. D’altra parte c’è un’infinita moltitudine di rinnegati di quei paesi e una
grande quantità di giudei che vi sono stati, i quali parlano molto bene lo spagnolo, il
francese e l’italiano. C’è anche (da dire) che tutti i figli di rinnegati e di rinnegate, i quali,
avendo appreso la lingua nazionale dei loro padri e madri, la parlano così bene come se
fossero nati in Spagna od in Italia. (D. de Haedo. Cit.)
Un rais, ossia un capitano di galera turco, era molto più responsabilizzato del suo collega
cristiano in quanto, sia pure a spese dell'erario reale, doveva costruirsi da sé la sua galera,
come ci spiega il bailo Costantino Garzoni (1573):
... e questi (‘i rais’) vanno loro medesimi a' boschi per far tagliare i legnami e ivi fabrica
ognuno il suo legno con manco spesa e maggior prestezza, il quale è conservato da loro
finché è navigabile; il che certo a me pare esser buon costume, poiché, dovendo ognuno
avere cura del suo, lo fabbricano, governano e conservano come cosa propria. É ben vero
che, essendo l'arsenale di Pera piccolo rispetto alla molta quantità de' vascelli che hanno,
sono astretti a tenerne la maggior parte in acqua e allo scoperto tutta l'invernata, il che
causa che i legni invecchiano molto più presto; ma, come la natura ha fatto poco
industriosa questa gente per conservare i loro vascelli, così gli ha dato ancora molta
abondanza di legnami per farne de' nuovi, perciò che nel Mar Maggiore e nel golfo di
Nicomedia vi è un numero grandissimo di bellissimi boschi [...] Hanno molta abondanza di
576
canapi, se bene non così buoni come li nostri, né hanno difficoltà di pegola, avendone nello
stato loro molte miniere. (E. Albéri. Cit. S. III, v. I, p. 420.)
Abbiamo lasciato in sospeso la spiegazione del significato di piazze morte; esse erano le
pensioni militari di povertà che si davano a figli o vedove di militari deceduti in servizio.
Queste plazas muertas differivano dunque dagli entretenimientos, per esser questi degli
stipendi che si davano a ufficiali viventi, ma non in servizio, perché si mantenessero però
reperibili e a disposizione per straordinarie necessità belliche.
Inoltre ogni raís si doveva scegliere da sé i suoi ufficiali, i quali, come abbiamo già detto,
restavano a disposizione e pagati dal sultano per tutto l'anno; ecco a tal proposito una
relazione del 1575 sulle forze di terra e di mare del sultano Amurat III preparata da un
anonimo residente veneziano, ma che in realtà è quasi interamente scopiazzata dalla
precedente del Garzoni:
... Ogni volta che si fabrica una galea di nuovo gli si deputa il suo 'rais', qual dura sino che
la galea è buona da navigare, e sono i 'rais' in numero di più di trecento con soldo di aspri
otto sino a quaranta il giorno per uno, secondo la qualità, e tutti sono tenuti a eleggersi il
còmito, il parone e altri due uomini pagati dal Gran Signore sino ad aspri sette il giorno per
uno; il che si fa per aver gli uomini da comando sempre preparati, ma, come non armano,
servono persone di poca qualità ed essi tirano le entrate e, quando bisogna armare,
patiscono, perché è penuria grande di uomini da comando, e tutti gli uomini sono pagati,
così se armano come se non armano. (Ib. S. III, v. II, pp. 314-315.)
Solo un decennio prima i raïs erano stati molti di meno, come si leggeva nella relazione del
1562 letta in senato dal bailo Andrea Dandolo:
... Tiene questo Signore cento e cinquanta 'reis', che sono qui tra noi sopracòmiti, in
Costantinopoli e cinquanta in Gallipoli pagati di continuo delli denari del 'casnà' ad aspri
otto il giorno per uno per il meno e per il più aspri quaranta sin cinquanta, ma di questo
però maggior stipendio ve ne sono dieci solamente. Hanno ciascuno di questi 'reis' sei
uomini per uno, principali officiali di galea, tutti secondo le qualità e meriti lor - però di
continuo medesimamente - salariati; e tutti questi, 'sì sopracòmiti come officiali, paratissimi
sono sempre a montar ad ogni cenno e semplice comandamento del Signor sopra l'armata.
(Ib. S. III, v. III, p. 165.)
Secondo la relazione presentata nello stesso predetto 1562 dal segretario a Costantinopoli
Marc'Antonio Donini, i raïs erano invece 50 di più:
... Delli 'reis' di queste galee, delli quali con questo titolo ne sono pagati intorno a 250, se ne
ritrovano molti che, per aver armato si può dire ogn’anno da molto tempo in qua, si
possono riputar valentissimi uomini e atti, non voglio dir solo a guidar bene le loro galee,
ma ancora tutta l'armata del Serenissimo Signore. (Ib. P. 192.)
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Questo numero di 250 aumenterà ancora e a 275 nella relazione del bailo Daniele Barbarigo,
la quale è del 1564. Benché dunque molto responsabilizzati, dopo Lepanto i baili veneziani
incominciano baldanzosamente a riconoscerne, oltre che i pregi, anche i difetti, come si
può vedere nella relazione di Marc'Antonio Tiepolo (1576):
... Il modo veramente che (il sultano) tiene nell'armare è questo, che, tenendo pagati 300
'rais', cioè tanti quante sono le galee, perché allora deputa il 'reis', cioè il capitano per la
galea, quando è per fabricarla di nuovo, al qual 'rais' provvede di otto sino a quaranta aspri
il giorno, vuole il Gran Signore che questi 'rais' abbiano cura della propria galea, acciò che
tanto sappiano essi avere a durare la paga quanto sia per durare la loro galea; provvisione
in vero buonissima, se fusse osservata, ma, perché il favore e i donativi possono molto,
onde spera sempre ognuno cambiar galea e averla migliore, benché la già deputata si perda
o si guasti, riesce la provvisione con poco frutto; però (‘perciò’) si veggono questi essere
fra i più inutili gl’inutilissimi uomini del Gran Signore, ad altro non attendendo - quando loro
tocca di navigare - che a pensare come, col mancare al misero galeotto, possan essi far
maggior il guadagno, lo che è anche una delle cause per le quali avviene la spessa morte
de' galeotti.
Al 'rais' sono pagati ancora quattro uomini sino a ragione di sette aspri per uno il giorno e
sono il còmito, il paron e due altri compagni, i quali non sono né anco i migliori fra tutti
perché vuole il 'rais' avanzare anco per questa via, sendo il soldo pagato a ciascuno sia o
non sia bisogno di armare. (Ib. S. III, v. II, pp. 147-148.)
Sempre nell'ottica d’un ormai consolidata disistima dell'armata turca dopo Lepanto il bailo
Paolo Contarini nel 1583 scriveva che, per mare e per terra, i mercenari cristiani erano, ora
più che mai, i soldati più apprezzati dai turchi e non a caso lo stesso capitano generale di
quell'armata era uno di quelli, cioè ancora quell'Uluch-Alì, rinnegato calabrese, che dalla
condizione di povero pescatore o marinaio, poi schiavo remigante dei turchi, poi corsaro
barbaresco era assorto a una delle più alte cariche che a quel tempo ci fossero al mondo:
... Tien Sua Maestà (‘il sultano’) del continuo provvisionati duecento còmiti e buona quantità
di bombardieri, li quali stanno aspettando occasione di andar a servir sopra l'armata, con
speranza di arricchirsi e ascender a maggior grado; e il Capitano (Uluch-Alì), che conosce
quanto siano in questo più atti gl’italiani degli altri, procura di metter questi innanzi e gli
accarezza quanto può. (Ib. S. III, v. III, p. 223.)
Ai tempi della relazione del bailo Giovanni Moro e cioè nel 1590 i raís erano aumentati al
numero di 360 e la loro paga iniziale era d’8 aspri, mentre gli azap, i jopeg (bombardieri), gli
armaioli e i circa 600 calafagi (‘guardiani’) dell'arsenale di Peràia ne prendevano
inizialmente quattro; ma questi emolumenti aumentavano poi per tutti con l'anzianità e il
merito di servizio e c'erano infatti raís che percepivano più di 100 aspri il giorno, cioè più di
2 ducati veneziani. Il Moro da un giudizio negativo dei raís del suo tempo, a conferma di
578
come fossero ormai definitivamente in degrado e decadenza le qualità morali degli uomini
di comando turchi dopo quella ormai lontana, ma fatale battaglia, perché sempre le guerre
perdute provocano negli uomini un graduale abbandono dei valori nazionali e civili e un
affermarsi invece dell'egoismo materialista e della corruzione:
... A' 'raís', nella loro prima istituzione, che fu di pochi, si consegnava un corpo di galea per
uno con tutti suoi prestamenti, come si fa tuttavia in tanti magazzini a parte nell'arsenale
(periodo oscuro), e la paga veniva data solamente per quel tempo che la loro galea si
manteneva in stato di potersi adoperare, il che li metteva in necessità d'averne buona cura
per non restar privi di quel trattamento; ma al presente, che tutte le cose sono in disordine e
che non viene osservato il rigor di prima, sono interamente satisfatti (pagati per tutto
l'anno), se ben non solamente molti di essi si trovano senza galee, o sian disfatte per
vecchiezza o andate a male per altro accidente ovvero perché, adesso che sono ridotti in 'sì
gran numero, non gliene sia stata mai consegnata alcuna per non se ne trovar tante in
essere; ma quelli ancora che l'hanno avuta vanno per negligenza rare volte a vederla, se
non gli viene comandato che si preparino per armarla. Perché, essendo uomini per lo
ordinario di vil condizione e in conseguenza poco zelanti del proprio onore e indegni
d'esser paragonati con li sopracòmiti della Serenità Vostra, nobili d'animo e di costumi,
attendono solamente a riscuoter le loro paghe e a rubar quanto più possono in ogni servizio
in cui siano impiegati, senza aver alcun riguardo al pulimento delle galee, che, malissimo
tenute da essi, per poco tempo si conservano bene... (Ib. pp. 348-349.)
Quest'insufficienza qualitativa dei raïs e degli uomini di comando in genere, pur sempre nel
contesto della grande temibilità numerica dell'armata turca, è di nuovo messa in risalto dal
bailo Lorenzo Bernardo (1592), la cui relazione letta al doge e ai senatori di Venezia si
distingue per la profondità della sua disamina:
... Le forze di mare di quel Gran Signore sono considerabilissime per sé appresso tutti li
principi del mondo, ma molto più alla Serenità Vostra, lo Stato della quale non può ricevere
offesa notabile se non da esse, onde a queste sempre devesi aver l'occhio e queste devono
essere dall'Eccellenze Vostre perfettamente intese e maturamente considerate; però
(‘perciò’) in esse mi dilaterò (‘dilungherò’) un poco più, sapendo dover dir cosa che sarà
non meno di benefizio che di satisfazione di questo Eccellentissimo Senato.
Trattiene il Gran Signore con soldo ordinario quattrocentosessanta 'rais', che sono
sopracòmiti, delli quali appena centocinquanta sariano atti a poter sostenere il servizio e
averiano qualche cognizione delle cose da mare; il resto sono tutti artefici, putti e vecchi, li
quali o per favore o per pietà hanno avuta quella provvisione. Trattiene quattromila e più
'asappi', che sono offiziali di galea, delli quali due terzi sono poco atti a quel servizio.
Questa milizia è malissimo pagata ed ordinariamente va creditrice di tre in quattro mesi di
provvisione, perché, quando non ha bisogno di essa, il Gran Signore poco sicura di darle
alcuna satisfazione. É più tosto diminuita in numero per questa causa e diminuisce anco in
esperienza e valore, perché, essendo già passati quattordici anni che non è uscita armata
reale di Costantinopoli, li vecchi sono andati mancando, né se ne ha potuto allevar de'
nuovi se non quelli pochi che, nell'andar in corso, hanno in questo tempo potuto acquistare
qualche esperienza nelle cose da mare [...]
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... Di 500 'rais' poi trattenuti (‘pagati in permanenza’) pel comando non ne sono cento pratici
del governo d'una galea, perché questi officij vengono dati - come gli altri - per danari al più
offerente e non al migliore; e però (‘perciò’) l'arsenale passa con tutto quel disordine che
(non) si possa desiderar maggiore per servizio (‘a vantaggio’) della Christianità. (Ib. P. 403.)
Aiutante del capitano e commensale fisso della sua tavola era il giovane nobile di poppa o
gentil'huomo, ma a volte, come avveniva per esempio sulle galere pontificie, potevano
esserci anche due nobili di poppa, di cui però uno solo faceva da luogotenente del capitano
quando questi era assente:
... però haverebbono anco ad esser veramente nobili di stirpe come sono di nome,
pungendo gli stimoli dell'honore gli huomini nati di chiaro sangue più che i plebei. (P.
Pantera. Cit. P. 116.)
L’opportunità d’affidare i comandi di mare ancora ai nobili, come si era fatto nel
Rinascimento, era stata già affermata anche nel Governo di galere:
…Dunque, essendo hoggi questo offizio de’ marinari tanto importante e consistendo tutte
(le) forze de’ Principi quasi nella potenza del mare, doveria questo offizio de’ marinari
essere nelle mani de’ nobili e non di gente bassa come hoggi dì si tiene. (Discorso circa il
modo et maniera ha da tenere un Capitano etc. Cit.)
580
L’opinione qui espressa dai predetti autori e cioè che, se si voleva onestà spirituale e senso
di responsabilità nei comandi militari, bisognava affidarli ai nobili, trovava sicuro e
riconosciuto riscontro nella realtà di quei tempi e quindi non ci sarebbe nulla di più errato
se volessimo oggi puntualmente metterci a contestarla. Per loro antico istituto i veneziani
usavano assegnare due nobili di poppa d’ancor tenera età, cioè di non più di 12 o 13 anni, e
quindi non combattenti, a ognuna delle loro galere sottili, due anche a ogni veliero grosso,
armato o non armato a guerra che fosse, e quattro a ogni galeazza; all'incirca lo stesso
facevano i genovesi. Questi ragazzi erano eletti dal capitano del vascello, il quale offriva
quindi loro di partecipare a un impareggiabile seminario di guerra e di mare, dal quale non
potevano che uscire futuri buoni capitani.
Durante il combattimento il capitano assegnava ai nobili di poppa un luoghi dove potessero
mostrare maggiormente il loro valore e per lo più uno lo poneva sulle rembate, affinché
comandasse e guidasse la gente di prua nella battaglia; a un nobile di poppa si soleva poi
affidare la soprintendenza dell'artiglieria di bordo. Il gentiluomo prendeva una doppia
razione alimentare (l. duplicarii), avantaggiata di qualità come quelle che toccavano al
capitano. Mateo Alemán, laddove il suo Guzmán è forzato di galera, descriveva anche la
venuta a bordo d’un simile gentiluomo:
... Capitò in quel tempo che venisse a professare nella galera un cavaliere dello stesso
cognome del capitano di quella e si trattavano anche da parenti. Era ricco, si trattava bene e
portava una grossa catena (d'oro) al collo, come usavano i soldati, come quella che un
tempo anch'io portavo. Prendeva i suoi pasti a poppa, possedeva un lucidissimo servizio
d'argento e servitori ben vestiti; e al secondo giorno dal suo imbarco gli mancarono dalla
catena diciotto ciondoli, i quali senza dubbio valevano cinquanta scudi... (Cit.)
Questo gentiluomo dormiva su una panca del locale che l'Alemán chiama scandolaretto di
poppa e che potrebbe essere in effetti nient'altro che lo scandolaro, mentre il forzato
Guzmán, al quale in seguito al predetto furto erano state affidate la custodia e la cura degli
effetti personali del gentiluomo medesimo, dormiva a tal uopo nella dispensina, ossia, nella
compagna. Guzmán faceva di tutto per farsi ben considerare dal suo nuovo padrone nella
speranza di poter forse un giorno - così comportandosi - recuperare la libertà perduta:
... Quando saliva a bordo, lo andavo a ricevere alla scala; gli davo la mano quando entrava
nello schifo; gli facevo stuzzicadenti da tavola di grandissima originalità, tanto che ne
mandava anche a terra come regali; gli tenevo l'argenteria e le altre tazze da bibita tanto
lucide e pulite che era un piacere vederle, il vino e l'acqua freschi, la lana degli strapuntini
ammorbidita, l'alloggio pulito in tal modo che non vi era né vi si poteva trovare una sola
pulce né alcun altro animaluccio, perché in quello che mi avanzava del giorno mi occupavo
581
solamente di andare a caccia di quelli, tappando anche i buchetti da dove sospettavo che si
potessero originare, non solo perché fosse esente da essi, ma anche dal loro cattivo odore.
(Ib.)
Il cappellano di bordo (fr. aumônier) poteva essere un normale presbitero, oppure un frate
predicatore o minore, dell’ordine degli eremiti o dei carmelitani o d’altri ancora; egli
alloggiava nella camera di prua, ma l'Alemán nel predetto Guzmán lo fa dormire nello
scandolaro insieme ai servi del nobile di poppa e in effetti della gente di poppa o di
comando che dir si voglia faceva parte, in quanto segretamente collaborava col capitano ai
fini di tener con le sue parole buona la marinaresca e contribuire così a scongiurare le
sedizioni e gli ammutinamenti; in effetti, come si sa, era quello un tempo in cui signorie e
clero erano alleate nel governo dei popoli. Durante il combattimento si metteva, come il
barbiero, nella camera di poppa e colà ascoltava le confessioni dei moribondi e dava loro
l'estrema unzione. Il suo principale compito a bordo era tuttavia quello d'esortare alla
preghiera mattina e sera, alla santificazione delle feste, ai digiuni, ai canti religiosi e alla
partecipazione alle messe e ai sacramenti, tutto ciò secondo il nutritissimo calendario
ecclesiastico del tempo; egli pertanto esortava i remiganti alla confessione, gli schiavi
maomettani alla conversione alla fede cattolica; in navigazione teneva messa a bordo, nel
modo però che s’usava in mare e cioè senza l’oblazione di sacrificio, ma quando si toccava
terra, sbarcava e lo faceva sulla costa di fronte alla galera ormeggiata; ogni sabato sera
percorreva la corsia tenendo in alto il ritratto della Madonna e tutti cantavano la salveregina
accompagnati dai musicanti di bordo, se ve n’erano, oppure dai soli trombetti. Prendeva 4
scudi pontifici il mese - ducati napoletani 26,40 l’anno - e 2 razioni giornaliere.
Il patrone o scrivano di razione o razioniero (l. scalcus; petentarius; gr. εὒθυνος,
ἐπιστολεύς; fr. majordome; vn. massaro, masser; cst. maestre de ración), presente già
anche nelle galeotte dell’inizio del Trecento, era appunto il contabile o scrivano della galera
e si trattava del secondo ufficiale di bordo dopo il capitano, essendo infatti il suo nome
residuale di quello medioevale socto-patrono, in quanto, come abbiamo già spiegato,
pa(d)rono o patrono si era chiamato nel Medio Evo il capitano della galera e ancora così si
chiamava quello dei vascelli mercantili; il suo principale compito era il provvedere, ricevere,
custodire e dispensare, secondo le necessità o in razioni, le vettovaglie e gli altri generi di
munizione sia per servizio della gente di bordo che dello stesso vascello, provviste tutte
che gli erano affidate dal provveditore dell'armata o della squadra, poiché in effetti a lui si
consegnava lo stesso scafo con tutti i suoi corredi e armamenti. Da questa sua qualifica di
razioniero, ossia di ‘dispensatore di razioni’, deriva il moderno termine 'ragioniere', il quale
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non ha quindi etimologicamente nulla a che fare con 'ragione', errore al quale però
inducevano già allora i non ancora colti francesi, quando, invece di ration (ol. eet-maat,
rantsoen), scrivevano spesso anche raison. Egli doveva anche registrare e custodire quelle
poche mercanzie pregiate (sete soprattutto) che i mercanti imbarcavano spesso sulle
galere, approfittando dei loro veloci viaggi nel Mediterraneo, e pertanto era necessario che
s’intendesse anche di pesi e misure e che fosse un buon abbachista; a ogni mercante egli
doveva rilasciare un certificato d’imbarco contenente la poliza di carico, ossia la ‘lista’ delle
merci da lui imbarcate, del prezzo del relativo nolo (gr. ναῦλον, πορθμίον), del luogo
d'imbarco e di quello di sbarco; infine di tutto ciò che a bordo eventualmente mancasse
doveva far richiesta al provveditore della sua squadra, al quale pure doveva rendere conto
di tutto quanto fosse caricato a bordo, quindi delle entrate e delle uscite di tutto il materiale
di munizione, lavorando pertanto in stretto e continuo contatto con il pennese o
magazziniere. Doveva registrare accuratamente anche gli effetti personali di coloro che
decedevano a bordo, per poi consegnarli, appena possibile, a chi, in qualità di erede, ne
avesse diritto, facendosi sempre di tutto rilasciare nota di consegna firmata dagli
interessati. La sua figura andò però dopo il Rinascimento perdendo d’importanza e infatti il
suo posto in navigazione, il quale era stato principalmente a poppa con il capitano, in
seguito sarà limitato al solo pagliolo, cioè al luogo dove lavorava e dormiva; riceveva 5
scudi pontifici il mese - ducati napoletani 69 l’anno - e due razioni di vettovaglie il giorno.
Sulle galere Capitane il patrone aveva spesso l'aiuto del già ricordato mozzo detto
scrivanello e ambedue in battaglia non partecipavano al combattimento poiché erano
impegnatissimi a tirar fuori dai depositi le armi e le munizioni da distribuire ai combattenti;
ma, laddove si trattava d’un militare di carriera e non d’un semplice abbachista, allora,
quando si vogava, il capitano lo voleva in corsia ad aiutare còmito e sotto-còmito a
spronare i remieri.
A proposito dell’espressione poliza di carico c’è da segnalare che a Venezia si usava di
preferenza quella di lista di carico; lista in veneziano era termine che aveva preso a
significare infatti anche elenco oltre che l’originario ‘via diritta, rettilineo’, significato
questo ancor oggi ricordato da due vie rettilinee della città, anche se col tempo diventate
più brevi, e cioè quella detta Lista di Spagna perché vi era una volta ubicato il palazzo
dell’ambasciatore spagnolo, e quella detta Lista vecia dei bari, perché una volta in essa si
trovavano le botteghe dei bari, ossia dei barattieri.
Importantissimo, faticosissimo e irrequietissimo ufficio era quello del còmito,
corrispondente per eccesso al nocchiero (questo più tardi detto nostromo) dei vascelli
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tondi, anche se, come abbiamo già detto, documenti medievali sia veneziani che catalani ci
dicono che questo ufficiale fu, sino a tutto il Trecento, ancora più oberato, in quanto unico
comandante della galera, e solo da quel secolo fu sottoposto a un padrone, il quale
prenderà poi, come sappiamo, il nome di sovracòmito a Venezia e di ‘capitano’ altrove.
Bisogna però ricordare, come del resto già più volte fatto, che sino a quel tempo le galere
medievali erano state più spesso delle biremi, come già detto, quindi meno impegnative da
governarsi delle triremi; ciò almeno parlandosi delle italiane tirreniche, perché invece
principalmente triremi, cioè più simili alle antiche triere romane, erano state anche nel
Medioevo le catalane e le adriatiche, ossia le bizantine e le veneziane. Egli comandava, sia
in navigazione sia in porto sia in combattimento, tutti i servizi di bordo e guida della galera,
dove ogn'huomo riposa sotto la sua diligenza. (P. Pantera. Cit. P. 118.) Tra i suoi compiti più
difficili è quello di stimolare la ciurma a lavorare di remo con il massimo impegno:
... ordinariamente, perché si ecciti all'opra, è necessario adoprar non meno il bastone che'l
fischietto. Però (‘perciò’), usando il rigore, sarà più obedito e i servizij si faranno meglio e
con maggior prestezza per il timor delle busse, dalle quali nasce l'obedienza, che è la
principal causa del buon governo d'una galea. (Ib.)
Il suo bastone era detto a bordo cerchio (gr. ϰίρϰος; sp. arco de pipa), in quanto
probabilmente non era altro che il legame circolare di legno elastico usato per tenere
insieme le doghe dei barili; doveva però usarlo con discrezione:
... perché il còmito che attende imprudentemente ad esacerbar col bastone e a mal trattar la
sua ciurma senza ragione - come ho veduto a far io da molti huomini indiscreti - l'avvilisce e
mette in tanta disperazione che si abandona affatto e più tosto si lascia ammazzare che
moversi, desiderando alcuni di quei meschini di liberarsi dalli stratij e da gli acerbissimi
flagelli che sentono con la morte. (Ib.)
... Fuori del servizio publico mostrisi il còmito affatto amorevole alla ciurma, aiutandola e
accarezzandola senza (però) domesticarsi seco, e le sia protettore e come padre,
riducendosi alla memoria che è finalmente carne humana e che si trova nel colmo delle
miserie. (Ib.)
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Questo richiamo a evitare trattamenti crudeli era già un addolcimento rispetto alla mentalità
più spietata che si era avuta nel Medioevo, come si evince per esempio leggendo la già
ricordata ordinanza catalana del 1354 laddove ancora si ritiene necessario proibire al
còmito di colpire la sua ciurma con armi più pericolose del semplice bastone:
… che nessun còmito colpisca di lancia o di dardo alcun uomo della sua galea, perché è
molto meglio colpire di correggia o di bastone o di verga, così non si storpia la gente né si
spezzano le armi. E, se lo fa, che ripaghi le armi il doppio (que negun cómit no fira ab lança
ne ab dart null hom de la sua galéa, car melor ferir es ab una correia ò ab bastó ò ab verga è
no destroueix hom la gent ne afolla hom les armes. E si ho fá, que pach les armes en doble.
Cit. p. 83).
Insomma, l’integrità delle armi sembra avesse allora più importanza di quella dei disgraziati
remiganti! Altro importantissimo compito del còmito era mettere in stiva la galera, cioè
accomodarne la roba pesante presente nelle camere, specie nella camera di mezzo, nella
maniera migliore perché navigasse con il giusto assetto, cioè senza che piegasse più da un
lato che dall’altro o che fosse troppo appruata o troppo appoppata, posizioni difettose che
ne avrebbero non solo rallentato il corso, specie la voga, facendo inutilmente ammazzare di
fatica la ciurma, ma anche messo a rischio di rovesciarsi in caso di colpi di mare; e poi
aveva un’infinità d'altri compiti, come comandare le manovre delle vele e della voga, far
sempre nettare e frettare tutta la galera, farla spalmare, cioè cospargerne di sego l’opera
viva dalla chiglia alla linea d’acqua, farla ormeggiare, alberare e disalberare (sp. adrizar y
acorullar); doveva inoltre far sarpare i ferri (‘salpare le ancore’), accomodar le sartie o
soghe, le vele, le tende, le gomene e le ancore; doveva far fare il carro, ghindare
(‘sollevare’) e ammainare le antenne, servire le vele, mandar l'uomo alla penna – vedremo
poi il significato di ciò, sistemare il palamento al suo posto e i banchi per la ciurma; doveva
far calar remi, (‘vogare’; gr. & gr. πτεροῦν), siare, palpare, affornellare (‘affrenellare’),
acconigliare o tessere i remi, far fare la tenda, cannonarla, sciamprarla e abbatterla, far
asciugare vele, tende e sartiami quando fossero bagnati, tener pulita la ciurma, sorvegliare
che i galeotti non si vendessero o impegnassero i vestiti, dei quali doveva quindi spesso far
la rassegna; doveva spronare i remiganti, quando non si navigava, a far qualche lavoro per
guadagnarsi qualche soldo e potersi così mantenere; doveva far salutare con trombe,
clarini e tamburi al loro passaggio galee, navi principali, personaggi, luoghi fortificati o di
devozione, vascelli di pellegrini, specie le galee veneziane che portavano questi in
Terrasanta, tranne di venerdì che, essendo giorno rattristato dal ricordo della morte di
Cristo, si salutava con la voce.
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Dato il suo particolare impegno nella guida della navigazione, al còmito poteva capitare di
trascurarne altri minori, per esempio quello di mantenere il controllo anche di quanto
avveniva sotto coperta; la già più volte ricordata ordinanza catalana del 1354 sanzionava
tale tascuratezza:
… che tutti i còmiti siano tenuti per giuramento, il quale presti nell’entrare nel suo ufficio, a
entrare nel sotto-ponte della sua galea almeno ogni settimana per controllarla e riassettarla;
e, se questo non fa, che perda il salario che ammonterà tutta la (sua) settimana, il quale sia
riassegnato e cioè due parti al patrone e la terza parte al viceammiraglio (que tot Cómit sia
tengut per sagrament, lo qual faça com entrará en son ofici, que cascuna setmana almenys
deie entrar desota en la sua Galéa per regonexer è estreyar aquella: è si açó no fa, que
perda lo salari que muntará tota la setmana, lo qual sia guanyat, ço es, les dues parts al
Patró, è la terça part al Visalmirayll. Cit. P. 92).
Questo far guadagnare gli ufficiali generali sulle manchevolezze dei loro subordinati
evidentemente si riprometteva di ottenere un maggior coinvolgimento di quelli nella buona
tenuta di una galea, ma paradossalmente un ufficiale disonesto avrebbe potuto anche
cercare occultamente d’incentivarle per trarne poi un guadagno.
Doveva ancora il còmito far attenzione che, viaggiandosi di conserva (fr. de conserve, de
flotte), le galere non si urtassero e si spezzassero reciprocamente i remi, né doveva cedere
alla tentazione dell’arregate (vn. ragattade), vale a dire di quelle stolte contese di velocità
che nascevano a volte tra i còmiti di due o più diverse galere, quando cioè ognuno di loro
cercava di far raccogliere le gavette agli altri, come si diceva scherzosamente, ossia di
distanziarli per dimostrare la bontà della propria galera. Era infatti soprattutto durante
questo regattare (da regata, ‘competizione remiera’) che si rischiava, oltre che di sfiancare
le ciurme, anche d’entrare in collisione con le altre galere; per lo più gli ordini generali delle
squadre tirreniche prevedevano che il còmito responsabile d’aver rotto il timone, lo sperone
o i remi a un’altra galera pagasse il danno di tasca sua. Doveva inoltre il còmito esser
pratico nel taglio delle vele, tende e tendali che avrebbe poi fatto cucire dalla sua ciurma; a
lui pure toccava provvedere che la galera fosse ben provvista di sartiami, buoni alberi e
antenne; soprattutto doveva star attento ai segnali che avrebbe mostrato la galera Capitana
della sua squadra e osservare quelli che altri facessero da terra o da mare di giorno e di
notte.
Perché poi le voci del còmito, ossia gli ordini che dava col suo fischietto o zufolo d'argento,
fossero ben intesi da tutti, bisognava, soprattutto nelle burrasche, eliminare la principale
causa di rumore e cioè il parlare della ciurma; allora il còmito comandava il silenzio con il
comando Fuori rumore! e, se quest'ordine non aveva il dovuto effetto, egli passava al più
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brusco e imperativo Legar lingua!, che era però, dice il Pantera, elocuzione assai volgare;
se infine si voleva che i galeotti stessero sicuramente zitti, magari nel passare di notte e di
nascosto sotto il naso del nemico, allora il còmito comandava loro di prendere in bocca i
loro berrettini e di stringerli tra i denti, in modo da non poter proferire verbo. Alla ciurma del
resto molto conveniva eseguire gli ordini del còmito a evitarne le sicure percosse:
... essendo che questa misera gente si governa solamente hoggidì con le leggi di Draconi,
pagando il preterir di un sol fiato co'l vivo sangue. (B. Crescenzio. Cit. P. 141.)
La sostanziale crudeltà della professione di còmito è ben evidenziata dalle parole del già
citato passeggero parigino Jean-Jacques Bouchard (1630):
... Il còmito va su e giù per la corsia, guardando con attenzione se qualcuno manchi o finga
di vogare, e allora lo raddrizza con il suo 'cerchio' o con il suo 'cordino' e non batte
solamente quello che manca, ma anche gli altri quattro del medesimo banco; ce ne sono
talvolta di così ostinati da lasciarsi scorticare tutto il dorso piuttosto di vogare. Quando si è
a qualche scontro d'importanza, egli non si serve solamente del bastone, ma anche della
spada [...] Là si vede tutta la miseria, l'oscenità, la sporcizia, il fetore e l'infermità umana [...]
Non c'è giorno che non ne muoia qualcuno... (J. de la Gravière. Cit.)
Una descrizione di fustigazione della ciurma si legge nel predetto Guzmán, laddove il
protagonista denunzia al còmito un furto di danaro ai suoi danni commesso di notte da
qualche altro remigante; il còmito, per scoprire il colpevole, ordina immediatamente il solito
e crudele metodo d'indagine:
... comandò di mettere in esecuzione due banchi davanti a sei di dietro, per cui, essendo
venuto il mozzo dell'aguzzino con lo 'scandaglio', dettero a ciascuno spietatamente
cinquanta colpi che gli fecero gonfiare alti lividi, lasciandovi le pelli attaccate. Si
domandava ad ognuno di dire tanto quello che sapevano per aver visto quanto ciò che
avevano inteso dire e, dopo averli ben fustigati, li lavavano con sale e aceto forte, sfregando
loro le ferite, lasciandoli tanto contorti e inarcati da non sembrare più nemmeno esseri
umani. Quando c'era stato il furto, per caso un forzato zingaro non dormiva e, quando
arrivò il suo turno d'essere frustato, disse che quella notte passata aveva sentito un suo
compagno alzarsi e abbassarsi sul banco mio, però non ne sapeva il motivo; quando quel
forzato sentì che parlavano di lui e lo accusavano, si alzò in piedi e disse che gli si era
impigliato il ramale di catena in quelli dell'altro banco e che si era trovato il piede della
maniglia contorto e si era alzato per sbrogliarla, ma, poiché la ragione era debole e non tale
da poter esser ammessa come giustificazione e specialmente da chi tanto bene li conosce,
subito lo frustarono e gli diedero molti colpi, più che agli altri. E fu tanta la collera che prese
il còmito verso il mozzo dell'aguzzino, perché non colpiva con l'impegno che egli voleva,
che comandò se ne dessero subito altrettanti a lui, oltre ai molti altri che gli dette di sua
mano col suo 'cerchio di pipa'; e con quella stessa ira ritornò subito a far frustare un’altra
volta il delinquente, al quale non erano bastate le frustate già sopportate; ma, quando si
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vide fustigare un’altra volta, pensò che il còmito lo avrebbe ucciso a frustate finché non
confessasse la verità e credé (quindi) opportuno di spiattellarla... (M. Alemán. Cit.)
Il colpevole, sebbene cerchi di discolparsi affermando d’essere stato istigato, viene punito
con molte altre frustate e il danaro rubato è restituito a Guzmán, il quale, quando era salito a
bordo, aveva tenuto, come già sappiamo, il suo gruzzoletto ben nascosto in petto finché gli
era stato possibile; questa narrazione non è affatto romanzesca, infatti, quando un
remigante denunziava il furto d’un suo oggetto o semplicemente di non trovarlo più, tale era
lo sbrigativo e crudele metodo d’indagine usato in tutte le squadre di galere. In seguito però
Guzmán, nominato guardaroba particolare del gentiluomo di poppa, invece di potersi a
lungo considerare fortunato d’un tale notevole miglioramento di condizione che in galera,
secondo un antico proverbio, si diceva saltare dal banco alla poppa, forse vittima d’una
vendetta dei remiganti frustati, viene egli stesso accusato - seppure ingiustamente - d’un
furto ai danni del suo nuovo padrone:
... Una sera che il mio padrone veniva da terra, lo andai a ricevere, come sempre, alla
scaletta; gli detti la mano, salì sopra, gli tolsi la cappa, la spada e il cappello; gli detti il suo
abito e il berretto di damasco verde che tenevo sempre apparecchiati; portai il resto sotto
coperta, riponendo ogni cosa al suo luogo. Quella stessa notte, senza che si sapesse
perché, chi e in che modo, dal momento che, se non fu opera del demonio, mai potei capire
come fu, (avvenne) che, cadendo il cappello da dove lo avevo appeso, lo trovai senza il
cordoncino, il quale era guarnito di alcune pezze d'oro; si era dissolto nell'aria [...] Quando
si furon fatte molte diligenze e si fu visto che con nessuna di esse era riapparso il
cordoncino, il capitano comandò al mozzo dell'aguzzino di darmi tante sferzate sino a farmi
confessare il furto. Mi frustarono subito... (Ib.)
Ma Guzmán, nonostante il tormento e il sangue che le crudeli frustate gli facevano versare,
non poteva dire ciò che non sapeva; poi il gentiluomo di poppa, vedendolo molto vicino a
spirare, chiese la sospensione del supplizio:
... Mi fregarono tutta la schiena con sale e aceto forte, il che fu un altro secondo maggior
dolore. Il capitano avrebbe voluto che mi avessero dato altrettanti colpi sulla pancia,
dicendo: 'Mal conosce Vostra Signoria questi ladroni, che sono come volpi; fingono di star
morendo e, quando li si toglie da qui, corrono come dei puledri e per un solo reale si
lascerebbero togliere la pelle. Pertanto deve credere questo cane che per lui si tratta di
dare il cordoncino o la vita.' Comandò (comunque) di portarmi da lì alla mia dispensina,
dove mi fecero per ore mille mortificazioni, (dicendomi) che lo consegnassi oppure che mi
mettessi l'animo in pace, perché dovevo morire di frustate e non avrei (quindi) potuto
godermelo...
Passati alcuni giorni da questa contesa, tornarono fuori di nuovo ad ingiungermi di
restituire il cordoncino e, poiché non lo facevo, mi tirarono dalla dispensina molto debilitato
e malato. Mi portarono su, dove mi tennero a lungo legato e appeso in aria per i polsi; fu un
tormento terribile e credei di morirvi, perché mi si afflisse il cuore in tal maniera che appena
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lo sentivo battere nel corpo e mi mancava il respiro; mi misero giù, ma non per darmi
sollievo, bensì per riportarmi alla corsia; mi frustarono, come deliberato dal capitano, sul
davanti e lo fecero con tal crudeltà come se fosse per qualche gravissimo delitto.
Comandarono di frustarmi a morte, ma, dubitando poi il capitano che ci mancasse poco a
perderci la vita e che mi avrebbe dovuto pagare al re se fossi così perito, prese partito che
era meglio che si perdesse il cordoncino piuttosto che perderlo e pagarmi. comandò che mi
togliessero di là e mi portassero alla coniglia e colà mi medicassero... (Ib.)
Subirà ancora Guzmán continui maltrattamenti e frequenti fustigazione con ogni più futile
pretesto, finché non riuscirà a dimostrare la sua innocenza.
Mentre nella milizia di terra i comandi si davano con pifferi (sp. gaitillas), trombe e tamburi,
sul mare si usavano non più i portiscoli dell’antichità e del Medioevo di cui abbiam già
detto, bensì i fraschetti, ossia i fischietti o zufoli d'argento, i quali non erano quelli
minuscoli che si usano oggi in marina, bensì dei veri e propri flauti panici o traversi che dir
si voglia; questi strumenti s’usavano per comandare sia i servizi di bordo sia le azioni di
guerra, come per esempio lo star giù con la testa protetti dalle pavesate, il far retromarcia,
l'inseguire un vascello fuggitivo, il ritirarsi ecc. Il còmito portava il suo zufolo (dall’etrusco
subolo) appeso al collo, per averlo sempre a disposizione, e la musicalità del suo
fischiettare è più volte ricordata dal Crescenzio:
... E pur che noi dal diverso canto de gli uccelli potressimo manifestar i diversi versi di quel
fischietto, conforme a gli ufficij che far si debbono, nondimeno diremo solamente a che
effetti egli si adoperi, lasciando a' novelli rimieri questo unico avvertimento, cioè che
abbadino sempre a quello che il compagno pratico esercita. (Cit. P. 141.)
Nell’ordinanza catalana del 1354 che abbiamo già più volte citata si afferma che il còmito –
anche per il maggior potere che a quei tempi a bordo aveva – doveva esser persona, oltre
che di provata competenza, anche di specchiata rettitudine e infatti troviamo una clausola
che ritroveremo poi nel secolo successivo inclusa anche nello statuto dell’ordine equestre
dell’Ermellino, istituito dagli aragonesi di Napoli, e cioè che non si sarebbe data questa
carica di còmito a chi o ne avesse fatto domanda o per il quale altri evessero a tal fine
impetrato; una splendida regola che, se generalmente applicata oggi ai nostri tempi, specie
nella scelta dei politici, renderebbe certamente questo mondo molto più onesto e pulito:
… per questa ragione si da ordine che nessun uomo che lo chieda possa esser còmito né
tampoco possa esserlo nessuno per il quale lo si chieda (per aquesta rahó sia ordinació,
que null hom qui prech per ell, que sia cómit, ne encara que nengú quiu prech nou puxe
esser. Cit. P. 140).
Per invogliare poi gente migliore ad accettare il malpagato ruolo di còmito, la stessa
ordinanza disponeva che ne si aumentasse il salario di dieci lire catalane:
… E per questo siano aggiunte 10 libbre al salario di ciascun còmito, oltre a quello che oggi
prendono, al fine che siano trovate persone migliori e più idonee (E per ço sien anadides x
lliures à cascun cómit à lur salari, oltra aquell que vuy prenen, per tal que melors persones
è pus sufficients hi sien atrobades. Ib.)
Inoltre in mare al còmito toccava la quarta parte di tutto quanto spettava alla ciurma in caso
di preda, anche se di tale quarto egli doveva a sua volta il quarto al patrone della galera, nel
caso però che questi fosse presente a bordo. Ib.
Tornando però ora al tempo che principalmente è oggetto di questo nostro studio, diremo
del sotto-còmito (gr. πρωράτης) o pennese, il quale aveva anche i compiti da magazziniere
che aveva quello che nella marineria mercantile abbiamo detto nocchiero del trinchetto; egli
doveva ovviamente avere all'incirca le stesse qualità del còmito, poiché a lui toccava saper
eseguire perfettamente alla prua gli ordini del còmito medesimo e particolarmente quelli
che riguardavano il trinchetto, dovendo stare sempre ben attento a rispondere al fischietto
del còmito con il suo per assicurarlo d’aver inteso; suo compito era anche quello di tener in
ordine la ghiava (gavone) di prua e di scendere nello schifo di bordo per andare a gettare
qualche ferro, ossia ancorotto, quando la galera si trovava ormeggiata e si preannunciava
qualche tempesta, ferro che poi egli sarebbe andato a salpare non appena gli elementi si
fossero calmati. Era dunque il sotto-còmito a comandare la manovra de trinchetto ai marinai
di prua e per questo doveva sempre tenere buona scorta di giunchi; però, quando una
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particolare situazione richiedeva la presenza del còmito a prua, egli doveva prontamente
spostarsi verso poppa per andare a sostituirlo. A lui inoltre toccava di far fare i cuscini di
cuoio (gra. ὐπαγϰώνια; grb. ὐπειρέσια) per i banchi dei remiganti e doveva pertanto
disporre anche d’una buona provvista di canna trita per imbottirli; doveva inoltre prendere
le banche, vale a dire i tavoloni che si conservavano a bordo per farne ponteggi per
spalmare; doveva far fare la savorna, cioè far cambiare la zavorra, raccogliere, imbarcare e
sistemare quella nuova, di ciottoli, di ghiaietta, di pietre o, in mancanza di questi, al limite
anche di arena che fosse, sul fondo di cala della galera, ai due lati della carena o primo o
colomba (gr. ἐπιστείριον, ἐπιστήριον, τρόπις, στεῖρα, στεῖρη; grb. στείρα; sp. paloma), cioè
della chiglia, per dare così stabilità al vascello, essendo anche queste fatiche alle quali
erano adibiti i remieri, mentre sui vascelli tondi toccavano ai marinai; doveva poi imbarcare
le munizioni, le vettovaglie, i remi, i timoni, l'artiglieria, quant'altro spettava al servizio della
galera e infine le merci che pagavano nolo marittimo, per esempio la seta siciliana che le
galere ponentine, specie quelle toscane e pontificie, andavano regolarmente a imbarcare a
Messina, tradizionale emporio (fr. étape; ol. staapel) marittimo di tale mercanzia, e nel
secolo successivo talvolta anche a Palermo; fu proprio a causa di questa seta che nel 1530
(secondo altri nel 1531) due galere napoletane, di cui una comandata dallo spagnolo Luis de
Sevilla, mentre tornavano appunto da Messina, furono catturate da una squadra barbaresca
guidata dal Barbarossa nelle acque di Capo Palinudi (lem/ctm. Cap de Pelanuda), toponimo
questo già anticamente corrotto in ‘Palinuro’ dalla dizione dialettale locale Palinnuri, come
meglio spieghiamo in altra nostra opera. Il de Sevilla, portato con gli altri prigionieri ad
Algeri, si renderà poco dopo protagonista d’una sollevazione di schiavi cristiani di cui poi
diremo e finirà crocifisso e arso vivo. Durante la navigazione notturna il sotto-còmito
doveva essere particolarmente vigilante nella guardia di prua, sia per evitare alla galera
collisioni con le altre della sua squadra sia per scoprire prontamente la terra o altri vascelli
sul mare.
A proposito del predetto termine carena bisogna dire che nella prima metà del Seicento
esso perderà quel ridotto significato di ‘chiglia’ a cui abbiamo già accennato e sarà di
nuovo esteso a tutta la parte immersa (fr. coulée) dell’opera viva, come del resto era stato
nel Rinascimento; pertanto la locuzione dar carena [fr. mettre en caren(n)e ou en cran ou à
la care(n)ne; vn. esser a charena; ct. donar lats] significheranno sbandare il vascello su un
fianco sino alla chiglia per raddobbare tutta tale parte, come del resto con il verbo carenare
s’intende ancora oggi, anche se i vascelli sono ora così grandi che non si può più sbandarli
così tanto e quindi la loro carena si raddobba a secco nei bacini di carenaggio; quando lo
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Passando ora al piloto (l. portitor, gr. πορθμής, πορθμεύς), detto a volte anche pedotto (vn.
pedota, mc. peotta, fr. maître o anche nocher; gr. ϰυβερνήτης), questo era forse il più
importante ufficiale di qualsiasi gran vascello e quindi anche della galera, tanto che, diceva
il Pantera, a pena si può navigar sicuramente senza di lui. (Cit. P. 120.) Egli doveva aver
completa conoscenza di pregi e difetti del vascello in cui veniva a lavorare e quindi, una
volta imbarcatovisi per la prima volta, doveva ispezionarlo per verificarne lo stato in
rapporto alla sua stiva, cioè all’assetto di galleggiamento, alla sua tenuta stagna, alla
robustezza della sua struttura e della sua alberatura, all’incidenza che le sue opere morte
potevano avere sulla sua stabilità specie in caso di vento di fianco, alla disponibilità di
buoni scalmi in caso ci si dovesse aiutare con i remi, alla funzionalità del timone e alla
disponibilità di parti di ricambio in caso di rotture, allo stato della bussola e alla sua
illuminazione notturna, controllando se fosse magari da registrarsi, utilizzando la calamita
da accomodarle che si usava a questo scopo, se corresse il rischio di essere influenzata
dalla presenza di materiali calamitosi o ferrosi o da odor di aglio, perché allora si credeva
che anche questo potesse distorcerne le indicazioni, ecc. Per quanto riguarda le qualità
nautiche di quel vascello, se ne sarebbe reso poi meglio conto in corso d’opera. Doveva,
come e meglio del capitano, saper calcolare la rotta con l'ausilio dell'ampolletta o oriuolo a
polvere, ossia dell'orologio a sabbia sottile o meglio a polvere di guscio d’uovo disseccato
al fuoco, ben pestata e setacciata, che oggi chiamiamo clessidra [fr. empoulette,
ampoulette, hor(o)loge, poudrier, sable, moudre; ol. glas, (sandt-)looper; vn. ora] e che
allora a bordo si usava generalmente da mezz'ora, ma talvolta anche da un’ora; delle molle
o pallottelle, le quali erano delle palline infilate in uno spago come nella corona del rosario e
che si lasciavano cader giù una alla volta a ogni girata dell'ampolletta per tener così il conto
delle ore trascorse; infine del compasso e della carta nautica (fr. compasser ou pointer la
carte). Doveva pertanto essere buon conoscitore delle carte nautiche per poter distinguere
quelle giuste dalle sbagliate o addirittura false, le quali non erano infrequenti in quei tempi
di scarsa conoscenza geografica; ma, in mancanza di buone carte, doveva saper fare il
punto, vale a dire calcolare la posizione del vascello e metterlo nella giusta rotta dalla
semplice osservazione del bossolo, ossia della bussola, e di particolari conosciuti della
costa vicina; doveva quindi anche saper accorgersi se l'aguglia, cioè l'ago della bussola,
non segnava precisamente la tramontana per qualche suo difetto e ciò faceva carteggiando,
ossia confrontandola con le buone carte nautiche, con la stella polare e con una seconda
bussola (contra-aguglia) che a questo scopo bisognava sempre avere a bordo. In genere nei
viaggi di lungo corso i piloti, anche se per comodità computavano la longitudine a
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cominciare dal porto da cui partivano, dovevano egualmente saper calcolare quanto una
buona bussola grecheggiava – grigolizava, come dicevano allora i marinai, - o
maestreggiava, a seconda che ci si trovasse a levante oppure a ponente del meridiano che
passava attraverso le isole Terziere, oggi Azzorre, il quale era allora geograficamente
considerato dagli spagnoli e dai portoghesi ufficialmente il primo, come è attualmente
quello di Greenwich, con il pretesto che in sua corrispondenza l'ago della bussola indicava
perfettamente il polo senza declinare né da un lato né dall’altro; esso, a differenza d’oggi, si
riteneva allora passare idealmente per la punta dell'isola S. Michele e per il mezzo dell'isola
S. Maria, ma molti altri, specie i francesi, volevano che passasse sull’isola del Corvo,
sebbene più tardi gli stessi transalpini vollero spostarlo alla zona occidentale dell’isola del
Ferro alle Canarie. Gli olandesi ponevano il primo meridiano invece in corrispondenza del
Picco di Tenerife, allora creduto la più alta montagna del mondo. In effetti le Azzorre non
erano l’unico luogo del mondo in cui l’ago indicasse correttamente il nord e ogni nazione
eleggeva il suo primo meridiano in base a considerazioni politiche e della necessità
d’affermare le sue conquiste nel Nuovo Mondo. Un punto invece in cui l’ago della bussola si
discostava dal nord moltissimo era subito dopo il Madagascar, dove variava di 18 gradi
verso nord-ovest, e un altro era nei pressi dell’isola del Re Diego, oggi Diego Garcia, dove
la deviazione a nord-ovest arrivava a ben 22 gradi.
La bussola era tenuta, unitamente alla predetta clessidra e a un lume, in un armaretto
(‘vetrinetta’) detto giesiola o anche chiesuola (vn. chiesetta; fr. gesole, habitacle; ol. nagt-
huis, kompas-huis; huisje), situato davanti alla postazione del timoniero e illuminato
appunto all'interno di notte da una o più lampade accese, in maniera che queste non
potevano essere spente dal vento e che la bussola stessa si potesse consultare senza che
la si dovesse cavar fuori dalla giesiola; tale armadietto era fatto di tavole unite da caviglie di
legno e non di ferro, in modo che l’ago calamitato della bussola non fosse eventualmente
turbato dalla presenza di questo metallo, ed era suddiviso generalmente in tre nicchie,
ognuna destinata a contenere uno dei tre strumenti predetti. A questo particolare delle
nicchie si dovevano dunque i nomi che si davano a detto armadietto, in quanto appunto
somigliante al ciborio dell’altare ecclesiastico. L’Aubin scriveva che ai suoi tempi i cinesi
usavano ancora la bussola originaria, cioè facevano galleggiare l’ago magnetico su un
pezzo di sughero, e ciò secondo alcuni dimostrava che l’avevano inventata loro, mentre
verso il 1260 Marco Polo, reduce appunto dal suo famoso viaggio, l’avrebbe fatta conoscere
in Europa; ma ciò è smentito dalle descrizioni e dai ricordi del viaggiatore veneziano perché
nel suo Milione non fa menzione alcuna. La questione di chi si sia servito per primo di detto
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ago magnetico - del resto già ben conosciuto ai tempi della Roma imperiale (l. acus
magnetica) - per indirizzare la prua del vascello resta dunque tuttora non risolta, il che può
solo significare che il suo uso marittimo è più antico di quanto si pensi. E se anche detta
applicazione non è stata inventata dagli amalfitani, certo l’approfondita conoscenza
dell'eologia che essi avevano avrà contribuito non poco al nascere di quella diceria; infatti
così scriveva il Crescenzio a proposito del sostanziale miglioramento che gli amalfitani
seppero più tardi dare all’uso della rosa dei venti:
... Ultimamente in Amalfi [...] hanno collocato tra questi otto venti principali altri otto detti da
loro 'mezi venti', i quali pigliano ciascun di loro il nome da' nomi de' due venti a chi egli è in
mezo, come 'Sciroccolevante', Mezogiorno Scirocco, Mezogiorno Libeccio, Ponente
Libeccio, [etc.] Tra questi sedici hanno locato altri sedici, che loro chiamano 'quarti de'
venti' con i suoi nomi... (Cit. Pp. 157-158.)
Per quanto riguarda l’etimologia del nome, il sostenere, come fanno quasi tutti, che è da
ravvisarsi nel greco antico πυξίς-íδος attraverso un preteso vl. buxĬda, è davvero molto
poco ‘etimologico’, perché allora bisognerebbe che ci spiegassero la misteriosa
scomparsa della d. Invece, basterebbe accorgersi che la prima versione del nome era
bossola (‘scatola di bosso’, cioè di legno duro, indeformabile), vedi per esempio Giovan
Battista Belici (Nuova inventione etc. 1598).
La bussola si usava comunque soprattutto nella navigazione mediterranea e bisognava
quindi che il buon piloto fosse anche hauturier, come diranno più tardi i francesi, che cioè
sapesse usare anche gli strumenti per la navigazione oceanica o d’altura per ricavarne la
latitudine, vale a dire la balestriglia, detta anche bàculo astronomico, radio greco, bastone
di Giacobbe, bastone astronomico, raggio astronomico, balestra, croce geometrica, verga
d'oro e radiometro [fr. anche arbalê(s)t(r)e, arbalê(s)trille, fléche; ol. graad(t)-boog], e
soprattutto il meno antico astrolabio, i quali gli avrebbero permesso di conoscere non solo
l'altezza (altura, da cui in seguito si dirà appunto ‘navigazione d’altura) della tramontana,
bensì quella del polo, del sole, degli altri astri, onde ricavarne la distanza tra due luoghi.
Premesso che il radio greco fu più tardi usato con delle variazioni che gli fecero prendere
il nome di radio latino, diremo che l’astrolabio, strumento con il quale si poteva rilevare
anche la latitudine in cui si faceva l’osservazione, era stato perfezionato nel secolo
precedente da un famoso matematico boemo di nome Martino e dagli altrettanto celebri
Roderico e Giuseppe, matematici e medici del re Giovanni II di Portogallo detto il Perfetto
(1455-1495), il quale stimolò le esplorazioni marittime. Questi strumenti a disposizione del
piloto, cioè carte, balestriglie e astrolabi, della cui eventuale fabbricazione doveva pure
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avere cognizione, erano però spesso ausilii più che imprecisi; gli astrolabi per esempio,
scriveva il Crescenzio, erano molte volte simili a quello che disse l'Imperator Carlo V per
molti rologij presentatigl’in Alemagna, cioè che tra tanti vorebbe veder due che sonassero
sempre le hore a un medesimo tempo. (Cit. P. 456) Non ostante quest'osservazione del
grande sovrano, famosa era allora la buona qualità dell'orologeria tedesca, dalla quale gli
svizzeri poi copiarono la loro superando gli stessi maestri; ma anche i francesi
cominciavano già allora a farsi notare per i loro superbi orologi da tavolo ed ecco quello
che l’ambasciatore di Francia portò in regalo al sultano di Costantinopoli Ahmei nel 1619,
in occasione dei già detti grandi festeggiamenti:
Uno dei più importanti errori di valutazione della rotta fu quello dei piloti del principe Gioan
Andrea d’Oria nel 1601, errore che probabilmente salvò Algeri dalla conquista cristiana.
Radunò dunque in quell'anno il d'Oria, come abbiamo già detto, un’armata nel porto di
Messina con la maggior parte delle squadre di galere tirreniche al fine di portarsi contro
Algeri, ma facendo in modo da far credere invece ai turchi che l'impresa fosse disegnata
contro il Levante, visto che Messina - scelta ad arte - era molto lontana dal vero obiettivo.
La trasferì poi in tutta segretezza e senza che i turchi lo sospettassero a Maiorca, da dove,
fatto pubblicare un giubileo che il Papa concedeva a tutti i partecipanti a quell'impresa e
fatti benedire solennemente i suoi vascelli, poi salpò verso la Barbaria, calcolando i suoi
navigatori che si sarebbero dovuti trovare su Algeri al terzo giorno di viaggio prima
dell'aurora; sennonché, avendo i piloti regolata la rotta senza tener conto della corrente del
mare, al nascere del terzo giorno, invece di vedere Algeri, si trovarono più di 40 miglia
spostati a ponente e questa inavvertenza dei piloti fu causa che l'impresa non avesse poi
l'effetto sperato. Doveva pertanto il piloto far ricorrentemente rapporto al suo capitano per
quanto riguarda la posizione del vascello e la supposta distanza dagli altri luoghi.
Sull'uso dell'astrolabio nella navigazione oceanica già all'inizio del Cinquecento è
importante testimonianza la relazione del secretario (‘console, residente’) veneziano a
Lisbona Vincenzo Quirini letta in senato nel 1506. Armava dunque il re del Portogallo ogni
anno da 12 a 14 navi, dette car(r)acas in portoghese e la cui stazza variava dalle 250 alle
1.000 botti, e, dopo averle fatte ben rivestire della già menzionata gala, tra la fine di marzo e
l'inizio d'aprile le spediva da Lisbona in oriente, in un viaggio che le avrebbe portate a
circumnavigare l'Africa, ad attraversare l'Oceano Indiano e ad arrivare in India verso la fine
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di settembre. Questi vascelli erano caricati di mercanzie e cioè di rame, cinabro, argento
vivo, piombo, corallo, argento in massa e danaro contante da scambiare con spezierie
indiane, specie col pepe; otto o nove d’essi sarebbero tornati indietro e gli sarebbero invece
rimasti a scorrere le coste dell'india e ad andare in viaggi esplorativi più a est sino alla
penisola di Malacca, dove arrivavano a far scalo all'odierna Singapore; ma leggiamo il
Quirini:
... In questo cammino così grande, così lungo, che può esser da Lisbona sino in India
10.500 miglia, navigano sempre i portoghesi con la carta e con la bussola e adoperano la
calamita [...] Adoperano ancora i portoghesi, oltra la carta e la bussola, lo astrolabio, per il
qual conoscono l'altura del sole e per esso, quando il sole è in mezzodì, vedono quanti
gradi sono lontani dalla linea equinoziale; per il qual vedere conoscono quanto sono
propinqui e quanto remoti da' luoghi dove si hanno da guardare e dove hanno da prender
porto; e con questa marinarezza (‘attrezzatura marinara’) di carta, di bussola e di astrolabio
navigano da Lisbona sino in India... (E. Albéri. Cit. Appendice. P. 8.)
... che da 114 navi che sono andate al detto viaggio dal 1497 sino al 1506 solamente 55 sono
ritornate e 19 sono certo perdute, quasi tutte cariche di spezie, e di quaranta fin’ora non si
sa cosa alcuna. (Ib. P. 19.)
Sia la balestriglia che l'astrolabio, a causa della grande imprecisione della prima e della
difettosità del secondo, andarono poi del tutto in disuso nel corso del Settecento, quando
cioè poterono essere sostituiti con strumenti molto più affidabili, quali il quadrante inglese
e l'ottante. Doveva dunque il piloto essere anche buon conoscitore della geografia, della
meteorologia astrale, dell'astronomia, delle correnti e, soprattutto nel caso di quelli
oceanici, delle maree e dei monsoni; doveva quindi disporre di un buon portolano (fr.
routier; ol. roetier) per aver conoscenza della conformazione delle coste con le loro cale,
ossia con i loro ridotti o seni non sicuri da tutti i venti, con i loro scogli (l. scopuli; gra.
πρόβολοι, χοιράδες, σπιλάδες, σϰόπελοι; grb. σϰοπέλοι), formiche (‘scogli affioranti’),
secche, promontori, isole, monti, città, terre, torri, flussi e riflussi del mare, ecc. Dei porti
doveva conoscere capacità, profondità, ripari, traversie, tirannie e quali luoghi fossero buon
sorgitori (vn. sorzadori), cioè in quali si potesse sorgere (‘dar fondo all'ancora’), come e.g.
era notoriamente l’isola di Scio, e quali di questi sorgitori fossero anche buoni tenitori o
ferratori, ossia avessero fondo abbastanza tenace da non far arare (fr. chasser, arer)
l'ancora, come per esempio era considerata l'isola di Ventotiene (‘Ventotene’), chiamata
597
nell’antichità greca e latina Πανδαταερíα e Πανδατερíα (‘colei che distribuisce tutto’), forse
per la presenza di un tempietto dedicato a una perduta e così chiamata divinità locale, nome
che fu poi trasformato in Bentitiene (‘isola dai fondali buoni tenitori’) o Bentitieni e anche
Eutitieni, quest’ultimo in una singolare contaminazione tra greco e italiano, e, a proposito di
nomi di isole corrotti dal tempo, ricorderemo anche il caso dell’isola di Cavallo
nell’arcipelago della Maddalena, che ancora nel Seicento manteneva il suo nome completo
Coda di cavallo, cioè lo stesso dell’altrettanto nota località costiera nord-orientale della
Sardegna, ed è molto difficile che si tratti di un’omonimia casuale; evidentemente quei mari
erano una volta pescosi di quel pesce che si chiama in greco ἲππoυρος (‘fatto a coda di
cavallo’), nella terminologia scientifica ‘corifene ippuro’, e in volgare italiano appunto Coda
di cavallo. Si tratta di un pesce che si distingue per i suoi colori sgargianti e che, essendo
ben noto nel Mar Tirreno, vi assume una molteplicità di nomi:
Doveva pertanto il piloto saper usare anche la fune (gr. ἰμονιά) per scandagliare (gra.
βολίζeiv), ossia una corda detta già allora dai francesi ligne e alla cui estremità era legato
appunto lo scandaglio (gra. βολίς), che era un peso di piombo a forma di pera o di chiglia,
ma comunque piramidale, di circa 18 libre e alto ¼ di braccio, poneva un dito di sego fresco
in maniera da ricoprire tutta la base della predetta piccola piramide e a questo sego
restavano attaccati sabbia e pietrisco del fondo, elementi che egli esaminava per ricavarne
appunto la natura del fondale e per capire se era adatto a trattenere l'ancora. Il fondo
miglior tenitore era considerato quello fangoso e nero (fr. fonde vasard, fonde vasart; ol.
modder-grondt), mentre quello arenoso faceva arare l'ancora in caso di vento; cattivo e
pericoloso per l'ancora erano anche i fondi cretosi o conchigliosi e peggiori di tutti erano
poi quello roccioso e quello pietroso, detto spreo dai marinai del tempo.
Un buon piloto doveva anche sapere dove si poteva far acqua e legna o anche un buon
bottino, dove si poteva sbarcare la gente e dove invece uno sbarco sarebbe stato
sicuramente impedito dal nemico; doveva essere buon meteorologo e sapere in quali mesi
dell'anno la navigazione fosse più pericolosa o più incerta o più sicura, quali costellazioni -
secondo le credenze del tempo - si accompagnassero generalmente a burrasche e
sommovimenti del mare, sotto quali venti nascessero ogni giorno sole e luna e i loro effetti
per poter riconoscere così eventuali segni di cambiamento del tempo; doveva ancora esser
pratico di numero aureo, d’epatta e di calendario in genere per saper trovare feste mobili e
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noviluni; doveva conoscere qualche regola per sapere dal sole l'ora del giorno e dalla luna
quella della notte, soprattutto per stabilire gli orari più opportuni per le partenze; doveva
infine anche sempre consultarsi con il còmito e il consigliero a proposito della rotta da
tenere, specie in caso di fortunali. Il suo posto era di giorno nell'una o nell'altra spalla della
galera, a seconda della direzione della vela, e di notte alla chiesuola della bussola, dove
sorvegliava anche che né i timonieri né alcun altro di guardia mangiasse la sua sabbia,
come dicevano i francesi, cioè girasse la clessidra prima del tempo per accorciare
fraudolentemente il suo turno; se però si navigava in paraggi resi pericolosi dalla presenza
di scogli affioranti e di secche, allora s’alzavano le rembate e, come abbiamo già detto del
còmito, anche il piloto vi montava su per sorvegliare personalmente il cammino della
galera.
… Deve havere buoni vestiti e capotto perché li a (‘gli ha’) stare giorno e notte vigilante a
ogni tempo di freddo, pioggia e quello che Dio per la stagione manda (A. Falconi, cit. P. 6).
… e avanti si metta a dormire (deve) fare sempre di lassare offiziale talmente pratico che
sappi procurare che si seguiti il buon camino già da lui dato e, svegliandosi, farse dare del
tutto relazione di quanto camino, per che vento e ogni altra cosa che fussi passato da che li
lassò tal cura fino al(l’)ora si svegli… (ib.)
... habbiamo noi visto, per non conoscere le correnti, investire i scogli e incagliare in
seccagne da due anni in quà (scrive nel 1595) più di otto volte galee ed hora finalmente due
del gran Duca (di Toscana) essere preda di corsari su le secche de' Gerbi... (Cit. P. 318.)
Già tempo prima il predetto granduca aveva perso la sua galera Capitana perché questa era
capitata all'isola di Montecristo in una zona di secche e scogli detti le Formiche di
Montecristo, i quali scogli erano pericolosissimi perché di quelli che vegliano e non
vegliano, ossia erano posti a fior d'acqua e quindi di difficile avvistamento. Altra secca
scogliosa di questo tipo e molto pericolosa era quella di nord-est a Ponza, sulla quale nel
1590 incapparono quattro galere della squadra di Napoli, di cui 2, la Speranza e la Fama
furono perse e le altre due ne restarono gravemente danneggiate.
599
Ovviamente i vascelli mercantili, quando dovevano far scalo in luoghi noti e trafficati,
potevano servirsi di un piloto portuale, cioè della zona costiera dove si andava a navigare,
soprattutto quando queste zone si raggiungevano dopo lunga navigazione:
... Così fanno gl’inglesi e i fiaminghi quando passano per il mare Mediterraneo, servendosi
quasi sempre de i piloti forastieri, benché siano essi buoni marinari ed habbiano fatto altre
volte il medesimo viaggio. (P. Pantera. Cit. P. 301.)
Il vascello che voleva entrare in porto si fermava prima di addentrarsi nella rada e, allora
come oggi, issava una bandiera particolare con la quale chiedeva un piloto o almeno una
barca che lo rimorchiasse all’ormeggio; il piloto costiero si diceva in fr. lamaneur, lo(c)man,
lod(e)man in ol. loods(-man), loods-luiden, lochman, in td. Lodman, Lantsman, Lentsman,
Lentsager; Leitsager, in sv. ledsagare, tutti nomi derivanti quindi da land (‘terra, terriero’),
da lock (‘chiusa, cataratta’) e da leit (‘guida, direzione’). Secondo i codici di diritto
mercantile marittimo medievali, i quali resteranno poi nella sostanza in vigore nell’Atlantico
anche in epoca proto-moderna, non appena egli, debitamente informato del pescaggio del
vascello dal patrone e dal piloto, prendeva la guida del medesimo, diventava responsabile
della sua integrità e, se questo per sua colpa subiva danni o si perdeva, egli ne rispondeva
con il suo patrimonio personale o, non possedendo mezzi adeguati, a volte anche con la
vita; chiunque a bordo, patrone, ufficiale, marinaio o mercante, poteva infatti in tal caso
tagliargli la testa senza subirne poi pena e l’unico accortezza che bisognava usare prima di
ricorrere a tale drastica punizione era appunto accertare che non avesse beni sufficienti a
ripagare i danni procurati; ecco a tal proposito l’articolo 25 del codice di diritto commerciale
marittimo redatto nell’isola d’Oléron agli inizi del dicembre 1266:
Un lodeman prend une neef à mener… et, s’il y a d’eux qui la prennent sur leur testes à
conduire et amener et s’ils la perdent et la perillent, si le mestre ou ascun des mariners ou
ascun des marchantz soit qui leur coupent les testes, ils ne sont pas tenuz à poyer
d’amendement ; mais toutefois l’on doit bien sçavoir avant l’occire s’il a par quoi amender…
(J. M. Pardessus. Cit.)
Questa norma, anche se in maniera molto più elaborata e riferentesi ora al piloto in
generale, è riprodotta all’articolo CCV del più tardo codice marittimo medievale
mediterraneo detto Consolato del Mare, da noi già citato, il che, unitamente ad altri rilievi di
simiglianza dei due codici, fa capire come l’autore o gli autori di questo avessero senza
dubbio conoscenza di quello oceanico preesistente.
600
Che un piloto costiero corresse dei gravi rischi personali nel suo lavoro e che quindi non
sempre si dimostrasse responsabile s’evince chiaramente da un vecchio e amaro proverbio
francese ricordato dall’Aubin:
Quando comunque non si trovavano piloti costieri disponibili, ci si poteva servire dei
pescatori del posto, di gente cioè senza dubbio pratica di fondali e di scogliere sommerse.
Più impegnativo era ovviamente il compito d’un piloto d’un vascello oceanico, a causa delle
più profonde conoscenze geografiche e meteorologiche che doveva necessariamente
avere, e in molti vascelli, quali le barzotte queste frequenti già nel Quattrocento, i pinchi, i
buches, i flibots e le più tarde merluzziere di Terranova, specie se si trattava di quei tanti
pescherecci, appunto oceanici, che andavano alla pesca delle aringhe, toccava
praticamente lui a comandare la pesca, perché era lui che ordinava dove gettare le reti e
quando ritirarle.
A bordo della galera c'erano poi un consigliero (ltm. prothontinus; vn. homo del consiglio),
ossia un uomo d’età matura, consumato negli esercizi del mare, ex-comandante di vascello,
al quale sia il capitano sia il piloto dovevano rivolgersi per averne consiglio nelle questioni
più importanti della navigazione, specie in caso di tempesta, e della guerra, ma in effetti il
suo incarico si confondeva con quello del piloto. Un consigliero aveva però anche due
compiti minori e ciò perché non lo si tenesse troppo tempo inutilizzato; egli doveva infatti
aver cura di consultare e conservare i principali strumenti di navigazione, cioè le carte, la
bussola e le ampollette, incarico che ben si addiceva alla meticolosità d'una persona
anziana ed esperta; doveva inoltre controllare la taverna, ossia il già menzionato servizio di
spaccio che si stabiliva sulla galera, toccando a lui e l'acquisto di tutti i generi alimentari a
essa destinati e far 'sì che le vettovaglie fossero vendute alla gente di bordo a prezzi
ragionevoli e con giusti pesi e misure. Durante la navigazione sia diurna che notturna il
posto del consigliero era all'una o all'altra spalla della galera; in combattimento era al
timone con il piloto e il timoniero; prendeva 4 scudi pontifici e due razioni. Sulle galere di
comando, specie sulle Capitan(i)e, i consiglieri erano più d'uno, cioè di solito da 2 a 4.
Aggiungeremo che nel Medoevo il suddetto titolo di prothontinus poteva anche avere delle
connotazioni più importanti di quella di semplice consigliere di galea; esisteva infatti pure il
prothontinus portuale, l’autorità cioè dalla quale dipendeva la gestione del porto. Il giurista
campagnese Giovanni Antonio de Nigris (1502-1570), nel commento da lui fatto agli statuti
601
sulla navigazione del Regno di Sicilia e di Napoli dei tempi del re Carlo I d’Angiò (1266-
1285), a proposito del prothontinus così spiega:
… E ‘protontini’, cioè dottor protontino, il quale chiamano, con altro nome, ‘consigliero’
nella galea, volgarmente ‘lo consiglieri’. Altrove il protontino è il dottor giudice che sa di
cause marittime e i veneti hanno in molti luoghi protontini che decidono le cause
marittime… (Et ‘prothontini’, seu prothontinus doctor, quem vocant alio nome consiliarium
in galea, vulgariter ‘lo consiglieri’. Alibi est prothontinus doctor iudex, qui cognoscit de
causis maritimis et veneti in multis locis tenent prothontinos, qui decidunt causas
maritimas… In Ius Regni Neapolitani, ex constitutionibus, capitulis, ritibus, pragmaticis,
neapolitanorum privilegijs etc. P. 385. Napoli, 1608.)
In una successiva addizione a questo commento l’autore ci fa sapere che lo stesso nome
prothontinus era stato nel passato usato a significare sia una guardia del corpo armata del
principe sia lo stesso comandante di nave e soprattutto quello di galea (hodie vocatur
capitaneus, seu patronus galeæ.); insomma si trattava di una qualifica molto versatile
(Commentarii in capitula regni neapoletani etc. Venezia, 1594). Da osservare ancora in
questo brano i due nomi terminanti in ‘i’, sebbene intesi al singolare (prothontini e
consiglieri), il che lascia capire che lo statuto i questione era stato in origine formulato a
Palermo e non a Napoli.
L'elencazione d’ufficiali e tipi di marinai che abbiamo appena fatto è tratta per lo più dal
Pantera e dal Crescenzio, ma corrisponde sostanzialmente anche ai documenti d’archivio e
a quanto scriveva nel 1597 il residente veneziano Girolamo Ramusio a proposito delle
galere napoletane:
... Ogni galea è di ventisei banchi, dei quali vogano solo ventiquattro, ed ha ognuna
centosessantaquattro galeotti; vi sono quattordici officiali, dodici marinari, sedici compagni
e due mozzi. (E. Albéri. Cit. Appendice. P. 347.)
A giudizio d’un altro residente veneziano e cioè di Michele Soriano, il quale scriveva della
Spagna nel 1559, i migliori ufficiali di galera erano al suo tempo proprio quelli delle squadre
di quella tanto prestigiosa corona; ma trovava quel sovrano difficoltà a reperire remieri a
sufficienza:
... onde, se bene Sua Maestà ha sessanta galere in numero, non se ne può poi valere di più
di quarantacinque o cinquanta, che sono poi le meglio governate, le meglio armate e meglio
comandate che siano al mondo; tanto importa l’aver avuto per capitano il principe d’Oria, la
disciplina del quale ha fatti tanti valent’huomini, fra li quali, dopo il principe (stesso), per età
e auttorità il primo è il signor Antonio d’Oria, stimato grandemente per l’esperienza che ha
data di sé in molte guerre in mare e in terra…(e poi c’è) Giovanni Andrea, nipote del
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principe, quale è di uno spirito vivo e di più pratica per l’età sua che molti vecchi capitani…
(Ib. S. I, v. III, p. 368.)
Questo giudizio così categoricamente favorevole non sarà ripetuto più da nessuno, ma
verso la metà del secolo doveva essere veramente così e quella bontà d'ufficiali si doveva
certamente all'ottima scuola fatta dall'ormai novantatreenne principe Andrea d'Oria, sotto la
cui disciplina e il cui insegnamento si erano infatti formati tanti valenti capitani di mare e,
oltre ai sunnominati della sua stessa famiglia, anche tanti altri tra cui spiccano Juan de
Mendoza capitano della squadra di Spagna e figlio del più famoso Bernardino, Berlinghiero
Requesens capitano di quella di Sicilia e Sanchez de Loria capitano di quella di Napoli.
D’altra parte lo stesso principe Andrea veniva da una secolare scuola familiare e infatti alla
fine del tredicesimo secolo un Corrado d’Oria era stato ammiraglio e capitano generale
delle galere di Sicilia e verso il 1299 ne aveva guidato 25 in una battaglia contro i francesi.
Christoforo da Canal faceva, a proposito dei compiti d’ufficiali e marinai, alcuni distinguo
tra galere a sensile veneziane, ponentine e turche, ma trattandosi la sua d'epoca d'un
cinquantennio precedente a quella alla quale è dedicato il nostro presente studio e
apparendo che tali compiti erano allora un po' diversi e anche meno rigidi (specie nelle
galee veneziane) di quelli da noi già descritti e che riguardavano sostanzialmente le galere
ponentine della fine del Cinquecento, preferiamo non affrontare l’argomento per non
rischiare di confondere il nostro lettore; ma, tanto per citare solo qualche principale
differenza, diremo che appunto all'epoca del da Canal nelle galee della Serenissima
mancava il ruolo di sotto-còmito e inoltre alla morte del còmito, mentre sulle galere
ponentine e turche era automaticamente promosso a quel grado il sotto-còmito, su quelle
veneziane il nuovo còmito era scelto dal padrone (il comandante d'allora) tra i marinai detti
compagni e ciò spesso provocava tra gli altri compagni invidia e quindi discordia e odio
verso il loro comandante. Per quanto concerne poi i due bombardieri, questi nelle galere
genovesi e turche avevano ambedue il titolo di capo-bombardiero e i loro due aiutanti di
sottocapo-bombardiero.
Abbiamo sin qui descritto l'equipaggio d'una galera sottile ordinaria, mentre più o meno
numeroso di questo era naturalmente quello d'una galea grossa veneziana, d'una galera
bastardella, d'una galeotta o d'un brigantino; una galeazza ponentina (‘tirrenica’) aveva
all'incirca il doppio d’uomini della galera, ciurma inclusa, ma poi nel corso del Seicento
arriverà a 1.000/1.200 uomini, tanto da poter essere considerata una vera e propria fortezza
di legno navigante; i nobili veneziani eletti al comando delle galee grosse dovevano prestar
giuramento – a costo della loro testa – di non rifiutare il combattimento nemmeno con 25
603
galere nemiche. Nel 1570, avendo la Porta Ottomana dichiarata la guerra a Venezia, il senato
della Serenissima stabilì, tra gli altri provvedimenti bellici, che ogni galea grossa mercantile
portasse a bordo 20 bombardieri e 100 soldati comandati da un capitanio, tra cui ¾ armati
d’archibugi ed ¼ di picche e alabarde (Hale), ma ovviamente quelle che parteciparono poi al
combattimento di Lepanto avevano una guarnizione da battaglia di gran lunga superiore.
Diremo ora delle razioni (fr. rations, ossia di quelle porzioni di cibo che si distribuivano di
munizione, cioè a cura del sovrano, agli equipaggi dei vascelli tondi e a scapoli e soldati
delle galere e il cui costo era però detratto dal loro salario. La razione consisteva di tre
elementi, ossia della panatica, consistente allora in pane biscotto, del vino e del
companatico. Il biscotto, tradizionalmente tondo e piatto perché doveva essere della stessa
forma della gavetta in cui era destinato a essere consumato, era fatto di pane nero (sp. pan
bazo), essendo quello di pane bianco (sp. pan regalado) riservato alla gente di poppa e ai
malati; esso si chiamava così, come abbiamo già detto, in quanto si disseccava con una
doppia cottura, ma per i viaggi di lungo corso come quelli oceanici si doveva cuocerlo
quattro volte perché si conservasse per il tempo necessario, anche se ciò non impediva
che talvolta si trovasse egualmente infestato dagl’insetti. Per quanto concerne la sua
qualità, esso doveva essere di farina di frumento priva di crusca e di pasta ben lievitata;
inoltre, a evitare che andasse a male, era importante che fosse conservato a bordo ben
secco e quindi il biscotto ottimale avrebbe dovuto in teoria esser stato fatto sei mesi prima
dell’imbarco; nel caso invece che arrivasse a bordo non ancora abbastanza secco,
bisognava tenerlo un po’ esposto all’aria prima di conservarlo; d’altro canto bisognava
anche far attenzione a come fosse confezionato e conservato, a evitare che diventasse
mazzamurro, ossia che si riducesse tutto in briciole; il Pantera lo raccomandava così:
... il biscotto, che sia asciutto, fatto di buon grano, bene stagionato e ben conservato,
vedendosi per esperienza che'l biscotto mal cotto, humido e fracido sazia e non nutrisce,
anzi leva le forze, infetta e in poco tempo rende inutile la ciurma. (P. Pantera. Cit. P. 145.)
comune e antico proverbio; ma ciò non riguardava tutto il regno naturalmente, per esempio
nel Basso Medioevo già la vicina isola d’Ischia, a dire del già citato Saba Malaspina,
vescovo che visse nella seconda metà del Duecento, eccelleva nella produzione di vino
greco (… Isclam, quae est potissime vino graeco faecunda... Cit. L. X, cap. XV.) Bisognava
che il capitano sorvegliasse che il patrone non lo annacquasse, come spesso faceva:
…che spesse volte vien in galea il vino assai bono e diventa subito tristissimo… (Ib.)
Lo scappolo aveva ogni giorno due libre di biscotto e di vino una pinta [che è misura
napolitana (Ib.)], corrispondente questa a circa una foglietta e mezza di Roma. Mentre il
biscotto, i cereali e i legumi in genere servivano per la razione di pagliuolo, il vino era
razione di dispensa, ma quest'ultima non si limitava a tale bevanda perché comprendeva
anche il companatico e infatti allo scappolo, per lo meno sulle galere pontificie, pure
spettava ogni giorno una libra di carne fresca, se prevista e disponibile, altrimenti mezza
libra di carne affumicata (carne di vacca di fummo) o di lardo salato, detto questo tosino, od
oppure mezza libra di formaggio salato di Corsica o di Sardegna o anche mezza libra di
salume di sarde, ossia di sarde salate e stipate in barili. La carne, fresca o salata che fosse,
si dava - sempre sulle galere pontificie - la domenica, il martedì e il giovedì; il formaggio il
lunedì e il mercoledì; le sardine il venerdì e il sabato; nei giorni delle vigilie e della
Quaresima si dava a volte la tonnina, ossia il salume di tonno. Si distribuiva poi anche
l'aceto per condire le sardine ed eventualmente l'insalata per la gente di poppa, ma esso in
mancanza di vino anche si beveva normalmente sciolto nell'acqua; si riteneva allora che
vino e aceto dessero forza e che l'acqua semplice facesse male allo stomaco perché lo
raffreddava e infatti si cercava di non far mancare mai l'aceto nemmeno ai galeotti. Aceto
mescolato ad acqua o acqua semplice era la bevanda (prt. canada) destinata agli equipaggi
dei velieri olandesi che facessero lungo viaggio, mentre a quelli che si limitavano a navigare
nel Mare del Nord e nel Baltico si dava birra; gli equipaggi dei velieri francesi avevano
invece una bevanda composta in parti uguali d’acqua e di vino, ossia quella che oggi a
Trieste chiamano Spritz. Altro alimento che era normalmente consumato era il sale, ma in
effetti, con tanto cibo conservato sotto sale che per forza di cose si era costretti a mangiare
a bordo, l'uso che se ne faceva non era tanto personale da tavola quanto appunto generale
per la preparazione delle salamoie; più usato per le razioni personali era invece l'olio
d'oliva.
Alla gente ordinaria si dava una razione a testa il giorno, ma, come abbiamo già detto, a
ufficiali, timonieri, avvantaggiati e maestranze se ne davano di più; chi avesse voluto più
605
cibo del razionato poteva comprarselo alla taverna di bordo, rimborsandone il costo alla
fine del mese con detrazione dal salario, ma ciò era permesso solo quando a bordo ci fosse
una riserva di vettovaglie sufficiente per tutti e in ogni caso queste distribuzioni
supplementari si dovevano prudentemente limitare quando il consumo era ingente per la
gran quantità della gente imbarcata (gr. οἰ ἐπιβάται; grb. πληρόματα) dall'armata o quando
si doveva fare un lungo viaggio.
Mentre di biscotto, l'alimento principale, ogni galera ponentina riceveva provvista solo per
qualche mese, i turchi si dimostravano a questo proposito molto più preveggenti, come
faceva notare il bailo veneziano a Costantinopoli Marc'Antonio Tiepolo, il quale, nella sua
relazione conclusiva del 1576 così leggeva al suo senato:
… Sogliono empire le galee di pane per più di quattro mesi fuggendo il disordine del
mancamento, il quale apporteria loro danno inevitabile, massime nel viaggio di tanto mare
come quando vanno contra i luoghi del re di Spagna. (E. Albéri. Cit. S. III, v. II, p. 150.)
... Del biscotto vien consegnato al 'rais' per il bisogno di sei mesi, costume degno di essere
imitato, poiché per mancamento di pane non possono correr pericolo di mala ventura, se
bene avessero per qualche accidente a trattenersi lungamente in viaggio. (Ib. S. III, v. II, P.
354.)
Per riassumere comunque i tipi di vivande che si potevano trovare a bordo d’una galera ci
sembra utile citare ancora il nostro Pantera:
... Le vettovaglie che si devono provvedere per servizio dell'armata sono biscotto, pane,
farina, vino, oglio, aceto, salumi, cioè sardine, tarantello (tonnina, ‘tonno salato’), carne
salata, lardo, formaggio, riso, fava e molti altri legumi, oltra il sale e l'acqua. Si deve anco
fornir di carne fresca, ma, perché non si può imbarcare tanto bestiame vivo che basti al
bisogno, si conducono i macellari appaltati accioché, secondo i bisogni e i luochi, ne
possano provedere. Si deve similmente far provisione di pollami, di zibibo, d'uva passa, di
specierie, di medicamenti, di medicine e d'ova per gli ammalati e feriti... (Cit. P. 93.)
Probabilmente il tonno salato si chiamava così nello Stato della Chiesa perché proveniente
da tonnare tarantine; c'è poi da notare l'uso di riservare i cibi più freschi e leggeri e i più
dolci agli ammalati, il che significa che anche allora ci si rendeva ben conto che quelli
conservati erano meno salutari. La mangiatoia per il poco bestiame, detta in sp. cebadera,
si faceva con una coperta di canapaccio con quattro corde annodate alle quattro punte e
con le quali la stessa si sospendeva a prominenze della galera. La carne di cavallo non si
606
mangiava se non in mancanza delle altre, come avvenne all'esercito di Carlo V sbarcato in
Barbaria per la sfortunata impresa d'Algeri del 1541, quando cioè i soldati furono costretti a
mangiarne, essendosi perdute in mare le vettovaglie poco prima dello sbarco nella cala di
Matifou; si riteneva comunque il lardo molto più adatto alla gente di mare della carne perché
si conservava meglio e perché era certo di più facile digestione della dura carne conservata
e infatti, quando nell’oceano ci si metteva in viaggio per andare più a sud del Tropico, si
faceva soprattutto provvista di lardo, acquavite e vino delle Canarie, perché erano gli
alimenti che meglio si conservavano nei climi molto caldi, mentre il vino di Francia, il bue e
il baccalà vi si corrompevano facilmente.
Ogni scappolo ritirava le sue razioni con delle polizette, ossia dei piccoli elenchi, le quali
erano normalmente chiamate a bordo cartoline oppure tessere di carta e sulle quali si
segnava giorno per giorno che cosa egli avesse ricevuto, così alla fine d'ogni settimana o
d'ogni mese si potevano chiudere i conti; chi avesse avuto di più del preordinato avrebbe
pagato in danaro la differenza con detrazione dal salario e chi invece avesse avuto qualcosa
di meno l'avrebbe ricevuto ora appunto in sede di conguaglio. Queste erano dunque le
razioni degli scapoli e soldati, mentre di quelle degli huomini di catena, ossia dei forzati,
degli schiavi e delle buonevoglie, abbiamo già detto in un capitolo precedente.
607
Capitolo X.
LA GENTE DI SPADA.
Come abbiamo già premesso quando abbiamo parlato degli artiglieri di galera, non
possiamo allargare il nostro discorso agli eserciti post-rinascimentali nel loro complesso,
perché ci allontaneremmo dal tema nautico che ci siamo ora proposti, ma il lettore che ne
fosse interessato troverà facilmente un’altra nostra opera che è invece dedicata a tale
argomento; ci limiteremo qui pertanto a mettere solo in rilievo gli impieghi marittimi delle
fanterie del tempo e tratteremo quindi ora della gente di spada o guarnizione di galera (gra.
ἐπιβάται), ossia di quella che più tardi si sarebbe chiamata fanteria di marina. Questa
guarnizione poteva essere d’entità molto varia a seconda dell’esigenze dell'impresa di
guerra o di corso programmata; in tempo di pace poteva essere minima oppure poteva
essere occasionalmente anche troppo numerosa, specie nel caso di quei frequentissimi
viaggi mediterranei che le galere compivano proprio per trasportare da una provincia
all'altra della fanteria o della cavalleria smontata, vale a dire priva di cavalli, visto che in
galera per tali animali non c’era posto. Va bene che i cronisti del Medioevo tendevano a
esagerare di molto il numero delle forze nemiche della fazione per cui parteggiavano, ma
quando leggiamo che Pietro III d’Aragona il 6 novembre 1284 inviò da Messina una squadra
perché, attraversato lo stretto, s’impadronisse della roccaforte di Catona, circoscrizione del
comune di Reggio allora invece sobborgo della città, vediamo che si trattava di 15 galee che
trasportavano, oltre ai loro equipaggi, 5mila fanti da sbarco almogavari, montanari catalani
a cui abbiamo già accennato, e quindi in pratica circa 333 di essi a galea (Bartolomeo di
Castronuovo, cit. L. I, cap. LVI).
Generalmente in crociera ordinaria e in tempo di pace, quando cioè gli unici combattimenti
possibili erano quelli che potevano avvenire incontrando vascelli dei corsari barbareschi, si
tenevano a bordo una cinquantina di fanti, ossia all'incirca uno per ogni banco; nel caso
invece di guerra di squadra o d'armata reale, come allora si diceva, sulla galera potevano
esserci più di 150 soldati o anche un’intera compagnia di fanteria e nella seconda metà del
Cinquecento una tale compagnia poteva contare - almeno per quanto riguarda le fanterie
della corona di Spagna – dai 200 ai 300 uomini; ciò perché in effetti in tal'occasione più
soldati c’erano a bordo e meglio era, ma non tanti però da impedire le manovre e gli altri
servizi di bordo. Non bisogna dimenticare infatti che la fase cruciale del combattimento tra
galere era quella del prolungamento, ossia dell'affiancarsi al vascello nemico per poi andare
608
all'arrembaggio combattendo all'arma bianca, e quindi chi aveva a bordo più combattenti
quasi sempre aveva la meglio; in ogni caso 150/200 soldati erano considerati a ponente un
numero bastevole ad affrontare una battaglia d'armata, mentre a levante, ossia a Venezia e
in Turchia, se ne consideravano sufficienti 100, visto che in caso di necessità si potevano
armare i remiganti, i quali, come sappiamo, erano in gran parte buonevoglie o perlomeno
dei salariati. A Lepanto, come racconta Giovan Pietro Contarini nella su contemporanea
Historia, ogni galera cristiana sottile ordinaria aveva 200 uomini da spada, mentre quelle di
comando ne avevano da 300 a 400, a seconda del loro grado (cit.) Il succitato Governo di
galere vuole sulla galera sottile 208 scappoli, includendo però in questa dizione tutti i non
remiganti, quindi anche gli ufficiali e i 150 soldati, e, nel caso di battaglia reale, così
riassume la superiorità ottenibile da una galera cristiana, in quanto a equipaggio, a
paragone d’una turca:
Dunque c’era a quell’epoca un notevole vantaggio delle galere cristiane; ma a che cosa era
esso principalmente dovuto e come si raggiungevano i predetti numeri? Sebbene i turchi
avessero potuto rendersi conto della maggior praticità della nuova voga alla galochia sin
dalla battaglia delle Gerbe, avvenuta come sappiamo nel 1560, la grande maggioranza delle
loro galere, come ci conferma il detto Governo di galere, continuò ad andare armata a tre
remi e uomini per banco fin forse a quella di Lepanto, come si era usato fino alla fine del
Rinascimento anche da quelle cristiane, le quali però ormai da tempo adoperavano il nuovo
sistema e portavano quattro vogatori a ogni remo di scaloccio; anzi, nel caso di battaglia
reale, i banchi s’inquintavano, ossia a ogni remo si aggiungeva un quinto uomo, cosa resa
evidentemente possibile dall’essere ormai quelle cristiane galere tutte quartierate, ossia,
come già sappiamo, più larghe delle sottili tradizionali; questa maggior dimensione
implicava però l’opportunità di portare nell’evenienza predetta anche una ventina di marinai
di più dell’ordinario e anche più artiglieria.
Nel caso di guerra di corso o d’una breve e rapida impresa non bisognava aggravare con
troppa gente la galera e 100 soldati o poco più per ogni galera d'ordinaria grandezza era il
numero giusto da distribuirsi, insieme con i marinai, tra balestriere, rembate, poppa, schifo
e spalle; da un numero variabile tra gli 80 e i 100 soldati era infatti in tal caso
ordinariamente guarnita ogni triremi sottile veneziana nel 1525, come sappiamo da Gasparo
609
Contarini (Ib.) Per quanto riguarda i vascelli tondi o a vela quadra che dir si voglia,
andavano anche bene i predetti numeri d’armati, se si andava in guerra regolare; ma, se si
andava in corso, allora, non essendoci problemi di sovraccarico come nelle galere,
bisognava portare molti più uomini, anche il doppio, proprio perché nella guerra di corso si
mirava ad andare soprattutto all’arrembaggio; insomma, andando in corso, il numero degli
uomini armati delle galere si conteneva e quello dei vascelli tondi invece si aumentava di
molto. Anche in caso di semplice trasporto di milizie, un vascello tondo poteva ovviamente
caricare molti più uomini d’una galera, potendo infatti una sola nave o galeone grande
trasportare anche più di mille soldati.
Se dunque a bordo era presente un’intera compagnia, questa dipendeva da un suo capitano
(fr. capitaine d’armes) e non da quello della galera, ma in alcune squadre, quando non si
partiva per un’impresa che comportasse lo sbarco di fanteria per azioni di guerra a terra, ma
semplicemente si andava in corso sui mari, si preferiva affidare al comando del capitano del
vascello anche i soldati, in modo da evitare gl’inevitabili dissensi e conflitti di comando che
nascevano a bordo tra il capitano di mare e quello di terra; il che anche si praticava quando
a bordo non c'era un’intera compagnia di fanteria con il suo capitano, bensì solo qualche
squadra guidata magari da un sergente.
I fanti che s’impiegavano nelle guarnizioni marittime delle galere o degli altri vascelli da
guerra del re di Spagna erano, come del resto quelli che servivano a terra, di due tipi
principali; il primo era quello dei fantaccini regolari spagnoli appartenenti ai terzi fissi, ossia
ai reggimenti di presidio nelle varie province mediterranee soggette a quella corona, ed
erano queste compagnie tutte ben esercitate nell'armi ed erano imbarcate ogni anno sulle
galere a turno, in modo che tutte potessero amarinarsi, come dicevano i veneziani, ossia
assuefarsi al mare; il secondo tipo era quello dei soldati permanenti a bordo, cioè quelli che
erano chiamati vantaggiati o trattenuti, i quali erano militari di carriera, uomini scelti o
comunque migliori dei soldati ordinari:
... Gli avantaggiati sono persone assai stimate per prove di valore fatte nelle guerre di terra
e di mare o per carichi e gradi havuti nella milizia; si sogliono riconoscer da gli altri con
avantaggio di soldo, di razioni e di poste nelle galee ed, occorrendo che s'habbia a
combattere, si sogliono collocar dove è il maggior pericolo. (Ib. P. 164.)
Per trattenuti s’intendevano invece ufficiali che, pur privi d’incarico, dovevano restare a
disposizione permanente e pertanto ricevevano uno stipendio fisso tutto l'anno, a
differenza quindi dei cosiddetti venturieri, i quali servivano invece all’occasione, senza
incarico né stipendio; chiaramente un soldato poteva quindi essere allo stesso tempo un
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... (le) valorose nazioni delli svizzeri e de gli alemani, i quali, per le vittorie ottenute in terra,
sono da i Principi molto stimati e temuti, ma, non havendo fatto ancora alcuna impresa
segnalata in mare, anzi essendo riusciti quasi inutili, dispendiosi e di grande ingombro nelle
armate dove sono stati condotti, in questa milizia navale non hanno nome né credito
alcuno... (Ib. P. 162.)
Per un soldato servire in galera era molto più disagevole che farlo a terra e ciò sia per la
ristrettezza dello spazio in cui bisognava convivere gomito a gomito con diverse altre
centinaia di persone e dove era impresa ardua persino trovarsi un posticino delle
balestriere nel quale stendersi a dormire all'aperto, sia per il puzzo del sudore emanato dai
remieri, la scarsa igiene e il più facile e rapidissimo propagarsi delle malattie infettive, sia
per il continuo rollare o beccheggiare dell'instabile galera che provocava nei più il mal di
mare (le vertigini, come allora si diceva):
611
... il fastidioso moto de i vascelli, il qual turba lo stomaco, muove il vomito e toglie l'appetito
del cibo, che i non abituati s’indeboliscono e, quasi come morti e derelitti da i sensi,
rimangono storditi e inetti a qual si voglia operazione e finalmente sono sforzati a lasciare il
mare (Ib. P. 154.)
E si ricordava il caso della nave veneziana carica d'armi, vettovaglie e soldati che era stata
mandata in Levante nel 1571 per soccorrere l'isola di Cipro e che si perse solamente a
causa del non essere avvezzi i soldati alle turbolenze del mare; essi preferirono sbarcare in
territorio dei turchi ed essere da questi catturati e fatti schiavi piuttosto che continuare ad
affrontare il continuo mal tempo di quei giorni. In effetti anche le brevi traversate
mediterranee potevano risultare allora tanto lente e disagevoli da provocare la morte, come
si legge nel dispaccio che il predetto Bonrizzo scrisse da Napoli al suo senato il 26 maggio
dello stesso suddetto anno:
… Dalla Spagna è giunto l’ultimo trasporto di soldati che s’attendeva. Si dice che in tutto
siano tremila; ma per istrada ne sono morti molti… (N. Nicolini. Cit. )
E ancora riferiva, tra l’altro, su questi bisoños (‘reclute spagnole’) il 4 luglio seguente:
… Per altro, quelli giunti qui ultimamente sono così ammalati che si parla persino di lasciarli
a Napoli per non infettare l’armata… (Ib.)
Trascriviamo ora, tradotto in italiano, un significativo brano delle già citate memorie del
militare francese Barras de la Penne, brano in cui il disagio e la durezza del navigare in
galera sono descritti vividamente e realisticamente e che si può senza dubbio applicare
anche all'epoca più antica di cui stiamo soprattutto trattando, anche se c'è da tener però
conto che le galere dell’inizio del Settecento erano parecchio più larghe di quelle sottili
ordinarie del Cinquecento, avevano circa il doppio dei remiganti e quindi anche la loro
marinaresca e soldatesca era più numerosa:
... Coloro che salgono per la prima volta su una galera sono sorpresi di vedervi tanta gente;
c'è in effetti in Europa un’infinità di villaggi che non riuniscono assolutamente un così gran
numero di abitanti. Ma ciò che causa ancor più meraviglia è di trovarvi tanti uomini raccolti
in un così piccolo spazio; è vero che per la maggior parte non hanno nemmeno la libertà di
stendersi a dormire per tutta la loro lunghezza; si mettono sette uomini in ciascun banco,
vale a dire in uno spazio di circa quattro piedi di larghezza per dieci di lunghezza; si vedono
ugualmente a prua trenta marinai che non hanno per tutt'alloggio altro che il piano delle
rembate (due rettangoli di dieci piedi di lunghezza per otto di larghezza); da poppa a prua
non si scorgono che teste. Il capitano e gli ufficiali non sono quasi per nulla meglio
alloggiati; essi hanno per tutto rifugio la poppa, la quale si sarebbe tentati, viste le sue
dimensioni, di comparare alla botte di Diogene.
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Allorché lo spietato mare di Libia (‘il Tirreno’) sorprende le galere di rincontro alle spiagge
romane (laziali), quando l'impetuoso aquilone le viene ad investire al largo o quando il golfo
di Lione le abbandona a l'umido vento di Siria, tutto si accorda a fare della galera moderna
un inferno. Le lugubri lamentazioni dell'equipaggio, le grida spaventevoli dei marinai, le urla
orribili della ciurma, i gemiti del corbame mescolati al rumore delle catene e ai ruggiti della
tempesta fanno nascere nei cuori più intrepidi un sentimento di terrore. La pioggia, la
grandine, i lampi, accompagnamento abituale di quelle violente procelle, l'onda che copre il
ponte con i suoi spruzzi si aggiungono a l'orrore della situazione. Sebbene non si sia
generalmente per nulla molto devoti in galera, voi vedete allora della gente pregare Dio,
dell'altra votarsi a tutti i santi; alcuni inoltre, a dispetto dell'agitazione del vascello, si
sforzano di fare dei pellegrinaggi intorno al bordo (sulle balestriere) e sulla corsia dei
pellegrinaggi; coloro farebbero molto meglio a non dimenticarsi di Dio e dei suoi santi
appena il pericolo è passato.
La stessa bonaccia ha i suoi inconvenienti; i cattivi odori sono allora così forti che non ce
ne si può liberare, nonostante il tabacco del quale ci si è obbligati a riempire il naso dalla
mattina alla sera. Ci sono sempre in galera certe piccole bestie che sono il supplizio dei
suoi abitanti; le mosche esercitano il loro impero di giorno, le cimici di notte, le pulci e i
pidocchi di notte e di giorno; per quante precauzioni si prendano, non si saprà riuscire a
liberarsene; quei feroci parassiti non rispettano nemmeno i cardinali, gli ambasciatori o le
teste coronate. (Cit.)
Nel Cinquecento, quando l'uso del tabacco e del suo intenso odore come anti-fetore ancora
non si erano diffusi, gli ufficiali usavano annusare fazzoletti profumati nel tentativo di non
sentire il suddetto terribile puzzo, al quale oltretutto s’aggiungeva a tratti anche quello,
ancora peggiore, dell’acqua marina putrida e della sporcizia che si raccoglieva nella sentina
(dal l. sentes, ‘spine, lische’’), la quale era così detta perché le coste della chiglia che la
formavano ricordavano le lische di un pesce. Perlomeno il fetore di sentina era un buon
segno per la gente di mare molto favorevolmente accolto dalla gente di mare, perché la sua
presenza significava che il fasciame era ben calafatato a sufficiente tenuta stagna e che il
vascello non faceva acqua in maniera significativa da nessuna parte; ciò perché era molto
difficile che prima dell’invenzione dei mastici sintetici, avvenuta solo nel Novecento, un
vascello di legno potesse essere perfettamente a tenuta stagna e infatti nel codice di diritto
marittimo della città di Bergen del 1274 al cap. II si legge:
La nave che non è necessario aggottare più di tre volte in ventiquattr’ore sarà considerata
in stato di navigare; i marinai potranno nondimeno accontentarsi d’una meno ben turata. Se
il padrone (‘comandante’) organizza d’aggottare la nave durante la notte all’insaputa
dell’equipaggio, ciò sarà considerato una frode di pregiudizio a coloro che devono
imbarcarsi sulla nave e il padrone dovrà risarcire i danni che essi di conseguenza ne
ricevessero nelle loro persone o nei loro beni; poiché chiunque ha commesso una frode ne
deve pagare il fio… (J. M. Pardessus. Cit.)
613
Questa norma si troverà poi ripetuta nel cap. II dell’ordinamento marittimo medievale
islandese del 1281 che si trova nel codice Jons-Bog (ib.)
Ancora più difficile era per il fante servire in galera durante il combattimento, quando
risultava arduo persino il tenersi in piedi nei rollanti vascelli, mentre spaventosi fuochi di
guerra volavano tra la propria galera e quella del nemico:
… Al qual travaglio si aggiunge l'horrore delle cose che vede continuamente con gli occhi
proprij, di morti crudelissime e della strage che fa delle membra humane hora il ferro ed
hora il fuoco, che non è così spaventoso nelle battaglie terrestri, vedendosi in un istesso
tempo quello sbranato, questo abbrusciato, l'uno affogato e l'altro trafitto d'un archibugio o
fatto in miserabili pezzi dall'artigliaria, oltra lo spavento che apporta lo spettacolo d'un
vascello che sia inghiottito dal mare con tutte le genti che vi sono sopra senza poter
ricevere un minimo aiuto, e il vedere i compagni semivivi e semiarsi andar infelicemente al
fondo e'l mare, mutato colore, divenir rosso di sangue humano e coprirsi d'arme e di
spoglie e di frammenti di vascelli rotti e, per la moltitudine di quelli che ardono e dei corpi
che si abbrusciano, quasi trasformato in fuoco e pieno di morti e di morienti, che con gemiti
e con voci compassionevoli muovono a lacrime gl'istessi inimici. (P. Pantera. Cit. Pp. 154-
155.)
Il terribile spettacolo sopra descritto dal Pantera coincide appunto con quanto si dice della
battaglia di Lepanto, avvenuta la domenica 7 ottobre 1571, festa di S. Giustina, nella
contemporanea descrizione di M. Francesco Sansovino:
… Si erano serrate insieme tre galee a quattro, quattro a sei e sei ad una ‘sì delle inimiche
come delle cristiane, tutti combattendo crudelissimamente per non lasciar l’uno la vita
all’altro, e già erano saliti su molte galee di questa e quella parte turchi e cristiani,
combattendo insieme ristretti alla battaglia dell’arme curte, dalla quale pochi restarono in
vita, e infinita era la mortalità che usciva da i spadoni, scimitarre, mazze di ferro, cortelle,
manarini, spade, freccie, archibugi e fuoghi artificiali, oltra quelli che per diversi accidenti
spenti (‘fermati dalle ferite’), ritirandosi e da loro gettandosi, si affogavano in mare, qual già
era spesso e rosso di sangue… (Historia universale dell’origine et imperio de’ turchi etc. P.
483. Venezia, 1582.)
… Spaventoso ed horribile spettacolo era il vedere tutto il mare sanguinoso che sospingeva
infiniti corpi morti e compassionevole a risguardar molti, appresi a diverse sorti di legni,
andar per il mare, molti mal vivi cristiani e turchi mescolati dimandar nell’acque nuotando
aiuto e abbracciati ad un istesso legno cercar di salvarsi. Da ogni parte gridi, da tutte le
bande compassionevoli voci si sentivano e quanto più l’aere si oscurava tanto maggiore e
più horrendo spettacolo pareva… (Giovan Pietro Contarini P.53v.)
La scena è anche descritta da Ferrante Caracciolo conte di Biccari nei suoi Commentarii:
614
… Hora il mare era pieno d’huomini morti, di tavole, di vesti d’alcuni turchi che fuggivano a
nuoto, d’altri che affogavano, di molti fracassi di vascelli e per le molte occisioni in gran
parte vermiglio; si vedevano vascelli che ardevano ed altri che andavano a fondo, la costa
di quelli scogli piena di turchi che fuggivano, a’ quali le nostre galee vicine tiravano
cannonate a gran furia, tanti legni de’ nimici arenati… (I commentarii delle guerre fatte co’
turchi da don Giovanni d’Austria etc. Pp. 42-43. Firenze, 1581.)
… La battaglia durò vicino a quattro hore, ma in meno si scorse la vittoria, la qual fu tanto
horribile e sanguinosa che pareva il mare un Mongibello, tinto tutto e colorato di sangue,
pieno di corpi morti ondeggianti, di vascelli disfatti, di fuochi appiccati a remi e a questa e a
quell’altra cosa. L’aria compressa di fumo, mista di solfo e ripercossa da gridi e lamentevoli
voci di color che o di ferro o di fuoco o d’acqua o feriti dall’artiglierie perivano; finalmente
spettacolo di gran miseria. (Vita del gloriosissimo Papa Pio Quinto, P. 147. Roma, 1586.)
La notte seguente alla battaglia il mare davanti al ridosso di Petela, dove le galere dei
cristiani si erano raccolte e riparate, fu scosso da una burrasca e, giunto il mattino, ecco
che cosa apparve ai loro equipaggi:
… Il mare, già sazio della ingorda voragine sua, a sommo gli umani corpi de’ morti aveva
cominciato a gittare e quelli dal vento, che tuttavia verso la terra ferma gli sospingeva,
erano insieme talmente ristretti che non bastava la vista a mirar tanto lontano che
chiaramente l’acqua del mare scoprisse, poi che, per quanto altrove si raggirasse, niuna
altra cosa che ignudi capi d’uomini morti poteva vedere; e non mancò di poi chi dicesse che
dal vento che quella notte gagliardissimo avea soffiato gran quantità sino in Candia ne
fossero stati sospinti. Stavasi ogni uomo stùpido (‘attonito’) riguardando e parendo di avere
la precedente giornata sognato, mentre il numero tanto grande de’ morti si contemplava,
impossibile ancora agli stessi uccisori pareva che dalle mani cristiane tanta strage uscire
fosse potuto. Attendevano i marinari e gli sforzati tutti a pescare con gli uncini quelli
ch’erano vestiti e a spogliarli; continuamente si trovavano pendere da’ colli de’ morti borse
con buoni danari, giubbe, turbanti, tappeti di cuoio, cassette piene di molte curiosità e altre
cose infinite, che tutte a galla di poco in poco tra i densi corpi apparivano. (Ib. Pp. 215-216.)
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I nemici uccisi furono infatti stimati in circa 30mila, mentre i cristiani ebbero circa ottomila
tra morti e feriti; i personaggi più importanti che vi persero la vita furono il provveditore
generale veneziano Agostino Barbarigo, ucciso da un colpo di freccia in un occhio, lo
spagnolo Bernardino de Cardines, colpito da una palla di smeriglio, i fratelli Orazio e
Virginio Orsini, 14 capitani di galera e una sessantina di cavalieri di Malta; una relazione
francese della fine di quello stesso anno dava periti nella battaglia, oltre al Barbarigo, i
seguenti principali personaggi cristiani:
Benoist Laurens.
Andrea Barbarigo.
Giovanni Corsaro.
Lando (sic).
Marino Contarini.
Lattanzio Malipiero.
Hieronimo Contarini con tre suoi cugini.
François Bion.
Antonio Pasqualigo.
Thodero Balbi.
Jean Baptiste Benoist.
Jacques de Mezo.
Antonio Mallogani, candiotto.
Alessandro Littico Daffrani.
Tristano Vesanti.
La grandiosità della battaglia di Lepanto stupì gli stessi partecipanti e quindi tra questi
anche il succitato Sereno, il quale infatti nei suoi Commentarij così la ricorderà:
Niun giorno fu mai tanto tremendo né tanto ricordevole e glorioso, dopo che Iddio operò in
terra l’umana salute, quanto il settimo d’ottobre dell’anno 1571, la memoria del quale,
mentre la penna tengo per descriverlo, fa che per l’orrore mi si drizzino i capelli sul capo,
che mi tremi la mano e che in effetto ora io conosca il timore che, con l’armi e col cuore
trattando il gran fatto, non seppi allora conoscere… (Cit. P. 183.)
Tutti si resero subito conto d’aver partecipato a qualcosa di molto importante, anche se in
effetti non storicamente del tutto nuovo, se ci si vuol ricordare della grande vittoria che una
lega marittima cristiana ottenne contro l’armata turca nel golfo di Smirne nel 1334, seguita
poi 10 anni più tardi dal sacco di questa stessa città, sacco che i veneziani ripeteranno poi
nel 1472; i più, specie i furbi e i profittatori, cercarono subito di ricavarne onori e vantaggi e
pertanto mostravano il più possibile le ferite ricevutevi o si sforzavano di far credere
d’averne ricevute; è sempre il Sereno che racconta:
… Furono dopo questo gran fatto tanto desiderate e mendicate le ferite da quelli che
ricevute non ne avevano che, come quelle che del valor loro dovessero fare testimonio,
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pareva che ognuno volentieri quelle de’ suoi compagni per gran prezzo si avrebbe
comprate; e quelli che alcuna, ancor che minima, se ne trovavano, non solo medicarle non
volevano, ma facevano anzi ogni giorno quanto potevano per che o lungamente aperte si
mantenessero o almeno i segni con cicatrici maggiori che possibil fosse vi rimanessero…
(Ib. Pp. 213-214.)
E continua poi questo testimone di Lepanto narrando qualche buffo caso di combattenti
cristiani comportatisi in quella battaglia abbastanza vigliaccamente, pensando cioè
solamente a salvarsi la pelle, e che diversi mesi dopo a Roma continuavano a ostentare
medicazioni di finte ferite; d’altri, uomini di comando, che andavano pagando letterati che
scrivessero inventate gesta da loro compiute in quell’occasione e infine d’altri ancora che
andavano acquistando vessilli e vestiti tolti ai vinti turchi per poi farne mostra a tutti come
di propri trofei (Ib.).
La peggio toccava ovviamente ai galeotti incatenati ai remi gomito a gomito; questi non
avevano alcuna possibilità di schivare i colpi del nemico né di salvarsi a nuoto se la galera
affondava o s’incendiava e il Croce, laddove narra la vita del soldato spagnolo Miguel de
Castro, imbarcato dal 1605 al 1606 su una galera napoletana, essendo quindi viceré allora
Juan A. Pimentel de Errera conte di Benavente (1603-1610), si sofferma infatti sulla terribile
condizione in cui piombavano i remiganti durante una battaglia:
... Era piena di orrori quella vita di corseggi che il de Castro fece per oltre un anno. narra
che in uno di quei combattimenti era tanta la quantità di pece, piombo e pietre grosse
pesantissime che veniva scagliata sulle galee, che la misera ciurma (della galera nemica),
decimata da quella pioggia feroce, composta com'era di schiavi, gridava agli spagnuoli:
'Misericordia, cristiani, 'ché siamo cristiani come voi! (B. Croce. Cit.)
… Nel qual tempo le navi che portavano in Italia gl’italiani del Re patirono fortuna maggiore
(di quelle toccate invece alle loro galere) e, correndo quale ad una banda e quale ad
un’altra, per molti giorni si tenner perdute; ma i soldati, per li molti disagi che vi patirono, la
maggior parte morirono, il resto, molto malconci, mendicando se ne tornarono con brutto
spettacolo della mal ordinata milizia de’ tempi nostri (B. Sereno. Cit. P. 327.)
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Con queste ultime parole il Sereno s’unisce a quanto costantemente lamentato da tutti i
trattatisti militari del tempo e cioè con il leit motiv del decadimento dei buoni usi e costumi
militari della loro epoca rispetto alla bontà di quelli degli antichi, specie dei romani; egli era
infatti uomo di cultura e non ammetteva certi eccessi della guerra, come quando, nel corso
dell’occupazione e devastazione di Tunisi dell’ottobre del 1573, fatto al quale egli partecipò,
costatò che i soldati cristiani aveva pressoché distrutto la biblioteca della città:
… Ma più che in tutti i luoghi gran danno vidi io nella moschea, nella quale arrivando, da poi
che i primi soldati che andavano a pigliar (ne) il possesso v’erano stati, trovai una libreria
molto copiosa scritta a mano in arabico né vi trovai libro alcuno che non ne fossero molti
quinterni stracciati. (Ib. P.343.)
Il soldo, pressoché invariato per secoli, che la corona di Spagna pagava ai soldati imbarcati
era - e questo valeva per tutti le nazioni al suo servizio - lo stesso che si corrispondeva per
il servizio di terra e dunque i maggiori disagi e pericoli del servizio di mare non erano
considerati; anzi nel passato i fanti di marina erano stati pagati di meno di quelli di terra e lo
vediamo per esempio nel soldo mensile concordato dalla compagnia catalana di fra’
Ruggero de Flor che nel 1303 si formò nella Sicilia aragonese e s’imbarcò a Messina per
andare a combattere al servizio dell’imperatore bizantino Andronico II Paleologo (1282-
1328), il quale aveva a tal uopo nominato detto Ruggero nuovo megaduca dell’impero; il
fante avrebbe preso un’oncia siciliana mentre il balestriero di bordo solo venti tarini, ossia,
essendo l’oncia siciliana fatta di trenta tarini, un terzo di meno, e, per una miglior
comprensione delle proporzioni, aggiungeremo che il cavaliere con cavallo armato, cioè
protetto da barda d’acciaio, avrebbe in quell’occasione ricevuto quattr’oncie, quello con
cavallo afforrato, cioè coperto solo dalla forra (itm. fodra; fr. caparaçon), ossia dalla
trapunta imbottita protettiva sottostante la suddetta barda, tre oncie; il còmito, vale a dire il
comandante della galera medievale biremi, quattr’oncie, il nocchiero, cioè il ‘secondo’ di
galera, un’oncia, il proero, ossia il marinaio velista di prua, venticinque tarini (Muntaner).
Immaginiamo che questo si volesse con il pretesto che a bordo il soldato in fondo evitava
molte fatiche, soprattutto quella di dover marciare per giornate intere anche nelle
intemperie, di dover talvolta aiutare a spingere avanti l'artiglieria su terreni accidentati o su
passi di montagna, anche se non dovevano più, come invece gli antichi soldati romani,
anche costruirsi e scavarsi l'alloggiamento di campagna, valli, trincee e ponti, se non molto
raramente quando mancassero i guastatori, perché, come abbiamo già detto, i fanti, dal
Rinascimento in poi, si rifiutavano di lavorare di zappa e di pala, ritenendola cosa
disonorevole per un soldato, e protestavano d’esser pagati solo per combattere. Per gli
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stessi motivi di preteso disonore sulle galere i soldati si rifiutavano di vogare quando
mancassero remieri; nel 1686 i soldati toscani di guarnizione sulle galere del Granducato,
comandati di servire al remo per una sopravvenuta necessità straordinaria, si
ammutineranno. Nel 1309 poi la suddetta compagnia catalana sarà assoldata dal conte di
Brienna, erede del ducato d’Atene, a 4 oncie mensili per cavallo armato, 2 sole per quello
afforrato e una per fante (ib.)
Quando a bordo era presente il capitano di terra, quello di mare doveva dividere con lui la
poppa, cioè sia la camera sia la copertina che la sovrastava, perché quello era il posto
d’ambedue, ma questo di giorno, perché - per quanto concerne il dormire la notte - il
capitano di fanteria, pur potendo accomodarsi in galera dove più gli piaceva, doveva però
lasciar libero al capitano di mare perlomeno il luogo della bancazza, del quale abbiamo già
detto, mentre, quando si combatteva, detto capitano di terra doveva stare ovviamente dove
più ci fosse bisogno di lui, ma per lo più stava in corsia con il capitano di mare, al quale era
a bordo comunque subordinato; doveva perciò in tal delicatissima occasione cercare di
stare a prua quando il capitano di galera stava a poppa e viceversa in modo da tenere sotto
controllo tutto il vascello. Per quanto riguarda il suo bagaglio e il suo armamento, il mozzo
di camera del capitano di mare, per ordine di questi, doveva conservarglieli in maniera
accessibile e custodirli. Quest'aver determinato con precisione anche i posti della galera in
cui gli stessi due capitani dovevano trattenersi dimostra quanto osservare un ordine
preciso in queste cose fosse importante in un ambiente tanto angusto e tanto affollato.
Quando, o per esigenze di guerra o di semplice trasporto, s’imbarcavano soldati che non
facevano già parte della guarnizione militare della galera, bisognava che il comandante di
mare, affiancato da quello di terra - se presente - e da alcuni dei suoi ufficiali, si trattenesse
sulla poppa all’aperto a sorvegliare l’operazione finché i nuovi arrivati non avessero
sistemato a bordo sé stessi e le loro cose in maniera da non imbarazzare le manovre della
navigazione e intralciare la circolazione stessa nella galera:
…atteso che nell’imbarcare al spesso sogliono intarvenire rumori per il repartimento delli
detti soldati, perché ogn’uno di loro vorrebbe il meglio loco e cossì (anche) nel ripostar
delle loro robbe che imbarazzarebbono la poppa et tutto il resto della galea… (C. da Canal.
Cit.)
combatteva e quando si passava in rivista (ol. Monsteren; sp. hacer alarde, hacer reseña,
hacer muestra) la squadra o si entrava in porto, perché in tali occasioni esso s’inalberava a
poppa sulla estremità della freccia, ossia sullo stentarolo, a meno che, trattandosi della
galera Capitana, questo non fosse già occupato dallo stendardo che, come sappiamo, solo
questa portava. Il posto dell'alfiero era nello schifo, dove chiaramente doveva anche
adattarsi a dormire, e, quando il suo capitano si assentava, alla poppa per sostituirlo; in
battaglia doveva stare al luogo dello stendardo, ossia alla suddetta freccia di poppa, dove
doveva tenere la sua insegna inalberata e spiegata. L’alfiero prendeva tre razioni
giornaliere, 12 scudi pontifici mensili più il corrispettivo d'una piazza, ossia d'un ruolo, per
il mantenimento d’un abanderado o porta-insegna, cioè d’un soldato semplice al quale egli
affidava la bandiera quando non ci si trovava in una delle predette situazioni, nelle quali egli
doveva invece guardarla personalmente.
Il sergente della compagnia doveva obbedire anche al capitano del vascello per tutto
quanto riguardava il governo marittimo e aveva il suo posto alla spalla della galera, in modo
da poter subito ricevere gli ordini dai due capitani, oltre che dall'alfiero naturalmente, ma in
combattimento andava dove il bisogno lo richiamasse; per il resto aveva ben poco da fare,
visto che a bordo non si marciava né si costruivano alloggiamenti né si facevano manovre
d'esercitazione né, se si era in navigazione, si doveva dare parola d'ordine né si doveva
andare in ronda né schierare la gente in battaglia né occuparsi di tante altre incombenze
come nel servizio di terra. Quando però si udiva l'ordine L'arme in coperta!, quando cioè
c'era da combattere, egli doveva distribuire ai soldati le armi conservate nello scandolaro,
doveva farli andare ai loro posti di combattimento e tenerli in cervello, cioè all'erta, con i
micci accesi, ma coperti, secondo la prudente prassi della milizia marittima sempre
timorosa dell'accidentale propagarsi d’incendi a bordo; poi si andava a porre allo schifo,
che quella era la sua base di combattimento. Doveva inoltre ordinare le guardie notturne e
diurne che si solevano fare nelle galere secondo le circostanze e che erano rivolte non solo
a scoprire il nemico esterno, ma anche a reprimere i tentativi di sommossa o di fuga dei
remiganti; anche il capitano della fanteria, così come l'aguzzino, doveva infatti farsi
pubblico debitore di 25 scudi per ogni fuga di vogatore e inoltre il soldato posto a guardia
del luogo della galera dal quale fosse fuggito un remiero sarebbe stato condannato a
sostituire al remo il fuggiasco e a vogare quindi incatenato per tutto il resto del tempo a cui
quello v'era stato condannato. I soldati di guardia erano ben distribuiti dalla prua alla poppa
della galera; ma quella degli ordini di guardia della fanteria è materia molto complessa che
tratteremo nel già promesso nostro futuro volume dedicato alla guerra terrestre. Il sergente
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prendeva 3 razioni giornaliere e 6 scudi pontifici di soldo mensile; il suo nome deriva dal
ltm serviens-tis, essendo questo il ‘fante ordinario’ prima che si formassero le grandi
fanterie, come dimostra una pletora di documenti medievali francesi, titolo poi forse anche
contaminato da ‘serragente’, essendo questo uno dei suoi compiti nel ben ordinare in
campo una formazione di fanteria.
C'erano solitamente su ogni galera almeno due caporali (sp. cabos de esquadra), ma,
quando a bordo vi fosse un’intera compagnia, erano in maggior numero, poiché ognuno di
loro comandava una squadra di 25 soldati e a volte anche di 30. Quando erano di guardia
con le loro squadre, il loro posto era alla spalla della galera oppure alle due balestriere più
vicine alla poppa, perché da quella posizione potevano meglio comunicare con tutti i soldati
sparsi per il vascello, fuorché una squadra dovesse far la guardia solo alla prora perché in
tal caso il posto del suo caporale era anch'esso alla prora. In combattimento, quando erano
solo due, uno comandava i fanti di dritta (gr. δεξιότοιχοι) e l'altro quelli di sinistra e, se
invece erano tre, uno si poneva al luogo del fogone, uno sulla rembata di destra e il terzo su
quella di sinistra; se poi erano quattro o anche più, allora si dividevano tra prora e mezzania
e poi di nuovo tra dritta e sinistra. Il caporale prendeva due razioni giornaliere e 4 scudi
pontifici mensili.
Nell’antichità e nel successivo Alto Medioevo i soldati che servivano a bordo dei vascelli
servivano, come leggiamo nell’Onomastikon di Giulio Polluce (II sec. d.C.), armati come i
fanti di terra e quindi, arcieri a parte, con celata, corazza, schinieri, manopole di ferro,
scudo, spada; in più usavano un’asta falcata (gr. δορυδρέπανον), arma molto utile negli
abbordaggi per colpire dall’alto il nemico che se ne stesse acquattato dietro la murata, per
tagliargli le manovre e anche per mantenere il vascello nemico agganciato al proprio in
modo che non tendesse ad allontanarsi durante quell’azione. In seguito, cioè nel Basso
Medioevo, i fanti di marina ordinari, detti i marittimi in Toscana, divennero prima balestrieri,
come chiaramente si vede nella già ricordata notissima quattrocentesca Tavola Strozzi, poi
alle balestre si aggiunsero gli schioppetti e quindi dalla metà del Rinascimento
cominciarono a subentrare gli archibugi, dividendosi pertanto alla fine i soldati delle
guarnizioni militari nautiche in archibugieri e moschettieri; i primi, più numerosi per motivi
di praticità ed economicità, erano armati dunque d’archibugio, cioè di quell'arme da fuoco
portatile a canna lunga che si era diffusa nelle fanterie europee a partire dall'inizio del
Cinquecento, sostituendosi così al più rozzo schioppetto, il quale, nato nell’ormai già
lontano Duecento, aveva però caratterizzato soprattutto il cinquantennio a cavallo tra
Quattrocento e Cinquecento affiancandosi alla balestra; era l'archibugio evoluzione
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appunto di detto schioppetto, dal quale infatti principalmente differiva perché dotato della
cosiddetta serpe o serpentina, cioè di quel congegno che portava meccanicamente la
corda-miccia accesa a contatto del polverino d'innesco (ol. dun buskruit, polver) posto nel
fogone, permettendo così al fante di sostenere l'arme con ambedue le mani, cosa questa
che invece con lo schioppetto non era stato possibile perché, mancando tale congegno,
bisognava tenere la miccia nella mano destra e con quella avvicinarla al fogone.
L'archibugio pesava dalle 10 alle 12 libre, aveva una canna la cui lunghezza variava dai
cinque ai sei palmi e sparava palle di piombo di poco meno d'un’oncia e accompagnata da
una carica di polvere di poco inferiore al peso della palla medesima. Si raccomandava di
costruirlo di calibro uniforme per semplificare la preparazione dei proiettili e la valutazione
della carica di polvere necessaria; si voleva poi con la culatta ben rinforzata, con la
serpentina dal ritorno automatico e soprattutto con il calcio all'italiana, cioè dritto e
perpendicolare alla spalla, mentre sconsigliato era quello col calcio ricurvo, detto alla
spagnuola, perché rendeva l'arme poco stabile sia nel mirare sia nello sparare e si
appoggiava male tanto alla spalla quanto al viso, pregiudicando così la dirittura del tiro.
L'archibugio si forniva guarnito d'un fiasco di cuoio crudo contenente la polvere, d'un
fiaschetto - anch'esso di cuoio - contenente il polverino d'innesco e d'un sacchetto per le
palle, il tutto si portava a bandoliera a mezzo di lacci di pelle o di corda; le palle di piombo si
facevano a bordo, colando il detto metallo in piccole tenaglie di ferro cave dette pallottiere
(fr. moules à bales; ol. kogel-vormen).
L'archibugiero oltre all'archibugio era armato di spada e pugnale e portava in testa un
morrione o celatone, unica arme difensiva che gli era concessa, ed era quest'ultimo una
celata crestata e ben allacciata sotto il collo, munita di giro a tesa e d’orecchiali. Egli usava
la sua principale arme nel seguente modo; teneva nella mano sinistra sia il calcio
dell’archibugio sia un pezzo di corda-miccia accesa ad ambedue l'estremità e di
quest'ultima soleva tenere altri pezzi spenti e attorcigliati attorno alla vita o ad armacollo;
caricava la canna di polvere prendendo con la mano destra la fiasca appesa alla bandoliera,
poi, lasciata quella, prendeva una o due palle di piombo dalla borsetta, la quale in genere ne
conteneva 20 o 30, oppure le prendeva dalla propria bocca - tener preparate quattro o
cinque palle in bocca era una pratica diffusa in tutte le fanterie europee - e le infilava nella
canna spingendole con una bacchetta di legno. Se le palle erano di diametro un po' troppo
piccolo, come spesso accadeva, allora prima inzeppava con la bacchetta del pelo o dello
straccio o della carta nella canna e poi vi pressava la palla o le due palle, perché infatti
spesso ne sparava due insieme per tenerle così più ferme e compresse nella canna. La
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bacchetta aveva il suo innesto nello stesso archibugio, ma l'archibugiero valente, dovendo
sparare più volte e per far più presto, una volta adoperatala, se la infilava dentro il vestito
dietro la schiena, in modo da poterla così riprendere in un attimo. Così caricata l'arme, se
ne poneva il calcio quasi sotto il braccio destro, metteva il polverino d'innesco nel fogone
versandolo dal fiaschino che pure gli pendeva sulla destra e, nel far questo, teneva il
fogone stesso coperto a evitare che il polverino si bagnasse, se pioveva, o prendesse fuoco
prima del tempo a causa di qualche scintilla volante; poi metteva una dell'estremità accese
della corda-miccia nella serpentina, l'adattava al fogone e ci soffiava su per togliervi la
cenere che si andava formando e ravvivarne il fuoco; scopriva il fogone tenendo l'altra
estremità accesa della corda tra le dita della mano sinistra, mano con la quale anche
sosteneva la cassa di legno dell'arme; alzava l'archibugio, prendeva la mira con l'occhio
destro tenendo il sinistro chiuso, il piede sinistro avanti e la guancia destra poggiata sul
calcio; toccava il grilletto col dito anulare e sparava; dopo aver così tirato, toglieva la corda
dalla serpentina e, se non doveva risparare subito, l'arrotolava e se la riponeva in spalla
senza spegnerne però i capi. Doveva far molta attenzione quando, acceso il polverino, la
carica tardava a prender fuoco; infatti i soldati inesperti, non vedendo il colpo partire, si
mettevano a osservare l'arme girandosela e rigirandosela in mano e intanto lo sparo
magari finalmente avveniva e andava a colpire qualche suo povero commilitone!
La botta, ossia il colpo, d’archibugio era alquanto debole, tanto da succedere
frequentemente che il suo proiettile non riuscisse a penetrare nemmeno i vestiti di chi era
preso di mira, come, a proposito d’esecuzioni capitali di militari, si legge talvolta nelle
cronache del Cinquecento e del Seicento – e da ciò venne poi la consuetudine di fucilare i
condannati in maniche di camicia. I frati cappuccini che durante la battaglia di Lepanto e dal
ponte delle galere papaline ostentavano coraggiosamente ai nemici il crocefisso
esponendosi del tutto pericolosamente alla loro vista, pur talvolta colpiti da archibugiate,
non ne restarono feriti e il merito fu della pesantezza e dell’abbondanti pieghe dei sai di cui
andavano vestiti:
… E di questi ho veduto io sopra la mia galea fra’ Marco da Viterbo, al quale ho levato di mia
mano la palla di dentro al cappuccio, che, nello entrar di essa, in diversi luoghi era forato,
senza che il buon padre offesa n’avesse sentito… (B. Sereno. Cit. P. 213.)
Il moschetto da braccio, arma molto più grossa, pesante e lunga, dell'archibugio, corredata
da una maggior quantità di munizioni e d'accessori, pertanto riservato a uomini più robusti
e maturi, capaci di sopportarne il grave peso ed esperti tiratori, era stato introdotto per la
prima volta in Europa solo nel 1567 e precisamente nelle fanterie spagnole portate in
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Fiandra dal duca d’Alba; ma sembra, a quanto scriveva Roberto Mantelli (Cit.), che un suo
uso più generalizzato si ebbe, almeno per quanto riguarda il tercio fijo spagnolo di Napoli,
solo nel 1576 durante il vice-regnato di Juan Lopez de Mendoza Hurtado (1575-1579) ed è
pertanto da presumersi che fosse ancora molto poco presente a bordo delle galere che
combatterono a Lepanto e infatti i commentatori coevi di quella battaglia non ne fanno
cenno; il suo peso si aggirava tra le 18 e le 20 libre e la sua canna era lunga da sei a sette
palmi; aveva una gran culatta rinforzata e, per il resto, calcio e serpentina erano come quelli
dell'archibugio; dato il suo gran peso e quindi l'impossibilità di sostenerlo alla mira con le
sole braccia, il moschetto si sparava dopo averne poggiato la porzione anteriore della
canna su una robusta forcina di ferro a forma di mezzaluna, la cui asta di legno era guarnita
all'altra estremità d’una piccola punta di ferro in modo che si potesse tener conficcata nel
terreno; gli altri attrezzi di fornimento erano gli stessi usati per l'archibugio, con l'unica
differenza che le palle erano leggermente più grandi, pesando infatti ognuna un po' più di
un’oncia, e pertanto il moschettiero ne portava di meno di quante ne portasse
l'archibugiero; portava invece più polvere perché, per sparare palle più pesanti, doveva
usare ovviamente cariche più potenti, e quindi anche la fiasca della polvere che portava era
più grande di quella dell'archibugiero. Anche per la sua arme ogni carica consisteva in una
quantità di povere leggermente inferiore al peso della palla. Dato il maggior impiccio che
dava al soldato il corredo del moschetto rispetto a quello dell'archibugio, già all'inizio del
Seicento alcuni moschettieri portavano, invece della fiasca di polvere, una serie di cariche
di polvere già preparate e poste in astucci di latta che si tenevano appesi alla bandoliera;
vuotando uno di questi astucci nella bocca della canna si caricava il moschetto più presto e
più comodamente e inoltre si evitava il pericolo che si appiccasse incidentalmente il fuoco
alla fiasca di polvere. Nel Settecento poi, questi astucci di latta cederanno il posto alle
cartuccie, cioè ad astucci di cartapecora o carta grossa contenenti, oltre alla carica di
polvere, anche la palla e da infilarsi nella canna interamente; queste cartuccie verranno
tenute non più appese alla bandoliera, bensì chiuse in una borsa di cuoio duro detta
patrona e poi più tardi giberna; ma questa è un’altra storia.
Per dare un’idea della pesantezza del moschetto, diremo che per toglierselo di spalla alcuni
usavano sostenerlo da sotto il calcio con la stessa forcina; ma a fronte di questa gravezza
c'era il vantaggio che la sua palla arrivava a offendere a 300 o 400 passi, cioè a una distanza
doppia di quella che si poteva raggiungere con l'archibugio. Per il resto il maneggio del
moschetto non era dissimile da quello dell'altra arma e a bordo del vascello risultava
altrettanto agevole perché non si doveva portarlo a spalla in estenuanti marce o in altre
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occasioni faticose e inoltre era colà anche superfluo l'uso della forcina o forchetta che dir si
volesse, perché bastava infatti poggiare il moschetto comodamente sull'impavesate rigide
o, in mancanza di queste, sui semplici filari posti lungo la fiancata. Anche il moschettiero
portava spada, pugnale e morrione, anche se, per quanto riguarda quest'ultimo, bisogna
dire che si trattava d'un uso marittimo perché a terra il moschettiero, per non aumentare il
già grave peso che doveva portare, invece del morrione usava un vistoso cappello piumato
a larghe tese; ma a bordo, non dovendo marciare con la sua pesante arme, poteva
permettersi questo peso aggiuntivo per proteggersi il capo. Prendeva il moschettiero, come
a terra, maggior soldo dell'archibugiero e anche maggior razione.
I soldati semplici dovevano sistemarsi semplicemente nel seguente modo:
…il resto della compagnia per ordine alle balestriere secondo la quantità de’ soldati, che
sono le loro robbe e armi, come meglio loro potranno accomodarli. (C. da Canal. Cit.)
Ci domandiamo come facessero i soldati a difendere le loro armi e i loro effetti personali dai
flutti che non dovevano certamente mancare d’affacciarsi appunto sulle balestriere della
bassa galera quando il mare fosse solo un po’ agitato.
In combattimento gli archibugieri si appostavano alle pavesate, generalmente nelle galere
uno per balestriera, e poi sulle rembate o sui castelli di poppa e prua nel caso dei vascelli
tondi castellati; i moschettieri anch'essi tra i remi alle balestriere e sulle rembate o castelli,
inoltre, nel caso delle galere, alle spalle e nello schifo; gli armati d’arme in asta uno per
balestriera, per poter così rintuzzare i tentativi d’arrembaggio del nemico, e poi anch’essi
sulle rembate, a poppa, e inoltre allo schifo e al fogone pronti ad accorrere dove fosse più
necessario; inoltre ogni due o tre banchi si doveva tenere a disposizione dei predetti
difensori posti alla banda una tromba di galera e una picca di fuoco, anche queste per
contrastare il nemico all’arrembaggio :
…Anco in ogni balestriera si tenerà una rotella, si bene siamo tardi e duri (‘esitanti e severi’)
al dire di queste rotelle; la causa è che (i) soldati con la comodità della rotella lasciano
l’arcabugi per riparo delle (‘dalle’) frezze e, se in questo il capitano si accorgerà di tal gesto,
è obligato amazzarlo. La rotella (infatti ad) altro non serve (che) per andar sopra il vascello
inimico o vero (gli) inimici venissero sopra il suo vascello… (Ib.)
L'arme da fuoco portatile più efficace era dunque il moschetto, perché colpiva più lontano,
con maggior passata, ossia con più forza penetrativa, e con proiettile più grosso che faceva
quindi maggior ferita; esso poteva far strage del nemico prima che quello venisse a
investire, vale a dire a urtare impetuosamente il nostro vascello per poi prolungarlo, ossia,
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come abbiamo già detto, abbordarlo; era quindi nettamente preferibile all'arco con le frecce
che ancora tanto usavano i turchi, anche se lo stesso non si poteva invece senza dubbio
dire se si paragonava detto arco al debole archibugio, anzi il vantaggio era spesso del
primo specie a motivo della grande velocità di ricarica. Nel caso per esempio di quella non
mai abbastanza lodata battaglia allora detta delle isole Curzolari, più tardi invece conosciuta
come ‘di Lepanto’, gli aza(p)pi, ossia la marinaresca combattente ottomana armata d’arco,
fecero tra i cristiani molta più strage di quanta ne riuscisse invece a fare tra i turchi
l’archibugeria cristiana e questo è commento di militari italiani che a quella battaglia
parteciparono; Lepanto, come abbiamo già detto, avvenne infatti troppo presto perché i
moschetti portatili, introdotti nelle fanterie della Spagna solo nel 1567, potessero avervi
parte importante. Sul grand’uso dell’arco fatto dai turchi a Lepanto, ecco come apparivano
al Sereno le galere cristiane dopo la battaglia:
… Non erano antenne, non erano sarte, non alberi, non insegne, non palmo di cosi alcuna
nelle galee che, dalla tempesta delle archibugiate trafitto, non si vedesse (anche) talmente
di spessissime freccie coperto che verisimilmente la pelle di un porco spinoso
rappresentasse… (B. Sereno. Cit. P. 213.)
Tra i vari vantaggi che l'arco ancora offriva rispetto all'archibugio c’era quello innegabile,
nella guerra terrestre, di poter tirare sul nemico ad arcata, cioè da dietro le spalle dei propri
compagni, mentre le armi da fuoco tiravano solo a livello e quindi potevano essere usate
solo dalle prime file; ma – e ciò riguardava ovviamente anche la guerra nautica - c'era anche
il vantaggio, altrettanto importante, di poter essere usato anche sotto la pioggia, perché
l’acqua l’allentava sì, rendendone quindi il tiro meno potente, ma non ne impediva l’uso,
laddove invece le micce si spegnevano e i polverini d'innesco si bagnavano, e infine c'era il
maneggio tanto più semplice e il tiro tanto più rapido, in quanto nel tempo necessario a
caricare e sparare un solo colpo d’archibugio un arciero esperto poteva tirare anche più di
30 frecce. Alcuni esperti militari cristiani infatti - anche se inascoltati - raccomandavano un
ritorno all'impiego dell'arco sulle galere ancora alla fine del Cinquecento, non solo perché
arma indifferente alla pioggia e dal semplicissimo caricamento, ma anche perché utile nei
tempi morti in cui gli armati d'armi da fuoco erano impegnati a ricaricare le loro armi,
stando bassi e nascosti dietro la pavesata; nessuno invece rimpiangeva certamente più e
nemmeno ricordava la balestra, arma dal faticoso e complesso caricamento, anche se
questa era stata nel Mediterraneo occidentale la principale arma dei fanti di galera fino a
tutto il Quattrocento – l’arco invece nell’Adriatico e nei mari di levante in genere; di balestra,
come abbiamo già visto, ancora s’armava la marinaresca ponentina negli anni Ottanta del
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… I popoli di questo luogo, tanto di verno quanto di state, vanno vestiti di cuoio nero, del
quale fanno un vestimento in due falde, accomodate una dinanzi e l’altra di dietro, e
l’allacciano sopra le spalle e sotto le braccia con alcune stringhe fatte del medesimo cuoio,
con le quali ancora si affibbiano sopra i fianchi un paio di calze o più tosto stivali del
medesimo cuoio, i quali portano assai bene accomodati in gamba… Nel braccio sinistro
portano un pezzo di cuoio che difende loro il braccio dalla corda nel tirar che fanno l’arco…
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Soldati overo scappoli del dominio veneto nelle galee: Si ritrovano alcune sorte di soldati
che son usi al mare che è dello Stato veneziano, non (de)scritti ma liberi, che servono nelle
occasioni le galee di essi signori (veneziani). E questi sono per il più schiavoni o greci o
simil nazione, assuefatti di continuo in tale esercizio, uomini gagliardi, forti e di robusta
natura… Usano alcune spade larghe e pugnali. (Ib. P. 140v.)
… Produce questo paese huomini grandi e robusti, di bel sangue, ma nel praticare e nel
parlare ordinariamente aspri… Si cingono una scimitarra alla turchesca e assai portano una
mazza ferrata… Sono cattolici e divoti, armigeri e di gran fatica. (Ib. P. 411r.)
Ma il da Canal li descriveva invece, come vedremo, molto meno resistenti alla fatica dei più
smilzi e piccoli greci; lo stesso autore conferma poi il suddetto uso dell'arco sulle galee
veneziane in altro dei suoi passi:
… Piacemi ancora d'haver nella galea buon numero di certa quantità di saette, le quali sono
perfetto istromento della vittoria come primieramente ho provato, ed (aver) armatone pure il
mio arciero della gabbia. (Cit. P. 145.)
L'arco più apprezzato non era comunque quello piccolo greco, simile questo a quello
famoso e dalla grande forza di penetrazione che usavano i turchi, ma quello grande italiano
detto ‘arco friulano’ al quale abbiamo già accennato e che nel Cinquecento ancora si usava
appunto nelle campagne nord-orientali della repubblica di Venezia; di esso si è persa
purtroppo in Italia completamente non solo la tradizione, ma anche il ricordo, ben
sopravvivendo invece adesso quello del suo diretto erede inglese.
Spesso si era anche usato attaccare al ferro delle frecce un pezzetto di corda-miccia
acceso, in modo da tentare con quello d'appiccare il fuoco alle polveri che il nemico teneva
sopra coperta per le sue artiglierie; per quanto riguarda le punte delle frecce, era antica
tradizione, come leggiamo nel Lexicon del Suida (Cit. T. II, pp. 121-122) che il ferro più
adatto a forgiarle fosse quello detto nero perché di color violaceo o bluastro molto scuro, in
quanto coperto di ossido ferroso o ossido da fiamma. Le ferite provocate da questa qualità
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di ferro erano più dolorose, debilitanti e pericolose, perché la punta della freccia, una volta
estratta dalla ferita, vi lasciava inevitabilmente tracce di quell’ossido, sostanza questa infatti
carente di consolidamento.
A proposito della lentezza di fuoco degli archibugieri c'è da notare che le tre galere
savoiarde che parteciparono alla battaglia di Lepanto furono certamente in quell’epico
avvenimento le uniche capaci d'un veloce fuoco d'archibugeria in quanto i loro archibugieri
- unici nel Mediterraneo - usavano caricare la loro arme con delle vere e proprie cartucce
ante-litteram; il che si legge nella relazione sulla Savoia letta al suo doge dal residente
veneziano Giovan Francesco Morosini nel 1570:
... Oltre alli marinari che mette Sua Eccellenza (il duca Emanuele Filiberto di Savoia) per
ogni galera, che sono sessanta (errore; sono troppi!), suole anco mettervi sino ad ottanta
ovvero cento soldati per combattere; e a questi fa portar due archibugi per uno con
preparazione di cinquanta cariche acconciate in modo - con la polvere e palla insieme ben
legate in una carta - che, subito scaricato l'archibugio, non ci è altro che fare per caricarlo
di nuovo che metter in una sola volta quella carta dentro la canna con prestezza incredibile;
e ciò in tempo di bisogno fa fare da uno delli forzati avezzato a questo per ogni banco,
onde, mentre che il soldato attende a scaricar l'uno archibugio, il forzato gli ha già caricato
e preparato l'altro, di maniera che senza alcuna intermissione di tempo vengono a piover
l'archibugiate con molto danno dell'inimico e utile suo (‘del duca’); cosa che io giudico
utilissima in una armata e l'ho voluta particolarmente riferir alla Serenità Vostra acciò
ch'ella possa considerare se così fatto avvertimento potesse esser utile alle sue armate. (E.
Albéri. Cit. S. II, v.II, p. 134.)
Altre armi da fuoco portatili, le quali con ogni probabilità la gente di poppa usava perché
molto utili durante gli abbordaggi, erano i corti archibugi a ruota da cavalleria detti
cherubini, volendo ricordare i mitici tori alati di tal nome, come abbiamo già spiegato a
proposito della guerra di terra, termine che però nei secoli seguenti sarà corrotto in
carabine - nome che quindi non aveva nulla a che fare con i più volte già ricordati vascelli
onerari alto-medievali detti càrabi - e che indicherà dei corti fucili a pietra focaia, sempre da
cavalleria, ma comunque perdendo così il suo significato originario d’armi con accensione
a ruota e mina (‘minerale metallico’); inoltre gli archibugietti, armi lunghe un paio di piedi e
anch’esse a ruota, detti pure pistoni, soffioni, terzette e che infine saranno conosciute come
'pistole' (fr. pistolets; ol. pistoolen, zink-roers).
Le armi inastate, sebbene utili a bordo quanto le spade e i pugnali, data l'angustia delle
galere, ingombravano molto e pertanto era meglio riservarle, quando l’abbordaggio si
subiva, alla sola difesa della poppa e d’eventuali traverse, cioè barricate; anzi si era usato
una volta e ab antiquo tenere all’aperto sulla poppa dei corvi, ossia delle rastrelliere d’armi
inastate, attaccate alle predette garite, considerandosi quest’ultima come principal corpo di
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guardia; ma ora ben pochi capitani tenevano la poppa guarnita sia di questi attrezzi che di
falconetti, preferendo infatti tenerla il più sgombra possibile per non perdere la disponibilità
dello spazio:
…ed hoggi li capitani per lor comodità, parendoli bene portare la poppa disbarazzata,
tennino e portano le arme di sua galea in mano e in poter de’ schiavi inemici (‘dei mozzi
maomettani’), e ancora l’arcabusci nelle camere de (basso) gittati, e questo è errore grande,
che molte volte, stando queste armi nelle mani di simili persone, si son trovati arcabusci
inchiodati o parati con le palle sotto e sopra la polvere intanto (‘tanto’) che al bisogno non
serviriano… (C. da Canal. Cit.)
aste a mezzo di due loro prolungamenti inferiori detti orecchie, i quali, a volte anche dentati,
s’incastravano e inchiodavano nel legno.
Il comandante di galera veneziano Alessandro Contarini, che il da Canal sceglie come suo
esperto interlocutore nella Milizia marittima, trattato steso infatti in forma di dialogo,
spiegava d’aver voluto eliminare dall'uso della sua galera, oltre ai corsaletti di cui tra breve
diremo, anche la maggior parte delle suddette armi in asta, soprattutto i pericolosi
partigianoni, dei quali però consigliava di tener a bordo un certo numero uncinati sotto i
banchi delle buonevoglie, perché sarebbero invece stati molto utili in caso si fossero dovuti
fare sbarchi armati, soprattutto se adoperati da coloro che a terra erano designati (cst.
sobresalientes) a far cerchio attorno al capitano per proteggerlo. Egli era però favorevole
all'uso delle picche, le quali proprio per la loro lunghezza potevano ben far da spalla agli
archibugieri, quando questi, abbandonato l'archibugio, andavano all'arrembaggio armati di
spada e rotella (piccolo scudo rotondo) e in buona sostanza considerava come uniche armi
inastate utili alla guerra nautica appunto le picche e le mezze picche, armi che inoltre
avevano il vantaggio di non essere affatto pericolose per i propri commilitoni.
L'uso di qualche lunga lama da taglio si poteva comunque eccezionalmente anche
permettere a chi ne fosse particolarmente esperto e a tal proposito il Pantera ricorda uno
dei tanti episodi della battaglia di Lepanto:
... Potrà anco giovar nelle occasioni haver delli spadoni da due mani, essendo arma che,
trovandosi chi sappia bene adoperarla sopra i vascelli, potrà esser di molto giovamento
nelle battaglie per la strage che può far de gl’inimici, come fece nella battaglia de i Curzolari
(‘Lepanto’) il proveditore veneziano Antonio Canal, il qual, benché grave d'anni, calzatosi un
paio di scarpe di corda per potersi tener bene in piedi e messasi in dosso una giubba o
vesticciola corta e tutta trapuntata di cotone con un cappello simile in testa per difendersi
dalle freccie, montò animosamente su l'armata turchesca e, saltando da una galea nell'altra
con un spadone in mano, fece della persona sua meravigliose prove con notabil danno de
gl'inimici e ricuperò una galea di fanale (‘di comando’) che era già nelle lor mani. (Cit. P. 84.)
La spada di marina, che si poteva portare appesa a pendoni della cintura oppure a tracolla,
era piuttosto larga, ma non molto lunga, in quanto, come già detto, una lunga lama non si
sarebbe potuta maneggiare a bordo agevolmente; il pugnale si portava alla cintura e al lato
destro, cioè al lato opposto a quello della spada, e un tipo molto apprezzato era quello detto
bulognese, del quale non sapremmo però descrivere le caratteristiche.
Sempre per motivi di mancanza di spazio, si usavano armi difensive piccole, quali appunto i
predetti morrione e rotella e inoltre la targa o targhetta, la quale era un piccolo scudo
quadrangolare fatto, come del resto anche la rotella, di legno rivestito all'esterno di cuoio;
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questi scudi, tra i quali molto apprezzata era la rotella detta ‘barcellonese’, avevano
all'interno due o tre guigge o imbracciature verticali di cuoio, di cui l'ultimo verso destra
s’impugnava con la mano e doveva pertanto esser stato fissato vicino all'orlo dello scudo,
in modo che il soldato potesse all'occorrenza, senza doversi pertanto togliere lo scudo,
raccogliere da terra qualcosa che gli fosse caduta. Poteva andar bene anche lo scudo vero
e proprio, ma solo se piccolo, mentre non indicati erano quindi i grossi e pesanti rondacci e
brocchieri; per lo stesso motivo il soldato semplice, se a bordo della galera avesse
indossato un corsaletto o un petto a botta o addirittura un’armatura completa da cavalleria,
non avrebbe potuto in combattimento destreggiarsi, girarsi, saltare agilmente e
agevolmente nell'angusto spazio di bordo stipato d'uomini, perché ne sarebbe stato tanto
aggravato e impedito che avrebbe rischiato di perdere la vita solo per questo motivo:
... bisognando nelle mischie volar, si può dire, da un vascello nell'altro… (Ib. P. 166.)
Il vestiario dei soldati era in effetti quello nazionale civile dei loro tempi, ma per lo più con
l’aggiunta d’un solo indumento tipicamente militare, il colletto, il quale non era quella parte
della giacca o della camicia che oggi s’intende, cioè il ‘collo’ della giacca o della camicia,
ma era una larga casacca con le maniche, oppure un giubbone aderente senza maniche,
fatta di pelle conciata d’alce o di bufalo o d’altro quadrupede, la quale serviva, oltre che a
proteggere dall’intemperie, anche e soprattutto a difendere dai colpi d’arma da taglio e
talvolta poteva anche fermare un colpo d’archibugio. Il nome è sineddoche di corialetto,
quasi a dire ‘corsaletto di corio’, mentre il moderno termine ‘colletto’ lo è di ‘collaretto’. Per
quanto riguarda gli abiti che per un viaggio di mare conveniva portarsi a bordo, anche quelli
non differivano sostanzialmente dal normale vestiario civile e sappiamo per esempio quali
erano quelli che agli inizi del Seicento sulle navi spagnole delle armate e flotte dirette alle
Indie Occidentali si fornivano di conto reale ai cosiddetti fratelli dell’ospedale, ossia ai
componenti dell’ordine mendicante ospitaliero di S. Giovanni di Dio, i quali per vocazione e
in cambio di sole elemosine si imbarcavano e fornivano alla gente di mare un servizio
infermieristico gratuito, e cioè tre camicie, due paia di calzoni, due giubboni, due paia di
calze, due di scarpe, una túnica (‘sottana’), un hábito (‘mantello’), e altre che cose al
dettaglio (por menor) che fossero ritenute necessarie. Per tagli e modelli rimandiamo ale
illustrazioni del Vecellio (Degli habiti antichi et moderni etc. Venezia, 1590.)
I soldati vantaggiati, i trattenuti e i venturieri, dei quali tutti abbiamo già detto, erano liberi
d'armarsi come meglio credevano, a seconda delle loro inclinazioni, e quindi alcuni
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andavano armati d'archibugio, altri d'arme in asta, di spada e rotella, di morrione o altra
celata di lamina temprata, di corsaletto o di petto a botta; quest'ultimo, costituito da un
pettorale metallico e talvolta anche da uno schienale, si chiamava così perché la lamina di
cui il primo dei due predetti pezzi era fatto era spessa al punto di resistere anche al colpo
(botta) d'archibugio o di pistola. Non esistevano armature che fossero a prova di moschetto
e ciò non perché la metallurgia del tempo non fosse in grado di realizzarle, ma perché
sarebbero risultate così pesanti da non potersi assolutamente sopportare e questo fu uno
dei due principali motivi per cui venne introdotto il moschetto portatile, essendo l'altro la
lunga gittata che permetteva d'indebolire il fronte nemico prima dello scontro generale. Il
corsaletto era un’armatura ideata per il fante, essa era leggera e incompleta, soprattutto
perché all’ingiù proteggeva solo fino a metà coscia per permettere appunto al soldato di
marciare più agevolmente; era molto diffuso nelle fanterie europee e, dalla fine del
Cinquecento, anche nelle cavallerie, ma, mentre quello dei cavalli corazza o corazzieri era
appunto a prova d'archibugio, quello di fanteria era di metallo leggero, perché i fanti
dovevano marciare con le proprie gambe e quindi non avrebbero potuto sopportare un peso
maggiore di quello che già li gravava; esso era costituito dai seguenti pezzi e cioè morrione
o altra celata, spallacci e goletta, petto, schiena, mignoni, ossia mezzi bracciali, o a volte
bracciali interi e manopole e infine scarsellacci, ossia cosciali laminari.
Dovevano usare in mare l'armatura intera solamente gli ufficiali maggiori e generali, ossia i
comandanti:
... la vita de i quali è molto più preziosa per il beneficio che si cava dalla prudenza e dal
consiglio loro. (Ib. P. 167.)
Inoltre essi erano non solo il bersaglio più ambito dal nemico, ma anche quello più facile dal
momento che generalmente si muovevano e si riparavano di meno dei soldati semplici,
percorrendo molto spesso la corsia per animare i loro uomini alla battaglia; alla battaglia di
Lepanto, per esempio, Benedetto Soranzo, capitano della galea veneziana Cristo
Resuscitato, prima d’essere definitivamente ucciso si era preso ben tre frecce nel viso;
Aluigi Cipico da Traú, comandante della galea veneziana la Donna, anch’essa di Traú in
Dalmazia, fu ferito di ben sette gravi ferite, ma sopravvisse; bisognava però che, oltre agli
ufficiali predetti, portassero in combattimento l'armatura completa anche alcuni soldati da
impiegare nella difesa della ritirata o traversa di poppa e d’altri posti più delicati e
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importanti del vascello. L'armatura era per lo più di metallo bianco, il petto a botta di
metallo bruno e il corsaletto poteva essere fatto dell'uno o dell'altro.
Sin quasi alla metà del Cinquecento la repubblica di Venezia aveva usato armare i suoi
equipaggi di mare di corsaletti, dei quali c'era sempre copiosa scorta nelle sue galere, ma in
seguito, per suggerimento d’esperti quale per esempio Alessandro Contarini, li aveva
sostituiti con le corazze o corazzine (dal l. corium, cuoio, con l'accrescitivo italiano -azzo),
arma difensiva questa intelligente in quanto, pur proteggendo il busto del combattente, lo
aggravava poco perché di cuoio, non lo impacciava troppo perché ben assettata alla
persona né gl’impediva le funzioni corporali, come facevano invece molti corsaletti e petti a
botta che si protendevano sin sugl'inguini non permettendo così l'accosciarsi; inoltre ben
resisteva alle armi offensive che per lo più usavano in mare i turchi, cioè le frecce e le
scimitarre, e difendeva alquanto anche le cosce e gl'inguini perché dotata di faldette, ossia
d’appendici mobili anch'esse di cuoio, due per corazzina. Nel più volte da noi citato
Governo di galere, laddove l’autore raccomanda di conservarne la dotazione di bordo in un
luogo ben asciutto a evitare che l’acqua marina la guasti, quest’arma difensiva è chiamata
semplicemente cotta, in quanto appunto fatta di cuoio conciato a mezzo di bollitura (l.
corium elixum), nome italianissimo dunque quest’ultimo e da cui derivano sia l’inglese coat
che il tedesco kutte e non viceversa, come la nostra solita sciocca esterofilia etimologica
vorrebbe farci credere; bisognerebbe ricordare infatti che ancora nel Cinquecento, quando
cioè le case, i castelli e gli eserciti italiani erano ricchi di oggetti raffinati e Milano era già - e
da tempo - capitale della moda europea, gli inglesi ancora mangiavano con le nude mani e
le donne francesi, anche le cortigiane, ancora s’ungevano i capelli con grasso d’animali;
basta leggere a tal proposito le interessantissime relazioni degli ambasciatori veneziani del
tempo. La cotta, come si sa, era in effetti una protezione molto usata già nell'antichità,
molto più comoda e maneggevole del corsaletto, specie quando capitava di dover
mantenere le armi in coperta per alcuni giorni, essendo allora molto più semplice a ogni
soldato o marinaio il conservarla, il maneggiarla e il vestirsene; era inoltre anche molto
meno pericolosa del corsaletto in quanto, trovandocisi a combattere contro un nemico che
abbondasse d'arcieri come erano i turchi, le frecce nemiche, rimbalzando appunto contro i
duri e lisci corsaletti, e andavano a ferire con forza quelli che il corsaletto o la corazzina non
avevano; a volte una sola freccia così rimbalzata riusciva a ferire anche due o tre uomini, di
modo che in pochissimo tempo più o meno tutti gli uomini di bordo privi d'armamento
difensivo ne rimanevano feriti. Era quindi preferibile un effetto deviante a uno rimbalzante e,
proprio per esaltare il primo, il corsaletto era ormai fatto con una tipica e prominente forma
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rotonda in corrispondenza del ventre del soldato, garbo portato molto accentuato specie
dai tedeschi, tant’è vero che il suo nome volgare in tedesco (panzer) deriva dallo stesso
etimo latino (pantex-icis) da cui viene il proto-italiano panza (‘pancia’); i fanti che lo
portavano sembravano dunque uomini molto panciuti e per tal motivo gli spagnoli
chiamavano i picchieri che combattevano privi di corsaletto picas secas (‘picchieri magri’).
Si sarebbe certo potuto ovviare ulteriormente ai predetti inconvenienti rivestendo i
corsaletti di pelli di lupo o d'orso, ma non lo si faceva perché in fondo allora non si era
ancora abbastanza sensibili alle esigenze della prevenzione. Infine il soldato stordito o
ferito, una volta caduto, molto difficilmente riusciva a rialzarsi se era inviluppato nel
corsaletto e, se poi cadeva a mare, specie con un corsaletto a botta d’archibugio, ossia
molto pesante, sicuramente finiva con l'affogarsi, mentre con la corazza poteva ancora
muovere il corpo e soprattutto le braccia in maniera da mantenersi a galla. Per tutti questi
ottimi motivi le corazzine delle galee veneziane furono poi adottate anche da quelle
ponentine e infatti, per esempio, nel 1575 ogni galera napoletana ne risultava fornita di 24
con 48 faldette; ma il loro uso non divenne mai tanto diffuso come tra gli equipaggi
veneziani, perché in combattimento sulle galere della Serenissima le si facevano indossare
non solo a soldati e marinai, bensì anche alle ciurme, le quali, come sappiamo, erano colà
composte in massima parte da buonevoglie, vale a dire da uomini che, liberati dalla catena,
all'occorrenza potevano anche combattere.
La corazzina marittima era un’arma difensiva che era stata già adoperata anche nel Basso
Medioevo, come si legge nel da noi più volte citato trattato attribuito all’imperatore
bizantino Leone VI, solo che allora s’era portata soprattutto dagli arcieri, ed era fatta in quei
tempi o di cuoio, da cui il nome, o di nervi di bue intrecciati e imbottiti di doppio feltro; era
stata in seguito dotata sia d’una grande falda di maglia di ferro, la quale però all’inizio del
Cinquecento, per imitare gli spagnoli che non la portavano, fu abbandonata, sia da maniche
anch’esse di maglia, accessorio questo che perse però più tardi; in effetti con l'introduzione
del moschetto portatile l'uso di queste protezioni fu abbandonato sia in terra che in mare,
perché la violenza e la forza di penetrazione della palla di moschetto era tale che la maglia
metallica non solo non la fermava, ma anzi ne restava frantumata, procurando così a chi la
indossava ferite più gravi a causa dei frammenti di maglia che si andavano a cacciare
anch'essi nelle carni assieme al proiettile.
La corazzina, oltre a essere dunque arma ben distinta dal corsaletto di ferro militare,
nemmeno era da confondersi con il corsaletto civile, ossia con il corpetto di cuoio alla
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spagnola che porteranno appunto i civili sin dall’inizio del Cinquecento e al quale
dovremmo avere già accennato.
I soldati di terra ordinariamente, in aggiunta al pane e al vino che ricevevano in razioni di
munizione, dovevano comprarsi gli altri viveri dalle loro paghe e spesso univano i loro averi
per costituirsi delle scorte alimentari, come si legge nel trattato del da Canal a proposito dei
presidi militari veneziani:
... I soldati vivono a modo loro perciò che a quelli non si da se non il pane e la bevanda; il
rimanente del vivere sono tenuti a comprarsi eglino delle loro paghe, le quali sono due
ducati d'oro il mese per ciascuno d'essi, onde costumano di procurarne in comune tre o
quattro insieme comprando per uno e tal hora per due mesi quello che fa loro di bisogno.
(C. da Canal. Cit. P. 164.)
Ma i fanti di marina della Serenissima erano trattati, sempre ai tempi del succitato da Canal,
in modo differente:
… Ai balestrieri o soldati (di galea) che dir si vogliano gli usiamo dare il cibo diversamente,
perciò che la domenica e gli altri giorni ordinarii si dà loro carne e il venerdì e il sabato
alcune poche sarde e appresso per l'ordinario vino, cioè bevanda, pane e minestra. Il che,
come sapete, facciamo perché ai nostri soldati di galea non usiamo di dar paga maggiore
d'un ducato e mezzo il mese - che sono nove lire - per ciascuno, onde poi di più, essendo la
paga piccola, vi aggiungemo codeste spese [...]
Quanto al vivere de' soldati piacemi sopra modo l'hordine che noi habbiamo assai più di
quello delle altre armate, perciò che essi tutti insieme e ad un medesimo tempo mangiano,
onde non hanno cagione di impedir la galea come l'impedirebbono col starsi tutto il giorno
hor questo hor quello con diverse sorte di massarizie d'intorno al focolare e mangiando uno
quando voglia gli viene e l'altro quando può. Oltre che, giocando molte volte i denari delle
loro paghe gli perdono agevolmente in un giorno e poi manca loro il modo di potersi
sovvenire insino al tempo delle altre paghe. Per le ciurme della mia (ideale) galea nel vivere
seguirassi il costume delle altre galee e per li soldati quello delle nostre. (Ib. Pp. 165-166)
Bisogna subito chiarire che il da Canal chiama ancora balestrieri i soldati di galera perché ai
suoi tempi in marina la balestra, anche se affiancata dallo schioppetto, ancora s’usava e
s’userà sino a quando non sarà definitivamente soppiantata dall’archibugio a serpentino.
Per esempio, tra le armi per armare i vascelli dell’armata che Hernán Cortés stava
preparando per una spedizìone di conquista alla Especería, cioè alle isole Molucche, la
quale poi avverrà nel 1529, troveremo, oltre a 23 scoppietti, 50 balestre, 500 rotoli di corda
da balestra e 164 dozzine di saette passatori impiumati a scopo direzionale e provvisti di
apice per ferire (Colección de documentos inéditos etc. T. II Cit. P. 405-406). Questo perché
in marina c’erano sempre state forti remore a sostituire del tutto le balestre con gli
schioppetti per via del fondato timore che tante corde-micce accese aumentassero di molto
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il rischio d’incendi a bordo; ma, una volta inventato il sistema d’accensione a serpentino,
invenzione che, come chiaramente dimostrano i documenti d’archivio senesi pubblicati
nell’Ottocento dall’Angelucci, avvenne a Lucca, il maneggio dei micci accesi divenne più
ordinato e controllabile e quindi la balestra fu del tutto abbandonata anche nella guerra
nautica. Infatti a quel tempo anche l’esercito spagnolo che nel 1543 il già nominato conte di
Alcaudete porterà in Barbaria, includendo anche le guarnizioni di marina, presenterà ancora
tre specialità di fanteria e cioè picchieri, archibugieri e appunto balestrieri.
A proposito poi del gioco bisogna dire che, mentre nel servizio di terra il gioco dei dadi e
delle carte era ammesso solamente nei corpi di guardia, perché esso era molto utile per
mantenere svegli i soldati di guardia la notte, nel servizio di galera il gioco era tollerato
anche di giorno per ovviare all'ozio imposto alle soldatesche dalla ristrettezza dello spazio
disponibile, ristrettezza che non permetteva ai militari qualsivoglia attività o esercizio
d'addestramento; doveva però il capitano della guarnigione militare - o in sua assenza
quello della galera - fare attenzione che i soldati giocando non bestemmiassero, non si
giocassero i vestiti, le armi, né danari sulla parola e infine che non nascessero tra di loro
ingiurie e risse. L’ordinanza catalana del 1354 proibiva il gioco solo se esercitato sotto
coperta, in quanto, essendo un passatempo che poteva provocare disservizi e disordini,
andava praticato alla luce del sole (Cit. Pp. 93-94).
A ogni battagliola si ponevano ordinariamente due soldati, ma a volte anche tre se le
circostanze lo richiedevano, e si badava a mescolare sapientemente i veterani alle reclute,
in modo che i primi fossero d'esempio e d'incoraggiamento ai secondi. Il posto d'ogni
soldato era assegnato dagli ufficiali della guarnizione militare, ma, in caso di fortunale o di
caccia (‘inseguimento’) a un vascello nemico o ancora che si fosse oggetto di caccia,
bisognava che i soldati si disponessero a bordo come avrebbero comandato gli ufficiali di
mare.
Se una squadra o un’armata non disponeva di soldati sufficienti a guarnire tutti i vascelli,
allora era conveniente sguarnire d'uomini i vascelletti minori o d'appoggio per rinforzarne
invece le galere e le galeotte, come per esempio fece il capitano generale del mare Müezzin-
zâde Alì Pasha, comandante dell'armata turca a quella tanto provvidenziale battaglia che fu
Lepanto, e ciò sebbene egli avesse sulle sue galere ben 14mila reclute, tra giannizzeri e
spaì fatti venire dalla Morea, e gli avesse mescolati appunto ai soldati più anziani; questo
disarmare d'uomini dei vascelli per armarne meglio degli altri si diceva far barca armata:
… Perché preferirei avere meno galee ma ben armate e con buona gente, piuttosto che di
più che però non lo fossero. E’ infatti la stessa gente, collocata in poco naviglio, più forte
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tanto a difendere quanto ad offendere che essendo dispersa in un maggior numero (Marino
Sanuto il Vecchio, Liber secretorum fidelium Crucis etc. Cit. P. 46).
Nella sua Chronica catalana il d’Esclot narra che così fece Filippo III di Francia nel 1285:
… Quando il re di Francia venen a sapere che il re d’Aragona aveva solo quelle dieci galere
e nessun’altra, fece disarmare tutta la sua armata eccetto venticinque galere che armò di
uomini scelti e destri di tutte le altre; e le apparecchiò così tanto che recavano l’allestimento
di quaranta… (Cit.)
In occasione di battaglia reale, ossia di scontro generale tra due armate avversarie, a bordo
d’una galeazza si potevano sistemare fino a 500 moschettieri e diciamo solo moschettieri in
quanto la galeazza con le sue grosse artiglierie colpiva generalmente da lontano; in un
galeone da 2mila salme di carico si potevano invece disporre ai posti combattimento un 150
soldati, in uno da 4mila una compagnia intera e nei più grossi 400 e più fanti.
Bisognava inoltre in battaglia tener nel vascello soldati di riserva da utilizzare per tentare di
ributtare indietro il nemico che fosse venuto all'arrembaggio e si ricordava a tal proposito
uno dei principali episodi della battaglia di Lepanto o dei Curzolari, come allora si diceva,
mentre i turchi la dicevano di Incirli Liman; i turchi della galera Reale ottomana
abbordarono la Reale cristiana di Giovanni d'Austria e furono vigorosamente contrastati da
una compagnia di fanteria spagnola del terzo di Sardegna che il loro comandante, il mastro
di campo Lopez de Figueroa, aveva fatto nascondere sotto i banchi dei remieri; questi
soldati, balzati in piedi all'improvviso, sorpresero il nemico talmente bene da ributtarlo sulla
sua galera, da farlo indietreggiare sino alla poppa di quella, facendone strage, uccidendo lo
stesso suddetto capitano generale nemico, impadronendosi quindi della galera di comando
nemica e aprendo così la strada a quella tanto memorabile vittoria; secondo la già citata
relazione francese del 1571, la quale risulta necessariamente molto imprecisa data la
freschezza dell’evento, ad Alì Pasha (da non confondersi con il già ricordato kapudan pasha
Alì Mazzamamma morto nel 1661) fu tagliata la testa e lo stesso capitano generale Juan de
Austria la ostentava ad amici e nemici comme un trophée, tenendola infilzata sulla punta
d’una lunga picca, barbaro uso di guerra di quei tempi ancora tanto feroci.
Così come in occasione di battaglia più armati c'erano a bordo e meglio era, così anche nel
caso di semplice trasporto di soldatesche da un porto all'altro, anche se era norma
imbarcarne non più di 150 per galera, in realtà, come afferma il Pantera, più ne riuscivano a
entrare nella galera più conveniente era e ciò nell'ottica tipica del tempo, la quale non
riconosceva agli esseri umani né il diritto all'igiene né un dignitoso spazio vitale. L'uso di
stipare tanti uomini in così poco spazio fece sì che la guerra di mare nel Mediterraneo della
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seconda metà del Cinquecento fosse una delle più atroci e sanguinose che la storia ricordi;
ciò perché all'uso ormai sistematico delle armi da fuoco e dei fuochi artificiati bellici si
accoppiava tragicamente quello di combattere ancora quasi totalmente dalle anguste
galere; immaginate infatti un sottile e instabile piccolo legno, basso di bordo e scarso di
vele, lungo non più d’un moderno yacht da diporto, sul quale si stipavano, come abbiamo
anche visto a proposito delle galee alto-medievali, circa 400 persone, di cui una metà
incatenata allo stesso ponte del vascelletto, straziate dalla mitraglia, fatte a pezzi dalle
cannonate, soprattutto trafitte dalle frecce a dalle pallottole, fratturate dalle pietrate,
bruciate vive dai predetti fuochi artificiati e dagl'incendi, infine ingoiate dai flutti
insanguinati del mare e avrete solo una pallida idea degli orrori in cui si consumavano
quelle atroci battaglie. Certo tutto è nulla a confronto di quanto avverrà tanto più tardi a
Dresda, Hiroshima, Nagasaki ecc.
La guarnizione militare ordinaria - non di battaglia - delle galee turche è così sinteticamente
descritta, dopo l'artiglieria, dal bailo veneziano Domenico Trevisano nel 1554:
... Si danno anche venticinque archibusetti per cadauna galea e due casse di freccie e sono
mandati venticinque a trenta giannizzeri con il loro capo, li quali, come buoni soldati, sono
per combattere in tempo di bisogno; ma alle volte, siccome è occorso l'anno presente, il
Capitano dell'armata, non avendo potuto aver giannizzeri, ha ordine di levare dalle marine
quel numero di soldati che gli paresse. (E. Albéri. Cit. S. III, v. I, p. 140.)
Qualcosa di più scriverà a tal proposito il bailo Costantino Garzoni nel 1573:
... Dovendosi mandare giannizzeri sopra le galee, si dispensano a cinquanta per una sinché
ve ne sono e al resto si danno gli 'spaì' delle marine, che sono le più triste genti di Turchia.
Si dispensano anche sopra ogni galea venti 'azap', quali attendono al servizio delle galee
secondo li bisogni; sono questi 'azap' al numero di tremila, pagati con aspri quattro il
giorno per uno, e servono nell'arsenale e in ogni altro luogo per servizio dell'armata. (Ib. S.
III, v. I, p. 425.)
Sappiamo che i giannizzeri erano l'unica vera fanteria dell'impero ottomano e inoltre
costituivano il nerbo della guardia imperiale, che gli spaì erano la cavalleria leggera che
formava la gran massa dell'esercito, salvo a servire quando necessario in galera e quindi
ovviamente appiedati; degli azap abbiamo già detto, trattandosi di marinaresca combattente
armata, come del resto i detti spaì, per lo più d'arco, arma, come abbiamo pure già spiegato,
molto efficace negli scontri tra galere e quindi molto temuta dai cristiani. Nella sua relazione
del 1576 il bailo Marc'Antonio Tiepolo accenna al ruolo ibrido di marinai-soldati che
occupavano questi azap sulle galere ottomane:
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... perché siano atte al combattere l'ordinario è di mettervi sopra cinquanta giannizzeri per
ciascuna galea, se tanti ne vogliono levare dalle città; che, se non vogliono, si mettono per
supplimento gli 'spaì' delle marine, che sono li peggiori nella milizia degli altri, e basta loro
la paga ordinaria con la quale sono necessitati a servire senza altro augumento. Si mettono
appresso a questi altri venti uomini ancora, che si dicono 'asapi', con paga di sino cinque
aspri il giorno, li quali servono in luogo di marinari perché attendono principalmente al
servizio della galea. Erano gli giannizzeri usati ad aver per arma in galea la scimitarra ed
(anch'essi) la freccia, ma ora, per l'esempio e per l'esperienza già fatta (a Lepanto), avranno
non freccia, ma archibugio, de' quali se ne fabbricano ogni giorno numero grande. (Ib. S. III,
v. II, p. 149.)
Già nella già citata relazione veneziana anonima sulle milizie turche del precedente 1575
l'armamento dei giannizzeri includeva l'archibugio:
... Le loro armi sono l'archibuso e la scimitarra, né hanno alcun’arme di difesa... (Ib. S. III, v.
II, p. 313.)
Il bailo Lorenzo Bernardo dirà, sempre a proposito delle armi di questi giannizzeri, qualche
parola di più nel 1592:
... Vanno a piedi, servendosi di una grossa scuffia di feltro che ordinariamente portano in
testa per celata; hanno la loro vesta lunga, ma tirata suso alla cintura, e le loro proprie armi
sono l'archibuso, la scimitarra e alcuni il manarino. (Ib. S. III, v. II, p. 331.)
La scimitarra si chiamava in turco yatagan e in sp. escarcina, mentre per manarino (forse
dal l. manuarius) s’intendeva una piccola accetta, come confermava negli stessi anni il
Vecellio:
I giannizzeri sono per lo più cristiani i quali, da fanciulli presi da’ turchi, sono allevati e con
carezze sforzati ad osservar la legge maomettana. La maggior parte di questi portano la
scimitarra e un pugnale e una picciola accetta, che loro pende alla cintura; e usano ancora
alcuni archibugi lunghetti e questi adoperano molto bene. Gli altri poi usano mezze picche
e, per potere dipoi comparire più crudeli, si fanno crescere i mostacci sopra le labra,
radendosi tutto il resto della barba. Sono vestiti due volte l’anno di panno turchino e
portano in capo, per privilegio, in vece di celata un caparoce (sic) di feltro bianco, da essi
chiamato zarcola, ornato in fronte di una ghirlanda d’oro filato con un fodero d’argento
dorato, montando in fronte verso la sommità, ricco di rubini, turchine e d’altre pietre fine di
molto prezzo; nella cima del quale tutti quelli c’hanno fatto qualche segnalata impresa
portano un gran pennacchione. (Cit. P. 313v.)
Secondo il de Haedo l’accetta era sì portata dai giannizzeri, ma solo dai cucinieri, e
l’archibugio lo portavano sempre in spalla. Una descrizione di questi giannizzeri, veri e
propri pretoriani dell’impero turco, si trova anche nella lettera da Aleppo del francese
Jacques Gassot, il quale nel 1548 soggiornò alcuni mesi in Medio Oriente e tra l’altro,
640
Per quanto riguarda invece l'uso degli spaì come guarnizioni militari di galera, già scriveva
il bailo Antonio Erizzo nel 1557:
... Di questi (spahì) che sono descritti (‘arruolati’) a cavallo si serve il Signor (‘il sultano’)
nelli suoi eserciti terrestri e se ne serve esso ancora senza li cavalli per scapoli sopra le sue
armate... (E. Albéri. Cit. S. III, v. III, p. 128.)
641
L'Erizzo sembra usare qui il termine scapoli nel senso di soldati di galera e non di ghemigì
(‘marinai’). L'armamento degli spaì è anche descritto dal già citato anonimo diplomatico
veneziano nel 1575:
... L'armi di tutti li sopra detti soldati (gli spaì) sono una lancia non molto grande, la
scimitarra, lo scudo, l'arco e le freccie e non portano altre arme di difesa che la celata. (Ib.
S. III, v. II, p. 312.)
Ovviamente per servire in galera gli spaì abbandonavano, oltre al cavallo, anche la lancia, la
quale è appunto arma di cavalleria, anche se quella di questi soldati era quella piccola da
cavalleggeri e non il lancione greve e ingombrante degli uomini d'arme o cavalleria pesante.
Per quanto riguarda lo scudo, se si trattava d’arma collegata all'uso della lancia,
evidentemente gli spaì abbandonavano anche quello; se poi era abbastanza piccolo da
poter esser anche accoppiato alla scimitarra, allora è probabile che lo portassero anche in
galera.
Il bailo Lorenzo Bernardo (1592) dà agli spaì un armamento che ricalca il precedente:
... Ha lo 'spaì' per sue armi famigliari la lancia, l'arco e la scimitarra e alcuni anco la mazza
ferrata o manarino. (Ib. S. III, v. II, p. 330.)
Dell'abbondanza d’armati ai sui tempi a disposizione delle galere turche così leggeva al suo
senato il già citato segretario veneziano Marc'Antonio Donini nel 1562:
... Di scapoli o provisionati, che i turchi chiamano 'asapi', non dirò altro a Vostra Serenità se
non che quanti ne vogliono tanti ne possono ritrovare per essa armata, sopra la quale,
quando fa bisogno, sono anche posti molti delli spaì e delli giannizzeri, 'sì che secondo le
occasioni partono le galee da Costantinopoli armate di modo che poco si curano
dell'inimico loro. (Ib. S. III, v. III, p. 193.)
La predetta grande disponibilità d'armati sarà confermata dal bailo Jacopo Ragazzoni nel
1571, anno della grande battaglia di Lepanto:
... Di uomini da spada ben risoluti sono le galee turchesche assai bene per l'ordinario
fornite. (Ib. S. III, v. II, p. 101.)
Su d’essa pure si soffermerà molto più tardi, e cioè nel 1590, il bailo Giovanni Moro:
... Per uomini da spada servono indifferentemente i giannizzeri e altri che sono trattenuti dal
re sino al numero di cinquanta almeno per galea e, quando vogliono far sforzo maggiore per
qualche importante bisogno, arrivano a ottanta ad anche a cento e tutti sono obligati andar
col loro ordinario trattenimento senza alcuna cosa d'avvantaggio. (Ib. S. III, v. III, p. 354.)
642
Come tanto tempo prima l'Erizzo anche il bailo Matteo Zanne sembrerà usare nel 1594 il
termine scap(p)oli a significare più soldati che marinaresca:
... Non usano (d'inverno) in galea scapoli se non sono per custodire gli schiavi e in tempo di
estate suppliscono molti 'spaì' dei 'timari' (‘feudi’) da marina destinati all'armata, quando la
fazione personale non sia convertita in danari, come avviene spesso, e dimandano questa
gravezza 'bidel' e in vece loro servono i giannizzeri della Porta, de' quali n’assegnano sino a
cento per galea, né gli danno soldo proprio per questo né manco panatica né altra
commodità, ma gli 'spaì' servono per l'obligo del 'timaro' e li giannizzeri per la paga
ordinaria della Porta, onde avviene che le galee turchesche, dove arrivano, trattano
indifferentemente qual si voglia luogo per nemico, essendo che smontano li soldati e si
provvedono dei viveri dove li trovano; lo che è di gran risparmio al Principe, ma di maggior
detrimento ai popoli dove arriva l'armata e il capitano Cicala nel suo ultimo viaggio ha avuto
in due volte ottocento zecchini dall'isola di Scio per non si trattenere ivi con danno
degl’isolani, né era con più conserva di 14 o 15 galee; il che è stato con disgrazia de'
soldati, privandoli di quella commodità alla quale sono già avvezzi. (Ib. S. III, v. III, p. 404.)
Sempre in tema di galee turche è importante ricordare che, dopo la tremenda rotta subita a
Lepanto nel 1571, gli ottomani ne restarono così impressionati e convinti di una loro
inferiorità bellica sul mare che addirittura cercarono di passare dal loro tradizionale ed
efficacissimo uso dell'arco a quello dell'archibugio, arma che non era stata a loro mai molto
congeniale e infatti sino allora riservata quasi esclusivamente alla fanteria dei giannizzeri, i
quali, come si sa, non erano turchi bensì figli di cristiani. Di questa tentata conversione ci
ha lasciato relazione il bailo Costantino Garzoni nella sua già citata relazione del 1573:
... Di archibugi non ne hanno mancamento, avendo nella Valacchia e Moldavia assai miniere
di ferro, con che possono farne tanta quantità di quanta hanno bisogno, e in sei mesi che io
sono stato in Costantinopoli ne hanno fatti più di sessantamila lunghi e di gran palla come li
barbareschi, cosa veramente tremenda; ed hanno dato principio a farne in tanta quantità
dopo la rotta dell'armata che è uno stupore, essendo ben chiari del servigio degli archi e
delle freccie. Vi sono però pochi che siano atti in adoperare tali archibugi, poiché per il
passato sempre si sono esercitati negli archi; ma con il tempo e l'esercizio si faranno
medesimamente pratici di tali istrumenti 'sì come anco si fanno valenti nell'adoperare le
artiglierie. Di polvere ne hanno infinità in Barberia... (Ib. S. III, v. I, pp. 421-422.)
... Questi soldati marittimi si addestrano più all'archibuso che non solevano e il Capitan
Bassà (il Cicala) vorrebbe migliorare le galee di artiglieria, ma spero a beneficio de'
christiani che la provisione passerà senza effetto, perché fra i turchi le novità non hanno
facilmente luogo. (Ib. S. III, v. III, p. 404.)
643
... Non usano turchi nelle loro galee portare arme di asta né arme per li galeotti, onde sia
certa la Serenità Vostra che, dalle galee in poi che di Barbaria vengono appostamente
benissimo armate per entrare in Golfo (cioè ‘nel Mar Adriatico’) le altre delle guardie
(dell'Arcipelago) sono malissimo all'ordine, non pensando ad altro li 'rais' che a rubare
(‘derubare’) li poveri galeotti e il Gran Signore per tutte quelle vie che si possono
immaginare. (Ib. S. III, v. II, p. 344.)
Lo stesso Bernardo evidenziava poi la sostanziale superiorità bellica delle galee cristiane
su quelle maomettane, barbaresche escluse, superiorità di cui però sia i turchi sia i cristiani
avevano preso coscienza solo dopo la gran prova di Lepanto, battaglia di cui oggi, come
abbiamo già detto, cerca costantemente di sminuire l'importanza lo smisurato masochismo
esterofilo della cultura italiana, nato questo da una inconscia consapevolezza d’una
inferiorità bellica, così come a quella d’una superiorità militare si deve all’opposto il grande
orgoglio nazionalistico di alcune nazioni:
... E, se vorremo discorrer con fondamento l'avantaggio che hanno le nostre galee sulle
loro, senza dubbio le galee christiane potranno combattere con le turchesche quando ben
fossero quelle un terzo più, perché prima sono superiori d'artiglieria e poi per la qualità de'
galeotti, perché li nostri sogliono combattere e li loro gli sono la più parte nemici e contrari
di religione, onde alli loro schiavi e galeotti christiani convengono metter le manette e noi
alli nostri mettiamo le arme in mano e combattono contra di quelli come gli altri (scapoli) e
forse più valorosamente per esser tutti sicarij (‘assassini prezzolati’) e gente di mal affare, li
quali sperano con la vittoria (di aver in premio) la libertà; e, se sono uomini del paese
(buonevoglie), combattono per la vita e per la religione, di modo che l'avantaggio nostro è
grandissimo, e la vittoria segnalatissima che abbiamo avuto (a Lepanto) lo ha fatto
conoscere con gran vituperio della Casa Ottomana. Onde non è dubbio alcuno che le nostre
galee saranno sempre a egual partito (‘numero’) - e anco con qualche avantaggio (dei
turchi) - a quelle superiori, tanto più ora che l'ardire è dal canto nostro per la prova fatta e,
dal canto loro, per la esperienza avuta convien esser il timore. (Ib. S. III, v. II, pp. 344-345.)
Per quanto riguarda il valore in guerra delle soldatesche ottomane, eccezion fatta per i
giannizzeri e per qualche corpo di cavalleria della guardia del sultano, non sembra che, allo
stesso modo degli antichi galli che si opponevano Cesare, fossero in grado di reggere
l’avversa fortuna; almeno il Contarini nella sua Historia della guerra di Cipro così ne
scriveva:
644
… Questa fu antica disciplina che già è penetrata in costume e natura de’ turchi, di adoperar
nel primo empito e assalto ogni ferità e gagliardia, ma, trovando incontro valoroso e forte,
di avilirsi e mettersi in fuga… (Cit. P. 52.)
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Capitolo XI.
LA GENTE DI PASSAGGIO.
Allora per gente di passaggio non si intendeva, come potremmo pensare oggi, di persone
dal breve intrattenimento in un luogo, come si potrebbe dire per esempio dei clienti di un
albergo, ma si voleva significare passeggieri, cioè persone che, pagandolo o non
pagandolo, approfittavano di un passaggio marittimo da un porto a un altro, da una terra a
un’altra. I greci chiamavano περίνεωες (‘soprannavali’) tutti coloro che navigavano da
soprannumerari, cioè senza avere a bordo un impiego marittimo, e quindi si trattava dei
passeggeri e qualche eventuale servo o schiavo che a taluno di loro, in quanto personaggio
di qualità, fosse stato concesso di portare con sé in viaggio; ma anche eventuali marinai
che fossero stati aggiunti all’ordinaria dotazione di uomini che quel vascello fosse tenuto
ad avere e questi si dicevano gli ἐπίναϰτοι. La scarsissima sicurezza della navigazione di
quei tempi rendeva i viaggi marittimi molto temuti da chi marinaio non era e quindi erano
intrapresi solo per necessità; lo dimostra per esempio un noto proverbio del Cinquecento
che diceva: A torto si lamenta del mare chi due volte ci vuol tornare. Tale era poi la durezza
della vita di galera che persino quella dei passeggeri paganti - e in minor misura anche
quella dei potenti non paganti - era sopportabile solo per brevissimo tempo; essi
approfittavano dei veloci tragitti di quei vascelli per i loro viaggi d'affari o professionali e
non raramente potevano anche superare la trentina per galera. Poteva trattarsi dunque di
gente ricca e potente, come re, viceré, governatori, ambasciatori, titolati, feudatari, nunzi
pontifici e alti prelati in genere, funzionari in missione, mercanti, ma anche di persone
modeste quali venturieri, pellegrini, sacerdoti, monaci, militari ecc. Essi vedevano per lo più
le cose di bordo con l'occhio del civile, cioè della persona più attenta e sensibile ai grandi
disagi della vita di galera, disagi a cui i duri e fieri militari molto poco accennavano nelle
loro memorie e nei loro racconti, non ritenendo dignitoso ammettere le miserie e le
meschinità della loro vita, e che i marinai invece consideravano roba d’ordinaria
amministrazione.
Di questa esperienza da passeggero scriveva in dettaglio verso la metà del Cinquecento un
vescovo spagnolo, Antonio de Guevara, il quale anche compose dei brevi trattati di
cortesia, tra cui un Cortegiano di poco posteriore a quello del Castiglione. Costui doveva
esser stato, agl’inizi della sua carriera ecclesiastica, cappellano di galera, non solo perché
partecipò all'impresa di Tunisi sotto Carlo V, ma anche perché scriveva egli stesso d'essere
646
molto esperto di quella vita marinara per non esserci quasi porto, cala o golfo del
Mediterraneo nel quale egli non fosse stato e non avesse corso qualche pericolo.
La vida de galera dela Dios (solo) a quien la quiera. Questo proverbio spagnolo, già antico
nel Cinquecento, tanto usato dalla gente comune e da chi a quella vita era riuscito a
sottrarsi, è il leitmotiv dell'operetta del de Guevara dedicata appunto alla sua esperienza
delle galere e ci fa capire quanto essa fosse effettivamente temuta e deprecata, tanto che il
predetto autore arriva persino a svilire il ruolo delle galere:
... Parlando con verità e anche con libertà, la navigazione della galera è solo sicura quando
costeggia, ma quando s’ingolfa (‘prende il largo’) è molto pericolosa; dal che si può molto
bene dedurre che inventarono le galere più per rubare che non per navigare [...] Se io non
m'inganno, il fine per il quale si fa una galera è per difendere la propria terra ed offendere
quella straniera e, poiché la galera è tanto fastidiosa e tanto costosa, non penso che
nessuno investirebbe in quella le sue proprie sostanze se non pensasse di sostentarla con
roba altrui... (A. de Guevara. Cit.)
Come si doveva preparare una persona che stesse per avere un passaggio di galera e che
cosa si doveva portare in viaggio? Innanzi tutto era bene che si confessasse e comunicasse
da buon cristiano:
... perché tanto in ventura porta il navigante la vita quanto colui che entra in una preordinata
battaglia. (Ib.)
Per lo stesso motivo gli conveniva far testamento, saldare i suoi debiti, dichiarare i suoi
crediti, riconciliarsi con i suoi nemici, mantenere le sue promesse e insomma liberarsi da
ogni scrupolo di coscienza. Allo stesso comportamento aveva già invitato il pellegrino di
galera Santo Brasca nel 1480:
… Similiter ch’el se dispona remettere le iniurie, restituire lo altrui, vivere secundo lege
(om)… ch’el metta ordine a li facti suoi e facia testamento adciò che, quando Dio facesse
altro di lui, li eredi suoi non rimanghano imbratati… (A. L.. Momigliano Lepschy. Cit.)
Doveva poi scegliere un vascello dallo scafo nuovo e dalla ciurma vecchia e già abituata al
remare e ciò per amor di prudenza; doveva far tutto il possibile perché si trattasse d’una
galera rinomata e fortunata, dove non fosse mai avvenuta alcuna notabile disgrazia, perché:
... non mi sembra sano consiglio che qualcuno si arrischi ad azzardare e avventurare la sua
vita dove sa che colà altri perse la vita e l'onore. (A. de Guevara. Cit.)
Ma questa era impresa non facile poiché, dice sempre il de Guevara, non c'era galera, per
Capitana o Patrona che anche fosse, tanto rifinita e fornita che non avesse qualche
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rimarchevole difetto; cioè a una mancava parte dell'alberatura, un’altra era vecchia e lenta,
un’altra non era veliera o non era sottile, ossia non aveva buone qualità nautiche, un’altra
non era ben armata, un’altra ancora faceva molt'acqua o addirittura presentava vistose
aperture nello scafo, un’altra infine aveva patito continue disgrazie e quindi era da
guardarsi con diffidenza. Chi voleva fare il pellegrinaggio in Terrasanta non aveva invece
problemi di scelta perché la traversata migliore si faceva partendo da Venezia con le galee
che quella repubblica ogni anno metteva a disposizione dei pellegrini; tale era infatti il
consiglio che Santo Brasca dava al fedele che volesse fare questo viaggio:
… Puoi vada a Venezia perché là è el più commodo passagio che in (altra) cità del mondo
ed egli(no hanno)) ogni anno una galeazza deputata solamente a questo servizio; e, se ben
trovasse meglior mercato a entrare su nave, che per niente non habandona (‘abbandoni’) la
galeazza, puoi ch’el procura far l’accordio col patrono, el quale è solito prendere da 50 in 60
ducati e, sopra questo, lui è obligato dare el nolo… (A. L. Momigliano Lepschy. Cit.)
C’è subito da osservare che i consigli lasciati dal Brasca a chi volesse fare, come aveva
fatto lui, il pellegrinaggio in Terra Santa, furono sì poi, come si sa, copiati da altri
viaggiatori, ma lo stesso Brasca li aveva copiati da qualcun’altro che lo aveva preceduto e
lo aveva addirittura fatto prima di partire; lo dimostra la semplice incongruenza del dire a
disposizione dei pellegrini a Venezia una galeazza, mentre ai suoi tempi non era più così,
perché il senato veneziano aveva da tempo sostituito l’annuale galea grossa, certo più utile
agli incrementati traffici mercantili del Rinascimento, con due annuali galee sottili, a volte
addirittura biremi, adattate al trasporto dei pellegrini; infatti egli stesso descriverà nel suo
diario poi il viaggio come fatto nella galea sottile triremi di Agustino Contarini, la stessa
cioè su cui viaggiava il monaco tedesco Felix Faber.
Il passaggio di galea, pur costando al pellegrino sensibilmente di più di quello in una
semplice nave oneraria, rendeva il viaggio più mirato e quindi più breve, anche perché un
po’ meno soggetto alle soste da bonaccia; era poi, aldilà dei grandissimi disagi, un viaggio
piacevole e interessante, perché si navigava cabotando e quindi permetteva al pellegrino di
vedere e visitare tanti porti e tante belle città del Mediterraneo e inoltre di poter spesso
acquistare cibo fresco a terra (Nota 319 al Viaggio in Terra Santa di Santo Brasca).
Prima del giorno d'imbarco il passeggero doveva andare a far visita al capitano della galera
per dirgli le migliori parole di convenienza e per fargli anche qualche cortesia, come per
esempio invitarlo a convito, accompagnarlo a terra oppure inviargli qualche rinfresco in
galera, intendendosi per tale il pane fresco (l. summanalia, ‘pagnotte rotonde’), la carne
fresca, verdura, frutta, dolciumi, sorbetti; si trattava infatti per lo più d’ufficiali che tenevano
molto all'ossequio altrui, anche se vano e lecchino:
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... perché i capitani di galera, come bramano il vento, vanno con il vento, navigano con il
vento, vivono con il vento, anche se gli attacca qualcosa del vento... (A. de Guevara. Cit.)
Alcuni giorni prima d'imbarcarsi il passeggero faceva anche bene a purgarsi, usando uno
qualsiasi dei preparati che allora a tal fine si usavano e cioè miele rosato, rosa
alessandrina, canna fistola oppure con qualche pillola benedetta (medicamento questo di
cui nulla sapremmo dire), perché in tal maniera avrebbe potuto evitare di soffrire il mal di
mare già dall'inizio del viaggio. Doveva poi farsi fare qualche capo di vestiario
particolarmente forte e foderato, più utile che bello, atto a ripararlo dall'inclemenze
atmosferiche e dall'acqua di mare quando si trattenesse a poppa o andasse a terra con lo
schifo di bordo o se ne stesse seduto in corsia o anche coricato nelle balestriere, unico
luogo in cui era generalmente autorizzato a comporsi il giaciglio per la notte, perché questo
doppio e robusto indumento gli sarebbe infatti servito appunto anche per detto giaciglio:
... perché i vestiti in galera più devono essere per riparare dall'intemperie che non per
onorare. (Ib.)
Oltre a ciò il suo guardaroba da galera avrebbe incluso pantofole di sughero, scarpe e
stringhe doppiate, ossia rinforzate, brache alla marinara, quindi larghe, berretti alla
montanara e non meno di tre o quattro camicie pulite:
... perché l'acqua di mare e l'incomodità della galera sono di tal misura che le deve
insudiciare tutte prima che se ne possa insaponare una. (Ib.)
Le persone più delicate di stomaco e più insofferenti dovevano poi provvedersi di qualche
profumo, come di bulzuino, storace, ambra, aloe o della mela hechiza (‘mela finta’):
... perché molte volte accade che esce dalla sentina della galera un fetore tanto forte che, a
non portarsi qualcosa in cui odorare, fa venir meno e spinge a vomitare. (Ib.)
Era evidente che in galera non si poteva pretendere di trovare delle raffinatezze e
dell'eleganze come magari si può oggigiorno a bordo delle navi da guerra, ma il nostro
autore vuole egualmente metterne in guardia il passeggero novizio:
... E' prerogativa della galera che tutti quelli che in essa s’imbarcano siano privi della
conversazione di dame, di cibi delicati, di vini odorosi, di profumi, di bevande gelate e
d'altre simiglianti delicatezze; tutte le quali cose hanno licenza di desiderarle, ma nessuna
facoltà di ottenerle. (Ib.)
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... che nessuno pensi di portarsi in galera un letto grande e intero; sarebbe dare ad alcuni di
che burlarsi e ad altri di che ridere, perché di giorno non c'è dove conservarlo e tanto meno
di notte dove stenderlo. (Ib.)
Anche al passeggero toccava infatti dormire all'aperto in coperta come a quasi tutti gli
uomini della galera, ma nelle galee grosse o galeazze, le quali ovviamente disponevano di
molto più spazio, e inoltre nelle galee veneziane adibite e corredate appositamente al
trasporto di pellegrini in Terrasanta, si passava la notte sotto coperta, cioè in carena, dove
appunto si sistemavano file di cubicoli (sp. arcas), cioè spazi rettangolari affiancati dove
farli dormire, e i pellegrini e gli altri eventuali passeggeri scendevano dopo la terza
preghiera, quella del tramonto; ed ecco a questo proposito una raccomandazione di Santo
Brasca a chi s’accingeva a tale viaggio:
In galea procura (‘procuri’) per tempo d’havere el suo logiamento a meza galea, precipue chi
ha tristo capo per le agitazione del mare (‘chi soffre il mal di mare’), e così presso a la porta
(boccaporta) de mezo per havere uno puocho de aere. (A. L. Momigliano Lepschy. Cit.)
Era poi consigliabile, a meno che non si fosse illetterati, portarsi qualche libro interessante,
magari d’orazioni se si era ecclesiastici:
... perché dei tre esercizi che ci sono nel mare, cioè il giocare, il parlare e il leggere, il più
profittevole e meno dannoso è il leggere. (A. de Guervara. Cit.)
Per quanto riguarda il parlare, non c'era nulla che a bordo abbondasse più delle
chiacchiere:
... poiché nella galera non c'è molto da fare né da negoziare, vedrà colà il passeggiero che
per la maggior parte del giorno e della notte si occupano a raccontar novelle, a dire cose
vane, a vanagloriare se stessi, ad elogiare i loro paesi e anche a raccontare fatti altrui. (Ib.)
... perché più pena dà in mare una conversazione intollerabile che non la mala vita della
galera [...] dal momento che la marea di quando in quando ci fa vomitare e uno sciocco
pertinace ognora ci fa esasperare. (Ib.)
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Anche il gioco era dunque abituale passatempo a bordo e nessun tipo di gioco di carte,
dadi o pedine era sconosciuto alla gente di galera, giocandosi così la primiera d'Alemagna,
le tavole di Borgogna, l' alquerque inglese, il tocadillo vecchio, il parar ginovisco, il flusso
catalano, la figurina galiziana, il trionfo francese, la calabriata moresca, il ‘vince chi perde’
romano e il tre, due e asso bolognese; dei quali giochi sappiamo solo che quello detto
primiera era gioco di carte, così come anche il parar o carteta, e che l'alquerque o tre in riga
era quello che tutt'oggi si gioca sul disegno d’un quadrato diviso in quarti con le diagonali
tracciate e dove ogni giocatore dispone di tre pedine che deve riuscire a mettere in fila per
primo:
... e tutti questi giochi si giocano nascostamente con dadi falsi e con carte da gioco
contrassegnate. E [...] non abbia paura, colui che preparasse la carta o conficcasse il dado,
che gli comandi il capitano di restituire il denaro, perché, il giorno che nel mare si formasse
una coscienza e si facesse giustizia, da quel giorno non ci sarebbero più galere sull'acque.
(Ib.)
Per quanto riguarda il cibo, di solito il passeggero di galera che fosse accorto e dai modi
civili usava portarsi a bordo una sua provvista d'alimenti, perché sia quelli di munizione
della galera, i quali comunque anche a lui toccavano in quanto aveva regolarmente pagato il
passaggio, sia quelli che poteva comprare dal dispensiere di bordo erano quasi sempre di
cattiva qualità e mal conservati, se non addirittura rancidi o guasti; infatti il biscotto che si
dispensava era nero, duro, presto infestato dai parassiti, tappezzato di ragnatele e
rosicchiato dai topi e inoltre per lo più poco o mal ammollato, perché, essendo fatto di
cattiva farina, se non lo si toglieva presto dall'acqua della gavetta nella quale era servito, lo
si trovava rapidamente passato da uno stato d'eccessiva durezza a quella d'un disgustoso
disfacimento; e, se ad alcuno talvolta poteva apparire di buona qualità perché bianco, .
quest colore era invece dovuto all’essersi del tutto guastato. L'acqua da bere disponibile
era poi calda, pesante, torbida, a volte addirittura pantanosa:
... è vero che ai più delicati il capitano dà licenza che, giunto il momento di berla, con una
mano si chiudano le narici e con l'altra portino il vaso alla bocca. (Ib.)
Il vino che si poteva comprare a bordo era solitamente poco, caro, annacquato, torbido e,
quando non proprio guasto, tanto inacetito da poter si usare solo per condire le lattughe. E
che dire della carne secca? Si poteva trattare di fette di caprone, di quarti di pecora, di
vacca salata, di bufalo salato e pressato, di lardo salato rancido; ma qualsiasi tipo fosse era
sempre poca e immangiabile, perché servita scotta più che cucinata o bruciata più che
arrostita, di maniera che, portata a mensa, risultava schifosa da vedersi, stopposissima o
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... É prerogativa della galera che tutti i passeggieri, vogavanti, remieri, marinari, scudieri,
ecclesiastici e anche cavalieri possano di buon grado asciolvere senza (bevanda di)
ghiande, mangiare senz'amarasche, merendare senza cotogne, cenare senza noci e far
colazione senza mandorle; e, se di questi e altri simiglianti rinfreschi loro venisse molto
appetito e nascesse audace desiderio, hanno tempo da vendere per sospirarli, mentre gli
manca il modo di ottenerli. (Ib.)
Il passeggero di galera oculato si sarebbe dunque portato in viaggio una cassa di viveri per
suo uso personale e contenente molto biscotto bianco che si sarebbe fatto fare prima di
partire, tosino (‘lardo salato’), ottimo formaggio e un po' di cecina (‘carne vaccina seccata’);
non avrebbe inoltre dimenticato qualche grossa gallina viva, un otre o un barile o anche una
botte intera d’ottimo vino bianco e di quest'ultimo avrebbe soprattutto apprezzato l'utilità
nelle frequenti occasioni in cui il mal di mare lo avesse spinto al vomito, perché un goccio
di buon vino gli avrebbe rimesso a posto lo stomaco e il suo odore gli avrebbe attenuato
quel sentirsi venir meno. Allo stesso scopo, ossia per combattere il mal di mare, il vomito e
la relativa inappetenza, un navigante particolarmente delicato avrebbe fatto bene a
provvedersi anche d’alimenti confortativi quali zibibbo, fichi, prugne, mandorle, cedro
confettato, datteri, confetti, zuccari (‘dolciumi’), confezioni (‘composte’) e altre delicate
conserve, ossia di cibi energetici e di lunga conservazione. Già nel secolo precedente, pur
trattandosi in quel caso di una più comoda galeazza da viaggio in Terrasanta e non di
un’angusta galera sottile, il già citato Gabriele Capodilista ricordava ai pellegrini passeggeri
d’imbarcarsi con una provvista di cibo personale:
… e, perché li homeni da ben che sono usi a viver delicatamente da novo manzar de li cibi
che in galea si costuma, cioè biscoto negro e duro, carnaze di castrone, vini grandi (‘forti’),
despiacevoli e roti (‘inaciditi’), gli persuado e ricordo portar cum loro bono biscoto e del
caso, persuti e del vino segondo el gusto suo e confezione de diverse sorte. (A. L.
Momigliano Lepschy. Cit.)
prestavano; inoltre, se anche li avesse trovati a bordo, essi sarebbero stati sicuramente
molto scadenti e grezzi, perché, come abbiamo detto, sulla galera mancava ogni
raffinatezza:
... É prerogativa della galera che nessuno ardisca di chiedervi tazza d'argento o di vetro di
Venezia né boccale di Cadahalso (sic) né giara di Barcellona né porcellana di Portogallo né
chicchere d'India né turacciolo di sughero... (A.de Guevara. Cit.)
In mancanza degli oggetti in questione, al massimo il capitano gli avrebbe dato volentieri
licenza di tagliarsi la carne su d’un asse di legno e di sorbirsi il brodo dalla stessa
casseruola di bordo e che gli si desse un po' d'acqua da bere in una di quelle scodelle di
legno in cui i remiganti mangiavano la loro minestra. L'acqua potabile si distribuiva a bordo
a orari prestabiliti e, se qualche passeggero ne voleva un po' fuori orario, magari per
bagnarsi la bocca arsa, rinfrescarsi la faccia sudata o lavarsi le mani, doveva chiederla al
capitano o corrompere il còmito o comprarla da qualche remiero o infine portarsela da
terra:
... perché nella galera non c'è cosa più bramata e della quale ci sia meno abbondanza
dell'acqua. (Ib.)
Se poi il passeggero fosse riuscito a procurarsi a bordo una pentola sua, magari
comprandola dal suo legittimo proprietario o corrompendone il legittimo custode o
comunque provvedendosene d'una col tempo, avrebbe dovuto poi lui stesso lavarla, averne
cura, attizzarne il fuoco, schiumarla e anche guardarsela bene e per nessun motivo
allontanarsene, perché altrimenti, non appena avesse distolto lo sguardo da quel cibo,
qualcun altro si sarebbe affrettato a mangiarlo e non gli sarebbe rimasto altro che
raccontare la beffa subita. Non gli era comunque assolutamente concesso d'andare a
prepararsi da mangiare quando n’avesse voglia, bensì solo quando gli fosse riuscito di
guadagnare il fogone di bordo, il quale, quando non si era in navigazione, era per lo più
sempre impegnato e circondato da casseruole, tegami, mortai di pietra e di metallo, padelle,
caldaie, spiedi e pentole da minestra, per cui, se non avesse fatto prima previdentemente
amicizia con il cuciniero, se ne sarebbe tornato indietro con un nulla di fatto. Se inoltre
avesse voluto mangiare con molto decoro, ossia con tovaglie pulite, grandi tovaglioli e
salviette di tela damascata, come allora civilmente si usava, doveva portarsi e ben
guardarsi a bordo anche queste cose, perché giammai avrebbe trovato nella galera
mercanzia tanto igienica:
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... e, se in ciò [...] fosse dimentico, potrà con buona coscienza, sebbene con molta
vergogna, pulirsi con la camicia e di quando in quando con la barba. (Ib.)
In porto, a meno che non si trattasse d’un approdo poco o per nulla abitato, il passeggero
pagante non aveva diritto ai pasti di galea e doveva scendere a terra a procurarsi da
mangiare, approfittando così dei mercati locali anche per rinnovare la sua provvista di cibi
freschi; ma, nel caso di passaggi in galere militari, le soste nei porti abitato erano in viaggio
molto meno frequenti e quindi ottenere del cibo fresco diventava molto più difficile. Per
esempio, se al passeggero veniva il desiderio di mangiare della carne fresca, sia essa di
montone, di vacca o di capretto, doveva comprala dai soldati della galera che erano andati a
'procurarsela' a terra, oppure avventurarsi egli stesso ad andare a rubarla sulla marina, ma,
anche se ciò avesse fatto, non se la sarebbe goduta perché avrebbe dovuto far scuoiare
l'animale catturato a qualcuno di bordo e, per antica consuetudine di galera, lo scuoiatore
aveva diritto alla pelle, alle frattaglie e anche a un quarto della bestia; inoltre avrebbe avuto
l'obbligo d'arrostire o cuocere la carne rimastagli per poi mangiarla con i compagni, ossia
con quei marinai di guardia di cui abbiamo già detto. Lo stesso sarebbe successo se, sceso
a terra, avesse comprato del pane bianco, fresco o stagionato che fosse, perché anche
questo non doveva mangiare da solo, bensì con i predetti compagni e non gliene sarebbe
rimasta una quantità maggiore di quella del pane benedetto (Ib.).
E non c'era nulla di suo, povero passeggero, che a bordo della galera si sarebbe salvato:
É prerogativa della galera che il pane, il formaggio, il vino, il tosino, la carne, il pesce fresco
e i legumi che vi terrai per tua provvista, devi darne al capitano, al còmito, al piloto, ai
compagni e al timoniero e, di quanto ti resterà, sta certo che di tanto devono provar i cani,
strappar via i gatti, rodere i ratti, approfittare i dispensieri e rubare i remieri; di modo che, se
sarai un po' inesperto e non molto avvertito, la provvista che facesti per un mese non
arriverà a dieci giorni. (Ib.)
Sarebbe stato pertanto oculato se si fosse portato nella sua cassa di viveri conservati, oltre
a quanto già detto, anche una resta d'aglio e una di cipolla, una giara di vinagro, una
boccetta d'aceto e un cencio di sale; cibi rustici e aspri che non contribuivano a far venire il
mal di mare né erano molto desiderati dai ladri di bordo:
... ed, oltre a ciò, può poi essere che di minutaglia e acqua, sale e aceto faccia un tal
condimento che gli riesca di sapore migliore di (quello di) un cappone in altro tempo. (Ib.)
Quando tutto mancasse, si poteva sempre mangiare del pesce fresco, se si sapeva
pescarlo; quindi al passeggero buon pescatore era consigliabile portarsi a bordo anche una
cordicella, ami, esca, canne e, qualche volta che la galera fosse in bonaccia o alla fonda in
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qualche cala o protetta dietro qualche rupe od ormeggiata a terra, avrebbe potuto così
mettersi a usare questa semplice attrezzatura per prendere qualche pesce:
... quindi prenderà ricreazione nel pescarli e gran sapore nel mangiarli, perché molto meglio
sarà per la sua anima - e anche per la sua borsa - andarsene a pescare pesci a prua che non
starsene a giocare danari a poppa. (Ib.)
Simili i consigli dati al passeggero dal pellegrino Santo Brasca nel 1480:
… ch’el porta seco una veste calida per portare a lo ritorno quando fa fredo. Similiter de le
camise assai per schivare li pedoni e quele altre immondizie più che se pò e così de le
tovaglie da tavola e da capo, lenzoli, intimelie (l. subligaclum, ‘mutande’) e simiglia… ch’el
facia fare uno gabano fine interra per dormire a l’aere, compra (‘compri’) uno strapontino in
luocho de lecto, una capsa (‘cassa’) longa, dui barili, videlicet uno da aqua l’altro da vino,
una zangola sive sechia coperta per fare la necessità del corpo (‘un vaso da notte’).
Praeterea se fornischa de bono caseo lombardo, salsizi, lingue e altri salami d’ogni sorte;
biscotti bianchi, qualche pani de zucharo e de più sorte (de) confectione, ma non grande
quantitate, perché se guastano presto; e sopra tuto del violeppo (?) assai, perché l’è quelo
che tene vivo l’homo in queli extremi caldi; e così del zenzebre (‘zenzero’) siropato per
aconzare el stomaco che fosse guasto per tropi vomiti, ma usarlo raro perché è tropo caldo.
Similiter de la cotignata senza specie (‘spezie’) e aromatici arosati e gariofolati (‘con rosa e
garofano’) e così qualchi boni lactuarij (‘funghi lattari’)… E, quando se descende in terra, se
fornischa de ove, pulli, pane, confectione e fructi… (A. L. Momigliano Lepschy. Cit.)
Per quanto riguarda il sunnominato caseo lombardo, esso, come si può ben immaginare,
era il medesimo, reputatissimo, che i francesi chiamavano ancora nel Seicento fromage de
Milan broyée e che a partire dal Settecento sarà invece più conosciuto come ‘formaggio di
Parma’ o ‘parmigiano’; si trattava d’un condimento senza il quale era impensabile poter
gustare gli altrettanto famosi macarons, non essendo infatti allora particolarmente diffuso
in Europa alcun altro modo d’insaporire o condire la pasta asciutta di frumento all’italiana;
allo stesso modo i vermicelli, ossia la stessa pasta filata, si consumavano anch’essi in
un'unica maniera e cioè in brodo. Il nome comune maccaroni, in seguito corrotto in
‘maccheroni’, trova la sua origine in quello del venditore di cibo cotto che nel Medioevo si
chiamava maccaro; s’intendeva infatti per macco generalmente il cibo cotto nell’acqua e in
particolare quelli più comuni e a buon mercato, cioè la favata e la farinata, quest’ultima
pasta di cereali tagliata in falde dette appunto maccaroni. I venditori ambulanti di cibi cotti
sono stati comuni ancora nella prima metà del secolo scorso perché la povera gente
urbana, non disponendo di una cucina nelle loro piccole e disadorne abitazioni, specie in
quelle poste al piano terra, usava alimentarsi appunto in strada al banco del maccaro, più
tardi detto maccaronaro.
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Si prevedeva di poter fornire al passeggiero pagante del cibo di bordo, ma questo perché i
viaggi di galera erano viaggi mediterranei e quindi duravano poco; ma, in caso di lunghi
viaggi in vascelli transoceanici, il passeggiero era tenuto a portarsi una sua provvista di
cibo perché non gli sarebbe poi stato concesso di consumare quella di bordo, troppo
preziosa per l’equipaggio, anche perché a questi convogli di cosiddetti galeones, a un certo
punto fu vietato di fermarsi più alle isole Canarie a far ulteriori rifornimenti, sia perché
quella sosta allungava il già molto lungo viaggio sia perché, mancando colà i controlli
d’imbarco, oltre a generi utili se ne imbarcavano anche di quelli vietati dalle ordinanze
marittime e talvolta si accettavano a bordo anche persone non autorizzate o addirittura dei
clandestini (cst. llovidos).
Al tempo dell'imbarco - come del resto anche allo sbarco - la locale dogana ispezionava
minuziosamente gli averi e i bagagli del passeggero, contandogli il danaro, aprendogli le
casse, scucendogli i fagotti e guardandogli nei vestiti; doveva infatti su ogni cosa pagare i
prescritti diritti:
... e, se il passeggiero è un po' inesperto, non solo gli prenderanno il diritto, ma anche il
monocolo. E perché non sembri che parliamo a vanvera, giuro onoratamente che, per i
diritti di un gatto che portavo da Roma, mi presero (ben) mezzo reale a Barcellona. (A.xde
Guevara. Cit.)
Qualsiasi cosa egli, specie se novizio dei passaggi di galera, si portasse a bordo della
galera, si trattasse d’una cassa di vettovaglie, d'un cestone d'armi, d'un barile di vino, d'un
fagotto d'abiti e biancheria, d'una scatola di scritture, di qualche brocca per acqua o d'un
materassino da letto, doveva subito farla vedere al capitano, farla registrare allo scrivano e
affidarla alla sorveglianza del còmito:
... perché nella galera, per scrupolo di coscienza, non lasciano dall'ago in su. (Ib.)
Una volta soddisfatti i diritti doganali, egli non aveva però certo finito di pagare, perché
infatti ancora gravano angarie su ogni bagaglio che chiedesse d'imbarcare:
... deve tener per sicuro che il capitano per consentirlo, i barcaruoli per portarlo, lo scrivano
per registrarlo, il còmito per guardarlo gli devono portar (via) alcuni danari e altri effetti; e in
tal occasione non si contentano di ciò che vorreste dar loro, ma vi devono togliere tutto
quello che vi desiderassero chiedere. Per quanto riguarda me, posso giurare che,
nell'ultima navigazione che facemmo con il gran Cesare (‘Carlo Vì), nei porti di Barcellona,
Maiorca, Sardegna, la Goletta, Cagliari, Palermo, Messina, Rijoles (‘Reggio’), Napoli, Gaeta,
Civitavecchia, Genova, Nizza, Tolone e Acque Morte (‘foce del Rodano’) ebbi più fastidi e
spesi più danari in imbarcare e sbarcare cavalli, bestie da soma, servi e bastimenti che in
tutta la mia vita passata... (Ib.)
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... perché, se in ciò è negligente e neghittoso, si tenga per detto e condannato che non
troverà di giorno dove sedersi e molto meno di notte dove coricarsi. (Ib.)
… e metta le spese de patrono per niente, che questo è uno viagio da non tenete serrata la
borsa. (A. L. Momigliano Lepschy. Cit.)
D'altro canto bisognava che stesse ben attento a chi si accomunasse, di chi si fidasse, con
chi parlasse e giocasse:
... perché quelli della galera sono tanto astuti e tanto scaltri che, se si accorgono che il
passeggiero è un po' sciocco, giocheranno come a 'tre contro uno' (con el tres al mohino).
(A. de Guevara. Cit.)
Quando egli vedeva alzare l'ancora, prendere i remi, riporre il battello al suo posto,
scostarsi la galera da terra, mutar la vela e alzarsi da bordo un gran gridio, allora doveva
egli tacere e togliersi da mezzo, evitando accuratamente di proferire verbo e d’andarsene in
giro per la galera; lo stesso doveva fare in navigazione durante le manovre e soprattutto in
caso di mal tempo:
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... perché i marinari, poiché sono dei disperati e anche superstiziosi, tengono per
grandissimo malaugurio se nel lottare contro la tempesta odono parlare o trovano in chi
inciampare. (Ib.)
Doveva dunque far attenzione al lavoro dei marinai e al cambio della vela perché, quando si
veleggiava, tante volte cambiava il vento tante volte si cambiava la vela; inoltre quando il
vento si rinfrescava, vale a dire si rinforzava, la dovevano restringere e quando invece
s’indeboliva la dovevano allargare. Accorgendosi dunque che tali manovre si reiteravano il
passeggero esperto avrebbe alzato gli occhi all'antenna e si sarebbe mantenuto al più
vicino cavo pensando con preoccupazione a una probabile tempesta in arrivo:
... perché nel mare non c'è maggior segno di stare in grande pericolo di vita di quando i
marinari alzano e abbassano molte volte l'antenna. (Ib.)
Comunque, anche se il nostro passeggero non fosse stato così esperto di navigazione, si
sarebbe egualmente accorto del pericolo incombente vedendo le manovre che i marinai
avrebbero presto fatto seguire una dopo l'altra; infatti, quando cominciava a soffiare la
tramontana o c'era mare grosso o quarto di luna, come anche si diceva - da cui il detto
ancor oggi usato ‘avere il quarto di luna’, nel senso di essere arrabbiati o agitati - oppure
correva vento di traversia o sopravveniva qualche furiosa tempesta, immediatamente i
marinai salpavano l'ancora, riponevano lo schifo, toglievano il tendale di poppa,
raccoglievano la tenda e ammainavano la vela:
... e allora guai a te, povero passeggiero, perché resterai alla mercé della pioggia! (Ib.)
Quando si passava golfo, ossia si navigava in alto mare, e quando arrivava una grande
tempesta, la vita di bordo mutava le sue regole; non si accendeva più il fuoco, non si
preparava il desinare né si chiamava a mensa e tutti i passeggeri dovevano andare di sotto,
perché per manovrare e soprattutto per lavorar di carrucola era necessario che la coperta
fosse sgombra di gente inutile:
... Ed è verità che in quei momenti e frangenti più timore creano la confusione e le voci e lo
strepito e il gridio che i marinari si scambiano che non la furia e il furore degli elementi che
se ne vanno per il mare. (Ib.)
Nella semioscurità della camera di mezzo, tra cordami e velami ammucchiati, il meschino
passeggero che fosse buon cristiano e timoroso di Dio non poteva far altro che
raccomandarsi a qualche famoso santuario, pregare i santi a cui fosse più devoto, pentirsi
dei suoi peccati e riconciliarsi eventualmente con i suoi compagni di bordo:
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... tutto ciò e anche molto di più si fa ad ogni passo in mare e più tardi - o giammai - a terra
si completa. (Ib.)
Doveva guardarsi dall'andarsene di giorno per la galera con i piedi scalzi o di dormirvi di
notte con la testa scoperta, perché la grande umidità del clima marino l'avrebbe fatto uscire
dal suo viaggio sicuramente affetto da catarro o insordito per l'otite; doveva sempre evitare
di mangiare e bere molto, perché il farlo sino a ruttare e vomitare era non solo disdicevole,
ma in mare e in tempo di tempesta anche molto pericoloso:
... E perché non sembri parlare esagerato, nella mia galera io vidi, attraversando il golfo di
Narbona con una fortissima tempesta, uno che era ubriaco e rimpinzato di cibo, il quale in
due conati di vomito gettò fuori quello che aveva mangiato e con il terzo vomitò l'anima.
(Ib.)
Quando, vinto dal rollio o dal beccheggio, egli diveniva preda del mal di mare e cominciava
a venirgli la nausea e a sentirsi venir meno, a perdere la vista e a rivoltarsi lo stomaco, a
vomitare e desiderare di coricarsi su quel tavolato, nessuno a bordo lo compativa e tanto
meno l'aiutava:
... non sperare che quelli che ti stanno guardando ti manterranno la testa, ma tutti,
sbellicandosi dalle risa, diranno che non è nulla, che il mare ti sta provando e ciò mentre tu
sei disperato e magari stai addirittura spirando. (Ib.)
Si poteva far qualcosa per evitare le più gravi conseguenze del mal di mare? Sì, secondo il
nostro autore:
... É consiglio salutare e sperimentato che, perché uno non soffra il mal di mare né vomiti in
mare, si ponga una carta di zafferano sul cuore e se ne stia quieto sopra una tavola nel
fervore della tempesta; perché, se ciò fa, può star sicuro che né gli si rivolterà lo stomaco
né perderà i sensi. (Ib.)
Il passeggero non poteva ignorare che non era concesso tenere una donna in una galera
militare, fosse anche stata sua moglie o sua figlia, e questa proibizione valeva per tutti gli
uomini di bordo, anche per lo stesso capitano; e, se per caso se ne scopriva a bordo
qualcuna nascosta, chi l'aveva occultata doveva rischiare e sopportare che molti
approfittassero di lei, perché:
... la tale da tutti quelli della galera deve essere vista e conosciuta e anche da più dita
servita. (Ib.)
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Doveva poi il passeggero di galera, prima d'imbarcarsi, esser convinto di molte altre cose;
cioè che, per esempio, navigare era sempre e costantemente pericoloso sia per l'insidia dei
flutti sia per quella dei corsari turco-barbareschi:
... perché non c'è mare tanto sicuro nel quale non si aggiri alcun famoso corsaro o nel quale
non si levi alcun vento molto contrario. (Ib.)
Doveva sapere che a bordo della galera il passeggero, anche se di buona qualità, non era
più nessuno e doveva ciecamente obbedire a tutti gli ufficiali e marinai:
... e, se colà volesse approfittarsi e presumere di ciò che ha e di ciò che vale, il più povero
dei remieri gli dirà di sbarazzar subito la galera e di andarsene a comandare a casa sua. (Ib.)
Bisognava infatti esser colà umili e accorti nella conversazione, dissimulati nelle necessità
e molto tolleranti negli affronti:
... perché nelle galere è cosa molto più naturale sopportare le ingiurie che farle e tanto
meno vendicarle. (Ib.)
Pertanto, per molto cavalleresco, onorato, ricco e tronfio che il passeggero fosse, egli
doveva chiamare il capitano della galera ‘signore’, il patrone ‘parente’, il còmito ‘amico’, i
proeri ‘fratelli’ e i remieri ‘compagni’:
... e la causa di ciò è che, poiché il navigante è privo nella galera della sua libertà, ha colà
bisogno di tutti. (Ib.)
Lo stesso don Chisciotte, folle vendicatore degli umili, deve sopportare le gravi ingiurie
fatte al suo scudiero Sancho Panza in occasione della visita che i due fanno alla galera del
conte d’Elda, come realisticamente narra il Cervantes Saavedra in quel suo immortale
capolavoro:
... non appena arrivarono alla marina, tutte le galere abbatterono la tenda e suonarono i
clarinetti; misero subito in acqua lo schifo coperto di ricchi tappeti e di cuscini di velluto
cremisi e, nel momento che don Chisciotte saliva per la scala destra (cioè dal lato nobile),
tutta la ciurma lo salutò com'è usanza quando un personaggio importante entra nella
galera, dicendo 'Hu, hu, hu!' tre volte. Gli dette la mano il generale, che con questo nome lo
chiameremo, il quale era un principale cavaliere valenziano; abbracciò don Chisciotte... (M.
de Cervantes Saavedra. Cit.)
Dopo cortesissimi convenevoli verbali profusi da ambedue le parti la visita così prosegue:
... Entrarono tutti nella poppa, la quale stava molto ben addobbata, e si sedettero sulle
bandine; il còmito passò in corsia e dette con il fischietto segnale che la ciurma facesse
'fuorirobba' (‘si spogliasse’), il che si fece in un istante. Sancho, quando vide tanta gente
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ignuda, restò sbigottito, e più ancora quando vide far la tenda con tanta premura che gli
sembrò che tutti i diavoli stavano colà lavorando; però tutto ciò fu torte e dolci a confronto
di ciò che ora dirò. Stava Sancho seduto sul capomartino vicino allo spalliero di destra, il
quale, già istruito su ciò che doveva fare, afferrò Sancho e, sollevandolo sulle braccia, tutta
la ciurma - postasi in piedi e all'erta - cominciò dalla banda destra a passarselo e a farlo
volteggiare sulle braccia di banco in banco con tanta sveltezza che il povero Sancho perse
la vista e senza dubbio pensò che gli stessi diavoli lo portavano; e non la smise con lui sino
a farlo tornare indietro per la banda sinistra e a posarlo nella poppa. Ne restò il poveretto
tutto pesto, ansante e trasudante, senza nemmeno capire che cosa gli fosse successo. (Ib.)
Sulla malignità dei galeotti così anche si esprimerà Jean-Jacques Bouchard, il passeggero
di galera parigino da noi già più volte ricordato, il quale però per il suo elevato rango
sociale viaggiava tra la gente di poppa:
... Non si commetta mai l'errore di andare là dentro (cioè in corsia, a portata di mano dei
remiganti) se non con qualche ufficiale, poiché altrimenti i forzati vi faranno mille brutti
scherzi; tra gli altri, vi soffieranno sugli abiti con dei cornetti pieni di pidocchi [...] Il meno
che possano fare è togliervi gli speroni con il pretesto che la galera va abbastanza veloce
da se stessa. (J. de la Gravière. Cit.)
A bordo della galera per il povero viaggiatore novizio non ci sarà panca dove coricarsi,
banco dove riposarsi, finestra alla quale appoggiarsi, tavola o sedia alla quale sedersi; gli si
concederà pertanto solamente:
... che in una ballestriera od a capocorsia od a contatto col fogone mangi per terra come un
moro od in ginocchio come una donna. (A. de Guevara. Cit.)
Nessun viaggiatore infatti, per onorato che fosse, poteva avere assegnato un luogo fisso
dove poter passeggiare né tampoco ritirarsi e neppure mettersi semplicemente a sedere
tutte le volte che lo volesse:
Una volta finalmente ottenuto di poter stare a poppa, guai però a orinarvi o sputarvi! Il
capitano l'avrebbe aspramente redarguito e gli spallieri gli avrebbero fatto pagare un reale
di Spagna di contravvenzione; c'era dunque da fare la seguente considerazione:
... pertanto, noi non sgridiamo i marinari anche se sputano nella nostra chiesa ed essi
sgridano noi se sputiamo sulla loro poppa. (Ib.)
In una galera militare il passeggero che avesse bisogno d’orinare o defecare doveva farlo
fuori bordo da una balestriera come un qualsiasi remigante, ma gli era anche concesso di
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recarsi a farlo alla palmetta all'estrema prua, luogo che era infatti deputato a latrina per gli
scapoli, sempre che il passaggio sin là non gli fosse impedito dalla calca o dalle manovre di
bordo:
... e ciò che non si può dire senza vergogna né tanto meno fare tanto pubblicamente devono
(invece) vederlo tutti, seduto sul 'necessario', come lo videro mangiare alla mensa. (Ib.)
Anche il monaco ulmese Felix Faber parla di questo necessario di prua per vuotare il
ventre, ossia per defecare, essendo praticamente un sedile a forame a disposizone degli
scapoli e dei passeggeri, davanti al quale i pellegrini facevano una spiacevole fila in attesa
del proprio turno; se si trattasse d’un forame aperto direttamente sul sottostante mare
oppure su un recipiente di raccolta non sappiamo. Non avevano quindi le galere per
mancanza di spazio la comodità che spesso presentavano i vascelli tondi, specie gli
oceanici, e cioè quello che gli olandesi chiamavano pis-bak, in sostanza un pezzo di ponte
trincerato, pendente verso l’esterno del vascello e destinato a ricevere le orine della gente
di bordo e a farle così scivolare in mare, mentre, per defecare e per lavare la propria
biancheria, bisognava anche lì portarsi al di sotto dello sperone. Un metodo usato per
lavare la biancheria della bassa forza o dei soldati di bordo in comune era quello di legare in
sequenza (fr. mettre à la traine) i singoli indumenti a una corda che si calava in mare e si
trascinava nella scia del vascello finché i flutti non avessero fatto da lavandai naturali.
Non si poteva certo a bordo della galera dormire tra lenzuola d'Olanda e guanciali ricamati,
su materassi di piume, tappeti barbareschi o sotto coltroni reali e nemmeno in un semplice
letto da campo, bensì bisognava accontentarsi del nudo tavolato della coperta, salvo che si
fosse stati tanto previdenti da portarsi in viaggio uno strapuntino ripiegabile, ossia uno di
quei materassini di lana morbida e delicata che si adagiavano sui materassi più rozzi e sui
pagliericci perché questi non stessero a contatto col corpo; altrimenti:
Non doveva dunque, andando a coricarsi sotto le stelle nella balestriera assegnatagli,
spogliarsi dei suoi vestiti, specie del soprabito, perché questi, come abbiamo già detto,
costituivano il più delle volte il suo unico letto; non doveva quindi né togliersi le scarpe ne
slacciarsi le brache né sbottonarsi il giubbone o denudarsi del saio e nemmeno levarsi la
cappa quando volesse alzarsi per andare a orinare fuori bordo:
... perché il povero passeggiero non trova in tutta la galera altro miglior letto della roba che
s’indossa di sopra. (Ib.)
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Gli era dunque appena concesso di sdraiarsi la sera sul nudo pavimento d’una balestriera
per passarvi la notte, proprio come toccava fare a un semplice soldato o marinaio di bordo,
ma il posto non gli era riservato in permanenza per cui, anche se gli capitava lo stesso
luogo della sera prima, gli poteva toccare di dover mettere la testa laddove la notte
precedente aveva invece tenuto i piedi o viceversa e ciò di sovente a stretto contatto con le
parti posteriori d'un altro dormiente:
... e, se, per aver merendato castagne od aver cenato ravanelli, al compagno gliene scappa
qualcuno (già mi capite), devi far conto fratello che lo sognasti e non dire che lo udisti. (Ib.)
Confessiamo che delle castagne e dei ravanelli non sapevamo. Dormire sul nudo tavolato
era svantaggioso anche per un altro motivo e cioè che in quella posizione si dava il
massimo agio ai parassiti d'infestare ogni uomo di bordo; infatti la galera era invasa da
pulci che saltavano sul tavolato, da pidocchi che si riproducevano nelle commettiture e da
cimici che si annidavano in ogni fessura; fino a tutto il Rinascimento era anche infestata da
bianchi, grassi e acquosi vermi che dai pavimenti e dalla coperta si arrampicavano addosso
agli uomini quando dormivano o su per le loro gambe quando erano svegli; di questi
schifosi animali, i quali probabilmente nascevano nelle acque putride della sentina, molto
parla il Faber nel suo diario e anche il da Canal nel suo trattato, ma fortunatamente non più i
trattatisti successivi.
In tali condizioni nessuno a bordo poteva evitare di diventare preda dei parassiti, nemmeno
la gente di poppa e i passeggeri più altolocati:
Altri abituali abitatori della galera erano i ratti e i topi anfibi (vn. pantegane), i quali
rubavano, specie ai novizi dei passaggi di galera, piccoli panni, fazzoletti, cinture di seta,
camicie, cuffie, guanti e tutto ciò nascondevano per dormirci o partorirci sopra o anche per
roderli quando non trovavano da mangiare:
... e non ti meravigli, fratello passeggiero, se qualche vota ti daranno qualche morso mentre
dormi, perché, passando da Tunisi in Sicilia, mi morsero una gamba e un’altra volta
un’orecchia... (Ib.)
che non lo tentasse nemmeno, se non voleva che a bordo ridessero di ciò e si burlassero di
lui:
... ma, se portasse la camicia alquanto sudicia o molto sudata e non avesse con che
cambiarla, dovrà giuocoforza aver pazienza finché non scenda a terra a lavarla o potrà
anche ammalarsi di putridume. (Ib.)
Se poi qualche viaggiatore più delicato e igienista degli altri avesse proprio voluto
insaponarsi qualche fazzoletto o pannolino d'acconciatura o sudario da collo o tovagliolo
personale da mensa o anche qualche camicia, allora doveva farlo con acqua salmastra [fr.
(eau) somache] e non con quella dolce, troppo preziosa questa a bordo per sprecarla in
simili raffinatezze:
... E, poiché l'acqua del mare fa prurito e causa fastidio alla pelle, può dargli il capitano il
permesso e il còmito lo spazio perché si strofini le spalle all'albero o si cerchi un remiero
che lo gratti. (Ib.)
Tutti a bordo, còmito, patrone, piloto, marinai, consiglieri, proeri, timonieri, spallieri,
vogavanti e semplici remieri potevano vessare impunemente il povero passeggero
chiedendogli, pigliandogli, estorcendogli e anche rubandogli qualsiasi cosa, cioè pane,
vino, tosino, carne fresca o disseccata, formaggio, frutta, camicie, scarpe, berrette, sai,
giubboni, cinture e cappe, per non parlare poi della borsa, se non aveva l'accortezza di
portarla sempre attaccata al braccio:
... che ciò che una volta colà si perde o si dimentica o si presta o si ruba giammai riapparirà
e, se, a forza di suppliche e non senza che gli sia dato del danaro, va il còmito a cercarlo ed
è anche vicino a trovarlo, sia certo quello che lo perdette che i ladroni che prima lo
rubarono finiranno col gettarlo in mare svergognatamente piuttosto che col restituirglielo
coscienziosamente. (Ib.)
Quando il viaggiatore desiderava andare talvolta a terra per fare un po' di ricreazione, per
fare magari quattro salti con gli altri, per riempirsi una brocca d'acqua fresca, per cercare o
comprare qualche rinfresco, doveva chiederne licenza al capitano come se fosse un frate,
doveva pregare il còmito di far armare lo schifo di bordo per lui, doveva accarezzare i
prodieri perché ve lo tragittassero, doveva promettere loro qualcosa perché lo aspettassero
per il ritorno e infine, al momento dell'approdo, doveva dar danari a chi lo portava sulle
spalle perché non si bagnasse. Soprattutto doveva far attenzione a trovarsi a riva per il
reimbarco quando dalla galera, decisasi la partenza, suonavano la tromba alla raccolta
oppure, in caso di porti grandi, un trombettiere era inviato a terra e girava suonando per la
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città appunto per richiamare a bordo scapoli, passeggeri e pellegrini, perché altrimenti
avrebbero salpato lasciandolo a terra senz'alcuno scrupolo.
Quando la gente di galera andava a terra a far acquata, ossia a far provvista d'acqua
potabile, o alla fascinata, cioè a far fascine, o a tagliar legna, rubava o rapinava per
consuetudine qualsiasi animale commestibile in cui s’imbattesse e non risparmiava infatti
vitello, vacca, montone, pecora, capretto, porco, papera, gallina, pollastro o coniglio che le
capitasse a tiro; poi se ne tornava in galera dove ammazzava l'animale catturato con lo
stesso senso di buon diritto che avrebbe avuto se l'avesse regolarmente comprato in
piazza. Ma spesso non si trattava solo di rubare qualche animale, bensì di vere e proprie
razzie alle quali di solito partecipavano anche i passeggeri occasionali o per lo meno se ne
trovavano coinvolti anche loro; i soldati, i marinai e i galeotti dunque, capitando in qualche
luogo fertile o abitato, n’abbattevano gli alberi, ne tagliavano i boschi, scortecciavano gli
alveari, vuotavano le colombaie, i pollai e i porcili, saccheggiavano le case, depauperavano
gli orti, approfittavano delle fanciulle, usurpavano le donne, rapivano i fanciulli, predavano
gli schiavi, vendemmiavano le vigne, arraffavano il tosino, il formaggio, il pane e gli altri cibi
conservati e infine agguantavano i vestiti di villani e civili:
... in maniera che in un anno rigido non fanno tanto danno il gelo e la grandine né la
cavalletta quanto ne fanno quelli della galera in solo mezza giornata. (Ib.)
Nemmeno dunque quando scendeva a terra c'era svago e sollievo per il povero viaggiatore:
... tanto che, a chi chiedesse che cosa è galera, gli potremmo rispondere che è un carcere
per scapestrati e un supplizio per passeggieri. (Ib.)
Nemmeno alla fine del suo viaggio finiva di subire i soprusi della gente di galera:
... É prerogativa della galera che tutto il pane, il vino, il lardo salato, la carne secca, il
formaggio, la manteca, l'uva passa, il biscotto, le mandorle, i boccali, le brocche, i piatti e le
pentole che avanzano a qualche passeggiero, il che portò per sua provvista, lo lasci tutto in
galera quando da essa sbarcherà e se n’andrà a terra, cioè prendono tutto ciò che gli
avanza; ed (a pensare che), se qualcosa a bordo gli fosse mancata, non gli avrebbero
regalato nemmeno un chicco di zibibbo! (Ib.)
E non era ancora finita! Infatti, giunto il tempo di sbarcare, al passeggero conveniva
mostrar si ulteriormente generoso e riconoscente; gli conveniva cioè ringraziare il capitano,
abbracciare il còmito, parlare al piloto, accomiatarsi dalla compagnia, ossia dai marinai
compagni, convitare all'ultimo pasto gli spallieri, dar qualcosa al timoniero e ricordarsi
anche dei prodieri:
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... perché, se ciò non fa, gli daranno tutti una baia molto crudele e non lo accoglieranno più
in quella galera. (Ib.)
Al pellegrino alla fine del viaggio, vale a dire al momento dello sbarco in Terrasanta, tutti
chiedevano invece sfacciatamente:
Tutto ci si poteva dunque augurare in viaggio tranne che la convivenza di galera! E che
cosa del resto ci si poteva aspettare da un’accozzaglia di ladroni, traditori, rei sferzati e
sfregiati, grassatori, adulteri, omicidi, corsari, falsari, blasfemi, mentitori e falsi testimoni,
che tale e non altra era la gente di galera? Per antica consuetudine infatti, chiunque avesse
conti in sospeso con la giustizia per qualsiasi motivo, perché magari fosse debitore
insolvente, spergiuro, ruffiano, rivoltoso, ladro, brigante, accoltellatore o assassino, un
volta entrato a servire in galera non poteva più essere perseguitato dalla legge né potevano
i birri metter piede a bordo per arrestarlo e nemmeno l'offeso poteva andarvi ad accusarlo;
se qualcuno avesse voluto tentarlo ugualmente mal gliene sarebbe incolto, perché o
l'avrebbero gettato al remo insieme ai galeotti o gli avrebbero dato un buon tratto di corda:
... in maniera che nelle galere è dove si vanno i buoni a perdere e i cattivi a difendere. (Ib.)
Notevoli erano dunque le franchigie e le esenzioni di cui godevano tutti coloro che
servivano in galera, persino ne godevano i passeggeri per tutto il tempo che durava il loro
viaggio. si era infatti esenti dal pagare tasse, pedaggi, balzelli, tributi di S. Martino,
imprestiti, quarte, decime e primizie sia al sovrano che alla Chiesa e oltre a ciò, durante il
tempo del loro servizio, gli uomini di galera non potevano essere scomunicati dai vescovi
né essere scacciati dalle chiese dai parroci e questo anche se non fossero confessati né
comunicati. A questo proposito il de Guevara, ricordando il suo ufficio di cappellano di
galera, così scriveva:
... É verità che alcune volte, burlandomi io con i remieri e i marinai nella galera, mi mettevo a
chieder loro le cedole delle confessioni e subito quelli mi mostravano un mazzo di carte da
gioco, dicendo che in quella santa confraternita non apprendevano a confessarsi, bensì a
giocare e a trafficare. (Ib.)
Nessuno infatti a bordo della galera - né gli ufficiali né i venturieri né i marinai né tanto
meno i condannati - si preoccupava di sentir messa nei giorni festivi o d’entrare in chiesa
per lo meno una volta all'anno:
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... (tutto) ciò che quelli hanno di buon cristiano è che in una pericolosa tempesta si mettono
a pregare, cominciano a sospirare, prendono a piangere; la qual passata, si seggono molto
pian piano a mangiare, a parlare, a giocare, a pescare e anche a spergiurare, mentre si
raccontano l'un l'altro il pericolo in cui si videro e le promesse che fecero. (Ib.)
Il protagonista del Guzmán de Alfarache, incappato anch'egli in una tempesta di mare così
infatti racconta:
... che potrei qui di re di ciò che ho visto in tal tempo? Che cosa udirono le mie orecchie,
che non so se si potrebbe dire con la lingua od esser creduto dagli estranei? Quanti voti
facevano! A che varietà d'invocazioni si davano! Ciascuno al santo più oggetto di
devozione al suo paese. E non mancò a chi non uscisse altro dalla bocca se non sua madre
(o) quali abusi e spropositi avessero commesso, confessandosi gli uni con gli altri come se
fossero i loro reciproci curati od avessero l'autorità d'assolversi. Altri dicevano a Dio ad alta
voce in che cosa lo avevano offeso e, sembrando loro che fosse sordo, levavano il grido
sino al cielo, credendo di sollevare con la forza del fiato sin là le loro anime in quell'istante,
parendo loro l'ultimo della loro vita. (M. de Cervantes Saavedra. Cit.)
Mai dunque a bordo della galera, come avevano notato sia il de Guevara sia un secolo
prima il Faber, ambedue uomini di chiesa, si sospendeva di giocare, rubare, adulterare,
bestemmiare, lavorare, navigare, né di domenica né a Pasqua né in alcun altro giorno
dedicato a un santo principale:
... perché le feste e le pasque nella galera non solo non si osservano, ma nemmeno si sa
quando cadono. (A. de Guevara. Cit.)
Né si praticavano i digiuni prescritti, cioè quelli del Mercoledì delle Ceneri, della Settimana
Santa, delle Vigilie di Pasqua, dei quattro tempora dell'anno e nemmeno della Quaresima
Maggiore:
... perché nella galera tutte le volte che digiunano non è per esser Vigilia o per star in
Quaresima, ma perché mancano loro le vettovaglie. (Ib.)
Non che l'autorità religiosa non fosse però riconosciuta, anzi, e infatti i frati d’alcuni ordini,
cioè quelli di S. Benito, S. Basilio, S. Agostino, S. Francesco, S. Domenico, S. Geronimo, dei
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Trinitari, dei Mercenari (sic) e anche le suore carmelitane viaggiavano gratuitamente sulle
galere; però, in un ambiente in cui, come abbiamo visto, anche l'ottenere un sorriso doveva
essere pagato, che questi religiosi viaggiassero e mangiassero gratis non doveva certo
esser cosa ben vista e tollerata; si aggiunga che essi avevano anche il privilegio di poter
girare liberamente per tutta la galera e si capirà perché i còmiti spesso brontolavano contro
di loro e solevano dire per scherzo che era stata promulgata di recente una bolla in cui si
ordinava che i religiosi che viaggiavano in galera si spogliassero dei loro abiti, delle
cocolle, delle corone, delle cinte e degli scapolari, che smettessero di pregare, che
lasciassero i loro breviari e che prendessero invece anche loro i remi! Si capirà così anche
l'episodio di superstiziosa intolleranza contro alcuni monaci Fatebenefratelli che ci
apprestiamo a narrare nel prossimo capitolo.
L'indifferenza verso la religione faceva d'altronde 'sì che a bordo della galera ognuno fosse
libero d'osservare, se lo voleva, la sua religione e la sua regola di vita e ciò probabilmente
anche e soprattutto per evitare d’esasperare quei remieri che erano schiavi maomettani. A
bordo potevano quindi pacificamente convivere cristiani e mussulmani, rinnegati e giudei,
marrani e greci ortodossi, eretici e monaci, indi e turchi, clerici e scudieri, cavalieri e
bifolchi, canari (‘catari’?) e saraceni:
... in maniera che senza alcuno scrupolo si vedranno i venerdì fare i mori la 'zala' (Azalà’, il
pregare dei maomettani) e il sabato fare i giudei la 'baraha' (Barahà’, il pregare degli ebrei).
(Ib.)
Altre e tristissime franchigie religiose spettavano infine alla gente di mare quando in mare
moriva. Non si aveva infatti, dice sempre il de Guevara (e in qualche caso per ovvietà,
aggiungeremmo noi), l'obbligo per il moribondo di prendere l'estrema unzione né i suoi
familiari o compagni dovevano pagare al sacrestano la nenia, al servo della confraternita il
convocare i confratelli, ai confratelli i diritti di trasporto della salma, al curato l'interramento,
al fabbricatore la sepoltura, ai frati la messa cantata, ai poveri il portare i ceri, ai facchini
l'aprir la fossa e neppure alla comare il cucire il lenzuolo mortuario:
... perché del triste e malcapitato che colà muore, non appena ha reso l'anima a Dio, subito
gettano ai pesci il corpo. (Ib.)
Ma questo valeva per i poveri remiganti, perché generalmente a bordo si aspettavano anche
12 ore per il funerale del defunto; in sostanza, se il decesso avveniva di notte, il funerale
avveniva dopo la preghiera del mattino, e se invece avveniva di giorno, dopo la preghiera
della sera. Si cuciva il cadavere nella sua coperta da letto, gli si legava ai piedi una grossa
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… ed ammazzarono il Doria generale de’ genovesi ed un suo nipote, i quali, con grandissimi
pianti e con dolore universale de’ genovesi furono portati in Chioza grande e salati per
portare a Genova (Daniello Chinazzo, Cronaca della guerra di Chioza etc. In L.A. Muratori,
Rerum italicarum scriptores etc. C. 753, t. XV. Milano, 1727).
… E, salato il corpo del Pisani, fu mandato a Venezia ed alli 22 (agosto) fu sepolto nella
chiesa di S. Antonio con grandissimo honore… (Ib. C. 772.)
Per cui il vetusto modo di dire napoletano vecchio insalanuto (‘vecchio salato’)
per dire ‘vecchio decrepito’.
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Capitolo XII.
Quello che in latino si era chiamato praefectus classis, nel Medioevo si prese a chiamare
capitano generale del mare; egli era coadiuvato a terra dall’ammiraglio (grb. μέγας
δρουγγάριος τοῦ πλωΐμου), personaggio politicamente più potente di lui perché controllava
anche la marineria civile ed era sempre a diretto contatto col sovrano; questo non era un
ufficiale generale combattente, ma da lui dipendevano inoltre tutti i materiali, i corredi, gli
equipaggiamenti, gli equipaggi e la giustizia dell’armata di mare, insomma era molto di più
di un provveditore generale, era un ‘ministro della marina’; così ci spiega l’anonimo autore
del De cerimoniis aulae byzantinae etc. vissuto al tempo dell’imperatore bizantino
Costantino VII Porfirogenito. Questo potente funzionario prese però col tempo sempre più il
ruolo riduttivo di luogotenente generale d’armata – e ancora più tardii persino di una sola
galea veneziana (v. Marino Sanuto il Vecchio, Liber secretorum etc. Cit. P. 78), mentre in
Italia il suo originale nome armiratus (Andrea Dandolo e Saba Malaspina) si alterava nel più
antico l. admiratus, ‘stimabile, considerabile, ammirabile’ (Ugone Falcando, Giovanni Stella,
Saba Malaspina, Bartolomeo di Neocastro, Marino Sanuto il Vecchio, Jacobo da Varagine),
a(m)miratus e admiraldus (Lorenzo Monaci), admiragius e admiralius (Chronicon estense),
armiragius e armiregius (Giorgio Stella), quest’ultimo termine prestato al mare dalla
terminologia della guerra terrestre e infatti così era detto da più antico tempo il governatore
dell’armi o capitano a guerra delle piazzeforti e delle città o anche talvolta il castellano
militare; infine arrivandosi a un ingiustificato admirans -antis (nel già cit. Novus orbis
regionum ac insularum veteribis incognitarum etc. P. 99).
Frattanto, cioè nel quarto e quinto secolo d. C., le vittoriose armate di mare ispano-berbero-
vandale avevano imposto nel Mediterraneo il loro almirall, dall’arabo amir, ‘signore, e
questo nome finì, ma solo verso la fine del Medio Evo, per prevalere su ambedue i predetti
termini mediterranei, come sempre succede al linguaggio dei vincitori, stabilizzandosi
infine in ἀμηράλιος a Bisanzio e in almirante e visalmirante per quanto riguarda il
castigliano, mentre nell’area celto-oceanica, una volta dominata da Roma, contaminandosi
con il suddetto participio latino admiratus, si risolse in admirallus (infatti è tuttora admiral in
inglese), cioè mantenne quella lettera -d- che nel Mediterraneo invece aveva appunto perso;
ma che si trattasse solo di una seconda contaminazione è dimostrato dalla circostanza che
il suddetto termine arabo amir traduceva il nostro ‘signore’ in maniera molto generica, cioè
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nei paesi di lingua araba era usato a significare decine di ruoli diversi sia da principe, sia da
gerarca sia da funzionario e inoltre sia per terra che per mare.
Nelle armate di galee veneziane del Basso Medioevo il termine admirati, come abbiamo già
accennato, contraddistinse, come già accennato, fino al Rinascimento due ufficiali dello
stato maggiore che avevano il ruolo di luogotenenti generali, ma si usava anche come
luogotenente marittimo in generale ed infatti nel 1401 il luogotenente del capitaneo di una
galea grossa da mercato, ossia il, suo primo ufficiale, si chiamava appunto almiral. Così si
legge, per esempio, nei già citati Annales genuenses dedi fratelli Stella all’anno 1423, col.
1289:
… quoniam mos est apud januenses nostros, quum exercitus nostri navigia bellica
attingunt numero viginti quinque, creari et nominari praesidem et rectorem earum
Admiratum, cum vexillo sanctissimi protectoris nostri Georgii…
… Die XIII Julii unanimi omnium assensu in Admiratum galearum XXV spectabilis
Franciscus Spinula quondam domini Octoboni electus est, vir quidem virtutis et periculis
expertus, ut in eventu rerum venetorum galeis se animose opponat. (Ib.)
Il termine almirall fu dunque usato originalmente in tutto il Mediterraneo, cioè dai veneziani,
dai genovesi, dagli iberici, specie dai catalani e, di conseguenza, anche dagli aragonesi,
come si può leggere più volte nei capitoli del Consolato del Mare (J. M. Pardessus. Cit.) e
nelle Croniche del d’Esclot e del Muntaner; in seguito, nel Rinascimento, sarà dovunque
sostituito da quello di capitano generale. Ciò però non significa che il titolo di capitaneus
non fosse già anch’esso usato nel Basso Medioevo, solo che allora significava comandante
non di un’intera squadra o addirittura di un’intera armata, bensì di un distaccamento
costituito da due o più galere, anche commerciali, cioè all’incirca quello che poi nel
Rinascimento divenne, specie in Spagna, il cuatralbo, ma questo solo per i vascelli militari:
… Alli 30 (agosto 1380) la Signoria (di Venezia) fece capitano di 3 galee Marco Faliero…
(Daniello Chinazzo, Cronaca della guerra di Chioza etc. In L.A. Muratori, Rerum italicarum
scriptores etc. C. 772, t. XV. Milano, 1727.)
vascello tondo, poteva anche averne due, delle quali una per dormivi e una maggiore per
tenervi consiglio. Doveva comandare che nessuno si trattenesse vicino al suo alloggio se
non i marinai di servizio o coloro da lui a ciò autorizzati e ciò perché ognuno a bordo
cercava d’esservi, specie i venturieri che volevano mettersi in evidenza ai suoi occhi,
impacciando così i movimenti dello stesso generale sino a metterne a rischio la stessa
incolumità, facendolo talvolta inciampare o cadere nelle angustie e dalle scalette del
vascello; talvolta egli, come per esempio racconta il de Bourdeilles che amassero fare il
marchese del Vasto e Andrea d’Oria quando erano insieme a bordo, se n’andava a desinare
sulla rembata avec un beau tapis de Turquie, qui luy servit de chaire à la mode de galere
(cit.).
Più tardi, eleggendosi generalmente al ruolo di ammiraglio un ufficiale generale esperto di
guerra nautica, in un numero sempre maggiore di stati europei l’ammiraglio finì per
diventare lui il comandante delle armate di mare, armate che non ebbero quindi da allora più
bisogno di capitani generali, lasciandosi il suo vecchio incarico a terra a un molto meno
influente provveditore generale. Era, quello del capitano generale (poi dunque
dell’ammiraglio), il vascello di fanò o di fanale, come si dirà poi dal Medioevo, per
antonomasia, ossia un vascello di comando ( gr. ϰατέργος ἐξουσιάτος), il quale, in quanto
tale, portava a poppa un grande fanale o lanternone (ol. lantaarn), la cui luce doveva servire
di notte da guida a tutte le altre galere dell'armata, così come di giorno la stessa funzione di
punto di riferimento e d'adeguamento era assunta dal gonfalone e dall'altre bandiere di
segnalazione (ltm. supersigna; ol. sein-vlaggen) usate appunto da una galera di comando
per farsi seguire ed emulare dalle altre; un altro vascello di comando che chiudesse di notte
la formazione con fanale acceso era talvolta usato perché i vascelli ordinari sapessero
quando stavano rischiando di restare troppo indietro; le galere ordinarie, ossia quelle che
non esercitavano comando sulle altre, dalla fine del Rinascimento portavano, in luogo di
questo grande fanale, una più piccola lanterna (cst. farol), espediente che in precedenza
avevano usato solo in tempo di burrasca per ridurre il rischio di derivare l’una contro l’altra
quando si navigava di conserva, come si evince dalla lettura del succitato Governo di
galere; ma nel corso del Cinquecento, come vedremo in un altro capitolo, gli ordinamenti di
fanaleria medioevale verranno in buona parte cambiati dal principe Andrea d'Oria.
Il vascello Reale si distingueva di giorno da una piccola bandiera quadrangolare posta sul
calcese di maestra, se a bordo era presente il sovrano, e su quello di trinchetto, se invece
era presente il generale; si distingueva inoltre dal predetto gonfalone o stendardo reale
posto davanti alla poppa e, quando in un’armata era presente questo vessillo, le galere
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Capitane delle varie squadre che costituivano l'armata medesima erano obbligate ad
abbattere il loro stendardo in segno di subordinazione e deferenza e a innalzare in sua vece
un gagliardetto quadrangolare sul calcese di maestra, in modo da poter così sempre essere
distinte dalle galere ordinarie della loro squadra e ciò perché la forma quadra dava ai
vessilli il significato del comando. Bandiere e stendardi di comando si alzavano allo spuntar
d'ogni giorno, mentre i trombettieri di bordo suonavano il motivo detto appunto all'alborata.
Una galera ordinaria portava, come già sappiamo, oltre a stendardi e bandiere di comando a
poppa anche vessilli ornamentali minori posti longitudinalmente su alberi e alte manovre e
a maggior ragione ne portavano la galera o il galeone Reale, anzi n’erano più ricchi,
ostentando così un gran numero di fiamme, gagliardetti grandi e piccoli, pennoni e
pennoncelli, recanti per lo più il disegno delle armi reali, ossia dello stemma del sovrano,
armi che, se il vascello imbarcava il principe medesimo o comunque un capitano generale
di sangue reale, potevano essere dipinte su impavesate di tessuto di lana (fr. frise) o di tela
o sul castello di prua o molto in grande sulle vele o su tutta la poppa dall'estremità
superiore del cassero giù sino alla superficie del mare; inoltre su ricchissime tende e
tendali, baldacchini e tappezzerie varie in velluti, sete e ori da usare soprattutto sulla poppa
e ciò specialmente in occasione d'ingressi trionfali nei porti o di un’armata che salpasse
contro gl'infedeli o in altre circostanze cerimoniali. Ciò era particolarmente consueto nel
Mediterraneo, dove i trionfi erano molto più ricchi e sontuosi che in qualsiasi altro mare,
come appunto all’inizio del Cinquecento ne scriveva Filippo von Ravenstein signore di
Cléves, governatore di Genova per il re Luigi XII di Francia, trattando della ricchezza di tali
ornamenti, e dove le lussuose tappezzerie delle galere Reali erano talmente grandi da
pender giù dalla poppa e dalle fiancate sino a sfiorare le acque del mare. In tali occasioni si
cercava anche di far apparire in abiti uniformi e puliti i remiganti, i quali, come già
sappiamo, vestivano tradizionalmente di rosso e di turchino, e, se poi il loro aspetto non era
presentabile, allora le suddette belle impavesate decorate con le armi reali avrebbero fatto
in modo che per lo meno da terra non li si potesse vedere. Per esempio i pavesi usati a
bordo dei vascelli borgognoni del Quattrocento erano dipinti appunto con le armi del duca
di Borgogna e cioè di bianco e blu con la croce rossa di S. Andrea e fusils d’oro e d’altri
colori, come risulta dai documenti d’archivio pubblicati nell’Ottocento dal Finot.
Un capitano generale comandava l'armata e gli arsenali anche nella stagione del disarmo,
cioè d'inverno, amministrava la giustizia di tutta la gente di mare, concedeva egli solo
patenti e salvacondotti marittimi, godeva di numerosi diritti e privilegi, tra i quali il più
importante era l' ammiragliato, vale a dire il decimo di tutte le prede fatte da vascelli del suo
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principe, sempre però che lo stesso generale le avesse prima dichiarate di buona presa,
ossia sicuramente nemiche o recanti merci di contrabbando al nemico, perché altrimenti si
sarebbero dovute restituire ai legittimi proprietari. Tali diritti e privilegi variavano
considerevolmente a seconda dei paesi, ma erano particolarmente rilevanti quelli che
godevano i capitani generali del Mediterraneo.
Dall'ammiraglio del mare del re di Spagna, titolo che diventerà sempre più oceanico e
sempre meno mediterraneo, il quale, ricoperto per esempio all’inizio del Seicento da
Filiberto di Savoia, dipendevano i capitani generali delle varie squadre e armate di quella
corona ed erano l'armata del Mar Oceano, fatta di galeoni e altri vascelli tondi e il cui
principal compito era la protezione delle flotte mercantili spagnole provenienti dalle Indie
d'oriente e d'occidente, e le cinque squadre di galere nel Mediterraneo. Tali capitani
godevano anch'essi d'importanti privilegi e, tra gli altri, quello d’aver diritto a una guardia
personale a spese della Corte, come i 12 alabardieri che toccavano al capitano generale
dello stuolo, ossia della squadra, di Napoli.
Un capitano generale, certamente di nobile famiglia come lo erano anche gli ufficiali
generali di terra, più di questi doveva essere pronto ai disagi e alle privazioni quasi quanto
gli uomini che comandava, perché il mare trattava tutti allo stesso modo e per di più in
galera, dove bisognava, tra le altre scomodità, assuefarsi al dormir male, a i cattivi odori,
come scriveva il Pantera (Cit. P. 98), alla scarsa igiene, al mal di mare, all'esiguità dello
spazio vitale, alla forzata promiscuità e alla mancanza d’acqua e cibi freschi, oltre ai pericoli
di mare e di guerra. I veneziani, a differenza di altri potentati più occidentali di stile
spagnolo in cui si dava spesso più importanza alle presuntuosità familiari che alla
competenza delle persone, cercavamo di affidare le loro armate marittime e i loro stuoli di
galee a nobili sì, ma che avessero esperienza e familiarità col mare; per esempio, nel 1297
prepararono una grossa spedizione di guerra di 95 galee e ne deputarono suo capitano
generale un Andrea Dandalo, soprannominaro il Callonato (‘lo zoccolato’; dal l. calones,
‘zoccoli’), il che fa pensare che fosse venuto su come nobile di poppa, visto che capiva
l’importanza di muoversi in galea calzando zoccoli di legno e non deperibili stivaletti di
cuoio o addirittura babbucce di tessuto (A. Dandalo, Chronicon, cit.)
Doveva innnanzi tutto essere sempre presente, cosa che raramente accadeva, come
lamentava Gioan Andrea d’Oria, soprintendente generale dell’armata di mare di Spagna,
scrivendo al re Filippo II:
Una delle cose che ha ridotto le galere di Vostra Maestà nelle condizioni in cui si trovano è
stata la lunga assenza che tutti i loro generali hanno fatto; e, poiché per questa causa
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principalmente l’armata di V. M. si trova tanto disordinata che non oso rappresentarlo, uno
dei rimedi principali per riordinarla e conservarla sarà dunque che V.M. comandi che d’ora
in avanti tutti i capitani generali di galere siano presenti e navighino in esse (Colección de
documentos inéditos para la historia de España etc. Pg. 178. Tomo II. Cit.)
Queste prolungate assenze erano per esempio causa che i viceré dei regni soggetti alla
Corona di Spagna si ingerissero indebitamente nella gestione delle squadre di galere
spadroneggiandovi a loro piacimento (Ib. P. 182). Un’altra condizione molto negativa che
travagliava allora le galere di Spagna era l’abituale gran ritardo del denaro destinato alle
paghe e alle loro spese generali, ma trattandosi di aspetti finanziari della materia militare,
aspetti nei quali oltretutto bisognerebbe molto dilungarsi, tralasciamo di trattarli. Un buon
generale di mare doveva esercitarsi nelle guerre terrestri per lo meno sino ai 35 anni e solo
dopo passare a quelle di mare, insegnamento questo che si poteva leggere anche negli
antichi testi greci e romani; così aveva fatto Andrea d'Oria, venuto anzi a comandare sul
mare quando aveva ormai superato i 45 anni e così fecero suo nipote Filippino e l'altro suo
parente Antoniotto d'Oria, ambedue ottimi capitani generali; da ciò risultava che gli
armiragli e gli ufficiali generali cristiani in generale fossero più portati alla guerra navale
d'ordinanza, mentre quelli turco-barbareschi si esercitavano per lo più sul mare sin da
ragazzi e quindi erano più versati nella guerra di corso; così era stato infatti per il
Barbarossa, il quale sin da piccolo aveva navigato con suo fratello maggiore Baba Arouj,
audace corsaro anche questo e del quale presto diremo. Facevano eccezione nella
cristianità i generali di mare veneziani, i quali, similmente a quelli barbareschi che andavano
in corso sin da fanciulli, spesso erano esercitati nel mare sin da giovanissimi come nobili di
poppa e si ricorda a tal proposito il già menzionato veneziano Girolamo da Canal detto il
Canaletto, proprio come il più tardo preclaro pittore, il quale divenne sovraccòmito a soli 20
anni, perché il padre Cristoforo se lo era portato sulla sua galera come nobile di poppa sin
dalla sua tenera età di quattro anni e pertanto soleva dire scherzosamente del figlio che ‘lo
aveva allattato col biscotto’. E che ritenesse ciò cosa molto utile al comando marittimo egli
lo sostenne anche nel suo da noi già citato trattato con la seguente affermazione:
... (per) formare un capitano marittimo, dico che colui che dalli anni teneri haverà
lungamente patito caldo e freddo nelle galee armate sarà molto atto a governare e condurre
un’armata vittoriosa per i mari. (Cit. P. 183.)
Il da Canal era uomo non solo di esperienza ma anche di tradizioni belliche marittime
familiari; un suo antenato, Leonardo da Canal, si era infatti molto distinto sia nella famosa
‘Guerra di Chioggia’, combattuta tra Venezia e Genova neglianni 1378-1381, sia anche in
seguito. Invece, secondo Francesco Maria della Rovere il Vecchio (1490-1538), primo duca
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d'Urbino, questo era proprio il principale motivo per cui le armi marittime della Serenissima
avevano avuto sino ai suoi tempi così tante volte la peggio contro quelle ottomane, cioè la
mancanza d’una vera esperienza militare dei suoi capitani, esperienza che si poteva allora,
secondo lui, acquisire solamente nel servizio di terra e della quale non avevano bisogno i
generali turco-barbareschi sia perché l’andare in corso insegnava cose molto più utili alla
guerra di mare di quanto facesse la normale milizia marittima sia perché d'altra parte, dato il
modo disordinato di combattere dei turchi, di buona ordinanza nei loro eserciti di terra nulla
avrebbero potuto apprendere (Discorsi militari etc. Ferrara, 1583). In realtà che un corsaro
famoso diventasse capitano generale accadeva non di rado e si potevano ricordare a
questo proposito il sanguinario calabrese Giovanni Stirione, fatto appunto capitano
generale dai bizantini nel 1198 e mandato con un’armata di trenta vascelli, il cui nerbo era
però costituito da galee mercenarie pisane, a combattere il corsaro genovese Ugo Caffaro, il
quale l’anno precedente si era messo a razziare le isole dell’Egeo con quattro galee tra
biremi e triremi e poi, dopo i successi iniziali, anche con altri vascelli; lo Stirione alla fine lo
sorprese, lo vinse e lo fece uccidere, come leggiamo nel Storie di Niketas Koniatos, laddove
questi scriveva del tempo dell’imperatore bizantino Alessio Comneno (l. II).
I veneziani dunque, più che buoni generali di mare, con i loro sistemi allevavano solo dei
buoni navigatori; e che così fosse lo dimostra la considerazione che, nonostante la ricca
Venezia fosse in grado di mettere in mare in un sol colpo armate anche d’un centinaio di
galere, non riuscì mai, dopo il Medioevo, a dare da sola un colpo decisivo alla potenza
marittima ottomana e dovette farlo poi a Lepanto con l'aiuto determinante dei ponentini. In
effetti, buoni navigatori e ottimi mercanti, acuti osservatori e consumati politici, i veneziani
non risultarono quasi mai eccellenti combattenti campali, probabilmente perché la
Serenissima, avendo scelto - così come aveva del resto fatto anche la Francia - di affidare la
sua difesa a una cintura d'inespugnabili fortezze e non avendo inoltre mire
espansionistiche in Italia, poco sempre aveva curato l’esercizio e la combattività della sua
fanteria, in ciò differendo invece dai transalpini in quanto la corona di Francia era sempre
stata sin troppo espansionistica; in mare riuscivano a tener abbastanza a freno gli appetiti
imperialistici degli ottomani rendendoli consapevoli del mutuo vantaggio di trafficare e
negoziare con loro e con la continua minaccia del ricorso alla costituzione della lega
cristiana contro di loro, minaccia che Lepanto dimostrò poi esser molto concreta. Forse il
segreto del millenario impero di Venezia fu proprio questo suo anti-eroismo oligarchico,
come giustamente scriveva il Levi:
676
... Venezia non ebbe mai grandi ardimenti, quegli ardimenti, ripeto, che si possono avere da
un principe solo e che possono indurre a grandezza somma od a rovina [...] La oligarchia
veneziana odiava i vittoriosi, temeva che un patrizio trionfante cesarizzasse, distraeva
(quindi) i migliori dalle armi e chiamava straniere soldatesche, stranieri istruttori, stranieri
comandanti [...] Venezia fu sempre così, duole il cuore a dirlo ad un veneziano, odiò sempre
gli animosi... (Cesare A. Levi. Cit.)
Forse li odiava, ma è certo che, quando i suoi generali di mare mostravano inettitudine o
troppo poco ardimento, li esautorava e, in caso di procurati danni alla repubblica, anche li
processava e condannava senza pietà, come in qualche caso vedremo. In realtà la storia ci
racconta che nelle grandi battaglie marittime e nelle strenue difese di fortezze assediate i
veneziani dimostrarono spesso più del semplice ardimento, dimostrarono cioè sempre
grande abnegazione e coraggio e tanti episodi - come per esempio Lepanto, Famagosta, il
caso del galeone del Bondumier di cui abbiamo già detto - lo attestano inequivocabilmente;
comunque è chiaro che la loro principale inclinazione mercantile inquinava notevolmente la
reputazione bellica che si aveva di loro e, tanto per fare un esempio molto importante, i loro
vascelli mercantili non si difendevano quasi mai in maniera dignitosa quando erano assaliti
dai corsari perché i mercanti, per mantenere le loro merci a prezzi competitivi, assoldavano
generalmente per pochi soldi equipaggi fatti di gente di infima qualità e di fanciulli ancora
inesperti del mare, come ben spiegava Franciscus Savary de Breves nella sua relazione
diplomatica (Relation des voyages etc. Parigi, 1630.). Per tal motivo, quando si vedevano
assaliti, spesso sparavano subito bordate di cannonate contro gli assalitori sperando di
metter loro paura e di farli desistere; ma, se quelli ciò nonostante proseguivano l’assalto,
subito s’arrendevano cercando così di salvare il salvabile (ib.)
Questo non significa che gli ufficiali generali di mare veneziani non avessero una buona
reputazione; per esempio nel 1496 il capitano generale Marchionne Trivisan, a seguito di
una richiesta in tal senso inviata al suo Senato dall’allora alleato re Ferrante d’Aragona, fu
incaricato di andare a Napoli a rimettere a posto la dissestata e malconcia squadra di galere
di quel regno (M. Sanuto, Diarii. T. I, col. 215), cosa che fece.
Ma, per restare in tema di mitezza politica dei veneziani, racconta il Sereno nei suoi
Commentarij che nell’estate del 1571 quelli che nell’armata della Lega cristiana erano
contrari a venire a battaglia con i turchi solo per difendere gl’interessi di Venezia, sapendo
quanto questa fosse sempre pronta a trattare poi paci poco onorevoli, facevano le seguenti
osservazioni:
… Che i veneziani, per natura nemici di combattere, avvezzi molto nei perigli d’altri di starsi
in pace a vedere, ora per necessità, mutando natura, ne’ lor proprij perigli stimolavano gli
altri alla battaglia, poi che, ridotti in estrema miseria, si veggono rovinati: che, conoscendo
677
essi quello che loro importi l’aver guerra col Turco, saranno sempre per antiporre la pace,
quantunque disonorata, quantunque di condizioni intollerabili, a quanta riputazione, a
quanto comodo la guerra possa dare alla Lega, se ben ora dalla necessità costretti,
persuadano i primi di combattere… (B. Sereno. Cit. P. 144.)
Premesso che i veneziani, anche se poco inclini alla guerra, quando poi ci si ritrovavano si
comportavano generalmente con coraggio e granxde spirito di sacrificio personale, cosa
che invece non si poteva sempre dire dei genovesi, i loro suddetti detrattori avvaloravano
senza volerlo queste loro non riconosciute doti belliche quando aggiungevano che i
lagunari spingevano alla guerra inconcepibilmente, cioè pur essendo consapevoli che la
Lega poteva avere sino a un terzo di meno delle galere che invece poteva mettere in campo
il Sultano di Costantinopoli e che le navi di cui i cristiani disponevano non potevano certo
sostituire in battaglia le galere, visto che i loro movimenti dipendevano solo dall’avere il
vento a favore e nel passato questa loro troppo frequente inutilità in combattimento si era
dimostrata più volte; sapevano che le loro proprie galere si erano presentate alla Lega
guarnite di pochissimi soldati e che, a differenza dell’armata turca, la quale aveva
combattenti ben motivati ed esercitati al mare, i fanti sia spagnoli che italiani dell’armata
erano per la maggior parte bisoños, ossia reclute inesperte, e che quelli tedeschi pure
imbarcati erano, come ben si sapeva, poco adatti alla guerra di mare perché dotati di poca
archibugeria e inoltre perché molto sofferenti di mal di mare:
… I tedeschi, freddi, pigri e del tutto inutili al mare, i quali, non come soldati con numero (di
nemici) pari atti a combattere, ma come pecore da lasciarsi senza contrasto scannare, non
daranno altro che impaccio… (B. Sereno. Cit. P. 145.)
Nei Diarii di Marin Sanuto leggiamo di un tentativo fatto dal cosiddetto Re de’ Romani, cioè
l’imperatore Massimiliano d’Asburgo, di imbarcare anche soldatesche austriache sulle navi
genovesi da lui nel 1496 noleggiate in Liguria in funzione anti-angioina:
… Il re messe suso molti alemani, li quali però, ogni poco di marizada, se intorbavano (Cit.
T. I, col. 362).
I soldati teutonici erano anche molto difficili da controllare a causa dei loro due principali
vizi nazionali, cioè la crapula e l’avarizia; infatti così il 31 luglio del 1571 scriveva da Napoli
al suo senato il già più volte citato Bonrizzo a proposito dei due colonnelli di fanteria
tedesca, cioè quelli d’Albrich von Loden e di Sigismondo Gonzaga per un totale di più di
seimila uomini, che s’attendevano in quella città per farli poi proseguire per Messina, porto
dove si stava raccogliendo la grande armata che avrebbe poi vinto a Lepanto, a bordo di 13
galere napoletane che già stavano caricando viveri e munizioni:
678
… Su esse saranno imbarcati i fanti tedeschi non appena giungeranno dalla Spezia, così
perché siano pronti alla partenza come anche per evitare che, scendendo a terra e
mangiando e bevendo a crepapelle, s’ammalino… (N. Nicolini. Cit.)
Quindi quanto solo dalla disperazione e non dalla ragione dovevano esser spinti i veneziani
a cercare quell’anno la battaglia! Però fortunatamente per tutta la cristianità d’allora e
d’oggi questo partito dei disfattisti non l’ebbe vinta e si arrivò così a quella provvidenziale e
luminosissima vittoria che fu Lepanto. Una pace rinunziataria sarà però effettivamente
presto conclusa col Gran Turco dai veneziani, pace con cui essi infatti, non solo
s’impegnavano a pagare ai turchi pesanti danni di guerra, ma anche riconoscevano tutti gli
acquisti bellici da loro fatti mentre rinunziavano a quelli propri; ma essi si giustificarono poi
con argomenti di real politik e, come esempio di questa, ricordavano la tregua conclusa con
i turchi nel gennaio del recente 1568 dall’imperatore Massimiliano, certamente tanto più
potente di Venezia, il quale, nonostante i turchi avessero sottratto al suo imperio tanti
territori, aveva anche lui finito per firmare un armistizio che non era altro che una presa
d’atto delle gravi perdite subite:
… Fu questa pace in Costantinopoli conchiusa del mese di marzo l’anno del 1573, le cui
condizioni, non dalla ragione, ma dalla fortuna dispari accordate, furono tanto a’ veneziani
dannose che per più di due mesi da poi, vergognandosene, non le vollero publicare; anzi,
quando nel lor consiglio de’ Pregati furono lette perché col consenso di quello fossero
stabilite, tante contradizioni trovarono che, essendo i voti pari, per una sola balla ottennero
d’essere accettate. (B. Sereno. Cit. P. 331.)
Era il 20 aprile 1573. Probabilmente il real bastardo ne fu invece contento, visto che nelle
delizie di Napoli altro fuoco che quel della guerra l’animo giovanile di don Giovanni havea
scaldato… (Ib. Pp. 328-329), ma dovrà di lì a pochi mesi dedicarsi all’impresa di Tunisi e
quindi rinunziare ugualmente al fascino conturbatore delle belle sirene partenopee, cioè a
quella stessa consumata e calcolata malia che nel passato aveva sempre infiacchito gli
eserciti che avevano conquistato Napoli, tanto da far dire a Carlo VIII, com’è noto, che i
napoletani, invece di far la guerra con le armi, la facevano con le loro femmine! Non si
trattava comunque di quella pura e semplice disponibilità sessuale offerta, per esempio,
dalle donne dell’isola di Milo, le quali in tutti i tempi, è noto, non sono state mai avare dei
loro favori, scriveva il Digby; l’inglese, come il re di Francia da Napoli, aveva dovuto portar
via i suoi uomini da quell’isola:
… il luogo infatti offriva tali occasioni di dissolutezza che avevo per esperienza provato
quanto fosse difficile tenervi a freno gli uomini… (Sir Kenelm Digby. Cit.)
Invece, per quanto riguarda la bellezza pura del volto, erano famose - allora come anche
oggi - le donne persiane; ecco infatti che cosa si dice nella già citata relazione veneto-
francese del 1620 che elenca le autorità, i diplomatici e gli ospiti stranieri che il 24
novembre 1619 assistevano ai festeggiamenti per la circoncisione del giovanetto Amurat,
figlio del sultano Ahmei:
… plusieurs gentilhommes (persiani)… ils menoyent avec eux plusieurs filles et femmes qui
estoient richement vestuë et supernaturellement belle… Les persiennes emportent le pris
d’estre les plus belles du Levant ; aussi le grand Alexandre ne voulut point voir les filles de
Cirous roy de Perse, de peur d’en estre espris pour leur trop grand beauté. (In Les
cérémonies, magnificence, triomphe etc. Cit.)
A Lepanto, tra le tante deficienze che manifestò l'armata ottomana, venne fuori anche quella
di comando dei generali di mare turchi che avevano da qualche tempo sostituito quelli
barbareschi, come già nel 1560, di ritorno da Costantinopoli, aveva spiegato il bailo Marino
Cavalli:
... Il generale (dell'armata di mare) poi si cava quasi sempre dalli schiavi usciti dal serraglio
proprio del Gran Signore, che sono amorevolissimi, fedelissimi ed obbedientissimi; e, se
bene non sieno mai stati in mare né sappiano quel che siano le galee, non si resta però di
dar loro il generalato, quando però si conoscano fedeli, prudenti e non sbaragliosi
(‘temerari’) come Barbarossa e Dragut, i quali con il lor troppo ardire hanno perso molte
galee e fatto dormire molte fiate inquietamente il Gran Signore. (E. Albéri. Cit. S. III, v. I, P.
295)
680
Il capitano generale del mare non sempre era a bordo della sua armata, bensì solo quando
l'impresa da tentare era degna di lui e ciò valeva anche per quello dell'armata ottomana,
come ci spiega il bailo Costantino Garzoni (1573):
... Ha il Capitano di mare carico del governo di tutta l'armata - non dell'imprese che si hanno
da fare, poiché questo si aspetta al Bascià-visir (‘primo ministro’), se bene è messa sempre
in considerazione l'opinion sua - e ordinariamente si suol mandare sopra l'armata quando si
ha da fare alcuna impresa importante. Riceve il Capitano del mare, al partire di
Costantinopoli, il comandamento del Gran Signore in una carta rinchiusa, la quale egli non
apre se prima non ha passato con l'armata i Dardanelli. Questo costume è introdotto acciò
che più quiete e più segrete passino le imprese che si hanno a fare. (b. S. III, v. I, p. 425.)
Nel 1562 il più volte già citato segretario Marc'Antonio Donini descriveva il carattere di
Rostan Pasha detto Pialì, genero del futuro sultano Selim II e beglierbeg del mare, ossia
capitano generale del mare dell'impero ottomano, il quale verso il 1556 aveva sostituito in
questo carico Sinan Pasha e ogni anno, affiancato dal solito Torgud, il quale comandava la
sua avanguardia, aveva poi portato fuori l’armata devastando gli abitati dell’Italia
meridionale fino al canale di Piombino, attacchi tra i quali si ricordano quelli a Sorrento e
alla solita disgraziata Reggio:
... Sua Signoria (Pialì Pasha), se bene sempre che è uscita fuora con l'armata è ritornata
vittoriosa e specialmente della impresa del Zerbi (battaglia dell'isola delle Gerbe, 1560),
dove però fu in manifestissimo pericolo di perdere tutta essa armata, non di meno deve più
presto essere chiamata fortunatissima che di molto valore, non avendosi sin’ora potuto
accommodar più che tanto alle cose del mare né aver quella pratica e intelligenza che si
richiederebbe ad un capitan generale per essere molto timida. Ha però buonissimi
consiglieri che gli levano il peso di molte cose spettanti al carico suo; mangia dell'oppio per
ritrovarsi alle volte libera da ogni pensiero e travaglio e specialmente del mare. É di nazione
unghero e di anni 37 incirca, di natura piacevole e umana e di mediocre intelletto. (Ib. S. III,
v. III, pp. 188-189.)
Il già citato Quarti riporta che Pialì infante era stato trovato nudo e abbandonato in un
fossato dai cani del sultano Sulaiman in Ungheria, quando l’invase la prima volta, quindi dal
1521 in poi. La scarsa considerazione che gli osservatori veneziani avevano di questo
kapudan pasha è ribadita nella relazione del bailo Jacopo Ragazzoni, la quale è del 1571 e di
pochissimo antecedente allo scontro dei Curzolari:
... Pialì, terzo bascià, è di nazione ongaro, d'età di anni quarantacinque, persona né di molto
valore né di molta prudenza. (G. A. Quarti. Cit.)
In effetti, dalle Gerbe in poi, Pialì cominciò a perdere anche la sua fortuna bellica, perché,
inviato con Mustafà Pasha, generale delle forze di terra, nel maggio del 1565 da Sulaiman
alla conquista di Malta, isola donata ai cavalieri di S. Giovanni di Gerusalemme nel 1530,
681
essendo allora semi-deserta, insieme con la città di Tripoli, fallì l'impresa, come già una
volta era fallita ai turchi nel 1551, quando cioè il kapudan pasha Sinan, coadiuvato da
Torgud, aveva assalito l’isola con 90 galere, 50 tra fuste e galeotte barbaresche, due maone
e un galeone forniti dai figli del Barbarossa, 10mila soldati tra cui 3.500 giannizzeri e 60
pezzi d’assedio; e ciò sebbene il sultano gli avesse ora messo a disposizione una ben più
formidabile armata, costituita cioè da 142 galere, tra cui 10 della Guardia di Rodi capitanate
da Alì Pertev e due di quella di Metelino, 30 galeotte, otto maone, quattro caramussali, dei
quali uno però presto affondò nelle acque di Napoli di Romania portando con sé 700
giannizzeri e 6mila barili di polvere, e inoltre 11 navi grosse e gran numero di naviglio
remiero minore, quali bergantini, fuste, fregate e battelli, artiglierie d’assedio, tra cui uno
smisurato basilisco, e quasi 80mila uomini, tra cui 39mila combattenti; questi ultimi erano la
somma di 7mila sipahì timarioti, ossia cavalleggeri provinciali, condotti dal sangiacco della
Natolia, 1.500 da quello della Morea, 500 da quello di Caramania, 500 da quello di Metelino e
inoltre di 5.500 giannizzeri, 20mila servi della gleba mediorientali e 4mila alcanzì, ossia
avventurieri. Nel marzo precedente il quarto marchese di Villafranca Garcia de Toledo,
allora viceré di Sicilia e inoltre capitano generale dell’armata spagnola del Mediterraneo
(1565 -1568), nomine che aveva entrambi ricevuto da Filippo II già nel 1564, era partito da
Messina con 36 galere di Sicilia, Napoli, Firenze e Spagna, sulle quali aveva fatto caricare
ben 3.600 salme di frumento fresco, quindi 100 a galera, per andare a imbarcare sulla riviera
ligure fanteria spagnola e portarla a rafforzare Malta e la Goletta di Tunisi, entrambe
minacciate dall’incombente uscita in campagna della suddetta armata turca, e tali galere,
giunte poi a Malta il 9 aprile, sbarcarono rifornimenti e un numero imprecisato di fanti sulla
marina di quell'isola detta Le Pietrenere e successivamente, durante la Settimana Santa,
altre provvisioni e quattro compagnie dei predetti spagnoli alla Goletta; infatti il 18 maggio
successivo si presentò a Malta la predetta armata di Pialì e Mustafà, la quale ricevette
presto il rinforzo d’Uluch-Alì, il quale portava sei galere e 900 soldati turchi della guardia
d’Alessandria, e di Torgud, governatore di Tripoli e Gerba e beglerbegi d’Acarnania, il quale
guidava allora invece 12 o 13 galere, 3 maone e un buon numero di soldati turchi di quella
città; quest’ultimo, appena arrivato, disse che non si meravigliava che da tanto tempo
ancora non si fosse preso il forte di S. Hermo, visto che la batteria con cui lo si stava
battendo era stata posta tanto erroneamente lontana dalle mura, e quindi, mentre dirigeva di
persona l’accostamento di tale batteria, fu colpito alla testa da una scheggia di pietra
provocata da una palla dell’artiglieria nemica e morì; il de Bourdeilles s’era sentito fare il
racconto di questa morte proprio dal gran maestro Jean de la Vallette:
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… ainsi que j’ay oüy dire à monsieur le Grand Maistre, qui fut tres-aise de sa mort et à qui
j’ay veu louër beaucoup ce Dragut…(P. de Bourdeilles. Cit.)
Il forte predetto, principale baluardo di quei coraggiosi e valorosissimi cavalieri, sarà poi
espugnato dagli ottomani il 24 giugno, festa della natività di S. Giovanni Battista:
… Li turchi con barbara e natural fierezza (‘ferocia’) usarono ogni strazio e crudeltà con
quanti ritrovarono vivi in S. Ermo, strappandoli i cuori e sbranandoli; così parimente
presero trenta cavallieri con le teste troncate, sparati (sic; spirati?) in croce con le viscere
pendenti e con le sopravesti ligati ad ordine (‘in serie’) in una lunga trave, li buttarono in
mare, li quali, portati dalla corrente dell’acque dentro il porto interiore (‘la darsena’), furono
sepelliti con molte lacrime. Per questa inescogitata crudeltà comandò il Gran Maestro a’
governatori delle fortezze che non facessero niun prigione, ma che, avendoli prima ricavato
alcuna cosa di bocca, li scannassero, facendo in quell’istante fare l’istessa morte a quanti
turchi si ritrovorno presi… (Gioseppe Buonfiglio Costanzo. Cit. Parte II. P. 191.)
Intanto, sotto il comando del predetto Garcia de Toledo e con la massima lentezza, si
preparava a Messina un’armata di soccorso; il de Toledo, mentre attendeva colà che si
completasse la massa delle galere, si preparava anche facendo costruire chiatte (l. plactae)
da batteria e reti di corda da stendere sulle galere, in modo da formarvi come dei ponti aerei
che sostenessero altri soldati, a imitazione quindi dei bertoni di ponente, inoltre inviava
ogni tanto qualche squadriglia di soccorso a Malta; infatti dapprima inviò Juan Francisco de
Cardona con quattro galere e 700 soldati, tra cui il mastro di campo Melquior de Robles con
200 spagnoli del suo terzo fisso di Sicilia ed 80 cavalieri giovanniti, galere che, dopo aver
penato per qualche tempo a causa del maltempo che le spingeva lontano da Malta, alla fine
raggiunsero l’isola e sbarcarono il loro soccorso in località Pietra Negra, detta dai maltesi la
Melecha, soccorso che marciò occultamente di notte sino a riuscire il 29 giugno a entrare
sano e salvo nel borgo assediato:
… solamente sul far del giorno fu preso il comendator don Gieronimo di Gravina cattanese,
per non haver potuto marchiare in fila con gli altri per la molta pancia e per la vecchiaja e
per non volersi disarmare la corazzina (‘togliere la pesante corazzina’) qual molto ricca e
bella havea in dosso. (Ib. P. 192.)
Un secondo soccorso tentato più tardi dalle quattro galere del de Cardona che portavano
altri 600 fanti spagnoli, pochi italiani e molte munizioni e vettovaglie fallirà il suo intento,
non riuscendo a sbarcare gli aiuti trasportati per le molte guardie ora predisposte dai turchi,
mentre un sostanzioso rinforzo arrivava invece ai turchi per l’arrivo del beglerbegi d’Algeri
Hassan Pasha, figlio del Barbarossa, alla testa di sette galee grosse, molte galeotte e
bergantini e duemila turchi, in maggior parte rinnegati; un terzo soccorso anche fallirà e si
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tratterà delle due galere maltesi che erano a Messina, le quali portavano molti di quei
cavalieri giovanniti e soldati ed erano accompagnate da due fregate, una delle quali, guidata
dal conosciuto piloto detto padron Orlando, fu catturata dai turchi. Frattanto Garcia de
Toledo, invece d’affrettare la partenza della sua armata, procedendo con la consueta
flemma (Ib. P. 561), se ne stava in Messina dedito a infiniti preparativi:
… Quivi don Garzia stupiva il Mondo (‘tutti’) per gli apparati grandi, fabbricando barche e
intessendo reti e togliendo da’ padroni tutti li schiavi ch’erano in Sicilia, fuor che da
Messina, atti a remare e così parimente tutti li carcerati, li quali, come gente incavezzata al
disagio e alle fortune di mare, s’ammalò e morì (‘s’ammalarono e morirono’) poi nelle
carceri con mirabile spettacolo. (Ib. P. 194.)
Finalmente il 7 settembre – però con un notevole ritardo che qualcuno infatti in seguito
stigmatizzerà – il de Toledo sbarcherà a Malta con tutta la sua armata, forte di 63 galere,
provocando così inopinatamente la fuga tutta l’armata turca e liberando l’isola da un
assedio di tre mesi e 17 giorni, il quale però, a dire la verità, non sembrava comunque
destinato al successo.
Un altro simile insuccesso ebbe Pialì poco più tardi, quando Sulaiman, pochi mesi prima di
morire, decesso avvenuto nel settembre del 1566 all’età di 76 anni, forse per fargli ritentare
l’impresa di Malta fallitagli l’anno precedente, gli affidò un’altra armata, questa di160 galere
e una moltitudine di galeotte, palandarie, fuste, schirazzi, caramusalini e altro naviglio per
un totale di 350 vele, armata che però finirà per andare a dannificare la costa pugliese e a
occupare l’isola di Scio, feudo della famiglia genovese Giustiniani sin dal 1346, ossia si
ridurrà a obiettivi molto più modesti e ciò è dimostrato anche dalla presenza, nell’ottobre, di
Uluch-Alì con 5 galere nelle acque delle Bocche di Bonifacio, dove, affrontato da quattro
galere toscane capitanate da Jacopo d’Appiano, perde due delle sue, perde un gran numero
di combattenti e di remieri cristiani liberati ed è costretto a salvarsi con la fuga.
Probabilmente a distogliere i turchi da Malta era stato questa volta risolutivo, più che l’ostile
presenza in mare di Garcia de Toledo con 80 galere, le nuove fortificazioni di Malta costruite
nel frattempo in gran parte a spese della Chiesa, il rifornimento di vettovaglie e il rinforzo
cautelativo di 10mila fanti comandanti dal marchese di Pescara (l. Pischeria) che v’erano
stati portati alla fine del precedente giugno da 50 delle suddette galere cristiane capitanate
da Gioan Andrea d’Oria; il marchese si trattenne nell’isola finché non fu passata la stagione
che poteva far temere dell’armata nemica. Si rifarà Pialì però alla guerra di Cipro, ossia nel
triennio 1570-1573, quando, sempre in qualità di capitano generale di mare unitamente
all’altro kapudan pasha Alì, lo sconfitto di Lepanto, e sotto il comando generale di Mustafà,
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il quale esercitava in quel periodo anche quello particolare dell’esercito di terra insieme a
Pertev Pasha, parteciperà alla crudele e sanguinosa conquista di quell’isola, sottraendola
così per sempre al dominio veneziano.
Del tutto diversi saranno i giudizi che si daranno del già ricordato Uluch-Alì, al quale dopo
Lepanto era stata data la nomina a capitano generale e il compito di ricostruire velocemente
sia l'armata di mare ottomana sia il suo perduto prestigio; in una sua relazione al suo
senato del 1573 il messo veneziano Costantino Garzoni descriveva dettagliatamente
l'ostilità e la maleducazione con cui questo rinnegato calabrese d'umilissima origine aveva
accolto un’importante e folta ambasceria della Serenissima inviata quell'anno a
Costantinopoli a trattare la pace e, volendo spiegare quella rustichezza, narrava in breve la
storia d’Uluch-Alì e così lo descriveva:
... L'Ucchialì, che significa 'Alì rinnegato', è di nazione italiana e di provincia calabrese, di
sangue bassissimo. Fu preso sopra quelle rive da Dragut e tenuto sulla sua galea assai
tempo al remo. Costui, essendo venuto a parole con un altro schiavo christiano e avendo
da esso ricevuto uno schiaffo, si risolse per disperazione a farsi turco e, facendo intendere
questo animo suo al suo padrone, procurò di essere accettato; ma, per essere egli infermo
e quasi inutile, furono lasciati passare alcuni giorni senza ritagliarlo (‘circonciderlo’); pur
finalmente, dopo lunghe preghiere e molti protesti, lo ammesse nella sua setta, non
liberandolo però dal remo. Dopo lunga servitù fu fatto 'reis' e, con alcune occasioni che gli
si appresentarono, venne in qualche stima appresso Pialì Bascià, col favore del quale è
giunto tanto innanzi negli onori che ora tiene il generalato del mare, grado non meno
onorato che importante.
É costui d'età di cinquantacinque anni, di statura mediocre e assai proporzionata e
disposta, di pelo negro con la barba assai folta, non molto lunga e alquanto canuta, di
carnagione bruna e di faccia veramente virile. Ha una ferita sopra una mano, datagli una
volta a Scio dai proprij schiavi che gli menarono via la sua galera; è di complessione
collerica e malinconica, molto intendente delle cose marittime, essendo stata sempre quella
la sua professione.
É molto amato dal Gran Signore (Selim II) [...] e bisogna ben dire che è veramente degno di
esser tenuto caro dal suo principe, poiché egli è quello che ha rimesso in piede la milizia di
mare dopo la rotta della sua armata (a Lepanto) ed ogni giorno attende con tutti li suoi
assiduamente all'arsenale, dove ha posto buoni ordini con prestezza e risparmio e merita
nome di indefesso nel servizio del suo principe. L'Ucchialì è fatto ricchissimo per il governo
avuto in Algeri, ma assai più ricco (ora) alla sua armata, dove ha commodo di rubare a'
nemici e alli suoi proprij; ha costui maggior numero di schiavi christiani di tutti li Bascià e
del Gran Signore medesimo e si dicono ascendere a milleottocento. (E. Albéri. Cit. S. III, v. I,
pp. 383-384.)
Tre anni più tardi, ossia le 1576, il bailo Marc'Antonio Tiepolo aggiungeva di lui:
... La cura di questa armata (turca) è tutta commessa al Capitano di mare, il quale al
presente è Uluccialì di nazione calabrese, schiavo e tenuto al remo qualche anno, che poi,
rinegando, è asceso a tanta stima di savia e di ardita persona che non ha alcuno il Gran
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Signore cui più creda in questa materia che a lui, avendogli accresciuta la reputazione la
fazione della Goletta e di Tunisi (23 agosto 1574), nella quale confessa ognuno lui aver
sbaragliata (‘messa a repentaglio’) non solo la vita, ma sparso molto danaro (proprio),
perché con quello più vivamente sottentrasse la gente a tutti i pericoli; e l'istesso Sinan,
che, come Bascià, fu capo all'impresa, non ha rispetto (‘ritegno’) di preporlo a sé stesso.
(Ib. S. III, v. II, pp. 150-151.)
... La provisione di costui è cinquecento aspri, che sono dieci scudi il giorno, con 'timaro'
(‘rendita feudale’) di più d'altrettanto. Appresso a questo, ha in governo Pera, Gallipoli e sei
sangiaccati, che sono Rodi, Metelino, Scio, Lepanto, Negroponto e Prévesa, da' quai luoghi
cava non piccola utilità, toccando a lui mandare i 'subascì' e gli altri officiali per governarli,
che è tutto quello che in tempo del non uscire l'armata può avere di beneficio dal Gran
Signore, benché vi si possa pur aggiunger anco qualche altra cosa per qualche (suo)
schiavo che può impiegare al lavoro nell'arsenale, pagato un tanto il giorno che torna in
borsa a lui, che è però (‘perciò’) qualche cosa.
Ma questo è niente rispetto a quell'utile che riceve armando (l'armata di mare) il Gran
Signore, perché, se egli arma, è (Uluch-Alì) padrone di tanto imperio quanto tiene il Gran
Signore nel mare e si sottrae dall'ubidire e inchinare i Bascià della Porta. Se arma, (Uluch-
Alì) impiega duemila e cinquecento schiavi, che sono suoi, nelle galee, per i quali si
esborsano a lui venti scudi per ciascuno che, nel far armata, si esborsano a' galeotti
(salariati), onde, uscendo l'armata, oltre l'avanzo solito a fare nel biscotto e nel pagamento
degli aspri per giorno, dando loro (ai galeotti’ solo) quel tanto che più gli piace, viene ad
imborsare ottantamila scudi in quel tempo, oltra quel che guadagna risparmiando la spesa
che gli converria fare non impiegandoli al remo, non potendo tenergli (‘tenerli’) tutti al
lavoro nell'arsenale, che non è poco.
Finalmente, se arma il Gran Signore, non torna l'Uluccialì mai senza bottino, sicché in tutti i
modi il suo interesse è 'sì grande che non può se non consigliare, quando vien dimandato,
che pur si armino molte galee e che si assaltino christiani. (Ib. Pp. 151-152.)
Ma tutto ciò non basta al parvenu calabrese e molto ambizioso e allo stesso tempo
pericoloso per la Spagna è il suo recondito progetto politico:
... E, perché non pare a lui poter guadagnar molto, guerreggiando il Gran Signore con la
Serenità Vostra, non inclina alla guerra contro di Lei, ma si bene contra il re di Spagna e in
quella parte dove egli stima poter fare meglio li fatti suoi, che è contra Orano, luogo del re
Filippo (II di Spagna) nella parte dell'Affrica in Barbaria di rincontro alla Spagna; perché,
pensando di presto pigliare quel luogo, giudicaria poter poi correr a voglia sua tutto il paese
dell'Affrica, che, sendone - come speraria - fatto universale e solo capo, si faria grandissimo
comandando e reggendo quasi assoluto tiranno di quei paesi; e, per inanimar (a quella
impresa) il Gran Signore, facilita grandemente il fabricar altre galee in quei luoghi, onde,
non bisognando far venire l'armata da parte così lontana come al presente, fa tremare la
Spagna e forse anco potria ridurla al termine che si trovava, già qualche tempo, gran parte
in mano de' mori. (Ib. P. 152.)
686
Nel 1583 un’altra relazione, quella del bailo Paolo Contarini, aggiungerà nuovi particolari
della personalità del parvenu calabrese:
... É questo capitano del mare d'età di più di settanta anni, di natura fortissima e robusta,
disordinatissimo e specialmente nelle cose veneree e per questa causa, d'amico e figliuolo
che teneva Assan Bassà, per occasione di un giovane, gli è diventato inimico ed è stato
quello che gli ha procurato la rovina sua... (Ib. S. III, v. III, p. 224.)
L'età data dal Contarini non concorda per nulla con quella precedentemente indicata con
più precisione dal Garzoni, ma è più probabile che fosse più vicina alla verità quella data da
quest’ultimo in quanto, come vedremo, sappiamo con certezza da una già citata relazione
franco-veneziana del 1619 che Uluch-Alì era, anche se ormai quasi centenario, in quell’anno
ancora vivo; nonostante la sua sopravvenuta ostilità nei confronti di Hassan Pascìa, dovuta
quindi a motivi di gelosia pederastica, quest'ultimo, rinnegato veneziano che con il grande
favore del suo padrone Uluch-Alì era diventato a trent’anni signore d'Algeri, e da non
confondersi con i suoi omonimi già ricordati, gli subentrerà, come presto vedremo, nel
generalato del mare. Il Contarini così continua:
... Ma per la sua professione è da Sua Maestà molto amato, parendole non aver nel suo
imperio persona che sia nelle cose da mare più intelligente di lui; però (‘perciò’) gli ha fatto
per il passato e fa tuttavia di grandissimi favori... (Ib.)
... essendo uomo diligentissimo nel suo carico quanto più si possa immaginare e per la sua
liberalità amato universalmente da tutta la sua gente e all'incontro temuto per la sua
severità, perché non entra mai dove si lavora che non doni largamente a' schiavi, né manco
resta di castigar con ogni severità chi non fa il debito suo... (Ib. Pp. 221-222.)
Anche le sue ricchezze, come la sua fama, risultano grandemente aumentate nel corso di
quest'ultimo decennio:
... Ha cinquemila schiavi; ottocento sono marangoni (‘falegnami’) e altrettanti calafati, tutti
eccellentissimi, li quali hanno, quando lavorano nell'arsenale, 12 aspri per uno di utilità il
giorno e fuora otto. Altri che hanno altra sorte di arte han d'utile almeno quattro aspri, ma
quelli che non hanno esercizio sono da lui impiegati nelle fabriche del Signore, delli 'bassà',
e di altri grandi, procurando il capitano con questo mezzo gratificarsi gli animi e farseli
favorevoli e, per questo utile che cava da questi suoi schiavi, con difficoltà gli dà libertà;
pur quand'è astretto a liberar alcuno, se è marangon o calafato, non lo fa con meno di 300
zecchini (di riscatto) e li altri 200; e alli capi-mastri che servono fuor di catena dà la libertà
con condizione di servir per quel tempo che li par da limitarli (‘assegnargli’), onde li
poveretti, mossi da questa speranza, servono con maggior prontezza, credendo poi esser
liberati del tutto. Finito il tempo limitatoli, che per il più non li è (nemmeno) osservato, si
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trovano astretti per l'utile presente a pigliar moglie e fermarsi nel paese, non pensando di
ritornar più alle case loro, e di questi, essendo lasciati viver christianamente, si è fatto un
grossissimo casale non molto lontano dall'abitazione del Capitano; il qual casale, per esser
esso Capitano calabrese, si chiama Calabria Nuova e in questo è il fior della maestranza
dell'arsenale e da questa li turchi imparano a fabricar le galee grosse e sottili e l'arte della
marinarezza; e ardisco dire con verità che li turchi non hanno saputo mai la vera arte del
navigar con galee se non dopo che Ucchialì è entrato a quel governo; e, siccome prima tutti
li vascelli avevano qualche difetto, così ora, per la sua diligenza e per li uomini d'importanza
che intrattiene, son lavorati assai bene e quasi tanto come si fa nell'arsenal di Vostra
Serenità. (Ib. P. 222.)
... Prima la Serenità Vostra e le Signorie Vostre Eccellentissime hanno inteso che nella
milizia e gente pagata spende quel Signore (‘il sultano’) ogn’anno intorno a cinque milioni e
mezzo di oro; oltre la qual spesa vi è il trattenimento d'un arsenale, dove si mantiene un
numero grande di vascelli, che ben può sapere la Serenità Vostra quanto importi -
considerando da quello che Lei spende nel Suo, dove le cose passano con miglior ordine e
miglior governo - quello che possa spender il Turco nel suo, dove tutto vien maneggiato da
schiavi e da ladri.
E, se bene si suol dire che a lui non costa un corpo di galea più che 1.000 ducati, posso io
non di meno affermare alla Serenità Vostra che in un solo caico fatto a tempo mio per
servizio del Gran Signore si è speso intorno a 100.000 ducati, non perché tanto si
spendesse in effetto, ma perché tutti rubano, si come ancor si fa nell'arsenale; che,
principiando dal Capitano del Mare (allora ancora Uluch-Alì) sino all'ultimo officiale, non è
alcuno che del legname e ferramenta del Gran Signore non fabbrichino per loro medesimi
navi e vascelli da mercanzie e bene spesso anco le case dove abitano.
Il Capitano (suddetto), quando li suoi schiavi non hanno camicie, piglia delle cotonine che
preparate stanno per far vele e di quelle li veste; e per le sue fabriche, delle quali ogni
giorno ne va facendo, non compra mai né legname né ferramenta, perché piglia il tutto
dall'arsenale. Quando sta in Costantinopoli, introduce almeno 500 delli suoi schiavi a
lavorar nell'arsenale e li fa pagare per maestri, se bene da 200 in poi, tutti gli altri sanno
assai poco di quel mestiere; e questi tutti, essendo christiani e per conseguenza nemici de'
turchi, fanno quel peggio che possono a distruzione della roba del Gran Signore; e non è
maraviglia, perché, se ben il Capitano cava da Sua Maestà (‘il sultano’) da cinque a dieci
aspri il giorno per testa della maestranza, non di meno egli non dà poi alli schiavi che due
pani il giorno per uno, convertendo tutto il resto in sè stesso; onde, convenendo a que'
miseri industriarsi per vivere e vestirsi, non hanno altro modo da mantenersi che il rubare e
il medesimo Capitano lo comporta (‘sopporta’) o mostra di non lo vedere, perché sa che
d'altra maniera non si potriano sostenere. Dal che si può facilmente comprendere quanto
sia grande e importante questa spesa, poiché, oltre alli schiavi del Capitano, n’entrano anco
degli altri (e molti greci), che tutti, uno a gara dell'altro, attendono a rubare. (Ib. Pp. 275-276.)
... Quest'uomo dicono che sia vicino alli ottanta anni, ma è ancora tanto prosperoso e
gagliardo che fa maravigliare ognuno; è di nazione calabrese, nato vilissimamente in un
luogo detto 'li Castelli' (oggi ‘Le Castella’, Crotone); non sa né leggere né scrivere e fu fatto
assai giovanetto schiavo, di maniera che tutto quello che sa lo ha imparato vogando il
remo, lo che egli non si vergogna punto a confessare; è uomo di natura crudelissimo e
inumano, specialmente quando entra in collera, che allora ha più sembianze di mostro che
d'una creatura umana, perché si lascia trasportare a stravagantissime iniquità, né v'è
alcuno, per grande che sia, che ardisca di parlar seco in quel procinto.
Per lunga esperienza che ha delle cose da mare, essendo di schiavo - camminando per
gli altri gradi della marinaresca - riuscito finalmente Capitano di mare di così gran Signore,
benché ottenesse quel grado in tempo che, per essersi fuggito dall'armata il giorno della
felice vittoria (di Lepanto), si credeva che il Gran Signore gli dovesse far tagliar la testa, e
per essere nelle fatiche indefesso e per essere liberalissimo, viene assai stimato nella sua
professione... (Ib. P. 296.)
In effetti se Uluch-Alì a Lepanto fosse solo fuggito oppure se fosse stato lui il comandante
di tutta la tanto gravemente sconfitta armata invece del peritovi Alì, probabilmente la testa
Selim II gliela avrebbe fatta certamente tagliare; ma egli, prima di sottrarsi all'ormai impari
scontro, si era in quella battaglia palesemente battuto con gran valore, tanto da vincere la
galera Capitana della squadra di Malta, dove erano rimasti vivi solo tre di quegl’impavidi
cavalieri e alla quale portò tardivo aiuto la galera Capitana di Gioan Andrea d’Oria; come
racconta il Cervantes Saavedra, il rinnegato calabrese, appena tornato a Costantinopoli il 19
dicembre, ostentò lo stendardo preso alla Capitana di Malta come prova del suo valore,
inoltre egli tornava riportando 32 galere superstiti, il che molto rallegrò il Sultano, il quale
temeva d’averle perse quasi tutte e che quindi Costantinopoli fosse rimasta del tutto
indifesa dal mare e in pericolo di subire il sacco dei cristiani; infine era l’unico uomo molto
competente della guerra di mare a livello di comando che fosse rimasto alla Porta
Ottomana, quindi fu subito blandito da Selim, il quale, appena era stato informato della
terribile sconfitta, ossia non prima del 20/23 ottobre, gli aveva mandato l’ordine di
raccogliere immediatamente tutti i vascelli rimasti e di formare con essi una linea di guardia
tra la Grecia e Scio, assegnandogli il nuovo glorioso nome di Kiliç Alì Pasha, ossia ‘la spada
(dell’Islam)’. Le cronache raccontano che, immediatamente dopo esser stato ricevuto dal
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Sultano, il calabrese si recò all’arsenale di Peràia per dare le prime disposizioni necessarie
a una veloce ricostituzione dell’armata perduta:
… Quivi arrivato Uccialì, che con trenta galere salve dal gran fatto navale si era fuggito, non
solo (Selim II) benignamente e con carezze l’accolse, ma contra il costume della corte
turchesca, che, per minori cagioni di quelle di Uccialì, suol far morir coloro che con tristi
successi delle cose trattate ritornano, lo ingrandì supremamente di dignità, creandolo di
tutte le forze sue marittime generale. Con la diligenza di lui, nel breve spazio di quella sola
invernata nei porti di quel mare di Costantinopoli, benché di materia verde e di poca durata
(cioè di legno troppo giovane), centotrenta galere mirabilmente fabbricar fece, le quali, de’
marinari delle navi e d’ogni altro vascello armate, di soldati collettizi per forza ragunati
('radunati’) e del mare inesperti fece riempire; alle quali aggiungendo le trenta dalla rotta
fuggite e molte de’ privati corsari, più di dugento galere alla primavera (del seguente 1572)
in ordine ritrovassi. Con quest’armata il nuovo generale Uccialì partitosi e nella costa del
Peloponneso venuto non tanto con animo di guerreggiare, dal che la qualità de’ suoi mal
armati vascelli lo sconfortava, quanto per resistere, in quanto avesse potuto, agli sforzi
dell’armata cristiana, in quei porti, che ivi sono molto frequenti e comodi, si tratteneva. (B.
Sereno. Cit. P. 270.)
Oltre a questa saggia decisione d’affidare la difesa marittima dell’intero impero al rinnegato
calabrese, il sultano sembra però che altro non avesse saputo fare che proibire ai suoi
sudditi di mostrare mestizia per la grande sconfitta subita e ordinare che ogni sangiacco di
terra marittima allestisse una nuova galera. Ma la competenza d’Uluch-Alì, il suo valore e la
sua fedeltà non sarebbero stati meriti sufficienti per una Corte – qual era la Porta ottomana -
in cui imperavano ingordigia e corruzione:
... con tutto ciò, se non procurasse di servire il Gran Signore non solo per Capitano, ma
anco si può dire per bastaso (‘facchino’), poiché egli non parte (‘non si diparte’) mai dalle
fabbriche che si fanno (nell'arsenale) per Sua Maestà e va lui in persona a raccogliere con li
suoi schiavi la neve per serbarla per la state (cioè la neve per fare sorbetti e bevande
fredde); e, (se) non presentasse abondantissimamente non solo il Gran Signore, ma ancora
le sultane e tutti li bassà, saria di già privo del suo carico; né con tutto ciò si può tener
molto sicuro, perché al mio partire si ritrovava in qualche pericolo. (E, Albéri. Cit. S. III, v. III,
p. 296.)
Questo era l’altro motivo, oltre a quello dell’ingordigia dei grandi bottini che si ricavavano
dalla guerra di corso, per cui un decennio prima egli aveva sognato di conquistarsi in
Barbaria un regno tutto suo, e cioè perché alla Corte del sultano, anche se si era raggiunto
un altissimo grado, non si poteva vivere mai tranquilli e sicuri di non perderlo prima o poi.
Se si legge la relazione del Contarini, preparata solo due anni prima di questa del Morosini,
si potrà solo trarre la conclusione che in quest'ultimo biennio la stella del rinnegato
calabrese cominciava chiaramente a declinare. Il Morosini accentuava l'interesse che
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Uluch-Alì aveva a spingere il sultano a far armata, cioè a far uscire la sua armata di mare
contro i possedimenti veneziani e cristiani in generale, perché egli, come abbiamo già detto,
godeva di molti ricavi di guerra e inoltre i suoi schiavi personali che cedeva all'impiego di
galera a mille aspri ciascuno erano ora aumentati a circa tremila; ciò non ostante, egli non
perdeva occasione per protestare al Morosini i suoi sensi d’amicizia verso la Serenissima e
gli assicurava di non aver mai fatto egli personalmente alcun danno né al naviglio né ai
territori di quella repubblica:
... Con me s'è dimostrato veramente molto cortese perché, oltre all'avermi liberamente
donato (la liberazione di) un povero viniziano di questo arsenale ch'era suo schiavo, il
miglior calafato e il miglior uomo da remo che fosse nella sua propria galera e avermi anco
aiutato assai in ricuperar li trenta schiavi del Gran Signore ch'io inviai qui (a Venezia) in
cambio delli 29 turchi liberati delle (‘dalle’) galere di Malta, mi fece anco un altro favore... (Ib.
P. 297.)
Nonostante tutta questa gentilezza, il Morosini non consigliava al suo senato d’illudersi di
poter guadagnare davvero l'amicizia d’Uluch-Alì:
... Né credo che si debba punto confidar di lui, se ben per il mio debil parere giudico che sia
molto utile dissimulare e procurar di tenerlo in officio quanto più si possa, perché in mano
sua sarà sempre il trattar bene o male li sudditi e vassalli di questo Serenissimo Dominio
che navigano nel paese turchesco e di travagliar anco facilmente li suoi baili in
Costantinopoli; oltre che, per dir il vero, dagli esempi passati si può anche credere che
ognuno, sia chi si voglia, che sia fatto (dopo di lui) Capitano del mare dal Signor Turco sarà
ancor più nemico di questa Serenissima Republica di quello che sia esso Ucialì, poiché li
privati interessi militeranno sempre in ognuno che abbia quel carico. (Ib. P. 298.)
La grande crudeltà del calabrese è confermata dal de Haedo, il quale infatti nel suo dialogo
Captividad, laddove ricorda il piacere che Caligola provava nel vedere infliggere la tortura,
racconta il seguente episodio:
(Antonio:) Conosco molto bene quel cavaliere, il quale si chiama Lanfredo Duccio (?), a
proposito del quale ho più volte sentito raccontare a Malta ciò che voi avete appena detto…
(D. de Haedo. Cit.)
Ce l’aveva Uluch-Alì soprattutto con i cavalieri di Malta perché erano quelli che più
efficacemente ostacolavano la sua attività corsara; ma come spiegare questa sua ferocia?:
… Tutti questi tormenti, questi colpi di bastone, questi colpi di sferza, questi cattivi
trattamenti di cui soffrivano i cristiani imbarcati nelle galere (turco-barbaresche), chi li
causa, da chi vengono, se non da quei rinnegati che, per dimostrare d’essere dei buoni
turchi – mentre in realtà, (essendo) tanto poco turchi quanto cristiani, il loro solo scopo è di
darsi senza alcun freno ai piaceri della carne, si vantano di martirizzare i loro antichi
correligionari e di superare, in quello e in ogni genere di crudeltà, tutti i mori e tutti i turchi?
(Ib.)
In effetti la nota disponibilità alla lussuria delle donne turche d’allora e la correntezza delle
pratiche pederastiche in quell’impero, erano, unitamente alla possibilità d’arricchirsi
indipendentemente dalla nascita e dal ceto sociale, uno dei maggiori motivi della presenza
di tanti cristiani al servizio della Sublime Porta e per la maggior parte essi chiedevano di
diventare maomettani, in modo da migliorare sostanzialmente la loro qualità di vita; ciò era
ancor vero nel 1619, come scriveva l’autore della già ricordata relazione veneto-francese da
Costantinopoli:
... Ma ohimè! Ciò che trovai più strano e che più affligge la mia anima è che tutti i giorni si
vedono questi miserabili greci correre a truppe a farsi maomettizzare, sia per avere certi
soldi che il Gran Signore dona sia per non esser maltrattati dai turchi; il che accadde ad
un’infinità di fannulloni ed essendoci una tale calca che non si trovavano abbastanza
maestri per circonciderli; e in tutte le cerimonie in cui ci si trovi al cospetto del Gran
Signore si mettono in fila con i loro berretti sotto i piedi e, l’uno dopo l’altro, un papasso fa
alzar loro il dito indice della mano destra, gridando ad alta voce ‘La Halla ay lala ve
Mahomet rasour aila!’ e qualche altra parola che si fa loro dire, poi li si conduce dentro delle
tende fatte appositamente dove li si va a circoncidere; e con grande scandalo dei cristiani
ce ne furono (in quell’occasione) più di ottocento. (In Les cérémonies, magnificence,
triomphe etc. Cit.)
La sfrenatezza e la viziosità erano anche ad Algeri tra i principali motivi per cui, come
scriveva il de Haedo, vi si erano adattati a vivere tanti cristiani, i quali, pur non avendo
abiurato, avevano del tutto abbandonato i riti e i sacramenti della loro religione e
s’incontravano soprattutto nelle taverne della città:
… individui che si dicono cristiani, ma che hanno obliato a tal punto il nome e la cosa che
non si riuniscono in quei luoghi che per giocare a carte e a dadi, per ubriacarsi… essi
hanno talmente preso i vizi dei mori che s’infischiano della messa e della confessione e, se
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non fosse per il loro costume e la loro pettinatura, non li si prenderebbe certo per dei
cristiani… Tali miserabili hanno il cuore talmente indurito che si rallegrano dei successi e
della fortuna dei turchi e si fanno beffe degli sventurati che vengono ad aumentare il loro
proprio numero. Manaca loro così poco per essere mori che accetterebbero come una
grazia speciale di rinnegare la loro religione, se i loro padroni glielo permettessero; molti
l’importunano proprio a tal effetto, ma quelli da cui dipendono, per non esentarli dal remo,
rifiutano. Altri, che sono riscattati, non vogliono lasciare Algeri e ritornare in paesi cristiani,
dove essi non potrebbero, come qui, dedicarsi a tutti i loro vizi senza timore né castigo; ce
ne sono persino di quelli che vendono le loro lettere d’affrancamento per bere e giocare. (D.
de Haedo. Cit.)
Uno dei vizi maomettani che talvolta convincevano un europeo a scegliere di vivere da
rinnegato ad Algeri o a Costantinopoli era senza dubbio la pederastia, non solo in quei
paesi non perseguita con la pena di morte, come in quelli cristiani, ma addirittura pratica
comunemente ammessa ed esercitata. Il de Haedo anche racconta come nel 1577 a bordo
della galera di Hassan Pachà, il quale, accompagnato da sette vascelli algerini, si stava
recando appunto ad Algeri a prendere le sue funzioni di governatore di quel ricco regno,
forti gelosie pederastiche provocarono il fallimento e la conseguente repressione
sanguinosa d’un complotto di rinnegati che si stava ordendo ai suoi danni e il risultato fu
che tre dei sette congiurati furono giustiziati; due di essi, il candiota Yussef e il tiparato
Regeppé (sic), appesi per un solo braccio all’antenna della galera, furono saettati e
archibugiati a morte, mentre il terzo, il candiota Mussa, fu squartato secondo l’uso di
marina e cioè nella seguente maniera; il condannato venne adagiato e legato su uno dei
banchi d’uno schifo di galera e poi a ciascuno dei suoi polsi e delle sue caviglie, pertanto
sporgenti dal bordo della piccola imbarcazione, venne attaccato un cavo tirato dalla poppa
d’una galera; le quattro galere così impegnate, iniziando una voga divergente verso i
quattro punti cardinali, lo squartarono; furono risparmiati, oltre al delatore candiota Iaban o
Yuan (‘Giovanni’), gli altri tre rinnegati cospiratori e cioè il veneziano Michel Angeni, lo
schiavone Danesi Nali Ferravès (sic), scrivano particolare d’Hassan, e il trapanese
Francesco Lombardi, barbiero-cerusico d’una galeotta recentemente catturata dai corsari
turco-barbareschi nelle acque siciliane (Ib.)
Ma che cosa successe d’Uluch Alì dopo il 1585, anno della predetta relazione del Morosini e
anche l’ultimo in cui troviamo sue notizie operative? Si crede comunemente che sia morto
nel 1587, quindi all’età di circa 80 anni, se dobbiamo credere al Morosini, oppure solo tra i
67 e i 69, se dobbiamo invece dar fede alla relazione del succitato Garzoni, nella quale,
iniziata nel 1573, si dice che il calabrese aveva a quel tempo 55 anni; ebbene ambedue i
baili veneziani si sbagliavano, evidentemente tratti in inganno da un aspetto molto
precocemente invecchiato offerto dal rinnegato, il quale in realtà era molto più giovane di
693
quanto la sua pelle, forse tanto aggrinzata dal sole e dalla salsedine, potesse far credere. In
realtà Uluch-Alì doveva esser nato solo un po’ prima del 1540 e quindi alla battaglia di
Lepanto, anche se già tanto noto e stimato, doveva esser ancora un giovane capitano; ciò
perché incredibilmente il 24 novembre 1619 egli, come del resto anche il gran Vizir Scipione
Cicala di cui diremo, faceva parte delle maggiori autorità di governo che a Costantinopoli,
sedute su un palco loro riservato, assistevano, come abbiamo già ricordato, ai
festeggiamenti per la circoncisione del giovanetto Amurat, figlio del sultano Ahme i:
… et au bout dudit corps du lougis estoit dressé une autre longue galerie à trois estages
separez par petites chambrettes et lougis, au premier desquels et le plus haut estoit Sidrin
premier bachat avec les autre trois et Ochiali Bacha, grand capitaine et admiral de Turquie,
qui a esté autrefois pauvre pescheur de Calabre, et Sinan Bachat grand visir et conseiller
d’estat, ensemble les beiglerbeinqs et sangiacheiqs de grade en grade selon leurs estat
etc. (In Les cérémonies, magnificence, triomphe etc. Cit.)
A questo punto doveva il calabrese veramente aver superato gli ottant’anni e, anche se
formalmente conservava il titolo di capitano generale del mare, doveva in effetti esser stato
messo fuori gioco da molto tempo, probabilmente dalla fine degli anni Ottanta del secolo
precedente a causa di qualche sopraggiunta inabilità fisica; infatti, se fosse stato invece
estromesso per sua colpa o errore, non l’avremmo certo trovato ancora in possesso del suo
prestigioso titolo e sul palco delle autorità! In effetti nemmeno nei potentati cristiani s’usava
privare i vecchi generali dei loro carichi, ma ci si limitava a sostituirli nell’operatività con
altre persone in lunghi, a volte lunghissimi interim. Uluch Alì non sarà però il solo rinnegato
cristiano ad assurgere al prestigioso titolo di kapudan pasha del Gran Turco; infatti nel
biennio 1714-1715 troveremo l’armata turca comandata da Jannus Koggià, un nobile
francese, al secolo il marchese Langallene.
A titolo d’esempio di come la guerra di corso barbaresca, a partire dal 1502, ossia dal
grande inserimento in essa di moreschi e marrani spagnoli bramosi di vendetta, fosse, se si
eccettua qualche raís turco, totalmente guidata da rinnegati europei, mentre i mori o
barbareschi veri e propri non v’avevano quasi mai ruoli di comando, riportiamo il dettaglio
che il de Haedo da di qualche squadriglia algerina, a cominciare da quella che il 15 maggio
1577 salpò da Costantinopoli per portare ad Algeri, come nuovo governatore, il rinnegato
veneziano Hassan Pachà:
… Sette vascelli accompagnavano il nuovo re. Anzitutto una galera che Uluch-Alì, suo
padrone, gli aveva donato, apriva la marcia; era un vascello dal nome di ‘San Giovanni’ che
egli aveva preso all’Ordine di Malta ed era montato dal nuovo re. La seconda, della quale
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era capitano o ‘rais’ Mustafa da Giglio, rinnegato originario dell’isola di questo nome, la
quale si trova di fronte a Piombino nel mare di Toscana, presso l’isola d’Elba; Mustafa era il
capo di questa squadra poiché era un marinaio sperimentato. La terza galera era comandata
dal rinnegato Mahame il Turco, il quale (tedesco, a dispetto del soprannome) era stato
tamburo d’una compagnia al tempo della campagna intrapresa contro Mostaganem dal
conte don Martin de Alcaudete; questo tamburo s’era fatto mussulmano durante la sua
prigionia. Sulla quarta galera c’era Yussef Borrasquilla, rinnegato genovese, un nemico
crudele dei cristiani. Il quinto vascello era una galeotta di ventidue banchi di vogatori, di cui
il patrone e ’rais’ era Mami, un rinnegato veneziano appartenente a Kar-Hassan. Il sesto
vascello era ancora una galeotta dallo stesso numero di banchi della precedente; era
comandata da Dali Mami, rinnegato greco maritato ad Algeri, dove veniva in qualità
d’ammiraglio del reame e capo dei corsari. La settima era una galera d’Uluch-Alì, la quale
aveva ventiquattro banchi; il ‘rais’ era Sain da Milazzo, rinnegato siciliano. Tutti questi
rinnegati avevano il titolo di capitano di fanale, il che è un grand’onore presso i turchi. (D.
de Haedo. Cit.)
Qualche mese dopo, precisamente il 19 settembre, nove galeotte lasciarono Algeri per
andare a far corso e razzie nel Mar Tirreno e nelle sue marine; erano comandati questi
vascelli da Morat, celebre rinnegato albanese, mentre gli altri raïs della spedizione erano
Morat, al secolo Loys Cravier, rinnegato francese appartenente al precedente, Morat
Maltrapillo (‘Malvestito’, in sp.), rinnegato originario di Murcia e definito pertanto dal de
Haedo ‘gran traditore’, non essendo infatti frequenti i rinnegati di nazionalità spagnola; un
altro Morat, ma questo giovane rinnegato greco, Caur Alì, figlio d’un rinnegato greco,
Hassan, un genovese di cui poi diremo, e infine tre turchi, Cadi, Amat Hoja e Sari (Ib.);
insomma i veri e propri nord-africani, quelli cioè che allora si chiamavano ‘i mori’, pur
riuscendo ottimi corsari, non brillavano per capacità di comando.
Il 25 marzo 1579 salparono da Algeri per lo stesso motivo otto galeotte comandate dal
summenzionato Mami Arnaute e si trattava, oltre a quella del comandante in capo, d’una di
24 banchi – praticamente una galera mascherata da galeotta – comandata dal già
menzionato Morat Raïs il Francese, al secolo Loys Cravier, cinque da 22 banchi, delle quali
erano raïs i rinnegati greci Dauardi e Dali Mami, il turco Moussa Safi, il rinnegato veneziano
Gancio, già ricordato, e Mami, il suddetto rinnegato veneziano di Kar-Hassan, infine una
galeotta di 20 banchi capitanata dal rinnegato napoletano Yussef. Il predetto Morat raís
ebbe una lunga carriera marittima, risultando ancora attivo nel 1612, e probabilmente
coincideva con quel Morat Tur Raïs che nel 1607, al comando di sei galere turchesche,
imperversava nelle acque di Cagliari, come racconta Henry du Lisdam (cit.); ma non solo
sul mare s’offrivano ad Algeri possibilità di carriera per i cristiani a cui si fosse concesso di
rinnegare; infatti per esempio nel 1559 era in quella città maestro dell’artiglieria uno
spagnolo di nome Morat, capo della Casbah il calabrese Mami e capo-guardiano degli
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schiavi del re il greco Caur-Alì (‘Il cristiano Alì’), il quale poi diventerà rinomato capitano di
galere e sarà fatto prigioniero a Lepanto, mentre nel 1577 sarà alcalde (‘governatore’) della
stessa città il rinnegato greco Hassan, e ciò a dimostrazione che, senza questi tantissimi
europei, Algeri non sarebbe probabilmente mai arrivata a rappresentare una tale e così
secolare iattura per la cristianità. Nel secolo successivo il religioso francese Dan
confermerà questa realtà:
… Quanto ai corsari di Barbaria è cosa certa che i rinnegati hanno portato la loro potenza al
punto in cui si vede ancor’oggi e si può ben dire che senza il loro aiuto l’infami e sventurate
repubbliche d’Algeri, Tunisi, Salé e Tripoli non potrebbero né sussistere nella loro
dominazione contro i mori e i popoli del paese né mantenersi nelle loro piraterie, poiché i
loro migliori uomini da guerra e da marina, come la più parte dei loro corsari, sono rinnegati
e partigiani del maomettismo. (Père Dan, Histoire de Barbarie et des corsaires, des
Royaumes et des villes d’Alger, de Tunis, de Salé et de Tripoly. Parigi, 1649.)
Salé, dopo l’espulsione dei moriscos anche dall’Andalusia avvenuta tra il 1609 e il 1611,
molti dei quali appunto in quella città corsara marocchina andarono a stabilirsi, diventerà
una vera e propria una repubblica corsara e i suoi rais, come per esempio Murad Raïs e
Chaban Rais, infesteranno le coste atlantiche dell’Europa, anche quelle anglo-irlandesi, a
partire dagli anni Venti del Seicento, anche se, forse sul loro esempio, pure i corsari algerini
prenderanno l’abitudine di spingersi in quelle acque oceaniche; in effetti, poiché i corsari
barbareschi agivano più come pirati che come corsari, in quanto non si mettevano in mare
con patente del loro sovrano per combattere la nazione dichiaratasi nemica in quella guerra
particolare, bensì colpivano indifferentemente tutte le nazioni che avessero il solo torto
d’essere cristiane, si può dire che le popolazioni europee rivierasche dell’Oceano Atlantico
vedevano ora nei saleani dei pirati molto più pericolosi di quelli cristiani roccellesi,
anch’essi tradizionalmente dediti alle depredazioni marittime, anche se questi ultimi, data la
posizione geografica molto più settentrionale della loro base, ossia del porto de La
Rochelle, si spingevano anche nel Mare del Nord; immune dalla pirateria sembra fosse
ormai invece il Mar Baltico, il quale tuttavia nel Medioevo ne era stato infestato,
chiamandosi allora in tedesco i pirati Vitallighen (sec. XII) e Vetalienbrodere (secc. XIV-XV),
come si legge negli statuti di diritto marittimo anseatico e danese di quei lontani tempi (J.
M. Pardessus. Cit.).
Terminiamo però ora l'esame della personalità d’Uluch-Alì citando qualche rara voce a lui
più favorevole e prima quella del Cervantes Saavedra, il quale nel suo Don Quijote così fa
parlare un ex-prigioniero del terribile rinnegato calabrese:
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... Uchalì, il quale chiamavano 'Uchalì Fartax', che in lingua turca vuol dire 'il rinnegato
tignoso', perché lo era e tra i turchi si costuma mettersi il nome da qualche difetto che
tengano o da qualche virtù che in essi sia; e ciò accade perché non c'è tra di loro se non
quattro cognomi di lignaggio, i quali discendono dalla Casa Ottomana, e gli altri, come ho
detto, prendono il nome e il cognome ora dai difetti del corpo ora dalle virtù dell'animo. E
questo tignoso vogò il remo, essendo schiavo del Gran Signore quattordici anni e, quando
n’aveva più di trentaquattro d'età, rinnegò, indispettito perché, stando al remo, un turco gli
dette un ceffone, e, per potersi vendicare, abbandonò la sua fede; e fu tanto il suo valore
che, senza ascendere per i turpi mezzi e cammini per i quali ascendono gli altri servitori del
Gran Turco, diventò re di Algeri e poi capitano generale del mare, che è il terzo carico (per
importanza) che c'è in quel dominio. Era calabrese di nascita e moralmente fu uomo
dabbene e trattava con molta umanità i suoi schiavi, di cui arrivò a tenerne tremila, i quali,
dopo la sua morte, furono ripartiti, come egli lasciò col suo testamento, tra il Gran Signore -
che è anche figlio erede di quanti muoiono e condivide con gli altri figli che lascia il defunto
- e i suoi rinnegati... (M. de Cervantes Saavedra. Cit.)
In effetti, prima di diventare beglerbegi d’Algeri nel settembre del 1568, Uluch-Alì era stato
governatore di Tlemcen e, dopo la morte di Torgud avvenuta nel 1565, era passato a
governare Tripoli, città questa che era allora chiamata anche Tripoli d’Affrica per
distinguerla da Tripoli di Soria (‘Siria’), e, inoltre, città di Mahometto d’Affrica. Secondo la
narrazione d’altri, Uluch-Alì, povero pescatore nato nel 1520, fu catturato e messo al remo
dai corsari barbareschi del Barbarossa a 16 anni. Anche non male ne parla il de Haedo,
laddove narra un sanguinosissimo, ma fallito ammutinamento di schiavi cristiani avvenuto
il 4 febbraio del 1577 a bordo della galeotta Volena da 22 banchi di Kar-Hassan, corsaro
d’Algeri, ma originario della Carabrunia in Anatolia, terra a circa 60 miglia dall’isola di Chio;
scendeva dunque questo corsaro il fiume di Tetuán in Marocco di conserva con un’altra
galeotta di 19 banchi di sua proprietà e comandata da quel raís Mami, rinnegato veneziano
al quale abbiamo già accennato, quando, trovandosi in corsia, venne avvicinato e ucciso
con un colpo d’accetta al petto da uno schiavo veneziano ventiseienne di nome Giannetto,
un falegname galerista, al qual segnale i remiganti cristiani, armati delle armi proprie e
improprie più disparate, si sollevarono contro i turchi; questi, ridottisi a poppa e a prua e
pur bravamente resistendo, stavano per soccombere, quando ricevettero il soccorso
dell’altra galeotta ed ebbero quindi per questo alla fine facilmente ragione della sommossa,
i cinque promotori della quale furono nei giorni seguenti giustiziati in vari modi; si cominciò
il giorno dopo dal suddetto Giannetto:
l’antenna, i turchi videro, cosa incredibile, che era ancora vivo, ma rigettava molt’acqua
dalla bocca; fu lasciato allora ancora appeso circa mezz’ora e rese l’anima al Signore… (D.
de Haedo. Cit.)
Poi i corsari fecero sbarcare il diciottenne genovese Giuliano, il quale era un dispensiere, lo
spogliarono a busto nudo, gli legarono le mani dietro la schiena, lo seppellirono fino alla
vita, lo fecero bersaglio d’un grandissimo numero di frecce e il suo corpo, come quello del
predetto Giannetto, fu poi gettato nel fiume. Tornata la galeotta ad Algeri nella notte di
domenica 11 febbraio, il giorno seguente Mami andò dal governatore Rabadan Pachà,
rinnegato sardo, (1574-1577) a chiedere l’autorizzazione a continuare la punizione dei
principali colpevoli e, ottenutala, fece prendere il venticinquenne siciliano Andrea, nativo di
Sciacca, e, fattigli legare i piedi con una corda attaccata al pettorale d’un cavallo, lo fece
così trascinare per tutta la città; quando il giovane fu sul punto di spirare, lo fece trascinare
fuori della porta Bab-el-Ued, dove stava piantato un piolo più alto della muraglia e alla cui
base c’era un grosso gancio con la punta aguzza volta all’insù; su quella punta fu, dall’alto
della muraglia, gettato il giovane, il quale ne ebbe il fianco destro trapassato e in breve
tempo morì; dopo un giorno di tale esposizione il suo corpo fu gettato a mare. Nello stesso
giorno fuori della predetta porta, precisamente nel luogo in cui si faceva il mercato del
legno, fu portato anche il ventiduenne calabrese Marcello, nativo di Mancia (sic), e, piantato
a terra un palo, vi fu legato, mani e vita, il poveretto e così fu lapidato a morte dalla folla;
ammonticchiatovi poi del legname attorno, il suo corpo fu bruciato e, ciò che ne restò,
gettato in mare. Lo stesso lunedì 12 il quinto condannato, un remolaro genovese
trentaquattrenne di nome Marco, il quale aveva moglie in Sicilia, appeso per i piedi al
trinchetto d’una saettia francese che era in riparazione nel porto d’Algeri, vi fu lasciato così
fino alla sera del giorno seguente, martedì 13 febbraio, quando fu finito a pietrate; il suo
corpo fu poi gettato in mare. Non contento di ciò e non avendo evidentemente avuto da
Rabadan Pachà il consenso ad altre esecuzioni, perché gli schiavi remiganti in fin dei conti
servivano e in tal casi d’ammutinamento le esecuzioni dovevano esser limitate a quelle più
esemplari, 20 giorni dopo il crudele Mami partì per Costantinopoli con la sua galeotta e altri
sei vascelli algerini per andare a prendere il rinnegato veneziano Hassan Pachà, il quale,
così scortato, doveva venire ad Algeri come nuovo governatore, e, arrivatovi, come dice il
de Haedo, dopo ben trentotto giorni di traversata, chiese aiuto alla moglie e ai figli di Kar-
Hassan che in quella città abitavano perché potesse aver udienza da Uluch-Alì; ottenutala,
chiese al potente calabrese l’autorizzazione a giustiziare altri dei cristiani colpevoli che
aveva ancora a bordo della sua galeotta, per poter così maggiormente vendicare la morte di
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… Ma Uluch-Alì era un uomo esperto e prudente nelle cose di guerra e per tutto ciò che a
quelle attiene, così gli rifiutò decisamente il permesso e aggiunse che la vendetta che Mami
raís aveva tratto a Tetuan e Algeri era già grande e, mostrando loro il suo braccio destro
storpiato, disse: ‘Guardate questo braccio che poco tempo fa alcuni cristiani rivoltosi sul
mio vascello hanno mutilato. Ho avuto il corpo coperto di ferite, mi volevano uccidere per
acquistare la loro libertà. M’hanno storpiato e altri si sono salvati su due delle mie galeotte
dopo aver ucciso molti dei turchi. Ebbene! Non sono per nulla stupito da tutto ciò, perché
tutti gli schiavi, tutti i prigionieri sono inclini a cercare con tutti i mezzi immaginabili
d’affrancarsi dalla prigionia e non è nell’usanze di guerra il punirli per tal motivo. Kar-
Hassan non è il solo che ha avuto una tal sorte; rinunciate dunque alla speranza di far
perire altri poveri cristiani. (Ib.)
In effetti, questo ‘poveri cristiani’ finale ci fa capire quanto poco probabile è che Uluch-Alì
abbia potuto veramente pronunziare il predetto discorso; certo egli, pur crudele e
sanguinario al pari degli altri corsari turco-barbareschi, era però effettivamente troppo
esperto e intelligente per consentire uno spreco di remiganti quale quello che
l’evidentemente molto meno accorto Mami gli era venuto a proporre. L’episodio
d’ammutinamento in cui Uluch-Alì qui dice d’esser rimasto storpiato sembrerebbe diverso e
più tardo di quello dell’agosto 1562 che abbiamo già menzionato e di cui tra poco meglio
diremo. E, poiché si è più sopra nominato Sinan, genero di Selim II e Gran Vizir di Amurat III,
c'è qualche lineamento del suo carattere lasciatoci dall'ambasciatore veneziano Jacopo
Soranzo, il quale lo conobbe nel 1581 in occasione d’un suo viaggio a Costantinopoli:
... Ma ritornando a Sinan, il quale oltre alle suddette imprese, espugnò la Goletta ancora,
dico che costui è di nazione albanese, di una certa villa lontana due giornate da Scutari
d'Albania, di età di 35 anni, di persona piuttosto grande che altrimenti, d'aspetto feroce e
senza punto di dolcezza; è d'animo terribile, superbo, vano e pieno di pensieri vasti e
smisurati, e, quanto, alla milizia, gli si conviene più il nome di soldato temerario e
impetuoso che di valoroso e prudente. (E. Albéri. Cit. S. III, v. II, p. 241.)
Il 23 l’agosto 1574 una grande armata turca arrivata il 13 luglio precedente e comandata dal
predetto Sinan Pasha e dal capitano generale del mare Uluch-Alì, forte di 230 galere, 60 tra
galeotte e fuste, altrettante tra navi e maone e altro naviglio minore, recante 12mila
giannizzeri e altrettanti spahì più altra gente da spada e grandissimo numero di guastatori,
appoggiata inoltre da un esercito di terra costituito da turchi, mori e cavalli arabi di
Barbaria, aveva ripreso ai cristiani Biserta, Tunisi e la sua principale fortificazione detta la
Goletta, luoghi che Giovanni d'Austria aveva riconquistato alla Spagna solo nel precedente
ottobre; le prime due erano infatti già state conquistate una volta da Uluch-Alì nel 1569. La
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guarnigione italo-spagnola di 8mila fanti lasciata in quel territorio dal ‘real bastardo’ era nel
frattempo diminuita a circa 5mila a causa di morti, mancamenti e defezioni e l’albanese e il
calabrese, dati i potenti mezzi che avevano, non dovettero in verità faticare molto per
impadronirsi nuovamente di quelle piazze; prima a cadere fu la Goletta (23 agosto), la cui
guarnigione era comandata da Juan Puerto Carero; costui, persona di qualità ma inesperto
di guerra, era un governatore tanto poco stimato che, come ricorda il de Bourdeilles nelle
sue Mémoires, il suo nome era dileggiosamente mutato dai soldati in Juan Puerco Carnero
(cioè ‘Giovanni Porco Montone’); egli, pur disponendo ormai di una guarnigione di soli
meno di mille soldati nuovi spagnoli, i quali avevano da poco sostituito gli anziani che
avevano l’anno precedente conquistato la fortezza, aveva in precedenza rifiutato 800 fanti
italiani mandatigli con altre provvisioni dal viceré di Napoli sotto il comando di Tiberio
Brancaccio, ufficiale napoletano di provato valore da noi già ricordato, e l’aveva fatto col
dire che si trattava di gente inutile e che si sarebbe azzuffata con la sua spagnola alla prima
occasione. Fu preso poi il forte di Tunisi (13 settembre) capitanato da Gabrio Serbelloni e
Pagano d’Oria, e infine cadde il piccolo forte detto dello Stagno costruito per volontà di
Gioan Andrea d’Oria, in cui 50 soldati comandati da Juan Salazar resistettero eroicamente e
infatti furono gli unici che ebbero salva la vita unitamente al Puero Carero, al Serbelloni e al
Salazar, tutti e tre fatti prigionieri, mentre il d’Oria restò ucciso in un tentativo di fuga; ma
non staremo, secondo il nostro necessario costume, a narrare i combattimenti che
portarono alle predette perdite e a chi vorrà saperne di più basterà andare a leggere a tal
proposito la relazione del residente veneziano a Palermo Placido Ragazzoni (1574) o altre
narrazioni fattene dagli storici coevi; diremo solo ancora che nel frattempo, ma con ritardo,
Juan de Austria aveva raccolto a Palermo un’armata di soccorso di 124 galere, in cui erano
le squadre di Napoli e Sicilia, 4 galere del Papa, 4 di Malta, 13 della signoria di Genova, 21 di
Giovann’Andrea d’Oria e altre particolari, con un totale di 12mila fanti, di cui 6.500 spagnoli,
1.500 italiani e per il resto venturieri; ma, avuta notizia della caduta della Goletta e tenuto
consiglio di guerra, decise che non aveva forze sufficienti ad affrontare il nemico e, avendo
saputo successivamente pure della perdita di Tunisi, desistette definitivamente e sciolse
l’armata. A seguito della grave perdita della Goletta apparve prontamente a Roma una
pasquinata che si leggeva più o meno così:
Il Cardinal con la braghetta, Don Giovanni con la racchetta, han perduto la Goletta.
Alludendosi qui al vizio della lussuria notoriamente coltivato dal cadinale de Granvelle,
allora ancora viceré di Napoli, e al gioco che usava praticare don Giovanni, cioè quello della
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pallacorda, oggi meglio conosciuto con il suo nome inglese tennis (dal l. tenus, ‘corda
tesa’), una volta uno dei preferiti dagli antichi soldati romani e ora molto amato e praticato
dal più famoso bastardo di Spagna. Dunque, dopo quelle d’Algeri e di Tripoli, nasceva ora
anche la carica di bey di Tunisi, ossia la reggenza ottomana di quella città, la quale sino ad
allora era stata gestita dai turchi come loro semplice governatorato, e al re di Spagna
restavano quindi sul suolo africano Orano, presidiata in questo periodo da 1200 uomini,
Mazalkibir, il Peñon e Melilla, possedimenti ai quali, con la conquista del Portogallo del
1580, s’aggiunsero Ceuta, Tangeri, Arzilla e Mazagan.
Questo ormai continuo alternarsi di conquiste e perdite delle piazze marittime nord-africane
contribuirà a far diffondere sempre di più tra gli strateghi cristiani la convinzione che, per
risolvere il grave e secolare problema dei corsari nord-africani, le città di quella costa
andavano non più conquistate e fortificate, strategia questa che si era dimostrata
fallimentare sia per i gravosissimi costi che implicava sia perché prima o poi si arrivava alla
necessità di doverle abbandonare alle armate turche, ma si sarebbero dovute prendere e
sistematicamente distruggere e ciò fino a tutto lo stretto di Gibilterra. In effetti inizia ora un
lungo periodo di rovesci militari dei cristiani in Barbaria; nel 1575 l’armata che Giovanni
d’Austria raccoglie non ottiene alcun sostanziale successo; il 4 agosto del 1578, come già
ricordato, il re Sebastiano di Portogallo, per difendere i suoi possedimenti marocchini
attaccati dai mori e cioè Ceuta, Tangeri, Arzilla (‘Asilah’) e Mazagan, muore alla battaglia
d’Alcazarquivir, presso Tangeri; nel 1601 Gioan Andrea d’Oria, per non aver potuto riunire
in tempo utile tutta l’armata necessaria, fallisce l’impresa d’Algeri e infine, nella notte del 30
luglio 1609 una flotta spagnola al comando di Luis Fajardo de Córdoba attaccò con i
brulotti il porto de La Goletta, bruciandovi più di 20 vascelli tunisini, il meglio cioè della
moderna flotta di cui, avvalendosi della consulenza sia marinara che pirobalistica dei pirati
inglesi che colà risiedevano, s’era da poco dotato quel potentato barbaresco così come del
resto in quel tempo facevano anche gli algerini utilizzando invece l’esperienza del pirata
olandese Danser, del quale più avanti diremo. Questa conversione alla navigazione veliera
permetterà presto ai corsari barbareschi di agire molto più facilmente anche nell’atlantico,
andando a dannificare non solo i mari e le coste inglesi, irlandesi e islandesi, ma persino
quelli americani, tant’è vero che da allora anche potenze del tutto atlantiche quali
l’Inghilterra e l’Olanda incominciarono a intensificare i loro attacchi marittimi ai potentati
barbareschi. Il Fajardo, comandante dell’armata spagnola del Mare Oceano, non riuscì
allora a riconquistare La Goletta alla Spagna, ma si rifarà presto contro due importanti basi
pirati marocchine dell’Atlantico, cioè prima, nel 1609, prendendo Larache e poi nell’agosto
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del 1614 distruggendo Mamora, covo di attivissimi pirati inglesi; in questa seconda
occasione si era presentato davanti al porto pirata al comando di ben 99 vascelli, il cui
nucleo era costituito dall’armata spagnola dell’oceano, da 5 galere di Spagna capitanate dal
duca di Ferrandina e da 3 galere portoghesi del conte di Elda.
Nella sua relazione del 1590 il bailo Giovanni Moro delineerà la figura-tipo del capitano
generale ottomano del Cinquecento nelle sue principali prerogative:
... Il capo della milizia marittima non si contentano i turchi chiamarlo Generale dell'armata,
seguendo l'uso degli altri governi, ma, seguendo anco in questo la loro arroganza, lo
dimandano Capitan del mare, come se fosse assoluto signore di tutto il mare. (Ib. S. III, v. III,
pp. 355-356.)
Strano biasimo questo fatto da un veneziano, visto che proprio Venezia chiamava il suo
capitano generale marittimo capitan general da mar! Ma andiamo avanti:
… Questo è grado onorato e molto stimato perché è quasi il primo appresso i bassà della
Porta, precedendolo solamente i due beglierbei della Grecia e della Natolia. Vien trattenuto
dal Signore con provisione corrispondente all'autorità, che importa circa 40.000 zecchini
all'anno, a cui si aggiunge i continui donativi de' particolari, l'utile che cava dalli schiavi
(suoi) impiegati in diversi luoghi e, quando occorre, anche nell'arsenale, oltra quello che
ruba dalle spese che ordinariamente si fanno in esso; con che ha larga commodità, mentre
si trattiene in Costantinopoli, di poter non solo mantener la casa con gran splendore, ma
accumulare ancora gran quantità di danari.
Quando poi esce l'armata ha suprema autorità, prestandogli indifferentemente obedienza
tutti i capi di qual siasi galea. Quando non tiene attualmente alcun governo, gode questa
sola preminenza d'esser chiamato 'bei'; ma, quando è in officio e quanto l'armata è più
grande, tant'ha più modo di rubar largamente; ed, oltre che risparmia - quel che importa
assai - le spese della casa e degli schiavi, ha l'utile degli aspri e altro che se gli dà per testa,
come s'è detto.
Ha medesimamente quel che gli tocca de' bottini, compartiti da lui come gli pare, e i
presenti che largamente gli son fatti in ogni luogo dove vada; e di più resta libero da
quell'ossequio accompagnato da molti donativi che, mentre sta in Costantinopoli, è lui
costretto di prestar a' bassà e agli altri grandi. E però (‘perciò’) attende sempre il capitano
del mare a procurar di persuadere che sia bene il mandar fuora l'armata. (Ib. P. 356.)
Interessante ci sembra seguire la carriera del già ricordato veneziano rinnegato Hassan
Pasha, detto Il vanitoso, capitano generale del mare ottomano che nel 1577 successe nella
reggenza d’Algeri ai califfi che dall’aprile 1571 governarono quella città per conto d’Uluch-
Alì, da quando cioè questi era stato chiamato a Costantinopoli a partecipare ai preparativi
per quella campagna di mare che si concluderà rovinosamente a Lepanto; in effetti dopo la
partenza di questo Algeri fu governata prima da Arab Amat (1571-1574), un moro nato ad
Alessandria d’Egitto, il quale, già reggente d’Algeri dal 1561 al 1562, partecipò alla detta
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battaglia e alla difesa di Tunisi del 1573 e poi da Rabadan Pachà, il quale era stato fino
all’ottobre del 1573 Caid (‘governatore’) di Tunisi, cioè appunto fino a quando questa città
era stata conquistata da Juan de Austria. Nel suo dialogo Captividad il de Haedo così dice
di lui, a quel tempo appunto reggente d’Algeri:
(Sosa:) … E questo Hassan il Veneziano, il quale giunse così in alto e che si comporta così
poco da re, ditemi, non è egli il figlio d’un vaccaro, non era egli un vile mozzo a bordo d’un
legno raguseo che fu catturato da Dragut e fu donato ad un rinnegato, dal quale Occialì
ereditò in qualità di padrone?.. (D. de Haedo. Cit.)
Nella predetta relazione del Moro così si delinea il progresso della sua fortuna:
... mi pare che, appresso alle cose dette, sia a proposito considerar ancora la natura e li
particolari andamenti del presente Capitano Assan Bassà, ch'è nato in questa Città (di
Venezia) in povera fortuna; il qual, mentre - mandato da' suoi per guadagnarsi il vivere in
età di circa 16 anni - serviva da scrivanello sopra la nave 'Fabriana', fu fatto schiavo da
Dorgut raís del 1563 e quella cattività, che allora lo dové far restar tutto dolente, vedendosi
privo della libertà che solo era quanto bene aveva, gli causò poi, per la buona fortuna che
l'ha sempre accompagnato, prosperità negli onori di quel governo.
Fu nel principio della sua schiavitù donato ad Ucchiali (‘Uluch-Alì’), uno dei corsari
principali e di maggior stima di quel tempo, il qual, restando ben contento della prontezza
del suo spirito e della sua vivacità, lo fece far turco e, valendosi volentieri dell'opera sua, lo
lasciò poco dopo con somma autorità suo luogotenente in Tripoli, dove era Vicerè; e,
quando Ucchiali fu fatto Capitano del mare, lo elesse prima per suo maestro di casa e poi lo
fece 'agà' dell'arsenale, che vuol dir suo luogotenente nell'arsenale, con che ha avuto
commodità d'accrescere in reputazione e di grandemente arricchirsi e col mezzo de' suoi
danari esser poi fatto Vicerè (in realtà solo reggente) di Algeri.
Ma, per certi dispareri nati fra essi, fu richiamato dal Gran Signore e corse pericolo di
perder la vita, 'sì come perdette un gran capitale che aveva in Costantinopoli per più di
zecchini 100.000. Seguita poi la riconciliazione, tornò al medesimo governo d'Algeri, dove,
essendosi mostrato in ogni occasione corsaro vigilantissimo e sempre fortunato, si
acquistò tanta reputazione per molti importantissimi danni fatti ai christiani che Ucchiali
soleva dire che non conosceva alcuno pel servizio del Gran Signore più atto di Assan
Bassà a ben esercitare, dopo esso, il capitanato del mare; ma, avendolo Sua Maestà
conferito dopo la morte di Ucchiali ad Ibraim Bassà suo genero, destinò Assan Vicerè di
Tunisi con maggior autorità dell'ordinario, come allora scrissi.
Non restando poi il Gran Signore contento del governo d'Ibraim nell'arsenale, richiamò
Assan pochi mesi dopo la sua partita (per Tunisi) e lo costituì suo Capitano del mare con
partecipazione e consenso degli altri bassà, senza che Ibraim ne sapesse parola... (E.
Albéri. Cit. Pp. 356-357.)
In effetti Hassan Pasha era stato al governo d’Algeri una prima volta dal 1577 al 1580,
periodo in cui fece guerra accanita agli spagnoli, essendo poi destituito per impopolarità e
sostituito dal predetto e già una volta reggente Rabadan Pachà, e poi ancora dal 1583 al
1587, ancora ricevendo il califfato di quella ricca città da Uluch-Alì, nominalmente ultimo
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beglerbegi d’Algeri. Durante questo suo secondo mandato la guerra di corso contro i
cristiani fu intensificata e il numero degli schiavi ad Algeri, il quale, a dire del de Haedo, già
nel 1579 superava i 25mila, aumentò ancora considerevolmente, ma leggiamo ora il ritratto
che il Moro fa di questo veneziano rinnegato, arrivato alla più alta gerarchia della milizia
ottomana sia per suoi meriti che per sua fortuna:
... Assan Bassà è di statura mezzana, scarno di vita (‘corporatura’) e di colore olivastro,
accordo e sollecito nelle sue azioni, d'ingegno vivace, animoso di cuore e pronto di mano,
virtù le quali da esso per la sua prava natura sono sempre male usate. É poi non pure (‘non
solo’) collerico e superbo, ma vendicativo e grandemente crudele e lascerei di dire che
fosse avaro e bugiardo, essendo ciò proprio de' turchi, quando tali difetti in lui non
eccedessero l'ordinario. Mostra d'essere di poca complessione (‘salute’), con tutto questo
(‘ciò nonostante’) non vive molto regolato, confidandosi forse in due fontanelle (‘cauteri,
fistole’) che ha già (da) qualche anno, ma per l'abitudine del suo corpo (‘per i suoi stravizi’)
non par che prometta gran lunghezza di vita.
Tratta i suoi schiavi con ogni termine di rigore, né vuol dar ad essi riscatto se non a prezzi
altissimi ed eccessivi; usa di farli battere per ogni lieve occasione severissimamente,
stimando poco far dare ad uno mille e più bastonate, sicché alcuno per l'acerbità delle
percosse è restato morto, e, se colui a cui comanda il servizio (‘la bastonatura’) non si
adopra gagliardamente, esso (medesimo), portato dal furore, prende il bastone in mano e
batte l'uno e l'altro senza alcuna pietà. Quando è d'animo turbato (‘nervoso’), come spesso
occorre, essendo impazientissimo di natura, guai a chi de' suoi lo commuove
(‘innervosisce’) punto, perché incrudelisce contro d'esso sfogando (così) la rabbia concetta
per altro. (Ib. P. 358.)
La straordinaria avarizia dei turchi e dei levantini in genere è anche ricordata nella succitata
relazione veneto-francese da Costantinopoli del 1620, laddove si racconta del giovane
principe Amurat che, secondo una consuetudine del resto anche napoletana, lanciava
manciate di monete d’oro alla folla:
… che è una vera maniera d’accattivarsi il cuore di tali genti, le quali sono le più avare del
mondo. (In Les cérémonies, magnificence, triomphe etc. Op. cit)
Ma, tornando ora alla ferocia del predetto rinnegato veneziano, essa è confermata dal
cavaliere gerosolimitano de Haedo, prigioniero anch’egli ad Algeri al tempo del primo
governo di Hassan e per la precisione a partire dal 19 aprile del 1577, laddove questo
memorialista trae dai suoi appunti, accuratamente datati, i tanti episodi di particolare
crudeltà dei quali era stato testimone o di cui altri gli avevano reso testimonianza durante
gli anni della sua Captividad; il 30 aprile 1578 Hassan fece bastonare a morte in sua
presenza lo spagnolo trentacinquenne Cuellar, perché questi durante la notte precedente
aveva tentato di portar via dal porto una galeotta con la quale egli e altri circa 30 schiavi
spagnoli avevano progettato di fuggire:
704
… ordinò che gli si dessero molti colpi di bastone senza precisarne il numero. Gliene si
dettero tanti che i ‘kauk’ (‘servitori reali’), esecutori del tiranno, si stancarono, mentre il re
non cessava di gridare: ‘Colpite, colpite quel cane, uccidetelo, uccidetelo!’ I ‘kauk’
fracassarono le ossa e le viscere del disgraziato e lo lasciarono per morto. Due cristiani
vennero poi per sotterrarlo, ma, vedendo che era ancora in vita, lo portarono al bagno del
re, dove rese l’anima al Creatore due o tre giorni dopo, il 2 maggio… (D. de Haedo.Cit.)
Il 16 settembre dello stesso anno Hassan uccise di sua propria mano a bastonate certo Gian
Francesco, un bel giovane napoletano, di cui forse non era riuscito a carpire gli intimi
favori; il successivo 12 dicembre ammazzò, anche a bastonate, nel suo palazzo il
maiorchino Pierre Soler, colpevole di aver tentato la fuga a Orano, allora possedimento
degli spagnoli, fuga che non era impresa facilissima, visto che si trattava di percorrere via
terra 60 leghe d’allora; dopo altri quattro giorni fece dare 800 colpi di bastone al maiorchino
Alfonso e poi lo fece appendere per i piedi, provocandone infine la morte dopo sei ore di
tale supplizio, perché aveva nascosto nel suo giardino altri tre suoi schiavi cristiani
intenzionati a fuggire; il 13 gennaio 1579 uccise, sempre a bastonate, un catalano di nome
Peroto, catturato su una fregata presso le coste del suo paese e colpevole di non informarlo
a sufficienza sui movimenti della squadra spagnola; il 24 dicembre fece uccidere a
bastonate davanti a lui e nelle sue stanze Juan il Biscaglino, il quale avevano riacciuffato
mentre fuggiva verso Orano; il 29 marzo 1580 i suoi giannizzeri pestarono di colpi il
veneziano Luigi, il quale ne morirà poi il 16 aprile seguente; il 22 aprile perì allo stesso
modo in sua presenza il gentiluomo siciliano Vincenzo Lachitea, intendente dei grani; per
aver anch’egli tentato la fuga a Orano il 29 maggio 1580 fece pestare di santa ragione il
giovane montanaro spagnolo di nome Lorenzo, il quale poi ne morì due giorni dopo; il de
Haedo aggiunge che volendo avrebbe potuto trarre dai suoi appunti di prigionia ancora
molti altri nomi di cristiani uccisi o storpiati a bastonate da Hassan e dai suoi uomini nei
soli tre anni da cui si trovava anch’egli schiavo ad Algeri. Oltre che di bastonature e
fustigazioni, Hassan si dilettava anche di taglio di naso e orecchie ed ecco cosa infatti
aveva annotato a questo proposito il de Haedo nel solo triennio 1577-1580: il 15 settembre
1577 ad Algeri aveva fatto tagliare in sua presenza le orecchie a due ‘napoletani’, ossia a
due italiani meridionali, di nome mastro Angelo e mastro Giovanni Angelo, perché erano
stati sentiti proporsi di fuggire, e poi, a meno che il de Haedo non abbia fatto nei suoi
appunti un po’ di confusione, le stesso giorno dell’anno successivo, fattili legare allo stesso
palo, comandò fossero bruciati vivi per lo stesso motivo, ma, fortunatamente per i due
disgraziati e sebbene già bruciacchiati dal fuoco e quasi morti, furono sottratti alle fiamme
705
da due raís che, dovendo partire in corso quella stessa notte, avevano paura che,
spargendosi la voce di tale crudeltà, se fossero stati a loro volta presi dai cristiani,
avrebbero potuto per vendetta essere sottoposti allo stesso supplizio; subito dopo i due
raís si presentarono ad Hassan per chiedere la grazia per i due napoletani, ma il rinnegato
veneziano, adirato per questa loro iniziativa, fece tagliare le orecchie a tutti e due. Il 26
ottobre seguente fece nella sua camera di poppa subire lo stesso trattamento e per lo
stesso motivo allo spagnolo malagheno Diego de Rojas e, non contento, gli fece attaccare
le orecchie tagliate alla fronte e lo fece camminare oltraggiosamente così per la città; l’8
febbraio 1578 a un sardo di nome Martino, anche perché aveva espresso il desiderio di
fuggire; il 10 seguente al calabrese Costantino, il 13 al milanese Giovanni, il 13 marzo al
siciliano Francesco, il 16 giugno al piemontese Gerolamo; il 2 ottobre al calabrese
Giuseppe, tutti per il medesimo motivo e cioè perché avevano tentato di fuggirsene a
Orano; il 3 febbraio 1579 fece tagliare naso e orecchie a un giovane maiorchino di nome
Miguel, perché sorpreso a prepararsi una barca nel giardino del suo padrone, l’11 marzo
dello stesso 1579 allo spagnolo mancego Fernández per lo stesso identico e il 3 agosto,
nella sua camera di poppa e in sua presenza, a tre altri schiavi, al biscaglino Sebastián, al
mazarese Cola e al ventitreenne genovese Giovanni; questi ultimi, colpevoli d’essersi con
gli altri cristiani ammutinati e impadroniti a Bougie il 23 giugno d’una galera che egli aveva
mandato a Bona a caricare frumento e burro, fece poi il 30 dello stesso agosto appendere
per i piedi a testa in giù all’antenna della sua galera, infine perdonando i primi due, mentre,
per quanto riguarda il genovese, ne prolungò di molto le sofferenze facendolo inoltre
bersagliare di frecce e infine uccidere a colpi d’archibugio. Il 12 gennaio 1580 fece
strangolare il giovane francese Simon perché aveva nascosto in un giardino due cristiani
che si preparavano così a fuggire; l’11 febbraio seguente fece tagliare naso e orecchie a
due giovani maiorchini di nome Juan e Pablo, accusati d’aver nascosto nel giardino del loro
padrone altri cristiani intenzionati a fuggirsene per terra a Orano; tre giorni dopo gli
portarono ancora sei schiavi cristiani, dei quali il de Haedo non riuscì a conoscere i nomi,
presi mentre fuggivano appunto via terra e due di questi, i quali non gli appartenevano, fece
bastonare di santa ragione, mentre agli altri quattro, suoi schiavi maiorchini, fece tagliare le
orecchie. Il giudizio finale che il de Haedo da del rinnegato veneziano divenuto ‘re’ d’Algeri
è sprezzante:
… Non fa meraviglia che un simile tiranno, più crudele di tutti gli altri che hanno regnato ad
Algeri, agisca sempre così e, come tutti sono d’accordo nel dire, sembri non apprezzare
nient’altro che mostrare il suo odio per la religione cristiana. Ha un bell’essere re, è d’una
706
così bassa e così vile estrazione che non si è vergognato in questi ultimi giorni di
strangolare con le sue mani e nel suo proprio appartamento uno dei suoi negri, un
mussulmano, senza arrossire davanti a tutti quelli che erano presenti e che si stupivano che
un re si facesse carnefice d’un suo negro. (Ib.)
Quest’ultimo disgustoso episodio era avvenuto il 1° luglio 1579. Il passo seguente fa capire
perché Uluch-Alì aveva mirato ad acquisire potere in Barbaria piuttosto che restare a
Costantinopoli:
… É di spirito altiero e inquieto, ma, per mostrarsi di animo regolato e senza ambizione, mi
disse - quando arrivò a Costantinopoli eletto Capitano del mar - che non voleva negar
d'averlo avuto caro per la riputazione che ne riceveva, ma che non l'aveva procurato (lui)
poiché l'essere Vicerè di Tunisi con autorità sopra tutti i vascelli armati in Africa gli
apportava commodo e utile maggiore, oltre che era signor obedito e servito prontamente da
ognuno, dove in Costantinopoli aveva molti superiori, a' quali bisognava che portasse gran
rispetto accommodandoli (‘offrendo loro il servizio’) de' suoi schiavi e altro secondo
l'occasione; e che, 'sì come esso non aveva procurato quel carico, così stimava che le
orazioni de' christiani per liberarsi dalle sue mani avessero mosso il Signore Dio a metter in
animo al Gran Signore di fare elezione di lui, onde non gli fosse più permesso di navigar
come corsaro, affermando che la persona sua e la sua presenza muoveano tutti i 'leventi'
(‘corsari barbareschi’) ad unirsi con esso e a seguitarlo, con che aveva tanta commodità di
far grandissimo danno a' christiani; lo che non saria successo per l'avvenire, perché quelli,
non avendo (più) capo di autorità, sariano andati separati e quasi dispersi.
Discorre accommodatamente e con prontezza di spirito trova facilmente nuove invenzioni
per aggravar maggiormente la Christianità, della qual si mostra acerrimo persecutore, e, se
gli altri capitani, mossi dal loro utile, hanno del continuo procurato l'uscita dell'armata,
questo avidamente la brama, eccitato in oltre dalla vivacità della sua naturale ambizione
della gloria che lo stimola di continuo, sperando massime di potere un giorno, come esso
medesimo mi ha detto più d'una volta, impadronirsi di Fez (‘regno del Marocco’) [...] É però
(‘perciò’) tanto appassionato nell'interesse che, per poco che si tratti del suo, non conosce
amicizia né altro che possa con lui... (Ib.)
Infatti il de Haedo nel già citato dialogo descrive le grandi ricchezze, così procurate dalla
guerra di corso, che si potevano allora vedere ad Algeri e delle quali un quinto, sia in
schiavi sia in merci e valori, erano dovute al beglerbegi o comunque al governatore, il quale
avrebbe dovuto poi tributarne parte al sultano di Costantinopoli:
(Sosa:) … Ed è cosi, come voi vedete con i vostri occhi, che tutte le case, magazzini e
botteghe di questo paese di ladroni si riempiono d’oro, d’argento, di perle, di corallo,
d’ambra, di droghe, di zucchero, di ferro, d’acciaio, di rame, di stagno, di piombo, d’allume,
di solfo, di cera di Spagna, di ‘tincal’, di brasile, di tinture, di perline, di drappi, di lana, di
tessuti, di tela grossa e fine, di cotone, di vetro, di cristallo, di frumento, di vino, d’olio, di
sale, di fior di sale, senza contare d’altre mercanzie in quantità innumerevole, il che ha fatto
e fa di questa città la più ricca di tutte quelle del Levante e di Ponente, tanto che i turchi
dicono a ragione che essa costituisce le loro Indie e il loro Perù. (Ib.)
707
… quali più grandi ricchezze di tutte queste migliaia d’anime, tutti questi prigionieri cristiani
che vogano continuamente, incessantemente queste galere, questi brigantini e queste
fregate, prigionieri che si vendono in tutta la Barbaria e la Turchia e il cui prezzo di vendita
od il riscatto costituisce un tesoro enorme! (Ib.)
Antonio continua facendo il caso concreto appunto del predetto veneziano Hassan:
… Per (quanto riguarda) il rinnegato veneziano Hassan, il quale regna qui in questo
momento, noi tutti sappiamo con quanti competitori egli cozzi a Costantinopoli, quali
enormi somme egli versi nelle mani del gran Pasha Méhémet e alla sultana moglie del
Pasha Pialì e sorella del Gran Turco Mourad, allora regnante, e quanta pena ebbe il suo
padrone Otchali (‘Uluch-Ali’), il grande ammiraglio, persino con l’aiuto d’altri importanti
Pasha suoi amici, ad ottenere che venisse nominato a quel posto. (Ib.)
Eppure altri incarichi importanti in altri luoghi dell’impero gli erano stati proposti per il
veneziano suo protetto, ma nessun’altro era così ambito come il triennio di governatorato
ad Algeri:
… Hassan fu nominato non solamente grazie alla protezione d’Uluch-Alì, che era molto
influente presso il sultano, ma anche perché aveva donato forti somme di danaro a tutti i
pachà del Supremo Consiglio del Gran Turco, quali Mahamet Pachà, schiavone, Siman
Pachà, greco, Hassan Pachà, bosniaco, Pialì Pachà, ungherese, poiché il reame d’Algeri è
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uno dei più importanti che il Turco possiede e dal quale i governatori ricavano i più grandi
vantaggi e il maggior profitto, sia a causa del corso praticato da un gran numero di corsari
che per le risorse prodotte dalle popolazioni della Barbaria, le quali vengono ‘disossate’
(‘spolpate’). (Ib.)
Anche se ora uno degli uomini più potenti di Costantinopoli, Hassan doveva - come del
resto i suoi predecessori - essere anche capace d’accorta diplomazia, se voleva restare
nelle grazie del sultano:
... Ha sempre conservato sollecitamente e con molta accortezza l'amicizia del 'Capiagà'
(‘gran ciambellano’), il quale, per esser la prima persona d'ordinario servizio ch'abbia il
Gran Signore e però (‘perciò’) sta del continuo presso di lui, è un de' tre che ha libertà di
parlargli. Ha potuto favorirlo assai e l'ha anco fatto sempre come (essendo) della medesima
patria del Capitano, benché il 'Capiagà' sia nato (‘figlio’) [...] d'un chiogiotto di povera
fortuna, preso col padre, ritornando di [...] dove aveva servito per cavalier al clarissimo […]
e donato come figliuolo di gentiluomo a Sultan Selim, che - fattolo turco - lo ritenne in
serraglio e poi fu aggrandito dal presente Gran Signore (Amurat III, dal 1574). E forse per
questo solo più che per altro (Hassan) non fu lasciato cader l'anno passato - 'sì come
fermamente si credeva - per l'alterazione che Sua Maestà aveva preso contro d'esso pe'
grandissimi danni fatti a quel tempo dalle galee di Malta nell'Arcipelago. (Ib.)
Tratteggia brevemente la figura di Hassan il Cervantes Saavedra, dando la parola nel suo
Don Quijote a un cristiano ex-prigioniero dello stesso rinnegato veneziano, quando però
quest'ultimo era ancora al suo primo governo d'Algeri:
... e mi riferisco ad un rinnegato veneziano che, essendo mozzo di una nave, lo catturò
Uccialì e si prese tanta cura di lui che fu uno dei suoi giovanotti più beneficati e divenne il
più crudele rinnegato che giammai si è visto. Si chiamava Hassan Agà e arrivò ad essere
molto ricco e ad essere re d'Algeri... (M. de Cervantes Saavedra. Cit.)
Ricorda poi il predetto ex-prigioniero la sua esperienza di cattività ad Algeri, in uno dei
bagni di quella grande città-mercato di schiavi, dove era tenuto recluso insieme a tanti altri
poveri disgraziati presi prigionieri sulle coste o sui vascelli cristiani catturati da quei
corsari:
... E per quanto la fame e la nudità potessero tormentarci a volte, anzi quasi sempre,
nessuna cosa ci angustiava tanto come udire e vedere ad ogni pie' sospinto le giammai
viste né udite crudeltà che il mio padrone (Hassan) usava con i cristiani. Ogni giorno ne
impiccava uno, impalava questo, mozzava le orecchie a quello e ciò per così futili motivi - e
a volte anche senza - che i turchi sapevano che lo faceva solo per farlo e per esser per sua
natura omicida di tutto il genere umano... (Ib.)
... Il Cicala, Capitano del mare, siede in divano come Bassà Visir nel primo luogo dopo Ferat
e se lo è guadagnato con una continua servitù prestata sino dall'ora che uscì di serraglio; e
in Persia gli sono successe diverse fortunatissime imprese, nelle quali ha mostrato più
ardire e più valore della persona - accompagnato con inganni e stratagemmi - che giudizio e
prudenza per un supremo commando; ed è andato crescendo in reputazione mediante
l'appoggio della sultana sua suocera (fu figliuola di Rusten Bassà, della quale ha avuto per
mogli due figliuole l'una dopo l'altra); né gli osta mangiar l'oppio, detto 'afion', come fanno
la maggior parte de' turchi per rallegrarsi, e anco il bere vino proibitogli dalla legge
(islamica), se ben lo fa cautamente e con molta circospezione.
É ricco a maraviglia e per natura avarissimo, tutto dedito ad accumulare e la sua sordidezza
non ha paragone, come anco la falsità della lingua sempre menzognera e volta a fraude e ad
inganni; e si può dire con verità che tra tutti i ministri del Re non fu mai alcuno più odiato di
lui, anco dalli medesimi turchi, né saprei dire che alla Porta egli avesse altro amico che il
'capiagà', la prima persona di dentro appresso il Re, con il quale solo - come italiano - egli
s’intende bene e col mezzo suo si mantiene nel capitanato, stimato da lui al pari della vita.
Ma un mezzo più potente ancora usa esso Capitano, che è di scritturar (‘corrispondere’) col
Re in tutte le materie tanto alla libera che trapassa in licenza e, sotto pretesto di severità e
di fare il suo servizio, gli discopre i difetti d'altri e si mette lui innanzi; e la copia de' nemici
ch'egli ha è causa che tutti i rubbamenti ch'esso commette non li faccia per sé, ma per il Re,
al quale dà conto delle sue operazioni così minutamente che non vi è che opporre, e
all'incontro inventa sempre nuovi modi da portar danari a Sua Maestà né cura che siano
illeciti, sapendo che gli sono indifferentemente accetti; il che lo mantiene contra l'opinione
di tutti in quell'ufficio di capitano del mare, nel quale non è molto riputato perché non ha
cognizione della professione e non la esercita per li suoi veri termini, ma ha ben questa
condizione dell'ardire temerario, 'che dice che combatterebbe in mare e in terra con ogni
disavvantaggio. Ed ho scritto molte volte ch'esso non cura di grande armata, ma buona, ed
è uomo da usare artifizij e stratagemmi sotto specie di finta amicizia e adoperare
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intelligenze, spie e segrete corrispondenze e prometter molto e poi non attendere cosa
alcuna... (E. Albéri. Cit. S. III, v. III, pp. 424-425)
Nell’agosto del 1562 alcuni rinnegati italiani imbarcati sulla galera d’Uluch-Alì, come
abbiamo più sopra già accennato, s’ammutinarono e s’impadronirono del vascello,
costringendo lo stesso calabrese, ferito ora nuovamente dopo esserlo stato due anni prima
anche alle Gerbe, a salvarsi a nuoto sulla terra vicina; la galera fu portata dai 160 rivoltosi
cristiani a Messina, fu comprata dal ‘visconte’ Filippo Cicala, capitano di una condotta di
più galere siciliane, e da Luis Osorio, mastro di campo della fanteria spagnola di Sicilia, e
poi tolta a costoro dall’allora vicerè di quel regno duca di Medina Coeli per esigenze di
corte; il Cicala e l’Osorio, l’uno su una delle sue galere e l’altro sulla sua galeotta, salparono
per la Spagna per querelarsi dal re di questo torto subito, ma, passando accanto alle Égadi,
furono assaliti da una grossa galeotta e da due fuste turche che si nascondevano in
Maret(t)imo e dei cui tre raïs uno si chiamava Alì e un altro Zaban, non riportando il de
Haedo il nome del terzo; le due fuste, presa la galeotta dell’Osorio e fatti prigionieri, tra gli
altri, quest’ultimo e il genovese Nicolino, suo capitano, corsero in aiuto della loro galeotta
che combatteva con la galera del Cicala e così anche questa, anche perché in effetti in
quell’occasione i suoi uomini dimostrarono ben poco coraggio, fu presa. Il Cicala fu fatto
prigioniero insieme al figlio giovanetto Scipione e ambedue, dopo aver passato qualche
periodo a Tripoli con gli altri prigionieri, furono da Torgud inviati al sultano Sulaiman, ma,
mentre il padre, tenuto in una località sul Mar Maggiore detta le Sette Torri, presto vi morirà,
il figlio, fattosi maomettano ed educato dai turchi, ascenderà, attraverso i gradi di aghà dei
giannizzeri e di capitano della guardia del sultano, a quello altissimo di pasha con il ruolo
prima di capitano generale di terra e poi di mare dell’impero ottomano; l’Osorio sarà invece
riscattato e il predetto Nicolini, essendo stato riconosciuto come un cristiano che anni
prima era stato a Tripoli rinnegato, raís di galeotta e poi se n’era fuggito e ritornato alla sua
precedente religione, sarà il 12 aprile di quell’anno legato a un picchetto, lapidato e poi
incenerito. Pur se nato a Messina da famiglia messinese, Filippo Cicala allegava d’esser
d'origine genovese e, mentre inclinava abbastanza per Spagna, nazione che aveva sempre
beneficato la sua famiglia e ancora allora - nel 1590 - quella monarchia corrispondeva una
pensione di 500 scudi l'anno al fratello minore Carlo e una di mille al fratello maggiore
Filippo che viveva a Messina, professava aperta inimicizia alla Repubblica di Venezia,
perché con questa la sua famiglia aveva nel passato avuto dei seri screzi; lo Zanne quindi
cercava nella sua predetta relazione di consigliare al suo senato il giusto comportamento
da tenersi con il Cicala:
711
Lo Zanne, a proposito poi d’un possibile successore del Cicala, menziona tra i più probabili,
oltre ad Alil e a Ibrahim, ambedue generi del sultano, il calabrese rinnegato Giaffer (Jafar
Pacha, forse il più intendente), del quale poi di più diremo, e soprattutto il già nominato
rinnegato Mami Arnaute (‘Mami l’Albanese’), un subordinato del Cicala, il quale era stato la
seconda autorità ad Algeri al tempo della reggenza del veneziano Hassan e nel 1582 aveva
pure preso un effimero potere in quella vituperata città capeggiando una rivolta contro il
suddetto Caid Ramdan, appena nominato dalla Sublime Porta governatore per la seconda
volta e con l’ordine perentorio di far cessare il corso algerino contro gli alleati francesi,
costringendolo a fuggire dalla città:
... Arnaute Memi, corsaro famoso e già vecchio, che fu chiamato di Barberia a
Costantinopoli a servire di capitano di una (galera di) guardia e quasi di luogotenente e di
guida al Cicala, non si fidando la Porta del suo commando. Costui come corsaro fu
arrisicatissimo ed ora - (da) capitano - non si conforma in questo col Cicala, di navigare con
poche forze e arrischiarle; ma per conclusione è facil cosa far giudizio in chi possa cadere il
capitanato, conoscendosi la natura del Re, che non patirà mai di conferirlo ad altri che al
più offerente, compresi anco li generi. (Ib. P. 428.)
Lo Zanne vuol qui dire che la tradizionale abitudine turca di vendere le cariche pubbliche
era ora accentuata dalla particolare avidità del presente Sultano Amurat III e anche il Cicala
aveva dovuto comprare il suo capitanato:
... Il Cicala, che lo pagò 200.000 zecchini e ne cava forse 40.000 all'anno come Capitano del
mare e 'beglierbei' dell'isole di Arcipelago e delle marine, vorria prima venir sul suo (‘rifarsi
del suo’) con qualche guadagno, professando bensì di dare al Re tutto quello che ne cava
estraordinariamente, e mette in considerazione a Sua Maestà che questo utile
estraordinario verria mangiato da ogni altro che avesse il suo luogo e che però (‘perciò’) gli
712
mette conto non dar orecchie a chi gli dice che non conviene che un ministro come lui
abbia due carichi, di Bassà Visir e di capitano (del mare), e che, quando pure la Maestà Sua
volesse levargli l'uno, sia quello di Visir; ma soggiunge che li servizij e meriti suoi lo fanno
capace di ambidue. Con che e con li presenti e favori della Sultana sua suocera - e molto
più con la sua accortezza - ha portato e porta tuttavia il tempo innanzi (‘dura tuttora’).
L'ambasciator di Francia, suo diffidente e aperto nemico - oltre il rispetto publico - per
alcuni suoi particolari, ha tenuto mano con gli agenti di Giaffer calabrese, che ultimamente
era bassà di Tripoli di Soria (‘Siria’), in trovar gioje (‘regali’) per farlo dimettere ed entrar
esso Giaffer, ma la somma non è stata considerabile a sufficienza... (Ib.)
E d'altra parte, anche se a tal scopo si fosse raccolta una somma bastevole, sarebbe stato
necessario accertarsi anche d’altre cose, vista la delicatezza dell'operazione anti-Cicala:
... ma bisognaria assicurarsi che la spesa fosse impiegata in soggetto confidente e non
spagnuolo (‘filo-spagnolo’), come è riputato questo (Giaffer), e che in alcun tempo non si
risapesse; condizioni che non si trovano in Turchia, dove non si sa celar per troppo tempo
qual si voglia gran segreto e dove i benefizij per l'ordinario a gran fatica sono riconosciuti
per più di un giorno solo, tanto è perfida la natura de' rinnegati, massime italiani, tra i quali
si conta questo Giaffer, col quale, nel tempo ch'egli è stato alla Porta di ritorno di Bassà di
Tripoli, ho trattato materie dispiacevoli di ricuperazione di schiavi, onde non ho potuto
introdurre seco confidenza, come l'ho avuta con gli altri soggetti grandi da mare che sono
capitati in mio tempo a Costantinopoli. (Ib. P. 429.)
... Sinan, detto il Cicala, secondo Bascià della Porta e Capo del mare, è di nazione
messinese, ma oriundo genovese, di età di quarantotto in cinquanta anni; fu preso con il
padre, che era famoso corsaro, già trentadue anni (or sono, cioè nel 1561) e poteva aver
allora sedici in diciassette anni. Fu posto in serraglio al servizio di Sultan Solimano e
continuò in esso sino che uscì 'Agà' (‘generale’) dei giannizzeri; ha avuto per moglie una
figliuola della figlia unica ed erede delle grandissime ricchezze di Rusten Bascià, di sangue
reale, e, morta la prima, tolse la seconda sorella, la qual ora vive, e ha avuti figliuoli dall'una
e dall'altra. É opinione che abbia ricchezze grandissime acquistate in Persia, di dove ha
riportato nome di molto valore, talché era stimato uno de' principali capitani che avesse
quella Maestà, ma, con la presenza sua, ha perso molto di reputazione, essendo riuscito a
tutti un ciarlatore vano e generalmente da ognuno stimato uomo leggiero; ond'è comune
opinione che lui non possa lungamente durar Capitano del mare, ma che fra poco tempo
debba esser tolto e dato quel carico ad altri, fra li quali si nomina per principali Giufer
Bascià, calabrese, uomo savio, amico de' christiani e della professione di mare, e Meemet
Bascià, albanese; ma finalmente sarà dato il carico a chi offerirà più denari al Gran Signore.
Quest'uomo si stima molto per la nobiltà del suo sangue, di che se ne gloria spesso ed ha
piacere esser laudato. Mostra nel suo parlare desiderio di gloria e di farsi nominare nella
713
Christianità e par che anco a questo fine abbia procurato questo capitanato e avanti
aspirava ad imprese più tosto contro il Re Catholico che contro altri principi della
Christianità; ma, nel principio di questo suo carico, si ha resi così mal affetti tutti quelli della
professione di mare che ognuno si fa lecito parlar contro la persona sua senza alcun
rispetto, solo perché è avaro e misero e manca di quella parte che fa amare e stimare, che è
la liberalità; ma la suocera, che è ricchissima e amata dal Gran Signore, lo sostenta in
facoltà e gli dà molta riputazione.
Mostra buon animo e d'esser ben affetto verso questa Serenissima Republica (di Venezia),
ma senza dubbio maggiormente ama ed è ben affetto verso la sua borsa, con la quale si
dominerà l'animo di questo soggetto sempre che occorrerà. (Ib.S. III, v. II, pp. 355-356.)
L’Auria narra un episodio di pietà filiale che questo feroce rinnegato avrebbe dimostrato nel
1598, ma sino a che punto tale avvenimento, da lui tratto dal Bonfiglio e da altri, sia
realmente accaduto non siamo in grado di dire; il 18 settembre di quell’anno il Cicala aveva
dunque riportato al sua armata nel Canale di Messina a minacciare sia questa città sia la già
devastata Reggio, dopo aver già costretto a misure straordinarie di difesa i cavalieri di
Malta, e la cosa accadeva durante il generalato delle galere siciliane del già nominato Pedro
de Gamboa y Leyva e il viceregnato in Sicilia di Bernardino de Cardines duca di Macheda
(1598-1601), il quale molto promosse la guerra di corso contro i turco-barbareschi e ne
ricavò consistenti bottini:
… Mentre si stava in così fatti sospetti, il Cicala mandò al Vicerè in Messina uno schiavo
cristiano, che poi lo fece franco, doman(dan)dogli in grazia che gl’inviasse Lucrezia sua
madre per solo vederla ed onorarla, onde subito prometteva partirsi da quei mari senza
molestia del dominio del Re di Spagna. E in tal guisa passarono gli strepiti di quella noiosa
‘cicala’, perché l’asprezza delle sue minaccie si raddolcirono con l’amor naturale della sola
vista della di lui amata madre. Onde il medesimo Cicala, per più facilitare il suo desiderio,
mandava al nostro Vicerè di Sicilia un suo figlio per ostaggio e gli mandò a dir di più che gli
anni a dietro, avendo richiesto la stessa bramata vista al Conte d’Olivares Vicerè suo
predecessore ed essendogli stata negata, mosso il Cicala quasi da giusto sdegno, si spinse
a danneggiar la Calabria (1593-1594). Quindi il vicerè Duca di Macheda, fatto più accorto da
quell’esempio, gli rispose amorevolmente e, ritenuto l’ostaggio sudetto del Cicala, gli
mandò da Messina sua madre con due fratelli sopra una galera, onde il Cicala ricevé la
madre con due fratelli con sua grandissima contentezza, giunta a somma tenerezza di
lagrime, e, dando a tutti non pochi presenti di gran valore, li rimandò in Messina con la
stessa galera; e nel seguente giorno si partì verso Africa e, tentando sorprender l’isola del
Gozzo, vicina di Malta, ritrovandovi buona resistenza, se ne passò a riveder le fortezze
africane. (V. Auria. Cit. P. 71.)
Ma, allontanandoci ora da quelli ottomani in particolare, torniamo a discorrere dei capitani
generali di mare in generale e diciamo che per forza di cose un generale doveva essere
buon conoscitore della guerra nautica, della navigazione - anche se con l'aiuto d’ottimi
consiglieri - e inoltre di vizi, virtù e superstizioni degli uomini di mare; a quest'ultimo
proposito il Crescenzio racconta un episodio molto indicativo della superstizione che
714
permeava la religiosità delle marinaresche del suo tempo. Avendo dunque nel 1587 il papa
Sisto V fatta fabbricare la sua galera Capitana in Roma e dovendolasi trasferire via fiume a
ostia e poi a Civitavecchia, i marinai, per evitare una maggior fatica, la zavorrarono con
marmi presi facilmente di notte in una vecchia chiesa sconsacrata e rovinata di Ripa
Grande, nella quale in tempi passati i barcaioli del Tevere avevano usato sentir messa; la
galera, trasferita regolarmente a Civitavecchia e colà armata, partì poi in viaggio inaugurale
e con buon vento alla volta di Napoli insieme alle altre galere della squadra pontificia.
Arrivati però questi vascelli appena a Capo Linaro, incontrarono grosse difficoltà di
navigazione a causa d'improvvisi venti contrari e furono pertanto costretti a tornare in
porto. Qualcuno a bordo della Capitana cominciò a dire che il tempo contrario era
certamente dovuto alla presenza a bordo di quei sacri marmi profanati e usati come vile
zavorra e allora, venute queste parole all'orecchio del capitano generale pontificio, in quella
squadra nel secolo seguente più spesso rimpiazzato da un governatore generale, il quale
era allora il patrizio genovese Orazio Lercaro, questi, giunta la notte, fece segretamente
sbarcare i marmi e li fece portare e depositare nella chiesa della Madonna in Civitavecchia.
La mattina seguente il vento fu finalmente davvero propizio e la galera Capitana poté
riprendere il suo viaggio verso Napoli senza incontrare ulteriori difficoltà. Arrivata però la
squadra a Procida, sosta consueta delle galere che passavano per il golfo di Napoli,
accadde un altro strano evento meteorologico e cioè, mentre il generale Lercaro e i suoi
capitani erano a terra a pranzo con il vicerè di Napoli conte di Miranda, cadde a
mezzogiorno e a cielo sereno (fr. temps fin) un fulmine sulla galera S. Lucia, uscì da questa
da sotto una rembata e montò sul calcese della galera Capitana e su quello della Patrona
spezzandoli con gran rovina, mentre la S. Lucia n’era rimasta meravigliosamente illesa e,
anche se il Crescenzio non ce lo dice, c'è da ritenere che questa fortunata incolumità sia
stata dai marinai della Capitana sicuramente attribuita all'avvenuto ravvedimento
dell'equipaggio riguardo alla faccenda dei marmi sacri. In realtà erano quelli tempi in cui nel
Napoletano - e non solo ovviamente - piovevano dal cielo frequentemente fulmini così
violenti da rompere i cornicioni dei palazzi e da uccidere talvolta persone e animali anche
nelle strade della stessa Napoli, il che non è insolito leggere nelle cronache dell'epoca. Un
altro fulmine cadde nell’autunno del 1570 sull’albero della galera Capitana della squadra
pontificia, allora comandata dal generale Marc’Antonio Colonna, mentre questa navigava di
conserva con altre all’altezza delle Bocche di Càttaro, salvandosi fortunatamente la sua
gente parte in terra e parte, incluso il Colonna, a bordo della galea veneziana del
sovraccòmito Francesco Tron, la quale però poco dopo fu dalla tempesta mandata a
715
fracassarsi sulla spiaggia; il Colonna e gli altri furono però tutti soccorsi dai ragusei, i quali
si rifiutarono di consegnargli ai turchi che li reclamavano, anzi li aiutarono a rimettere in
sesto le loro malconce galere. Andando infine indietro nel tempo sino all’ottobre del 1464,
vediamo distrutta da un fulmine a ciel sereno una galea grossa carica di rifornimenti
destinati alle soldatesche veneziane allora stanziate in Morea:
... Partendo un altro viaggio da Gaeta per Napoli, si avviò innanti a vela la galea 'S. Lucia'
con vento fresco in filo di ruota (‘con vento deciso in poppa’) ed, essendo circa due miglia
lontana dal porto, si fermò totalmente, pur che (‘anche se’) la vela era gonfia che pareva uno
scoglio e, facendo il còmito guardare se vi era qualche corda o rete in mare che havesse
preso il timone, non trovando nulla, fece calar remo e arrancare la ciurma a furia di buone
bastonate; ma ne però la galea si muoveva di quel luogo e l'altre galere, che erano passate
innanti, essendo più d'un quarto d'hora che questa galea si era fermata, ammainorono per
aspettarla. All'hora un frate catelano, che era alla catena (di voga), disse al cavalliero fra'
Spoletino Virginio, capitan di quella, che facesse levar dalla poppa dello schiffo tre religiosi
di quei che chiamano 'Fatti ben fratelli', che stavano dicendo la corona, e che subito la
galea caminarebbe; ed, havendo fatto levare il capitano, non fu dubbio che la galea
cominciò a correre come una saetta, per il che tutti corsero a voler gettare quei tre poveretti
in mare, dicendo essere scommunicati; ma, soccorrendo lo stesso frate che era alla catena
con dire essere questa un’astutia diabolica per far mettere in quel pericolo quelli religiosi,
fece che si contentorno di fargli subito sbarcare. (B. Crescenzio. Cit. Pp. 397-398.)
una chiesa di rito greco. Andando poi indietro nel tempo e cioè al già menzionato diario del
viaggio in Terrasanta di Gabriele Capodilista, avvenuto nel 1458, c’è l’episodio del martedì
30 maggio di quell’anno, in cui la galea grossa veneziana che portava i pellegrini,
trovandosi al largo delle coste albanesi, viene assalita da una tempesta di mare tanto forte
da metterla a rischio d’affondare:
… Di che lo patrone molto si meravigliava vedendo tal fortuna, la qual al dir suo haveria
bastato di genaro, e, non vedendo altro rimedio, lo patron fece scriver molti nomi de sancti
in breve e poterli in una beretta e disse ad alguni peregrini, tra li quali furono miser Antonio
e miser Gabrielle, che ogniuno cavasse uno de dicti breve e facesse voto a quel sancto
ch’el trovarla scripto suso che, come fosse in terra ferma, gli fariano dire una messa a suo
honor e riverenza e getaseno li brevi in mare e cossì fu fato. E, come a Dio piaque, la sera
comenzò la pioza, el vento, el mare abonazarse, di che ogniuno ringrazia Dio… (A. L.
Momigliano Lepschy. Cit.)
Nel 1480 poi, durante il viaggio di ritorno da Terrasanta della galea veneziana sulla quale si
trovava imbarcato anche Santo Brasca, questi racconta dell’uso che si fece d’uno dei chiodi
che a Gerusalemme erano venduti ai pellegrini facendoli credere quelli originali usati per
inchiodare Gesù Cristo sulla croce:
… e nel dicto colpho Sancta Helena, tornando de Ierusalem con li chiodi con li quali fu ficto
su la croce el nostro redemptore e ritrovandossi lì con grandissima fortuna, dubitando de
perire, (si) butò uno chiodo ne l’aqua e subito el mare se abonazò e diventò tranquillo… (Ib.)
… In questo colpho nui eziandio stessemo in bonaza senza vento circa 16 giorni avante che
potessemo mettere scala col più extremo caldo del mondo; unde ch’el patrono, vedendo
questa, domandò tuti li peregrini e si fece portare tuta quela aqua del fiume Iordano che
havevano e la gettò in mare, perché se dice che tanto che l’aqua del Iordano sta in galea
ch’el mare sempre sta in bonaza; e così fece fare la crida (‘il bando’) che né galeoti né altri
giocassero a carte né a dadi. Puoi (‘Poi’), levandosi lo vento ostro, gionsemo a Rhodi a dì 9
setembris. (Ib.)
La cosa notevole è che dunque non solo i profani del mare e i marinai ignoranti credevano a
questi rimedi superstiziosi, ma anche lo stesso nobile comandante della galea!
Proseguendo in questa navigazione di ritorno la predetta galea continua però a essere
martoriata dal maltempo:
sotto coperta, in modo che li peregrini iacevano tuti per morti, con tanti vomiti e anxietate
che l’uno non poteva dare secorso a l’altro… (Ib.)
La galea è costretta a procedere quasi a secho (lem/ctm. a arbre sech), ossia senza vele
tranne quella di trinchetto, per evitare che la violenza del vento le spezzi l’alberatura, e
ancora una volta il patrono si vede costretto a ricorrere alla fede religiosa:
… Vedendo questo, lo patrono fece che tuti inscieme votassemo de fare uno peregrino a
Sancta Maria de Casoppo (‘Casopoli’, presso Corfù) e così, facta la ricolta de li dinari, cum
primum giungessimo in terra fu mandato via dicto peregrino… (Ib.)
Credeva la gente di galera che, quando il predetto fuoco di Sant'Elmo (ol. vroe-vuur)
appariva sulle pale dei remi, questo fosse presagio di morte, come d’altra parte credevano i
marinai che preannunziasse buon tempo quando si attaccava ad alberi, pennoni, vele o
manovre e cattivo tempo quando invece volteggiava nell’aria; ma la superstizione
concernente questo fenomeno atmosferico era tanta e tanto antica che neppure i generali e
le persone colte n’erano immuni e facevano quindi i debiti scongiuri, come racconta sempre
il Crescenzio:
... Ma perché ci maravigliamo noi de' marinari, genti totalmente ignoranti nelle cose di Dio,
se il signor Don Pietro di Toleto (‘Toledo’), generale delle galere di Napoli, e il signor
Commendator Pucci, general di quelle di Nostro Signore (‘il Papa’) hanno permesso questo
ottobre del '95 (‘1595’) a Capo Spartivento salutar questa ria luce, che nel calcese ci
apparse in mezo una gran fortuna (‘fortunale’), tre volte a son di trombette; e a Napoli nello
stesso mese e temporale, un’altra volta che ella ci apparse, si lasciò dal detto signor
Commendator salutare questo emulo del Cielo? (B. Crescenzio. Cit. P. 408.)
Del motivo per cui il fuoco di S. Elmo fosse così chiamato, specie da castigliani e italiani, si
possono dare due diverse spiegazioni. Delle tre dizioni che si trovano, cioè S. Elmo, S.
Ermo e S. Telmo, le prime due non sembrano esser altro che corruzioni di S. Er.mo, sincope
718
tachigrafica di S. Erasmo di Formia, protettore della gente di mare, del quale oltretutto si
diceva che avesse continuato a pregare senza scomporsi anche quando un fulmine era
venuto a schiantarsi al suolo proprio a fianco a lui, e quindi riteniamo molto accettabile la
spiegazione data dal de Savérien e cioè che, credendo i navigatori che quello strano fuoco
fosse il modo di manifestarsi d’uno stregone malvagio, cercavano di colpirlo con bastoni e
invocavano contro di lui il predetto S. Erasmo, ma anche altri santi; infatti sull'oceano quel
fenomeno era pure chiamato fuoco di S. Nicola, di S. Chiara, di S. Elena ecc., oltre che - in
francese - flammeroles, furol(l)es o flambars. I marinai dell’oceano lo consideravano di
cattivo augurio se singolo, ma, se apparivano due di tali fuochi insieme, detti Castore e
Polluce, allora li consideravano di buon augurio e li salutavano festosamente con i fischietti
di comando. La terza dizione invece è comune agli spagnoli e ai portoghesi, perché vuol
ricordare non l’italiano S. Erasmo, ma il beato spagnolo Pedro Gonzales Telmo, anch’egli
protettore dei marinai, ma di quelli di ponente in quanto egli, nato a Palencia, predicò e
insegnò soprattutto in Galizia e lungo le coste atlantiche della penisola iberica; infatti
Antonio de Ubilla y Medina marchese di Ribas, segretario di stato e degli affari universali di
Filippo V di Spagna, seguendo questo sovrano in visita a Napoli nel 1702, chiamerà sempre
Castel S. Eramo Castel S. Telmo (Andrea Perrucci, Distinto diario dell’oprato della Maestà
cattolica di Filippo V […] dalla sua partenza da Barcellona, sua dimora e partenza da questa
città etc. Napoli, 1702.).
Altro fenomeno atmosferico che gli uomini di mare molto temevano, ma questa volta a
ragione, erano le trombe, sia quelle violentissime d’acqua chiara sia quelle nere [ol. hoos(e),
onweers-hoofdt], le quali con quel loro far ribollire il mare pure li terrorizzavano; mentre
nell’oceano i marinai protestanti si limitavano a stringere le vele finché la tromba non fosse
passata, quelli cattolici si mettevano per tradizione a recitare il vangelo di S. Giovanni, nella
convinzione che questo servisse a dissipare la tromba, e quelli del Mediterraneo, per
quanto concerne le trombe nere, superstiziosamente credevano che per farle cessare
bisognava conficcare nell’albero di maestra un coltello dal manico nero. I naviganti
dell’oceano credevano inoltre che, se mentre si caricava la provvista di viveri a bordo il
vascello sbandava a destra, la navigazione sarebbe stata lunga e faticosa; se invece
sbandava a sinistra, il viaggio sarebbe stato felice. Innumerevoli erano poi le credenze
meteorologiche legate al comportamento degli uccelli, degl’insetti e dei pesci; tipica quella
relativa al mostrarsi dei delfini:
…E quella sera aparse una gran quantitade de delphini, i quali, come dicono i marinari,
sono ambasiatori di qualche fortuna di mare (A. L. Momigliano Lepschy. Cit.)
719
Un capitano generale doveva esser eloquente per poter partecipare con autorità a consigli e
consulti e per poter esortare i suoi a ben fare nella imminenza d'una battaglia:
... Ho detto che al Capitano è mestiero di esser eloquente, ma non lo voglio loquace come
sono per la maggior parte coloro che sono timidi (‘timorosi’) e di poco animo; il garrire è
degli uccelli e non de' leoni. Similmente abondano di parole le femine, i fanciulli e i vecchi,
ne' quali naturalmente è debole il vigor dell'animo. (C. da Canal. Cit.)
Nelle questioni e scelte di maggior peso sempre convocare la consulta maggiore della sua
squadra o armata, cioè doveva chiamare a consulto gli ufficiali più anziani ed esperti perché
esprimessero il loro parere e lo consigliassero.
Materia in cui il generale o il semplice capitano d’un vascello doveva essere ferratissimo, a
evitar grandi guai al suo sovrano, era quella delle precedenze nel cerimoniale dei saluti che
si usavano in mare, saluti che, fino a tutto il Quattrocento, erano avvenuti semplicemente
con un ammaina-vele fatto dall’inferiore in segno di omaggio al superiore; ecco un episodio
narrato da Domenico Malipiero avvenuto nel 1480 durante l’assedio turco di Rodi (trad. dal
veneziano):
Antonio Surian, patrone di una galea grossa di Siria (cioè di una galea commerciale che
faceva la linea Venezia-Siria), referisce che, navigando nel mese di Maggio, passato per il
canale di Rodi, scoprì l'armata turchesca; e, non potendo schivarla, gli fu comandato da
due galee sottili che gli andarono attorno, che calasse le vele, e obbedì; e, montando su una
d'esse, fu condotto dal capitanio, il qual gli domandò quel che andava facendo; e gli rispose
che andava al suo viaggio (cioè al viaggio di Siria)… (Annali veneti etc. Parte prima, pp. 129-
130.)
Essendo allora Venezia e Costantinopoli in pace ed essendo le loro forze militari non
ancora tanto impari come purtroppo diventeranno poi via via sempre di più nel secolo
successivo, il capitano turco professò al Surian il suo massimo rispetto per la Serenissima
e lo trattò con massima gentilezza, facendogli, prima di lasciarlo poi proseguire nel suo
viaggio verso la Siria, addirittura visitare orgogliosamente il campo del grande esercito
turco allora all’assedio di Rodi e la potente artiglieria di cui disponeva. Tra l’altro a
proposito dei saluti marittimi, gli aveva detto anche quanto segue, non si sa però fino a che
punto veritiero:
… che sono capitate in quel canale 3 navi di Siria (anch’esse veneziane) e, per non aver
voluto calare le vele, le ha fatto ritenere e ha scritto a Costantinopoli e aspetta ordini di
720
quello che ne deve fare; ma, che se fossero state d’altri, avrebbe messo a morte tutti quelli
che vi erano sopra… (Ib.).
Non andò invece altrettanto bene diciassette anni dopo alla galea grossa del Zafo del
patrone Alvise Zorzi, cioè a una – da noi più sopra già due volte ricordata - che faceva il
viaggio di Giaffa in Palestina portando soprattutto pellegrini, perché questa il 23 giugno
appunto 1497, giunta nello stretto greco tra Cerigo e Capo Malio, allora detta in quei tempi
diciottesima, cioè verso l’una del pomeriggio, s’imbatterono in nove vele turche e cioè 2
galee, 1 barza, 1 schirazzo e 5 fuste e avrebbero dovuto ammainare le vele perché il saluto
toccava in quel caso a loro e non alla squadra ottomana; ma, non essendo ben sicuri se si
trattasse di turchi o di corsari, chiesero chi fosse il capitano di quella formazione e, non
ricevendo risposta, non ammainarono le vele, perché non intendevano abbassarle a chi
magari non dovevano. I turchi, mancando quel doveroso ossequio e pensando che non si
trattasse quindi di veri veneziani, ma di nemici francesi nemica, li assalirono e la battaglia
durò 4 ore e mezza con morti e feriti; uscendone la galea grossa, la quale oltretutto era per
fatalità pochissimo armata, non vinta ma molto mal ridotta. Solo allora però fu finalmente
chiarito l’equivoco e i turchi, accontentandosi di alcuni regali, permisero ai veneziani di
proseguire il loro viaggio (ib. Pp. 154-158).
Insomma la questione della precedenza del saluto in mare poteva risultare molto
pericolosa.
Nel Cinquecento invece, ben affermatasi ormai l’artiglieria navale, i saluti avvenivano
soprattutto a mezzo di salve di cannone alle quali il salutato rispondeva con un minor
numero di salve, ma nel secolo successivo altre forme furono sempre più usate o
introdotte, includendo il mettersi sottovento (fr. à vau-le vent, au dessous du vent) del
vascello preminente presentandogli la poppa ( dal cui uso nacquero osceni ma significativi
modi di dire ancor’oggi comuni), l’ammainare la bandiera totalmente o a mezz’asta oppure
semplicemente - come via mediana tra queste due pratiche - il raccoglierla mandando un
uomo ad abbracciarla strettamente, pratica questa che sarà introdotta tra le nazioni
nordiche, o anche il farla scorrere piegata lungo il suo bastone (fr. mettre le pavillon en
berne); il serrare (fr. ferler, saquer, serrer) qualche vela e specialmente quella di trinchetto o
quella di gabbia di maestra, quando non si avevano cannoni o non si portava stendardo; le
salve d’archibugeria, il gridare degli ‘evviva’, l’ancorarsi sotto lo stendardo del vascello più
importante e il mandargli a bordo qualche ufficiale. Lo stendardo reale non doveva però
giammai abbassato per salutare chiunque lo pretendesse; piuttosto bisognava morire.
Doveva il comandante sapere soprattutto se, incrociando un vascello di un’altra nazione o
721
passando sotto una fortezza costiera straniera, era suo dovere salutare per primo o se
invece toccava a lui ricevere per primo il saluto e quindi dover unicamente a quello
rispondere; la materia era molto complicata e dava adito a frequenti incidenti diplomatici, i
quali, se non presto ricomposti, potevano degenerare fin’anche a diventare un valido
pretesto per dichiarare una guerra. Il principio che ispirava tale cerimoniale era che di
regola l'inferiore doveva salutare per primo il superiore con le sue salve di cannone e aveva
diritto a ottenere una salva di risposta, il che era alquanto semplice se ci s’incontrava tra
vascelli o tra vascelli e fortezze della stessa nazione; per esempio il vascello mercantile
doveva salutare per primo quello da guerra, quello sottovento quello che gli fosse
sopravvento, di regola poi una squadra di galere che entrasse in un porto principale doveva
salutare per prima con le sue salve e le fortezze del luogo avrebbero risposto con altre
salve, a meno che nella squadra non fosse presente la galera Reale (gr. μία τριήρης, ἡ
βασιλιϰὴ ναυαρχίς. Nicefono Gregoras, Historiae bizantinae. L. XXXVI, 8), ossia la Capitana
del principe – chiamandosi Reale anche la galera assegnata al doge di Venezia - e quindi di
tutte le squadre a lui soggette, perché in tal caso sarebbero state le fortezze del porto a
salutare per prime; ma in qualsiasi porto comunque si entrasse, anche privo di fortezze, se
la galera di comando della squadra ch'entrava non era né la Reale né una Capitana di quelle
importanti, di quelle cioè che portavano lo stendardo alla spalla, la consuetudine corrente
voleva che la squadra salutasse sempre per prima; la salva che si usava arrivando nel porto
di Napoli e quella che si riceveva in risposta dai castelli e dalle fortezze di quella città era
tradizionalmente particolare e diversa da quelle in uso negli altri porti e quindi bisognava
sapere anche questo. Secondo le ordinanze di Spagna, quando suoi vascelli da guerra non
di comando s’incontravano nello stesso porto, il primo arrivato assumeva le funzioni e le
preminenze di vascello ammiraglio e il secondo di vice-ammiraglio. Anche i vascelli
commerciali avevano le loro regole e, per esempio, all’isola di Terranova il primo
peschereccio arrivato era considerato ‘ammiraglio della pesca’ e quindi dava agli altri i suoi
ordini, assegnava loro il luogo di pesca e componeva le loro eventuali divergenze.
La materia diventava comunque molto più complessa e pericolosa quando si trattava
d’incontri tra vascelli o di saluti tra vascelli e fortezze di due diverse nazioni che non
fossero in guerra tra loro, perché le regole consuetudinarie erano opinabili e non tutti
seguivano le stesse, tranne che nessuno accettava l’ammiragliato d’un vascello di un’altra
nazione a meno che ciò non fosse dovuto a precedenti accordi di alleanza o lega di guerra;
generalmente il vascello d’una repubblica salutava per primo quello d’un regno che fosse
però di rango non inferiore al suo, quello da guerra che fosse presso le coste del suo stato
722
... I sinistri accidenti che occorrono spesso, per la gelosia (‘sospetto’) che hanno i Principi
delle cose loro intorno a questo, ci danno occasione di parlar così; desiderando noi che i
capi della nostra armata stiano attenti e cauti nel maneggio di questo negozio, come in cosa
che alcune volte stringe tanto che bisogna aventurarvi la vita, come habbiamo detto, quanto
si farebbe nella battaglia istessa. (P. Pantera. Cit. P. 234.)
I vascelli che portavano pellegrini in Terrasanta erano salutati per primi dalle galee
veneziane, le quali infatti, incontrandoli, abbassavano per consuetudine la vela e l’albero in
segno di riverenza. Sembra che prima del 1537 i vascelli veneziani si facessero salutare per
primi da quelli turchi, ma in quell’anno il Barbarossa, kapudan pasha di Sulaiman il
Magnifico ed ex-beglerbegi d’Algeri, mentre da questa città si recava a Costantinopoli con
18 tra vascelli sottili grandi e piccoli e incontrandosi per mare con 14 galee veneziane che
venivano da Sàssino (‘Sàseno’) sotto la guida di Girolamo da Canal, rifiutò d’ammainare il
suo stendardo davanti a quello di quest’ufficiale generale della Serenissima; i veneziani
allora, come abbiamo già più sopra ricordato, lo attaccarono affondandogli due galere e
questo episodio sembra esser quello che dette inizio a quella sanguinosa guerra contro
Venezia, oltre che contro l’Impero, che venne a interrompere una pace stipulata dalla
Serenissima con Costantinopoli nel lontano marzo del 1503, conflitto che avrà come suoi
episodi più rilevanti l’assedio di Corfù del 1537, per i veneziani fortunatamente non riuscito,
723
l’anno seguente la famosa battaglia della Prévesa e infine la pace del 2 ottobre 1540, trattato
col quale i veneziani cederanno alla Gran Porta tutto quanto restava dei loro possedimenti
in Morea e che sarà rotto solo nel 1570 con la guerra di Cipro. Questi incidenti erano, anche
se per lo più non così tragici, frequentissimi e, per avere un’idea di quanto fosse difficile il
comporli e controversa la materia, basta leggere quello che nel 1652 avvenne nel porto di
Genova, dove, presenti le squadre di Spagna, Sardegna, del principe d'Avella (di casa
d'Oria?) e della repubblica di Genova, anche era giunta la galera Reale di Spagna, la quale
innalzò stendardo a poppa, obbligando così le Capitanie di quelle squadre ad abbattere il
loro e a innalzare al suo posto un gagliardetto al calcese, com'era d'uso. Ciò però non fece
la Capitana delle galere publiche di Genova, ossia di quelle appartenenti alla stessa
repubblica e non ai soliti privati guidati dai d'Oria, essendo Genova alleata, ma non suddita
della corona di Spagna, e obbligò così le altre Capitane presenti a salutarla per prime subito
dopo aver salutata la Reale. La Capitana di Genova rispose con quattro tiri di cannone... e
qui nacque una lunga e complicata controversia di precedenza che sarebbe ora fuori di
luogo raccontare; basti dire che gli ambasciatori e i diplomatici di Genova e di Spagna ne
restarono duramente e lungamente impegnati prima di riuscire a dirimerla.
Nella sua già citata missiva del 12 maggio 1594 al re di Spagna Filippo II, Gioan Andrea
d’Oria, soprintendente generale dell’armata di mare di Spagna, chiedeva, tra l’altro,
istruzioni al sovrano perché si dirimesse una di queste delicate questioni:
Tra le galere di Genova e quelle del Gran Duca Duque (di Toscana) c’è competizione
(‘competencia’) sulla precedenza. Conviene che Sua maestà comandi a chi concederà la
miglior posizione… (‘el mejor luego’) (Colección de documentos inéditos para la historia de
España etc. Pg. 173. Tomo II. Cit.)
… Nelle terre del Granduca di Toscana intendono che i capitani generali delle galee di
Vostra Maestà siano i primi a salutare i luoghi e i castelli che attraversano, e talvolta, se non
l'hanno fatto, inconvenienti di non poco conto sono avvenute: capisco che è conveniente
che il servizio reale di Vostra Maestà mandi a dichiarare ciò che si deve fare riguardo a
questo, poiché non è giusto che un generale di galee di Vostra Maestà saluti un castigliano
del Granduca (Ib. P. 182-183).
Questa materia delle precedenze nel ricevere i saluti resterà complicata e pericolosa per
molto tempo a venire e infatti così scriverà più tardi il Guillet::
I pirati e gl’interessi di bandiera sono le due grandi fonti di malintesi tra i principi vicini.
(Cit.)
E l’Aubin aggiungerà:
724
Infatti la già citata famosa ordinanza marittima francese del 1689 così perentoriamente
disponeva:
Immaginiamo quindi come si preferisse all’epoca, a meno che non si fosse disposti a far
scoppiare una guerra, evitare (fr. parer) l’incontro con i vascelli da guerra francesi! Altra
regola della predetta ordinanza gravida di possibili conseguenze negative era poi la
seguente:
Aucun navire de guerre ne saluëra une place marittime qu’il ne soit assuré que le salut lui
sera rendu. (Ib.)
Chi, ritenendo di dover essere salutato per primo, non si vedeva invece salutato, avvisava
dapprima il manchevole con un apposito segnale e poi, se ancora non si vedeva
ossequiato, gli sparava una vera cannonata, perché a questo punto poteva a buon diritto
ritenere che si trattasse di vascello ostile; un caso esemplare fu quello riportato da un
avviso di Genova del 17 maggio 1687 e che qui descriviamo per sommi capi. Il precedente
sabato 9 era giunta a Genova una galera siciliana che portava il giovane marchese di
Solera, figlio del vicerè di Sicilia Francisco de Benavides, Avila y Corellas conte di S.
Stefano, marchese di las Navas conte di Cocentayna y del Rio, marchese di Solera (1678-
1687), il quale sbarcò e partì poi per Milano; questa galera, compiuta la sua missione, presto
salpò per tornarsene in Sicilia; ma:
... Passando nel ritorno in poca distanza dalla fortezza di Savona e trascurando di salutarla,
fu detta galera avisata col mezo d'una fumata, della quale facendo poco conto, fu in
appresso avertita mediante un tiro di cannone con la palla (quindi non a salve) che la colpì
nelle vele, onde (finalmente) salutò e fu risalutata... (Avvisi di Napoli. Cit.)
Il governatore della predetta fortezza era allora Lanfranco Grimaldi, esponente quindi d’una
delle più nobili famiglie genovesi; egli fu poi costretto a recarsi a Genova per discolparsi
davanti al suo senato e ciò su richiesta della Corte di Madrid, dove era evidentemente e
puntualmente arrivata la protesta del vicerè di Sicilia per quell'insolente cannonata.
A volte, per non sbagliare, era meglio esagerare con le cannonate e nel 1566 così
evidentemente fece il principe Grimaldi signore di Monaco, quando passò davanti al suo
725
porto nientedimeno che il duca d’Alba, imbarcatosi a Cartagine nova (oggi in sincope
‘Cartagena’) sulla Capitana di Napoli, diretto a Genova e scortato dalle nove galere toscane,
da quelle dei privati genovesi e da diverse altre napoletane, le quali tutte avevano frattanto
imbarcato fanteria spagnola da portare in Liguria:
… e col tempo non troppo in suo favore andava a camino di Genova e, nel passar che fecie
da Monaco, li fu fatto dal Signor di detto luogo una tal salva di sparar d’artiglierie che tutte
homo si fecie (‘tutti gli uomini si fecero’) grandissima maraviglia che un signor tale (‘di così
piccolo dominio’) avesse il gran numero di cannoni e ‘sì bene ordinati, come in quel si
conobbe che esso havea, e durò insino che l’eccelenza del Duca era passato lontano più di
dieci milia (‘miglia’), che ancor si sentiva il rumor del trarre (‘tirare, sparare’)… (Ib.)
Ma, arrivatisi a Genova, furono le galere del duca a salutare per prime la grande e
nobilissima città repubblicana:
… e al arrivo che feci a Peggi, vicino sette miglia a Genova, il venne a riscontrar tutte le
galere di Genova, cioè della Signoria (‘della repubblica’), e di particolari, e al solito salutato,
se n’andava seguendo il suo camino insino a S. Pietro Arena, ove, andandosi
approssimando, cominciò in prima la sua ‘Capitana’ e poi l’altre a sparar tutte le loro
artiglierie e in un istante solo la terra e le navi ed ogni vascello che era nel porto vennor
facendo tal sparar di artiglieria che il ciel parea tremasse insieme con la terra e le acque ed,
insino che si fu sbarcato il duca, sempre si andò continuando di sparare e in termine delle
22 ore si sbarcò tutta la fantaria, ma pur fuor di Genova, chi al Finale e chi a San Lauro e chi
in un luogo e chi in l’altro… (Ib.)
Gli olandesi, i quali erano come i veneziani molto più interessati ai loro commerci che ai
puntigli di principio, affrontavano questa complessa materia delle precedenze nei saluti in
maniera solo consuetudinaria, molto pacata e tranquilla; tra i loro vascelli non sorgevano
mai contrasti e inoltre quando s’incontravano con vascelli d’altri stati evitavano le maniere
conflittuali:
…Tutte queste cose si osservano per un antico costume di buone maniere (bienséance),
senza che ci sia alcun ordine o regolamento su tale materia.
…Le navi da guerra delle Province Unite non portano più tanto gli stendardi al fine d’evitare
tutte le differenze. (Étienne de Cleirac. Cit.)
Altra caratteristica degli olandesi e di altre nazioni nordiche era che essi usavano salutare
con colpi di cannone di numero sempre dispari, cioè 3, 5 o 7.
Per generale convenzione però, tutte le suddette regole dei saluti cessavano quando si
passava la linea equinoziale o equatoriale; allora vigeva solo la legge del più forte, al quale
era riconosciuto il sopravvento e qualsiasi bottino era da quel punto considerato di buona
726
presa. Questo perché allontanarsi tanto dalle proprie basi significava per qualsiasi vascello
porsi in una situazione di potenziale gran pericolo e valeva quindi il ‘si salvi chi può’.
Quando una squadra di galere o di vascelli tondi era in navigazione, ogni mattina e ogni
sera tutti i vascelli dovevano salutare la loro galera Capitana o il loro galeone Reale
secondo delle formalità che variavano ovviamente da nazione a nazione. Al saluto serale, il
capitano accostava la sua galera a quella Capitana e il suo còmito, scavalcando i due
bastingaggi di battagliole, andava a chiedere al generale il nome, ossia la parola d'ordine da
usare per quella notte, e la rotta da mantenere; poi si lasciava il posto a un’altra galera. Nel
caso non ci si potesse accostare alla Capitana perché impediti dalla burrasca, era
consuetudine che valesse per un’altra notte il nome ricevuto la sera precedente. C'era
anche da osservare il rispetto ufficiale della religione e, quando una galera o una squadra di
galere, navigando a terra a terra, ossia a piccolo cabotaggio, passava davanti a un tempio
dedicato alla Madonna, lo salutava col suono delle trombe e con tre grida della ciurma
oppure con l’inno Ave maris stella, come nel caso della chiesa di Santa Maria delle Grazie
nell’isola di Lésina; se però si era di venerdì, si omettevano le trombe, poiché era quello
giorno considerato infausto e l'esultanza di quegli strumenti sarebbe risultata
sconveniente. Alcuni templi particolarmente famosi e importanti, quale per esempio quello
della Trinità di Gaeta, si salutavano anche con l'artiglieria. Assoluto disprezzo c'era invece -
ma era costume del tempo- verso tutte le religioni non cattoliche, soprattutto nei riguardi di
quella ebraica, un antisemitismo religioso ufficiale vigente allora nello Stato della Chiesa e
in tutti i regni e gli stati cattolici e la cui origine e storia generale esula da questa nostra
trattazione. Le galere di Spagna, Napoli e Sicilia sequestravano di prassi le navi veneziane,
se queste portavano merci di mercanti ebrei, le conducevano nei loro porti e tali merci si
confiscavano. Così oltre al danno del sequestro Venezia pativa in tali casi anche quello
della confisca, perché gli assicuratori veneziani erano tenuti a rimborsare i danni ai
mercanti ebrei, come si legge nella relazione del residente veneziano a Napoli Girolamo
Lippomano, redatta nel 1575:
... perché in Venezia vi sono le compagnie degli assicuratori, le quali, quando queste robe
fossero ritenute, sariano obligate, secondo l'uso della piazza de' mercanti di tutte le terre
del mondo, di reintegrare gli ebrei padroni delle dette robe, subentrando li cristiani
assicuratori al danno che altri pensasse aver fatto agli ebrei. (E. Albéri. Cit. S. II, v. II, p. 304.)
Questo e altri ragionamenti si trovò a dover fare a Napoli il Lippomano al generale Giovanni
d'Austria, presentandogli le lagnanze del suo senato per l'episodio della nave veneziana
Croce, appunto sequestrata perché vettore di merci ebraiche:
727
... e quanto sia cosa brutta che, sotto specie di amicizia e sotto il vessillo della Maestà
Catholica (Filippo II) e di Sua Altezza (Giovanni d’Austria), si depredino fraudolentemente
navi d'amici, come avevano particolarmente fatto li capitani delle due galere di don Arma
(‘Armando?’) di Toledo e di don Alfonso di Bazan menando la nave Croce captiva nel porto
di Napoli, non dovendosi allegare che siano illecite quelle mercanzie di ebrei e d'altri che,
per disposizioni di legge del Pontefice, sono lecitissime, come appariva per la fede
(‘attestazione scritta’) di Sua Santità che io aveva allora. (Ib. P. 303.)
… In questo tempo a Liesena (‘Lesina’), ch’è una isola di Dalmazia, per lettere di Alessandro
Barbo conte se intese (a Venezia) come erano capitati alcuni navilii de’ marani et zudei et
altri puiesi (‘pugliesi’), i quali venivano di Puia (‘Puglia’) per alozar in ditta isola, che erano
forsi fameie (‘famiglie’) 43, con haver assa’ di panni et altre supelectile, et però (‘perciò’)
ditto conte domandava licenzia, si a la Signoria li piaceva fusseno lassati habitar; et per el
Senato fu decreto che ditti potessero starvi et li fusse dato recapito (‘alloggio’) a ciò fusse
fatto boni li luogi (‘luoghi’) di San Marco ‘licet’ in Liesena non vi era prima zudei, ‘tamen’
che non imprestassero a usura. Et cussì fu rescritto al ditto conte. (Marino Sanuto, La
spedizione di Carlo VIII in Italia. Estratto dall’Archivio Veneto – Serie I. P. 213. Venezia,
1883.)
aveva ricevuto il comando nel precedente dicembre, durante l‘usuale annuale scorreria in
Levante, catturati alcuni mercantili turchi, prese prigionieri anche 34 mercanti ebrei che vi
trovò a bordo e costoro furono poi rimessi in libertà solo dopo il pagamento d’un congruo
riscatto.
Durante la prima metà del Basso Medioevo nella marineria da guerra catalana il capitano
generale doveva in combattimento trattenersi in piedi al terzo della sua galera, cioè vicino
allo stendardo, il quale sventolava appunto all’inizio poppiero della corsia centrale, e ciò
evidentemente per attestare una sua partecipazione personale alle azioni in corso; ma
durante la vittoriosa guerra contro i genovesi per il possesso della Sardegna Bernardo de
Cabrera y Foix, capitano generale del re Pedro IV d’Aragona e futuro conte di Modica,
lamentò che quella posizione impediva al capitano generale di avere un’adeguata
supervisione dell’intera battaglia e pertanto, nella sua ordinanza per la guerra marittima del
5 gennaio 1354, il predetto monarca promulgo che da allora in poi durante la battaglia egli si
trattenesse invece a poppa, luogo più elevato, dal quale poteva quindi avere appunto una
visione più generale dello svolgimento delle azioni in corso; anche a poppa comunque il
suo seguito doveva circondarlo reggendo in verticale alti pavesi che lo proteggessero
dall’inevitabile bersagliamento nemico (Ordenanzas de las armadas navales de la Corona
de Aragon etc. Cit. P. 1), mentre parte della sua guardia doveva però restare ai piedi dello
stendardo con pavesi per continuare a difenderlo dal nemico. Ai fianchi del capitano
generale dovevano poi trattenersi due consiglieri, dei quali uno doveva trasmettere i suoi
ordini al timoniero e l’altro ai vascelli e vascelletti che dovevano stazionare alla poppa di
quella galera per riceverne appunto dgli ordini da andare subito a trasmettere ai
viceammiragli comandanti ali e retroguardia dell’armata. Solo nel caso che il nemico
venisse all’abbordaggio, egli doveva tornare immediatamente allo stendardo per difenderlo
a costo della sua vita; e, per rafforzare tutte queste difese, alla galera ammiraglia si
dovevano fornire 20 grandi pavesi in più di quelli che solitamente si davano alle altre.
Il luogotenente del capitano generale prendeva per lo più posto sulla stessa galera Reale
del suo predetto superiore e in effetti era lui a comandare, con il titolo di capitano, quel
principale vascello, oltre a comandare la marinaresca dell'armata in generale, e a volte lo
doveva fare anche in combattimento; doveva pertanto essere anche più esperto di mare del
suo generale. Allo stesso modo il luogotenente d’un capitano generale di squadra prendeva
posto sulla stessa galera Capitana, oppure sulla galera Patrona se di quest'ultima era già
capitano, e questo secondo modo si usava in alcune nazioni. In mancanza d’un
luogotenente generale i capitani di galera dovevano ubbidienza a quelli tra loro che
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portassero fanale, ossia che avessero un grado generale e quindi galera munita a poppa di
fanale di comando. Godendo anch’egli di un più che cospicuo stipendio, come il capitano
generale anche il luogotenente doveva pagarsi da sé sia il suo armamento personale sia i
salari dei famigli che lo accompagnavano.
Personaggio importantissimo dell'armata era il provveditore (gr. έπιμελητής), chiamato in
alcune squadre scrivano di razione, ma, come abbiamo già detto, sopramassaro in
veneziano - essendo invece, come vedremo, a Venezia quello di provveditore un titolo
d’ufficiale generale - e seniscalcus in latino medioevale; costui era per l’intera armata o
squadra ciò che il patrone era per la singola galera e aveva pertanto due compiti principali,
cioè rifornire l'armata di tutte le provvisioni (cst. bastimentos) necessarie all'impresa
prefissata e tener libri contabili di tutti i materiali e di tutti gli uomini di bordo, quindi
contabilizzare tutti gli acquisti e i consumi, tutti gl'introiti e gli esiti del danaro che il
sovrano destinava all'armata e che lui solo amministrava. Doveva dunque essere un ottimo
contabile, sapere dove trovare le migliori merci e ai migliori prezzi, registrare tutti
gl'imbarchi e gli sbarchi di tutte le provvisioni, soprattutto di quelle merci che pagavano
nolo e doveva essere sempre in grado di documentare come e perché tali provvisioni erano
state consumate; doveva tenere i ruoli e registrare gli arruolamenti, i soldi, le licenze, le
morti, le riforme (‘congedi’), le consegne di tutti gli uomini d’ogni categoria che fosse
presente sull'armata di mare.
Un provveditore disonesto poteva, volendo, arricchirsi indebitamente comprando merci di
cattiva qualità o addirittura avariate in cambio di ricche regalie fattegli dai fornitori,
falsificando i prezzi, i pesi e le misure che si adoperavano nel distribuire le provvisioni ai
vari vascelli, alterando tutte le vettovaglie alterabili - per esempio annacquando il vino e
l'olio, dispensando insufficienti razioni di carne e formaggi, vestendo la ciurma con
vestiario insufficiente e di cattiva qualità e non rinnovandole gli abiti a tempo debito,
vendendo a suo personale profitto materiali vecchi che avrebbero potuto invece essere
ancora utili all'armata, defraudando altresì il suo sovrano con la registrazione di falsi ruoli
di soldati, galeotti e marinai, ruoli che alle volte non sono la metà di quelli che vi sono scritti
e fatti pagare. (P. pantera. Cit. P. 106.) Poteva insomma far vivere gli uomini nelle privazioni
e tenere l'armata nel bisogno d’ogni necessaria provvisione, procurando quindi al suo
capitano generale esiti bellici disastrosi, come si disse era avvenuto nel 1570 all'armata
veneziana appunto per colpa della disonestà e avarizia dei ministri preposti alle provvisioni,
i quali furono accusati d’aver comprato e distribuito vettovaglie guaste, facendo così
nascere tra gli uomini tante malattie e scoppiare tante epidemie e tanti disordini che, come
730
già sappiamo, quasi tutta l'armata, la quale era alla fonda nei porti istriani in attesa di far
impresa contro gli ottomani, ne restò disfatta senza combattere e vi morirono più di 35mila
uomini con notevolissimo danno di quella repubblica e distruzione del fiore della milizia
italiana che su quell'armata era salita con spirito di crociata. Fino a che punto la disonestà
fu causa di quella pestilenza non sappiamo; certo è che, come s’apprende sia dall’Historia
di Giovan Pietro Contarini sia da quella del Sereno, nello stesso 1570 anche l’armata turca
aveva patito per una virulenta pestilenza.
La marineria bellica veneziana non era comunque nuova a simili disastri e infatti già nel
1474, quando, essendo l’armata in sosta sulla costa albanese in corrispondenza di Scutari,
allora assediata dai turchi, ed essendo scoppiatavi un’epidemia, vi si era ammalato e morto
anche il suo capitano generale Triadano Gritti (1394-1474); inoltre nel 1527 era scoppiata
una virulenta pestilenza sulle 16 galere della Serenissima che si trovarono in quell'anno a
Livorno in attesa d’unirsi a quelle d’Andrea d'Oria per andare a prendere la Sardegna
agl'imperiali; i loro comandanti, cioè il provveditore Gioan Andrea Moro e Giovanni
Contarini, quest’ultimo detto Cacciadiavoli per il suo ardire, soprannome che, come
abbiamo già visto, sarà presto anche d’un famoso corsaro turco compagno del Barbarossa,
dovettero pertanto rinunciare all'impresa e obbligare quindi alla rinuncia anche il d'Oria, il
quale era allora al suo ultimo anno di servizio per la Francia, servizio che aveva offerto a
Francesco I nel giugno del 1522, ossia subito dopo il sacco di Genova compiuto il 30
maggio di quell’anno dagl’imperiali, ma che doveva essere effettivamente iniziato non prima
dell’anno seguente, perché fu appunto nel 1523 che il precedente capitano generale delle
galere francesi, Bertrand d’Ornesan, signore d’Astarac, barone di Saint Blancard e
marchese dell’Isole d’Oro, il quale era stato eletto a questo carico nel 1521, tornando
dall’inutile soccorso portato all’isola di Rodi, si scontrò davanti a Tolone con l’armata di
mare di Carlo V e la sconfisse. Verso la fine del Cinquecento il provveditore delle galere
siciliane Paolo Giustiniani fu inquisito con tortura e poi privato del suo ufficio perché si era
scoperto che forniva alle galere cibi guasti, razioni manchevoli perché pesate con bilance
truccate e vestiti troppo corti in quanto misurati con false misure. Era dunque opportuno
che il sovrano conferisse quest'incarico di provveditore a persona benestante e in grado di
dare idonea garanzia di buon amministrazione. Il provveditore poteva prendere alloggio sul
vascello dell'armata che più gli piaceva.
Il titolo di provveditore d'armata era, come già accennato, nell'armata di mare veneziana
molto più importante di quello esistente nelle squadre ponentine e di cui abbiamo appena
parlato; i provveditori della Serenissima erano due e si trattava d’ufficiali combattenti di
731
(1474): … Se trova addesso in armada 4 fanò (‘4 comandanti’), ma ghe è grandissima union,
perchè Piero Mocenigo, el qual per decreto del Senato podeva solo operar ogni cosa,
antiponendo 'l benefizio pubblico a ogni altro so respetto, fa tutte le deliberazion co 'l
consegio del successor e dei proveditori… (D. Malipiero, cit. Parte prima, p. 94.)
La battaglia centrale guidata dal suddetto Grimani e formata da un numero di galee che
variava a seconda delle diponibilità del momento.
Il corno destro di 15 galee affidato al provveditore d’armata Niccolò da Ca’ da Pesaro.
Il corno sinistro di 17 galee comandato dal provveditore d’armata Simone Guoro.
Il soccorso di 11 galee capeggiato dal provveditore d’armata Domenico Malipiero.
“Tutte le galee con l'ordine soprascritto vadino tanto lontane l'una dall'altra che non si
investano insieme né rompano i remi, ma più unite che sia possibile, e non si habbino a
muover dall'ordine suo sotto pena a i sopraccomiti di privazione della sopraccomitaria.” (D.
Malipiero, cit. Parte prima, p. 174.)
Anche buon contabile doveva essere - per forza di cose - un altro importante personaggio
dell'armata, il contatore e pagatore; questi pagava i fornitori e, seduto alla banca, ossia
davanti a una semplice panca che faceva da scrivania, anche il soldo a marinai e soldati
conformemente ai mandati fatti dal predetto provveditore e firmati dal generale; doveva
pertanto avere pure piena cognizione delle monete e dei cambi per poter ben girare il
732
danaro da un luogo all'altro senza danno di conversione per il suo sovrano, anzi
possibilmente con vantaggio. Anch'egli doveva opportunamente dare buona cauzione della
sua amministrazione, perché un cattivo pagatore, il quale ritardasse indebitamente e con
vani pretesti i pagamenti per ottenerne così regali e favori, o che pagasse con cattiva
moneta, tosata o rappezzata o con oro scarso di peso o di scadente titolo, forzando i
creditori e gli assoldati a prenderne egualmente con minacciosa arroganza, faceva in tal
modo perdere reputazione al suo principe e poteva procurare il nascere non solo di
lamentele, bensì addirittura d’ammutinamenti:
... vor(r)essimo che questo tale fusse facoltoso e ricco di denari, acciò non defraudasse
nella moneta dando una per l'altra ne' pagamenti con tutti gl’illiciti vantaggi possibili, oltre
altri intollerabili inganni che ne' pagamenti commettono, in che continuamente cascano per
non vi esser (nella squadra pontificia) Riveditor come prima, che a gl’insulti suoi sopra stia
e gli rivegga, non potendo per alcuni particolari questi abusi pervenir all'orecchie del
Generale, il quale senza dubio vi provederia. (B. Crescenzio. Cit. P. 91.)
nel Seicento e poi si passerà alla fucilazione nel Settecento. Come meglio spiegheremo nel
nostro prossimi libro sugli eserciti post-rinascimentali, nel Cinquecento ancora si poteva
infliggere la pena di morte ai semplici soldati col metodo del passar per le picche, la cui
corrispondente non capitale era, sempre nella milizia di terra, il passar per le verghe o per le
bacchette (l. fustes), prassi penale che pure in quell’occasione descriveremo e che nella
marineria trovava il suo equivalente nello sp. pasar cruxía (l. fustuarium) o nel fr. courir la
bouline; consisteva quest’ultima nel far schierare in coperta – lungo la corsia nel caso di
galere e galeazze - parte dell'equipaggio – cioè tutti gli altri galeotti o tutti gli altri marinai
oppure i soldati, a seconda della categoria alla quale il reo appartenesse, in due ali
contrapposte e in direzione poppa-prua, dove ogni uomo era armato di garzetta, ossia d’una
corta corda o bolina terminante in un anello detto occhio di garza e da usarsi come parte
contundente. Si faceva passare il condannato, vestito solo di mutandine, con le mani legate
dietro la schiena e tirato con una corda, due o tre volte, in andata e ritorno, tra le due siepi
di picchiatori, ognuno dei quali doveva colpirlo una volta a ogni passaggio. Per questo
motivo oggi usiamo ancora il detto passare per le armi nel senso di fucilare. Gli olandesi, i
cui usi a volte descriviamo perché, come abbiamo già detto, i loro vascelli già
frequentavano il Mediterraneo, praticavano ordinariamente la predetta punizione in una
maniera diversa e cioè il colpevole si legava di schiena ai piedi dell’albero di maestra e il
provoost (it. parone o agozzino, fr. prévôt) gli dava un numero di colpi con un capo di
corda; talvolta ogni uomo del quarto di guardia partecipava dando un suo colpo al
condannato e ciò si diceva in olandese laarsen oppure bridsen. Il condannato poteva esser
pure fustigato stando semplicemente legato a faccia in giù a un cannone o a un grosso
remo.
Il Suida scrive che nell’antica Grecia si usava punire i disertori nautici [λ(ε)ιπόνεωες,
λ(ε)ιποναῦται] con la mutilazione delle mani, ma non spiega se di una o di ambedue. Nel
Medioevo era stata molto in voga la pena della mutilazione di un piede, pena applicabile non
solo ai marinai ma anche ai protontini (‘razionieri di bordo’) e agli stessi cómiti, per punire
specie inoperosità, negligenze e assenze dal proprio posto di lavoro:
In predictos prothontinos et comitos nec non marenarios et personas alias galearum, quae
super predictas negligentiam, fraudem, desidiam vel contumaciam commiserunt, pena
mutilationis pedis iuxta nostrae voluntatis arbitrium infìgenda (G. Del Giudice, cit. Diploma
del 23 Luglio 1274. P. 21).
In epoca successiva a quella principalmente oggetto di questo nostro studio sui grandi
vascelli oceanici verrà usato come tavolo di punizione l'argano di bordo [fr. cabestan,
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Le mot de Prévôt est pris ici pour celui qui punit; c’est d’ordinaire le plus méchant des
matelots. (N. Aubin. Cit. P. 643.)
È interessante ricordare, a proposito di tal materia, l’art. CXX del Consolato del Mar, il quale
dettava il comportamento che il marinaio medievale doveva tenere nei confronti del suo
comandante che lo insolentisse o tentasse di colpirlo:
Ancora, il marinaio è tenuto a sopportare il suo comandante, quando gli dicesse villanie, e,
se gli correrà addosso, il marinaio dovrà fuggire sino a prua e dovrà mettersi di fianco alla
catena; e, se il comandante passerà da quel lato, egli dovrà fuggire dall’altro e, se il
comandante lo incalzerà (anche) dall’altra parte, il marinaio potrà difendersi, portando
testimoni che il comandante l’ha incalzato; perché il comandante non deve passare la
catena (J. M. Pardessus. Cit.)
Il predetto comportamento ricorda molto quello a cui era tenuto il soldato di terra nei
confronti del suo capitano; c’è però una differenza e cioè che, mentre il soldato a terra
aveva tutto lo spazio necessario per fuggire e quindi non era ammesso che si difendesse in
nessun caso, qui a bordo lo spazio era limitato, il marinaio poteva fuggire solo per pochi
metri e poi, giuocoforza, se il comandante insisteva, non accontentandosi del senso
ossequioso di quel fuggirlo, doveva essere in qualche modo autorizzato a difendersi dalla
sua violenza (ib.)
La bastonatura o fustigazione che s’infliggeva agli schiavi cristiani voganti a bordo dei legni
maomettani, soprattutto di quelli barbareschi, era particolarmente crudele, violenta e
736
(Sosa:) Certi m’hanno raccontato che è d’uso, specie in Turchia, quando s’arresta un
cristiano che è fuggito dalla casa del suo padrone… oltre ai colpi di bastone che riceve, lo
si appendeva per le gambe con la testa in basso e con un coltello ben affilato gli s’intaccava
le piante dei piedi e poi su tali ferite si spargeva del sale fino, il quale, penetrando nella
carne e nei nervi in tal modo messi allo scoperto, causava un dolore così vivo che nessun
altro gli è uguale né comparabile.
(Antonio:) Non so che cosa avviene laggiù, ma ho visto impiegare questa tortura ad Algeri e
non una sola volta, ma molto sovente.
(Sosa:) E tuttavia, con tutto questo, essi non sono soddisfatti ancora […] poiché, voi non
l’ignorate, pochi sono quelli che, dopo aver sopportato tali torture, non hanno avuto le
orecchie od il naso tagliato.
(Antonio:) E che c’è che ugualmente si pratichi di più ordinario qui ad Algeri? Lo fanno a
guisa di passatempo per ridere, per divertirsi! Dal re Hassan, questo rinnegato veneziano,
sino all’ultimo turco, chi è colui che non si è segnalato contro i cristiani per orrori di tal
genere? Date uno sguardo in queste strade, in questi bagni, in queste case, in queste
galere, in queste galeotte od in questi brigantini, dappertutto s’incontrano cristiani che
portano il marchio di queste bestie feroci e ai quali si sono tagliate le orecchie od il naso.
Altra cosa è pertanto vedere tali abomini o sentirli solamente raccontare… È ciò che vedo
ogni giorno e ad ogni istante quando passo in queste strade, quando entro in questi bagni,
quando visito le galeotte od assisto alle messe che riuniscono i cristiani, poiché sempre
m’imbatto in cristiani dalle orecchie mozzate o senza naso o senza braccia o senza gambe o
senz’occhi ed (inoltre) storpiati dai nemici di Cristo e della Santa Fede! (D. de Haedo. Cit.)
A proposito delle predette mutilazioni, conviene riportare ora per intero dal de Haedo un
episodio del 1574 dal quale si possono molti particolari delle razzie commesse a danno
delle popolazioni rivierasche cristiane dai corsari d’Algeri:
… Tra i corsari di quest’ultima città si trovava un rinnegato chiamato Asanico (‘il piccolo
Hassan’), greco d’origine, il quale si distingueva dagli altri per la sua crudeltà. In effetti, il
suo piacere, il suo passatempo era quello di far tagliare le orecchie e il naso ai poveri
cristiani ed egli ne aveva un gran numero sulla sua galeotta che si riconoscevano per tale
mutilazione. Questo inumano corsaro partì in corso un giorno d’Algeri di conserva con
cinque o sei (altre) galeotte di corsari, s’era all’inizio del mese di giugno del 1574; fecero
rotta verso ponente. Pochi giorni dopo arrivarono vicino all’isola e città di Cadice, la quale
si trova appresso allo stretto di Gibilterra; appresero che ad una mezza lega da Cadice c’era
un villaggio chiamato San Sebastián, dove si trovava un gruppo di cristiani che lavorava al
possedimento del duca Medina Simonia. I turchi (‘barbareschi’) sbarcarono allora in numero
di più di 300 per impadronirsi di quegli uomini; Asanico era tra gli sbarcati. I turchi
condussero così bene l’azione che presero più di 200 cristiani, i quali, senza alcun sospetto,
senza guardiani, erano stesi addormentati sulla spiaggia; i prigionieri furono condotti sulle
imbarcazioni, ma in quel momento il ‘corregidor’ e gli abitanti del sobborgo di Cadice
furono informati dell’arrivo delle galeotte e dello sbarco dei turchi, poiché si racconta che
un rinnegato, originario di quella città, era fuggito al momento dello sbarco e aveva dato
l’allarme. Mentre il popolo correva alle armi, alcune genti di guerra erano partiti in tutta
fretta per combattere i turchi; l’incontrarono al momento in cui quelli si reimbarcavano sui
loro vascelli e si davano da fare per imbarcare i cristiani. Quelli di Cadice li caricarono
violentemente in maniera che i turchi dovettero abbandonare la maggior parte dei
prigionieri, ma una volta imbarcatisi, s’accorsero che, sia perché la marea era bassa sia a
causa del peso di quelli che erano imbarcati, le sei galeotte non potevano prendere il largo.
738
Tornando ora alle punizioni corporali in uso nella marineria oceanica, diremo che il già
citato codice di diritto mercantile atlantico medievale ammetteva che il capitano d’una nave
da carico, per affermare la sua autorità, potesse colpire un suo marinaio che se lo fosse
meritato; ma poteva farlo una sola volta e usando esclusivamente la nuda mano, di palma o
di pugno che fosse, perché il marinaio, il quale a questo primo colpo così dato non doveva
sottrarsi, aveva invece il diritto di difendersi da un eventuale secondo o anche da un primo
dato da mano armata; ecco infatti quanto si legge al proposito nel dodicesimo articolo del
codice d’Oléron:
E qui ci sono due cose molto interessanti da notare; innanzitutto la differenza con il
comportamento concesso a terra al soldato, il quale, come sappiamo, poteva sottarsi anche
739
a un primo colpo del suo ufficiale dandosi alla fuga, perché per questa disponeva di quello
spazio sufficiente che invece, a causa delle ristrette misure di bordo della nave, al marinaio
non era dato; poi il grandissimo valore attribuito in quei secoli al danaro, per cui il marinaio
medievale reo di aver colpito per primo il suo capitano, poteva scegliere, come sua
punizione, tra il pagare una grande multa di 100 soldi da detrarsi dal suo salario, o l’evitare
questo pagamento col farsi tagliare la colpevole mano. Noi oggi invece, pur di salvarci l’uso
d’una mano, saremmo disposti a pagare a un chirurgo qualsiasi somma!
Anche consueta e molto antica era la pena di sbarcare il marinaio incorreggibile,
abbandonandolo in una terra disabitata, infida o nemica; a questo proposito il già citato
statuto danese di Schleswig (c. 1150) al cap. LX sanzionava che, chi avesse rubato a bordo,
doveva esser abbandonato su un’isola deserta con cibo per tre giorni e munito di acciarino
e esca per accendersi il fuoco, sanzione che verrà poi ripetuta con il cap. LXXIII dello
statuto di Elensburg del 1284 (Pardessus). A tal proposito tra il 1321 e il 1323 Marino Sanuto
il Vecchio scriveva che il capitano aveva appunto la facoltà di liberarsi di individui che si
fossero rivelati particolarmente negativi:
… sebbene sia sempre a beneplacito del capitano il licenziare gli uomini o trattenerli,
appunto come piacerà alla sua volontà, dacché, facendo un esempio, un uomo facile alle
risse nell'esercito in cui fosse è tanto colpevole proprio come uno traditore: perché un
attaccabrighe può improvvisamente rovesciare e annientare un intero esercito (Liber
secretorum etc. Cit. P. 78).
Un supplizio particolare era quello detto dare la cala (fr. cale, caller, estrapade marine; ol.
het loopen) ed era punizione riservata a ladri, blasfemi e fomentatori; consisteva nel far
seder il condannato a cavalcioni d’un bastone orizzontale attaccato a una corda, la quale il
malcapitato impugnava strettamente la corda per non cadere e che si faceva passare per
una puleggia sospesa a una dell'estremità d'un pennone; lo s’issava bruscamente in alto
sino al pennone e infine si mollava la corda facendolo così precipitare in mare da
quell'altezza, di solito dopo avergli legato ai piedi una palla di cannone per rendere la
caduta più veloce e violenta; questa punizione poteva essere ripetuta fino a cinque volte a
seconda della gravità del reato commesso. Questa era la cala ordinaria, ma c'era pure la
cala secca, dove la corda non era volutamente tanto lunga da arrivare sino al mare e quindi
il contraccolpo che si subiva alla fine della caduta, a cinque o sei piedi dall’acqua, non era
attutito dal tuffo; anzi, a seconda della durezza della sentenza emessa dal comandante del
vascello o dall'auditore dell’armata, anche in questo caso si attaccavano a volte una o due
palle di cannone ai piedi del disgraziato, in modo da aumentare la violenza del contraccolpo
740
e quindi il dolore per lo strappo alle braccia con cui si reggeva; anche questo supplizio
poteva esser ripetuto diverse volte. Più disumana di tutte era però la gran cala (ol. kielen; o
kiel-halen), la quale si usava a bordo dei grandi vascelli olandesi e consisteva nel dare un
seguito al tuffo in mare predetto; praticamente si legava il condannato alla metà d’una
corda tanto lunga da passare sotto la chiglia del vascello, poi si abbassava il pennone di
maestra, alla cui estremità si legava un capo della corda e si faceva sedere il condannato,
oppure invece del pennone si usava semplicemente il bastingaggio del vascello; frattanto,
scelti i marinai più forti, questi, posti al bastingaggio opposto, tenevano saldamente l’altro
capo della corda; all’ordine dato dal quartiermastro (ol. Losse! oppure Haat vallen! Fr.
Cale!), il colpevole, al quale era pure stato legato addosso o ai piedi qualcosa di pesante,
era gettato in acqua, mentre i predetti marinai ritiravano la corda con tutta la velocità
possibile in modo da far passare rapidamente il malcapitato sotto la chiglia e poi farlo
emergere dal lato opposto. Questa pena, la quale poteva essere ripetuta più volte a seconda
della gravità del reato commesso, era, oltre che molto dura da sopportarsi, anche molto
pericolosa per il condannato, perché bastava una minima mancanza di diligenza o destrezza
da parte dei marinai che lo tiravano - oppure qualsiasi altro piccolo inconveniente - perché
egli emergesse col collo, una gamba, un braccio o delle costole rotte; era infatti considerata
al rango delle pene capitali. Si usava questo tipo di condanne anche in modo collettivo, per
esempio per punire una buona parte dell’equipaggio e, a leggere il regolamento disciplinare
della marina da guerra olandese (N. Aubin. Cit.), il quale era chiamato Artykel-brief, – cala e
gran cala sarebbero stati da infliggersi per una gran quantità d’infrazioni e quindi a ogni pie’
sospinto; eppure questa severità sembra inspiegabile comme les hollandois sont
naturellement pleins de bonté et de compassion, scriveva l’Aubin (Ib. P. 260).
La punizione della cala (fr. cale, estrapade marine) poteva inoltre essere moralmente
aggravata con l'eseguirsi all'estremità di babordo del pennone invece che a quella di
tribordo e ciò perché in tal modo si negava al condannato anche la dignità della destra,
ossia del lato che in tutte le situazioni della vita civile e militare era considerato quello più
adatto alle persone degne di rispetto. Questi castighi erano inoltre eseguiti pubblicamente,
avvertendosi solitamente con un colpo di cannone gli altri vascelli della flotta o dell'armata,
perché ne fossero spettatori. Il supplizio della cala ordinaria era in uso già nel Basso
Medioevo, come si legge all’art. CXXV del Consolato del Mar, a proposito dei marinai
mercantili che cercassero di rendersi irriconoscibili come tali durante la stagione
navigatoria:
741
Ancora, il marinaio non si deve spogliare se non è nel porto di svernamento e, se lo fa, ogni
fiata deve essere calato in mare tre volte dalla vetta del morgonale; e, oltre le tre fiate, deve
perdere il salario e la roba che ha nella nave (J. M. Pardessus. Cit.).
Quale estremo di pennone fosse il ‘morgonale’ non siamo purtroppo in grado di dire e, per
quanto concerne invece il costume da marinaio in uso a quei tempi, pensiamo che una certa
idea ne possa dare quello mostrato dal Vecellio, anche se trattasi di autore molto più tardo
ovviamente (Vecellio). Anche l’art. CCVI del predetto Consolato, il quale riguarda le
sentinelle mercantili che fossero trovate addormentate, prevede, tra le altre, la pena della
cala ordinaria; se la cosa succedeva in viaggio, il colpevole era privato del vino per tutta la
giornata, se all’ormeggio in paese amico, del vino e del companatico, se in paese nemico, la
stessa pena, aggravata da quanto segue:
… e inoltre deve essere frustato tuto nudo per tutta la nave oppure deve essere immerso in
mare tre volte dalla vetta del morgonale (a scelta del comandante e del nostromo)… e, se è
di poppa, deve perdere il vino e tutto il companatico di tutto quel giorno e gli deve essere
gettato un secchio d’acqua dalla testa ai piedi… (ib.)
Se la suddetta mancanza era reiterata, dopo la terza volta, s’arrivava a una pena che in
quegli avari tempi era giudicata molto più severa delle precedenti e cioè il colpevole
perdeva il suo salario per tutto il viaggio e, se lo aveva per caso già percepito, doveva o
restituirlo o sottostare alla cala e ciò a scelta di tutto l’equipaggio (ct. cominal) riunito per
l’occasione (ib.) Le pene pecuniarie erano infatti sempre state in generale più tipiche della
marineria mercantile che di quella militare e ciò già nel Medioevo; singolari erano state per
esempio quelle previste dal cap. XII dello statuto svedese di Biärkoö o Birca del 1254, pene
che s’infliggevano a quei marittimi che, quando il vascello era in porto, gettassero fuori di
bordo un compagno, sia in mare sia sulla banchina, strano passatempo o scherzo in verità
ed evidentemente allora tipico delle marinerie scandinave, tant’è vero che, oltre a trovarlo
sanzionato anche al cap. III di un altro statuto medievale svedese, cioè di quello detto
Skipmǻla-Balker della città di Lagh (sic), variando l’entità dell’ammenda a seconda del tipo
d’ormeggio a cui si trovava il vascello e delle ferite eventualmente riportare dal malcapitato,
se ne trattava diffusamente pure negli statuti marittimi danesi; ecco per esempio il cap.
XXXIII dello statuto di Hadersleben del 1292:
Lorchè un marinaio ne ha gettato un altro al di fuori del bordo, se quest’ultimo non da prova
d’alcun danno ricevuto, l’autore di questa violenza pagherà a colui che ha gettato
un’ammenda di dodici marchi e altrettanti al giudice. Se l’uomo gettato annega, i suoi più
prossimi parenti procederanno legalmente in città; saranno intesi i testimoni e si procederà
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come negli altri casi di omicidio. Se l’uomo gettato non muore e l’accusato afferma di averlo
gettato accidentalmente e non maliziosamente, sarà giustificato dal suo giuramento (Ib.)
Ma, tornando ora ai vascelli militari, principal oggetto di questo nostro studio, diremo che
per delitti particolarmente infamanti, quali la fellonia o la lesa maestà, si usava talvolta una
pena di morte molto raccapricciante e che abbiamo più sopra già descritto, vale a dire il già
ricordato squartamento a mezzo di galere; esso consisteva dunque nel legare il
giustiziando sul banco d’uno schifo di galera e di legare inoltre i suoi polsi e le sue caviglie
ognuno alla poppa d’una galera diversa, poi, con uno squillo di tromba, si ordinava alle
quattro galere di divergere a forza di remi e così il condannato ne restava squartato. Si
trattava d’una pena più vista e frequente di quanto si possa oggi pensare e corrispondeva
in effetti allo squartamento che si eseguiva a terra a mezzo di quattro cavalli; nel 1690 sarà
così giustiziato dai veneziani un loro disertore catturato alla presa di Malvasia, mentre altri
nove saranno impiccati alle antenne delle galere; tale pena sarà ancora applicata nella
squadra di galere di Napoli nel 1701, come ci racconta il diarista fra' Angelo di Costanzo da
Napoli, un predicatore cappuccino:
... Quest'anno 1701, a primo di giugno, partirono da questa darsena (di Napoli) le nostre
galere con quelle del duca di Tursi, colla voce che andavano a Marsiglia per unirsi a quelle
di Francia e di là portarsi in Spagna per accorrere a' bisogni che da quelle parti si
supponevano. Ma queste arrivate a Genova, essendosi trattenute per lo mal tempo molti
giorni a Gaeta, nel porto della Spezia si scoprì una congiura de' forzati ed era di dar la morte
al Generale Signor Conte di Lemos ed (a) capitani e soldati; per la quale ne furono molti di
essi forzati squartati, appiccati alle antenne e altri marcati col R. e C., dicendo
(‘significando’) 'Regia Corte’, condannati a perpetua galera; poi il medesimo Generale,
prima di ritornare in Napoli, fé l'indulto agli altri. (Cit.)
L'essere marcati a fuoco, credo in fronte, con le lettere R. e C. significava per i forzati
portare per sempre un marchio d'infamia che avrebbe condizionato tutta la loro vita; inoltre
si vedevano commutare a vita la loro condanna a tempo in galera. C’è, per inciso, anche da
notare in quest’ultima citazione un accenno alla nota difficoltà delle pericolose traversie
meridionali –libeccio, ostro e scirocco - che tendevano a gettare sulla costa i vascelli che
passavano lungo quella che si diceva allora la spiaggia romana (ltm. Splagia Romana), la
‘spiaggia’ per eccellenza ossia il litorale laziale, obbligando quindi le galere napoletane a
lunghi periodi di sosta a Gaeta, a volte anche d’una quarantina di giorni, in attesa di
condizioni di tempo favorevoli e; né si poteva evitare detta difficoltà navigando
tranquillamente più al largo, magari con un’eventuale e utile sosta a Ponza, la quale era non
solo un vasto e capiente porto naturale ma anche un approdo ricco d’acqua dolce e di
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legname, perché, come se quanto suddetto non bastasse, quel braccio di mare era molto
tormentato anche dai corsari turco-barbareschi e d’altre nazioni che sostavano
impunemente appunto a Ponza, isola del tutto priva di fortificazioni difensive, e di notte
venivano a porsi in agguato nelle cale del Monte Circ(hi)ello (‘promontorio del Circeo’) e da
una simile predazione marittima si salvò fortunosamente un giorno il famoso architetto
militare Francesco de’ Marchi, il quale ricorda l’episodio nel vol. III della sua opera
maggiore (Cit.). Pertanto l’ordine militare di S. Lazzaro aveva compito istituzionale di tenere
quel mare quanto più possibile purgato da detta calamità, compito in cui era affiancato dalle
galere del regno di Napoli per antico obbligo assunto con lo Stato delle Chiesa dalla corona
di Spagna, ma anche dalle precedenti dinastie che regnarono su Napoli:
(Anno 1395:) Gasparro Cossa (poi ‘Coscia’) de Napole armò due galere e ne hebbe due altre
e se ne andaje al soldo de Papa Bonifacio, perché a quelli tempi li saraceni dannificavano
assaje maremme de Roma (An. Diaria neapolitana etc. In L. A. Muratori, Rerum italicarum
scriptores etc. C. 1.065, t. 21. Milano, 1732.)
Se un uomo di poppa od officiale (‘Boessman oder Officirer’) che ha ricevuto il terzo della
sua paga abbandona la nave, sarà marcato di un rampone sulle guance per servir
d’esempio agli altri (ib.)
... Condannarono Soto e un suo compagno, i quali erano stati i capi della ribellione, ad
essere squartati da quattro galere. Ne impiccarono cinque e molti altri trovati colpevoli
furono lasciati al remo per tutta la vita, essendo prima frustati pubblicamente al cospetto
dell'armata posta in circolo. Tagliarono le narici e le orecchie a molti mori, affinché fossero
riconosciuti (come pregiudicati per sedizione)... (Ib.)
Nel 1575 Serafino Razzi, un viaggiatore italiano che si trovava allora a Napoli, narra tra
l'altro il seguente episodio:
... E questa sera, prima che noi partissimo dal porto, fu impiccato e bruciato uno schiavo de
'la Stella', galera spagnuola, per sodomia. Lo condussero in una gondola dei Battuti
Confortatori (confraternita religiosa) a mostra (di tutti) intorno alle galere che erano in porto,
co' la tromba sonante innanzi. E da poi, cavato fuora dal molo, sopra la marina, ove erano
concorse inumerabili altre barchette e gondole per vedere cotale giustizia, fu dal boia
strozzato al palo (‘garrotato’) che stava nel mezzo di certa barcaccia vecchia, in cui dalla
gondola l'haveano trasportato, e da poi si diede fuoco alla stipa e legna di cui era detta
antica barcaccia piena e, salvandosi i ministri in altro legno, abruciò detta barca arida in
745
mezo all'acque marine col giustiziato. E mi fu narrato come pochi dì prima erano stati
abruciati due altri suoi compagni nell'istesso peccato. (In Viaggi in Abruzzo. P. 141.
L’aquila, 1968.)
... A 27 (giugno 1693), sabato, fu appiccato in galera ad una antenna un forzato chiamato
Bernardo Ferraro, che ivi stava condennato a vita da alcuni mesi sono per causa di delitto
di sodomia; e fu appiccato per avere ammazzato ter giorni sono dentro la medesima galera
un suo figliastro, da lui mandato a chiamare, per vendicarsi di esso e della madre sua
moglie, che l'aveano fatto l'impostura del delitto per cui era stato condennato in galera.
Costui fu tanto ostinato che, sapendo di certo non poter scampare, volle in ogni conto
sfogarsi, dicendo, mentre percoteva col coltello al figliastro: 'Tu ucciso e io impiccato'. Ed
occorse che, essendo, come si suol fare in galera, attaccato col chiappo (‘cappio’) al collo
all'antenna che stava calata e i piedi ad uno di quei banchi, in tirar con violenza (all'insù) la
detta antenna, si divise la testa dal busto, in un momento restando sospeso e decollato,
sgorgando dal tronco busto un fiume di sangue che spruzzo li 'Bianchi' (altra confraternita
religiosa) che stavano ivi per aiutarlo a ben morire. (Domenico Confuorto, Giornali di Napoli
(1679-1699). Voll. due. Napoli, 1930. S.N.S.P. e B.N.Na. Sez. Nap.)
Dunque si legava il condannato per il collo all'antenna dell'albero e per i piedi a un banco
dei remiggi, poi i galeotti prendevano la gomena che sollevava l'antenna e la tiravano su
bruscamente, in modo che il giustiziando ne restava strozzato; ma stavolta avevano tirato
con troppa forza e la testa del disgraziato n’era rimasta completamente spiccata dal busto!
Ecco un’annotazione del diarista Antoine Bulifon, il quale era un francese stabilmente
residente a Napoli e, quando ne divenne re Filippo V, francese come lui, ebbe
evidentemente tali appoggi da prendere l’appalto degli Avvisi ufficiali del regno:
... Il cinque (agosto 1692) nella darsena furono condotti sopra uno 'schifo' di galera tre
schiavi che avevano tentato la fuga. Furono frustati e poi riposti nella galera. Li tagliarono
una orecchia per ciascheduno per segnale; castigo solito darsi per tale tentativo. (A.
Bulifon. Cit.)
Ogni armata che comprendesse un buon numero di galere aveva un aguzzino reale o
aguzzino generale, il quale era un personaggio principale di grande autorità, poiché
comandava gli aguzzini reali o aguzzini maggiori delle singole squadre che l'armata
componevano e ognuno di questi a sua volta comandava tutti gli aguzzini minori della sua
squadra. L'aguzzino generale portava un bastone di comando (fr. baston ou bâton de
justice; ol. roer-stok, provoost-stok) come simbolo del suo grado, il quale corrispondeva
grosso modo a quello del prevosto generale dell'esercito di terra, vale a dire a lui era
affidata l'incombenza della polizia militare e giudiziaria. Prendeva un grosso stipendio (96
746
ducati napoletani annui sulla Capitana di Napoli nel 1594), il quale era poi di molto
aumentato da emolumenti e regalie che la sua posizione permetteva d'accettare (R. Mantelli.
Cit.) Nelle squadre o armate aragono-catalane del Basso Medioevo l’alguacil d’armata era
stato obbligato a provvedersi di armatura e armamento da balestriero, così come abbiamo
già detto dello scrivano reale o d’armata.
Nel comandare tutti i servizi di bordo il còmito d’ogni galera doveva sempre seguire
l'esempio di quello della galera Capitana, detto il Reale e, nella squadra pontificia il
Pontificale, perché per esempio, se questo alzava una certa vela, le altre galere dovevano
alzarla anche loro; quando faceva scala (oggi 'faceva scalo’), ossia metteva la scala a terra,
la galera Capitana solo allora e non prima i còmiti delle altre galere della squadra o
dell'armata potevano loro volta metter la scala a terra nei luoghi loro assegnati; e, se la
galera Capitana ritirava la scala, allo stesso modo subito dovevano farlo anche le altre, né
potevano più per alcuna ragione rimetterla; non potevano, per altri esempi, mandare a far
acqua o legna, stendere la tenda, far vela se non l'aveva già fatto la galera Capitana o se,
nel caso di mettere lo schifo a mare, il capitano generale non aveva, segnalando, a ciò
autorizzato, come quando si doveva mandare il patrone o il còmito a bordo della galera di
comando perché vi andasse a ricevere ordini. Il còmito reale, detto a Venezia e in tutte
quelle repubbliche e stati che non avevano forma di reame generalmente còmito generale, a
volte sostituiva l’aguzzino reale nel mantenimento dell’ordine in una squadra o armata,
come avvenne nel porto albanese delle Gomenizze (‘Valona’) nell’armata della Lega che nel
1571 si era colà raccolta nel suo viaggio che la porterà poi a combattere a Lepanto; infatti a
bordo della galea veneziana Il Cristo risuscitato, armata a Kania nell’isola di Creta e
comandata dal nobile candiota Andreas Calergi, nacque una rissa con morti e feriti tra i
marinai e la guarnizione di fanti italiani inviatavi da Giovanni d’Austria e comandata dal
turbolento capitano Muzio Alticozi (o Curzio Anticozio) da Cortona, facente parte del
reggimento del colonnello Paolo Sforza; fu inviato a sedarla dal generale Sebastiano
Venerio appunto il suo ammiraglio, il quale si presentò accompagnato da quattro compagni
di stendardo, cioè, come abbiamo già detto, quattro aguzzini di galee veneziane; l’Alticozi,
persona faziosa e scandalosa a dire dello storico di Venezia Giovanni Niccolò Dogliosi,
resistette con le armi persino allo stesso Venerio, poi intervenuto, e quindi, finalmente ferito
d’archibugiata e preso, fu sommariamente impiccato dal generale veneziano con alcuni dei
suoi, provocando alla fine una così grave divergenza tra Giovanni d’Austria e il Venerio che
tra galere asburgiche e veneziane si giunse quasi a uno scontro che, come racconta il
747
Sereno, pare si evitò alla fine per un intervento di mediazione politica messo in atto dal
generale papalino Marc’Antonio Colonna.
Nelle armate cristiane, sempre multinazionali, le risse erano frequenti e a volte gli ufficiali
generali molto penavano a ricomporle, come tra il giugno e il luglio dello stesso 1571 aveva
dovuto fare a Napoli il predetto Marc’Antonio Colonna per mettere pace tra le genti italiane
delle sue galere toscano-pontificie e la fanteria spagnola di stanza in quella capitale; i
soldati ecclesiastici infatti, per vendicarsi d’oltraggi e ferimenti ricevuti dagli spagnoli,
erano sbarcati ed si erano avvicinati in atteggiamento minaccioso al palazzo reale del vicerè
cardinale di Granvelle. Trasferitesi poi le predette galere a Messina, dove arrivarono il 20
luglio e dove dovevano attendere le altre squadre cristiane con le quali costituire la grande
armata che poi combatterà a Lepanto, i soldati spagnoli che presidiavano quella città
vollero procurare ai loro commilitoni di Napoli quella soddisfazione che secondo loro non
avevano ricevuto dalla composizione della rissa predetta e quindi nottetempo assalirono,
ferirono e derubarono delle cappe e delle spade, onta militare questa per chi la subiva,
alcuni dei soldati delle dette galere i quali, per stare più comodi di quanto permettessero
l’angustissime galere, si erano tutti sparsi a dormire all’aperto nei dintorni del porto; anche
in questo caso il Colonna dovette intervenire e qui però poté essere molto più severo con i
fanti spagnoli, dal momento che, sebbene qualcuno di quelli fosse già stato castigato la
mattina dopo dagli stessi soldati italiani, fece, come narra il Sereno (cit.), catturare,
impiccare o incatenare al remo di galera alcuni dei colpevoli di quelle aggressioni,
immaginiamo alienandosi certamente in tal modo le simpatie dello spagnolo vicerè di
Sicilia. Subito dopo Marc’Antonio sedò, con le sue già dette evidenti capacità di tatto
politico, un terzo tumulto e cioè l’ammutinamento di tre compagnie di fanteria veneziana del
colonnellato di Pompeo Giustizi da Città di Castello e con ciò veniamo a sapere che sulle
galere toscano-pontificie c’era di guarnizione, oltre ai predetti 1.600 fanti arruolati negli
stessi domini ecclesiastici, anche questo reggimento evidentemente inviato dalla
Serenissima in supporto e completamento dei preparativi militari dello Stato della Chiesa; le
tre compagnie, due delle quali erano comandate da certo cavalier Sorrentino e la terza dal
capitano Ascanio da Civita Vecchia, irritate dal non esser stata loro ancora mantenuta la
promessa di ricevere a Messina il pagamento a Messina di tre mesi di paga arretrata, si
erano andate a rinchiudere in una chiesa con tutte le loro bandiere, minacciando
d’abbandonare la spedizione. Presto anche a Genova la formazione di questa poi tanto
benemerita armata provocherà dei tumulti, per fortuna molto meno gravi, e cioè tra la
748
popolazione della città e i soldati spagnoli imbarcati sulle galere di Spagna che colà
sostavano nel loro viaggio verso Messina.
A Napoli nel giugno di quello stesso 1571 c’era poi stato un altro episodio difficile che
aveva coinvolto gente di galera straniera. Era accaduto che, trovandosi in sosta a Napoli tre
galere di Malta con il loro generale, allora il veneziano Giustiniani priore di Messina, i
cavalieri gerosolimitani su quelle imbarcati, evidentemente soggetti particolarmente
turbolenti, s’erano dapprima quasi ammutinati contro il predetto generale perché avevano
saputo che a Venezia un loro confratello, macchiatosi di gravi delitti, era stato impiccato
con la croce dell’ordine ancora sul petto; poi, poiché alcuni birri napoletani avevano
arrestato un fuoruscito del regno non appena questi, imbarcato su una di quelle galere, era
sceso a terra, gridando l’arrestato ‘Malta! Malta! per chiedere aiuto, i cavalieri lo avevano
prontamente liberato, ma nel far questo avevano ucciso uno dei birri, feritine altri e
provocato così un grave incidente diplomatico. Il cardinale di Granvelle, infuriato, fece
puntare contro le tre galere le artiglierie dei castelli e minacciò di farle colare a picco, se
non gli avessero immediatamente consegnato sia il fuoruscito sia l’uccisore del birro, il
primo dei quali s’era comunque subito reso irreperibile; l’incidente fu composto però nei
giorni successivi, anche perché il fuggitivo, il quale nel frattempo aveva commesso un
omicidio, era stato catturato. Infine, sempre a Napoli, ma ora verso la fine d’agosto di quel
fatidico 1571, ci fu un sanguinoso scontro tra popolani e soldati spagnoli destinati
all’imbarco per Messina; ecco l’episodio, purtroppo nel solito volgare italiano modernizzato
del Nicolini:
Una baruffa tra alcuni ‘bisogni’ spagnoli e popolani napoletani per poco non ha suscitata
una sollevazione, giacché altri soldati spagnoli, sopraggiunti sul luogo della rissa, vedendo
uccisi uno o due dei loro compagni, hanno tirato colpi all’impazzata, senza aver riguardo né
a sesso né ad età; ragion per cui molti cittadini sono corsi alle armi per massacrare gli
spagnuoli, che frattanto s’erano ritirati in isquadra presso Castel Nuovo. Non poco hanno
dovuto faticare baroni e ministri regi per placare gli animi inferociti; il cardinal di Granvella
ha fatto imbarcare subito gli spagnoli… (Cit.)
Ogni squadra aveva poi un capo-bombardiero, dal quale dipendevano tutti i bombardieri
delle singole galere della squadra e che era imbarcato sulla galera Capitana e percepiva un
salario personalizzato, ossia a seconda della sua sufficienza, ma in ogni caso ovviamente
superiore a quello d’un bombardiero semplice; chiamato capitano dell’artiglieria, quello
della Capitana di Napoli percepiva nel 1594 ducati napoletani 96 l’anno (R. Mantelli. Cit.)
C'era ancora in ogni squadra un armarolo, il quale aveva il compito di riparare le armi che
con l'uso si fossero guastate e, quando non si era in navigazione, bensì in porto a svernare,
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era invece suo incarico quello di tenere le armi di tutti ben pulite e conservate nell'armeria
della squadra. In navigazione il suo luogo era alla prua della galera Capitana; nel periodo in
esame prendeva nella squadra pontificia 6 scudi pontifici il mese e due razioni di viveri il
giorno. si usava pure tenere imbarcato in ogni squadra un macellaro, il quale non doveva
essere però uno qualsiasi, perché doveva non solo macellare la carne, ma anche saper
riconoscere i buoni animali da carne e teoricamente anche sapere in quali paesi rivieraschi
se ne potessero trovare. Costui alloggiava su un qualsiasi vascello, ma ovviamente le
bestie da macello erano distribuite tra tutti i vascelli per motivi di spazio e - nelle galere -
erano tenute a prua sotto le rembate, cioè proprio dietro le artiglierie.
In ogni squadra c'erano inoltre un medico fisico [dal gr. ὀ φῠσῐϰός, ‘il (medico) naturale’] e
uno speziale, i quali alloggiavano generalmente sul vascello di comando, ma durante il
combattimento il loro posto era sotto coperta, dove assistevano e medicavano i feriti, e
naturalmente in tale occasione gli altri vascelli della squadra non potevano immediatamente
servirsi della loro opera e dovevano accontentarsi dei loro barbieri, dei quali abbiamo già
detto. Questo medico, il quale nel 1594 prendeva sulla Capitana di Napoli ben 240 ducati
napoletani annui, stipendio quindi doppio di quello d’un capitano di galera, doveva
esercitare particolare controllo sulla spezieria dell'armata, a evitare che lo speziale vi
conservasse medicinali guasti o che li adulterasse con acqua o altro per mancanza degli
opportuni ingredienti (R. Mantelli. Cit.) Oltre allo stipendio, il medico prendeva di solito
compensi dai suoi pazienti, perché in effetti il suo soldo, anche se molto consistente, era
considerato dovuto solo per il suo stare a disposizione dell’armata e non anche per le
singole prestazioni; ciò valeva anche per i medici militari di terra.
Erano considerati medicinali quei cibi e quegli alimenti che, come abbiamo già accennato,
per loro costo o rarità esulavano dalla semplice dieta ordinaria di bordo, come per esempio
le uova, la carne di pollo – o anche di quaglia e allodola, volatili allora molto comuni e poco
dispendiosi - e soprattutto lo zucchero, sostanza che si conservava a bordo in casse ed era
riservato unicamente ai malati e ai feriti. Allo zucchero la medicina del tempo attribuiva
importanti qualità terapeutiche e si arrivava a pensare che il miele fosse un suo povero
surrogato, un surrogato con il quale lo speziale, usandolo invece dello zucchero, alterasse
fraudolentemente pozioni e sciroppi! Bisogna considerare che questa era ancora un’epoca
in cui la medicina raramente arrivava a comprendere le vere cause anche dei più semplici
effetti patologici; era un tempo in cui per esempio, mentre per opinion comune si era
convinti, come abbiamo già detto, che bisognasse bere solo vino perché l'acqua
raffreddava lo stomaco, d'altra parte si ammetteva che il vino potesse essere a volte
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dannoso, ma in maniera malintesa, come si legge nella relazione sulla Savoia presentata dal
residente veneziano Andrea Boldù nel 1561 a proposito della buona salute del duca
Emmanuel Filiberto:
... se non che patisce di catarro per li vini di Spagna che beve ordinariamente, che sono
gravissimi e forti assai... (E. Albéri. Cit. S. II, v. I, p. 421.)
I vini greci (cioè ‘rossi’) di Spagna, appunto molto densi e forti, erano tra i più apprezzati in
Europa. La gente di mare, oltre che di malattie epidemiche, parassitiche, veneree e
meteorologiche generali a quel tempo, quali il tifo petecchiale, il vaiolo, la tigna, la scabbia,
la sifilide e le bronco-pleuro-polmoniti, definite allora per lo più idropisia polmonare, era
allora generalmente vittima preferenziale di malattie da carenze alimentari, quali lo scorbuto
(fr. anche mal de terre; ol. scheur-buik), il quale talvolta portava a morte interi equipaggi, la
diarrea, detta allora anche flusso e la dissenteria, chiamata pure flusso di sangue, e la
stitichezza; molto comuni erano anche le invalidità da incidenti sul lavoro, quali le ernie
inguinali e i cattivi esiti di fratture ossee; si moriva poi comunemente di difterite edematosa,
di dolori di fianco, ossia di appendicite, dei disturbi tipici dell’anzianità, soprattutto della
goccia, cioè d’infarto o ictus, della pietra, ossia di calcoli renali, e della ritenzione d’urina,
vale a dire d’iperplasia prostatica. Lo scorbuto incominciava a manifestarsi con un gonfiore
delle gengive, le quali in seguito si ulceravano, con alito pestilenziale e poi con la comparsa
di pustole su tutto il corpo accompagnate da un languore sempre più simile alla morte, la
quale infine sopraggiungeva; la gente di mare sapeva che l’unico modo per guarire da
questa malattia era il prendere terra (fr. anche terrir) e mangiare frutta e verdura fresca,
specie limoni e arance, ma credeva anche che ci si potesse salvare stropicciandosi
addosso sangue di testuggine marina. Da tale malattia carestosa furono severamente colpiti
nel febbraio del 1660 gli equipaggi dell’armata olandese del de Ruyter, mentre svernavano
a Copenhagen, e ne morirono in breve tempo ben 500 uomini, ammalandosene tra gli altri lo
stesso famoso ammiraglio, il quale, fatta di ciò dolorosa esperienza, in seguito non si fece
più trovare impreparato e, per esempio, nell’ottobre del 1664, prima che la sua squadra
lasciasse il porto di Cadice, dove aveva soggiornato per qualche tempo, vi fece acquistare
migliaia di limone e ne fece distribuire 25 a testa a ogni membro degli equipaggi.
La dissenteria, a causa delle acque infettate da feci animali che talvolta i soldati bevevano e
dai cibi avariati che spesso mangiavano, era una malattia comunissima e spesso mortale
negli eserciti e sulle armate del tempo; essa per esempio, nella sua virulenta e allora
incurabile forma maltese, decimò l’esercito turco che nel 1565 assediava quell’isola. Nel
751
gennaio del 1628 l’equipaggio del Digby fu colpito da una prima malattia epidemica, i cui
sintomi il corsaro così descriveva nel suo diario:
… Il 3 (febbraio) il vento continuò come il giorno precedente e di ora in ora i miei uomini
peggioravano per la malattia contagiosa che li colpiva alla testa, allo stomaco e alle reni con
dolori fortissimi, rendeva infetta tutta la massa del sangue e provocava un terribile vomito;
eppure non morivano subito, ma languivano tra gli spasimi più atroci e un’estrema
debolezza. Il 4 avemmo bonaccia e il numero dei malati raggiunse la sessantina e tutti gli
altri erano così accasciati che non avevo braccia per combattere e a stento per manovrare
le vele… (K. Digby. Cit.)
Decise pertanto il Digby d’andare a far sosta ad Algeri per farvi sbarcare e curare i suoi
malati; più tardi un’altra virulenta epidemia scoppierà però a bordo del suo vascello,
malattia che, dalla descrizione che egli ci ha lasciato, deponeva per un’infezione cerebrale:
… Avvenne che in brevissimo tempo quasi tutti ne furono contagiati, a causa del gran
numero d’uomini chiusi in un piccolo spazio. Sebbene ognuno tentasse di evitare i malati,
tanto che costoro morivano in grande abbondanza senza alcun aiuto, pure l’infezione era
così radicata nel vascello che non potevano sfuggirne… Così accadeva spesso che i corpi
giacessero per molti giorni nelle cabine o nell’amache, poiché nessuno osava andarli ad
esaminare e tanto meno a gettare i fetidi cadaveri fuori di bordo, sinché l’insopportabile
puzzo non li facesse scoprire… Quello che però soprattutto moveva a compassione era la
follia furiosa della maggior parte di coloro che erano prossimi alla fine, perché la malattia
toccava loro il cervello ed, essendo essi in gran numero, non c’erano abbastanza uomini
che potessero trattenerli dal gettarsi in mare o dallo strisciar fuori dai boccaporti; tale era il
bruciore provocato dalla malattia che essi desideravano ogni refrigerio e la fantasia
sconvolta faceva loro credere che il mare fosse una vasta e piacevole prateria… (Ib.)
Del predetto contagio era stata un secolo e mezzo prima pure vittima la galea veneziana di
Augustino Contarino che portava Santo Brasca in pellegrinaggio in Terrasanta, il che
avvenne durante la sosta che quel vascello fece a Cipro, isola allora notoria per il suo mal
aere:
… Tornati a galea trovai molti de li peregrini morti e questo per lo pessimo aere che, como
ho dicto, regna in quela insula e lo resto de li peregrini tuti quanti amalati e la magior parte
de febre frenetica, che seria bastato se fossero stati atosichati. De quali amalati uno ci fu
nomine Sigismondo, cavaliere alamano, el quale, facto insensato per la furia del male, si
dete tre ferite mortale d’uno coltello con le proprie mane e morit(t)e; un altro, nomine misere
Philippo, pur cavaliere alamano, vuolse far el medesimo, ma fogli legato le mane, e morit(t)e
così ligato e amendui fuorno gittati in mare con l’officio solemne como si farebbe in terra;
un altro, officiale di la galea, se volse gettare in mare, ma fu retenuto; io anchora non foi più
exempto de li altri, che, avante uscisse de quela insula, me acolse una febre continua e
terribilissima, la quale me duroe sei giorni con tanta asperità quanto dire se possa… (A. L.
Momigliano Lepschy. Cit.)
752
Di semplice diarrea s’ammalavano poi facilmente quei soldati che, occupati orti e frutteti del
nemico, s’abbandonavano a insolite scorpacciate di frutta spesso anche alquanto acerba; a
simili innocenti abusi addirittura talvolta taluni attribuivano la causa dello scoppio di
terribili pestilenze sull’armate marittime, come successe nel caso di quella che desolò nel
1570 l’armata veneziana (Tucci. Cit.). Quanto alla sifilide, essa si diffuse in Europa negli
ultimi anni del Quattrocento e in Italia se ne prese consapevolezza nel 1494, in coincidenza
cioè con la discesa di Carlo VIII in Italia, per cui gli italiani lo credettero un male portato dai
francesi e questi un male contratto in Italia, specie a Napoli; ma in verità in tempi precedenti
anche del vaiolo si era voluta la capitale partenopea primo focolaio europeo ed era infatti
opinione consolidata che questa malattia vi fosse stata portata dalle Indie Orientali e da lì
poi propagatasi universalmente; acquisì così Napoli, specie a opera dei francesi, una
sfortunatissima qualifica di luogo pericolosamente infettante, la quale contribuirà senza
dubbio moltissimo all’affermarsi di quella pessima fama che il popolo napoletano si stava
purtroppo guadagnando in Europa a causa delle devastazioni compiute dalle sue decine di
migliaia di reclute marcianti nel continente al seguito delle bandiere spagnole. Ecco quanto
scrisse della sifilide il Sanuto nei suoi Diarii a proposito degli avvenimenti del 1496 nel
regno di Napoli:
… Nota che, per influssi celesti, da anni 2 in qua, cioè dapoi la venuta de’ francesi in Italia,
si ha scoperto una nova egritudine in li corpi umani dicto ‘mal franzoso’, lo qual mal ‘sì in
Italia come in Grecia, Spagna e quasi per tutto il mondo è dilatado [om.] El qual mal, ‘licet’
molti dicono sia venuto da’ francesi, tamen lhoro ‘etiam’ l’hanno da anni 2 in qua avuto e lo
chiamano ‘mal italiano’… (M. Sanuto. Cit. T. I, col. 233-234.)
Nei porti dove ordinariamente svernavano le squadre di galere poteva esserci il cosiddetto
bagno, ossia il luogo dove si tenevano recluse le ciurme invece di tenerle a vivere sulla
coperta delle galere anche d’inverno, uso quest’ultimo che era per altro molto più diffuso e
tradizionale, e nel bagno anche si curavano e si lavavano i galeotti infermi, da cui appunto
questo nome di bagno e poi – molto più tardi – anche quello di bagno penale. Il nome fu
comunque usato dapprima dai turchi, come si legge nel Quijote, laddove il Cervantes
Saavedra fa narrare la sua propria esperienza di prigioniero a un capitano di fanteria che era
stato schiavo di Hasán Bassà, quando questi era reggente d’Algeri:
…Così trascorrevo la vita, chiuso in una prigione o casa che i turchi chiamano ‘bagno’,
dove rinchiudono gli schiavi cristiani, tanto quelli di proprietà del re quanto quelli di alcuni
privati, e poi quelli che chiamano ‘dell’arsenale’, che è come dire ‘schiavi del Comune’, i
quali servono la città nelle opere pubbliche che questa fa e in altri lavori, e a questi ultimi
schiavi riesce molto difficoltoso il riottenere la libertà, perché, poiché sono della comunità e
753
non hanno un padrone particolare, non c’è con chi trattare il loro riscatto, quantunque ne
dispongano. A questi bagni, come ho detto, son soliti portare i loro schiavi alcuni privati del
popolo, principalmente quando sono da riscatto, perché colà li tengono riposati e sicuri
finché non arrivi il loro riscatto. Anche gli schiavi del re che sono da riscatto non escono a
lavorare con il resto della ciurma, se non quando il loro riscatto tarda; che allora, per far ‘sì
che scrivano per quello con più ardore, li fanno lavorare e andare a far legna con gli altri, il
che è lavoro tutt’altro che agevole.
Io dunque ero uno di quelli da riscatto, perché, come si seppe che ero capitano, nonostante
dichiarassi le mie poche possibilità e mancanza di patrimonio, non ne ricavai nulla perché
non mi mettessero nel numero dei cavalieri e della gente da riscatto. Mi misero una catena,
più per segno che ero da riscatto che per sicurezza, e così passavo la vita in quel bagno
con molti altri cavalieri e gente di qualità segnata e tenuta da riscatto… (M. Cervantes
Saavedra. Cit.)
Ben sapevano i barbareschi che un cristiano di buona condizione sociale, anche se non
aveva del suo, poteva facilmente avere parenti benestanti che, commossi dalla sua
prigionia, fossero alla fine convinti a pagarne il riscatto; pertanto cercavano, con le buone o
con le cattive, di far confessare a tutti i loro schiavi d’essere persone benestanti, se non
addirittura parenti di noti personaggi o delle personalità essi stessi, e ciò anche molto
spesso nel caso di poveri pellegrini, solo perché erano magari stati catturati discretamente
calzati o vestiti d’una mediocre casacca o d’un mantello nero. All’inizio dunque, per
ottenere tale confessione, li blandivano e davano loro da mangiare qualcosa di buono, cioè
del pane bianco, olive, cafaz (‘brodo vegetale’), cuscus (‘vivanda a base di carne’), cheurba
(‘brodo di carne piccante’), pilau (‘minestra di riso’); contemporaneamente però, fossero o
non fossero ancora risultati tali, l’incatenavano e l’inceppavano per far in ogni caso credere
agli altri che possedevano schiavi cristiani che, essendo cavalieri o prelati importanti,
valevano appunto un grosso riscatto; cominciavano poi presto a nutrirli, com’era loro
avarissimo uso, solo con due pani di crusca al giorno e a trattarli sempre peggio, in modo
da portarli alla disperazione e indurli a scrivere a loro eventuali parenti benestanti per
chiedere il danaro per il loro sempre esosissimo riscatto; infine, non ottenendo il risultato
sperato e stanchi di perdere inutilmente anche solo i due predetti pani giornalieri, avendo
comunque ottenuta per i loro schiavi la fama di personaggi da riscatto, l’inviavano magari in
dono a qualche pasha a Costantinopoli ad a qualche signore di province lontane a cui
dovevano qualcosa, allegando d’inviare loro un parente di principe o d’un importante
prelato o comunque uno schiavo che valesse un grosso riscatto. Così si comportò,
racconta il de Haedo, Hassan il Veneziano reggente d’Algeri, il quale il 21 luglio del 1578
inviò a Costantinopoli al suo signore Uluch-Alì, allora capitano generale del mare
dell’impero ottomano, tre poveri soldati cristiani, un greco, uno spagnolo e un italiano,
catturati il 15 aprile precedente sulle due galere di Sicilia di cui poi diremo; ma il rinnegato
754
calabrese era certo molto più furbo di quello veneziano e rinviò indietro i tre schiavi con
due galeotte che giunsero ad Algeri il 1° novembre successivo, latrici anche d’una lettera
per Hassan con cui Uluch-Alì lo metteva in notevole imbarazzo perché gli ordinava di
trattare lui stesso il riscatto di tali ‘importanti’ personaggi e d’inviargliene il ricavo; e furono
costoro già tanto più fortunati d’altri, i quali invece, non sperandosi in un loro sostanzioso
riscatto, da Costantinopoli erano inviati in quella località sul Mar Nero già più sopra
ricordata, detta Le Sette Torri, e là relegati vivevano il resto dei loro disgraziati giorni,
incatenati, affamati, tra la sporcizia e i pidocchi, dimenticati da tutti; ma, se poi l’esoso
riscatto non arrivava, allora anche ad Algeri il disgraziato schiavo cristiano sarebbe finito in
malo modo:
… alla fine di lunghi e dolorosi anni di fatica e di prigionia, durante i quali egli è stato vittima
di molte crudeltà, la salute del prigioniero è rovinata, le sue carni si sono strutte, le sue
ossa si sono sfarinate, i suoi denti sono caduti, le sue gambe sono state putrefatte dai ferri,
infine egli non è più buono a nulla… (D. de Haedo. Cit.)
A questo punto lo schiavo, non essendo più in grado di sopportare i pesanti lavori forzati di
terra e non valendo più nemmeno quel po’ di cattivo pane con cui lo si sostentava o finiva
ucciso a bastonate in qualche eccesso d’ira od era mandato a terminare i suoi pochi residui
giorni al remo di qualche galeotta corsara.
In mancanza del bagno si usava tenere ferme in darsena una o due galere fisse, vecchie e
malandate, chiamate volgarmente pulmonare, le quali servivano da navi-ospedale per
tenervi e curarvi i galeotti infermi:
… (La pulmonara) si chiama così perché è già dimessa e poco atta alla navigazione, come si
chiamano ‘pulmoni’ gl’huomini poco industriosi e non disposti alla fatica. (P. Pantera,
Vocabolario nautico. In cit.)
In realtà, allora come oggi, ci si poteva ravvisare un significato più maligno e cioè
intendendosi per tale una galera per pulmoni, ossia per individui scansafatiche che si
davano malati per non lavorare. Queste pulmonare dovevano esser però vascelli ben
calafatati e impermeabili all’acqua (gr. στεγανά πλοῖα, στερεά πλοῖα) e all’intemperie per la
salvaguardia degl’infermi e dovevano essere servite da persone che non solo curassero i
galeotti, ma anche ne impedissero la fuga; quella della squadra di Toscana era tenuta
ormeggiata nell’Arno. Sulla necessità di questi bagni e pulmonare insisteva il Pantera:
… Questo dico sapendo per esperienza che molti galeotti ammalati muoiono per disagio,
perché, dove non è bagno né alcuna galea pulmonara, è necessario che si fermino nella
galea dove servono, nella quale patiscono assai per non haver luoco da potersi riposare
755
fuorché al banco o posta ordinaria del lor remigio dove sono incatenati, il quale, per esser
angusto e per i continui tumulti e strepiti e servizij della galea e per la poca pietà che
ordinariamente si trova ne i compagni, corrono un perpetuo pericolo di morire, onde resulta
molto danno alla galea per la perdita che si fa de gl’huomini da remo e in particolare di
quelli che sono già esercitati e assuefatti e prattici ne gl’altri servizij della galea. (Cit P. 111.)
Il viceré di Napoli Pedro Antonio d’Aragona (1666-1671), nell’ambito dei grandiosi lavori
d’ampliamento della darsena napoletana da lui voluti e compiuti, abolì la vecchia e sdrucita
pulmonara che si trovava al molo di Napoli e nella quale forzati e schiavi malati molto
pativano e la sostituì con un vero e proprio ospedale sito addirittura nel palazzo reale,
ristrutturando a tal scopo locali che si trovavano dalla parte del mare sotto il corridoio
panoramico detto pallonetto (‘belvedere’).
Gli stipendi e le razioni di cui godevano i predetti ufficiali generali e di piana maggiore
d’armata o di squadra variavano abbastanza perché dipendevano dalla volontà di quel
particolare sovrano o di quel particolare capitano generale ed per esempio il capitano
generale della squadra di Napoli prendeva nel 1594 - e ciò già da molto tempo - ducati
napoletani 5.760 annui e il Reale 144; c’era però qualche uso abbastanza comune, come per
esempio le quattro razioni del predetto medico e del còmito reale e d’altra parte si doveva
per forza di cose adottare nelle squadre di galere cristiane una certa uniformità di
retribuzioni perché tutte, Francia esclusa, partecipavano insieme alle stesse leghe anti-
maomettane e la marinaresca avrebbe certamente disertato alcune d’esse per cercar
impiego solo in quelle che avessero offerto emolumenti più generosi; infatti già accadeva
che la gente di galera mercenaria greca, per guadagnare molto di più, preferisse impiegarsi
sulle galere turche invece che su quelle cristiane. Altri soldi, oltre a quelli già detti, erano
poi sulla Capitana maggiori che sulle altre galere della squadra e per esempio il barbiero di
quella di Napoli percepiva nel 1594 ducati napoletani 48, il padrone 144, il sotto-còmito 60,
ecc. (R. Mantelli. Cit.)
Per concludere questo vasto argomento delle genti di galera, diremo che nei suoi Ricordi,
scritti verso la metà del Cinquecento, l’ufficiale generale anconitano Francesco Ferretti
Senior, uomo di vastissima esperienza militare che combattè le sue ultime guerre al servizio
dello Stato della Chiesa, così comparava il valore delle genti di mare, finendo col dare la sua
preferenza ai liguri.
governati e ben provisti di armamenti come sarte, gómmone, ancora, vele ed altre simil
cose, e massimamente quelli che sono armati dalla Signoria .
Se dimandarete di catelani, vi dirò che sono bonissimi e valenti marinari ‘sì in nave come in
galee sottili e massimamente nelle sforzate, nelli quali sono stati grandi huomini, come fu
Bonetto e Villamarino il vecchio, il qual già passò in Leuante con venti galee sforzate tutte
sue.
Se mi dimandarete di biscaini, vi dirò che in su le loro barche sono buoni marinari e ben
difendono la loro robba; portughesi parimente in su le loro caravelle sono valenti marinari
e ben difendono il suo.
Se mi dimandarete di genovesi, vi risponderò che secondo il mio giudizio sono li primi
huomini che solchino l'acque salſe. Il genovese benissimo intende la marinaria, è savio,
accorto e avveduto marinaro, è huomo robusto, forte, gagliardo, sobrio, parco ‘sì come
quello che par nato alle fatiche, ai travagli, alli disagi, alli pericoli del mare. Il genovese ben
difende il suo, conduce ben qualsivoglia naviglio, o che sia carracca o nave grossa, barcia,
galeone, galeazza, galea sottile, di buona voglia, o sforzata, o fusta, o bergantino o
palischermo o leuto ed insomma il genovese governa bene qual si voglia legno; di sorte che
io desiderarei assai che gli navigli fossero patroneggiati, governati, e condutti da genovesi,
intendendo però genovesi non solamente quei che sono nel corpo della città di Genova, ma
delle riviere di Levante e di Ponente verso Savona, Finale, Sanremo insino alla Provenza.
Se mi dimandarete delle ciurme delle galee, vi dirò ch'io laudo le schiavone e quelle delle
riviere . Se mi dimandarete delli scappoli o assappi di galea, laudo il greco, per essere
marinaro e molto espedito con sua spada e targa in montare, e saltare in sui navigli che si
combattono. (Francesco Ferretti Senior, Diporti notturni. Dialloghi familliari ecc. Ancona,
1580 - Dialoghi notturni del capitano Francesco Ferretti, dove si ragiona di ordinanze etc.
Ancona, 1604 – Ricordi overo ammaestramenti etc. Pp. 211 verso – 212 recto. Venezia,
1613).
757
Capitolo XIII.
feu altre tal… Ib.); a volte si legavano così alla foce d’un fiume perché quelle del nemico non
potessero entrarvi o uscirne e, per maggior sicurezza, oltre a legarle, tra l’una e l’altra si
poneva anche un battello con uomini armati, magari anche affondando alla foce del corso
d’acqua dei vascelli che ne impedissero appunto l’accesso o l’uscita più sicuramente.
In ogni squadra c’erano un paio di galere, molto ben armate ed equipaggiate, incaricate
della guardia ((gr. προφυλαϰίδες τριήρεις) da esercitarsi attorno alla squadra stessa o
all’armata quando questa era ferma in un porto che non fosse quello di base o comunque
se ne stesse alla fonda in acque costiere; in navigazione dovevano seguire dappresso la
galera Capitana, pronte a difenderla e a prenderne gli ordini; il loro ruolo non era quindi da
confondersi con quello delle fregate di avvistamento ed esplorazione di cui poi diremo e
delle quali alcune pure dovevano trattenersi in combattimento alla poppa della Capitana per
fare da porta-ordini ai vari corpi dell’armata.
Nelle squadre di Spagna e di Francia - e di tutti reami indipendenti in genere - la galera
Capitana aveva titolo di Reale, perché il re poteva talvolta decidere di partecipare in persona
all’impresa di guerra, così divenendone automaticamente lui stesso il comandante
supremo, ossia il capitano generale, e Padrona reale era chiamata la seconda galera della
squadra.
Nel suo già citato Discorso del 1623 il Frezza ci informa che a quel tempo il numero di
galere di cui disponevano le squadre ponentine era il seguente:
Non bisogna meravigliarsi della suddetta qualifica di mercenarie data alle galere del Tursi,
in quanto lo erano effettivamente, avendo i genovesi sempre tradizionalmente offerto intere
squadre di galere per mercede, specie alla Francia, e ciò risulta già dal 1224; a tal proposito
pochi sanno che squadre di galere genovesi al soldo francese devastarono più volte coste,
porti, città costiere e mari dell’Inghilterra e dei fiamminghi da allora sino a tutta la guerra dei
Cent’anni nel Quattrocento, come avvenne nel 1346, quando i guelfi Grimaldi, oppressi dai
genovesi ghibellini, si posero al soldo francese contro gli inglesi e, raccolte a Marsiglia 34
759
galere, si posero con quelle in navigazione verso il canale della Manica; nessuno dei loro
vascelli tornò però più a rivedere i mari del Genuense, ossia della Liguria. Talvolta, anche
se raramente, in genere quando l’Inghilterra era in pace con la Francia, squadre genovesi
furono invece al servizio inglese, come per esempio nel 1337 e nel 1372, e gli stessi
albionici ebbero talvolta ammiragli dal cognome genovese; molto più spesso poi al soldo
degli inglesi, imbarcati sulle loro navi da guerra, anche se queste erano generalmente zeppe
d’efficacissimi arcieri, o incorporati nelle loro guarnigioni in Francia, furono i famosi e
richiestissimi balestrieri genovesi.
Per tornare al Frezza, dobbiamo chiarire che egli non annovera tra le suddette anche la
squadra della Francia perché all'occorrenza quella nazione, scandalosamente sempre
alleata del Gran Turco per una machiavellica real Politik, non sarebbe scesa in campo
contro l'armata ottomana. Tutte le predette galere, anche se messe insieme, non avrebbero
nemmeno raggiunto il numero di quelle che poteva mettere in mare la sola Venezia e non
erano quindi molte; ciò non ostante esse avrebbero potuto portare in battaglia marittima
sino a 24mila fanti, il che era a quel tempo ancora la consistenza d'un intero esercito di
terra. In passato però tal numero era stato talvolta maggiore, perché per esempio la squadra
di Sicilia aveva raggiunto le 22 galere e alla fine degli anni Settanta del secolo precedente
Napoli n’aveva avuto 40, anzi nel 1574 arrivò ad armarne 50.
Secondo il residente veneziano Girolamo Lippomano (1575) il regno di Napoli, risparmiando
in altri settori meno utili alla sua difesa, avrebbe potuto al suo tempo tener armate anche
100 galere e, operando allo stesso modo, la Sicilia 15, la Spagna 60 e Sardegna, Maiorca e
Minorca 12 fra tutte. In tal maniera, unendo a queste le galere dell'allora principe d'Oria, le
quali erano 27, e quelle dei potentati alleati della Spagna, e cioè di Savoia, Toscana, Genova
e Roma per un totale di 25 (ma dimentica quelle di Malta), e aggiungendo infine quelle molto
numerose di Venezia, si sarebbero agevolmente superati i 300 vascelli da guerra, numero
con cui si sarebbe ben contrappesata e anche superata la potenza marittima che i turchi,
nonostante Lepanto, ancora avevano e ciò con gran beneficio e sicurezza di tutti i mari e di
tutte le marine cristiane del Mediterraneo. Venezia era interessatissima a questo discorso
perché gran parte della sua autorevolezza presso la Gran Porta era proprio fondata sulla
paura che - specie ora dopo Lepanto - i turchi avevano d’assalire i possedimenti della
Serenissima, essendone distolti appunto dal pensiero che si sarebbero poi potuti trovare di
fronte un’altra volta, uniti in lega contro di loro, tutti i principi cristiani, Francia esclusa;
quindi maggiore fosse stata la potenza marittima di questi principi tanto più forte e temuta
760
lontano 1296 e che avevano per lo più due galere condotte (‘noleggiate’) dalla corona di
Spagna, e le ‘autonome’ isole Baleari, che, come abbiamo più sopra già detto, pure ne
possedevano qualcuna adibita alla loro guardia anti-barbaresca; chiariamo che i trattini non
significano mancanza di galere, bensì nostra mancanza di dati:
1284 30
1482 35
1487 40
1494 - - - - - - - - - 32 -
1495 42
1532 2 - 12 17 6 - 12 - 5 - 5
1536 - - - - - - - - 30
1538 - - - - - - - - 20
1546 6
1551 - - 18
1555 - - - - - - - - 5
1557 5 - 14 42 4 (le prime)
1558 - - - - - - - - - 40
1559 4 - 12 42 4 - - 4
1561 - - - - 10 - - 4
1562 6 - - - - - - - - 8
1563 17 - 16 - - - - - - 8
1564 - - - - - - - - 10
1565 - - - - - - - - 10
1567 12 - - 12 12 - - - 9
1568 13 - - - - - - - 8
1569 - - - - - - - - 10 12
1570 20 - 26 24 10 - - 3 9
1571 30 - - - 10 - - - 12
1572 36 - - - 15 - - - - 8
1573 48 - 45 - 22 3
1574 50 - - - 22
1575 40 - 30 27 22 4 5 - 8
1576 40 - 40 28 22 - - - 10
1578 - - - - - - - - - - 5
1579 40 - 30
1580 36
1581 29 - 37 20 15 5
1583 - - - - - - - 3
1584 24 - 37 8 13 10 - - 4
1585 28
1587 - - - - - - 5 - 4
1589 - - - - - - 6 3 4
1595 - - - - - - 8
1597 30 - 20 16 15 6
1602 - - - - 8 - - - - - 5
1605 26
762
1611 - - - - 8 - - - 8
1613 - - - - 8 - - - 8
1619 - - - - - - - - 6
1623 30 - 25 14 15 8 5 - 6
1624 - - 21 - 10 - - - 6 (2 grosse e
4 sottili)
1634 - - - - - - - - 6
1639 - - - - - - - - ? grosse e 4
sottili)
1640 14 - - - - - - - 9 (3 grosse e
6 sottili)
1644 - - - - - - - - - - 5
1647 - - - - 5 - - - 3
1651 - - - - 6
1660 - - - - - - 4 - 3 - 7
1668 7 - - - - - 5
1669 7
1671 7 3
1673 7 - - - - - - - - - 5
1674 - - - - - - - - - - 5
1675 7 - - - 5 - - - -
1678 7 - - - - - - - 4
1679 6
1680 8 - - - 6
1683 8
1684 - - - - - 6
1685 - - - 10 - - - - 4 - 8
1686 - - - 7 - - 5 - 4 - 8
1687 - - - 7 - - - - - - 8
1688 9 - - 7 - - - - - - 8
1689 - - - 7 - - - - - - 8
1690 - - - - - - - - - - 8
1692 - - - - 5
1695 8 - - - - - - - - - 8
1696 8 - 24 7 6 3 - - 3 25
1697 - - - 7
1700 - - - 7
1701 - - - 7
1705 - - - - 5
1713 15 3 7 - 5 - - - 3
1740 4
In caso di necessità Genova, oltre alle sue galere repubblicane, ne amava altre (4 nel 1684)
dette di libertà, perché armate di ciurme di buonavoglia. Come si legge nel dispaccio inviato
in data 28 luglio al suo senato da Hieronimo Lippomano, ambasciatore veneziano
straordinario presso Giovanni d’Austria, delle 40 galere approntate dal regno di Napoli per
la campagna di Barbaria del 1575, 10 erano però inutilizzabili perché prive di remiganti (E.
763
Albéri. Cit.). Per quanto riguarda le galere dette condotte, per esse s’intendeva, come
abbiamo già ricordato, galere di proprietà di capitani particolari, ossia di privati noleggiatori
mercenari per lo più genovesi, i quali le armavano d’uomini di loro scelta e si tenevano poi a
disposizione del principe (conduttore) che le aveva noleggiato; per esempio delle 17 del
1532 15 erano d’Andrea d’Oria e due del principe Grimaldi di Monaco, queste ultime pagate
dal regno di Sicilia seimila ducati l’anno l’una, mentre le 42 del 1557 a disposizione di Carlo
V erano le seguenti:
Sanchez de Loria era in quel 1557 anche capitano generale della squadra di Napoli, allora
ancora tradizionalmente costituita da sole cinque galere (eccezion fatta per il periodo
attorno al 1532 in cui erano state invece ridotte a due sole), sebbene fosse strategicamente
appoggiata dalle due di Garcia de Toledo e dalle sette d’Antonio d’Oria.
Nel 1563, come si legge nella relazione di Napoli che il residente veneziano Paolo Tiepolo
presentò in quell’anno, delle 17 galere a disposizione del regno di Napoli in realtà solo sette
erano napoletane, mentre le altre 10 si pagavano ai genovesi e cioè sei erano d’Antonio
d’Oria, due di Bandinello Sauli e due di Stefano de’ Mari; similmente delle 16 a disposizione
del regno di Sicilia due erano di Carlo d’Aragona ora duca di Terranova, due del messinese
Filippo Cicala e due del Grimaldi signore di Monaco, mentre solo 10 erano effettivamente
del regno, quattro delle quali dette antiche del regno perché tradizionali, mentre le altre sei
erano state aggiunte solo l’anno precedente.
Le 42 condotte facenti invece parte delle 67 di cui disponeva in totale l’imperatore nel 1559
erano così suddivise:
Queste ultime sei erano state fino a qualche tempo prima d’un capitano di galere della
famiglia napoletana Pappacoda. Filippo Cicala, come già sappiamo, sarà catturato dai turchi
due anni dopo e passerà al servizio ottomano. Le galere dei particolari genovesi che nel
1571 fecero parte dell’armata della Lega che combatté a Lepanto e che il 24 agosto di
quell’anno si presentarono alla massa (‘concentramento’) di Messina furono le seguenti:
Le predette non vanno confuse con le altre 12 genovesi che alla stessa massa porterà dopo
qualche giorno Gioan Andrea d’Oria, delle quali 11 erano di sua proprietà, ma al soldo della
corona di Spagna, e una, a quelle aggregata, era invece dei cavalieri di Malta. Nel biennio
1580-1581 delle galere attribuite al regno di Napoli in effetti quattro non erano proprie di
quel regno, ma si pagavano a particolari genovesi e cioè 2 a Stefano de’ Mari e 2 a
Bandinello Sauli; nel 1581 inoltre, delle 20 galere condotte, 12 erano di proprietà di Giovan
Andrea d’Oria e 3 di Agostino Spinola, mentre in realtà le 5 rimanenti, anche se a carico di
Marcello d’Oria, non erano condotte perché di proprietà dello stesso Filippo II.
Il d’Oria, come spiegherà il già citato Matteo Zanne nel 1584, pur essendo il soprintendente
generale di tutta l’armata del re di Spagna, vedendo però insoddisfatto il suo desiderio di
diventarne il capitano generale come lo era stato suo zio Andrea e timoroso di dover un
giorno avventurare le sue galere sotto il comando d’altri, presto ne venderà 10 allo stesso
sovrano, restandosene a Genova con due sole; il servizio di queste, essendo le sue migliori
e cioè di fanò e più che inquartate, gli verrà pagato ben 19.000 scudi annui per ognuna (Ib.);
questa tattica fu efficace perché, come invece spiegherà il pure già ricordato Vincenzo
Gradenigo solo due anni più tardi dello Zanne, sarà molto presto fatto capitano generale,
mentre tutti s’aspettavano che tale nomina andasse al marchese di Santa Cruz per la sua
grande vittoria del 1582 alle Terzeire; ma, con soddisfazione di tutti, costui fu invece
contemporaneamente fatto generale dell’Oceano, titolo che poi, alla sua morte, sarà
conferito al fratello Alonso de Bazán. Possiamo ancora dire, sulla base di quanto affermerà
nel 1597 il già citato Girolamo Ramusio, che delle 28 galere napoletane del 1585, solo la
Capitana e la Patrona erano gestite direttamente ‘dalla Corte’, ossia dal re, mentre le altre
26, seppure di proprietà della corona, erano state tutte date in gestione ad armatori
765
particolari, ossia privati, al soldo di 7.800 ducati annui a galera; era quest’ultimo infatti il
terzo modo in cui un sovrano poteva disporre di galere armate e equipaggiate, mentre il loro
capitano generale prendeva allora un appannaggio annuo di 5.760 ducati (Ib.).
Nel succitato manoscritto della Bibl. Marciana l’anonimo autore ci ha lasciato delle
informazioni interessanti sulla squadra toscana del periodo lepantiano ed ecco le 9 galere
che la componevano e i loro rispettivi capitani nel novembre del 1565:
Galera. Capitano.
Nel 1572 le squadre ponentine si presentarono al nuovo raduno della Lega ben potenziate,
perché naturalmente si voleva approfittare del successo dell’anno precedente per dare il
colpo di grazia alla Gran Porta; per esempio il duca Cosimo I, oltre alla galera nuova, la San
Giovanni, che aveva in via di completamento a Pisa e che era destinata a sostituire la
Firenze, persa a Lepanto, aveva aggiunto alla sua due galeazze, due galeotte e due galeoni,
uno grande e uno piccolo; inoltre tanti giovani e meno giovani, entusiasmati dal grande
successo dell’anno precedente e sperando di potersi ora arricchire o mettere in mostra a
spese dei turchi, vi si erano volontariamente imbarcati con il loro migliore abbigliamento e
così sarcasticamente ne descriveva il Sereno l’inutile eleganza al loro arrivo a Messina:
… Quivi il marchese di Santa Croce con trentasei galere di Napoli sopraggiunse, le quali,
oltre la stiva (‘il carico’) che portavano de’ soldati spagnoli del terzo di don Pedro Padilla,
tanto gran numero di venturieri di diverse nazioni (e) nobilissimi conduceva, che de’ più
nobili napoletani soli ve ne furono sino a settanta. Tanto può il desiderio della gloria in
quella deliziosa città, che, non essendovi stato l’anno passato, dai pochi in fuora che
v’ebbero carico, quasi nessuno che si curasse d’accompagnar don Giovanni, benché
fratello del Re loro, in tanta dignità costituito, ora, havendo veduto la vittoria, che mai non
havriano sperata, tutti a gara pareva che più al nuovo trionfo che al combattere si fossero
apparecchiati, tanto di oro, di livree e di gale vennero adorni… (B. Sereno. Cit. P. 269.)
766
Sembra che i venturieri imbarcatisi in quest’armata del 1572 fossero anche più di mille, per
la maggior parte francesi e napoletani, ossia del regno di Napoli e Giovanni d’Austria ne
farà poi generale il duca d’Atri di casa Acquaviva. In effetti il Santa Cruz dopo Lepanto
aveva sempre chiesto di più e cioè che le galere napoletane fossero portate a 40 - mentre
dalla Spagna si sperava che Napoli n’approntasse addirittura 50 - e che a lui stesso fosse
concesso d’armarne a sue spese altre quattro; ottenne poi quest’ultima concessione dal re,
anche se dovette lottare contro l’opposizione del vicerè cardinale di Granvelle, il quale
giustamente temeva che in tal caso i migliori ufficiali, marinai e buonevoglie sarebbero
andati sulle galere del generale, mentre quelle del re avrebbero avuto solo lo scarto. Alla
fine, per non scontentare troppo il re, il marchese gli vendette le sue proprio allora armate
quattro galere, certamente un buon affare programmato sin dal primo momento; il Santa
Cruz presto sarà fatto capitano generale della squadra di Spagna. Questa volta, come
riferisce al suo Doge il già citato Placido Ragazzoni (1574), l’armata non lasciò però Messina
tutta insieme; cominciarono infatti a partire per il Levante il 7 luglio 13 galere papaline, 22 di
Giovanni d’Austria con 2mila fanti spagnoli e le 25 che Venezia aveva mandato a quella
massa; Giovanni lascerà il porto solo il 3 agosto successivo, accompagnato da 28 galere,
18 navi grosse e 12 vascelli piccoli da rimurchio. La grande impresa dell’autunno passato
però non si ripeterà per la grande prudenza che saprà mettere in campo il rinnegato
calabrese Uluch-Alì in qualità di nuovo capitano generale di mare ottomano:
… Ritornata poi Sua Altezza di Levante, senza haver fatta cosa alcuna, di dove le convenne
partirsi per mancamento di pane, come si disse, e succeduta poi la pace di Vostra Signoria
col Turco (marzo 1573), onde veniva a cessare al sig. don Giovanni l’occasione di andar in
Levante, volse il pensiero e le deliberazioni all’impresa di Tunisi… (E. Albéri, S. I, v. VI, p.
471.)
Giovanni, come riferirà Placido Ragazzoni (1574), arrivò a Palermo con l’armata allestita
contro Tunisi il 6 settembre 1573 e, non partecipando stavolta alla Lega Venezia a causa
della pace da questa sottoscritta colla Gran Porta nel marzo precedente, si trattava di sole
108 galere, 40 navi, 12 barconi (grossi vascelli latini) e 15mila fanti, cioè da 6 a 7mila italiani,
6mila spagnoli e 2mila tedeschi; dopo alcuni giorni di sosta in quella rada l’armata si
trasferì a Trapani e di lì alla Goletta. Non abbiamo ovviamente intenzione di appesantire
ulteriormente questa trattazione anche con la descrizione della presa di Tunisi; diremo solo
che Giovanni d’Austria vi fece iniziare la costruzione d’un nuovo forte e, per questo e per
quello della Goletta, vi lasciò di guarnigione ben 8mila soldati sotto il comando generale di
Gabrio Serbelloni, capitano generale dell’artiglieria di Filippo II, definito dallo stesso
767
Giovanni in una sua lettera del 18 ottobre successivo persona di prudenza e d’esperienza, e
cioè 4mila fanti italiani capitanati da Pagano d’Oria e 4mila fanti spagnoli comandati da
Andrea Salazar, castellano di Palermo; licenziò poi le galere della squadra di Napoli, lasciò
ancora 300 fanti spagnoli di presidio a Biserta e, a causa della cattiva stagione ormai
inoltrata, se ne tornò a Palermo, dove giunse il 2 novembre; di lì poi passerà a Napoli, a
Vigevano nel Milanese, dove resterà sino al luglio seguente, e infine a Genova per
imbarcarsi di nuovo sull’armata reale.
Un altro caso in cui una spedizione marittima vide una particolare partecipazione,
fors’anche eccessiva, fu quella di Barbaria che lasciò il porto di Cartagena all’alba del
lunedì 10 gennaio1543, spedizione voluta dal giovane imperatore Carlo V e affidata al già
ricordato conte di Alcaudete; vi s’era imbarcato infatti a Cartagena un così grande numero
di venturieri:
… che in brevissimo tempo si riempirono le navi che stavano in porto e tanto che né noi
potevamo camminare in esse né i marinai far il loro lavoro; e faccio fede, da testimone di
vista, che tra quelle venne una nave che portava novemila moggi di grano e 1.200 soldati;
cosa degna di memoria, che si gettavano in acqua per imbarcarsi e litigavano per salire
sulle navi, gli uni sugli altri, e, mentre vedemmo che altre volte in armate pagate non si
potette metterle in acqua attrezzate (per mancanza d’uomini), in questa, senza paga,
vedemmo il contrario. (Francisco de la Cueva. Cit.)
… e qui fu tanta la fretta d’imbarcarsi che faceva meraviglia, perché, come dico da
testimone di vista, poiché in tre parti del mare non si potevano avvalere, s’affogavano gli
uni sugli altri, il che era nel molo, nella pescheria e nei magazzini… (Ib.)
La differenza stava di solito nella maggiore o minore notorietà che si riusciva a dare
all’impresa.
Il già citato Niccolò Tiepolo (1532) così leggeva al suo doge a proposito delle forze di mare
di Carlo V:
... Ha la Maestà Sua tanta copia di navi e di genti buonissime per esse in tutta la Spagna e
specialmente in Biscaglia che di queste può fare quanto numero vuole, ma di galee non ha
così il modo, che n’ha poche e gente non molto atta al governo di tai legni. Pure al presente
si ritrova Sua Maestà con quelle che furono ultimamente fabbricate in Barcellona, fusti di
galee numero ventidue, senza quelle di Genova, Napoli e Sicilia con le quali [...] averia, ogni
volta che volesse, al servizio suo ben armate quaranta galee. (E. Albéri. Cit. S. I, v. I, p. 49.)
768
In seguito Carlo V portò la potenziale consistenza della sua armata a 100 galere, ma questo
numero si ridusse a 34 negli anni 1560-1562 a seguito di quattro gravi avvenimenti
succedutisi in quegli anni e nei quali Filippo II perse ben 64 galere, cioè la rotta delle Gerbe
avvenuta nel 1560, la perdita l’anno successivo d’un totale di sette galere e una galeotta di
Sicilia comandate da Guimerans de S. Juan, sconfitte e catturate nei pressi di Lipari da 11
galere barbaresche di Dragut (‘Torgud’), poi nel 1561 la perdita della galera del Cicala e
l’anno seguente quella della galeotta dell’Osorio, episodi ai quali ritorneremo, ma
soprattutto, anche nel 1562, il grande naufragio che provocò l’affondamento della maggior
parte delle 32 galere della squadra di Spagna, la quale, sotto il comando di Juan de
Mendoza e proveniente dall'Italia carica di soldatesche, tra cui la parte migliore del tercio
antiguo di Napoli, a causa di un’improvvisa e violentissima tempesta naufragò nella baia
d’Herradura, tra Motril e Vélez Málaga, dove aveva cercato riparo, con la perdita di 20-25
galere (22 secondo il Pantera), di cui 16 erano tutte quelle in quell’anno al servizio del regno
di Napoli, e diverse migliaia di vite umane, tra cui duemila soldati e lo stesso de Mendoza.
Le suddette 34 galere superstiti non erano nemmeno in buon ordine, il che si doveva alla
solita negligenza di quella Corte, come si legge nel già citato Paolo Tiepolo (1563):
... quelle che sono proprie del Re, per negligenza e avarizia de' ministri, non si sono mai
vedute in ordine delle cose necessarie, mancando principalmente del conveniente numero
di artiglierie, di marinari e di soldati; e (così anche) le altre che sono di particolari, perché
essi procurano più il beneficio proprio che quello del Principe [...] E queste e quelle sono
per la maggior parte armate di schiavi (maomettani) nemici del padrone e desiderosi della
libertà. (Ib. S. I, v. V, p. 45.)
Nell’agosto del 1564, essendo tornati i mori a infestare Orano dopo averla tentata nell’anno
precedente, Filippo II mandò sulle coste della Barbaria - e con molta pubblicità – don Garcia
de Toledo a capo d’una potente armata di 93 galere, un centinaio d’altri navigli e il
gigantesco e potentissimo galeone portoghese S. Bastiano, vicenda alla quale abbiamo già
accennato; si trattava di 15 galere di Spagna comandate dal capitano generale Garcia de
Toledo, 5 di Malta sotto il generalato di fra’ Vincenzo Gonzaga priore di Barletta, 8
portoghesi sotto Francisco Barreto, 6 papaline, 10 toscane al comando di Jacopo
d’Appiano, 3 savoiarde agli ordini di Andrea Provana, 11 di Napoli capitanate da Sancho de
Leyva, 11 di Sicilia, 12 genovesi guidate da Giannandrea d’Oria, il quale in verità ne aveva
ereditate 20 dallo zio principe Andrea, ma Filippo II ne aveva voluto al suo servizio solo 12,
e altre di armatori particolari, quali Marcantonio Colonna, Marco Centurione e Giorgio
Grimaldi; quindi un’armata di tutto rispetto, sulla quale erano imbarcati 10 o 12mila fanti e
che però non fece altro che impadronirsi d’un piccolo luogo fortificato, il Peñon de Vélez de
769
la Gomera, rupe altissima detta anche Sasso di Vélez, perché situato presso la città di quel
nome sulla costa africana verso lo stretto di Gibilterra, luogo forte già tenuto dalla Spagna
dal 1508, da quando cioè una delle spedizioni di Pedro Navarro, quella andata al soccorso
d’Arzila, possedimento portoghese, se n’era impadronita, sino al 27 maggio 1529, giorno in
cui il Barbarossa, dopo 21 d’assedio, l’aveva preso e poi fatto distruggere, e nido tra i
principali dei corsari barbareschi, i quali da quella base soprattutto partivano per infestare
le coste spagnole e per aggredire le flotte che venivano dalle Indie con ricchi carichi, ma
che comunque non era certo obiettivo che meritasse un tale dispiegamento di forze e che
oltre tutto si rivelò poi anche poco difeso. Era generale dell’artiglieria di quella spedizione lo
stesso Gioan Andrea d’Oria, mastro di campo generale Chiappino Vitelli, generale degli
spagnoli Sancho de Leyva, figlio d’Antonio principe d’Ascoli, duca di Terra Nova, marchese
d’Atella e primate delle Canarie, il quale Sancho era prima stato mastro di campo del tercio
fijo spagnolo di Napoli e poi capitano generale delle galere dello stesso regno, mentre dopo
Lepanto lo sarà di quelle di Spagna; inoltre era colonnello degl’italiani Luigi Osorio, il quale
morirà in quell’impresa, ucciso da una moschettata, per essersi troppo imprudentemente
esposto nell’andare a riconoscere le fortificazioni nemiche; comandavano i cavalieri di
Malta due sergenti maggiori, e cioè il fiorentino fra’ Alessandro Ridolfi e l’aragonese
commendator Monserrat, e inoltre il provenzale monsignor d’Oca di mare. Partita l’armata
da Barcellona e rifornitasi poi a Malaga, ai primi di settembre l’esercito sbarcò a 15 miglia
dal Peñon l’11 agosto e poi raggiunse per terra la fortezza; iniziatasi la batteria, al terzo
giorno di quella i difensori abbandonarono il luogo e quindi il de Toledo, fatto riparare e
rifornire quel castello, vi lasciò un presidio spagnolo di 1.500 uomini e poi ripartì per la
Spagna. I critici di quella tanto ostentata spedizione dissero poi che per quell'impresa
sarebbero state sufficienti non più di 30 galere e che il re Filippo II aveva messo su tutta
quell'armata solo per giustificare il godimento della suddetta Crociata ecclesiastica.
Nel 1570, anno che precedette quello della grande impresa di Lepanto, il cattivo stato delle
galere della corona di Spagna fu ribadito da un altro residente veneziano, Sigismondo
Cavalli:
... dirò ora della milizia [...] La marittima consiste o in proprie galee del Re ovvero in
condotte al suo servizio. Proprie sono quelle di Napoli, Sicilia e Spagna [...] le condotte
sono quelle del d'Oria e d'altri particolari (‘privati’). Nelle proprie il Re spende più e sono le
peggiori; e ciò avviene perché non vi usa quella cura e diligenza in avvantaggiarla e
custodirle che usano i particolari e perché non ha uomini prattici di tale mestiero. Gli
vengono a costar le proprie più di 6.700 scudi l'una, oltre il capitale che si consuma e sta in
pericolo, e a' particolari non dà più di 6.000 scudi all'anno per galea. E, se bene i ministri di
Sua Maestà conoscano il disordine, non curano però di sminuir le proprie per accrescer il
770
numero delle condotte e ciò per fuggire un altro inconveniente da loro stimato assai più
importante, il quale è che, nelle fazioni e nel combattere, quelle de' particolari vanno più
riservate e stanno volentieri addietro per non poner il loro capitale in pericolo; che, se le
galee sono del Re, cessa il rispetto e la paura; però (‘perciò’) vogliono veder di rimediarvi
con miglior ordini e aver persone di più esperienza nel servizio. (Ib. S. I, v. V, p. 171.)
I suddetti particolari risulteranno pagati 6.000 scudi annui a galera ancora nel 1581. Nel
predetto 1570 Filippo II disponeva di 56 galere proprie, cioè 26 di Spagna, 20 di Napoli e 10
di Sicilia, di 24 condotte e cioè 10 di Gioan Andrea d’Oria, quattro dei Lomellini, quattro dei
Centurioni, due dei Mari, due dei Sauli e due dei Grimaldi, tutte famiglie di capitani marittimi
per lo più genovesi. Stava inoltre per concludere un contratto per ottenere anche le tre
galere di Savoia in luogo di quello precedente con le 10 di Firenze e, aggiungendo a questo
totale di 83 galere le tre dell'alleata repubblica di Genova e quelle della protetta Malta,
arrivava, se non proprio alle 100 prescritte dai suoi accordi con lo stato della Chiesa, a circa
90, il che era un buon numero. Erano comunque sempre meno sia di quelle che poteva
armare in breve tempo Venezia sia delle 150 che quell'anno avevano messo in navigazione i
turchi; questi anche al tempo di Carlo V, il quale, come abbiamo detto, aveva disposto di
circa 60 galere, con le loro 100 d’allora erano stati superiori alla Spagna e questa cronica
inferiorità numerica fu il motivo per cui, per affrontare gli ottomani in battaglia reale, ossia
in battaglia tra intere armate, fu alle potenze marittime cristiane di Ponente sempre
necessario unire le loro forze quella di Levante, ossia con quelle di Venezia; da tali leghe
era, come già sappiamo, sempre assente la Francia, unico potentato cristiano
scandalosamente alleato dei turchi, le cui galere quindi non parteciparono né all'impresa di
Lepanto né a nessun’altra contro la Gran Porta, anche se in effetti, per quanto riguarda la
prima, essa aveva il consistente alibi di non aver potuto aderire alla Lega cristiana perché
sconvolta dall’interne guerre di religione e inoltre bisogna anche dire che a Lepanto
combatterono da semplici venturieri (sp. ventureros rasos) numerosi francesi, diversi dei
quali erano per esempio imbarcati nella galera Generale di Marc’Antonio Colonna e alcuni
erano cavalieri sangiovanniti, ossia di Malta. Gli unici militari francesi che potevano
liberamente combattere per la loro fede contro i maomettani erano appunto i tanti cavalieri
di Malta che servivano sulle galere di quell' ordine religioso; ma i transalpini fornivano alla
squadra di Malta anche regolarmente forzati da adibire al remo, uomini cioè di cui quei
cavalieri spesso non disponevano a sufficienza (M. Aymard. Cit.) La Francia, alla quale oltre
tutto erano da addebitarsi gli innumerevoli lutti e le grandi devastazioni portate sulle coste
tirreniche dell’Europa dall’armata del Barbarossa nel biennio 1543-1544, si riabiliterà però
pienamente agli occhi della cristianità nel diciannovesimo secolo, quando, impadronitasi
771
delle coste algerine, porrà finalmente fine alle secolari scorrerie dei corsari barbareschi che
tante rovine e tanti lutti e dolori avevano apportato alle popolazioni rivierasche d'Europa e
alla navigazione mediterranea, per esempio ai pescatori trapanesi, dei quali già a metà del
Cinquecento si diceva fossero, a causa della vicinanza di Trapani alla costa africana,
giornalmente preda dei vascelli remieri barbareschi che scorrevano quel mare a caccia di
beni e di cristiani da far schiavi, o come anche agli abitanti d’Augusta, località che, a causa
di questa stessa infausta prossimità, più volte fu dannificata dai barbareschi e, come se ciò
non bastasse, anche dall’armata turca, specie nel luglio del 1551, quando questa,
provenendo dalla Prévesa sotto il comando di Sinan Pasha e di Torgud e dopo essere stata
ancorata alla Fossa di S. Giovanni, oggi Villa S. Giovanni, per intimare, come racconta il de
Bourdeilles, al capitano a guerra di Messina Alonzo Pimentel di rendere Tripoli al sultano, e
averne ricevuto il rifiuto (d’altra parte il Pimentel non avrebbe nemmeno avuto tale autorità),
invase e saccheggiò appunto Augusta e, dopo due giorni d’assalti, ne prese anche il
castello, dirigendosi alla fine, come abbiamo già detto, verso la sua prima sfortunata
impresa di Malta, isola davanti alla quale si presenterà minacciosa il 18 luglio; la predetta
città siciliana sarà poi di nuovo attaccata dai turco-barbareschi nei due anni seguenti e nel
1560 e tutto ciò senza che nemmeno il potentissimo Carlo V fosse mai riuscito a debellare
quei corsari, nonostante le sue cinture di torri costiere e le sue spedizioni in Barbaria; ecco
come il Sereno descriveva la paura dei corsari barbareschi che nel Cinquecento agitava le
popolazioni rivierasche della Spagna, corsari le cui squadriglie partivano continuamente dai
porti d’Algeri, Tunisi e Tripoli, città di cui esse costituivano la principale industria:
… Dalle quali le lor marine da continui corteggiamenti tormentate, agl’incendij, alle rapine,
alle uccisioni soggette, patiscono ogni giorno che le persone e le robe lor sieno predate, le
navigazioni a’ marinari quasi fatte impossibili, i commerci tra la Spagna e l’Italia impediti…
(B. Sereno. Cit. P. 106.)
Inoltre c’era anche il più che giustificato timore che il nemico ottomano si decidesse prima
o poi a far impresa contro la mal difesa Spagna utilizzando a tal scopo proprio quelle
comode basi africane. In effetti già dalla seconda metà del Seicento la Francia aveva iniziato
a inviare anch’essa consistenti spedizioni marittime contro i potentati barbareschi; per
esempio, dopo le già ricordate azioni contro Algeri del biennio 1662-1663, nel luglio del 1664
la flotta del duca di Beaufort, appoggiata dalla squadra di galere di Francia e da quella di
Malta, sbarcherà un corpo di spedizione contro Djidjelli e la prenderà alla fine di quello
stesso mese, anche se poi i francesi la riperderanno già alla fine dell’ottobre seguente,
obbligando quindi il Beaufort a compire l’anno seguente una seconda azione punitiva
772
contro quel nido di corsari, affondandone 5 vascelli che si trovavano allora in quel porto;
eppure non troverete oggi più nemmeno uno storico disposto a riconoscere ai francesi
questo grande merito d’aver finalmente liberato il Mediterraneo dai corsari barbareschi, così
come non più si tien conto di quanto, venendo a combattere in Italia, aiutarono poi gl’italiani
a liberarsi dalla dominazione austriaca e infine a stento ancora si ricorda che, anche se a
prezzo di tanto sangue, esportò generosamente in Europa gl’ideali della sua grande
Rivoluzione.
Tornando ora alla relazione del Cavalli del 1570, diremo che quel residente riferiva che in
quell'anno Filippo II pure disponeva di 40 nuovi corpi di galere, i quali avrebbe in parte
potuto armare in proprio e in parte concedere, completi d'armeggi e artiglierie, a particolari,
ossia ad armatori privati con appannaggio reale, specie ai comandanti di mare genovesi, i
quali erano tradizionalmente dediti al mercenariato; quest'ultima, come abbiamo già detto,
era una forma usata, specie dalla corte di Spagna, come intermedia tra il gestire
direttamente proprie galere e l'ingaggiare con appannaggio (condurre) quelle di proprietà di
privati capitani o condotti. Per esempio c'erano allora privati armatori catalani che facevano
pressanti istanze per essere autorizzati ad armare 15 di quei fusti o gusci di galere che dir si
voglia, cioè a dotarli d’equipaggi, remiganti, munizioni e provvisioni per poi con esse
esercitare la guerra di corso e frequentemente anche la vera e propria pirateria, attività
queste appunto tradizionali nella marineria catalana; infatti il re era restio a dar loro tale
licenza perché i catalani avevano in passato più volte dimostrato di predare molto volentieri
non solo i vascelli maomettani, ma anche quelli cristiani; bisogna infatti capire che i vascelli
corsari, non avendo in mare la comodità di navi-appoggio da trasporto come invece
avevano quelli militari, erano costretti a portare a bordo anche un significativo carico di
viveri e di ricambi (gr. αυτόφορτοι νῆες) e, poiché, per necessità di agilità e velocità, non
erano nemmeno grossi, erano spesso obbligati a predare chicchessia semplicemente per
procurarsi dei viveri.
In realtà la pirateria era un esercizio al quale si dedicavano, magari saltuariamente, le
marinerie di tutti gli stati marittimi di quei secoli; per esempio in una sua lettera del 29
gennaio 1967 il re di Napoli Ferrante d’Aragona riferisce appunto della piratesca cattura di
una nave barcellonese carica di grano fatta da una genovese (F. Trinchera, cit. Vol. I, p. 25).
Chiariamo che il termine armatore (dal gr. ἂρμενον, ‘arredo nautico’) poteva significare
allora anche 'corsaro' se ci si riferiva a privati che appunto ‘armassero’, cioè dotassero di
arredo e armi, un vascello reale o pubblico per poter esercitare la lucrosa guerra di corso,
mentre per l’esercente o impresario di un vascello mercantile ancora s’usava il termine l.
773
exercitor. Per esempio armatori o corsari si potevano definire quegli esercenti marittimi
sudditi della Corona d’Aragona i cui contratti d’armamento di galee, con ordinanza del 26
febbraio 1356, Pedro IV re d’Aragona e conte di Barcellona regolava soprattutto ai fini della
guerra che allora si combatteva contro i genovesi. Il re forniva dunque galee addobbate,
apparecchiate, allestite, spalmate per la navigazione e anche armate di tutto punto; inoltre
anticipava per tutto l’equipaggio, patrone compreso, un mese di salario e panatica per un
massimo di 4 mesi (tanto al più poteva durare una campagna di corso), mentre l’armatore
s’impegnava a portare a bordo il detto equipaggio al completo secondo i canoni numerici
disposti da altre ordinanze, uomini sui quali gli si concedeva inoltre completa giurisdizione
civile e criminale dal giorno dell’arruolamento fino a quello del disarmo. In quel caso storico
a detti armatori erano concesse azioni de bona guerra, cioè di guerra ortodossa e corretta,
contro genovesi, milanesi e mori, esclusi però quelli del re di Granada, con il quale
evidentemente c’era allora qualche accordo. S’impegnava inoltre l’armatore a restituire la
galea, riparata e messa a secco a sue spese, con inventario di tutti gli accessori entro detti
4 mesi o al massimo entro 5, andando a disarmare nello stesso porto in cui il vascelllo era
stato ricevuto; d’atra parte era il re che si assumeva il rischio del danno di guerra, cioè della
perdita dei corredi e della stessa galea. Egli inoltre avrebbe conferito al Re la parte di valore
del bottino pattuita, detratte però le spese sostenute e aumentata invece del costo delle
paghe e della panatica in quella campagna ricevute; del bottino che gli restava poteva fare a
terra asta pubblica senza dover pagare diritto fiscale alcuno (Ordenanzas etc. Cit. P. 134 e
segg.)
Se un patrone pattuiva di mettersi in corso non con una galea di proprietà reale o
comunque pubblica ma con un suo personale veliero (lim/ctm. nau; cst. nao), poteva farlo a
patto che il vascello fosse di una portata di almeno mille salme e che imbarcasse
perlomeno 120 persone combattenti, ferma la proibizione di portare mercanzie di alcun tipo.
La campagna di corso poteva, in questo caso, durare fino a 8 mesi (Ib.)
Ma perché chiamarli armatori se in effetti riceveva in affidamento dal sovrano vascelli già
dotati di tutte gli armamenti necessari appunto a una guerra di corso? Perché si trattava di
un termine che non voleva significare armanti, perché in tal caso si sarebbe detto in l.
armantes e non armatores, essendo infatti questo un neologismo tardo-latino dal significato
di custos armorum, cioè di custode gli armamenti:
… Eleggiamo di deputare alla custodia delle nostre armi un solo uomo, idoeneo e fedele, il
quale per convenienza dell’ufficio sia chiamato ‘armatore’; il quale custodisca e preservi
diligentemente per mantenerle pulitamente e decorosamente. Controlli anche
frequentemente, quando di riparazione o di rinnovo avessero bisogno, perché subito
774
L’armatore poteva andar in corso anche con velieri invece che con vascelli remieri, sia che
questi fossero piccoli lembi o grandi galee, ma dalla predetta ordinanza non appare che il re
fornisse eventualmente anche i primi e ciò è comprensibile perché, come del resto ogni
altro dominio marittimo, quella Corona disponeva in permanenza solo di galee mentre di
velieri armati per la guerra solo in particolari occasioni.
Il predetto nome di armatore (l. exercitor, naviger, navicularius; gr. ναύϰληρος; ναυϰράτωρ,
ναυϰρατής; fr. armateur, capre, bourgeois; td. Borgere; ol. kaaper, reeder, kruisser,
commissie-vaarder, bewrakters) si dava comunque sia a colui che aveva ottenuto dal
principe la patente di corso (sp. ordenanza de corso; fr. commission; ol. commissie,
bestellinge) e aveva a sue spese arredato e armato un vascello per esercitare tale attività
sia al comandante del vascello stesso. Anche coloro che esercitavano questa professione
si riunivano talvolta in corporazioni – compagnie, come allora si diceva – con
autorizzazione del sovrano o della repubblica, perché si trattava d’una attività considerata
di pubblica utilità; infatti con un continuo esercizio del corso si proteggevano efficacemente
le rotte marittime da pirati e nemici. In Francia molto dediti alla guerra di corso oceanica
erano tradizionalmente soprattutto i duncherchesi, maloini e roccellesi e la formazione
d’una siffatta compagnia nel regno di Napoli sarà richiesta dalla corona di Spagna al viceré
con lettera del 3 aprile 1666, lettera seguita da formale cedola d’autorizzazione del 3 ottobre,
documenti poi ambedue così richiamati in un altro dispaccio reale del 15 novembre
dell’anno successivo:
Haviendo Su Magestad con su real despacho de abril passado deste año mandado a Su
Excelencia (‘il viceré di Napoli’) que se procure introducir en este Reyno una compañia de
armatore y corsistas para assegurar el trato y comercio y deseando Su Magestad por el
mayor beneficio público assi por lo que mira a la custodia de las marinas y seguridad de los
navegantes como por el tráfago con inmission de bienes forasteros en esta Ciudad y Reyno
(di Napoli) que aya personas que armen los leños que les pareciere para hir en corso, ha
resuelto etc. (Reali dispacci. A.S.N.)
Tanti erano però i veri e propri pirati che usurpavano i detti titoli d’armatore e di corsaro per
guadagnarsi un’immeritata legittimazione e rispettabilità che nel Settecento il termine
775
corsaro – anche con la sua variazione corsale – prenderà invece a significare ‘pirata’; dalla
fine del Seicento poi quello d’armatore a sua volta comincerà a perdere il suo senso bellico
per prendere a significare invece il mercante o comunque l’esercente che - in toto o pro rata
- noleggiava, equipaggiava e munizionava un vascello a scopo non di guerra, bensì di
commercio.
L’armatore poteva andare in corso e condurre da sé il vascello che aveva armato o poteva
dunque affidarlo al governo d’un comandante di sua fiducia, il quale poteva ricevere
dall’armatore stesso una paga e prender parte al bottino oppure aver diritto al solo bottino
(fr. capre à la part) e ciò a seconda della carta stipulata tra le parti (fr. charte-partie, abbr. di
la charte de les parties).
Nel corso della seconda metà del Seicento nacque nella parte francese dell’isola di San
Domingo il termine boucanniers a indicare una corporazione di scellerati in numero
variabile dai 500 ai mille a seconda dei tempi - che esercitavano la grassazione boschiva e
la pirateria costiera, specie ai danni del naviglio mercantile spagnolo, dovendo al
governatore francese il 10% del valore di tutte le loro prede; si trattava di marittimi disertori
oppure di vagabondi arrestati in Francia e inviati a servire forzatamente tre anni nelle
piantagioni dominicane, dopodiché avevano l’unica strada di noleggiare o comprare a
credito un fusil boucanniere (lunga arma da fuoco a gran gittata) e di aderire a quelle
criminali consorterie; poiché scorrevano i mari costieri dell’America Centrale con 7 o 8
piccoli velieri mercantili armati a corso, agili e veloci, dagli 8 ai 24 cannoni, cioè con i già
più volte qui nominati fly-boats oppure anche con fregate leggere, presero anche il più
conosciuto nome di flibustiers, corrotto poi in filibustiers e fribustiers (ing. filibusters,
freebooters; ol. vry-buiters, vrijbuiters); nonostante si trattasse di gente ignorante e molto
codarda (de Pointis), in seguito, raccolti, organizzati e guidati in funzione anti-spagnola da
corsari patentati da altre potenze europee, le quali avevano appunto molto interesse a
ostacolare l’espansionismo americano della Spagna, compiranno talvolta incredibili e
clamorose imprese. Dal modo di operare di quesri pirati derivò evidentemente il verbo
gergale dell’inglese americano to flee, ‘fuggire’.
Nel 1573, come riferiva il residente veneziano Leonardo Donato, benché il 7 marzo Venezia
avesse fatto la pace con Costantinopoli e provocato così la conseguente dissoluzione della
Lega cristiana, la Spagna, la quale voleva ciò nondimeno continuare lo sforzo bellico per
dare un buon colpo anche ai regni barbareschi, tanto dannosi per le sue coste e i suoi
traffici, aveva continuato ad aumentare il numero delle sue galere e la squadra iberica
adesso, essendo stati varati e armati alcuni di quegli scafi di galera che giacevano
776
... Le galee pagate e armate di questo Regno erano l'anno passato 1572 al numero di 36,
tutte sufficientemente buone e alcune principali eccellentissime... (E. Albéri. Cit. S. I, v. VI, p.
416.)
Però i re aragonesi di Napoli n’avevano armato nel Quattrocento di più e con le sole forze
del regno; perché dunque ora Napoli n’aveva di meno? A prescindere dalla pur importante
considerazione che nel Medioevo, come già sappiamo, le galere erano state più spesso
delle biremi, quindi più piccole e meno costose, la colpa era, scriveva sempre il Donato, del
malgoverno spagnolo che pretendeva che detto regno guarnisse d’uomini e cose le galere
spagnole invece d’armarne di più delle sue:
... anzi, con tutta questa incuria, le galee di Spagna sono per la maggior parte guernite con
quello che è loro somministrato da questo Regno (di Napoli); e di uomini per remo, essendo
il Regno grande e pieno di tante marine e di tanti ladri, molte più galee potria armare... (Ib. P.
417.)
Nel 1576 il già citato Lorenzo Priuli, riferiva che alle galere di Spagna non sarebbero mai
potuti venir meno i remieri:
... Né possono in alcun caso mancarle uomini da remo, perché non le mancherà mai una
copia grande di schiavi moreschi, bianchi e negri, che sono in Spagna e di negri che in
grandissima quantità si conducono ogni anno d'Africa. (Ib. S. I, v. V, p. 247.)
777
Andando più indietro nel tempo, cioè al 1480, troviamo la guida al viaggio in Terrasanta
scritta dal pellegrino Santo Brasca e nella quale c’è appunto un accenno alle razzie di negri
gentili, ossia di religione primitiva, non maomettana, fatte dagli arabi nell’Africa centrale:
… E nel Caero (‘Cairo’) si vendano homini e femine como bestie, li quali tengono su la piaza
nudi, che è cosa stranea a vedere. (A. L. Momigliano Lepschy. Cit.)
Ma già nel 1404 troviamo una galeotta aragonese carica di schiavi africani; dunque la tratta
o pratica (‘commercio’) degli schiavi negri di Guinea non fu inventata dai colonizzatori delle
Americhe, ma esisteva indipendentemente da quelle sin dall’antichità e continuò nel
Medioevo; nel Cinquecento serviva, oltre che a procurare remiganti alle galere, specie a
quelle iberiche, anche se, come sappiamo, i negri non erano ritenuti buoni galeotti, anche a
rifornire già di mano d’opera a buon mercato le Indie Occidentali, specie il Brasile, e
l’impero ottomano. Un’ordinanza del re di Spagna Filippo Secondo promulgata a San
Lorenzo il 26 maggio del 1572 e poi, ancora circa un secolo dopo, confermata dal re Carlo
Secondo (1661-1700), permetteva che in ogni vascello che fosse diretto nelle Indie Orientali
il suo comandante (cst. maestre) potesse portare con sé due o tre propri schiavi nativi della
Guinea (ossia africani) o loro figli, i quali vi fossero impiegati come calafati o carpentieri, a
patto però che poi fossero ricondotti di ritorno sulle stesse navi; insomma allora gli
spagnoli, a differenza dei portoghesi, non volevano che gli schiavi africani restassero in
America, evidentemente per non ‘africanizzare’ – cioè svalutare - quelle terre (Recopilación
de leyes etc. Tomo I, già citata. P. 301 recto.), e infatti, per quanto riguarda l’America di
influenza spagnola, la maggior presenza di etnie africane si riscontra oggi nelle Isole
Caraibiche, dove evidentemente quegli schiavi si potevano vendere o abbandonare, magari
avendoli dichiarati ufficialmente morti, senza che poi potesse risultare facilmente alle
autorità spagnole. Che proprio gli spagnoli non volessero riempire di detti schiavi le loro
nuove terre d’Oltremare e che non ve ne si diffondesse nemmeno la mentalità è confermato
anche da un’altra ordinanza reale, questa promulgata a Burgos il 31 luglio del 1605 da
Filippo Terzo (1578-1621), con la quale si proibiva la stabile permanenza nelle Indie
Occidentali di qualsiasi mareante (‘marittimo’) che avesse servito con qualsiasi titolo nelle
navi negriere (en los navios de esclavos negros). Si pensava allora che le terre dell’Africa
Nera fossero di scarso valore e nessun sovrano europeo aspirava infatti a possederne.
Nella sua relazione su l'impero ottomano dello stesso 1576 il bailo Jacopo Soranzo, a
proposito d’un certo disprezzo che i turchi ostentavano nei riguardi del valore bellico che
778
gli spagnoli avevano sino allora dimostrato sul mare, sembra appoggiare questa opinione
negativa e sminuire anch'egli il ruolo che gl’iberici ebbero nello scontro di Lepanto:
... Sanno anco benissimo alla 'Porta' (‘la Corte di Costantinopoli’) che il giorno della
battaglia navale (dei Curzolari) mancarono assai spagnuoli e vedono che con gran viltà si
hanno lasciato tor dalle mani tante fortezze, cioè Tunis, la Goletta, le Gerbe e quasi Malta; e
queste imprese sono state fatte dai turchi solo con cinquanta galee; e dicono che l'armata
spagnuola mai ha avuto ardire di venire a fronte. (E. Albéri. Cit. S. III, v. II, p. 203.)
Queste parole sono certo ingenerose e menzognere nei riguardi dei soldati spagnoli, nerbo
sempre di tutte le armate e di tutti gli eserciti della corona di Spagna; se c'era infatti una
nazione delle cui capacità belliche i turchi avevano veramente scarsissima considerazione
erano proprio i veneziani, come per esempio chiaramente si afferma nella relazione che il
bailo Jacopo Ragazzoni lesse al suo doge nel 1571, poco prima di Lepanto:
... Confessano i turchi e l'istesso Meemet Bascià che la Serenità Vostra può fare armata
numerosa e ben fornita di tutte le cose necessarie e stimano che questo Serenissimo
Dominio (di Venezia) abbia tesoro grandissimo, come quello ove le facoltà de' particolari
siano poste in simili occorrenze al servizio publico; ma, perciocché credono che gli uomini
siano poco esperti nella guerra e di poco animo nel combattere, poco ci stimano. (Ib. P.
101.)
Questo giudizio, cioè l'essere i veneziani più portati ai commerci che alla guerra, era stata
ammessa già dal veneziano Cristoforo da Canal nella sua Milizia marittima, opera scritta
verso il 1545 e da noi già molto citata, laddove egli lamentava che nei combattimenti
marittimi avutisi con i maomettani i cristiani avevano avuto quasi sempre la peggio; ma per
cristiani si devono qui intendere i soli veneziani, in quanto le altre potenze occidentali non
avevano ancora mai sostenuto scontri marittimi d'importanza con gli ottomani. In effetti fino
ai tempi del da Canal, Venezia nella guerra nautica non aveva mai brillato; per esempio, in
quel periodo infausto in cui l’armata della Serenissima era stata comandata dal debole e
incapace Antonio Grimani, il quale, oggetto di critiche perché già aveva inspiegabilmente
perso due buone occasioni di attaccare in posizione di superiorità l’armata nemica e cioè
una volta all’imboccatura dal golfo di Lepanto e un’altra mentre questa usciva dalla baia di
Portolongo presso Modone e l’isola Sapienza, il Grimani dunque il 12 agosto del 1499,
disponendo ora invece di sole 54 galere, 28 navi e 16 galeazze da carico, aveva attaccato
disordinatamente a Navarino Daud Pasha, capitano generale di mare del sultano Bayazid II,
il quale aveva ben 260 vascelli tra remieri e velieri, grandi e piccoli, restandone ovviamente
e sonoramente sconfitto; quattro giorni dopo raccolse di nuovo le sue forze nella rada di
779
Zante, ricevendovi il rinforzo delle galere di Rodi e di un’armata francese di 22 vascelli, tra
remieri e velieri, inviata da Luigi XII di Francia al comando dal gran priore d’Auvergne, e
cominciò ad affrontare inutillmente i turchi in altre 3 disordinate e perse battaglie e cioè il
20, il 22 e il 25 agosto; infine, la sua armata, abbandonata dai francesi, perché questi ne
avevano costatato appunto il disordine, la mancanza di subordinazione dei capitani e in
sostanza il poco affidamento combattivo, sconvolta e disordinata anche da una
sopraggiunta tempesta, dovette di nuovo riparare a Zante, mentre i turchi, appoggiati in
questo anche dal loro esercito di terra, andavano a impadronirsi facilmente di Lepanto, i cui
difensero vennero a patti con loro il 29 agosto:
… I francesi, scoperto tanto disordene, non vollero investir neanch'essi e, vedendo che non
c’era obbedienza, dicevano che la nostra armata era bella, ma che non avevamo speranza
alcuna di far bene. Se havessimo maggior armata, seria maggior confusion. Tutto procede
da poco amor verso la
cristianità e verso la patria; da poco cuore, da poco ordine e da poca reputazione. […] Tutti
gli uomini dabbene di questa armata, che pur ce ne sono molti, piangono e chiamano
traditore il Capitano, che
non ha avulo animo di far il debito suo. Francesi sono partidi e hanno abbandonato
l'impresa (D. Malipiero, cit. Parte prima, p. 179.)…
Quando il Re de Francia (Luigi XII) intese il successo (‘gli accadimenti’) dell'armata, disse a
Antonio Loredan ambasciatore: «Voi veneziani sete prudenti, abondate de richezze; ma
avete poco animo nell' imprese; havete troppo timor della morte. Noi prendiamo a far la
guerra con animo di vincere o di morire» (Ib. P. 183)…
(28 novembre:) … Dapoi la perdita di Lepanto, il re de Francia non mostra far quella stima della
Signoria (di Venezia) che egli faceva prima (ib. P. 189).
In effetti allora il patrone di una galea veneziana addetta al passaggio in Terrasanta doveva
rispettare una clausola del suo capitolato di patente che l’obbligava a portare a bordo un
armamento sufficiente a un certo numero di scapoli (80 tra marinai e soldati nell’ultimo
quarto del Quattrocento) affinché potesse così eventualmente difendere e il suo vascello e i
pellegrini dall’assalto dei pirati o degl’infedeli; ma ciò non significa che queste galee
fossero armate a guerra né che tanto meno avessero anche loro quella micidiale artiglieria
di prua che soprattutto rendeva temibili le galere nei combattimenti marittimi.
Sul rispetto sostanzialmente numerico che i turchi portavano a Venezia già si era espresso
nel 1560 il bailo Marino Cavalli nella sua relazione sull'impero ottomano:
... e, se stimano tutti li christiani, stimano anco assai la Serenità Vostra, la quale essi sanno
che sola può commodamente armare cento galere sottili, venti grosse e trenta o quaranta
grossissime navi, che appena tanto può fare (nel Mediterraneo) tutto il resto della
Christianità; e, se (anche) mostrano ciò non curare, fanno come quelli che vanno a caccia di
leoni, come dicono essi turchi, che gridando vorriano far paura a quelli, ma loro (stessi) non
sono senza... (E. Albéri. Cit. S. III, v. I, p. 285.)
Tornando ora alla suddetta relazione del Soranzo, è molto interessante quanto egli diceva a
proposito della perdita di sicumera e coraggio bellico da cui sembravano ormai
irreversibilmente afflitti i turchi, a ulteriore dimostrazione che la battaglia di Lepanto fu
effettivamente una delle principali pietre miliari poste dalla storia del mondo, perché pose
un irreversibile ‘altolà’ all'espansione marittima dell'islamismo verso occidente, così come
anche sarà quella di Vienna del 1683 per quanto riguarda l'espansionismo ottomano
terrestre:
... La Serenità Vostra è in molta considerazione appresso a' turchi e di questo ritrovo che
due sono lo cause. La prima perché, appena i turchi hanno mosso guerra a questa
republica (guerra di Cipro), subito si sono mossi tutti li Principi ad ajutarla, il che non è mai
avvenuto né al Re di Spagna né all'Imperatore (del Sacro Romano Impero); onde vedono
che, avendo guerra con lei, sono necessitati averla con tutto il Christianesimo e che
difficilissimamente possono resistere a tutti. L'altra è che la gran rotta che ha avuto la loro
781
armata dalla nostra il giorno della giornata (battaglia di Lepanto), la qual rotta per dire il
vero gli è molto a cuore. (Ib. S. III, v. II, pp. 203-204.)
Nel 1581 un altro residente veneziano, Francesco Morosini, definisce le 37 galere di Spagna
le peggio tenute di tutte le altre nella disponibilità di Filippo II, mentre le 12 della condotta
di Gioan Andrea d’Oria si possono riputar delle migliori galee del mondo (Ib. S. I, v. V, p.
318). Qualche anno dopo e cioè nel 1584 il residente Matteo Zanne scriveva che le 37 galere
di Spagna erano tenute sempre mal armate, onde difficilmente il re si poteva servire di tutte
in un medesimo tempo. La migliore squadra era quella delle 10 galere di Genova seguita
dalle otto dei particolari della stessa città e dalle 13 di Sicilia; la squadra di Napoli infine
conta in quell'anno 24 galere:
... se ben il Regno ne paga quaranta, ma Sua Maestà si val in altro di quel denaro, e questa
squadra (di Napoli) le costa 8.000 scudi per galea. (Ib. S. I, v. V, p. 352.)
La più grande azione bellica autonoma intrapresa durante l’intero viceregnato spagnolo
dalla sola squadra di Napoli fu senza dubbio la sanguinosa e crudele distruzione di Durazzo
mentre era vicerè il già ricordato conte di Benavente, episodio così ricordato dal Pantera:
... e il Marchese di Santa Croce, Generale delle galee di Napoli, l'anno 1606 surprese con
esse Durazzo, il quale era un sicuro ricettacolo di corsari, che continuamente infestavano le
riviere della Puglia, della Calabria e della Sicilia e l'abbrusciò insieme col castello; e con
l'istesse galee andò all'impresa dell'Aracce in Barbaria e l'anno passato surprese l'isola di
Cherchen con gran dimostrazione del suo valore, sforzandosi d'imitar continuamente le
gloriose attioni del Marchese suo padre, che è stato uno de i più coraggiosi e più prudenti
capitani maritimi che habbiano acquistato grido degno di memoria, come fanno fede le
segnalate vittorie da lui ottenute molte volte de i suoi inimici. (Cit. P. 54.)
Il marchese di Santa Cruz ricordato dal Pantera era ovviamente il figlio di quell’Àlvaro
Bazán che aveva partecipato alla battaglia di Lepanto, che poi fu fatto capitano generale
delle galere di Spagna, in seguito capitano generale del Mar Oceano e che era morto nel
1588. L'azione contro Durazzo seguiva di pochi anni quella che nell’ottobre del 1601
avevano intrapreso le cinque galere di Malta, essendo allora gran maestro l’intraprendente
Luigi de Vignacourt, contro Castel Nuovo di Morea, quando avevano cioè sbarcato
quattrocento tra cavalieri e soldati e sorpreso con successo quest’altro nido di corsari, e
ricordava infine quella avvenuta proprio un secolo prima, cioè nel 1501, anno in cui un altro
generale veneziano, Benedetto Pesaro, aveva sorpreso con otto galere scelte la base turca
della Prévesa, azione che decise dopo aver saputo che gli ottomani, allora sotto Bayazid II,
avevano colà costruito e varato molte galere nuove e che le tenevano poco guardate. Il
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Pesaro si portò via 11 nuovi vascelli, bruciò quelli vecchi che si trovavano nel porto usando
gli stessi materiali preparati dai turchi per quella loro nuova squadra e ne fece anche in
parte bottino. Il marchese di Santa Cruz, come afferma il Pantera, aveva dato inizio a un
periodo di maggior attivismo offensivo delle galere napoletane e infatti, dopo l'impresa di
Durazzo, passò due anni - il 1608 e il seguente - a preparare l'impresa di Barbaria detta
dell'Aracce, dal nome del luogo preso di mira, azione il cui risultato non ci è stato dato di
reperire nelle nostre ricerche, mentre ebbe sicuro successo la predetta sorpresa dell'isola
di Cherchen, situata di fronte all'attuale Sfax di Tunisia, la quale avvenne poi nel 1611.
All'inizio del Seicento la squadra di galere di Spagna non doveva essere molto attiva se il
Cervantes Saavedra nel suo Don Quijote fa dire al personaggio di Ginès de Pasamonte, un
picaro scrittore condannato al remo, d'esser contento d’andar di nuovo in galera perché
così avrebbe avuto tutto l'agio di terminare la sua autobiografia:
... e non mi pesa molto di andarvi, perché colà avrò modo di finire il mio libro, che mi
restano molte cose da dire e nelle galere di Spagna c'è più tempo libero di quello che mi
sarebbe necessario... (M. de Cervantes Saavedra. Cit.)
Passando ora a dire della Francia, l'altra grande potenza mediterraneo- oceanica, bisogna
innanzitutto osservare che, a dispetto del deprecato uso oceanico delle galere, essa, oltre a
una squadra mediterranea la cui esistenza risulta chiaramente già dalle cronache delle
battaglie marittime angioino-aragonesi che si svolsero nel tredicesimo secolo (vedi e.g.
Saba Malaspina), ma come squadra però allora considerata non francese in generale ma
provenzale solamente (galeae Provincialium), ebbe anche per minor tempo una seconda
squadra di galere nell'Atlantico, vascelli che già nel Trecento erano correntemente costruiti
nell’arsenale di Rouen, e, se i suoi detrattori di parte spagnola potevano permettersi
d’affermare che le galere francesi non eccellevano e molto poco agivano, era perché
straordinariamente le migliori imprese della navigazione e della guerra remiera condotta dai
transalpini avvenivano proprio a ponente di quel regno. Attingendo dallo Jal, ma senza
spingerci indietro sino a riportare le sue citazioni d’esempi medioevali francesi, d’altra parte
attesi visto che i vichinghi usavano vogare correntemente nell’oceano e che nelle storie di
Froissart si legge che Carlo V detto il Saggio (1338-1380) aveva armato 35 galere,
ricorderemo, per quanto riguarda l’età moderna, l’editto d’Amboise promulgato da Carlo IX
di Francia il 6 aprile 1562 e nel quale, tra l’altro, quel re eleggeva il suo luogotenente-
generale delle galere estans tant en la mer du levant que du ponant; nella seconda metà del
Cinquecento la Francia arrivò ad avere fino a una quarantina di galere nel Mediterraneo e
fino a una ventina sulle coste oceaniche, anche se, come sembra, queste ultime saranno
783
poi in gran parte dismesse nel secolo successivo, essendosi evidentemente e finalmente
dimostrate anche ai francesi molto meno adatte, vantaggiose e sicure per la navigazione
oceanica di quanto si erano rivelati i vascelli tondi, specie quelli d’alto bordo; infatti l’ultima
notizia che abbiamo della presenza di queste galere francesi oceaniche e quella di 4 di tali
vascelli sulle coste della Gironda nel 1622 contro gli ugonotti, la cui ribellione stava però
per estinguersi proprio in quell’anno con il trattato di Montpellier. Verranno però
reintrodotte nel 1689, quando a Bordeaux se ne armarono 15 costruite a Rochefort, le quali
poi, all’inizio dell’anno successivo, ricevettero da Marsiglia gli interi equipaggi, ossia
capitani, ufficiali e ciurme, e ciò perché la gente di mare di ponente non aveva più
esperienza di navigazione remiera; nel giugno dello stesso 1690 queste galere saranno
inviate a Brest a unirsi all’armata di 60 vascelli e 21 brulotti del de Tourville e poi di lì
navigheranno sino a Rouen, coniandosi in Francia per l'occasione una medaglia, e altre sei
ciurme furono inviate per loro a Brest da Marsiglia nei primi giorni del 1696. Se queste
galere oceaniche, sei delle quali risulteranno ancora in servizio il 1° gennaio 1698, erano del
tutto uguali a quelle mediterranee, oppure costruite con qualche sostanziale differenza per
renderle più adatte alla navigazione oceanica, non sappiamo; certo è che in Italia, alle prime
notizie che s’ebbero di questa seconda generazione di galere oceaniche francesi, ci fu una
certa incredulità e si dubitò che, anche se le si chiamava galere, in effetti si trattasse di
galeazze, ossia di vascelli non di basso bordo.
A proposito dei vichinghi, bisogna precisare che la navigazione scandinava era
principalmente remiera ancora nel 1274, come dimostra il capitolo XXIII dell’ordinamento di
diritto marittimo che in quell’anno fu emanato a Bergen, capitolo ripetuto poi dal XXIV del
codice islandese Jons-Bog, da noi più sopra già ricordato, in quanto, come si sa, l’Islanda
non fu in origine altro che una colonia norvegese; dobbiamo però qui avvertire il lettore che
noi rendiamo in italiano le traduzioni in francese fatte del Pardessus, traduzioni che, specie
nel caso di quelle da lingue scandinave medievali, sono a volte un po’ troppo disinvolte:
… Tali sono le funzioni che, in conformità alle leggi delle città marittime, dovranno essere
esercitate in ogni vascello di grandezza legale, considerandosi come tale il vascello che ha
due traverse (di ponte) in ciascuna fila di banchi di rematori e che è munito di tutto ciò che è
necessario a ricevere un carico. (J. M. Pardessus. Cit.)
Anche i codici medievali islandesi citati dal Pardessus ci attestano esser allora la
navigazione nordica principalmente remiera; ecco il cap. I° di un ordinamento non datato:
784
Colui che prende i remi o i cordami d’un altro vascello, ma che poi li restituisce, sarà punito
con un’ammenda; se poi egli se n’appropria, sarà colpevole di furto e pagherà il doppio…
(ib.)
… Nessuno dovrà dirigere il suo vascello a remi, non più che a vela, contro un altro per
procurargli del danno; ché colui che dirige così il suo vascello a remi incorre nelle stesse
sanzioni. (ib.)
Alla navigazione remiera accennava pure il già citato statuto svedese di Biärköö o Birca del
1254 e precisamente al cap. XIX; ma, per tornare ora alla marineria remiera francese, diremo
che nel 1598 il residente veneziano Pietro Duodo, nella sua relazione sulla Francia, scriveva
che, dopo gli ultimi convulsi avvenimenti bellici che avevano tanto sconvolto quel grande
regno, galere praticamente non ce n’erano più, anche si stava programmando di costruirne
di nuove; in compenso avevano allora i francesi in mare forse 80 vascelli a vela di corso
contro la Spagna, i quali erano equipaggiati con nativi della Normandia, della Bretagna,
della Guiana e della Guascogna, terre che davano i natali a moltissimi valorosi ed esperti
marinai, uomini cioè dal pié marin, come dicevano i francesi:
... e questi, quando si partono da casa, com'anco fanno gl’inglesi, sono soliti di giurar
sempre e darsi la fede fra di loro di far tutto il male possibile agli spagnuoli e, se essi
venissero in potere de' nemici, più presto che lasciarsi far prigioni, dar fuoco al vascello e
abbrusciarsi; in tanta rabbia è convertito l'odio naturale che era tra queste due nazioni. (E.
Albéri. Cit. Appendice. P. 109.)
Il già ricordato Barras de la Penne, contro le argomentazioni di coloro che al suo tempo
sostenevano l'inutilità per la Francia d’avere una squadra di galere, elencava le principali
imprese belliche delle moderne galere francesi, le quali per esempio nel 1513, passate
nell’oceano sotto guida del già ricordato Prégent de Bidoux, difesero validamente le coste
della Bretagna attaccata dagl'inglesi, affondando a questi ben otto vascelli da guerra e
perdendo il de Bidoux un orecchio in uno di tali combattimenti; il 15 agosto 1545,
comandate ora dal già più sopra menzionato loro capitano generale barone della Garde,
attaccarono la flotta inglese e affondarono il Mary Rose, vascello che portava il vice-
ammiraglio d'Inghilterra.
Con lettera reale del 1° giugno 1547 ottenne il comando delle galere di Francia Leone
Strozzi, priore di Capua e nipote del papa Leone X, nato nel 1515 e fratello minore del più
famoso maresciallo Piero, il quale succedeva così al predetto barone della Garde, del quale
era stato d’altra parte prima fatto luogotenente con nomina del 31 maggio 1543; egli,
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nell'agosto del 1548, a capo di una dozzina di galere provenienti dal Mediterraneo, passò lo
stretto di Gibilterra e, sfidando non solo l’oceano, ma anche il Mare del Nord, arrivò in
Scozia, dove il 30 luglio prese il castello della città di St. Andrews e dove vendicò il recente
omicidio del cardinale di quella città impiccandone gli assassini; poi a Leith imbarcò Mary
Stuart, regina di quel regno e allora bambina di soli sei anni, la quale Enrico VIII pretendeva
sposasse suo figlio Eduardo, e la sbarcò a Brest perché andasse a Parigi a fidanzarsi
invece col Delfino di Francia, riuscendo così a sfuggire all’armata inglese che lo attendeva
tra Dover e Calais; un’impresa notevole che sarà poi, come abbiamo già visto, in parte
imitata dal capitano generale François de Lorraine una dozzina d’anni più tardi. Nel
successivo 1549, durante la guerra che Enrico II conduceva contro gl’inglesi per obbligarli a
lasciare Boulogne, è ancora Leone Strozzi a guidare l’armata francese alla vittoria contro i
vascelli inglesi, vittoria ottenuta soprattutto dalle sue allora 12 galere, perché si combatté in
bonaccia, quindi in condizioni atmosferiche molto favorevoli ai vascelli remieri.
Verso la fine del maggio 1573 furono proprio galere francesi a respingere l'armata inglese
dell'ammiraglio Montgomery che veniva a portar soccorso agli ugonotti della Rochelle; esse
erano ora capitanate nuovamente d’Antoine Escalin, il quale, riabilitato il 13 febbraio 1551
dopo tre anni di prigione, ne aveva poi riavuto il carico abbandonato dallo Strozzi il 16
settembre di quello stesso anno, poiché questi, osteggiato dal potente connestabile de
Montmorency, il quale parteggiava per il certamente meno valoroso Escalin, aveva deciso,
come già fatto da Andrea d’Oria, di lasciare il servizio per la Francia e di andarsene con due
sue galere a servire il Gran Maestro di Malta, decisione che annunciò poi al fratello Piero
con una lettera del 18 dicembre successivo, missiva riportata per intero in italiano dal de
Bourdeilles, al quale fu mostrata in casa Strozzi; pure sfortunato sarà il tentativo britannico
di portare aiuto alla piazzaforte protestante nel 1622, perché il 10 aprile di quell'anno nella
rada dell'isola del Re al di sopra di S. Martin 70 vascelli inglesi saranno affrontati e sconfitti
da 65 vascelli e 10 galere realiste francesi fatte venire l’anno precedente da Marsiglia sotto
il comando del duca di Guise, il quale era imbarcato sulla galera Reale del generale delle
galere Philippe Emmanuel de Gondy, conte di Joigny e marchese delle Isole d’Oro, barone
di Villepreux e signore di Dampierre (15.4.1598-1625); gl’inglesi vi perderanno 10 vascelli e
circa 2mila uomini, i francesi invece nessun vascello, ma avranno 400 tra morti e feriti; poi,
il 26 ottobre di quello stesso 1622, il di Guise vincerà anche sui roccellesi ponendo così
definitivamente fine alla ribellione protestante in Francia. Gli ugonotti avevano allora una
strana piccola triremi di soli 14 banchi per lato e il cui cannone corsiero si chiamava le
Chasse-Biron. Insomma, come dimostrano tutte queste predette imprese delle galere
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francesi, si potevano usare i vascelli remieri con successo anche nell’oceano, quando
ovviamente questo non fosse in tempesta.
Il 1° settembre 1638, nel corso della guerra franco-spagnola, si scontreranno davanti a
Genova galere asburgiche allora alla fonda nella rada di Vado e quelle galere francesi
dell’allora capitano generale François de Vignerod, marchese di Pont-de-Courlay in Poitou,
nipote del cardinale de Richelieu, il quale fu in quella carica dal 15 marzo 1635 all’inizio di
gennaio 1643, quando sarà sostituito dall’appena quindicenne figlio Armand Jean; lo
scontro si risolverà sostanzialmente a favore dei transalpini, perché, come narra sempre
Barras de la Penne, la Capitana di Francia s’impadronirà di quella spagnola dopo due ore di
combattimento all'arma bianca, la Patrona di Francia espugnerà quella di Sicilia, la
Cardinale prenderà la Patrona di Spagna, la Richelieu catturerà la S. Francesco, quella del
commendatore monsieur de Vincheguerre avrà ragione della Bassiana e l'Aiguebonne della
S. Maria; resteranno invece in potere degli asburgici la Valbelle, la Servienne e la
Maréchale, ma comunque il de Vignerod rientrerà da vincitore a Marsiglia il seguente 23
ottobre. Le galere del de Vignero andranno poi a minacciare Napoli nel 1640, quindi al
tempo in cui questo regno era governato dal vicerè Ramiro de Guzman duca di Medina de
las Torres (1637-1644)e infine tra gli anni 1641-1642 altre rimarchevoli imprese compiranno
nei mari della Catalogna.
Tornando ora però indietro al 1535, cioè alla relazione di Francia del residente veneziano
Marino Giustiniano, questi riferiva avere allora quel regno 30 galere, di cui 26 all'ordine e le
altre quattro da potersi armare velocemente; ne era allora capitano generale il già ricordato
Antoine della Rochefoucaul. Si trattava di galere sforzate, vale a dire, come sappiamo, con
ciurme costituite principalmente da forzati, ... ma non hanno reputazione di essere molto
buone..., scriveva il diplomatico della Serenissima; eppure solo pochi anni più tardi
Cristoforo da Canal avrebbe espresso d’esse un giudizio del tutto opposto, definendole
molto buone e di molta stima nel mare (cit. P. 170), forse a seguito del summenzionato
affondamento della Mary Rose.
In seguito alla suddetta bella impresa in Scozia Leone Strozzi fu incaricato, come si legge
nella relazione di Francia del residente veneziano Matteo Dandolo del 1548, di costruire a
Nantes in Bretagna un grande arsenale capace d’ospitare 50 galere, le quali erano però da
fabbricarsi in quello di Marsiglia in parti da assemblare, parti che sarebbero poi state
trasferite a Nantes per via fluviale sulla Loira unitamente alle necessarie ciurme. Non
sappiamo se questo progetto non fu poi realizzato o se deluse nei suoi risultati, perché
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nella più tarda relazione d’un ennesimo residente veneziano, Giacomo Soranzo, il quale
scriveva nel 1558, così si legge:
... Nell'Oceano non si serve Sua Maestà (Enrico II) di galee, essendosi veduto per
esperienza che non riescono per il grande impeto dell'acqua, ma si bene di navi, delle quali
ha modo di averne grandissimo numero da' particolari (‘privati’), le quali però non eccedono
per portata trecento botti, e similmente in Normandia, Brettagna e Guascogna vi è un gran
numero di uomini di comando e di tutte le altre cose che sono necessarie per fare armata.
(Ib. S.I, v. II, p. 419.)
Nel Mediterraneo la Francia aveva invece in quell'anno una squadra di 40 galere, ciurmate
sia di condannati che di schiavi, delle quali era capitano generale il già menzionato François
de Lorraine; si trattava però per la maggior parte di galere di proprietà di particolari, per i
cui scapoli il re pagava l'equivalente di 400 scudi il mese con obbligo per loro di retribuire
60 (tra marinai e soldati) per galera oltre a tutte le altre spese; solo in caso che le galere
uscissero in azione di corso o di guerra Sua Maestà pagava in più e per la sola durata
dell'azione stessa il soldo di 40 di quei 60 uomini. Questa squadra però presto decadde, a
causa della molto maggior importanza che i francesi, come abbiamo già detto, davano alla
navigazione oceanica, e infatti nel 1562, cioè solo quattro anni dopo la relazione del
Soranzo, il residente veneziano Michele Soriano così leggeva in senato a proposito della
milizia francese:
... Di quella di mare non si può dir gran cose perché il non avere gran numero di legni né
d'armeggi né d'uomini di remo né di comando non ha lasciato mai mettere insieme tante
forze che bastassero a fare impresa segnalata per offesa d'altri; e però è stato introdotto dal
tempo del Re Francesco (I) in qua il valersi dell'armata del Turco in guerra. É vero che per
difender il Regno non è mai stato bisogno di aiuti forestieri, perché nel mar Oceano s'ha
potuto avere in un colpo (solo) sino a 200 legni di vela che si chiamano 'navi', se bene il
maggiore non passa 300 botti di portata, e nel mare di Provenza s'ha armato sino a
quaranta galee, che al presente sono ridotte in otto; le quali galee hanno servito alcune
volte ancora nel mare Oceano, ma più per passar gente in Scozia e per mettere gelosia a
qualche altro principe che per altro effetto. (Ib. S.I, v. IV, pp. 115-116.)
Alla luce dell'imprese compiute dalle galere di Francia alle quali abbiamo sopra accennato il
giudizio del Soranzo risulta però troppo severo, forse dettato dal dispetto veneziano per la
scandalosa alleanza marittima tra la christianissima monarchia francese e la maomettana
Turchia sancita nel 1536 in un regolare trattato firmato da Francesco I e da Sulaiman il
Magnifico, alleanza antiasburgica che sarà poi rinnovata nel 1569 e che durerà purtroppo
sino alla fine del secolo; ma lasciamo trascorrere altri 10 anni e arriviamo alla relazione del
residente veneziano Alvise Contarini, la quale è appunto del 1572:
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... Nel mar Oceano, che in Francia si chiama 'marina di ponente', ha il Re (Enrico III) 17
vascelli, i quali sono come barche (cioè a vela latina), le maggiori della portata di 1500 botti,
le minori di 400, ma nessuna di esse al presente è armata per non n’aver bisogno da quella
parte, essendo già molti anni in pace con Inghilterra. Ma, quando fosse in guerra, averia il
Re modo, oltra questi 17 navilij, d'armarne quanti gli piacesse, perché in tutta quella costa
di mare dai confini di Spagna sino a Calés (‘Calais’), che è lunga più di 700 miglia, è una
infinità grandissima di vascelli di commercio e di marinari valenti per que' mari e per natura
inimici degl’inglesi, massime i brettoni e i normandi.
Nel mar Mediterraneo, cioè quel di Marsiglia, che in Francia si chiama 'marina di
levante', ha il Re 18 corpi di galea sottile, otto de' quali sono armati, sei ancora ne' mari di
là, ma hanno da passar di qua, gli altri sono a Marsiglia; numero, come vede la Serenità
Vostra, pochissimo ad un tanto Regno... (Ib. S. I, v. IV, pp.235-236.)
Infatti, se avesse disposto d’una grande squadra di galere nel Mediterraneo, la Francia,
quasi costantemente in guerra con la Spagna, avrebbe potuto impedire a quest'ultima i
collegamenti marittimi con i suoi possedimenti italiani e provocare così la fine del
predominio spagnolo in Italia; ma la scelta da essa fatta in questo campo era del tutto
evidente e notoria:
... Ma la causa perché non abbiano atteso il tempo passato ad armarsi per mare credo che
sia assai chiara e che sia perché i francesi han reputata come propria l'armata turchesca e,
quando han disegnato qualche impresa contro gli spagnuoli, hanno mandato a
Costantinopoli a far uscir l'armata. (Ib. P. 236.)
L'uscita in mare dell'armata turca metteva in subbuglio tutte le marine delle province
soggette alla corona di Spagna sia in Italia sia in Barbaria sia nella stessa penisola iberica e
ciò sin dall’11 agosto 1480, quando gli uomini scesi da 100 vascelli ottomani di Maometto II
presero d’assalto Otranto, città di 22mila abitanti, di cui ben 12mila furono uccisi in quella
funesta occasione; in effetti questo primo grande assalto a ponente era stato voluto per
punire il re Ferrando (‘Ferdinando I’) d’Aragona d’aver mandato soccorsi ai cavalieri di Rodi,
i quali, anche in virtù di tali aiuti, consistenti in tre grossissime navi cariche d’uomini,
artiglierie e munizioni, riuscirono in quell’occasione, sebbene in soli seicento, a respingere
ancora una volta l’assalto della sterminata armata turca. Otranto verrà però ripresa dagli
aragonesi nel settembre dell’anno seguente. Tali uscite in mare di conseguenza
obbligavano la predetta corona a frazionare le sue forze nel tentativo di difendere tutto e
tutti, così come avvenne verso la fine d’aprile del 1543, quando l'armata turca comandata da
Kheir Eddine, ossia dal famoso Barbarossa, e consistente in 70 galere (secondo altri 110),
40 galeotte e fuste, 4 maone e un centinaio di velieri con 14.000 uomini combattenti tra
soldati e marinai, lasciò il porto di Modone e venne a gettare l’ancora davanti a Reggio
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Calabria, recando a bordo il già ricordato capitano Poulin de la Garde, il quale, inviato
ambasciatore a Costantinopoli, aveva avuto dal suo sovrano il compito di guidare i turchi
sino a Marsiglia per poi spingerli all’attacco di Nizza e che per questi suoi buoni servigi
l’anno successivo riceverà la nomina a capitano generale delle galere di Francia; i turchi,
scriveva il de la Gravière, scesi a terra a far provvista d’acqua, entrarono nella città
abbandonata dai suoi abitanti, i quali avevano portato con sé ogni cosa da bottino, e
l’incendiarono; il castello di Reggio era difeso da una sessantina d’uomini comandati dal
nobile Diego Gaetano e questi fece l’errore di comandare ai suoi di tirare qualche cannonata
sugl’incendiari, uccidendo così tre turchi e un rinnegato; il Barbarossa, irritato, reagì
facendo battere dalla sua artiglieria il castello e costringendolo così alla resa dopo tre
giorni. Secondo un’altra versione il Barbarossa, non ancora sbarcato, aveva chiesto al
Gaetano, non castellano, bensì governatore di Reggio, il versamento d’un forte riscatto per
evitare la presa e il sacco della città; ma il coraggioso napoletano, per tutta risposta, li fece
sparar contro un colpo di cannone che gli uccise tra marinai e allora egli fece sbarcare
12mila uomini che misero a sacco Reggio, l’incendiarono e poi ne presero anche il castello.
Già nell’ormai lontano 1511 il Barbarossa aveva partecipato con la sua squadriglia
all’armata di 60 vascelli turco-barbareschi che alla fine d’agosto di quell’anno avevano
preso, devastato, saccheggiato e incendiato la stessa Reggio tanto duramente che l’allora
vicerè del regno di Napoli Raimundo de Cardona y Córdova, il quale aveva inviato in troppo
tardivo e quindi inutile soccorso della città il marchese di Bitonto al comando di 20 galere e
4 tartane, le accordò due anni d’esenzione fiscale.
Navigando poi lungo le terrorizzate coste italiane, il Barbarossa, devastò quelle del Regno
di Napoli, ma poi, tenuto a freno dal Poulin, non saccheggiò più alcuna località in quanto
dal Lazio in su non c’erano altri possedimenti spagnoli e anzi, incredibilmente, i turchi
cominciarono a pagare regolarmente alle popolazioni rivierasche tutte le provviste che da
quelle dovevano comprare; il 25 luglio, giorno di S. Giacomo, arrivò quest’armata a
Marsiglia, dove il Barbarossa fu accolto con tutti gli onori dal duca de Enguien, ma
Francesco I, timoroso adesso di servirsene veramente contro dei cristiani come lui e
sospettoso dei progressi bellici che in quel tempo Sulaiman stava facendo in Ungheria, la
mantenne inattiva per diverse settimane, finché poi, costretto a impiegarla in qualche
maniera, la spinse all’assedio di Nizza, unica piazza marittima del ducato di ), rinforzandola
con la sua stessa armata, comandata questa dal predetto de Enguien e consistente in 22
galere proprie, 4 del conte Virginio d’Anguillara e 18 navi equipaggiate dal Poulin e sulle
quali erano stati imbarcati 7mila soldati provenzali, guasconi e fiorentini; i franco-turchi
790
dalla gente di galera né più né meno che un corsaro egli stesso. Finalmente, rimpinzata di
danaro, di approvvigionamenti e di regali dai francesi, a fine maggio 1544 l’armata turca
riprende la via del ritorno accompagnata da Leone Strozzi e dalla sua squadra di galere,
perché questo autorevole generale francese avrebbe dovuto spiegare al Divano di
Costantinopoli i motivi per cui una così grande armata se ne tornava con un così scarso
risultato bellico; ma questa via del ritorno risultò per le popolazioni rivierasche italiane
molto più dolorosa di quella dell’andata, perché il Barbarossa intendeva cercare di rifarsi
almeno in parte dei predetti magri guadagni, e non si capisce perché Carlo V, il quale aveva
avuto un intero inverno per poter allestire una grande armata, non abbia, arrivata la
primavera, disputato il Tirreno al Barbarossa, limitandosi Giannettino d’Oria con 30 galere a
controllarlo a distanza. L’armata turca dunque devastò, depredò e incendiò le coste italiane
man mano che si spostava verso sud e ne fecero le spese di nuovo il Sanremese – dove
però fu di nuovo respinto dal capoluogo – e poi l’Elba, Castiglione, Telamone, Montiano, il
Giglio, Port’Ercole, essendo stato però respinto anche a Orbetello e a Civitavecchia; in
seguito, intendendo prendere Pozzuoli, fece sbarcare e porre la sua artiglieria d’assedio
sotto il comando di Salek, uno dei suoi uomini più intendenti e valenti, ma il vicerè Pedro de
Toledo corse in soccorso dei puteolani con mille uomini e lo respinse, ed ecco quello che
scriveva a tal proposito, nel suo rozzo italiano, il diarista Tommaso di Catania:
Ciò fatto, il grande corsaro, devastate appunto Ischia e Procida, avendo tralasciato Salerno
a causa d’un forte vento sfavorevole, distrusse Policastro, prese Lipari traendone schiavi
più di settemila abitanti e lasciandola così a lungo quasi deserta (et les vestiges en
paroissent encor, car c’est une tres-pauvre isle et une miserabile habitation, scriveva il de
Bourdeilles, essendo ormai tanto malridotta da essere la plus chetive isle, pour estre la
moins habitable de toute la mer Mediterranée (cit.) e poi, laddove lo stesso memorialista
ricorda il triste episodio dei soldati spagnoli ammutinatisi che il vicerè di Sicilia Ferdinando
Gonzaga mandò di guarnigione in isole semi-deserte, perché vi morissero di fame, in
aggiunta la dice l’isle de Lypary, que je pense n’avoir (jamais) veu si miserabile habitation;
792
car il n’ycroist que des capriers. Il Barbarossa continuò poi le sue devastazioni assediando
la città di Patti e mettendola a ferro e fuoco, depredando, dannificando e incendiando gli
abitati della costa di Milazzo e anche alcuni a essa interni e infine, nel passare lo stretto di
Messina, attaccando e incendiando nuovamente Reggio Calabria, ancora debolmente
difesa, Catona, Fiumara, Calanna e poi Cariati, Gallipoli e altri disgraziati luoghi, i quali
anch’essi, come narra realisticamente il de la Gravière:
…remplirent les galères turques d’une si grande quantité de captifs, d’une telle abondance
de butin, que les vaisseaux succombaient, pour ainsi dire, sous la charge… Les
prisonniers, entassés sur ces étroits navires, mouraient en foule de faim, de soif ou de
misère… (J. De la Gravière. Cit.)
Ma ne restarono talmente tanti che il Barbarossa, anche detratti quelli che toccarono ai suoi
numerosi ufficiali e rais, poté rifornire di giovani schiavi tutta Costantinopoli; il tutto
guadagnò con la perdita d’una sola galera, la quale era finita di traverso (itm. a schisa) a
terra a Gallipoli. Tornò dunque alla fine il Barbarossa a Costantinopoli con 7.000 cristiani
prigionieri, cioè poco più d’un terzo del totale di quelli presi durante l’intera la lunga
campagna d’Italia, essendo stati tutti gli altri buttati in mare cadaveri. Fu questa spedizione
del Barbarossa una delle più grandi vergogne della Cristianità, sia per Francesco I, uno dei
peggiori re che la Francia abbia mai avuto, che l’aveva provocata sia per Carlo V che non la
contrastò.
Feroci furono pure le incursioni del 1555, quando l’armata turca, riattraversato lo stretto di
Messina, scorse i mari di Calabria e saccheggiò la città di Paola; quelle del biennio 1593-
1594, ma specie nel secondo di questi anni, cioè quando l'armata ottomana, oltre a colpire
di nuovo Lipari, saccheggiò le coste pugliesi e calabresi, tra cui la stessa Reggio Calabria,
la quale poi fu pure crudelmente incendiata, e i suoi casali; i danni totali provocati in quelle
scorrerie furono l’anno seguente valutati a ben un milione e mezzo di ducati d’oro. Una
lettera-relazione scritta il 12 maggio1587 da Cotrone da un certo Carlo Pandone a
Bernardino Sanseverino principe di Bisognano, pubblicata poi a Milano e in seguito a Lione
in francese, ci narra dell’incursione fatta in tale città il 3 maggio di quello stesso anno da
una flottiglia di 12 fuste turco-barbaresche; il predetto giorno, in occasione d’una ricorrenza
religiosa, la popolazione s’era raccolta in una chiesa a due tiri d’archibugio dalla costa,
ossia a un quarto di lega, quando, informate da qualche rinnegato traditore, s’avvicinarono
12 fuste turchesche, tutte da 16 banchi; messi a terra molti armati, in maggioranza arcieri, i
corsari cominciarono ad attaccare questa povera gente disarmata, uccidendone e
ferendone molti e catturandone un’ottantina, tra cui più di 20 dame incluse le sei più notabili
793
della città; poi saccheggiarono la chiesa stessa di tutta l’argenteria e, reimbarcatosi, fecero
rotta verso Reggio. Fortunatamente la mattina seguente le 12 fuste s’imbatterono in una
squadriglia composta di 4 galere di Malta e 2 del genovese Bandinello Sauli; i corsari
s’erano preparati a combattere, ma, ridottasi la distanza e accortisi di aver a che fare con
forze non solo superiori, ma anche contraddistinte dalla bianca croce dell’ordine
gerosolimitano, quindi agguerritissime, si misero in fuga; però, maltrattate dalla grossa
artiglieria di prua delle galere, una fu così affondata dalla Patrona genovese, due furono
catturate dalla Capitana di Malta, altre due da quella del Sauli e le rimanenti s’arresero alle
altre quattro galere dei cristiani, senza che questi avessero subito una sola perdita. Prese le
fuste a rimorchio, la mattina del 6 le galere cristiane si presentarono davanti al porto di
Cotrone, con grandi salve d’artiglieria alle quali rispondeva quella del castello; la
popolazione si riversò sulle calate del porto e, vedendo le fuste trainate con la poppa
d’avanti, come s’usava già nel Medioevo (d’Esclot, Cronica) quando si trainavano vascelli
nemici, subito comprese l’avvenuto, perché, appunto sin da tempi lontani, il mostrare
pubblicamente le armi, i vessilli o i vascelli del nemico o d’un traditore invertiti o capovolti
era un modo d’attribuirgli grande disonore, così come invece strascinare per terra le proprie
armi o bandiere era segno di pubblico lutto. I cristiani liberati furono dunque accolti con
grande gioia e si fece subito una processione religiosa sino alla cattedrale della città,
essendo dei cittadini catturati solo due caduti durante la battaglia; furono anche liberati
circa 120 remieri cristiani schiavi; furono uccisi 22 turco-barbareschi e i prigionieri furono
566; della parte migliore del bottino facevano parte, oltre alle armi, duemila pezzi d’oro
turchi di quelli detti dai cristiani sultanini. I 12 raís delle fuste furono dal generale di Malta
inviati in omaggio al vicerè di Napoli e tutti gli altri furono messi alla catena, dopo però che
s’erano somministrati buoni tratti (vn. scossi) di corda a diversi di loro per sapere se altri
vascelli corsari tenevano allora il mare; tra le notizie date dai torturati ci fu che Mami
Arnaute stava allestendo otto galeotte a Susa di Barbaria (Tunisia) per venire anch’egli a
infestare quei mari; tra i prigionieri furono poi scoperti cinque rinnegati cristiani, cioè due
calabresi e tre genovesi, i quali avevano fatto da boutefeux, ossia da promotori, alla
spedizione delle fuste contro Cotrone, e, poiché nessuno d’essi volle redimersi tornando
alla fede cristiana, furono bruciati vivi al centro della piazza principale di Cotrone avec le
contentement de tout le peuple. La comunità di Cotrone si sdebitò con i maltesi, regalando
al loro generale una catena d’oro del valore di 800 scudi e alcuni bellissimi tappeti, inoltre
munizioni da guerra e danaro per più di mille scudi per gratificarne i soldati; la lettera
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dimenticare di riportare che cosa ebbero invece in regalo Bandinello Sauli e i suoi genovesi
(Copie d’une lettre envoyée de Coutron en Calabre etc. Lione, 1587. B.N.P.).
Queste incursioni, le quali nel secolo successivo andranno scemando, anche se ne
ricordano particolarmente alcune, come per esempio la presa di Manfredonia nel 1622 e
l’attacco a Cotrone del 1638, costringevano la Spagna a dividere le sue forze per presidiare
tutti i suoi possedimenti mediterranei e la Francia poteva così approfittarne per sferrare il
suo colpo dove più le piacesse. Ora però, tornando al predetto 1572, l'armata turca era
allora diventata psicologicamente debolissima, a causa della terribile rotta patita a Lepanto
l'anno precedente e chissà quando se ne sarebbe ripresa; perciò il re di Francia Enrico III
aveva ordinato la costruzione di ben 100 corpi di galera, deliberazione di cui però già allora
sembrava molto dubbia la possibile realizzazione sia per la scarsezza di danaro di cui allora
soffriva il regio erario francese sia per la mancanza di sufficienti uomini di comando, ossia,
come sappiamo, di semplici marinai, per così tante galere, uomini che avrebbe infatti
dovuto fornire la sola Marsiglia:
... e, se bene in Francia fan conto valersi di qua (nel Mediterraneo) de' marinari dell'altro
mare, niente di manco, essendo quel mare molto differente da questo e la maniera del
navigar del tutto diversa, 'sì che quasi tutti que' marinari (dell'Atlantico) non solamente non
han comandato (‘manovrato’), ma né anco a pena han mai vedute galee sottili, si può con
ragione giudicare che non riusciranno o almeno non così presto. (E. Albéri. Cit. S. I, v. IV,
pp. 236-237.)
Inoltre, dovendosi costruire parte di queste galere sulle stesse marine di ponente, come si
sarebbero poi fatte passare nel Mediterraneo così equipaggiate di marinai inesperti, anche
se per esempio di quelli ottimi per l’oceano che nascevano nelle isole di Ré e d’Oléron, i
quali in aggiunta avrebbero dovuto costeggiare Spagna e Portogallo, cioè regni allora
tutt'altro che amici? Non sarebbero mancati invece materiali, viveri, armamenti e remiganti:
... galeotti non mancariano, essendo il Regno tutto popolato e facendosi morir per giustizia
tanti uomini che il quarto di essi bastariano a tener armato un buon numero di galee. (Ib. P.
237.)
Ai condannati comuni si aggiunsero presto gli ugonotti presi prigionieri nella sanguinosa
guerra civile; per esempio nel 1577 il generale de Lansac, presine 600 sulle navi inglesi da
lui sconfitte nella battaglia marittima combattuta davanti a Bruges, li fece incatenare seduta
stante ai banchi delle galere, delle quali era ancora generale l’Escalin, eccezion fatta per i
personaggi di qualità, i quali fece invece decapitare. Ambizioso o non ambizioso che fosse,
795
questo gran progetto di costruzione di galere non poté poi esser realizzato da un regno che
stava per esser sempre più travolto dall'odio di religione e infatti, come abbiamo già detto,
alla fine del secolo la squadra di galere francesi, anche se ufficialmente si continuava a
eleggerne i capitani generali, in sostanza non esisteva più. Fu poi ricostituita, ma molto
saltuariamente adoperata, e infatti nel 1630 così si esprimerà a tal proposito Jean- Jacques
Bouchard:
... Le galere non servono ad altro che a consumare danaro. Saranno cinque o sei anni che
non si muovono dal porto; i corsari d'Africa vengono ad inseguire i vascelli sino alle nostre
rade senza che esse si muovano. La maggiore utilità che esse apportino è che servono,
come un inferno, a tormentare i malvagi. (J. de la Gravière. Cit.)
In seguito la Francia continuerà a non dedicare sufficiente cura alle sue galere e infatti nel
1713 ecco che cosa scriverà il pure già citato Barras de la Penne:
... Da più di dieci anni a questa parte si sono lasciate talmente deperire le nostre galere che
non c'è più un solo scafo che non abbia bisogno di un grandissimo raddobbo; le ciurme
non sono per nulla in miglior stato... (Ib.)
Non a caso questa nazione sarà anche la prima potenza che - con un editto del 1748 -
sopprimerà la sua squadra di galere, poiché i grandi progressi fatti dai velieri sia in tema di
manovrabilità velica sia d’idrodinamica li avrà resi ormai autonomi e superiori alle galere
sia in guerra che in pace e ultimo generale della squadra francese sarà il cavaliere
d'Orléans, gran priore di Francia, morto nel 1746; le altre nazioni mediterranee invece
continueranno sino alla fine del Settecento a servirsi di questi millenari vascelli nella lotta ai
corsari turco-barbareschi e i soldati di Napoleone, quando prenderanno Venezia, vi
troveranno ancora in costruzione non solo galere, ma anche galeazze mercantili. In effetti,
anche se ormai la navigazione da guerra velica era diventata adulta e permetteva d’usare
molto agevolmente grandi batterie d'artiglieria, la galera continuava a offrire molti dei suoi
vantaggi, quali il potersi avvicinare molto alla costa sui bassi fondali, il navigare tra gli
scogli, essendo quindi ancora molto usata sia come guarda-coste per contrastare i corsari
nemici sia per effettuare e difendere gli sbarchi della fanteria; inoltre, in caso di bonaccia, il
poter navigare velocemente, abbordare i velieri nemici e rimorchiare quelli amici; infine,
approfittando della propria bassezza di bordo, il poter sparare a pelo d'acqua contro i velieri
senza mai doversi però per questo presentare davanti alle batterie del nemico.
Nel 1566 il residente veneziano Lorenzo Priuli, tornato da Firenze, riferiva al suo senato, tra
l'altro, delle forze di mare del duca Cosimo I (1537-21.4.1574), figlio di quel famoso soldato
che era stato Giovanni de' Medici, detto dalle Bande Nere:
796
... quanto alle forze di mare, stima molto il duca questa milizia, parendogli - come dice
spesso - che un principe non possa chiamarsi grande se non è potente in mare... (E. Albéri.
Cit. Pp. 62-63.)
Cosimo, primo duca di Firenze dopo i disordini della precedente corrotta e ingiusta
repubblica, si era dunque trovato a dover ridotare la Toscana d'una forza militare marittima
per fronteggiare soprattutto i corsari algerini che stazionavano nelle isolette dirimpetto a
Pisa e a Livorno proprio per impedire a vascelli armati toscani d'uscire a compromettere la
loro lucrosa attività predatrice esercitata contro l'intenso traffico mercantile che da levante
e da ponente affluiva all'Elba e soprattutto a Livorno, porto, già allora come oggi,
attrezzatissimo per i raddobbi navali. Per tal motivo e con l'aiuto determinante di Carlo V
ottenne il possesso dell'isola d'Elba, togliendolo così ad Jacopo VI Aragona d’Appiano
signore di Piombino, il quale però ne restava legittimo proprietario e conservava il diritto
d'accedervi, il governo dei suoi abitati aperti, cioè non fortificati, e le relative rendite; il duca
Cosimo aveva comunque fatto Jacopo VI suo generale di mare a titolo, in un certo senso, di
ricompensa. In verità l’Aragona non era stato in grado di difendere quell'isola dalle
scorrerie dei corsari d'Algeri che l'avevano rovinata e avrebbe pertanto potuto un giorno
cadere addirittura nelle mani dei turchi, il che, per la sua posizione strategica, sarebbe stato
di grave nocumento a tutta l'Italia; un monito di questo pericolo c'era già stato nel 1544,
quando, come abbiamo già ricordato, il kapudan pasha ottomano Barbarossa, chiamato nel
Tirreno dai francesi in guerra con Carlo V, aveva occupato l'isola e l'aveva resa addirittura
deserta. L'Elba aveva quindi tutto da guadagnare nel passare sotto la custodia di Firenze e
questo era stato il principale motivo che aveva convinto l'imperatore a favorirne Cosimo:
... Questa isola è in sito così bello ed ha un porto così sicuro e capace di ogni grande
armata che, se avesse una quantità opportuna di galee, saria principe di questi mari e i
genovesi stariano molto male, se il Principe (il duca Cosimo) che ne è ora padrone, fosse
altrettanto potente in mare come è loro inimico.
Possiede il Duca in quest'isola una piccola terra di un miglio e mezzo di circuito, la quale
dal suo nome si domanda Cosmopoli, se bene anco dal nome del porto vicino al quale è
stata fondata si domandi Portoferrajo; è questa ridotto d'ogni sorta di gente ed è come una
sentina di sbanditi e di uomini di male affare, per guardia della quale vi sono in cima di un
monte due castelli fortissimi - La Stella e il Falcone - con molti pezzi di artiglieria e cento
fanti. (Ib. S. II, v. II, p. 63.)
Aveva inoltre Cosimo de' Medici ripristinato e rinnovato il vecchio arsenale medioevale di
Pisa e l'aveva ben provvisto di legnami, pegole, canapi e di quant'altro necessario alla
fabbricazione e alla riparazione delle galere e il Priuli scriveva che in quell'arsenale si
797
lavorava continuamente, che vi stavano allora fabbricando due galere sottili e che la
maggior parte dei mastri (l. navicularii, compactores, navificos; gr. νάυπηγοὶ, τέϰτονες;
νεουργοὶ, νεουργείς, νεώτεροι, νεωποιοὶ, τριηροποιοὶ) proveniva da quello di Venezia.
Attribuiva a quel ducato il Priuli nove galere naviganti e inoltre il duca gli aveva dichiarato
che aveva in programma la costruzione di quattro galee grosse simili a quelle veneziane e
che una di queste era già in via di completamento. Per quanto riguarda poi la consistenza
degli equipaggi, delle guarnizioni militari e dell'artiglierie Cosimo copiava in tutto le galee
veneziane:
... Arma le sue galee di schiavi o di condannati; d'uomini del paese si serve rare volte e già
due anni ne mandò 800 all'impresa del Pignone (agosto 1564) sopra le sue galee, de' quali
ne morì la maggior parte. Si serve di marinari forastieri e così di uomini di comando, come
siciliani, greci e altri, tra i quali ve n'è moltitudine di questo dominio (‘della repubblica di
Venezia’).... (Ib. P. 64.)
Sappiamo da altra fonte che il motivo della morte di tanti toscani in un’impresa che in effetti
era stata tra le più agevoli e meno impegnative che si fossero condotte contro i barbareschi
erano state le malattie, ma sulla inidoneità alla voga dei toscani si dilungherà qualche altro
residente veneziano, come presto vedremo. Il problema della formazione di gente di poppa,
della quale Cosimo aveva trovato gran carenza al suo insediarsi, era stato da lui affrontato
con l'istituzione della compagnia cavalleresca di S. Stefano, ordine che aveva ottenuto
regola e privilegi dal papa Pio IV e del quale Cosimo era ovviamente Gran Maestro, così
come lo sarà suo figlio Francesco I (1574-19.10.1587), conferendone i più alti gradi ai suoi
maggiori ministri. Tale ordine al tempo del Priuli contava un numero crescente di 180
cavalieri e costoro, generalmente di nobile famiglia, potevano ammogliarsi e ottenere fino a
200 scudi di pensione gravanti sui beni della Chiesa, ma non potevano ottenere la
commenda dell'ordine stesso, ossia la sua conferma, se non dopo aver servito almeno tre
anni continui sulle galere a combattere i corsari turco-barbareschi, come tradizionalmente
già facevano da secoli i cavalieri della religione di Rodi, ora detti di Malta perché, come già
detto, scacciati da Rodi dai turchi nel 1522 dopo esser riusciti a ben respingere tutti i loro
precedenti tentativi, i più importanti dei quali erano stati quelli del 1444, del 1480 e del 1503,
erano rimasti senza patria sino al 24 marzo 1530, giorno in cui Carlo V aveva loro ceduto
Tripoli, Malta e due gusci o fusti di galera ed essi sbarcheranno infatti in quest’isola il 26
ottobre successivo; Tripoli era stata, come abbiamo già detto, conquistata alla Spagna da
Pedro Navarro nel 1510 e subì poi alterne vicende perché, tolta ai predetti cavalieri da
Torgud nel 1549, fu ripresa dagli spagnoli e dai cavalieri di Malta l’anno successivo allo
798
… Il governo è qui nelle mani di persone giovani e senz’esperienza. Il principe d’Oria non
esce mai dalla sua galera; egli passa le sue giornate a giocare a carte. Il più insignificante
spagnolo si crede in diritto d’impiegare gli italiani nei più vili bisogni; sono gli italiani che
scavano la trincea, sono ancora essi che trainano l’artiglieria, che vanno a tagliare la legna
nel bosco per fare i gabbioni… (J. De la Gravière. Cit.)
Vizio di famiglia quello del giuoco! Infatti il desiderio di giocare prendeva spesso e
volentieri anche Gioan Andrea d’Oria, come ricorda il de Bourdeilles:
…Et sur ce ledit sieur André demanda des cartes et de dez pour jouer, car je l’ay veu qu’il
estoit un tres-grand joueur… (Cit.)
Nel frattempo Torgud, approfittando dell’assenza della squadra d’Andrea d’Oria, devastava
il golfo di Genova e il 6 luglio razziava Rapallo, mentre il suo luogotenente Uluch-Alì
assaliva Villafranca sorprendendovi il principe Emanuele Filiberto; ma poi, non ritenendo il
sultano Sulaiman allora conveniente mandare la sua armata a difendere Tripoli, fu costretto
a tornare in Barbaria e sbarcò il 22 luglio a cinque miglia dalla città oppugnata con 3.700
mori, 800 turchi e 60 cavalli, ma il suo intervento non bastò a evitare la presa di Tripoli, nel
cui assedio frattanto morivano d’archibugiate il de Vargas e il Ferramolino, il primo colpito
al petto e il secondo alla fronte; a un certo punto però Garcia de Toledo, costatata
l’insufficienza della batteria di terra cristiana, l’integrò con una di mare, fatta unendo tra loro
due sue galere disarmate, la Brava e la Califfa, con una robusta piattaforma che sosteneva
quattro cannoni e questa batteria entrò efficacemente in azione l’8 settembre, aprendo la
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… encor qu’il fust long et lent, ce disoit-on, et de fort petite complexion, maladif et tormenté
des gouttes, si est-ce pourtant qu’il a biensecouru la Chrestienté. (Ib.)
Da questa riconquista di Tripoli i cristiani, oltre all’aver liberato tanti cristiani colà tenuti in
schiavitù o prigionia, ne ricavarono quasi 10mila schiavi barbareschi, tra donne, bambini e
mercanti, ossia tutti coloro che o per vendita o per riscatto potevano rendere danaro, gente
che fu portata quasi tutta in Sicilia, parecchi a Napoli e pochi a Roma:
… Tra l’accennate spoglie de’ turchi che seco portò il Vega vi fu una gran porta di ferro
levata dalla soggiogata città d’Africa e la fe’ mettere nell’anno 1556 in Palermo, alla porta
della città detta de’ Greci, che si vede ancor’hoggi, per la quale egli entrò con gran pompa
di fastoso trionfo, e sopra di essa nel muro vi sta la memoria scolpita in marmo, dove si
veggono le armi di sua famiglia, cioè tre torri… una sopra l’altra, la prima grande, la
seconda minore e la terza minima. (V. Auria. Cit. P. 42.)
Che gran parte degli schiavi barbareschi che i cristiani razziavano sulle coste africane
finissero in Sicilia era vecchia consuetudine iniziata, forse, dal grande capitano generale di
mare siculo-aragonese Ruggiero di Loria, il quale negli anni Ottanta e Novanta del Duecento
depredò e devastò più volte le coste magrebine, scaricando poi migliaia e migliaia di
migliaia schiavi in Spagna e in Sicilia, al punto, noi crediamo, di influenzare addirittura la
successiva configurazione etnica di quest’isola. Purtroppo dal 14 al 16 agosto 1551 Tripoli,
con la resa di Gaspard de Villiers, governatore dei cavalieri di S. Giovanni in quella città, fu
riconquistata definitivamente dall’armata turca comandata da Sinan, armata che dopo
l’infruttuoso assedio di Malta volle così rifarsi prendendo quella città, non paga d’aver
all’inizio di questa sua campagna già preso e saccheggiato Augusta; Sinan era allora
coadiuvato dal già ricordato Couradin Pasha e inoltre dal solito Torgud, infatti nella sua
armata sventolava anche la bandiera di quest’ultimo, la quale, scriveva il de la Gravière, era
bianca e rossa con una mezzaluna blu al centro; con Sinan era anche Uluch-Alì e si dava
inizio così alla lunga reggenza ottomana di quella città, la quale s’andava ad aggiungere a
quella già preesistente di Algeri e precedeva. I cristiani rimisero comunque
momentaneamente piede a Tripoli nel 1602, quando i cavalieri di Malta dell’allora gran
maestro Luigi de Vignacourt la sorpresero e incendiarono; il Vignacourt aveva preparato
l’azione per il maggio di quell’anno, ma ne fu impedito dalla requisizione delle sue cinque
800
galere fatta da Filippo III di Spagna, il quale ne aveva bisogno per trasportare fanterie da
Napoli a Genova, e i vascelli furono di ritorno solo alla fine del mese di luglio; il 4 agosto
dunque ripartirono per l’impresa, accompagnate da alcune fregate che agevolassero lo
sbarco; il 6 mattina catturarono due fuste corsare nelle acque di Lampedusa, prendendo
così prigionieri 58 turco-barbareschi, e il 13 notte, arrivati a Tripoli, sbarcarono sotto il
fuoco nemico 700 uomini, tra cui 240 cavalieri gerosolimitani, sotto il comando del
commendatore Matha; subito vennero messi due petardi alle porte della città, uno a quella
posta verso il mare e uno a quella verso terra, e furono appoggiate le scale alle mura,
nonostante la pioggia d’archibugiate e di frecce lanciate dagli ottocento difensori; abbattute
le porte con i petardi e conquistate le cortine, i cristiani entrarono e, dopo 4 ore di
combattimento e il macello di circa 300 difensori, la città era presa; poco dopo fu anche
preso il castello del governatore, costruzione detta dai cristiani Alcasova e che faceva da
cittadella; più di duemila abitanti si misero in salvo fuggendo da una falsa porta e così ne
furono presi prigionieri solo 386; saccheggiata e incendiata la città , la spedizione si ritirò
nonostante il gran numero di cavalleria e fanteria venuta dall’interno in soccorso della città
e fu di ritorno a Malta il 16 agosto, avendo perso 4 cavalieri, 25 soldati e riportando inoltre
circa 90 feriti.
Ma tornando a Cosimo de’ Medici, diremo che recentemente aveva ottenuto un piccolo
successo diplomatico, perché aveva convinto il duca di Ferrara, Alfonso II d'Este, a
mandare a lui e non più alla Serenissima i condannati alla galera di quello stato; Venezia
comunque continuava a ricevere quelli del ducato d'Urbino, stato che, come quello di
Ferrara, non aveva galere proprie. Il duca aveva verso il re di Spagna obbligo feudale di
servirlo con tutte le sue galere in ogni impresa per sette mesi all'anno, ossia per il periodo
aprile-ottobre che era appunto quello in cui tali vascelli potevano navigare, e in cambio il re
pagava il mantenimento della metà di quella squadra a 6mila ducati all'anno per galera, cioè
corrispondeva allora al duca 27mila ducati corrispondenti alla spesa di quattro galere e
mezza; ciò nonostante al Priuli fu dato di scoprire in Cosimo una certa insensibilità politica
nei confronti di Venezia e anche una potenziale infedeltà verso la Spagna, specie nella
seguente occasione:
Era notorio che ad affrontare l'armata ottomana sarebbero state Venezia a levante e la
Spagna a ponente e quindi le predette parole di Cosimo non potevano se non
impressionare negativamente il Priuli. Il duca aveva anche un ottimo galeone, decantato dal
de Bourdeilles nelle sue Mémoires:
… Inoltre egli aveva un galeone dei più belli e dei meglio armati che io abbia mai visto, il
quale egli inviava tutti gli anni in Levante senza timore d’alcun altro galeone che lo potesse
attaccare e da cui esso non fosse in grado di ben difendersi e di sottrarsi, dal momento che
aveva più di duecento pezzi d’artiglieria. L’ho visto paragonabile a quello di Malta, il quale
anche m’è apparso certamente molto bello, grande e molto ben equipaggiato. (Cit.)
Il residente veneziano Andrea Gussoni (1576) riferiva al suo doge d’un notevole calo
d'attività dell'arsenale di Pisa al suo tempo, mentre proprio il 26 gennaio di quell’anno il
ducato di Toscana era stato elevato, con grande invidia di quello di Savoia, a granducato
con nuova investitura pontificia:
... Ora in questo arsenale si lavora poco e piuttosto in rassettare che rifabbricare di nuovo.
Oltra di quell'arsenale ve n'è un altro nell'Elba ove (il granduca Francesco I) tiene tre
galeazze e gli uomini che lavorano in esso sono la maggior parte dello Stato della Serenità
Vostra, sia banditi o sia allettati dal prezzo (‘salario’). (E. Albéri. Cit. T. II, p. 367.)
Aveva Firenze a quel tempo 12 galere, di cui 8 armate, 2 disarmate e 2 ormai pressocché
inservibili; aveva inoltre 5 galeazze, di cui 3 armate e 2 quasi in ordine, e alcune d’esse
avevano fatto parte avevano fatto parte dell'armata della Lega cristiana negli anni
precedenti. Il Gussoni non aveva mai visto questi grossi vascelli toscani e riferiva, quindi
per sentito dire, che non erano paragonabili a quelli veneziani né per grandezza né per forze
e né per altro; giudizio questo che però confligge con quanto già sappiamo e cioè che le
galeazze ponentine erano di regola alquanto più grandi delle galee grosse di Venezia. Aveva
il granduca Francesco anche qualche galeone:
... Ha due galeoni, l'uno grande e capace di molta gente e di molta artiglieria, l'altro piccolo
e molto ben conosciuto dalla Serenità Vostra, e questi [...] navigano ora per mercanzie e per
utilità del Principe (‘del granduca’). (Ib.)
Anche Francesco I, come già suo padre Cosimo, non si serviva di buonevoglie
autoctone:
... Arma le galee, quanto ad uomini di remo, di schiavi e condannati, non volendosi servire
di ciurme di libertà, non volendo far danno al suo stato, delle quali mandò già il Principe
802
suo padre ottocento uomini in Affrica con l'armata cesarea all'impresa del Pignone e ne
morirono la maggior parte, come d'ordinario succede degli uomini nuovi, de' quali quando
volesse (comunque) servirsi poteria armare buon numero di galee. Per uomini (liberi) di
remo si serve di forastieri, cioè di corsi, di greci e tra questi di molti sudditi della Serenità
Vostra; e tiene nelle galee quella medesima quantità di scapoli - o poco più - che hanno
quelle della Serenità Vostra, ma minor numero di artiglieria. (Ib. Pp. 367-368.)
Anche se Pisa lavorava in quel tempo poco, Livorno, come abbiamo già detto, era invece
già allora rinomata per esser uno degli scali più attrezzati al raddobbo dei vascelli:
... Fa fare i suoi biscotti in Livorno, ove ha forni per lavorarne intorno a quaranta migliaia il
giorno; in questo luogo tiene anco buona quantità di gomene, sartie, ancore ed ogni altra
sorte di armeggi per accommodarne le navi, affinché tanto più volentieri capitino in quel
porto. (Ib. P. 368.)
Molto moderno appare dunque oggi il modo di pensare del granduca Francesco e cioè il
comprendere l'importanza degl'investimenti nelle attrezzature portuali ai fini d’una crescita
dell'entrate dello stato; egli era inoltre particolarmente orgoglioso d’una delle sue galere:
... Predica il Granduca molte cose di una sua galea chiamata 'La Nera' e di questa mi ha
narrato molte prove, così d'aver preso corsari velocissimi di Algieri in breve tempo e con
molto vantaggio come d'aver vinto in corso la galea Capitana di Napoli e in fine la tiene per
una delle migliori galee del mondo. (Ib.)
... Non attende questo Principe a questa milizia marittima quanto (faceva) il padre, anzi,
come quello procurava di accrescerla così pare che questo si contenti di esser in essa
altrettanto fortunato quanto il padre fu poco avventurato; che, come quello perdé molti
vascelli così per fortuna di mare come per forza d'arme alle Gerbe e altrove, all'incontro mi
ha detto Sua Altezza non solo non aver mai per qualsivoglia caso perduto alcuno de' suoi,
ma né anco essere mal capitati quelli degli altri sopra i quali aveva avuto alcuna cosa sua;
dal che nasce che molti suoi sudditi, quando mandano alcun vascello in viaggio, lo vanno a
supplicare che gli dia o poco o molto del suo capitale, prendendo per buono augurio la
felice fortuna del loro Principe. (Ib. P. 369.)
Era infatti riuscito Francesco a cancellare e ribaltare quell'aura di sfortuna che aveva
accompagnato il padre Cosimo, le cui principali iniziative marittime avevano spesso avuto
esito disastroso.
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Nel 1588 il residente veneziano Tommaso Contarini dava, di ritorno da Firenze, relazione
anche delle forze di mare del Granducato di Toscana. L'arsenale principale era sempre
quello di Pisa con i suoi 5 volti e in esso si fabbricavano galere; c'era poi un altro arsenale
all'isola d'Elba, dove si tenevano galeazze e galeoni e infine a Livorno un luogo protetto da
una fortezza, dove però si potevano tenere sicuri dai venti non più di quattro navigli. Le
maestranze dell'arsenale di Pisa erano sufficienti e provenienti da vari paesi, vale a dire da
Napoli, Sicilia, dalla stessa Toscana e dall'arsenale di Venezia. Erano disponibili 10 corpi di
galera, ma ordinariamente se n’armavano allora solo 4; vi erano poi due galeazze, le quali
non avevano però fatto una riuscita molto buona e due galeoni utilizzati come mercantili e
per la guerra di corso. Non avrebbe potuto il granducato armare un numero maggiore di
galere per diversi rispetti, tra cui la mancanza di ciurma:
... perché gli schiavi e condannati non bastano e i proprij (abitanti) del paese non sono atti a
questo servizio, come si vide quando se ne fece l'esperienza, che tutti si ammalavano e
gran parte morirono; ma, quanto al restante, le galee son ben armate e ben munizionate;
usano però manco numero d'artiglierie che le nostre. (Ib. Appendice. Pp. 268-269.)
Buona era la marinaresca di cui disponeva allora il granduca Ferdinando I de' Medici (1587-
7.2.1609), appena succeduto al fratello Francesco I morto l'anno precedente; si trattava,
oltre che di toscani, di siciliani, di corsi e anche di molti greci, perché il padre di Ferdinando
e Francesco, Cosimo I, aveva al suo tempo dato incarico a un calogero, ossia a un monaco
greco, di percorrere la Grecia persuadendo con promesse i buoni marinai a trasferirsi
nell'isola d'Elba al soldo del granduca. Così si formò in quell'isola una piccola, ma nutrita
colonia di greci, ai quali Cosimo fece colà edificare anche una chiesa di rito greco, e sotto
guida di costoro si esercitarono e impratichirono molti pisani, i quali divennero in tal modo
buoni marinai. E a pensare che Pisa, ai non lontani tempi della repubblica, era stata essa
stessa maestra di marineria! Tanto poté l'odio campanilizio che aveva permeato il dominio
fiorentino su di lei, dominio che in poco più d'un solo secolo aveva sostanzialmente estinto
la sua un tempo famosa perizia marinara. Da una precedente relazione del 1561 letta al
senato veneziano da Vincenzo Fedeli, il quale tornava allora da un’ambasceria alla corte di
Cosimo I, possiamo sapere qualcosa in più del predetto arruolatore greco calogero, titolo
questo che fino al secolo scorso si è sempre dato in Italia ai monaci greci della regola di S.
Basilio e tale era infatti costui, di nome Dionisio Paleologo; egli, dotato di danaro contante,
percorreva Cipro e gli altri paesi del Levante dove erano insediamenti di monaci di quella
regola, i quali lo potessero pertanto aiutare in quel reclutamento, dando premi e decantando
i comodi di vita che i consenzienti avrebbero trovato in Toscana, parlando d’elargizioni di
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terre e di case e d’esenzioni fiscali. Reclutava questo greco anche nei territori levantini
soggetti al dominio veneziano e, a quanto scriveva il Fedeli, anche nella stessa Venezia:
... ed è cosa certa che da Venezia [...] se ne sono partiti alcuni con la moglie con licenza
d'andar alla Madonna di Loreto e a dirittura se ne sono venuti a Pisa e montati sopra le
galee di questo Principe, chi per còmiti, chi per aguzzini, chi per bombardieri; ma delli nomi
loro non ho potuto saper cosa alcuna [...] Ho anco inteso due giorni fa essere entrati in
questa Città (di Firenze) un buon numero di bresciani e veronesi guidati da un Agostino
Canale bresciano [...] Ho anco inteso che il 'calogero' è ritornato e aspetta il signor Duca ed
ha condotto seco ventisette uomini tra marinari e maestranze e alcuni maestri che fanno
barili per fornir le galee; li quali, per non esservi (in Toscana) di quelli che li sapessaro fare,
si mandavano a comprare a Genova e per la Riviera con incommodo e spesa grande. (Ib. S.
II, v. I, p. 389-390.)
Pare che la maggior parte di questi assoldati forestieri venissero, come prima destinazione
e dopo aver ricevuto all'arrivo un’ulteriore elargizione di danaro, inviati a Massa nella
maremma di Siena; ma terminiamo ora d’attingere alla precedente relazione di Tommaso
Contarini. Per quanto riguarda i militari di galera, istituito da Cosimo I l'ordine di S. Stefano
di cui abbiamo già detto, il figlio Francesco I aveva poi disposto di pagare un numero di
soldati fissi tratti dalle bande, cioè dalle milizie territoriali, da adibire in permanenza alla
guarnigione delle galere; ma i risultati, per motivi attitudinali, non furono buoni:
... Sopra cadauna galea non mettono più che quindici cavalieri di Santo Stefano; al restante,
sino al numero di settanta, suppliscono con i soldati delle bande, i quali sul mare non
riescono e però (‘perciò’) queste galee da combattere non sono molto ben sicure. (Ib.
Appendice. P. 269.)
L'inadattabilità al remo dei toscani e l'impianto di greci all'Elba vengono confermati dalla
relazione redatta nel seguente 1589 dal residente Francesco Contarini:
... Tiene quel Principe (il granduca Ferdinando I) armate quattro galee e maggior numero
ancora ne metterebbe insieme [...] quando non avesse molta strettezza d'uomini da remo,
conoscendosi per esperienza che que' del paese non possono far alcun proffitto di
momento [...]
Procurò (Cosimo I) di più col mezzo dell'imperator Carlo V d'impadronirsi dell'isola d'Elba
de' signori di Piombino, dove condusse ad abitar alcuni greci per seminarvi de' marinari,
che poi han fatto mirabil frutto, venendo anco ad acquistar un porto capacissimo di ogni
armata, molto a lui necessario in quanto che quello di Livorno non riceve più di quattro
vascelli. (Ib. S. II. , v. V, pp. 437-438.)
La qualità bellica delle galere toscane andava progressivamente migliorando, tant’è vero
che il de Bourdeilles le diceva le più temute dai corsari turco-barbareschi dopo quelle
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maltesi e poi all'inizio del Seicento il Pantera, come abbiamo visto, le considerava le
migliori del Tirreno e infatti così ancora scriveva di quelle del suo tempo:
... Giacomo Anghirami [...] con le galee del Gran Duca di Toscana, delle quali è ammiraglio,
in pochissimo tempo ha fatto diverse surprese (‘assalti inattesi’) di molti luochi e in
particolare della Prévesa, di Castel Rugio, di Bona, di Gigeri e d'altri luoghi, oltra che,
andando in corso, ha preso con le medesime galee un gran numero di vascelli turcheschi...
(P. Pantera. Cit. P. 54.)
Addirittura nel 1608 il granduca Ferdinando tenterà l'impresa di Cipro, inviando la sua
piccola squadra alla liberazione di Famagosta dai turchi, tentativo che però non riuscirà per
il venir meno degli alleati cristiani. Un orgoglioso encomio delle imprese di queste galere
toscane si legge in una lettera che il diplomatico pratese Giovan Francesco Buonamici
scrisse nel 1629 al suo amico fiorentino Galileo Galilei:
A' giorni nostri sentiamo risonare dall'un polo all'altro il nome de' serenissimi gran duchi di
Toscana col mezzo di una piccola squadra di galere, che sanno non solo raffrenare
l'ingordigia de' corsali e aprire il passo e commercio libero e sicuro a tutte le nazioni che al
celeberrimo emporio di Livorno concorrono; ma ardiscono ora in Asia, ora in Affrica
assalire, vincere e depredare fortissime città e potentissimi regni, onde più gloria e
reputazione partoriscono a Loro Altezze queste galere in un sol viaggio, che non potriano
fare tutte le loro forze terrestri, benché oggi riguardevoli e formidabili, in longo tempo. Cipri,
Scio, Negroponto, imprese che ancora fanno tremare quei barbari, e tante altre a bastanza
lo testificano; ma più di tutti lo conobbe la Francia, che grata per la conservazione di
Marsilia, e paurosa insieme per la catena che al piede gli teneva con l'occupazione dell'Isole
dette ‘Poucègue et If’ (oggi ‘Arcipelago delle Frioul’), fece grande stima non solo della
potenza de' gran duchi, ma procurò guadagnare con ogni diligenza l'amicizia loro.
Similmente una piccola squadra di galere rende oggi famosa e celebre la Religione di Malta
in ogni parte del mondo […] Quelle di Malta attendono solo a nettare il mare da Corsari e a
far guerra a' nemici della fede cristiana (Archivio storico italiano. Quarta serie. T. XVI-1885.
P. 9 e 14. Firenze, 1885).
Bisogna poi ricordare che, ancora all’inizio del Cinquecento, il regno di Napoli disponeva,
tra le altre, anche di ottime galere amalfitane e nel 1505 alcune di queste, mentre
incrociavano in guardia delle coste calabresi, intercettarono la flottiglia corsara del terribile
Kheir ed-din detto Barbarossa e la respinsero, obbligandola così a ritirarsi da quei mari.
Della combattività marittima degli amalfitani già parlavano cronache medievali, vedi p.e.
quella catalana del Muntaner all’anno 1286, laddove ricorda la spedizione marittima catalana
di venti galere con la quale in quell’anno don Berenguer de Sarria, ammiraglio del re di
Sicilia, il quale era allora Giacomo d’Aragona (1285-1291), scorse e devastò le coste
tirreniche dell’Italia meridonale:
806
… e batté tutta la Calabria e giunse al capo di Pelanuda (‘Palinudi’; poi ‘Palinuro’, dalla
pronunzia locale Palinuri) e dal capo di Pelanuda egli si mise in (alto) mare e fece la via
della costa di Amalfi (lem/ctm. Malfa; l. Amalfa-æ, Amalfia e Malfi-is; da qui il cognome La
Malfa) e quella costa era popolata dalla peggiore gente e dai maggiori corsari che siano al
mondo, specialmente in luogo che ha nome Passata (‘Positano’)… e, prima che spuntasse
l’alba, prese terra ed ebbe tutta la gente a terra presso la città di S. Andrea di Malfa e scorse
tutta la montagna. Cosicché, nei quattro giorni che vi stette, devastò e incendiò Maiori,
Minori, Ravello (lem/ctm. Revel), Pasitano e tutto quanto c’era nella montagna; e vi stava
con bandiera alzata e andava bruciando e devastando tutto ciò che trovava e sorprese nei
loro letti i malvagi passatari (‘positanesi’), cosicché tutti fecero la stessa fine, e vi bruciò
galere e legni che tenevano tirati a secco cosicché non ne lasciò alcuno né lì né in alcun
altro luogo della costa… (Muntaner. Cit.)
In effetti il re Giacomo – e il Muntaner lo dice - volle punire gli amalfitani per esser scesi in
mare contro di lui nelle recenti guerre che egli aveva sostenuto contro i francesi per il
possesso del regno di Sicilia; ma gli amalfitani erano in quei secoli considerati degli odiosi
pirati non solo dai catalani ma da tutti e, se quella volta la loro città si salvò, non altrettanto
fortunata era invece stata nel secolo precedente, cioè il 9 agosto 1136, quando era stata
presa, saccheggiata e combusta da un’armata pisana. D’altra parte, che la repubblica
d’Almalfi fosse alquanto sui generis è dimostrato dalla circostanza che, a differenza delle
altre tre, non disponeva di linee commerciali di galeazze o galee grosse di mercanzia, unico
strumento in quei secoli conosciuto e correntemente adoperato nell’esercizio dei grandi
traffici marittimi internazionali. I catalani si spostarono poi a ripetere le stesse devastazioni
a Sorrento; non potettero però ripetere la cosa anche a Castello a Mare di Stabia per l’arrivo
colà di un soccorso di cavalleria da Napoli, ma proseguirono razziando e bruciando il
naviglio presente nello stesso porto di Napoli ed, essendo in guerra anche con la Chiesa,
portarono le loro devastazioni sino alle foci del Garigliano. Molto interessante notare come
venga qui fuori la vera origine del nome dell’attuale borgo di Positano; in sostanza
dall'originario Passata, come lo leggiamo dunque nell'antico catalano, cioè 'borgo del
passo', in quanto raggiungibile allora da terra solo attraverso il passo di Montepertuso, si
arriva all'odierno 'Positano' attraverso la forma intermedia Pasitano ( An. Ricerche
filosofico-istoriche sull’antico stato dell’estremo ramo degli Appennini che termina
dirimpetto l’isola di Capri. In Raccolta di varie croniche, diarij ed altri opuscoli etc. T. V, p.
3. Napoli, 1782.), dizione questa corretta ancora nel Settecento e che tuttora sopravvive
nella lingua spagnola. Più tardi, nel corso dello stesso 1286, una seconda spedizione
marittima catalana, stavolta capitanata dallo stesso Giacomo II ripeté le suddette
devastazioni nel salernitano e nell’amalfitano, poi, entrato nel porto di Napoli senza trovar
alcuna resistenza per tre giorni fece razzia di vascelli da carico, navi e taride; infine prese
807
Poi nel mese di settembre due galere di pirati provenienti da Napoli e da Ischia andarono in
Provenza e catturarono legni dei genovesi e dei provenzali e li mandarono al porto di
Falesia (‘Portovecchio’); e pertanto armammo due galee della città (‘di Genova’) ed una di
Porto di Venere per raggiungerle e catturarle (Caffaro, Annales januenses, cit.).
Dalle relazioni sullo Stato Ecclesiastico dei residenti veneziani Giovanni Gritti (1589) e
Paolo Paruta (1595) sappiamo che è solo durante il pontificato di Sisto V (1585-1590) che il
Papato si doterà d’una forza di mare autonoma e cioè di sei galere (e non 10, come
erroneamente affermava lo stesso Gritti), utilizzando corpi di galera donatigli da Spagna,
Genova e Granducato di Toscana; in precedenza infatti quello Stato, in occasione di dover
partecipare a leghe cristiane contro gl'infedeli, si era per lo più avvalso di galere armate da
Venezia per suo conto e a sue spese. Queste galere pontificie, oltre a dover difendere le
coste del loro stato dai corsari algerini che infestavano tutto il Tirreno, erano dedite esse
stesse a corseggiare nel Levante i mari dei turchi e ciò facevano spesso di conserva con le
galere maltesi e toscane. All'inizio, non essendo il porto di Civitavecchia ancora
sufficientemente attrezzato a riceverle, queste galere non furono ben tenute (Gritti, 1589):
... Patiscono molto questi vascelli per non aver Sua Beatitudine porto sicuro e capace da
poterli commodamente ricevere. (E. Albéri. Cit. S. II, v. IV, p. 339.)
... Di queste però cinque sole si tengono per ordinario armate e una serve quasi per ospitale
a Civitavecchia; né in altro luogo dello Stato della Chiesa vi è arsenale di alcuna sorte per
808
tenervi galee; si fanno solo di tempo in tempo secondo il bisogno [...] hanno centosettanta
uomini di remo per galea, ma la Capitana ne ha trecento, essendo tutta insestata, e questi
sono per lo più condannati e una parte anco schiavi. (Ib. V. X, p. 405.)
La Capitana insestata, vale a dire a ben sei uomini per banco per un totale di 300, doveva
quindi avere sì 25 banchi per lato come le normali galere sottili, ma doveva anche essere
quartierata, quindi tanto più larga da permettersi banchi più lunghi; per quanto riguarda
invece il numero di 170 remieri per galera sottile ordinaria, questo significa che, non
essendovi certo sulle galere posto per remiganti tenuti oziosamente di riserva, su queste
normali galere interzate, ossia, come sappiamo, a tre uomini per banco, erano tenuti
inquartati i banchi dalla poppa all’albero, il che molto comunemente s’usava. Maurice
Aymard (Cit.) riporta a tal proposito un interessante documento del 6 aprile1584 conservato
nell’Archivo General de Simancas, in cui Marc’Antonio Colonna, trovandosi al suo ultimo
anno di viceregnato in Sicilia, mandava a Madrid una relazione sullo stato delle galere di
quel regno, stato dal quale risulta quanto segue:
La Capitana di 29 banchi, a 5 vogatori per banco, più 10 per servizio delle camere, tot. 300.
La Patrona di 26 banchi, a 5 vogatori dalla poppa all’albero e, per il resto dei remiggi di
prua,
a 4, più 10 camerieri, tot. 250.
Due galere di fanale, ossia all’occorrenza di comando, di 26 banchi a 4 vogatori per banco,
più 8 camerieri, tot. 216 ciascuna.
Le altre (nove?) di 26 banchi a 3 vogatori per banco più 8 camerieri, tot. 164 ciascuna.
C’è da notare che viene qui generalmente calcolato come operativo anche il banco del
fogone, il quale, come sappiamo, per lo più non era invece adoperato per la voga.
Mentre per queste galere il Pontefice disponeva di 500 fanti di marina, trovava invece
difficoltà a reperire la necessaria marinaresca. Si tenevano questi vascelli armati anche
d'inverno, ma solo di remieri e marinai e quindi non di soldati; n’era generale al tempo del
Paruta un fiorentino, il commendator Pucci, il quale era reputato buon soldato e buon
marinaio, ed è singolare trovare ancora oggi nei porti italiani questa famiglia Pucci, adesso
noti provveditori navali, così come del resto ancora esercitano l'armamento marittimo i
Grimaldi:
... Inclinava il presente Pontefice (Clemente VIII) alla cassazione di questa spesa, ma gli
viene posto innanzi la utilità, anzi necessità di tener queste galee armate per i molti danni
che fanno in que' mari e in quelle marine le galeotte barbaresche. (Paolo Paruta, Opere
politiche. P. 506. Firenze, 1852.)
809
Molto interessato alla marineria da guerra era il duca Emmanuel Filiberto di Savoia, il che si
legge nella relazione del residente veneziano Andrea Boldù, lette in senato il 12 dicembre
del 1561:
... Sopra modo si compiace di galee e cose di mare anco più che di quelle di terra, onde si
vede ch'egli sta più volentieri a Nizza che altrove ed ha posto maggior ordine alle sue galee
che alle fortezze, ordinanze (‘fanterie’) e cavallerie [...] e mi ha mostrato molto
affettuosamente desiderare di venire a Venezia specialmente per vedere l'arsenale...
Le galee poi cha ha Sua Eccellenza (il duca) e tiene ordinariamente a Villafranca sono
quattro, delle quali due sono totalmente sue, una è di Girolamo Spinola genovese, figlio di
messer Bernardo, avendola avuta da Sua Eccellenza a buon conto del credito che ha detto
suo padre coll'illustrissimo Signor Duca; l'altra è in parte del signor Cesare da Napoli e del
capitano Moretto da Nizza. Ha Sua Eccellenza grande opinione di ridur queste galee sino al
numero di dieci... (E: Albéri. Cit. S. II, v. I, pp.423-424.)
... Concesse (il duca di Savoia) le tre galee che avea l'anno della giornata (1571) le quali,
comandate da Monsignor di Leiny, fecero onoratissimo servizio, se bene con tal loro danno
che l'anno seguente convennero starsene come disarmate nel porto di Villafranca,
astringendo Sua Altezza (il duca medesimo) a negarle al Re di Spagna, che a
domandargliele fu il primo, poi alla Serenità Vostra e dopo anco al Pontefice; e io che l'ho
vedute e prima e dopo (della battaglia) sono buon testimonio che erano inabili al navigare;
anzi anche il terzo anno Monsignor di Leiny mi diceva che ancora sentiva il danno della
giornata e mi giurò, presente il Duca, che quella battaglia era costata a loro 20mila scudi.
(Ib. S. II, v. II, p. 221.)
… Ha (il duca di Savoia) tre galere che, prima che fi trouassero alla giornata del 1571.sotto
lo stendardo di Voftra Serenità, si potevano chiamare delle buone che fossero su'l mare;
nella qual giornata (oltre che ne fu tagliata una tutta a pezzi, senza che si salvasse pur'un
soldato o galeotto) l'altre patirono tanto ch'erano, quando le viddi quattro mesi dopo
ritornate, così mal in essere che mi parevano non essere quelle che andarono, perché a
fatiga puotero menarsi da Savona a Nizza, passaggio di meno di cento miglia, e per gionta
gli entrò poi così fatta malattia nella ciurma che quanti ne rimettevano tanti ne morivano e
pochissimi restorno vivi di quelli schiaui he dopo la battaglia le donò il general Veniero; ma
la terza volta che sono ritornate in quelle parti l'ho vedute benissimo ad ordine, massime
due d’esse che sono assignate alla Religione (di S. Lazzaro) con quaranta cavaglieri che
navigano – e navigheranno – sopra ogni una di esse. Di tutte queste n'è capitano
monsignor di Leyni, caualiere da me nominato di sopra… (Romanci, Fabrizio, La seconda
parte del Thesoro Politico ecc. Ff. 251 recto e verso. Torona, 1602.)
Questi esiti rovinosi però depongono per un comportamento in battaglia certamente eroico.
Queste tre galere di Savoia - che tante restarono nel trentennio 1571-1601 - erano, come ci
informa una relazione del residente veneziano Costantino Molin, ciurmate di schiavi turco-
barbareschi e di condannati al remo; due d’esse erano assegnate all'ordine militare dei
Santi Maurizio e Lazaro, religione che però stava per essere oscurata da quella
dell'Annunziata. Si trattava di galere stipendiate dalla corona di Spagna con un’imposizione
apposita di 18mila scudi che gravava per intero sul regno di Sicilia; alla fine degli anni
Ottanta di quel secolo stavano però per essere vendute alla repubblica di Genova per
intervenute difficoltà finanziarie, ma tale alienazione fu vietata dal re Filippo II, il quale
impose che i tre vascelli venissero posti sotto lo stendardo di Gioan Andrea d'Oria, il quale
era capitano generale della sola squadra di condotte genovesi e non di tutta l’armata di
811
mare del re di Spagna, come abbiamo già evidenziato. Più tardi saranno però riaffidate al
duca di Savoia, come si legge nella relazione letta nel 1601 dal residente veneziano Simon
Contarini:
... Tiene il Signor Duca (Carlo Emanuele I) nel porto di Villafranca tre galee, (però) piuttosto
in opinione che in effetto, poiché una, buona da poco altro che da fuoco, serve d'arsenale;
un’altra, affaticata molto, malamente potrà servire per un viaggio appena; la terza,
fabbricata ultimamente, mancava di molti requisiti ancora per adoperarsi. É vero però che la
meno cattiva è stata rinforzata ultimamente per dover servire anch'essa nella presente
armata di Spagna. Solevano queste galee obbedire al Principe d'Oria vogando sotto il suo
stendardo, ma, per la diffidenza nata già tra il Signor Duca e lui, si è risoluto di levarle da
quella schiera e nell'ultimo viaggio che fece Don Carlo in Spagna non volle Sua Altezza (il
duca) che vi andasse la sua... (Ib. S. II, v. V, P. 1601.)
I cattivi rapporti tra Carlo Emanuele I e il d'Oria e Genova in generale erano nati proprio
dalla cattiva gestione di queste galere savoiarde esercitata dal capitano genovese, sia per
l'asprezza di comando a cui le aveva sottoposte sia perché, non avendone avuta poi negli
ultimi tempi che una sola sotto il suo stendardo, la trascurava e ostacolava notevolmente;
ma gli episodi che soprattutto esacerbarono l'animo del duca contro il principe
riguardarono la mancata osservanza della riverenza di mare, materia che, come spieghiamo
in un altro capitolo, era allora importantissima, perché ogni omaggio formale significava
riconoscimento di diritti ancora feudali:
... Condusse poi al colmo i disgusti in Sua Altezza l'azione fatta dal d'Oria con disprezzo del
Signor Duca e della fortezza di Nizza, passando e ripassando per di là con l'armata tutta nel
condurre in Spagna la Regina e l'Infante in Italia, senza non solo onorarla come si suole le
fortezze di mare, ma né anco far cenno di minima risposta a forse 200 tiri (a salve)
d'artiglieria sparati con nobilissimo invito da quel castello e dalla città. (Ib. P. 286.)
In realtà, se si tien conto della maggior velocità delle galere savoiarde a quel tempo, primato
dovuto all'aver esse già adottato il remo di scaloccio, e del miglior trattamento riservato alle
loro ciurme rispetto agli usi tenuti sulle galere del d'Oria e ponentine in genere, circostanze
tutte di cui abbiamo già detto in un altro capitolo, si comprende facilmente come possa
esser nata nei genovesi un’astiosa invidia verso queste galere di Savoia e quindi anche i
conseguenti suddetti dissapori; abbiamo già spiegato infatti quanto contasse allora tra la
gente di poppa la vanagloria del primeggiare nelle arregate e quanto tra i remiganti il poter
ricevere una migliore o peggiore razione o il poter godere d’una maggiore libertà
d’esercitare qualche piccolo commercio.
812
Capitolo XIV.
Le prime versioni in volgare del nome ‘arsenale’ che possiamo trovare sono arzenà (Dante
Alighieri, La Divina Commedia, Inf., cant. 21) e arsenà (… qui locus ubi dictum conservatur
navigium, arsena vulgariter appellatur. Marin Sanuto, Diarii. l. II, par. IV). Il nome deriva dal
ltm. arsenatus, molto comune nei documenti e nelle cronache medievali, il quale significava
‘luogo dotato di arsena’; e quest’ultimo a sua volta veniva da armamentorum sinus, vale a
dire ‘insenatura delle attrezzature nautiche’; da esso derivarono poi sia il vn. arsile (accor.
di arsinilis), nome che si dava a Venezia agli scafi di galea grossa usati per il trasporto di
materiali o di cavalli da guerra’, sia anche l’arabo Dar-Es-Senah, cioè l’arsenale d’Algeri,
essendo infatti molta terminologia nautica araba di origine latina e non viceversa, come a
causa della solita italica esterofilia erroneamente si crede. Infine, il termine prese poi, come
si sa, a significare per sineddoche anche armeria in generale.
Quanto suddetto è a proposito dell’arsenale veneziano, il quale era nel Mediterraneo
l’arsenale per antonomasia sia per dimensioni sia per organizzazione sia per capacità di
produzione; infatti lo stesso Dante vi accenna nel Canto 21* del suo Inferno, cioè dove la
punizione dei barattieri, ossia dei cuncussionari:
…
Quale nell'arsenà de veneziani
Bolle l'inverno la tenace pece
A rimpalmar li legni lor non sani
Che navicar non ponno; e 'n quella vece
Chi fa suo legno nuovo, e chi ristoppa
Le coste a quel che più viaggi fece:
Chi ribatte da proda, e chi da poppa:
Altri fa remi, ed altri volge sarte:
Chi terzeruolo ed artimon rintoppa;
…
(Dante Alighieri, La divina Commedia ecc. T. II. Canto XXI, vv. 7-15. Napoli, 1829.)
Per quanto riguardava i mari di Ponente, cioè il Tirreno, troviamo prevalere lo stesso
termine ma probabilmente inclusivo dell’art. determ. neutro plurale greco τὰ, quindi ci fa
pensare a una sua versione originale significante qualcosa come ‘i vascelli sollevati’ (e.g. τὰ
ἀρόμενα πλοῑα); abbiamo quindi Il tarsianatus-us, ma anche tarsienatus e tarsenatus.
(Bartolomeo di Neocastro, cit. Capp. XXXVIII, LXXVI; G. del Giudice, cit. P.8; e molti altri;
infatti il lc. terzanaia, ‘tettoie, volti’):
813
Dunque anche in questo caso non c’è affatto bisogno di andare a scomodare l’arabo per
trovare l’etimo del termine, il quale deriva dunque, come detto, dal gra. ἅρσις (‘elevazione’)
e quiindi dal verbo αῒρω (sollevo’). La corr. ltm. adarsenalis è addirittura moderna e la
troviamo infatti non prima del Crescenzio; essa sembra collegato al cst/ctl. (a)taraçanas,
‘tettoie, volti’, originatosi questo probabilmente dal verbo l. adaresco, ‘dissecco, tiro a
secco’; ma potrebbe anche semplicemente derivare dalla locuzione l. ad arsena, ‘andare
all’arsenale’, da cui appunto il moderno darsena.
Sinonimo di arsenale era mandracchio, usato questo termine specie nei porti dei mari di
Levante; inoltre un arsenale poteva essere chiamato con nome particolare di quel luogo e
per esempio chiamavano quello di Corinto léchaion (λέχαιον; ‘il bacino’) e quello di Megara
Nissaia (gr. Νισσαία), perché quella città si chiamava anche Nisos (gr. Νίσος). Quello di
Corinto doveva essere molto importante in quanto città particolarmente ricca; infatti un
antico proverbio greco diceva ‘navigare a Corinto non è da tutti’ (Οὐ παντὸς ἀνδρός ἐς
Κόρινθον ἒστ' ὀ πλοῦς·), in quanto appunto città dispendiosa, specie perché vi era molto
diffuso un costoso meretricio.
Era dunque la arsena (poi adarsena o darsena) la zona militare di un porto, cioè era un molo
chiuso, generalmente quadrangolare, riservato all'attracco e al disarmo invernale delle
galere; questo molo era contiguo all'opificio – detto pertanto arsenale, cioè ‘attinente
all’arsena’ - in cui si costruivano, risarcivano e da cui si varavano navi, barche e appunto le
stesse galere. A partire dall'Ottocento sarà poi adottato anche in Italia l'improprio vecchio
uso francese di chiamare arsenal anche fabbriche militari avulse da quella marittima dove si
costruivano galere e velieri e cioè la fondizione dell’artiglieria - con o senza polveriera - e
l'armeria reale (lat. armamentarium) o munizione delle armi (vedi per esempio il Manesson
Mallet). Oltre che da cantiere e da rimessa per galere un arsenale serviva anche come
deposito coperto di galeazze, vascelli questi che, tranne che a Venezia, erano nel
Cinquecento armati e messi in servizio ormai più raramente che nel secolo precedente e
pertanto, se si tenevano all'aperto, il loro fasciame risultava d’inverno inevitabilmente
deteriorato dall'intemperie e dal freddo e d’estate spaccato dal caldo sole; se poi d’inverno
erano invece tenuti ormeggiati, il fasciame ne risultava poi irreparabilmente infradiciato dal
mare o roso dalla bruma; pertanto, come norma generale, nella stagione invernale galere e
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galeazze andavano conservate al coperto nei loro volti e d’estate si tenevano invece in
acqua ormeggiate, mentre si potevano tenere a secco all’aperto solo per il tempo
necessario a lavori di carenamento.
L'(a)darsena era dunque un porto nel porto, costruito dove le acque portuali erano più
tranquille e più riparate da traversie e da restie; in essa in primavera si risarcivano e si
rispalmavano - oggi diremmo ‘si carenavano’ - le galere per tornare ad armarle, si dava
carena anche ad altri vascelli di poco pescaggio - perché bassi erano i suoi fondali - e si
abbordavano a moli e scale le barche e le altre piccole imbarcazioni incaricate del carico e
dello scarico dei materiali; la sua imboccatura era chiusa da travi o più spesso, come
abbiamo già detto, da catene, in modo che nessuna imbarcazione priva d’autorizzazione
potesse entrarvi; dalla parte di terra questo cantiere militare era cinto da mura e la porta che
dava nella città era tenuta chiusa da robusti catenacci; insomma si trattava d'un serraglio
fortificato che poteva essere utile anche ad altri scopi militari, come a rinchiudervi dentro i
coscritti a forza e i condannati al remo in attesa che venissero imbarcati, il che era per
esempio la norma a Napoli. In questo modo erano pure fatte le adarsene di Genova, Ligorno
(oggi Livorno), Civitavecchia e altre.
Il fondale dell'adarsena, già poco fondo di per sé, specie durante l'inverno tendeva a
innalzarsi ancora di più a causa dell'immondizie e dei rifiuti che i galeotti scaricavano in
mare dalle loro galere e pertanto ogni tanto bisogna ripulirlo per mantenerlo navigabile;
questo lavoro poco invidiabile era fatto dagli stessi schiavi delle galere guidati dai loro
aguzzini. Alla fine del Cinquecento a Genova si usava una barcaccia a vela quadra e con il
fondo piatto, del tipo cioè allora detto catasta (gr. βᾶρις, βάριος, βαρῖς, βαρειᾶ ναῦς, da
βάρος, 'carico' e βᾰρύς; ‘pesante’; fr. gabarre), garbo questo che le impediva di rischiare di
affondare per il peso del fango che le si andava accumulando dentro; da bordo di questa
imbarcazione gli schiavi, con un lavoro molto lento e faticoso, cavavano il fango dal fondo a
mezzo di lunghe zappe e lo scaricavano all’interno sino a riempirne la barcaccia e andare
poi a vuotarla al largo, un risultato finale questo che si otteneva allentando le catene che
tenevano chiuso il fondo a botola dell’imbarcazione. Quando le zappe incappavano in
qualche grossa pietra o comunque in qualcosa di pesante, questi uomini entravano in
acqua o sott'acqua e la tiravano fuori con le mani; si trattava insomma d’una fatica
gravosissima, lentissima e dispendiosa. In modo non molto diverso dal suiddetto si puliva il
fondale dell'adarsena di Corfù, dove l’arsenale era detto in it. il Mandraccio, termine in uso
per esempio anche per quelli di Ancona, di Grado, per quello più antico di Venezia e
probabilmente anche per quello di Candia, ma colà invece delle zappe si usavano certe
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n’andarono bruciate quattro - e questa fu nonostante tutto una fortuna che permise a
Venezia di mettere in mare appena nel seguente 1570 una potentissima armata di 140
galere, anche se ciò avveniva proprio mentre una terza catastrofe la colpiva e cioè la
terribile epidemia che scoppiò sul grosso stuolo di galere che si trovava già concentrato nei
porti istriani al comando del capitano generale Girolamo Zanne e di cui abbiamo più sopra
già detto. Questa immediata capacità di recupero era certo espressione della grande
potenza economica e organizzativa della Serenissima, come giustamente commenta il
suddetto Giovan Pietro Contarini nella sua Historia:
… E veramente allora veneziani mostrarono il poter loro esser grande e potente, essendo il
tempo di una carestia così memorabile e uno incendio notabile fatto nel suo arsenale; e con
tutto ciò haver fatto così potente armata bene ad ordine di tutto quello che si poteva
desiderare, facendo (inoltre) nell’arsenale poner in cantiero altre galee 50, galee grosse 4 e
fuste 12, non mancandosi di racconciare altri legni guasti dall’incendio… (Contarini, Giovan
Pietro, Historia delle cose successe dal principio della guerra mossa da Selim ottomano
a' venetiani fino al dì della gran giornata vittoriosa contra turchi etc. P. 9r. Venezia, 1572 e
1645.)
Ma leggiamo ora anche quanto, nella già ricordata versione francese di un’anonima
relazione, nello stesso 1569 si riferiva della predetta, appena avvenuta catastrofe:
… Ciò accadde la notte tra il martedì 13 di settembre ultimo passato e il mercoledì seguente,
giorno dell’equinozio autunnale, quando, quasi a mezzanotte, quando ciascuno è più dedito
al riposo e preso dal sonno, si dette fuoco alle polveri del detto arsenale, dove ne furono
bruciati ben sessanta migliari in tre torri e magazzini in cui stavano conservate tali
munizioni. Le torri, per la grande forza del fuoco e dell’esplosione, orribilmente tonante e
spaventevole, saltarono in aria spezzandosi in diecimila pezzi, smantellando e
danneggiando tutto ciò che questi colpivano; dal che la muraglia dell’arsenale, forte e
spessa, crollò in tre luoghi, tredici volti, in cui si tengono al coperto le galere, (furono)
abbattuti e quindici di dette galere rotte e fracassate; un monastero di religiosi chiamato ‘la
Celestra’ devastato e demolito insieme ad un buon numero di case all’intorno; la chiesa di
San Francesco della Vigna molto danneggiata; quelle di Santa Giustina e di San Giovanni e
di San Paolo ne risentirono; persino ( che è cosa spaventosissima) con lo scotimento di
quasi tutte le case della città e il danno e la frattura di tutte le vetrate, specie a Murano. Le
persone uscivano dalle loro case e palazzi tutte in camicia, fuggendo qua e là e non
sapendo da qual lato andare a pararsi, tanto erano smarrite, spaventate e stupite, temendo
di vedersi seppellire nei loro domicilii e che i loro proprii letti loro facessero da tombe…
(Historie merveilleuse et espouvantable etc. Cit.)
Fortunatamente non c’era un vento che potesse far propagare il fuoco alla città e non vi
furono più di 14 o 15 morti, ma la perdita materiale fu stimata a ben tre milioni d’oro in
moneta locale (ib.) Dunque il danno arrecato all’armata veneziana sembra esser stato più
consistente di quanto poi ufficialmente riportato; fu sparso poi il sospetto che l’incendio
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fosse stato appiccato da sicari dei nemici della repubblica e si sospettò in particolare del
sultano Selim II, il quale a quella funesta notizia aveva pubblicamente esultato, in quanto
vedeva così ora più facile la realizzazione del suo progetto di togliere a Venezia l'isola di
Cipro; ma comunque questo ipotetico autore del disastro, nonostante la gran ricompensa
promessa a chi l’avesse svelato, non fu mai scoperto, né si volle mai prendere ufficialmente
in considerazione l’eventualità d’un involontario incidente dovuto a semplice sbadataggine
e ciò perché ciò avrebbe sminuito la fama dell’efficienza dell’arsenale e quindi della potenza
di Venezia.
Un tentativo doloso, però dal solo parziale successo, di incendiare un arsenale fu quello
che nel 1472 avevano tentato gli stessi veneziani ai danni dell’arsenale turco di Gallipoli e
Domenico Malipiero così lo racconta nel suo veneziano rinascimentale, lingua che però noi
qui abbiamo ritenuto opportuno di ‘italianizzare’ per una miglior comprensione del testo:
Il siciliano, il quale si chiamava Antonello, e i suoi compagni furono poi catturati dai turchi e
giustiziati (ib.); l’incendio così procurato non si potè estinguere e durò dieci gioni. Un
arsenale dunque, specie se situato al di fuori dell'abitato, andava circondato da un recinto
fortificato, presidiato da soldati e munito d'artiglierie difensive come se fosse una fortezza e
doveva pertanto essere recintato anche dalla parte del mare, cioè con moli che lasciassero
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un solo varco e questo ostruibile con una catena o, in caso di necessità bellica,
affondandovi degli alti vascelli carichi di pesanti massi e che arrivassero a fior d’acqua;
(18 giugno 1389): … Una galea inviata a Candia per i lavori del porto ha sofferto gravi avarie.
Si da ordine di venderla o di metterla sott’acqua per utilità del porto. (Une galère envoyée à
Candie pour les travaux du port a souffert de graves avaries. On donne ordre de la vendre
ou de la mettre sous l'eau pour l'utilité du port. In Hippolyte Noiret, Cit. P. 28).
Ma c’erano alcuni arsenali, come per esempio quello turco di Peràia di Costantinopoli, che
erano invece dalla parte del mare non protetti e quindi ognuno che vi passasse davanti con
un’imbarcazione vi poteva vedere quello che voleva senza che vi si potesse così mantenere
un certo segreto militare; anzi, a quanto scriveva il già citato bailo Marco Minio, l'interno di
quest'arsenale era visibile da tutti i lati:
... Ma questo arsenal non è serrato - se non (in) parte - di muro, e il resto di legname, per
modo che facilmente si può vedere tutto quello che si opera dentro. (E. Albéri. Cit. S. III, v.
III, p. 74.)
Le suddette catene si spezzavano andandole a urtare con grossi vascelli e così fecero per
esempio i veneziani nel 1203 all’assedio crociato di Costantinopoli, usando allo scopo una
loro grossa nave che si chiamava Aquila e che andò a infrangere una catena tesa dai
difensori tra i luoghi chiamati Mangani e Galatas (Andrea Dandolo, Chronicon. L. X, c. III, p.
XXIX). A proposito poi dell’affondare vascelli, c’era in genere nei pressi di ogni porto
d’importanza un luogo deputato all’affondamento volontario di relitti ormai inservibili,
perché magari dal legno ormai marcito, e in nessun altro luogo ciò era concesso pena il
pagamento di onerose sanzioni; sembrano ricordare questa circostanza antichi toponimi
costieri che sembrano derivare dal verbo l. mergo (‘immergo’), quali per esempio Mergellina
(una volta ‘Mergoglino’) a Napoli e Mergaria (oggi ’Marghera’) a Venezia, anche se, nel caso
di Napoli, il riferimento sembra da farsi all’azione dell’uccello marino detto cormorano o
smergo e non a quella dell’uomo.
Abbiamo detto che le migliori navi e soprattutto i migliori galeoni del Mediterraneo erano
quelli che si costruivano a Ragusa di Dalmazia, le migliori galee, galee grosse e galeazze si
fabbricavano invece a Napoli, Genova e soprattutto Venezia, città questa che aveva il
miglior arsenale del Mediterraneo e, secondo molti, del mondo intero, primato che manterrà
sino alla conquista napoleonica, e teneva sempre armata la più grande squadra di galere
dopo quella ottomana, come scriveva con ammirazione il Pantera a proposito appunto della
costruzione dei vascelli:
819
... Il che è stato sempre con incredibil diligenza esequito dalla Republica di Venezia, che
veramente in questo non solo agguaglia, ma avanza tutti quelli che mantengono armate nel
Mar Mediterraneo, tenendo in Venezia un arsenale che, oltra la bellezza della fabrica e
dell'ordine delle officine, è copiosamente fornito tanto di galee e d'altri vascelli novi quanto
d'ogni altro apparecchio necessario alla fabrica et provision di un’armata; onde è veduto e
lodato con stupor di ogn’uno e mostrato a i Principi come cosa meravigliosa, anco per
l'abondanza della materia e perché mantiene un numero grande di operarij pagati
continuamente. Però (‘perciò’) vediamo che quella Republica in diverse occasioni, tanto per
suo interesse quanto anco per sovvenir gli amici ne i bisogni, in pochissimo tempo ha
messo armate grossissime in mare e particolarmente a' nostri tempi l'anno 1570 e 1571 e
quelli che seguirono, mentre durò la guerra col Gran Turco, perché per la sua parte mise in
mare maggior numero di galee de i collegati e più dell'obligo che haveva, oltra le galeazze
ed oltra molte altre che mantenne armate nel mare Adriatico; e prestò anco a Papa Pio
Quinto dodici galee che si trovorono l'anno 1571 nella battaglia navale all'isole de i
Curzolari (Lepanto). (P. Pantera. Cit. P. 61.)
Già nel 1460 Venezia aveva stupito per le sue grandi potenzialità di costruzione navale:
… Fra questo tempo il Turco (‘il sultano turco’) si mise in ordine e si mise in campo con
centomila persone per terra e per mare con trecento vele ed era presso a Negroponto a
sette giornate; e la Signoria di Venezia, avendo gran dubitazione che il detto Turco non
volesse andare a campo a Negroponto, subito fece gran provvigioni e fra l’altre mise
nell’arsenale quanti marangoni (si) potevano avere, per modo che ogni tre giorni facevano
una galera… (Cristoforo da Soldo, Memorie delle guerre contra la signoria di Venezia etc. In
L. A. Muratori, Rerum italicarum scriptores etc. C. 892, t. 21. Milano, 1732).
Da notare che l’autore scriveva spesso galera e non galea alla veneziana, il che sembra
dimostrare che non era veneto, tanto più che Solda si trova, come si sa, in Alto Adige. Molta
cura aveva dunque Venezia del suo arsenale, ampliato più volte nel corso del tempo, e
infatti, mentre per esempio l'arsenale di Napoli era diretto da un solo ministro detto il
Maggiordomo dell'Arsenale, insomma ancora come quelli dell’antichità, in cui c’era un solo
‘direttore’ detto in gr. νεαρός e νεηλάτης, quello di Venezia era soprinteso da un magistrato
composto da tre nobili cittadini (i paroni), i quali risiedevano nello stesso arsenale; questo,
così come lo descriveva nel 1525 Gasparo Contarini, comprendeva tre grandi seni
circondati dai volti o volte, ossia da quelli che oggi chiameremmo capannoni, nei quali si
tenevano al coperto le galere e altri vascelli, protetti così dall'intemperie. Uno dei tre seni
era di recente fabbricazione e non tutti i suoi relativi volti erano in quell'anno già finiti. I
volti, cosiddetti perché avevano i soffitti di muratura a volta e protetti da tetti di travamenti e
tegole, potevano contenere ognuno una o due galere a seconda della loro larghezza e, dice
sempre il Contarini, non ce n’era uno che fosse vuoto; in essi le galere si fabbricavano, si
risarcivano, si conservavano e preservavano così dal deterioramento per molti anni.
820
L'ingresso ai tre seni era unico e avveniva attraverso un canaletto e per il resto l'arsenale
era come una fortezza, circondato com'era da mura e torri e guardato di notte da scolte
armate. All'interno, oltre ai volti, a una fondizione d'artiglieria e una fabbrica di polvere
pirica, c'erano botteghe di maestri artigiani (frm. feures, da cui l’odierno ‘feriale’) d'ogni tipo
e magazzini (prl. casteria) e depositi pieni d’ogni necessario materiale, d'attrezzature,
corredi d'ogni sorta e armi, tettoie [fr. hangar(d)s] sotto le quali si conservavano al coperto i
materiali grossi, come il legname da costruzione e gli affusti incatramati per i cannoni, per
cui, non appena il senato decideva di mettere in mare un’armata, nell'arsenale si trovava
ogni cosa già pronta per farlo:
... di maniera che in quello arsenale non si può desiderar cosa veruna che appartenga al
mestier marinaresco. (Gasparo Contarini, La Republica, e i magistrati di Vinegia etc. P.
LVIIv.)
(1473): Quest'anno è stà preso de far 32 forni nei magazeni presso il Canal, i qual forni
farano biscoto per cento galie e più; et è stà speso in quell'opera 8,000 ducati (D. Malipiero,
cit. Parte prima, p. 87).
Il Levi ha rinvenuto che nel periodo post-lepantiano che va dal 1573 al 1591, cioè in 18 anni,
i veneziani vararono ben 198 galere sottili, due grosse, 26 fuste e 24 fregate e che, ciò
nonostante, ritenevano questa produzione poca cosa in confronto a quanto invece usavano
varare prima; ciò tanto per dare un’idea della gran funzionalità del loro arsenale, secondo
per numero di vari solo a quello ottomano di Peràia, il quale però superava grandemente in
qualità produttiva. Ecco una sintetica descrizione del predetto arsenale fatta in una
relazione italiana del 1574, ma nella sua traduzione francese, a proposito della visita che vi
fece in quell’anno l’allora ventiquattrenne Enrico III re di Francia, il quale era in viaggio di
trasferimento dal trono polacco a quello, ben più prestigioso, di Parigi:
… dove egli si meravigliò grandemente di vedere un luogo così grande, di circa mezza gran
lega di circuito, cinto all’intorno di alte muraglie e molteplici torri, con un ‘sì gran numero di
galere sottili e grosse, ‘sì gran quantità di sartiami, tante sale piene d’armi da armare in una
sola ora trentamila persone, tanti magazzini pieni d’artiglieria e tanti altri luoghi pieni di
munizioni e altre cose necessarie ad armare una grossa armata e un grande campo,
disposte in un bellissimo ordine; e in somma il governo di milleduecento valenti uomini
821
stipendiati vita natural durante, al bisogno sufficienti a fare una galera al giorno, tutti di
coraggio e buona volontà, sempre fedeli al loro Principe e pronti a servirlo. (Rocco
Beneditti, Discours des triomphes et resiovissances faicts par la Serenissime Seigneurie
de Venise à l’entrée heureuse de Henry de Valois etc. Lione, 1574.)
L'arsenale di Venezia aveva, tra le altre positive particolarità, anche quella d’alcuni volti-
bacini, volti cioè dove le galere potevano restare in acqua pur essendo al coperto; ma ecco
una descrizione dell' insuperabile arsenale veneziano che ci ha lasciato il già citato Gasparo
Contarini e bisogna tener anche presente che si tratta delle condizioni in cui esso era già
nel 1525, cioè in un tempo ancora più medioevale che moderno:
... Nella guerra maritima, come dianzi dicemmo, armiamo le galee nostre in alcuni luoghi
dove gli huomini per poco premio vanno alla guerra per vogatori; e per combattere
prendiamo di quelli che per terra combattono, i quali avvenga che seco portino l'armi di che
hanno bisogno, nondimeno, perché quelle che si usano nelle guerre navali sono alquanto
diformi da quelle che si usano in terra, perciò la Republica nostra ne sta sempre
copiosamente proveduta [...] habbiamo ne la nostra Città uno luogo particulare, il quale noi
chiamiamo l'arsenale, dove le galere e altri navili con tutto l'altro apparato da guerra si
fabricano. É questo luogo cinto di mura intorno, ne vi si entra se non per una sola porta e
per il canale che mette dentro e manda fuora i navilij; è anchora si ampio e magnifico che a
gli entranti apparisce nel primo aspetto come un’altra città [...]
In questo arsenale sono distinte le munizioni l'una dall'altra e dove si fabrica una cosa e
dove un’altra. I luoghi dove si fabricano i navili son certi spazij - noi li chiamiamo ‘volti’ -
coperti con tetti che piovono l'acqua da destra e da sinistra (cioè sono spioventi); sono
tanto larghi e lunghi quanto richiede la grandezza di quel navile che vi si fabrica o che vi si
conserva. Sono distinti questi spazij in più ordini, de quali in alcuno ne sono più e in alcuno
meno secondo la lunghezza del luogo dove sono edificati. [...] (‘Ma occorrerebbe molto
tempo’) per veder tutti i navili che al coperto si conservano o di novo si fabricano, come
sono le galere, le fuste, i bregantini, le galee grosse, le quali servono alle mercanzie che si
portano e recano di Baruti, di Alessandria, di Barbaria e di Fiandra, ben che hoggi il viaggio
di Fiandra non è molto frequentato, due bucentori, che è una specie di navili la qual noi
usiamo in certe nostre solennità e nell'andar ad incontrar i Principi e Signori che vengono
nella nostra Città. Questi navili non però tutti sono in ordine, ma chi si fornisce, chi si
restaura; ma, quando il bisogno strignesse, sarebbe in breve tempo ogni cosa in ordine,
percioché non occorreria far altra provisione che multiplicare il numero de' lavoranti.
Sonvi, oltra questo, in luoghi separati le munizioni dell'arteglierie, dell'arme da difendere e
da offendere, de' timoni, dell'ancore, de' canapi, delle vele, de gli alberi. Sonvi ancora i
luoghi dove si lavorano le piastre per le corazze, dove si fanno i chiodi e altri ferramenti per
la fabrica de' navili.
Nella munizione dell'artiglierie trovai gran copia d'artigliaria minuta e grossa, come sono
moschette, falconetti, cannoni, mezzi, quarti, colubrine, sacri e simili, e del continuo si
gettava (‘si fondeva’) assai della nuova, convertendo in questo la materia molto vecchia che
all'uso presente della guerra non è più accommodata (che peccato!), si come erano molti
pezzi grossi che io vidi di quella sorte che si commette (cioè bocche da fuoco del secolo
precedente, fatte di pezzi che si connettono insieme), si come usavano gli antichi nostri.
Eravi ancora un numero grandissimo di artiglieria curta di ferro (‘petrieri’) che si usava in su
navili.
822
Nella munizione delle arme noi habbiamo da armare diecimila huomini ordinariamente e più,
se più fusse bisogno. L'armi da difendere sono celatoni, petti e corazze in tal modo che per
l'uso di terra ferma non sarebbeno utili; le armi da offendere sono schioppi, de quali ne vidi
un numero grande, tutti co’ i loro tinieri (‘casse di legno’) e bottacci (‘fiaschi per la polvere’),
ronche, partigiane, spiedi, spate da due mani, balestre, archi alla turchesca, ogni cosa con
grande ordine e apparato disposta. Io sarei troppo lungo se volessi narrarvi ogni
particularità minutamente... (Della repvblica et magistrati di Venetia libri cinque etc Pp. 347-
349)
Il Vecellio disegna e descriveva tra gli altri anche l’abito consueto usato dai capo-mastri
dell’arsenale di Venezia:
… capi delle maestranze, che in Venezia si chiamano ‘proti’, quasi che sieno i primi
d’ingegno e di valore fra gli altri della loro professione… Questi usano di portar a canto una
spada corta con fornimenti d’argento e sono molto fedeli al principe (doge) e servono
(anche) per guardia della Città: (C. Vecellio. Cit. P. 100v.)
In effetti i proti erano negli arsenali qualcosa in più di semplici capi di maestranze, in
quanto erano in quei secoli gli unici esperti di costruzioni navali, mentre per architetti
s’intendevano coloro che erano esperti di scienza delle costruzioni civili e militari e per
ingegnieri gli esperti in arti meccaniche (da ingegno, ‘macchina’, specie l’idrovora per
prosciugare le paludi e i bacini d’acqua in genere).
Andando ancora più indietro nel tempo e cioè al 1480, inizio dell’era moderna, meravigliata
appare anche la brevissima descrizione dell’arsenale di Venezia lasciataci dal pellegrino
Santo Brasca:
A quei tempi la Serenissima si serviva comunque anche di altri cantieri situati nei suoi
possedimenti oltremare, soprattutto a Creta; per esempio, nel 1498, avendosi notizia che i
turchi stavano per mettere in mare una nuova armata, i veneziani decisero di costruire 20
nuove galee:
… e perciò è stato deciso di armare 20 nuove galee; 6 in Candia (porto principale di Creta), 2
alla Canea (cioè nel porto cretese di Suda), 1 a Rethimo (altro porto cretese intermedio tra i
due precedenti), 2 a Corfù, 4 in Dalmazia e 6 in questa terra (Venezia)… (D. Malipiero, cit. P.
159.)
823
Dunque a Candia, oltre il denaro necessario, si inviano anche corpi, cioè arsili, ovverossia
scafi di galere (l. corpora galearum) grosse non più o non ancora corredati e armati per la
navigazione commerciale, cioè che per le loro dimensioni erano atti a far da trasporti di
mmateriali bellici e di cavalli:
(Venezia, 13 marzo 1496:) Questa mattina è zonto tre arsili con 360 Stradiothi (D. Malipiero,
Annali veneti etc. Cit. P 433).
La famosa discesa in Italia di Carlo VIII aveva fatto prendere alla Signoria di Venezia
l’abitudine di arruolare mercenari greci, soprattutto stradioti (‘cavalleria leggera’) ma
talvolta anche fanti, chiamati questi a Venezia zagadari.
Si facevano inoltre costruire altri arsili ‘alla destra e alla sinistra del golfo’ di Venezia, cioè
in Puglia e in Dalmazia, ma il Malipiero non specifica con precisione in quali porti; bisogna
però considerare che allora i veneziani nusavano considerare Puglia anche il Molise e
spesso persino l’Abruzzo.
Circa un secolo dopo il già da noi citato fiorentino Girolamo Bardi così scriverà:
… L'arsenale per la prima cosa si può chiamare vn picciol mondo, conciosia che circonda
quasi tre miglia con le muraglie; ha dentro tanti artefici di cose che è iinpossibile a
comprendere con la mente, se non si veggono con gl'occhi. Vi so bene io dir questo, ch'il
Marchese del Vasto, general dell'imperatore Carlo Quinto in Italia, essendovi entrato dentro
una mattina, vi stette fino alla sera e uscendone disse che harebbe più tosto voluto
l'arsenale in suo dominio che quattro città d'Italia (Cit. Pp. 53-54).
presentata al doge fa sapere anche a noi quale fosse allora il numero dei lavoratori
impiegati nell’arsenale:
… Ed, acciocché la Serenità Vostra sap(p)ia anco quello che dalla sua maestranza si può
promettere, le dicemo che una settimana per l’altra vengono pagati dalla Casa sua
dell’Arsenale mille e cinquecento tra marangoni, calaffai, remeri, alboranti e tagieri (sic;
taglieri?), non compresi i bastasi, del qual numero può esser sicuramente bat(t)uto di tara
(‘defalcato’) il terzo; nel qual terzo si comprendono vecchi, stroppiati, ciechi e putti, da
qualli poco anzi nessun servizio ella ne può ricevere per l’impossibilità loro, li quali pure
dalla benigna sua mano sono sov(v)enuti del soldo ordinario, avendo loro in servizio suo
consumato le loro vite. Dalli putti poco servizio ella riceve, ma pur ne può sperare, poiché si
vanno assuefacendo al lavoro e con il tempo potranno prestargli qualche servizio.
(Relazione del Provveditore sopra le cento galee etc. Cit.)
La grandezza ed efficienza del suo arsenale erano il principale motivo per cui Venezia
poteva disporre d’una armata di mare superiore a quella che poteva mettere insieme lo
stesso potentissimo re di Spagna, così come superava in fortezze confinarie la stessa
Francia; era invece la Serenissima debole per quanto riguarda la guerra campale e questa
debolezza le impedirà poi di opporsi adeguatamente all’invasione napoleonica.
La corona di Spagna disponeva di tre principali arsenali o mandracchi, cioè uno a
Barcellona, uno a Napoli e uno a Messina, oltre a quello dell'alleata Genova; ma si lavorava
di galere anche a Taranto, mentre a Palermo se ne inizierà la costruzione di uno per galere
degno di questo nome solo nel 1620, cioè sotto il vice regnato di Francesco di Castro duca
di Taurisano e conte di Castro (1616-1622), opera a cui forse questi si era convinto dopo la
visita fatta a Palermo dal già ricordato principe Emanuele Filiberto di Savoia gran priore
gerosolimitano di Castiglia, generalissimo del mare per il re di Spagna e, come sappiamo,
prossimo nuovo vicerè di Sicilia; costui, arrivato a Palermo il 12 luglio 1619 alla testa di 27
galere tra spagnole e toscane, vi si trattenne alcuni giorni prima di trasferirsi a Messina,
dove si stava costituendo una massa d’armata, unendosi infatti colà alle sue le galere
siciliane, napoletane, ecclesiastiche, genovesi, maltesi e le toscane del già ricordato
Montauto per un totale di ben 76, allo scopo di andare poi a tentare l’impresa di Susa in
Tunisia, in ciò coadiuvato dal suo luogotenente generale Carlo d’Oria duca di Tursi; infatti,
sbarcati proprio presso quella città, i cristiani furono però sconfitti e si dovettero
reimbarcare. Questo nuovo arsenale palermitano sarà terminato nel 1630 durante il
viceregnato di Francisco Fernández de la Cueva duca d’Alburquerque (1627-1632), come
sarà ricordato da una lapide di marmo posta su uno degli archi di questa costruzione, che
l’Auria definisce via via ‘maestosa’, ‘ammirabile’ e ‘sontuosa’ (V. Auria, op. Cit. Pp. 310 e
segg.).
825
Alla fine del Cinquecento il più recente, moderno e razionale a disposizione della corona di
Spagna era dunque ancora quello di Messina, il quale era ben funzionante già nel
tredicesimo secolo (Bartolomeo di Neocastro, cit. Capp. LXXVI, CX e altri); a tal proposito il
predetto autore descriveva l’attività che vi si svolgeva in occasione di un grande e sollecito
lavoro di rammendo della squadra di galere messinesi ordinato nel 1286 dall’ammiraglio
Roger de Lauria, lavoro che non s’arrestava nemmeno di notte:
La ricostruzione ex-novo del predetto arsenale di Messina era stata iniziata tra la fine del
1565 e l’inizio dell’anno successivo dal già più volte nominato vicerè Garcia de Toledo e poi
proseguita dai suoi successori, cioè dal presidente del regno il palermitano Carlo
d’Aragona e Tagliavia principe di Castel Vetrano, duca di Terranova e marchese d’Avola
(1567-1568), dal vicerè Francesco Fernando de Avalos de Aquino marchese di Pescara
(1568-1571), di nuovo dal predetto presidente Carlo d’Aragona (1571-1577) e dal marchese
di Briatico, il quale fu strategós di Messina e anch’egli presidente del regno, e fu reso così,
cosa che prima non era, atto anche alla costruzione di galeazze e galeoni come quello di
Napoli. Questo nuovo arsenale era un alto edificio rettangolare con il lato maggiore rivolto
verso il mare e diviso in tetti a volta individuali sostenuti da pilastri; ogni tetto copriva un
locale longitudinale distinto dagli altri e nel quale si costruiva o si raddobbava una galera,
in modo che ogni vascello in lavorazione avesse la sua zona, separata da quella degli altri,
anche se non chiusa da mura, e in modo che i materiali occorrenti non si confondessero
con quelli per le altre costruzioni; c'erano tre volti centrali più ampi in cui si costruivano le
galeazze e fuori dall'edificio, ai suoi due fianchi, c'erano due colonnati dove lavoravano i
remolari e gli alberari; all'esterno di questi c'erano ancora due piazze per la costruzione dei
galeoni, i quali, essendo troppo alti, si costruivano e si raddobbavano all'aperto; dai volti i
nuovi vascelli terminati sbucavano direttamente sull'antistante spiaggia dell'adarsena
[‘bacino interno’; ol. dok(kie), kom] e là si varavano, non esistendo nel Mediterraneo ancora
i bacini di carenaggio (fr. formes, bassins), risorsa che invece già nel Seicento vedremo
comune nei porti inglesi e presente anche a Rochefort in Francia. L’arsenale era circondato
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da mura fortificate costituite da cortine e da baluardi, proprio come quelle d’una fortezza, e
munite quindi anche di garitte per le sentinelle e d’una porta che dava nella città di Messina;
l’accesso dal mare si chiudeva, come in genere a tutti gli arsenali, con una catena tenuta a
fior d’acqua. Il giudizio che il già citato Federico Badoero (1557) aveva però al suo tempo
dato delle maestranze siciliane era stato negativo:
… Di galere (siciliane) non si è Sua Maestà sin qui servita di più di dodici, ma (l’isola) ne
potria fare sino a venti, havendo pegola, sevo, biscotto, marinarezza, ciurme e commodità
di legnami dalla Calabria e anco di maestri, i quali però sono poco intendenti e tutti pigri. (E.
Albéri. Cit. S. I, v. III, p. 269.)
Sulla complessiva inferiorità di questi arsenali ponentini rispetto a quello di Venezia così si
esprimeva il residente veneziano Matteo Zanne nel 1584:
... In Spagna vi è un solo arsenale, quello di Barcellona, dove non si fabricano più galee di
quelle che bastano per il consumo della squadra di Spagna; e una galea servirà sin dieci
anni. Son galee molto pesanti e lavorate grossamente, ma costano un terzo meno di quelle
che si fabricano altrove. In Genova vi è poco arsenale e così in Sicilia, ma in Napoli dicono
esservi buon apparecchio; ed è verissimo che il re e i suoi ministri stimano un tesoro
l'apparecchio d'armata così grande e ben ordinata che ha la nostra Republica nell'arsenale
e che a loro non basteria un’età a metterla insieme, non tanto per il valore quanto per le
difficoltà che si rappresentano a loro in tutte le cose. (Ib. S. I, v. V, P. 352-353.)
Se una galera poteva dunque durare una decina d’anni, 40 o anche 50 ne durava invece un
vascello tondo.
Sull'insufficienze dell'arsenaletto di Barcellona così già aveva anche letto nel 1573 un altro
residente veneziano di ritorno dalla Spagna, Leonardo Donato:
... Sono fabricate tutte queste galee di legname di Spagna nell'arsenaletto di Barcellona, ma
sono poi somministrate e servite della maggior parte de' lor guernimenti dagli (altri) Stati
d'Italia. Questo arsenaletto, il quale è assai mal provveduto non avendo né artiglieria né
sartiami fatti né deposito di legnami, consiste di ventiquattro volti di breccia benissimo
fabricati e posti in quattro classi, una dietro l'altra, sotto i quali si fabricano le galee, ed è
necessario, quando varar si voglia la quarta di esse posta nell'ultima classe de' vôlti, che le
tre prime poste dinanzi le abbian dato luogo. (Ib. S. I, v. VI, p. 395.)
Che l'arsenale partenopeo, ricostruito e ingrandito nei primi anni Ottanta sotto Filippo II e il
vicerè Pedro Giron duca d’Osuna (1582-1586), fosse più importante di quello di Barcellona è
confermato dal residente veneziano Girolamo Ramusio, di ritorno da Napoli nel 1597:
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... L'arsenale è di circuito d'un miglio con diciasette vôlti; quindici di questi capiscono
ognuno tre galee. Il capo dell'arsenale ha titolo di maggiordomo. Oltra di questo vi sono
quattro capi mastri; uno è il castellano (di Castel Nuovo)... (Ib. Appendice. P. 346.)
... Si lavora di galee in Napoli e a Taranto, dove ne furono due anni sono condotte cinque
fabricate in dieci anni in quell'arsenale; il quale adesso, con l'occasione delle galee
acquistate nella vittoria del '71 (Lepanto), da un certo viniziano bandito che ha presentato
un modello e che ha il carico principale di esso con scudi venti il mese, si va allargando,
serrandosi in esso tutta quella spiaggia che comincia dall'ultimo torrione del Castel Nuovo
verso la torre di S. Vincenzo, estendendosi verso S. Lucia sin dove arriverà appunto esso
arsenale; nel quale si veggono adesso 18 arsilacci vecchi, i quali sono in istato di potersene
sperar molto poco 'sì per essere allo scoperto ed esposti alle pioggie e al regurgitamento
del mare, come per esser alcuni di essi fatti transito (‘albergo’) alle genti che servono alla
fabrica de' volti dell'arsenale. Vi si fabrica da questo viniziano adesso una galeazza, la quale
sarà inferiore alle nostre, essendosi egli provato già di farne una della medesima grandezza,
che non gli riuscì. (Ib. S. II, v. V, Pp. 466-467.)
C’è qui da notare il termine arsili, nome veneziano che a Napoli non s’usava, preferendosi
nel Tirreno dire generalmente fusti per significare corpi di vascelli non corredati e disarmati,
condizione quest’ultima che allora significava soprattutto l’esser privi di remiganti, ma che,
come abbiamo già accennato, gli stessi veneziani davano generalmente solo ai nudi corpi
disarmati di galea grossa dei quali in gran numero correntemente si servivano come
trasporti di soldati (gr. ὀπλιταγωγά πλοῖα) e cavalli militari (gr. ἰππαγωγά πλοῖα), da
mandare per esempio in Morea, a Napoli di Romania, per imbarcarvi stratiótes, ossia
mercenari greci, ottimi soldati in ogni tempo, e sbarcarli all’isola di Lio (‘Lido’), da dove poi
si facevano generalmente proseguire per il Friuli a proteggere i confini della Serenissima
dalle incursioni turche:
Arsilii sono galie che sono state a’ viazi, zoè quelle nove tornate il decembrio passato. Et a
dì 6 april (1496) 6 arsilli fo’ mandati a cargar dicti stratioti… (M. Sanuto, Diarii. T. I, col. 30)
…
828
In questo zorno, a dì 11 (gennaio 1497), nel Consejo di Pregadi fo preso [om.] de condur
2.000 stratioti e mandar arsilii per i ditti in Levante e fono electi li patroni de dicti arsilii in
collegio e còmiti (ib. Col. 465).
...
Partì in questi giorni li arsilii, in tutto n.° 4 di Sora Porto, andati a tuor stratioti in Levante
[om.] E li duo primi arsili fo ordinato andasse a Taranto a levar alcuni cavalli dovea esser
comprati per la Signoria nostra in Reame e condurli de qui e uno a levar li cavali dil conte
Zorzi Zernovich (che) erano a Zara per numero 100 e tragetarli propinquo a Ravenna dove
esso conte si ritrovava; poi dovesseno andar a levar ditti stratioti (ib. Col. 534).
Qui si tratta di patroni e non si sovraccòmiti perché di scafi di galee grosse commerciali e
non di galee militari. Oppure si mandavano in Puglia a caricare corsieri, cioè cavalli da
guerra, animali di cui il regno di Napoli era tradizionale e famoso produttore, come ricorda il
Sanuto laddove descriveva il far terra bruciata di re Ferrandino d’Aragona prima
d’abbandonare Napoli all’invasore francese; egli infatti fece bruciare la sua prestigiosa
cavallerizza dopo aver regalato a suoi fedeli molti dei suoi cavalli:
… i qual corsieri di bellezza et bontà erano li primi de Italia et non si poteva dir altro che le
raze di corsieri di Napoli… (M. Sanuto, La spedizione di Carlo VIII etc. Cit. P. 229.)
… unde ditto Ferandino fece brusar el suo arsenal, dove erano molte galie non compide, et
tutto andò a foco et fiamma, che fo una terribilità a veder et gran compassione, et cussì
altre galie et arbatoze et una barza (che) erano in acqua; et fe’ brusar, di quattro nave
grosse erano nel molo, le tre, et era di botte 2.000 l’una… (ib.)
Risparmiò solo la nave ‘la Cappella’, anch’essa di 2.000 botti, per potersene servire; ma,
ritornando al 1580, diremo ancora che alla fabbrica delle galeazze napoletane furono
destinati i volti ubicati all'estremità destra dell'arsenale, cioè quelli verso il borgo di Chiaia,
come riferisce il Crescenzio. Com'era l'arsenale di Napoli prima che vi arrivasse il predetto
manager veneziano? Leggiamo a tal proposito anche dalla relazione sulla Spagna e i suoi
domini che il residente veneziano Leonardo Donato presentò e lesse al suo doge nel 1573:
... L'arsenale di Napoli fu veduto da me - alcuni anni sono - molto tenue, disconcertato,
dismunito di tutte le cose e, per dir il vero, indegno di così gran Città e nobil sito; il qual sito
e la qual città, dopo questo della Signoria Vostra non è inferiore a qualsivoglia altro d'Italia.
(E. Albéri. Cit. S. I, v. VI, p. 417.)
A questo proposito è comunque utile leggere soprattutto il de Capmany, laddove riporta,
tradotta in castigliano, la messa del primo chiodo alle chiglie di due nuove galere impostate
nell’arsenale di Barcellona il venerdì 21 dicembre 1423 (Ordenanzas etc. Cit. Ora pp. 24 e
829
25) e, per la cronaca, delle dette due nuove galere, le quali erano state battezzate una Santa
Maria e l’altra Santa Cruz, fu poi benedetto il varo la domenica 13 agosto dell’anno seguente
(ib.); ma, per tornare a Napoli, quanto, per il suddetto sostanziale ampliamento dell'arsenale
di Napoli, nel quale nel 1582, secondo il residente veneziano, lavoravano alla sola
cantieristica 400 persone, sia stato determinante il nuovo maggiordomo veneziano e quanto
invece lo siano stati i più recenti ordini reali che imponevano a quel cantiere la costruzione
di quattro galeazze simili alle veneziane, vascelli che d’altra parte a Napoli sino al secolo
precedente si erano correntemente costruiti, come dimostrano le cronache del regno
d’Alfonso d’Aragona; probabilmente le due circostanze agirono di conserva. Nel 1594 il
personale fisso dell’arsenale comprendeva 20 persone, tra cui le più in evidenza sono le
seguenti (R. Mantelli. Cit.):
Maggiordomo
Aiutante del predetto
Scrivano di razione
Munizioniero
Due portieri
Algozino
Guardiano dei legnami
Cappellano
Tre capi-mastri di galere e galeazze .
Anche se di un secolo più tardo, ecco un interessante Avviso di Napoli che da notizia della
messa in opera del primo chiodo alla costruzione di due nuove galere avvenuta a Napoli il
21 maggio 1696:
… Havendo Sua Eccellenza (il vicerè Luis de la Cerda duca di Medina Coeli, 1695-1702)
ordinata la fabbrica di due nuove galere, l’una delle quali per Capitana di questa squadra,
ieri in questo regio arsenale, coll’intervento dell’illustre monsignor di Vidania, cappellano
maggiore del Regno, si fece la funzione di benedire due aurati chiodi e Sua Eccellenza li
pose, com’è costume, a suo luogo. (Avvisi di Napoli. B:N:N:)
... anzi habbiamo noi visto a Napoli, quando si varò il primo galeone di quei che Pietro
Veglia, capitan raguseo, ha fatto per ordine di Sua Maestà Catholica, adoprar ogni gran
fatica per vararlo e all'ultimo bisognò colcarlo (‘coricarlo’) per metterlo in mare; ma in vero
830
si vidde poco ingegno in quel fatto, perché i lavori degli argani erano mal locati e non
lavoravano tutti a un tempo. (B. Crescenzio. Cit. P. 88.)
Non abbiamo infatti rinvenuto notizia della costruzione di galeoni nell’arsenale di Napoli
prima di questi anni della fine del Cinquecento e non sappiamo pertanto se, oltre a essere di
bandiera napoletana, era stato a Napoli anche costruito quello comandato dal marchese di
Santa Cruz che nel 1579 fu mandato in Spagna dall’allora vicerè di Napoli marchese de
Mondejar insieme a 11 altri vascelli che portavano provvisioni di guerra per la programmata
invasione del Portogallo, spedizione che poi, sempre in quell’anno, fu seguita da altre
maggiori. A proposito di questi convogli napoletani del 1579 dobbiamo precisare che esiste
nella Sezione Militare dell’Archivio di Stato di Napoli un corposo e prezioso dossier del
tempo, purtroppo, come tanti altri, non inventariato e quindi non saprei se ora più
rintracciabile, il quale contiene gli elenchi dei vascelli via via inviati, le merci e le armi
imbarcate e le relazioni autografe del capitano Miguel de Aguilar, il quale fu il supervisore di
tutte queste spedizioni; che, per quanto riguarda armamenti, corredi e provvisioni da bocca
e da guerra, come allora si diceva, le imprese militari della corona di Spagna dipendessero
sempre dalle produzioni dei suoi possedimenti italiani è cosa risaputa e, per esempio, così
s’esprimeva il già più volte citato Leonardo Donato (1573):
… Ma non debbo già pretermettere in questo luogo di dire che Sua Maestà (Filippo II), da
(‘eccetto’) alcune poche artiglierie in poi – e queste anche lavorate fuora del regno, non ha
in tutta la Spagna alcun deposito publico d’armi e d’altre munizioni da guerra […] Nella
guerra co’ mori (1569-1570) non si trovarono armi da dare in mano alle genti che lor
dovevano far resistenza, non corsaletti, non morioni, non archibugi né altre cose
necessarie, e bisognò aspettar d’Italia con difficoltà e lunghezza (di tempo) questo presidio,
con grande ammirazione (‘meraviglia’) di chi osservava allora que’ mancamenti… e il
medesimo mancamento ancora e nelle cose che appartengono all’armamento delle galee. Il
che io non so attribuire ad altro che a negligenza e a quella soret di mal considerata
confidenza nella grandezza delle forze proprie e nel poter sempre esser a tempo che
spessissime volte inganna i principi e quelli che li consigliano. (E. Albéri. Cit. S. I, v. VI, pp.
399-400.)
La verità stava forse nella congenità inidoneità degli spagnoli alle arti meccaniche e alle
industrie in genere, un popolo all’opposto molto portato alla guerra e alla navigazione,
attività in cui riusciva magnificamente per le sue grandi doti di disciplina e sopportazione
dei disagi.
Tanta era la buona fama dell'arsenale di Venezia che, quando il re di Polonia e granduca di
Lituania Sigismondo Augusto (1520-1572) volle procurarsi molti buono mastri per la
costruzione dell'armata che poi schierò contro il re di Danimarca, spedì a Venezia e in altri
831
principali porti italiani il suo gentiluomo di corte italiano Antonio degli Angeli perché
ingaggiasse il maggior numero possibile d’eccellenti maestranze italiane, offrendo a tutti
lauti stipendi e premi d'ingaggio, e infatti in breve tempo ebbe tutti i maestri di vascelli che
gli occorrevano.
Nella prima metà del Cinquecento apprezzatissime furono le galere costruite a Venezia
dall'ingegnier Vittorio Fausto, come ne scriveva Cristoforo da Canal:
... Io non posso per avventura recarvi miglior essempio innanzi che le galee di esso Fausto,
perché sono così ben fabricate che vengono con certa mirabil proporzione a poco a poco
mancando e restringendosi sino a terminare leggiadramente, di maniera che subbito
all'occhio di chi le mira dimostrano la loro velocità e pare che fuggano e che all'hora da sé
medesime siano per correre sulle onde, e questa sorte di galere noi 'tagliate' chiamiamo.
(Cit.)
Napoletani e genovesi facevano le galere allo stesso modo, cioè alte di poppa e di prua, e le
uniche differenze si notavano nell'opera viva, dove alcuni maestri preferivano farle reggenti,
altri gelose, come abbiamo già spiegato; i veneziani invece preferivano un garbo più basso
sia di prora che di poppa e questo era generalmente considerato il migliore dagli esperti del
tempo.
Quante maestranze s’ingaggiavano per la costruzione d'una galera o d’una galeazza?
Secondo quanto leggeva lo Jal nel codice quattrocentesco della Magliabechiana intitolo
Fabrica di galere, per costruirne una grossa del sexto de Fiandra, cioè una probabilmente di
bordo più alto di quelle dette invece del sexto de Romania, perché queste non dovevano
affrontare l’Oceano, ne occorrevano moltissime:
Forse a taluno potrà sembrare esagerato che si dovessero impiegare ben 2.800 persone per
costruire una sola galera, per grossa che fosse, ma noi la Fabrica di galere non abbiamo
purtroppo avuto l’opportunità di leggerla e lo Jal così inquadra la predetta citazione; era
comunque, allora come oggi, una questione di tempi, nel senso che, se per esempio si
voleva mettere in mare una nuova galera in soli due mesi invece che nei circa sei ordinari,
bisognava per forza affollare il cantiere di moltissime maestranze. Il tener di continuo molte
maestranze pagate nell'arsenale era per l’appunto il principale vantaggio di quello di
832
... Il male poi è prima in quanto appartiene al fabricare i legni, che non hanno maestri o
molto pochi, essendone nell'arsenale solamente ventiquattro fra marangoni, calafati e altri;
fra (i) quali persone di conto sono Reteppo, che è turco, il fratello di Giovan Bappa, che va
con le galee della Celsitudine Vostra, e messer Gioan Francesco Giustiniano, del quale
parlerò di poi; e, quando vogliono far lavorare assai, mandano a pigliar maestri a Scio e in
diversi altri luoghi. Ma nessun’altra cosa è di tanto benefizio in un arsenale quanto il tenere
di continuo gli uomini pagati, come tiene la Serenità Vostra. (E. Albéri. Cit. S. III,v. I, p. 17-
18.)
Il predetto Marco Minio riportava nel 1522 che l'enorme arsenale di Peràia aveva ben 114
volti, dato che sarà poi sostanzialmente confermato da Bernardo Navagero nel 1553 (113
volte), da Domenico Trevisano nel 1554 e da Daniele Barbarigo nel 1564:
... Nell'arsenale di Costantinopoli vi sono volti di pietra per galee centotredici e tredici
magazzini per legnami d'ogni sorta. Vi è poi un altro magazzino ove tengono li sartiami e
altre munizioni per le galee. (Ib. S. III, v. II, p. 34.)
L’unica voce leggermente discordante dalle predette è quella del già citato viaggiatore
francese Jacques Gassot, il quale infatti contò nell’arsenale di Peràia un numero inferiore di
volti, 92, e inoltre restò colpito dal gran numero di maestranze cristiane che vi lavoravano:
… c’è un gran numero di persone che vi lavorano tutti i giorni… e ci sono francesi,
veneziani, genovesi, spagnoli, siciliani, ungheresi, austriaci e di tutti i luoghi del mondo, i
quali si sono procacciati o per la presa di città e paesi che hanno soggiogato o sul mare
dalle galere, fuste, navi e vascelli che giornalmente essi prendono. (Cit.)
Nonostante queste dimensioni, il suddetto Navagero riferiva che al suo tempo tale arsenale
aveva un solo architetto navale da dare il sesto, ossia che sapesse dare il garbo o forma a
tutte le nuove galere, e dal quale dipendevano gli altri maestri salariati, i quali erano però
solo tre o quattro; si trattava d’un greco di Rodi, certo Michele Benetto detto Mandolo da
Rodi e ritenuto un ottimo maestro. Insomma, mentre nell'arsenale di Venezia si lavorava
tutto l'anno, in quello principale dei turchi si usavano quasi esclusivamente maestranze
stagionali in occasione di doversi preparare l'armata di quell'anno. Nella sua relazione del
1560 però il bailo Marino Cavalli darà sull'arsenale di Peràia un giudizio del tutto contrario,
833
ascrivendo a pregio ciò che i suoi predecessori avevano invece considerato difetto e
viceversa:
... Hanno (i turchi) pure boschi assai, ma, o per mal governo o perché non vi siano uomini a
bastanza buoni a questo nell'arsenale, non vi si trovano mai sufficienti munizioni di legnami
e quel che è di questo è ancora delle pegole, delle vele e degli alberi. Di tutto il resto son
serviti dalle maestranze con assai più vantaggio di Vostra Serenità, perché, quando
vogliono alcuna cosa, presto mettono maestri nuovi, così marangoni come calafati delle
loro isole che lavorano a navilij privati, e (li) fanno lavorare da un’ora avanti dì sino ad
un’ora di notte e, finito il bisogno, li cassano e stanno sull'ordinario di centocinquanta
persone in circa; e li nostri, anche quando non bisognano, lavorano tutti e, quando bisogna,
non essendo le galere in essere, vogliono guadagnare un ducato al dì, lavorando sopra di
sé (forse ‘oltre l’orario ordinario’), e li lavori sono pessimi e la spesa grandissima. (E. Albéri,
Cit. S. III, v. I, pp. 291-292.)
E' questa per la verità l'unica volta che abbiamo letto di 'pessimi lavori' nell'arsenale di
Venezia! Dalle relazioni diplomatiche del 1573 redatte da Marc'Antonio Barbaro, Andrea
Badoero e Costantino Garzoni risultavano ai turchi quattro arsenali e cioè quello di Peràia,
situato sulla sponda asiatica di Costantinopoli e che aveva 133 volti (o volte), quello di
Gallipoli con 20 volti, quello di Suez con 25 e quello di Bassora con 15. Essi usavano
chiudere ogni volta dalla parte di terra con un magazzino nel quale si conservavano tutti i
corredi necessari alla galera che vi era custodita; a Peràia c'erano però allora 10 volte
completamente serrate e in cui si tenevano i legnami, i ferramenti e tutti gli altri materiali
necessari ai lavori di raddobbo o di costruzione. Nell'arsenale di Suez si conservava la
squadra del Mar Rosso, solitamente di 25 galere, e in quello di Bassora la squadra del Golfo
Persico, la quale intendeva contro la navigazione portoghese; mentre gli arsenali di Peràia e
di Gallipoli dipendevano dal kapudan pasha, degli altri due avevano carico i pasha del Cairo
e di Bassora. I dati predetti sono sostanzialmente confermati da un’anonima relazione
veneziana sulle forze di terra e di mare del sultano Amurat III scritta nel 1575:
... In quanto all'armata marittima, si trova il Gran Turco in essere trecento galee e legni
minori, li quali si tengono nell'arsenale di Pera, nel quale sono centoquarantacinque volte, e
in venti di esse volte, che sono serrate, si tengono li legnami, remi, ferramenti e altre cose
necessarie per lavorare; e quelle galee che non si possono tenere nelle volte si tengono in
mare allo scoperto. Ha appresso venti maone e circa cinquanta palandrie...
Il Capitan di Mare ha il governo dell'arsenale di Pera e di Gallipoli, di sei sangiaccati, cioè di
Metelino, Rodi, Scio, Lepanto, Negroponto e Prévesa. In Gallipoli è un altro arsenale di venti
volte; al Suez è un altro arsenale per tener le galere per il Mar Rosso, le quali solevano esse
venticinque, ma, perché sono la maggior parte rovinate, si sono mandati legnami per farne
delle altre. Vicino vi è il quarto arsenale, nel quale sono ventuno galere per servirsi nel Mar
Rosso contro Portoghesi. (Ib. S. III, v. II, p. 314.)
834
I quali portoghesi da parte loro, per difendere la loro navigazione mercantile in quei mari,
avevano una squadra di galere nell’Oceano indiano con base a Macao, squadra ancora
esistente nel 1686. L'ultimo capoverso è molto impreciso, trattandosi, come già sappiamo,
dell'arsenale di Bassora nel Golfo Persico.
L’arsenale di Gallipoli, la cui costruzione era stata iniziata verso il 1520, anno in cui moriva
il sultano Selim I, il quale aveva regnato solo otto anni, e il 30 settembre saliva al trono il
figlio Sulaiman II, aveva nel 1522 otto volti e altri in costruzione, come leggeva in quell'anno
al suo senato il bailo Marco Minio; inoltre, a quanto riferiva nel 1526 il bailo Pietro
Bragadino, i turchi costruivano agevolmente galere anche a Nicomedia e le trasferivano poi
a Costantinopoli per corredarle e infatti nel 1557 degli arsenali del Gran Turco così scriveva
il bailo Antonio Erizzo:
... Ha (il Gran Turco) un arsenale non molto grande, ma più commodo che bello, essendo a
marina, di 120 volti da galera e per ogni volto vi può anco stare ogni altra sorte di navilio, il
quale commodamente può esser messo in mare essendo, come ho detto, li volti a marina
tutti. In questo suo arsenale vi lavorano ordinariamente 200 persone e sono la maggior
parte christiani, ma lavorano con alcune mannare e ascie 'sì piccole che pochissimo lavoro
fanno il giorno; che, se lavorassero con queste mannare e ascie grandi e altri ferri, come
fanno li nostri qui, fariano tanto lavoro che saria gran cosa a dire; ma piaccia a Dio che non
conoscano questo beneficio per minor male de' christiani! (Ib. Pp.151-152.)
... Insomma si può commodamente ponere in acqua 130 galee e, se ha bisogno di qualche
galea da esser fatta di nuovo, fa tagliare li legnami e allora (‘immediatamente’) li mette in
opera; non (li) fanno governare né sasonare (‘stagionare’, da cui l’in. to season) come
835
facciamo noi, ma così verdi come sono condotti dal bosco li lavorano e mettono in opera, e
molte volte nell'istesso bosco ove tagliano li legnami construiscono le galee; dal che
procede che universalmente tutte le loro galee ne sono (‘ne riescono’) gravi e non durano
più d'un anno o poco più e, quando vengono a disarmare, è una pietà vederle derelitte e
rovinate; e, se ne mandano fuora 100, non ne restano venti buone per l'anno venturo. (Ib. P.
152.)
Secondo la relazione letta nel 1562 dal vice-bailo Andrea Dandolo ogni volto dell'arsenale di
Peràia conteneva due galere:
... Quanto all'armata, (il Gran Turco) ha nel suo arsenale cento e venti volti, ciascuno de'
quali è capace di due galee, e sono quasi tutti pieni parte di compite e parte d'imperfette,
per quanto ho potuto con diligenza vedere; senza (eccezion fatta di) trenta in quaranta legni
quali di continuo tengonsi in acqua perché non possono capire al coperto in terra; e questa
armata è oltre le (in più ci sono le galere delle) guardie ordinarie di Rodi e di Alessandria.
(Ib. P. 164.)
... Hanno modo di fornirsi - e presto - di ferramenta, pegola, vele, sartiami, gomone, ancore
e artiglierie nel loro paese, anzi dentro lo stretto e nel Mar Maggiore; remi n'hanno in ordine
per galee centoventi e quanto altro è sopradetto, oltra le venti galee che fanno far del
legname che fu tagliato dal Signor Aliportuc nel Mar Maggiore e le quali fabricano nel luogo
istesso [...] Hanno legname tagliato nel Mar Maggiore e in Grecia per altre dieci galee e ne
fanno tagliar dell'altro per farlo condur in arsenale per fabricarne altre trenta... (Ib. S. III, v, II,
pp. 34-35.)
Il bailo Marc'Antonio Tiepolo nel 1576 minimizzerà l'importanza della cantieristica turca e
ciò è psicologicamente comprensibile se si tien conto dell'ormai ben radicato effetto
Lepanto:
... Ha il Signor Turco in diversi paesi alcuni luoghi con nome d'arsenale, ma ognuno è di
poco valore, perché quello di Gallipoli non ha luogo per più che per venti galee. Ha la Suez,
sopra il Mar Rosso, un altro arsenale; un altro a Bassora sopra il Seno Persico per navigar
nell'oceano e guerreggiare contra de' portoghesi; ma tutti sono di minima importanza. Solo
è stimabile quello che è in Pera all'incontro di Costantinopoli, perché è grande e perché è
commodo non solo al fabricar le galee, ma al poter mandar l'armata in quella parte de'
christiani che più al Gran Signore piace... (Ib. P. 145.)
Il Tiepolo però, pur svalutando la realtà di quegli arsenali, non ne nascondeva però la
grande potenzialità ai senatori e al doge di Venezia:
... Non stia in dubbio la Serenità Vostra e le Signorie Vostre Eccellentissime se può il Gran
Signore fabricar maggior numero di galee, perché ho già detto non mancar ne' suoi paesi -
e nel Mar Maggiore massimamente, dove molte volte ha fatto fabricar galee - legnami quanti
vuole, né ferro in grandissima copia, il quale, per via della Valacchia per il più, vien
836
Nello stesso 1576 l'ambasciatore Jacopo Soranzo così aggiungeva a proposito della voglia
di rivincita dei turchi:
... Ha il Signor Turco due suoi confidenti che gli stanno continuamente accanto, de' quali si
serve in saper tutto quello che si faccia nel suo stato e particolarmente come viene
amministrata la giustizia; uno de' quali gli ricorda continuamente che non si deve
sopportare in modo alcuno l'essere stati rotti in battaglia navale da' christiani e sempre lo
esorta alla vendetta di quella ingiuria. (Ib. P. 198.)
Bisognava tener però conto d’una circostanza che in quegli anni non si era ancora delineata
chiaramente e cioè che dopo la rotta di Lepanto (1571), affidatosi il generalato del mare al
rinnegato calabrese Uluch-Alì, uomo esperto, infaticabile e scrupoloso, costui stava
portando l'arsenale di Peràia a vivere una stagione d’alta produttività, sul che ci siamo già a
sufficienza diffusi in un precedente capitolo e quindi, a proposito dell'attivismo di
quest'uomo, ci limiteremo a citare ancora brevemente il Tiepolo:
... Comanda adunque il Gran Signore ai 'rais', quando vuole armare, che siano nell'arsenale
a sollecitare l'acconciamento o la fabrica di nuova galea, entrandovi e standovi tutti i giorni
il capitano del mare Uluccialì, il quale, diligentissimo e severissimo, col bastone fa volare
ognuno al suo uffizio, sicché supera spesse volte con questo difficoltà quasi insuperabili.
(Ib. P. 148.)
D'altra parte quanto fosse importante l'arsenale di Peràia per la potenza marittima turca,
nonostante quel che ne pensava il Tiepolo, è chiaro da quanto a tal proposito scriveva
l'ambasciatore Jacopo Soranzo nella sua predetta relazione dello stesso 1576:
... Passando alle (forze) marittime, per non parlar confusamente di questa milizia tanto
importante, racconterò prima il suo principio, ossia il fonte d'onde procede, che altro non è
che l'arsenale. In questo ha il Gran Signore dugento galee sottili del tutto fornite
(‘corredate’) e all'ordine e venti maone compite. Vi è poi di legname tagliato tanto che basta
a fornire altre cinquanta galee sottili e altre venti maone.
Ha conveniente numero di ogni sorte di maestranze che lavorano in detto arsenale, tra le
quali vi sono molti christiani rinnegati, valenti nella loro arte. É poi onestamente fornito
d'armi e d'ogni sorte di monizioni d'artiglierie per tante prese sui christiani e per tanti
metalli che del continuo da' luoghi christiani vengono portati in Turchia. Ha per il servizio di
837
dette galere uomini in abbondanza, i quali, se ben non sono compitamente buoni al servizio
del comandare, sono almeno atti a servire mediocremente.
Aggrandiscono anco assai la sua armata le galee, galeotte e fuste de' corsari, tutti i quali
hanno per obligo di seguitar l'armata del Gran Signore, e questi per l'ordinario sono buoni
legni, benissimo armati con uomini assegnati e valorosi; pertanto il numero delle sue
armate è sempre grande. (Ib. Pp. 197-198.)
A proposito dell'importanza della componente barbaresca dell'armata ottomana già si era
espresso nel 1557 il bailo veneziano Antonio Erizzo:
... Il Signor (sultano), oltra questo numero di galee, si serve anco di buona quantità di
galee, galeotte e fuste delli leventi, le quali sono per il vero le migliori che vadano con le sue
armate, essendo tutte piene d'uomini che sono maestri della professione. (Ib. . III, v. III, pp.
129-130.)
Tale professionalità, fornita a bassissimo costo dalla moltitudine di schiavi cristiani che
incessantemente si sbarcavano ad Algeri e negli altri porti barbareschi, è vividamente
descritta dal de Haedo impiegata ad Algeri nei lavori portuali e d’arsenale:
… In questa folla, gli uni scaricano a forza di braccia o sulle loro spalle, le pesanti travi e gli
assoni che essi hanno tagliato tra le montagne di Cherchell o di Gegari (‘Djidjelli’), più
lontano dei segantini di lungo lavorano da mattina a sera, degli artigiani d’ogni tipo, dei
carpentieri piallano e levigano i legni; altrove se ne vedranno di più abili costruire ogni
sorta d’imbarcazione, mettere tutto il loro zelo a lavorare per altri, ad alberare dei vascelli e
a prepararne il corredo; dei calafati che non cessano di raddobbare e d’incatramare i
navigli; dei fabbri che producono ferramenta, dei fabbricanti di rame lavorano
ininterrottamente; poi ci sono dei bottai, dei velai, altri ancora che scolpiscono le poppe
delle galere e delle galeotte, alano le galere a terra, le mettono in acqua, le attrezzano,
fondono la pece e la resina, caricano i battelli, imbarcano munizioni, puliscono i navigli, li
spazzano, li strofinano, li ormeggiano fortemente con delle grosse gomene, collocano i
pennoni, dispongono i cordami e le antenne, poiché a tutti questi lavori sono
esclusivamente adibiti i prigionieri cristiani. Più lontano ce ne sono altri che fabbricano
senza sosta spade e schioppetti, palle da frombola, archi e frecce, che polverizzano i
materiali per la fabbricazione della polvere, che torcono il cotone per fare delle micce da
fuoco, che fondono della grossa artiglieria di bronzo e di ferro, che fabbricano palle di ferro
forgiato e di piombo, tutti quanti senza prendersi mai un momento di riposo… Poiché, se ad
Algeri venissero a mancare artigiani cristiani, non ci sarebbero più né galere né galeotte né
corsari né ladroni che solcassero il mare… (D. de Haedo. Cit.)
Negli anni Sessanta del secolo gli algerini chiamavano tutti gli schiavi cristiani Martín in
ricordo di uno di loro particolarmente importante e cioè di Martín de Córdova y de Velasco,
conte di Alcaudete e governatore militare d’Orano, generale a capo di felici campagne in
Barbaria, ma infine sconfitto e ucciso dai turco-barbareschi a Mostaganem nel 1558, mentre
un ventennio più tardi, come narra il de Haedo, li chiameranno Juan. Circa 10 anni più tardi
della predetta relazione del Soranzo le maestranze cristiane rinnegate di Peràia di cui egli
838
riferiva e di cui già quasi un secolo prima aveva scritto il Sanuto, laddove accennava a 700
marangoni e calafati forestieri chiamati nel 1494 dal Gran Turco a preparare la sua armata,
erano divenute ormai un grosso problema per Venezia; si trattava infatti soprattutto di
fuorusciti candioti, i quali, banditi dalle autorità veneziane di Candia per reati commessi, si
andavano a stabilire, come abbiamo già ricordato, a Costantinopoli, dove guadagnavano un
ottimo salario impiegandosi nell'arsenale di Peràia. Il danno era dunque doppio in quanto,
oltre a portare al servizio dei turchi la loro razionale capacità di lavoro meccanico, questi
fuorusciti informavano il nemico delle notevoli carenze delle tanto temute fortezze
veneziane di Candia; il che poteva certamente invogliare il Divano a rompere il trattato di
pace e tentare d'assalire quell'isola e in generale i possedimenti veneziani nell'Egeo; su
questo problema si diffonde il bailo Gian Francesco Morosini nella sua relazione del 1585:
... Riceve anco la Serenità Vostra danno notabile con permettere che di Candia vada a
Costantinopoli, senza alcun ordine o regola, tanta gente come va e specialmente di banditi,
li quali, come mal sodisfatti, desiderano o procurano sempre il male di quell'isola; onde
saria molto a proposito ritrovarsi qualche rimedio. Perché, se bene sono state con singolar
prudenza fatte diverse provvisioni dall'eccellentissimo procurator Foscarini, che molto ben
conosceva l'importanza di questo fatto, e specialmente che alli banditi di quel regno (di
Candia) fosse riservato sempre un luogo (nella stessa isola) dove potessero abitare, a fine
che non vadano a vivere nel paese de' turchi, tuttavia pare che, per zelo della giustizia,
venga questo luogo alle volte talmente ristretto che, non potendo il bandito - essendo forse
(‘nel caso’) povero - trovar modo in quello da sostentarsi e guadagnar il vivere, gli conviene,
per non morir dalla fame, uscir dal paese. E di questi ne sono tanti a Costantinopoli che loro
soli, si può dire, fanno una gran parte della maestranza dell'arsenale del Turco; e quello che
è anco peggio, questi vanno disseminando le imperfezioni delle fortezze, la debolezza del
presidio e la strettezza delle munizioni e de' viveri; dicono anco che i popoli (di Candia)
sono molto desiderosi di mutar governo, perché non sono meno tiranneggiati di quello che
fossero li cipriotti, affermando che pochi grandi e ricchi sono quelli che tengono soffocati i
popoli, i quali per questo rispetto sono ridotti quasi tutti in disperazione. (E. Albéri. Cit. S.
III, v. III, pp. 315-316.)
Mentre i marangoni erano, come si può capire, lavoratori molto professionali e apprezzati, i
calafati non avevavo buona fama ed infatti per esempio a Chioggia, dove erano chiamati
palamagi perché inchiodavano usando un maglio simile appunto a quello del già allora
antico gioco legionario romano della pallamaglio (oggi hockey), palamagio era sinonimo di
‘zuccone, testa di legno, uomo poco intelligente’ (Giorgio Zennaro, Dizionario etimologico
del dialetto chioggiotto. Chioggia, 2017).
Che gli ottomani avessero in quel periodo gran bisogno di uomini sia da lavoro sia da
guerra è confermato anche da altri ragguagli, per esempio da questo della fine del 1585:
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Ha il Turco in quefta guerra di Persia perduto seicentomila persone oltre quelle che l'anno
passato ono morte di peste in Constantinopoli; ha perdute le genti da consiglio & da
comando […] per che, dovendo l'Ucchialy, quefto Settembre passato, passar'in Mar Negro
con ventidue galere, levò per armarle ogni sorte di gente inutili per età, per complessione e
molti greci ancora furono tolti con violenza… (Discorso dello stato presente del Turco ecc.
In Tesoro politico etc. Cit. T. I, pp. 97-98.)
L'anno seguente 1586 una relazione letta in senato da Maffeo Venerio delinea quella che ha
tutta l’apparenza di essere una crisi dell'arsenale di Peràia, crisi dovuta indubbiamente
appunto al periodo denso di difficoltà che Costantinopoli andava allora attraversando a
causa del succitato notevole dissanguamento umano e finanziario che era sino ad allora
costata la lunga, difficile e poco lusinghiera guerra che sin dal 1577 i turchi stavano
conducendo contro la Persia:
... Perché, sapendo noi che l'arsenale di Costantinopoli è tutto sfornito di galee e non vi
essendo là il legname da poterne fabricare, non si ha da dubitare che in Costantinopoli
proprio si potesse fare armata e massimamente in un subito. Quelle galee poi che si
potessero fare a Trebisonda, ove il 'Turco' può facilmente avere del legname, avrebbono
due grandi opposizioni; l'una che li vascelli fatti di legname allora tagliato dalli boschi
escono (‘riescono’) innavigabili e l'altra che in quelle marine il 'Turco' non le potrebbe
armare, non potendo dall'Asia cavar uomini da remo se non qualcuno verso Ponente nelle
parti di Natolia; ma tutto lo sforzo de' galeotti o è di schiavi di Costantinopoli o di Barberia o
de' villani di Europa. (S. III, v. II, pp. 300-301.)
Un ragguaglio sulle forze turche di quel periodo è tra le relazioni raccolte da tal Fabrizio
Romanci e pubblicate in tre tomi e in diversi luoghi attorno al 1600, nello stesso si conferma
la difficoltà di trovare remiganti a sufficienza che incontrava la Gran Porta:
… non potendo (gli ottomani) dell'Asia cauare huomini da Remo, se non qualch'uno verso
Ponente nelle parti di Natolia; ma tutto lo sforzo de’ galeotti o sono de’ schiavi di
Costantinopoli & di Barbaria o de’ villani di Europa (Accademia Italiana di Colonia, Thesoro
politico, cioè relationi, Inftruttioni, trattati, discorsi varij di ambasciatori etc. P. 102. Colonia,
1598.)
Insomma, le tanto potenti forze di mare ottomane in realtà erano perlopiù spinte da remieri
cristiani, pur se schiavi, e condotte, come già sappiamo, da uomini, sia di comando che di
capo, anch’essi cristiani, pur se rinnegati.
La summenzionata missione di Uluch-Ali nel Mar Nero, compiuta nel settembre del 1585, è
l’ultima sua impresa della quale ci sia rimasta notizia; è comunque effettivamente in quegli
anni che egli si ritirò dalla scena della storia. Gli successe nell’operatività bellica un altro
rinnegato italiano e cioè il veneziano Hassan Pasha, il quale, vuoi anche per la sua precaria
salute che di lì a qualche anno lo porterà alla morte, non seppe essere all'altezza del suo
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... Si come avanza il Signor Turco nell'ordinario apparecchio delle milizie terrestri li altri
principi, così li supera ancora nelle provvisioni necessarie per le marittime; pel bisogno
delle quali v'è un arsenale fabricato per mezzo Costantinopoli sul porto, appresso il luogo
di Pera (nome pre-turco di Galatà), tutto aperto dalla parte del mare e, da quella di terra,
circondato di piccole e deboli muraglie; e, se bene poco si lavora in esso per l'ordinario, la
spesa però è molto considerabile, trattenendovisi un gran numero d'uomini di diversi
ordini, poi che, oltre i padroni di galea, chiamati 'rais', che ascendono al numero di 360, vi
sono più di 3.000 'asapi', che servono sopra le galee per uffiziali e per altro, e poi circa 4.000
bombardieri e quasi altri tanti armaruoli e intorno a 600 che dimandano 'calafagi', che, per
l'etimologia del vocabolo, pare che da principio siano stati istituiti per calafatare le galee,
ma, adesso che non servono a questo, si può quasi dire che siano come giannizzeri
dell'arsenale, facendo in esso la guardia e godendo altre preminenze con la licenza del
vivere come i giannizzeri del Gran Signore, dal quale tutti questi sono eletti ed
ordinariamente trattenuti [...]
Appresso questi si ritrovano - con paga molto maggiore - una gran quantità di ministri
necessarij per la gran moltiplicità de' carichi in tanta macchina quanta è quell'arsenale, oltra
molti che, prestando qualche piccolo servizio sono intrattenuti in esso più per darli modo di
vivere che per bisogno che si abbia dell'opera loro, come prova la Serenità Vostra nel suo
proprio arsenale; ma per la grande avarizia del Re, che non vuole somministrar il danaro
necessario, oltra che si ritardano alcuna volta le paghe di questi, che però (‘perciò’)
mormorano assai e si mostrano più insolenti con tutti, è quell'arsenale - con la grazia del
Signore Dio e per commodo di questo Serenissimo Dominio (di Venezia) - grandemente
sprovvisto di molte cose necessarie... (Ib. S. III, v. III, pp. 347-348.)
I rais, come si è già detto in altro capitolo citando lo stesso Moro, pensavano in quegli anni
solo a prender la loro paga e a darsi al peculato a più non posso, così trascurando i vascelli
loro affidati:
... senza aver alcun riguardo al pulimento delle galee, che, malissimo tenute da essi, per
poco tempo si conservano bene; se pur meritano questo nome né anche quando sono fatte
di nuovo, essendo per il più fabricate da maestri poco atti e che si servono di legname
verde come più pronto e che è più facile da mettersi in opera, per la poca cura di chi ne ha
la soprintendenza, che sono i medesimi 'rais' a cui sono assegnate le galee che si
fabricano; i quali, quando occorre, sono mandati a quest'effetto in molte parti del Mar
Maggiore dov'è grande abondanza d'ogni sorta di legname e quei 'cadì' pagano a spese del
Re tutti gli operarij e le maestranze, che sono condotte da luogo a luogo secondo
l'occasione e il bisogno. Del resto consegnano al 'rais' certa quantità limitata di ferramenta,
pece, canape, sartiame e altro, il quale (rais), volendo convertire in proprio uso la maggior
quantità che può, attende a far il suo profitto senza aver alcun pensiero al servizio del Gran
Signore, bastandogli di condurre in Costantinopoli la galea, qual ella si sia.
A ciò si aggiunge che, trovandosi nell'arsenale soli 136 volti, capaci quasi tutti d'una sola
galea, il sopra più sta di necessità o allo scoperto in terra, dove se ne possono
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accommodar circa quaranta, ovvero in mare, consumate tutte dalla pioggia e dall'aria e
queste ancora dall'acqua.
Si fabricano delle galee anche nell'arsenale, ma poche per la difficoltà di condurre il
legname, che per il più si fa venir da diversi luoghi del Mare Maggiore nella quantità che
ricerca il bisogno [...]
Ma quello che più importa e che merita essere grandemente stimato (è che) possono - come
ho detto - quando più vogliono, somministrando, il danaro necessario, fabricar queste galee
come ogni altra sorte di vascelli, perciocché si come hanno pronto il legname e la
maestranza così non manca loro alcuna altra cosa, venendo per via del Mare Maggiore ferro
in abondanza, principalmente dalla Valacchia, rame da Trebisonda e da altri luoghi per
qualsivoglia numero di artiglierie, canapi per armeggi d'ogni sorte da diversi luoghi oltre
quei di Alessandria, di dove vien ancora gran quantità di canovacci per tende e altro; tele
per far vele dalla Natolia, senza quelle di altra sorte che sono portate da Marsiglia o che si
fanno nel proprio paese... (Ib. Pp. 349-351.)
Il Moro dice dunque i volti di Peràia capaci di contenere una sola galera ciascuno, mentre,
come si ricorderà, 28 anni prima il Dandolo li aveva detti capaci di due galere; poiché le
galere ordinarie turche, pur passando nel frattempo alla voga di scaloccio, non erano certo
diventate sostanzialmente più lunghe, possiamo solo pensare o che il Dandolo si fosse
sbagliato o che questa riduzione di capacità sia stata forse dovuta alla realizzazione nei
volti dei magazzini descritti nelle predette relazioni del 1573.
Anche il Moro ribadisce l'importanza delle maestranze cristiane perché a Peràia si
mantenesse d’un minimo d'efficienza:
... e, quando (i turchi) vogliono usar qualche maggior diligenza, fanno venir a suo piacere i
maestri non pur da tutti i luoghi vicini, ma anco da diverse isole dell'Arcipelago per aiutar le
maestranze proprie dell'arsenale, che tutti si può quasi dire che siano schiavi christiani,
travagliando in esso pochi greci del paese e non ordinariamente, ma secondo la occasione,
con aspri dieci il giorno di pagamento, che sono appunto soldi sedici de' nostri, supplendo
per l'ordinario bisogno gli schiavi della professione, che, da pochi in fuora del Re che
servono senza alcuna recognizione (‘ricompensa’), apportano a' suoi padroni l'istesso
beneficio d'aspri dieci il giorno. E si come questi, molto stimati per la loro gran arte, con
gran difficoltà sono messi in libertà, come accade anche alli schiavi che sono marinari
periti, de' quali i turchi hanno alle volte bisogno per guidar le armate, così agli altri è levata
quella facilità che i miseri avevano per il passato di riscattarsi, tenendosi più a conto
adesso che sono scemati assai di numero; perché di 15.000 e più che solevano essere in
Costantinopoli e sopra le galee delle guardie, adesso, per quanto ho potuto penetrare per
diverse vie con qualche fondamento, non arrivano a 3.000, de' quali 500 sono del Re, più di
1.000 del Capitan del Mare, il resto de' bassà o d'altri particolari (‘privati’); 'sì come, de'
20.000 e più che solevano essere in Barberia, forse che adesso non arrivano alla metà. (Ib.
P. 350.)
Morto anche Hassan Pasha, dopo qualche tempo dal suo decesso fu nominato capitano
generale del mare un terzo rinnegato italiano e cioè il predetto Cicala, il quale fu dunque a
capo dell'armata di mare ottomana proprio in quel periodo di fine secolo in cui quella si
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avviava a una irreversibile decadenza. Della cantieristica militare turca in quegli anni così
scriveva e leggeva ai senatori in Pregadi il bailo Lorenzo Bernardo nel 1592:
... La maestranza per la fabrica delle galee consiste in Costantinopoli ordinariamente nelli
schiavi del Gran Signore e del Capitano del Mare, quali solevano esser maestranze di due e
tremila almeno, ma ora non sono altri che quelli del Gran Signore al numero di cinquecento
al più, perché il Capitano del Mare non ne ha. Nelli estraordinarij bisogni sono poi chiamati
li greci di Costantinopoli e quelli dell'Arcipelago, fra li quali vi concorrono molti candiotti
con nostra grandissima indegnità; è certo che è necessario che quelli illustrissimi signori di
Candia facciano qualche gagliarda provvisione e che diasi qualche auttorità al bailo, che -
con qualche promessa di trattenimento - faccia ritornare nell'isola quelli marangoni che si
trattengono in Costantinopoli. (Ib. S. III, v. II, Pp. 335-336.)
Sul problema delle maestranze greche native delle isole soggette alla repubblica di Venezia
e che, ciò nonostante, accettavano numerose e volentieri d’andare a lavorare nell'arsenale
di Peràia ci siamo già diffusi più indietro; ma leggiamo ancora il Bernardo:
... Ordinariamente nell'arsenale non si sogliono fabricar galee, salvo qualche galea bastarda
per li Bascià o per il Capitano del Mare; ma le galee così sottili come grosse, che i turchi
chiamano 'maone', ordinariamente si sogliono fabricare in diversi luoghi 'sì del Mar Negro
come nel golfo di Nicomedia, dove i turchi si servono delle proprie maestranze di quei
paesi, che mai mancano; onde, come le maestranze degli schiavi ogni giorno vanno
grandemente mancando, come dal tempo del mio bailaggio in qua ritrovo esser
grandemente mancate, così quelle maestranze di marina si può tener per certo che
all'incontro si vadano augumentando... (Ib. P. 336.)
La circostanza che gli schiavi cristiani che lavoravano a Peràia si erano ultimamente tanto
ridotti di numero e che, per sopperire a tale carenza, si doveva provvedere a ingaggiare più
maestranze locali negli altri arsenali dimostra che l'armata di mare ottomana non era più
tanto attiva nel dannificare le marine cristiane del Mediterraneo e quindi non faceva più tanti
schiavi, limitandosi forse ora Costantinopoli a comprarne nei mercati d’Algeri e di Barbaria
in genere.
... Di corpi di galee e galeazze e altri vascelli da mare si può con verità dire che quella
Maestà ne possieda maggior apparato di alcun altro principe del mondo; (n)e in questo
particolare, da una volta all'altra che sono stato a quella Porta (‘Corte’), ho veduto grande
alterazione.
Nell'arsenale di Costantinopoli si trova il Gran Signore sotto li volti, a una per volto, galee
centodiciannove sottili e due maone e in acqua quaranta in cinquanta sottili più o meno, si
come vanno e vengono, ma di queste al sicuro si può batter (‘dichiarare’) il terzo per
innavigabili e marcie, talché resteriano in arsenale un cento e dieci galee sottili buone da
navigare. Vi sono poi le galee delle guardie al numero di ventidue e quelle di Barbaria che si
possono contar per trenta, talché in tutto il Gran Signore potria al presente metter insieme
da (‘circa’) centosessantaquattro galee sottili.
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Si trovano nell'arsenale di Costantinopoli (‘Gallipoli’?) dodici volti con dodici galee sottili,
delle quali - per l'informazione che io ho - due sole sono buone e le altre tutte innavigabili.
Nel Mar Nero ha il Gran Signore tredici luoghi per fabricar le galee, parte in Asia e parte in
Europa, nelli quali fu comandato già (da) un anno che si fabricasse (‘fabbricassero’)
centosessanta 'fra galee e maone. Nell'Arcipelago anche sono due luoghi principali nelli
quali sono state ordinate venti galee e nel Golfo di Venezia (‘Mar Adriatico’) dieci. Talché in
tutto potria metter insieme al presente il Gran Signore galee sottili centosessantaquattro e
altre dieci o quindici al più che sono in buon stato delle comandate; talché in tutto sariano
centottanta ed otto ovver dieci maone.
Restano circa centosettanta galee sottili a finirsi, delle quali parte sono cominciate e parte
appena hanno segnati li luoghi dove si devono fabricare; per il qual ordine fu fatto l'anno
passato tanto strepito, furono espediti centocinquanta 'rais' deputati 'chiaussi' (‘messi’) che
si credeva certo che si dovessero fabricar tutte in un anno, ma per il mancamento de' denari
questi disegni ed ordini non hanno potuto avere essecuzione.
Palandarie, cioè passa-cavalli, galioni e caramussi di particolari persone ne ha quell'impero
tanta quantità che ben spesso nel porto di Costantinopoli ne ho io contato dugento e
trecento, senza quelli di tali legni che ordinariamente vanno e vengono in quella Città. Li
galioni possono esser 12, vascelli bellissimi per ogni fazione, e sono quasi tutti di sultani, di
Bascià e delli grandi di quella Porta, li quali per la loro autorità li mantengono provvisti
d'armezzi, di legnami e di ferramenti a spese dell'arsenale del Gran Signore, il quale non è
dubbio che nelle sue galee e nel suo arsenale venga rubato più che principe altro del
mondo; onde, se alle volte le Signorie Loro intendono tanta e tanta roba che entra in esso
arsenale, Le faccino sempre conto che la metà venga per diverse vie rubata e appena l'altra
metà vada in servizio del Gran Signore.
Se i turchi fabricano sempre gran numero di galee, sappiasi però anco certo che il consumo
loro è grandissimo perché le tengono l'inverno e l'estate alla pioggia e al sole e in acqua,
non avendo volti che per centoventi di esse, e però (‘perciò’) molte ne vanno a fondo od in
altro modo vanno a male. La fabrica anco di esse è di pessima qualità perché turchi non
osservano ordine di luna nel tagliar li legnami, ma in ogni tempo li tagliano, mettendo in
opera il legname verde, e dove vanno due chiodi ne mettono uno; né assestano bene le
parti e non vi mettono quella quantità di pegola che si ricerca, talché poco da poi che le
hanno condotte dal Mar nero a Costantinopoli vanno a fondo. In maniera che io non credo
che il Gran Signore con tutti questi strepiti, se non fa usar maggior diligenza e non mette
mano a' denari del suo 'caznà' (‘tesoro reale’), possa metter insieme più di dugento galee,
con tutto che l'apparato si sia divulgato maggiore.
É vero e non si può negare che la potenza loro al fabricare galee non sia grandissima e la
facilità maggiore, poiché solo basta che il Turco si lasci intendere di voler far fabricare e
spendere che subito centocinquanta e più 'rais' corrono a pregare di aver loro il carico di
fabricarle. Se gli danno quattrocento scudi per uno per la spesa della maestranza, un
comando per aver venti uomini da quelle ville circonvicine, un comando perché taglino e
conducano a' luoghi li legnami, stoppa, chiodi, pegola che è limitata per una galea e che li
può bastare e un proto (‘architetto’) per fabricarla. Parte il 'rais', fa tagliar il legname che
non solo gli faccia una galea, ma anche un caramusso; esenta dieci uomini delli venti a
ducati venti per uno e fa far la fazione di venti alli soli dieci che gli sono restati; fa far la
galea con ogni celerità, non curando sia bene o mal fatta, per avanzar delli quattrocento
scudi quanto più può; risparmia la metà della stoppa, chiodi e pegola e conduce la galea a
casa sua, carica di legname da opera e da bruciare, talché ha fatta la galea con suo molto
avantaggio e utilità. Ma questa galea, subito che sente il sole, si apre e va a fondo alle rive
dell'arsenale, onde è necessario far altrettanta spesa per riedificarla, e però (‘perciò’) ho
detto con verità che per diverse vie la metà delle robe dell'arsenale vengono rubate.
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Ma non solo ha facilità quel Gran Signore a fabricar li corpi delle galee, ma maggior ancora
in fornirle de' suoi corredi e cose necessarie per armarli, poiché, se in un giorno solo
espedirà 'ciaussi' (‘messi reali’) nelli luoghi che io nominerò, in un istesso tempo averà la
provisione fatta di ogni cosa nel suo arsenale:
da Alessandria, polvere.
Da Samacò, ferramenta d'ogni sorte.
Da Sanson in Scizia, canapi e gomme.
Da Metelino e Vallona, pegola e catrame.
Da Valacchia e Bogdania, sevi.
Dalle Smirne, fustagni.
Da Morea, tele e stoppa.
Dal Golfo di Nicomedia, remi.
Da Chitro e Smitri, alberi.
E finalmente dal Volo in Morea avrà la provisione pronta de' biscotti per ogni impresa da
mare.
Ecco come in un dì può essere in ordine di tutte le cose necessarie quell'arsenale, onde
non dobbiamo dormire né mai fidarci, perché la potenza nemica è grande e facile da ridursi
all'atto. E sia sicura Vostra Serenità che, se al Gran Signore non fossero tanto rubate le
provisioni che di tempo in tempo da lui vengono fatte per quell'arsenale, basteriano per
armar cinquecento galee, dove che al presente non vi sono arredi che ne potessero armare
a pena cinquanta. (Ib. Pp. 339-342.)
Della generale decadenza soprattutto qualitativa della cantieristica militare turca tratta
anche il bailo Matteo Zanne nella sua relazione del 1594:
... Le forze da mare del Signor Turco, ancorché non siano di gran lunga tante quanto quelle
da terra, non di meno corrisponderiano in gran parte alla loro grandezza quando Dio
permettesse che fossero rette drittamente e con buon giudizio come quelle della Serenità
Vostra e d'altri principi; pur tali come sono, difficilmente possono essere bilanciate dalle
forze marittime di un solo principe, anche il maggiore della Christianità, onde per
opporsegli è necessaria la collegazione. E la esperienza della guerra passata ha mostrato
che si possono battere le forze marittime de' turchi, ma non estinguerle, per la facilità che
hanno di rimettere l'armata, essendo grandissima la loro prontezza in fabricar galee; perché
in Costantinopoli fanno propriamente le bastarde di fanò (‘galere di comando’) e
nell'Arcipelago hanno diversi squeri, come anco dentro li castelli a Gallipoli e alle Camare,
ma molti nel Mar nero situati a' piedi de' boschi con gran commodità di legnami e d'altre
cose necessarie, fuorché di ferramente, delle quali si provvedono a Costantinopoli.
Ogni 'rais' è destinato ad assistere alla fabrica di quella galea che, armando, gli ha da esse
designata, e li proti e parte delle maestranze sono mandate da Costantinopoli e altre sono
del paese dove fabricano gran copia di caramussali, tutti commessi con pironi di legno in
difetto di ferramenta, e, sempre che il danaro corra, non mancano maestranze.
Ma la invenzione che ritrovò Sinan (il Cicala, v.s.), ora Generale, e assan Bassà, già
Capitano del Mare, di fare una quantità di corpi di galee a spese delli ministri di giustizia e di
governo di tutto l'imperio da un canto fu sottilissima e dall'altro fu pregiudiciale non alli
ministri, ma alli popoli sopra li quali cade la gravezza, se ben contra l'intenzione di chi
l'ordinò: ed è essa tanto maggiore quanto che ciascuna galea, come fabricata di danari
comuni, costa per quattro rispetto alli rubbamenti; ma, non essendo il danaro pronto, vi
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mettono lunghezza di tempo, onde la fattura che doveva essere fatta in un anno non sarà
manco finita in cinque, forse perché sono mancati li autori, cioè Sinan già dimesso e Assan
morto. (Ib. S. III, v. III, pp. 399-400.)
Lo Zanne entra ora nel merito delle grandi pecche qualitative della cantieristica militare
turca del suo tempo:
... Tutte le galee turchesche sono grandiose e di bel sesto (‘forma’), ma migliori a vele che a
remi, per altro fragili e poco durabili, perché non hanno il necessario di ferramenta e vi si
adopera il legname mal stagionato e tagliato fuora di tempo, onde si può dargli nome di
belle galee, ma non buone né durabili, e quelle del Mar nero particolarmente pera che
vadano in generale alla mazza (‘demolizione’, allora fatta a colpi di mazza ferrata) prima che
abbiano navigato, forse per esser fabricate di danari ingiustamente tolti alla misera gente,
onde è permission di Dio che le galee rovinino presto; e, se saranno armate con la
medesima provisione, sarà da sperare ancora maggior detrimento.
A tener in acconcio li volti dell'arsenale, che sono circa 125, coperti semplicemente di
legnami e tegoli, con un piccolo magazzino per uno da riporvi gli apprestamenti di ciascuna
galea, non si mette cura, onde non ve ne è alcuno che non faccia acqua e che le goccie (di
pioggia) non mandino a perdere molte navi; e per questo ne furono ultimamente disfatte
quaranta in una volta e la maggior parte non avevano navigato. Ora sotto li volti vi possono
essere ottanta galee e forse cento in acqua e, quando tutte fossero provviste di armezzi,
che ora non lo sono per la metà, si potrebbono armar per un bisogno e per far numero, ma
molte patirebbono a passar un golfo, altre a tirar l'artiglieria e alcune riuscirebbero anco
innavigabili; onde, il primo anno che i turchi vorranno far grossa armata, sarà difettosa
tanto per i corpi quanto per l'armamento.
A queste 180 galee che si trovano nell'arsenale di Costantinopoli se n’aggiungeranno
cinquanta che si aspettavano dal Mar Nero e altre cinquanta furono ordinate, ma senza
prescrizione di tempo, quando si mandarono alla mazza le quaranta sopra dette; 12 ne sono
in Gallipoli, dieci alle Camare e alquante altre alli squeri dell'Arcipelago, onde non
mancheriano corpi quando fossero governati né mancheriano remi, alberi, antenne né altro
legname e così pegola, catrame e cose tali quando non fossero rubate e mal menate; ma
hanno carestia di ferramenta e di armezzi, massime di gomene e sartiami di canepa,
usandosi comunemente di erba dalli vascelli turcheschi. Né manco abbondano di vele, se
ben in fine provvedono a tutto da' proprij stati, che sono tanti e così grandi che quello che
manca in uno è supplito copiosamente dagli altri, dandosi da per tutto buoni ordini con
comandamenti regij portati da 'ciaùsi' (‘messi’), i quali sono eseguiti in quanto il danaro sia
pronto, lo che avviene di rado. (Ib. Pp. 400-401.)
I predetti ciaùsi o meglio chiaùsi erano messaggeri a cavallo (l. portitores equitantes)
militarizzati della Corte di Costantinopoli e probabilmente da questo nome è derivato quello
italiano di chiusso, usato in proto-italiano per 'zagaglia’, arma questa infatti tipica della
cavalleria ottomana; ma proseguiamo nella lettura dello Zanne:
... Sopra tutto, dico, mancano di armezzi, il bisogno de' quali è tanto maggiore quanto più,
per esservene carestia, vengono insidiati; né d'altro abbonda l'arsenale che di palamenti
(‘remi’) e il Capitano generale, ad imitazione delle galee christiane, ha ordinato che le pale
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alla galozza siano più larghe che non solevano, lo che risulta a pregiudizio delle ciurme, le
quali durano tanto maggior fatica.
Degli apprestamenti più necessarij è dunque l'arsenale vuoto, oltre il rispetto suddetto, per
essersi introdotto da non molti anni che li 'bassà', le sultane e tutte le persone di condizione
si diano ad un trattenimento riputato onorevole, quello cioè di avere ciascuno qualche
vascello grosso che navighi sotto il suo nome in Alessandria e altrove; perché questi, nel
fabricarli, si valgono delle maestranze e salariati dell'arsenale, che gli sono piuttosto
permessi che concessi, e nell'armarli usano della roba del Re e della medesima li
mantengono; perché li turchi usano tra pari - non che con superiori - portarsi grandissimo
rispetto, di modo che li ministri principali dell'arsenale più tosto offeriscono così fatte
commodità di quel che aspettare che gli siano ricercate e, sotto questo pretesto, si
approfittano quanto vogliono. E il Capitano Cicala, che conosce il disordine, non ardisce
mettervi mano, essendovi interessata tutta la Porta, e il Re lo sa e lo comporta, essendogli
mostrato che gli torna di riputazione e di commodità aver una ventina di galeoni - oltre le
occasioni di guerra - di portata di 1.500 botti, che per l'ordinario navigano in Alessandria e
assicurano i pellegrini della Mecca da' corsari christiani e di là riportano vettovaglie, come
zuccari e risi, de' quali in serraglio e fuora vi è grandissimo consumo. Ora, sin che non si
rimuova questa introduzione, io spero (‘credo’) che l'arsenale di Costantinopoli non potrà
mai ammassar armezzi di gran lunga corrispondenti a' corpi di galee e però (‘perciò’), se
bene il Re volesse tra danari a sufficienza fuora dal 'casnà', a fatica potrà cavar
estraordinariamente di arsenale - in una volta il primo anno d'armata - più di cento galee
senza grande sforzo; dico rispetto a questi armezzi e apprestamenti... (Ib. Pp. 401-402.)
Lo Zanne prosegue poi affermando che il Sultano non trovava invece difficoltà a fornire le
sue galere di ciurme, data la vastità del suo impero, ma questo è argomento che abbiamo
già trattato.
Quali erano i legni mediterranei più adatti alle costruzioni navali? Secondo l'unanime
giudizio di tutti, in primo luogo c’era quello che si tagliava sul monte Santo Angelo di
Puglia, in secondo quello dell'Appennino in generale. Per la costruzione dell'opera viva
erano molto adatti la farnia e l'ischio, per essere legni leggeri e resistenti all'acqua, ma
migliori ancora erano il rovere o quercia, legno forte che nell'acqua più d'ogni altro si
conservava e che era particolarmente usato a Venezia, e inoltre il platano, il quale
sott'acqua diventava sempre più duro e omogeneo, e di quest'ultimo legno i turchi usavano
costruire i loro passa-cavalli e caramuzzali; insuperabile era poi il cedro, legno adattissimo
per le costruzioni navali perché incorruttibile e pressoché immortale, sempre indenne dalla
bruma è (…Comme il est amer et, que les vers aiment les choses douces, ils ne l’ataquent
pas. In An. Dictionnaire militaire portatif etc. T. I, p. 379. Parigi, 1758.) Per la costruzione
dell'opere morte e dei tavolati (gra. σανίδωματα; grb. σανιδώματα) del ponte di coperta e di
quello interno posto sulla sentina andavano invece bene legnami meno pregiati, quali
l'olmo, l'abete rosso, usato questo molto a Venezia, e inoltre il faggio, il pino e il pioppo,
perché, essendo leggeri, non tanto aggravavano il corpo del vascello, il quale, restando
così meno appesantito, si manovrava certamente meglio. Si facevano infine d'abete o di
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pino gli alberi e le antenne, di faggio i remi, di noce la poppa, le pulegge e i mazzapreti,
questi ultimi cosiddetti proprio perché, essendo di bosso, cioè di legno duro e pesante, non
infrequentemente avevano, cadendo, accoppato inesperti cappellani di bordo che si
trattenevano in coperta! A quest’ultimo proposito è indicativo l’incidente capitato nel 1480
sul ponte della galea grossa di Augustino Contarino, la quale portava una novantina di
pellegrini in Terrasanta, tra i quali due vescovi e Santo Brasca:
… prosequendo al nostro camino circa 24 hore, fecemo scala a Corzula, cità de la
Schiavonia, la quale è ab opposito del paese de’ ragusei; e quivi, calando la vela grande, li
marinari lassorno transcorrere le sartie e l’anthena caschoe con tanta celerità e impeto che
le dicte sartie gettavano fuocho e amazoe uno de li balestreri che insieme con li altri
coglieva la vela; unde siano cauti tuti queli che fano dicto, quando se calano o se voltano le
vele e se gittano le anchore, de redurse in popa o in altro luocho securo, adciò non
gl’intervengha lo simile. (A. L. Momigliano Lepschy. Cit.)
Sì perché non so se abbiamo già detto che le galee grosse da mercato veneziane
viaggiavano con una guarnizione di balestrieri a loro difesa; fino al 1397 tra costoro i
patroni ne avevano potuto nominare tre giovani nobili, ai quali il Senato di Venezia offriva
così un’opportunità di salario quando non ci fosse per loro disponibilità di altri incarichi, e
prendevano lo stesso soldo degli altri. Con decreto del 14 giugno di quell’anno, furono
aumentati a quattro, mentre una nota della Momigliano Lepschy al testo qui citato c’informa
che invece, con altro decreto del 1414, si stabiliva che in ogni galea non militare dovessero
esserci 20 balestrieri, di cui solo due nobili; non ci spiega però questa autrice se tale
deliberazione riguardasse solo le galee grosse commerciali (vn. galie al trafego o galie dil
trafego) o anche quelle – biremi, triremi o grosse - adibite al trasporto dei pellegrini. Che
interesse avessero i patroni di quei vascelli a richiedere detti balestrieri nobili non
sappiamo; forse questi ‘compravano’ dai patroni quel loro ingaggio.
L’impiego di balestriere a bordo della galea grossa commerciale era molto ambito dai
giovani veneziani privi di sufficienti sostanze perché si trattava in pratica, come oggi
diremmo, di un ‘impiego fisso’, cioè di un beneficio ordinariamente irrevocabile; per fare un
esempio, nel 1477, essendo tra gli altri morto all’assedio di Croia In Albania un Francesco
Contarini, evidentemente ufficiale generale, la Serenissima si preoccupò dell’avvenire dei
suoi familiari ed ecco il relativo brano che abbiamo tradotto dal bel veneziano
rinascimentale di Domenico Malipiero:
Il 19 di settembre è stato deciso di dare alla moglie e i figlioli di Francesco Contarini, morto
sotto Croia, 150 ducati all'anno dai denari (della tassa) sul sale; alle figlie, se vorranno
maritarsi, 1.000 ducati; se vorranno monacarsi, 300 per una; ai figlioli una balestreria per
uno a quel viaggio che loro piacerà [A' 19 de Settembrio è stà preso de dar a la moglie e a'
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fioli de Francesco Contarini, morlo sotto Croia, 150 ducati all'anno dei danari del sal; a le
fie, se le vorà maridarse, 1,000 ducati; se le vorà munegar, 300 per una; e a fioli una
balestraria per un, a quel viazo che ghe piaserà (Annali veneti etc. Cit. Parte prima, p. 116)].
I figli avrebbero quindi potuto anche scegliersi il ‘viaggio’, cioè la linea di navigazione tra
quelle tradizionali che percorrevano le galee commerciali veneziane.
Ma, tornando all’incidente avvenuto a bordo della suddetta galera Contarina, esso si
ripeterà purtroppo molto presto nel corso di quello stesso viaggio e, per ironia della sorte,
ci rimetterà la vita lo stesso còmito, l’uomo cioè che sarebbe dovuto essere il più esperto e
prudente della galera:
… Al Baffo, pur in Cipro, si sorgete per tagliare ligne per la cusina e per cogliere savorna
per la sintina, videlicet pietre e sabione. E, volendo calare la vella, intervenete uno
medesimo caso che fece a Corzula, videlicet che li proveri e altri officiali de la galea
lassorno stracorre le sarte e l’anthena cascoe con tanta furia che amazone el nostro còmito
de la galea, el quale aveva fama d’esser così bon marinaro quanto se trovasse e così per la
morte sua patissemo disconzi assai (‘sopportammo assai disagi’). (Ib.)
Nulla di più facile che quest’ultimo incidente fosse stato dai proeri magari programmato ad
arte, per liberarsi d’un còmito troppo severo e pretenzioso!
Un legno da non prendere assolutamente in considerazione per nessuna opera né nautica
né di alcun altro genere era quello di fico; infatti in greco c’era il detto συϰίνη ναῦς (‘nave di
legno di fico’) per dire che una cosa era del tutto inutile. In ogni caso il legname da
costruzioni navali doveva essere ben stagionato, perché quello verde, ossia ancora fresco e
umido, marciva in fretta sott'acqua, si sdruciva e si disconnetteva tra tavola e tavola, per cui
i vascelli fatti di tal legno - come abbiamo già visto nel caso delle galere turche - facevano
sempre acqua ed erano quindi pericolosi specie nelle burrasche. Questo errore d'usare
legname troppo fresco, il quale oltre tutto rendeva i vascelli pesanti e lentissimi, fu fatto nel
1572 dal sultano Selim II, quando fece ricostruire l'armata perduta l'anno prima a Lepanto;
infatti, comandati di riformare in gran fretta una numerosa armata di mare e timorosi di
discutere gli ordini del loro sovrano, i maestri turchi usarono legname verde dell'Anatolia,
unico allora disponibile in grandi quantità, e il risultato fu che quelle galere si dimostrarono
presto troppo gravi, pigri e poco manovriere in battaglia e, aggiungendosi a questo difetto
anche la necessità di dover ricostituirne gli equipaggi e le guarnizioni militari con genti
collettizie e inesperte, come scrisse il Sereno (cit. P. 321), il loro nuovo, ma espertissimo e
astuto generale Uluch-Alì si vide costretto a rifiutare più volte la battaglia che l'armata
cristiana gli veniva offrendo e facendo perdere all'impero ottomano forse l'ultima occasione
storica di perpetuare il suo vecchio predominio sul Mediterraneo orientale.
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... come s'è veduto nelle galee S. Giorgio e S. Barbara, compre (‘comprate’) dalla Santità di
Sisto Quinto da' maestri che l'hanno fabricate, che in meno di cinque anni non son state più
buone. Per il contrario le galee di S. Francesco e S. Lucia, che egli hebbe dalla Signoria di
Genova, fatte da quei Signori con gran diligenza, son per durar gran tempo; si come la
Pisana e Felice fatte a Pisa per ordine del Serenissimo Gran Duca. (B. Crescenzio. Cit. P. 6.)
Il Crescenzio non dice dove erano state costruite le due galere mal riuscite, perché
evidentemente non gli conveniva provocare dei malumori e farsi dei nemici; a proposito
delle galere pontificie aggiunge poi quanto segue:
... Percioché delle galee sottili di Nostra Signoria (il Papa) la Felice, che ora serve per
'Patrona', comporta più vela che non fa la Santa Lucia, essendo l'una più salda in mare e più
reggente di proda e l'altra troppo gelosa e che facilmente pende alle bande e poco peso in
proda la soffonda. (Ib.Pp. 45-46.)
I veneziani, avendo grandi esigenze di alberi e legname per il loro famoso arsenale,
proteggevano moltissimo i loro boschi, ma anche gli stati italiani non marittimi lo facevano
perché si trattava di materiali importantissimi in ogni tipo di costruzione; per esempio, in
un’istruzione milanese data al capitaneo (‘responsabile’) del parco ((lo stesso che varco,
‘ingresso a luogo recintato’, quindi per sin. ‘recinto’) di Pavia in data 1 giugno 1473, con la
quale si preannunciava un taglio di alberi per una necessità di legname, si raccomandava di
sorvegliare che non si tagliasse più dello stretto necessario:
… bisognaranno alcuni ligni da opera, quali siamo contenti lassi tuore nelli boschi de quello
nostro parco […] havendo advertentia ad farli tuore ove daranno manco danno et ad
lassarne tuore quanto bisognarà et non più… (Carlo Morbio, Codice visconteo-sforzesco
etc. P. 416. Milano, 1846.)
In una successiva del 5 gennaio 1475 si scrive al potestà di Galiate (oggi ‘Galliate’) per
avvisarlo che gli si stanno mandando due squadre di balestrieri a cavallo (l. equitantes) e
che le stesse devono essere alloggiate in casa dei villani che hanno osato tagliare alberi del
bosco ducale e ciò evidentemente a titolo di severa punizione; poche cose erano infatti
allora temute dalle popolazioni come il dover provvedere all’alloggio e al sostentamento di
soldatesche anche per brevi periodi:
Potestati Galiate. -
850
Mandamo lì Covello, capo de' squadra de' nostri balestrieri da cavallo, cum squadre doe
balestrieri, quali volemo tu lozi in casa de quelli villani, che hanno tagliato el bosco, che che
tu say, facendoli fare le spexe da essi villani, et a loro et alli cavalli, donec te scriveremo
altro in contrario. Dat. Mediolani, die 5 Ianuarij MCCCCLXXV. Gabr. (ib. P. 433.)
Per quanto riguarda le ferramenta usate per tenere insieme il legname, il ferro più
apprezzato e quindi più costoso in Olanda, paese il più rinomato per le costruzioni navali,
era quello detto di Orgron, ma non sappiamo quale località s’intendesse con questo nome;
al secondo posto in qualità erano considerati in Europa quelli di Danzica e Spagna, sebbene
quest’ultimo fosse troppo dolce e debole perché lo si potesse adoperare da solo in certi
lavori, come per esempio la fabbricazione delle ancore, dove infatti se n’usava di solito solo
un po’ in lega con una maggioranza di ferro meno pregiato; in terzo luogo era apprezzato il
ferro di Liegi, quello svedese di Göteborg e infine quello che si traeva a Stoccolma. Il ferro
svedese era considerato il migliore per farne chiodame e i chiodi fatti in Olanda con ferro
svedese erano i più apprezzati, specie per fissarne il fasciame di contrabbordo, di cui tra
breve diremo, venendo al secondo posto quelli fatti in grande quantità a Liegi;
generalmente nella fabbricazione dei chiodi un quinto del peso del ferro grezzo andava
perduto. Ovviamente più piccolo era il bastimento da costruire, più incideva il costo delle
ferramenta; l’Olanda era comunque il paese che n’usava di meno, preferendo in molti casi i
cavicchi di legno. Nell’antichità c’era stato in Europa qualche genere di piccolo naviglio
fatto di assi non inchiodati ma legati ed annodati con funi di lino e sparto, per esempio
quelli chiamati serilla, tipici dell’Istria e della Liburnia (Sesto Pompeo Festo, cit. P. 509).
Molto importante era ovviamente anche la qualità della pegola o pece navale (fr. bray; brai,
zopissa, rase, poix navale; ol. pik, pek, teer) che si usava per calafatare; si trattava d’una
composizione di gomma o di resina e d’altre materie viscose, insomma d’una materia
grassa, dura, secca, la quale, se arrivava nerastra, perché mescolata alla fuliggine della
combustione del legno di pino da cui era stata tratta, non si definiva vera e propria pece
navale, bensì solo semplice pece e aveva in definitiva un aspetto molto simile a quello della
colle d’Angleterre, collante allora molto apprezzato. I calafati facevano fondere i pani di
questa pegola in apposite pentole di ferro (fr. pots-à-brai; ol. pek-potten) fino a render tal
materia cremosa e l’applicavano poi sugli strati di stoppa o di muschio con cui riempivano i
comenti delle tavole di legno; tale applicazione avveniva a mezzo di lanate di pelli pecorine
come quelle dell’artiglieria oppure di grossi pennelli fatti d’agglomerati di stoppa (fr. penes),
di lana, di pelo di maiale o di simili materiali [fr. guispons, pènes; ol. (smeer-)quasten;
smeer-quasjen, dr(e)umen, dromen] e inastati su appositi bastoni (fr. bâtons à vadel,
manches de guipon). Quando ci si trovava in cantiere o comunque quando il vascello era in
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secco, si riscaldavano i comenti riempiti di nuova stoppa prima di coprirli di pegola e ciò i
calafati facevano usando fastelli di rami d’abete accesi e immanicati con bastoni di legno
(fr. donner le feu à un bâtiment; chaufer un vaisseau).
La resina (fr. rase; ol. hars, hersch, harpuis), di cui la predetta pece navale era quindi un
derivato, si traeva dal pino - molto apprezzato a tal fine quello che ricopriva i monti della
Sila cosentina, dal quale anche si cavava una trementina di qualità superiore - e inoltre
dall’abete, dal larice, dal cipresso, dal terebinto o d’ancora altri alberi e si vendeva
generalmente non cruda, ma secca (fr. poix résine), cioè cotta in grossissimi pani pesanti
dalle 120 alle 180 libre; quella migliore e più costosa aveva una consistenza cerosa e
consistente, era di grana fina e trasparente, odorosa, di color giallo-chiaro tendente al
bianco e appunto dal suo colore si giudicava la sua bontà; essa doveva inoltre presentarsi
non bruciata dalla originaria lavorazione né mescolata a sporcizia o ad acqua e non doveva
contenere feccia (fr. rache; ol. dros); particolarmente apprezzate nei cantieri oceanici erano
quelle di Stoccolma e della Moscovia, le quali giungevano in particolari botti molto strette,
ma quella considerata la migliore di tutte per la sua particolare bontà era la resina francese
detta di Weybourg, la quale nel Seicento i cantieri olandesi soprattutto preferiranno e
useranno, importandola marcata con una W coronata e racchiusa in barili di quercia; molto
usate, ma più correnti, erano poi le resine di Danzica e di Bayonne.
Cotta con solfo, la resina - come del resto pure la predetta pece navale - diventava non solo
più bianca, ma soprattutto più atta a resistere all’azione dei parassiti del legno, anche se
ovviamente tale presenza doveva rendere il vascello molto più incendiabile; cotta, specie se
con del nero-fumo, la resina diventava una nera vernice catramosa [fr. go(u)(l)dron,
gaudron, goudran, huitran, tare; ol. teer], la quale serviva, oltre che per calafatare, appunto
anche per rivestirne e tingerne (gra. πιττόειν, πισσόειν; grb. πιττεῖν, πισσεῖν; fr. noircir; ol.
schilderen) il fasciame esterno dell’opera morta, ossia dalla linea di galleggiamento in su, e
poi gli alberi, le verghe e i cordami di bordo [fr. manoeuvre(s)], in modo da proteggerli
dall’acqua, dal vento e dall’ardore del sole che li avrebbero troppo seccati, spaccati o
imputriditi; in mancanza di resina si usava nero-fumo mescolato al semplice olio o al grasso
(fr. oint; ol. smeer, reusel) che si adoperava per ungere le pulegge e le ruote dei cannoni. Il
nero-fumo (ol. swartsel) si otteneva bruciando la resina per la pece in ambienti chiusi e
tappezzati di pelli di montone e poi tutto quello che si era prodotto e andato depositandosi
all’intorno si raccoglieva spazzandolo via o scuotendolo appunto dalle pelli. Insomma, nel
Medioevo si diceva della galea corpus nuigrum, perché tale era. Il solfo si otteneva dalle
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isole Lipari e dalla Sicilia, ma il migliore, a dire dell’Aubin, veniva da un’isoletta italiana che
egli chiama Molo e che non sapremmo pertanto individuare.
Non bisognava applicare strati di tale catrame (gr. πίττα, πίσσα) troppo spessi, specie sul
fasciame interno [fr. serrage, serres, vaigres] dello scafo, perché essi ostacolavano
l’evaporazione dell’umidità che si poteva accumulare nel legno e quindi provocarne
l’imputridimento; bisognava anche fare attenzione a non usarne in luoghi dove si potessero
introdurre dei colpi di mare che lo stemperassero e dove si conservassero alimenti, specie
le aringhe, perché questi n’avrebbero preso irrimediabilmente lo spiacevolissimo sapore. Il
vecchio catrame andava raschiato via almeno una volta l’anno, generalmente in primavera;
poi subito bisognava passarne del nuovo caldo, altrimenti il legno così scoperto presto si
anneriva, specie se ci pioveva sopra. Insomma a quei tempi i vascelli di stazza medio-
grande, di qualsiasi tipo essi fossero, apparivano alla vista perlopiù nerastri, mentre la parte
superiore di quella immersa (oggi diremmo ‘il bagnasciuga’), spalmata di sego, fuorusciva
dall’acqua d’opposto color biancastro, colore che però non caratterizzava le superfici
inferiori, quelle cioè costantemente immerse, e ciò probabilmente avveniva o perché il sego
nell’acqua non lo acquistava o perché lo perdeva molto presto; infatti uno stratagemma che
un legno corsaro appena spalmato, poteva tentare per sfuggire al nemico era quello di
sbandare il più possibile su una costa scogliosa, in modo che, dalla parte del mare, il fondo
emerso, scuro e luccicante a causa appunto del sego ancora fresco, potesse sembrare da
lontano, a un nemico di forze troppo superiori o anche a ingenui mercantili da assalire,
null’altro che uno scoglio emerso. Le piccole imbarcazioni non s’incatramavano come
quelle più grandi (Suida, cit. L. III, pag. 120), perché la manutenzione del loro fasciame era,
date le proporzioni, molto meno impegnativa e si poteva quindi fare con materiali e
sostanze non insudicianti. Nel 1480, il monaco tedesco pellegrino Felix Faber descriveva la
galea veneziana che lo portava in Terra Santa appunto completamente tinta di catrame nero
protettivo in ogni sua minima parte, cordami esclusi, tant’è vero che consigliava ai futuri
pellegrini di non sedersi al sole in coperta da nessuna parte se non volevano restare con i
loro abiti rovinati appunto dal grasso e nero catrame. Che il fasciame dell’opera morta si
preservasse con rivestimenti impermeabili dalle intemperie e dalla salsedine era ovvio e ciò
quindi valeva per qualsiasi vascello e non solo per le galere:
… ditto mio barzoto [om.] se atrovava esser mal condizionato e judicho non solamente le
stope è marze, ma talmente reduto che il suo legname mallamente teniva pittura, sicome per
so armirajo e officiali mei mi è stà riferito… (M. Sanuto, Diarii. T. I, col.768.)
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Nella prima metà del Cinquecento si comincia a parlare nei trattati del color rosso; infatti il
da Canal nel suo trattato, pur consigliando che tutto - alberi, antenne e palamento inclusi -
venisse tinto di color perso (vn. rovano), ossia d'un color ruggine, ma tant'oscuro da
tendere al nero, vale a dire di quel colore che noi oggi chiameremmo 'testa di moro', e ciò
per evitare che i vascelli, tinti magari di colori brillanti, potessero essere scorti da lontano,
fa un’eccezione per la galera Capitana:
… la qual, per aver imperio sopra tutte le altre, ragionevolmente si tinge di un vermiglio
come color pieno di maestà e più apparente. (C. da Canal. Cit. P. 93.)
In realtà non era affatto un colore nuovo per le galee; l’11 maggio 1270 Carlo I d’Angiò re di
Napoli, a proposito della piccola armata di 25 vascelli che allora si doveva preparare nei
porti di Puglia per i motivi già ricordati, ordinava che vi si includesse una galea francese –
già da noi più sopra menzionata - che si trovava allora a Brindisi, essendovi giuntavi tempo
prima dai porti della Provenza, e che si distingueva facilmente da quelle del Regno in
quanto unica di color rosso; essa; in occasione di quel suo nuovo armamento, non
dovendo evidentemente assumere in quell’armata un ruolo di comando, doveva tra l’altro
esser privata di quel colore [… et inter illa (vassella) galeam unam illam videlicet quae in
Brundusio armabitur sub eisdem armis et insignis nostris faciens derubrari. G. Del Giudice,
cit. Pp. 7-8]. Che questa galea fosse poi effettivamente ‘derossizzata’ lo dimostra una lettera
successiva del 16 settembre in cui il re la definisce unam videlicet quae erat rubea (ib. P.
10).
Infatti anche nel Medioevo il rosso si era usato, ma solo per le galee Reali e Capitane e
soprattutto per la loro poppa, la quale, corrispondendo al quartiero di comando e al luogo in
cui si ostentava lo stendardo, con tal colore si adornava oltre che con decorazioni dorate.
Nella Historia di Saba Malaspina, narrandosi del re Carlo I d’Angiò, il quale nel 1282 salì a
bordo di una galea a Catona, dove egli aveva raccolto un’armata di mare contro Messina,
così si dice:
… egli stesso per ultimo, avvalendosi di un banco, salì sulla poppa della galea,
rosseggiante di carminio e scarlatto e velata da una rubicante superba tela scarlatta (cit. L.
IX, cap. II).
Per quanto riguardava invece le navi, cioè i vascelli da carico a vela quadra, dagli Annali
genovesi dei continuatori del Caffaro, all’anno 1242, veniamo a sapere che il colore
tradizionale che si usava in navigazione era il glauco o cilestro, cioè quello che più si
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avvicinava a quello naturale del mare e quindi, in tempi di tante minacce piratiche e corsare,
lo scopo era chiaramente mimetico; ma in quell’anno, per una specifica spedizione di galee,
taride e navi che i genovesi prepararono contro i pisani, preferirono dipingere le ultime di
bianco con decorazione di croci rosse, cioè come se dovessero andare a una crociata,
evidentemente ad onta e disprezzo dei loro tradizionali nemici pisani, volendo cioè con
questo significare che li consideravano alla stregua di africani infedeli (…et naves III
magnae, depictae colore albo, cum Crucibus vermiliis per totum, dimisso tunc glauco
colore, quo depingi sòlebant.)
Il rosso poi s’userà sempre di più, come si può capire - nonostante talvolta restauri di ben
dubbia fedeltà all’originale - da molti quadri appunto del Seicento e del Settecento, i quali
mostrano che si prese a dipingere tutta la parte emersa delle galere di rosso, evidentemente
per renderle più belle e festose; si trattava certo d’una pittura a base d'ocra rossa, forse da
identificarsi con quella sostanza detta magra, la quale si forniva a peso e ricorre
frequentemente negl'inventari dei materiali di bordo delle galere del tempo. Secondo il de la
Gravière, nel diciassettesimo secolo le galere di Malta - allora sette - erano tinte di rosso,
mentre la loro Capitana lo era di nero; insomma l'esatto contrario di quanto, come abbiamo
appena visto, prescriveva l'espertissimo da Canal; ma abbiamo già detto che il de la
Gravière è autore da prendersi con molto senso critico. Sicuro è che le dette galere
gerosolimitane avevano le vele tinte di rosso con grandi croci bianche, cioè con i colori
dell’ordine.
Andando più indietro nel tempo, cioè all’antichità, troviamo qualche raro affresco
policromo in cui sono rappresentate triremi imperiali romane dipinte appunto di rosso; la
storia ci tramanda poi che, ancora prima di Roma, anche gli antichi sami coloravano di
rosso i loro vascelli da guerra. Suida, nel suo più volte da noi già citato Lexicon, ci informa
inoltre che si usava (almeno in Grecia) attintare di cinabro o di minio (gr. μίλτος, βάμμα) le
‘guance’ della prua, cioè le parti ricurve di scafo che fiancheggiavano il tagliamare, e
chiamavano i vascelli che avevano questa caratteristica delle prue rosse (ρεβαμμέναι
πρώραι) appunto μιλτοπάρῃοι νῆες (‘navi dalle rosse guance’), così come li dicevano
invece ϰυανέμβολοι (‘dagli azzurri rostri’), quando avevavo lo sperone dipinto del color del
mare:
(Vascelli) dai rostri azzurri:’. (Si chiamano così) quelli che hanno i rostri tinti d’azzurro; così
come ‘dalle guance rosse’ quelli con i tagliamare (‘masconi, guance’) colorati di rosso.
Infatti l’acqua dello stesso (mare) è azzurra (Κυανέμβολοι. αἰ τοὐς ἐμβόλους ἒχουσαι
ϰυανώβεβαμμένουςʹ ώς μιλτοπάρηοι, αἰ μεμιλτωμέναι η αι τέμνεσαι τ θάλαοσαν. ϰυανοῦν
γάρ το ζαύτης ύδωρ. Cit. T. II, p. 387).
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Troviamo infine nel già più volte citato Lexicon di Esichio φοινικικὰ πλοῖα (‘vascelli rossi’),
a dimostrazione di come quella col rosso fosse una colorazione effettivamente in uso
nell’antichità. I colori tradizionali non avevano mai un’origine casuale; l’azzurro dello
sperone serviva da lontano a farlo confondere con il mare e quindi a far sì che ill nemico
che si stava avvicinando capisse il più tardi possibile di aver a che fare con un pericoloso
vascello da guerra; all’opposto il rosso era considerato un colore aggressivo e quindi una
prua di tal colore sarebbe da vicino dovuta risultare più intimorente per un nemico che se la
vedesse venire addosso velocemente. Scopriamo poi che nel 1242 In effetti il colore rosso
era generalmente considerato bello e adatto alla guerra, perché su di esso ben poco si
notavano le colature e le macchie del sangue che in combattimento poteva venir giù dalla
coperta con un effetto sempre tanto demoralizzare sui combattenti. Quanto il rosso fosse
comunque apprezzato anche nell'abbigliamento dei soldati, ufficialmente perché vivace e
onorevole, ma in realtà utilissimo perché, anche in questo caso, nascondendo il sangue e
quindi le ferite, evitava che in combattimento i soldati si scoraggiassero vedendo
palesemente il danno subito dai loro commilitoni colpiti, si ritrova non difficilmente nei
discorsi dei trattatisti d'arte militare del tempo.
Le vele da galera del tempo che stiamo esaminando - e in alcuni paesi anche le vele piccole
degli altri tipi di vascelli - erano fatte, come abbiamo già ricordato, di lunghe bande [it. ferze
o ferzi; fr. cuëilles, lez, aunes; ol. kleed(t)en] di cotonina, la quale era una tela d’invenzione
italiana e costituita da un ordito di cotone e da una trama di canapa, ed erano guarnite di
canovaccia (‘canapaccio’; fr: canevas, canefas; ol. kanefas, zeil-doek)), mentre nel
Quattrocento - come risulta dalla già citata Fabrica di galee - si erano usate di fustagno,
anch'esso guarnito di canovaccia. I turchi usavano vele di cotone anche per i vascelli tondi,
ma in tutte le altre marinerie europee le grandi vele dei vascelli quadri erano invece fatte di
tela forte o canovaccia, di cui la più apprezzata era in Europa quella d’Olanda, seguita in
qualità da quella di Francia, e si vendeva la prima in grossi rotoli e la seconda in balle; c’era
poi la tela di Fiandra, più leggera, usata per le vele minori e paragonabile quindi alla
predetta cotonina italiana. Un secolo dopo l’Aubin elencherà in ordine decrescente di
qualità le tele da vela:
La noiale 1, la migliore di tutte, era dunque quella d’Olanda; la noiale 2 era la più forte che si
facesse in Francia, soprattutto nel territorio d’Olonne, il quale riforniva i porti di Rochefort e
della Rochelle; l’ultima, la mélie 3, era la predetta tela di Fiandra per le vele minori e si
vendeva ad aune. Le noiales dovevano esser fatte di cuore di canapa, di filo ben lisciviato,
dovevano essere ben battute, rinforzate, unite, consistenti, senza gomma e con bordi ben
fatti.
Per quanto riguarda la canapa da farne cordami e guarnizioni di vele, quella italiana era in
Europa considerata la migliore, soprattutto quella d’Ascoli Piceno, quella di Napoli e quella
detta ‘del Bolognese’; seguiva in qualità quella della regione di Riga e poi da quella russa,
mentre altri luoghi di produzione di buona canapa erano - sempre sul Baltico - Koenigsberg
e Narva; in Olanda usavano quella nazionale, canapa forte e indeformabile, ma piuttosto
sporca e difficile da mondarsi. La canapa di buona qualità doveva avere tre principali
qualità e cioè doveva essere lunga, ben innervata e oleosa; l’ultima si otteneva alternando
le coltivazioni con quelle di fava, legume grasso, con l’uso abbondante di letame grasso e
soprattutto di colombina, cioè di sterco di piccione.
I cordami potevano essere lasciati bianchi o essere incatramati, procedimento questo che si
perfezionava a mezzo d’apposite stufe, forni e caldaie di cui erano normalmente dotate le
corderie degli arsenali; per provare la qualità d’un cordame lo si lasciava quattro o cinque
giorni in acqua salata e, se il filo che lo costituiva era di buona qualità, esso usciva da
questa prova più forte e duraturo di prima, ma, se si trattava invece di filo cattivo, allora
esso si rompeva al primo sforzo. La stoppa incatramata per calafatare (fr. anche garrer; ol.
breeuwen) si ricavava usualmente da vecchi cordami incatramati; tali cordami si
disfacevano, si battevano e si bollivano, facendoli poi seccare al sole o in qualche forno;
infine si filavano molto sciolti e si conservavano in pezzi dello spessore d’un braccio. La
stoppa bianca era invece quella nuova che residuava dalla frantumazione e dalla pettinatura
della canapa. Invece della stoppa per calafatare si poteva usare del muschio, il migliore
essendo quello che nasceva sul cedro, ed era anzi più duraturo della stoppa perché
impiegava molto più tempo a marcire; ma era più adatto a riempire dei piccoli guasti delle
tavole, mentre per quanto concerne i comenti la stoppa restava la più adatta perché si filava
di lungo; se poi si dovevano tappare dei guasti o spacchi delle tavole più grossi, allora
andava benissimo la grossa carta grigia, ossia grezza, perché questa, una volta bagnata, si
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gonfiava e tratteneva molto bene la pece. Era anche molto buona una specie di muschio
che cresceva nell’acqua in Olanda e soprattutto in Brabante.
Prima di varare un vascello ben calafatato con stoppa incatramata e pece, si procedeva alla
spalmatura della parte dell'opera viva destinata all’immersione, operazione questa che
consisteva appunto nel distendere e poi ben lisciare uno strato di sego (fr. anche oint; ol.
smeer, roet, reussel) a caldo su tutta la parte dello scafo destinata a immergersi, timone
incluso, cioè dalla carena o primo sino alla metà d’un altro legno detto contovale di
mezzana e che doveva logicamente trovarsi alla linea di galleggiamento; ciò si faceva da
tempo immemorabile perché il vascello scorresse e sdrucciolasse meglio nel mare,
scivolando così dolcemente l'acqua lungo i suoi fianchi e sotto il fondo; gli inglesi, per
aumentare quest’effetto mescolavano il sego con sapone, ma probabilmente in tal maniera
lo strato spalmato si consumava più presto. Nel Medioevo invece del bianco sego, usato
solo a partire dal Rinascimento per sopraggiunta mancanza di alternative naturali, si era
infatti preferito rivestire la carena - e anche quella zona intermedia oggi detta ‘bagnasciuga’
- di bitume minerale (gr. & gr. ἂσφαλτον), comodo appunto per la quantità in cui era stato
fino ad allora reperibile, mentre la pece vegetale, anch’essa sufficientemente densa ma
ottenibile in quantità molto più modeste, andava bene per usi più accurati ma meno estesi,
cioè per il calafataggio; infine il catrame vegetale, essendo una sostanza sufficientemente
liquida, si adoperava per incatramare la stoppa e per pitturarne a pennello il legno delle
opere morte, alberi compresi, per preservarlo così dalle intemperie; in definitiva nel
Medioevo, i vascelli, specie quelli mercantili, quanto mantenuti ben manutenzionati,
apparivano generalmente completamente neri. Ecco per esempio quanto si legge nel l. XI, p.
10 dell’Alexiadis di Anna Comnena a proposito di un episodio bellico avvenuto attorno
all’anno 1098 e cioè del salpare dei comandanti marittimi bizantini con l’armata a loro
affidata dall’imperatore bizantino Alessio I Comneno in vista del preoccupante arrivo nelle
acque di Levante di una grande armata pisana che veniva chiamata in supporto dall’esercito
crociato che da qualche anno operava in Medioriente:
… Usciti quindi dalla capitale con l’armata imperiale nel corso del mese di aprile, le navi
raggiunsero Samo approdandovi e scesero a terra dove le rinforzarono spalmandole di
bitume in abbondanza (Εξελθόντες οὗν τῆς μεγαλοπόλεως μηνὸς παριππεύοντος
Άπριλλίου μετὰ τοῦ 'Ρωμαϊϰοῡ στόλον τὴν Σάμον ϰατέλαβον ϰαὶ τὰ πλοῖα τῇ χέρσῳ
προσορμίσαντες ἐξῆλθον πρὸς τὴν ἢπειρον ἐπὶ τῷ διὰ τῆς ἀσφάλτου ἐπὶ πλέον
ἀσφαλισαμένους ϰατοχυρῶσαι αὑτά… In Corpus scriptorum etc. Cit.)
858
L’idea di spalmare l’opera viva con grasso animale, non avendosi più disponibilità di
bitume, sembra sia stata portata da Marco Polo al suo ritorno a Venezia nel 1295, quando
cioè aveva narrato, tra le tante altre cose, delle molte caratteristiche che differenziavano
dalle europee le navi che si usavano nei mari che confluivano nello stretto di Hormuz e che
per l’appunto si spalmavano di grasso di pesce liquefatto:
… alle qual navi non si pone pece per difesa della putrefazione, ma s’ungono con olio fatto
di grasso di pesci e calcasi la stoppa (Il milione di Messer Marco Polo viniziano etc. T. II, p.
56. Firenze, 1827.
Dice calcasi la stoppa perché questa si conficcava nei comenti pressandola con attrezzi
molto semplici detti ferri di calafato, .avoro che era da farsi con accuratezza perché i forti
colpi di mare espellevano la stoppa dai comenti. Per spalmare il bitume o il sego sull’ ‘opera
viva’, così come del resto anche per passare il catrame su quella ‘morta’ o emersa,
s’usavano piccoli ammassi di canapa o di cotone o d’altro materiale simile attaccati alla
cima di bastoni e inzuppati di quelle grasse sostanze; i francesi chiamavano tali attrezzi
pênes.
Era comune opinione degli uomini di mare che un vascello ben spalmato di recente
guadagnasse il 10% di velocità in più d'un altro che non lo fosse:
... essendo che il sevo sfugge il corpo del vascello tra l'una e l'altra acqua, si come in una
superficie piana, unta di quello, sdrucciola il corpo che, con la sua grevezza premendo il
sevo, non può fermarsi. (B. Crescenzio. Cit. P. 115.)
Il da Canal, nel suo già più volte citato trattato, così si esprime a proposito dell'importanza
della spalmatura ai fini della velocità:
... Hora vengo alla spalmatura, la quale in quanto alla velocità della galera, una seconda
stiva si può dire. (Cit. P. 90.)
Si diceva che le galeotte dei leventi, ossia, come già sappiamo, dei corsari barbareschi,
fossero velocissime proprio perché erano spalmate di continuo; d’altro canto il sego non
poteva preservare il legno immerso dall'inevitabile attaccarsi delle brume e a questo
proposito è strano osservare che, mentre oggidì si attribuisce all’acque marine stagnanti la
maggior causa della formazione d’erbe marine filamentose, teredini, oloturie (queste nel
Medioevo chiamate vermi bisciali; cst. mojillones), conchigliame (fr. cravans, sapinettes; ol.
859
schelpen, schulpen) e 'denti di cane' sulla parte immersa dell’opera viva delle navi, il da
Canal, parlando - come sembra - della teredine, dice quanto segue:
... senza che'l tener fermo molto a lungo qual si voglia navilio dove l'acque con tanta
violenza corrono è un procacciare che in breve andare si guasti e consumi,
conciosiacosaché, dovunque le acque hanno veloce corso, in quelle si nutrisce infinito
numero di biscie, da noi dette 'bisaruoli', che in un momento rodono il fondo d'ogni buono e
forte legno. (Ib. Pp. 218-219.)
…Si generano abbastanza ordinariamente dei bachi nelle navi e tali bachi sono un po’ più
grossi di quelli da seta, molto teneri e lucidi d’umidità; essi hanno la testa dura e molto nera
e, poiché rodono incessantemente, forano le tavole e le membra d’un vascello. (Cit.)
Ma che la teredine fosse consciuta nel Mediterraneo già nell’antichità lo dimostra anche il
Lexicon di Esichio, dove troviamo τερρητόν (πλοῖον), cioè τερηδών ναῦς, quindi ‘nave
corrosa dalla teredine’. A partire dal Seicento, mentre si continuerà a usare il solo sego
liquefatto per i viaggi di breve corso, in quelli di lungo corso diretti verso ovest e verso sud,
specie se da farsi nei caldi mari equatoriali, saranno adoperati via via diversi metodi per
contrastare l'opera distruttiva della teredine marina e il primo sarà quello di sostituire il
semplice sego con una mistura antivegetativa composta di sego, olio di balena, zolfo,
resina o pegola e vetro pesto, detta in fr. cou(r)roi, couroy, courée o courret (ol. pap),
mistura che permetteva d’estendere la durata del carenamento a caldo che si faceva ai
vascelli oceanici anche a tre anni, il che significava ovviamente un bel risparmio.
Gl'inglesi sparmano i loro vasselli per fino a raso (‘pelo’) d'acqua con pece greca, solfo e
sevo bollito bene, quale mistura inpedisce la generazione di molta herba che nasce sotto i
vasselli e le difende alquanto dalle brume e, stando netti, senza dubio caminano assai
meglio (A. Falconi, cit. P. 11. Firenze, 1612).
860
Inoltre, contemporaneamente al suddetto, vi saranno altri metodi basati per lo più sul
contrabbordo [fr. doublage; ol. (ver)dubbeling, voering], ossia sul rinforzo del fasciame
dell'opera viva, specie del ‘bagnasciuga’, la quale forse fu chiamata viva proprio perché in
essa si andavano ad annidare organismi viventi. Dapprima gli olandesi cominciarono a
raddoppiare il fasciame, inchiodandovi sopra uno strato d’assi di quercia o d'abete bianco o
rosso, strato spesso un pollice e mezzo, e ponendo tra questo fasciame aggiuntivo e quello
preesistente misture di materie anti-bruma, specie la predetta courée, la quale, contenendo
spesso in questo caso tra i suoi principali elementi anche pelo di bovino (fr. ploc), prendeva
per sineddoche anche appunto il nome di ploc e di conseguenza la sua applicazione quello
di plo(c)quer; ma poteva a volte detta courée contenere anche del rame, metallo del quale
evidentemente si conosceva la velenosità, mentre alcuni, ritenendola evidentemente
anch’essa sgradita alla teredine, invece di tale mistura usavano solo della semplice carta
grigia, ossia della grossa carta grezza; anche la chiglia talvolta si raddoppiava spalmandola
prima del suddetto ploc e poi applicandovi sopra un asse di quercia o faggio detto in
francese fausse-quille.
Sempre gli olandesi poi, costatato che il risultato che si otteneva con questo contrabbordo,
il quale, sebbene pure servisse a isolare l’interno dall’eccessivo calore del sole, non
ripagava certo del notevole rallentamento procurato al corso e alla manovrabilità dei
vascelli così appesantiti, presero a rivestire il fasciame del vivo di sottili strati di ferro e
soprattutto di piombo, metodo questo già usato nel Medioevo e precedentemente anche
nell'antichità, come provò il ritrovamento delle navi di Traiano nel lago di Nemi, navi poi
ignorantemente incendiate dai soldati tedeschi in ritirata nel 1944, e queste lamine,
dapprima semplicemente gettate e in seguito - con nuova e più utile invenzione - laminate,
s’inchiodavano così strettamente da non lasciare alcun spazio tra una testa di chiodo e
l'altra; ma l’uso dell’impiombatura era un sistema che in epoca moderna era stato già
riportato in auge da altri prima di loro:
Ma anche con questo secondo metodo non ottennero risultati utili, probabilmente anche
questa volta a causa dal peso eccessivo che così gravava sul vascello. Spagnoli e
portoghesi frattanto, ispirati dall'efficacia della sperimentata gala gala sull'opere morte,
provavano a rivestire quella viva di strati di miscugli a base di calce, sostanza che, se si
861
motivo un vascello appena spalmato non si poteva lasciare esposto al sole, perché il sego
fresco si sarebbe di nuovo squagliato e sarebbe colato giù; bisognava inoltre far attenzione
che tale strato di sego fresco non venisse danneggiato perché toccato, mosso, strisciato o
raschiato dal contatto con altri vascelli o comunque dalla negligenza d’operai (ct.
manestrals) e marinai.
Questo era dunque lo spalmare a fuoco vivo, che non si poteva eseguire dappertutto ma
preferibilmente in un arsenale; ma, dovendosi spalmare dopo solo poco tempo dalla volta
precedente, non c'era bisogno di fare un lavoro così radicale e si faceva quindi un
trattamento più semplice, detto questo voltar il sevo e che consisteva nel lasciare in opera il
vecchio strato di sego e nell'adoperare il fuoco di brusca semplicemente per scaldarlo,
intenerirlo e rivoltarlo sulla superficie di tavole con le lanate, in modo che offrisse presa
sicura al nuovo strato di sego che gli si andava poi ad applicare sopra a finire. Non si
poteva voltar il sevo più d'una volta e più tardi d'un mese dalla precedente spalmatura fatta
a fuoco vivo e pertanto, se si doveva spalmare una terza volta, oppure anche una seconda
volta, ma a maggior tempo del dovuto dalla prima, bisognava ripetere allora la spalmatura a
fuoco vivo; infatti, se si fosse tentato di voltar il sevo più volte di seguito, esso, ormai
vecchio, sarebbe solo caduto a pezzi. La spalmatura detta voltar il sevo poteva durare
anch'essa circa un mese e quindi in sostanza nella buona stagione, la quale era poi per le
galere l'unica operativa, un vascello sottile andava spalmato teoricamente una volta il mese,
se si voleva che mantenesse sempre costanti le sue massime capacità nautiche; un
vascello tondo da guerra invece si spalmava anche una volta ogni tre anni e negli anni in
cui ciò non succedeva gli si dava quella che i francesi chiamavano demie-caréne, ossia il
lavoro si faceva solo alle quattro tavole che costituivano le fiancate del fasciame immerso,
senza arrivare sino alla chiglia. I vascelli mercantili si spalmavano – per forza di cose – solo
quando si poteva approfittare d’una certa sosta o quando i fianchi del suo fasciame
immerso erano talmente ricoperti di muschio, alghe, filamenti vegetali e crostacei da aver
perso buona parte della sua velocità. Se non si aveva o il sego per applicarne un nuovo
strato oppure il tempo per fare un tal lavoro, allora ci si limitava a scaldare la superficie del
vecchio con acqua calda, in modo da riattivarne alquanto e per un po’ l’efficacia.
Per quanto riguarda i vascelli sottili, nella prima metà del Cinquecento si era evidentemente
considerata sufficiente una minor frequenza della spalmatura, se si legge a tal proposito
Cristoforo da Canal; egli infatti scriveva che la spalmatura a vivo s’effettuava di solito una
volta l'anno, cioè quasi sempre alla fine di marzo, quando cioè era consuetudine che i
vascelli riprendessero a navigare dopo il disarmi invernale, e si applicavano in tale
863
operazione a una singola galera dalle 1.100 alle 1.200 libre di sego puro. Questa spalmatura
a vivo durava sino ad agosto, quando con l'uso d’ulteriori 300 o 400 libre di sego si
effettuava la voltatura, come si diceva in veneziano, e ciò bastava sino alla fine della
stagione; in questa seconda fase la galera era così protetta, tra vecchio e nuovo strato, da
mille o poco più libre di sego solamente, in quanto del primo strato una buona parte era
andata ovviamente consumata dalle brume e dalle abrasioni. In più però si costumava
voltare il sego tre o quattro volte l'anno a quattro o cinque maggeri (‘tavole di fasciame’) per
volta, usandosi ogni volta 200 libre di sego nuovo, e dal modo in cui il da Canal si esprime
sembrerebbe che al suo tempo quest'uso fosse non solo veneziano, ma comune alle altre
squadre di galere del Mediterraneo. Si usavano generalmente il sego di bue e quello di
castrato, ma il primo era migliore perché più grasso, più nero - quindi più mimetico di notte
- e più resistente in ogni sorta d’acque che non fosse invece quello di castrato, il quale nelle
acque fredde se ne cadeva immediatamente senza ritegno alcuno (C. da Canal. Cit. P. 91). In
effetti bisognava evitare di far sostare i navigli in acque molto fredde qualunque fosse il tipo
di sego usato, perché la bassa temperatura lo induriva tanto da spaccarlo e a pezzo a pezzo
in breve tempo se ne cadeva tutto; anzi, se il mare d'inverno addirittura ghiacciava, se ne
cadeva dietro al sego anche la pece del calafataggio, anch'essa indurita dall'intenso freddo,
e non sappiamo quindi che tipo di trattamento antivegetativo si usasse in quei tempi nei
Mari del Nord. Il problema si presentava comunque talvolta anche nel Mediterraneo:
... la nostra città di Cáttaro (nella bassa Dalmazia), ove il mare è in tal maniera freddo che
non è huomo che nella più calda estate per mezzo hora solamente vi possa tener dentro un
piede; quivi non si tosto pervengono le galee che [...] elle perdono in gran parte le loro
spalmature, onde deve l'accordo capitano procurare a tutta sua forza di non condurre
l'armata in così fatti mari. (C. da Canal. Cit. P. 223.)
Perché non si prendesse in considerazione anche il sego di maiale non sappiamo; forse
perché troppo caro o forse perché meno consistente di quelli bovini e ovini. I veneziani
adoperavano comunque sego bianchissimo e ne spalmavano anche il tagliamare, mentre
ponentini e turchi lo usavano nerissimo e non sul tagliamare, in modo da non aumentare il
rischio d'essere avvistati dal nemico di notte a causa della bianchezza del sego e di giorno
a causa del suo luccicore; l'uso veneziano era dunque, a dire del da Canal, peggiore e che
lo fosse è dimostrato dalla circostanza che ancora nel settecento i corsari useranno
spalmare i loro vascelli d’una mistura di sego e nero-fumo (fr. suif-noir; ol. swart smeer)
onde non essere avvistati da lontano a causa del riflesso della luce del sole o della luna su
una recente spalmatura (Ib.).
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… Así llegamos á la Palmerola ques una isla junto a la de Ponza donde recorrimos el sebo
de los
navíos con agua caliente (In Colección de documentos inéditos para la historia de España
etc. Tomo II. Cit. P. 381).
Ma perché sempre a isole dare questo nome? Perché erano soprattutto i corsari che le
definivano così. Lo spalmare la carena era infatti un momento di debolezza del vascello, in
quanto tenuto sbandato su un fianco, e quindi di incapacità difensiva; il lavoro andava
dunque fatto in un’isoletta non principale, dove potesse avvenire senza esser visti dalla
nemica terra ferma. Per concludere questa nostra digressione, diremo dunque che molte
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località costiere del Mediterraneo portano nomi che ricordano la navigazione, basti pensare,
oltre alle suddette, a Cala Galera presso il monte Argentario, a Cala Galera e a Cala
Brigantina in Sardegna, alla stessa Cagliari (l. Caralis), nome questo che fu poi travisato in
Calari a partire dal Medioevo appunto perché calàri significava ‘pontili’, cioè le piattaforme
di legno sulle quali calare, ‘scendere’; da ricordare inoltre Plage de la galère presso Cap
Blanc in Costa Azzurra, agli Scogli della galera (Roseto Capo Spulico in Calabria), agli
scogli Le galere dell’Arcipelago Ponziano; ma perché dare questo nome a dei grossi scogli?
Perché dietro di esse si nascondevano i vascelli remieri corsari all’agguato di quelli
commerciali che passavano.
Troviamo poi, sia in Adriatico sia nel Tirreno, varie isolette di nome Gajola o Galiola, nome
comune che in tardo-latino significava ‘carcere’, essendo infatti antica l’abitudine di
costruire carceri di sicurezza nelle isole, e a questo proposito dobbiamo dire che molto sì è
fantasticato, specie dai digiuni di linguistica classica, su questo nome, soprattutto in
relazione all’isoletta omonima situata nelle adiacenze della costa di Posillipo a Napoli.
Questo stesso nome di Galiola porta poi l’isolotto situato di fronte all’isola di Unie sulla
costa del Quarnero, isolotto con faro sul quale la notte del 30 luglio 1916 andò a schiantarsi
il sommergibile ‘Giacinto Pullino’, incidente che, come si sa, costerà la cattura e poi la vita
al tenente di vascello Nazario Sauro; questo malefico isolotto già si chiamava La Galiola il
29 novembre 1379, quando cioè, spinta da una tempesta, ci si andò a schiantare su una
galea della squadra veneziana allora comandata da Carlo Zeno:
... Ed è da sapere che esso Zeno veniva con XV galere, ma una se gli ruppe sopra uno
scoglio detto ‘la Galiola'; ma però gli huomini e lo havere si salvarono sopra le altre...
(Daniello Chinazzo, Cronaca della guerra di Chioza etc. In L.A. Muratori, Rerum italicarum
scriptores etc. C. 744, t. XV. Milano, 1727.)
Più avanti il Chinazzo aggiunge che sì molti si salvarono, ma molti anche annegarono,
sicuramente dei vogatori incatenati ai remi, e poi la detta galea, resasi irrecuperabile, fu
bruciata sul posto (ib. C. 752).
Il predetto toponimo ricorre comunque anche in ambiente non marino (vedi Gajola nel
Cuneese, Gajole nel Senese, Gagliole nel Maceratese), in quanto evidentemente non
specifico di carceri costiere, anche se è forse da queste che può essersi propagato anche
agli usi di terraferma; anzi, se se ne accetta l’origine marina, non è improbabile che il nome
possa derivare da galiola (sincope di galaiola, dal biz. γαλαία, ‘galea’), perché, come già
sappiamo, altro uso che si faceva delle galee, quando non più adatte alla navigazione
perché usurate dal tempo, era quello di carceri galleggianti. Dalla versione gagliola deriva
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indubbiamente l’epiteto gaglioffo nel suo senso di ‘avanzo di galera’. L’esser stata l’isola
adibita a sede carceraria potrebbe giustificare la vecchia diceria della ‘maledizione della
Gajola’, mala sorte che colpirebbe chiunque ne divenga il proprietario. C’è anche da tener
presente che gagiola - o anche gaiola - nell’antico gergo marinaro di Chioggia era il nome
che si dava a un fresco venticello di terra, ma è difficile che possa dare origine di nomi
geografici, perché questi derivano da caratteristiche locali fisse e stabili mentre non c’è
nulla di più instabile ed episodico di un vento.
A proposito della suddetta Calari (detta però allora probabilmente già vulgo Callari), c’è da
dire ancora che negli Annales Januenses dei continuatori del Caffaro è – precisamente
all’anno 1234, cioè al tempo del giudicato (‘podestato’) di Guglielmo II Salusio V, il quale era
diventato giudice di Calari appena due anni prima – si parla parecchio di una potente
spedizione militare navale callarina di intenti crociati che assalì la mussulmana Ceuta,
procurando anche parecchi danni ai mercanti genovesi che colà lavoravano pacificamente
possedendovi fondachi e case; solo che, poiché il nome callarini vi è costantemente
storpiato in calcurini, nessuno studioso ha mai compreso che in realtà si trattava di vascelli
del giudicato di Cagliari. Infatti poi Guglielmo II, il quale era in buoni rapporti sia con Pisa
che con Genova, con questo podestato compose pacificamente la controversia nata a
causa dei predetti danni involontariamente procuratigli.
Per tornare ora alla spalmatura delle galere, si accostava dunque il vascello a un altro più
basso o al massimo della stessa altezza e la ciurma di questo ne tirava a sé pian piano
l'alberatura a mezzo d'ambedue le cime di quel tipo di cavo detto prodano (bl. prodisium), il
quale si faceva passare in due taglie da quattro pulegge l'una, la prima posta nello stroppo
dell'albero di maestra della galera da spalmare e l'altra nella corsia della galera che la
caricava, un po' come si faceva col ritorno quando s’issava l'antenna dell'albero di maestra;
il tal maniera l'albero del primo vascello si andava a poggiare sull'antenna del secondo e
così lo si metteva alla banda, ossia lo si faceva sbandare sul secondo in maniera che
dall'altro lato emergesse sin'anche la sua carena o primo, ossia quel lungo legno
fondamentale che nei vascelli tondi si chiamava invece colomba o achiglia - quest'ultimo
più tardi accorciato in ‘chiglia’ - e lo si manteneva legato con canapi in tal posizione finché
gli si desse carena [fr. car(è)ner, donner la caréne, mettre en caréne ou en cran; ol. kielen,
kiel-haalen], cioè finché durasse il lavoro di spalmatura - dopo però eventuale raddobbo,
ossia riparazione del fasciame esterno a mezzo d’assi, placche di piombo, stoppa, resina,
pegola e di tutto ciò che potesse servire a tappare le falle, e anche ripristino del
calafataggio - e dovesse quindi restar messo in carena su quel lato; poi lo si faceva
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sbandare sull'altro fianco, tirandolo allo stesso modo su d’una terza galera postale appunto
al lato opposto, e si lavorava così all'altro fianco dell'opera viva; d’altra parte, se ci si
trovava in darsena, la si faceva invece sbandare su un apposito pontone alberato [l. ponto-
nis; fr. ponton, pont flottant, bac, traversier; np. puntone; ol. ponton, (onder-)legger, platte
schuit, bak], se disponibile, ossia su un vasto tavolato le cui estremità poggiavano su due
imbarcazioni. Questo modo di procedere si diceva in gergo marinaro caricare le galere (fr.
abattre en quille). Quando mancavano altri vascelli da usare per l'appoggio, allora si usava
far sbandare la galera su una non alta banchina fatta di grossi tronchi orizzontali legati
insieme, come si vede chiaramente nel famoso Incontro di Orsola ed Ereo del Carpaccio (c.
1495), o su una scogliera o una gettata che fosse a ciò adatta e, se nemmeno questo fosse
possibile e si volesse far sbandare il vascello senz’alcun appoggio, la cosa diventava
realizzabile solo in un luogo costiero oceanico con fondo molle e soprattutto soggetto a
deflusso e riflusso di marea (fr. flux de la mer et ebe, flot, jussant), dove cioè il legno,
mentre se ne procurava lo sbandamento passandone tutto il peso del carico e dei cannoni
da un solo lato, andava per il deflusso naturalmente a poggiarsi sbandato sul fondo e poi si
attendeva una seconda marea per ripetere l’operazione dall’altro lato, essendo questo il
motivo per cui in francese i lavori di carenamento (cst. dar carena) si dicevano, come
abbiamo già detto, pure oeuvre de marée; in tal caso bisognava però per lo meno costruire
sulla sommità del fianco del vascello da inclinare un’impalcatura calafatata (fr. bâtardeau,
platbord) che impedisse all’acqua di salire in coperta. Far sbandare un vascello senz’alcun
appoggio e anche senza maree era anche possibile, ma molto rischioso e si poteva solo
fare per quel tanto che bastasse a far pulire ai marinai almeno la fascia della linea di
galleggiamento, generalmente la zona delle imbarcazioni che, come si sa, si sporca
maggiormente; in quest’ultimo caso si diceva spesso spalmare a quattro tavole, cioè
lavorare solo alle prime quattro tavole dalla coperta in giù. Si poteva far navigare le galere
sbandate su un fianco in un fiume o canale che avesse fondali troppo bassi per navigarvi
con la chiglia normalmente all’ingiù e ciò perché lo scafo pescasse quel tanto di meno che
bastasse a procedere; così fece il capitano generale del mare veneziano Niccolò da Canal
nel giugno del 1469, quando alla testa di un’armata di 40 galee, percorse il canale navigabile
che portava da Andrinopoli (‘Hadrianopolis’) e Enos, per saccheggiare quest’ultima:
… In prima messer Niccolò da Canal del mese di giugno passato, con l’armata della
Signoria (di Venezia) della quale egli era capitano, si partì da Negroponto (‘Eubea’) con 40
galere e andò alla città di Curnia (‘Enos’), appresso ad Andrinopoli 15 miglia per un canale,
mettendo le galere per schina (‘schiena, fianco’) per la pochezza dell’acqua, e prese detta
città piena d’infinite ricchezze, nella quale era gran tesoro del Turco (‘Sultano’) e alcune
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delle sue donne; la qaul città, dapoi che l’ebbe assaccomannata (‘saccheggiata’), abbrugiò
e distrusse (Guernerio Bernio, Chronicon eugubinum etc. C. 1.018; in L. A. Muratori, Rerum
italicarum scriptores etc. Milano, 1732).
Come lavoravano i remiganti addetti alla spalmatura, oppure, nel caso dei vascelli tondi, gli
operai o i marinai spalmatori? Essi usavano un pontonetto (fr. rat), ossia una piccola zattera
fatta con le tavole delle balestriere, con i pavesi e con vario tavolame di bordo legato su
barili impermeabili perché ben calafatati o su tronconi d’albero; questo galleggiante, usato
prima dai calafati, era rimorchiato sotto bordo da una fregatina, cioè da una piccola barca a
remi, e si muoveva poi autonomamente, visto che gli spalmatori si traevano avanti e
indietro lungo il fianco della galera da spalmare a mezzo di due lunghe sagore attaccate alle
due estremità del pontone e rette da due prodieri, uno posto a poppa e uno a prua della
galera medesima; insomma un sistema questo del pontone tutt'oggi ancora usato dai
carenanti nei bacini di carenaggio del porto di Napoli e d’altri porti mediterranei per frettare
ossia spazzolare, raschiare, lavare e scopar via - corso di lamiere dopo corso di lamiere - le
alghe, le brume e gli altri viventi marini attaccatisi ai fianchi dell'opera viva specie durante
le lunghe soste nei porti e ciò man mano che il livello dell'acqua del bacino decresce e la
nave va ad adagiarsi sulle taccate, o anche per pitturare il bagnasciuga (in. boot-topping),
ossia quell'ampia fascia laterale dell’opera viva che include la linea di galleggiamento e che
si diceva allora in fr. ribord e in ol. vit-waatering, mentre si chiamava in fr. vibord e in ol.
(hout-)voorscheen quella sovrastante costantemente emersa, la quale raggiungeva il ponte
superiore o coperta e noi oggi diciamo fuoribordo (in. top-sides); infine sopra questo vibord
c’era il bastingaggio o parapetto del ponte di coperta che si chiamava in fr. platbord e in ol.
dolbord, rogbord, bosbank o anche rosbank e faceva parte dell’opere morte (ol. doodt-
werke, huising); quest’ultima struttura, pur non dovendo essere tanto elevata da impedire
ad archibugieri e moschettieri di spararvi comodamente da sopra, si faceva parecchio più
alta a prua quando il vascello non aveva colà castello e ciò per impedire che i colpi di mare
invadessero la coperta, mentre si usava invece tutta molto bassa nei vascelli a tre ponti sia
perché i flutti raggiungevano la coperta molto più difficilmente, essendo essi sensibilmente
più alti, sia perché più alto era un vascello e meno lo si poteva appesantire in coperta per
non mettere a rischio la sua stabilità laterale; ma la gente di mare francese dell’oceano
usava generalmente ed erroneamente intendere per platbord tutto il vibord, così come altri
intendevano invece per quest’ultimo la sola cinta di sostegno (fr. lisse) della coperta.
C'era dunque un primo passaggio del suddetto pontone o, non trovandosi il vascello in un
porto attrezzato, ma in una semplice cala appartata, della fregatina stessa o anche del
semplice schifo di bordo durante il quale gli spalmatori pulivano la fiancata della galera o
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del veliero con attrezzi inastati, quali raschietti, spazzole dure e scope di saggina [fr.
gor(r)ets; ol. schrobbers, varkens), così asportandone il muschio, il conchigliame, i
filamenti erbosi verdi o marroni (fr. filandres; ol. groente, lang-halsen; cst. broça) che si
erano più o meno potuti formare specie sulle fiancate (cst. dar lados) a seconda dei mari
che il vascello aveva frequentato e della lunghezza degli scali che aveva fatto; poi, a
fasciame asciutto, bisognava raschiar via anche la vecchia pegola dai comenti (fr. purger),
usandosi ai suddetti scopi ferri immanicati a forma di zappetta tagliente (fr. racles, gratoirs;
ol. schraapers, schrab-ijsers); poi si bruscava a fuoco per meglio scoprire i punti che
avevano bisogno d’essere racconciati, perché il fuoco ben puliva le superfici del legno e
consumava la vecchia stoppa non più trattenuta dalle commessure onde far posto così alla
nuova che ripristinasse l’impermeabilità del fasciame. Quest’uso della brusca accesa era
però pericoloso se fatto a bordo in navigazione e ben se ne accorgerà il corsaro inglese
Digby, non nuovo del resto, come già sappiamo, a queste disattenzioni a rischio d’incendio
durante la sua lunga scorreria nel Mediterraneo:
Che lavorare a vascelli di legno con il fuoco vivo fosse pericoloso era comunque ovvio e
noto da sempre; negli Annali genovesi del Caffaro leggiamo che nel settembre dell’anno
1213 nel porto di Genova per una trascuratezza di operai calafati si bruciarono e persero
ben tre navi:
Nello stesso mese di settembre nel nostro porto accade anche un certo infortunio;
purtroppo, bruscando i calafati una nave grandissima che chiamavano Contessa, essendo
stato acceso in essa un fuoco, finì completamente bruciata e presso di quella due altre navi,
una delle quali che si chiamava San Romolo e l’altra, appartenente a Raynaldo Bonavia di
Noli, aveva nome Stella (Caffaro, Annales januenses, cit.)
Quindi il calafato e i suoi aiutanti racconciavano, turavano e impeciavano non solo tutti i
conventi [‘co(m)menti’] delle squadre (‘tavole’), ma anche le inchiodature e naturalmente le
crepe e le falle, grandi o piccole che ora, a legno pulito, si rivelassero, usando chiodi,
stopparoli (‘chiodi a testa larga e corto piede’), cavicchi e anche pezzi di tavola dove
necessario, ma soprattutto stoppa, la quale andava ben ficcata e calcata nelle fessure con
scalpelli e mazzette, in modo che l'acqua non vi potesse poi entrare; le commessure così
stoppate andavano infine ben ricoperte di pegola. Finito il raddobbo, la fregatina riforniva i
pontonieri di sego, ancora di brusche e degli altri materiali occorrenti alla spalmatura della
870
parte dell'opera viva destinata a reimmergersi, operazione che solo adesso poteva aver
luogo, mentre il còmito, imbarcatosi sulla stessa predetta barchetta o su un altro schifo,
andava attorno al pontone per dirigere il lavoro. A proposito dei barili calafatati vuoti sui
quali il pontone si reggeva, bisogna dire che averne alcuni sempre pronti a bordo dei
vascelli era una cautela apprezzata perché, in casi disgraziati, potevano servire da
salvagente ai quali in un naufragio in mare aggrapparsi; anzi, legandone due strettamente
insieme, ci si poteva far sedere nel mezzo una donna o un bambino per tenerlo fuori dalla
gelida acqua.
Quando la pulizia dell’opera viva avveniva con vascello tirato a secco, ovviamente per la
parte alta del fasciame in luogo del pontone si usavano gli stessi ponteggi pensili o
bilanciole [fr. è(s)chafaut, echafaudage, triangle; ol. stelling(-hout), stelladie, stellagie] che
usavano i calafati e si usava effettuare la pulizia dell’opera viva con lo stesso sistema che
abbiamo visto adoperare nello spalmare a fuoco vivo in cantiere, cioè si riscaldava il
fasciame con della brusca accesa [fr. (bois de) chaufage; ol. tak-bossen; brandt-hout] in
modo che tutta la sporcizia accumulatavi dal mare si bruciasse o si ammollasse, venendo
poi via molto più facilmente e radicalmente e permettendo così al calafato di scoprire tutti i
punti bisognosi di riparazione. Mel Medioevo, cioè quando le galee erano generalmente
delle biremi, quindi più piccole e leggere, tirarle a secco era naturalmente una pratica più
frequente e lo si faceva non solo per lavori di carenamento, ma anche per esempio quando
si era portato un esercito a operazioni belliche costiere e bisognava quindi aspettare che
quelle terminassero; all’assedio di Tiro del 1124 il doge Domenico Michiel (1117-1130 c.)
ordinò che a ognuna delle galee veneziane, allora tenute in secco, fosse tolta una tavola del
fondo, onde dimostrare ai sospettosi alleati che i veneziani non avevano alcuna intenzione
di sottrarsi ai pericoli di quella guerra magari, rimettendo improvvisamente in mare quei
vascelli e abbandonando così l’assedio ( Andrea Dandolo, Chronicon. L. IX, c. XII, p. XI).
Per varare i vascelli si preparava sull’arenile davanti a loro, dal volto al mare, un letto di vasi
di legno o palanche o taccate [gr. φάλαγγες; l. palangae; ol. staapels(-blokken),
staapelingen, stokken; fiam. Dompblokken; l.prov. escharfulchrum, dal l. jacere, ‘varare’ e
fulcrum, ‘letto di taccate’)] sulle quali dovevano scorrere; in fr. queste si dicevano t(a)ins,
ma soprattutto chantiers, da cui le locuzioni mettre o tenir un vaisseau en chantier e ôster
un vaisseau du chantier, termine questo che poi si è esteso per sineddoche a tutto il luogo
destinato al raddobbo. Una galea normale si varava con un’azione combinata di palanchi o
curli e di prodani alati, di schiavi che spingevano ai fianchi e di trazione esercitata, tramite
una sola gumenetta, da un’altra galea che arrancava a mare. Per le galee più grandi e
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pesanti, quali erano per esempio quelle Reali o Capitane, il sistema suddetto non era però
sufficiente e si varavano quindi queste, anch'esse però abbastanza agevolmente, con la
trazione esercitata a mezzo d'argani (gr. ὀλϰοὶ), cioè con il sistema che si usava per varare
tutti i grandi vascelli come galee grosse, galeazze, navi, galeoni ecc. e al quale abbiamo già
accennato a proposito dei galeoni costruiti a Napoli.
Come si festeggiava allora l’avvenuto varo d’un nuovo vascello? Anche se d’un secolo
antecedente, possiamo per tale argomento solo ricorrere alla descrizione che il Sanuto fa
del varo d’una grande barza (‘nave’) dalla portata di 1.800 botti, avvenuto a Venezia nel
1495, e dalla quale possiamo comprendere da dove nacque l’uso odierno di rompere sul
nuovo scafo una bottiglia di spumante:
… In questo varar è da saper si suol far certe cerimonie: prima far dir una messa dentro,
poi, mentre la si vara, li vien tratto da galioti assaissime inghistere (‘caraffe di coccio’) di
late (‘latte’) et vino dentro; significa latte bonaza (‘bonaccia’) et vino vittuarie… et pareva un
castello in acqua… (M. Sanuto. La spedizione di Carlo VIII in Italia etc. Cit. P. 333.)
Una volta varato un vascello, bisognava stabilizzarlo appesantendolo con della zavorra [l.
saburra; gr. ἒρμα; fr. bal(l)ast, lest, suburre, saorre, quintillage, quintel(l)age; ol. ballast; sp.
lestre], in genere ghiaia, ciottoli, arena o piombo, si poneva sul fondo di cala (gr. ϰοιλώμα)
del vascello tra un madiero e l'altro e serviva a sostenere il vascello stesso e a mantenerlo
appunto dritto, non lasciandolo così pendere da nessuna parte, e quanto fosse importante
questa operazione per la stabilità e buona navigazione del vascello era cosa nota da
sempre; il già più volte citato Niceforo Gregoras infatti così scriveva:
… il che comunemente per quelli che per mare usano andare costituisce sostegno e
importantissimo fondamento della navigazione (ὄπερ εἲωθε τοῖς ἐπὶ θάλαττανʹ ἀεὶ
ναυστολοῡσιν ἒρεισμα γίνεσθαί τε ϰαὶ εῗναι τοῡ πλοῡ ϰαὶ θεμέλιος ϰράτιστος. In Historiae
byzantinae. L. XVII, par. 6).
I sistemi usati erano molto differenti, a seconda delle consuetudini di Ponente, di Levante,
dei turchi e del parere del singolo còmito o del singolo capitano di galera; alcuni solevano
mettere molta ghiaia alla rinfusa (fr. en grenier) sul fondo della galera, sino a un certo punto
del fondo stesso; altri mettevano invece ghiaia o pietre in scuffie o panieri depositati sul
fondo; altri ancora ponevano su quasi tutto il fondo e con giusto ordine molte lastre di
pietra viva oppure vi andavano poggiando tra le corbe - qua e là, secondo il loro parere -
sacchetti di canovaccio pieni di sabbia e lunghi quanto la distanza tra l'una e l'altra corba;
altri ancora usavano porre tra i baccalari e sotto le balestriere, quanto e come a loro
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sembrava che meglio fosse, pesanti pezzi dritti e doppi di legna da ardere, lunghi due o tre
quarte, ossia due o tre quarti di braccio, e detti dai veneziani morelli, evidentemente perché
di legno scuro, da non confondersi però con il morelo, una fibra canapacea molto robusta
con la quale si facevano per esempio le corde delle balestre; infine molti andavano
collocando qua e là per la galera palle d'artiglieria (da cui l’oceanico ballast e il suo derivato
lest) o svariate altre cose pesanti, alla ricerca del giusto carico e del giusto equilibrio,
essenziali perché si ottenesse una galera veloce e che si potevano incominciare a
controllare dai traversetti (vn. cèntene), vale a dire da quel cinto di legno largo circa quattro
dita che cingeva da poppa a prua il vivo di tutta la galera sino all'acqua e che corrispondeva
al moderno 'bagnasciuga'. Questi traversetti non dovevano risultare interamente immersi,
perché in tal caso significava che il carico di stiva (cst. e sp. bodega) era stato eccessivo e
che, se non fosse stato ridotto, la galera avrebbe strascinato per mare buona parte dei suoi
corredi d'opera morta, rallentando così notevolmente il suo corso; insomma il còmito
doveva avere a tal riguardo un occhio particolarmente esperto, poiché si regolava appunto
guardando la linea d'immersione e l'apparente equilibrio della galera e non certo andando a
pesare la quantità di zavorra che metteva a bordo. La sabbia, la terra e il sale, come anche
tubature e generi di dispensa, erano pericolose zavorre da evitarsi perché materiali che
presto avrebbero finito per otturare le pompe di sentina rendendole così inservibili e infatti
il nome [gr. Ψάμμος; l. saburra (da sabulum, ‘sabbia’)] è dovuto alla circostanza che
nell’antichità dette pompe non ancora s’usavano e quindi la sabbia era stata molto usata;
d’altra parte usare pezzi di cannone crepati o semplicemente grossi massi come
nell’antichità (infatti in gra. ἒρμα significa sia masso sia zavorra) rendeva difficile lo
smuoverli e quindi lo stivaggio e quindi la miglior zavorra era quella fatta di ciottoli lisci e
puliti, la zavorra vecchia doveva essere cambiata ogni paio d’anni, oppure poteva
ovviamente essere riusata dopo esser stata però opportunamente lavata dalla sporcizia di
sentina (fr. (eau) somache, saumache; ol. brak(-waater), siltig-waater). Anche all’ora come
oggi era proibito scaricare la zavorra nei porti e nei loro canali d’accesso e bisognava farlo
nei luoghi a ciò deputati; l’art. XXXIX dell’ordinamento anseatico del 1591 prevedeva pene
per gli equipaggi contravventori.
Un’importantissima operazione da compiersi ricorrentemente durante la navigazione, ma
specialmente prima della partenza, alla quale abbiamo già più volte accennato e che era di
competenza del còmito della galera (o del nostromo nel caso d'un vascello tondo),
consisteva nel mettere in stiva (fr. plomber) il vascello, ossia nell'equilibrarlo, il che era
essenziale per una buona e sicura navigazione; si trattava appunto di stivare, ossia
873
... così la maggior difficoltà che habbiano i còmiti è il trovar la vera stiva e molti còmiti, che
per altro sono stati sufficientissimi, per non saperla trovare sono stati vergognosamente
cassati e licenziati. (P. Pantera. Cit. P. 76.)
Il pellegrino tedesco Felix Faber descriveva nel suo già ricordato diario di viaggio una
messa in stiva nella quale suo malgrado si era trovato coinvolto nella galea veneziana che
nel 1480 lo stava portando in Terra Santa e ne metteva in risalto la confusione e
l’inesperienza con cui il còmito l’aveva condotta e quindi resa sostanzialmente solo una
perdita di tempo (cit.) Quando si metteva in stiva la galera, era comunque doveroso per il
capitano esser presente, perché in tal occasione ufficiali e marinai cercavano di sistemare
nascostamente a bordo merci di loro proprietà che avrebbero poi rivenduto con guadagno
nei paesi di destinazione; per cui nascondevano roba sotto i sacchi di biscotto, sotto i rotoli
di gomene e sotto le vele, sotto o dentro i contenitori di viveri e di polvere da sparo dopo
averli privati del loro importantissimo contenuto, dentro la canna del cannone di corsia, al
quale poi tappavano la bocca con pezzi di vecchi barili perché non v’entrasse
eventualmente dell’acqua piovana o di mare a rovinare la loro mercanzia; questa era di
varia natura a seconda dei porti di destinazione della galera, come si legge per esempio
degli equipaggi delle galere di Sicilia:
…e, quando vi è viaggio per Genova, sogliono per insino li barili dell’acqua impire di
formento (‘frumento’) e, per Napoli, caso (‘cacio’) e de’ zuccari (‘dolciumi’)… (Discorso circa
874
il modo et maniera ha da tenere un Capitano in governare bene la sua galera etc. S.N.S.P.
Ms. XXII.C.7.)
Dunque è evidente che già allora a Napoli tanto si apprezzavano i dolciumi siciliani e, per
quanto riguarda il frumento, la Sicilia era nel Cinquecento uno dei principali produttori
europei, anche se nel secolo successivo diverse carestie l’obbligheranno poi a importarne
ella stessa e spesso in maniera del tutto insufficiente, tanto da provocare diverse
sommosse popolari, le quali culmineranno poi nella lunga e sanguinosa guerra di Messina;
infatti in tempi di carestia i mercantili frumentari (gr. σιτηγά πλοῖα oppure σιταγωγά πλοῖα)
che portavano il grano dalla Puglia, secondo dei grandi granai italiani, erano spesso
intercettati e sequestrati nelle acque siciliane dalle galere maltesi, le quali obbligavano i
comandanti di tali vascelli a vendere le loro derrate a Malta, cosa che succederà per
esempio nel 1636 e nel 1648. Leonardo Donato (1573), riferendo a proposito della gran
produzione di grano che la Sicilia faceva (la singolare abondanza de’ grani che per benefizio
de’ suoi vicini e lontani produce), diceva che ne usufruivano Venezia, Genova, la Savoia, la
Goletta, Malta, i regni di Catalogna e Valenza e si nutriva di biscotti siciliani tutta l’armata di
mare della corona di Spagna [di modo che quello che si cava è veramente quantità
inestimabile (E. Albéri. Cit. S. I, v. VI, p. 421)]. In verità la Spagna avrebbe potuto ricavare
grano anche dal suo possedimento di Orano in Algeria, la cui regione ne produceva molto e
i genovesi infatti da quella ne importavano regolarmente. Un’altra buona produttrice di
grano era l’isola di Creta, ma non in quantità pari a quella che produceva la Puglia e
nemmeno di pari qualità, perché con la farina pugliese si faceva un pane migliore; infine
buon produttore di biade in generale era anche il principato di Capua.
Anche al loro ritorno in Sicilia le galere di quel regno sbarcavano roba indebitamente
caricata:
…pues la desorden es grande y casi continua, que nunca las galeras salen de Siçilia que no
lleven muchas cosas de contrabbando aun de trigo que hordenariamente los marineros
cargan su parte y parece que le sea permitido para llevarlo a Genua a sus casas, que
(altrimenti) hay pena de la vida allende de otras que estan puestas en este caso, y de la
misma manera nunca las galera llegan a Siçilia que no traygan de Nápoles y de otras partes
semejantes ropas, las quales como cosas de galeras las descargan sin dar notiçia alguna a
los duaneros ni pagar algun derecho… (M. Gambacorta, Discurso etc. Cit.)
…e, si bene il capitano mette delle guardie, questo non serve (a) nulla nelle cose sopra
dette, che nessuno in galera si mette a dispiacere (gli) officiali di detta galera, cioè il
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patrone, còmito e altri… (Discorso circa il modo et maniera ha da tenere un Capitano etc.
Cit. S.N.S.P. Ms. XXII.C.7.)
Il capitano doveva dunque, oltre a esser presente alla messa in stiva in carena, cioè in
quella che poi si dirà camera di mezzo, cercare d’avere dei confidenti che gli facessero da
delatori e inoltre prima della partenza scendere nella fragatina e farsi portare tutt’attorno
alla galera principalmente per costatare di persona se la stessa apparisse sovraccarica o
non ben equilibrata, ma anche perché in tal modo avrebbe potuto, scoprendo magari
mercanzia tenuta nascostamente appesa alle reggiole, ordinare di toglierla. Ma non erano
solo gli ufficiali delle singole galere a darsi a tali indebiti traffici e infatti nella più volte citata
relazione del Badoero, laddove questo residente tratta delle singole qualità dei generali di
mare del re di Spagna, così si legge:
... e tutti poi insieme si dilettano della mercanzia, talché, quando passano d'un regno
all'altro, ne portano tante mercanzie che paiono galere di mercanti. (E. Albéri. Cit. S. I, v. III,
p. 288)
Un grave episodio dovuto al predetto abuso fu quello che avvenne nel 1578, cioè durante il
viceregnato di Marc’Antonio Colonna, a due galere di Sicilia, cioè la Capitana, detta di
Palermo, e la S. Angelo, le quali erano comandate dal capitano Gasparo Ventimiglia; queste
stavano portando dalla Sicilia a Napoli il sunnominato Carlo d’Aragona duca di Terranova e
il conte di Camerata ed erano quasi arrivate, quando il 15 aprile di quell’anno (il 23, secondo
il de Haedo), giunte nei pressi dell’isola di Capri, furono affrontate da otto galeotte turco-
barbaresche e non poterono né difendersi a dovere né fuggire tanto erano imbarazzate e
appesantite di mercanzie; furono quindi prese dal nemico e a stento riuscirono, sbarcando
precipitosamente, a sottrarsi alla cattura i due predetti titolati e parte degli equipaggi,
mentre i 384 remiganti restavano preda del nemico. Il Ventimiglia, incolpato di quanto
successo e processato, si difendeva dicendo d’aver imbarcato mercanzie per ordini
superiori e che, d’altra parte il sovraccarico non era stato poi tale da doversi ascrivere a
esso la disgrazia; certo è che, dopo esser stato tenuto in stato di carcerazione per alcuni
anni, il suo processo non fu mai fatto giungere a condanna. Portate ad Algeri le due
predette galere catturate, la S. Angelo, come abbiamo già ricordato, diventerà quella
personale di Hassan Pachà, il rinnegato veneziano allora governatore di quel regno.
Il residente Matteo Zanne nel 1584 parlerà ancora di tale abuso, dicendo che i capitani
particolari - quindi si riferiva certamente soprattutto ai genovesi, i quali erano quelli che più
usavano dare ad uso (in condotta) le loro private galere - non facevano certo i mercenari al
servizio del re solo per guadagnarne il relativo soldo, ma soprattutto per il trasporto delle
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mercanzie e dei passeggieri e per i contrabbandi e utili così fatti poco leciti. (Ib. S. I, v. V, p.
352.) Ecco perché poi tanto spesso, portando a bordo più merci che uomini di spada,
cercavano d'evitare il combattimento, costringendo ancor oggi gli storici a dotte
dissertazioni sulle machiavelliche ragioni per le quali Andrea d'Oria avrebbe scelto di non
combattere il Barbarossa per mare né durante la campagna di Tunisi del 1535 né alla
Prévesa nel 1538! Ma le conseguenze dannose dovute a tali traffici erano parecchie e per
esempio, perdendosi tempo nei porti nell’attesa di ricevere e caricare tali indebite
mercanzie e dovendosi poi cercare di recuperare tale indugio, spesso succedeva che non si
partiva quando il tempo era propizio, ma dopo quando era cambiato e non più favorevole e
quindi non solo si metteva in pericolo di naufragio la galera, ma si rischiava magari anche
di perdere l’occasione dell’impresa a cui si andava; a volte poi, per far posto a tali
mercanzie, non si caricavano i dovuti quantitativi di provviste e si doveva quindi comprarne
poi in viaggio a prezzi spesso superiori, senza contare che il più delle volte gli ufficiali di
galera, i quali di solito rispondevano della loro gestione amministrativa al solo generale,
non chiedendo questi se non molto raramente di controllarla, commettevano ulteriori frodi e
disordini falsificandone i conti, computando finti acquisti, vendendo indebitamente a loro
vantaggio necessari generi di munizione oppure generi non più utili, ma in ogni caso senza
contabilizzarne il ricavato e dandoli per consumati; inoltre c’erano mercanzie, come per
esempio le balle di lino, molto incendiabili e quindi pericolosissime per un vascello che
avesse frequenti occasioni di combattere; infine, come si accenna in una delle suddette
citazioni, poiché si trattava di merci imbarcate di nascosto oppure passate per generi di
servizio della galera, sia nel loro imbarco in un regno sia nel loro sbarco in un altro, il re di
Spagna perdeva i dazi (l. nabulla, da navis) che su quelle merci sarebbero stati dovuti,
perché ne erano appunto esenti solo le provvisioni di galera e gli effetti personali dei
passeggeri.
Anche in mancanza di regole certe, nel mettere in stiva un vascello bisognava attenersi ai
seguenti due principi generali dettati dall'esperienza; primo, sistemare le cose più pesanti
di sotto e le più leggere di sopra, lasciando la coperta il più sgravata possibile; secondo (e
questo valeva anche per la zavorra), concentrare il peso al centro del vascello, scemandolo
man mano verso prua e verso poppa, in maniera che, per esempio, se al centro era di 100, a
prua e a poppa diventava di 10; insomma, quanto più aggravato era il fondo del vascello
tanto migliore n’era la stiva e quanto più scariche di roba e d’uomini erano la coperta, la
poppa e la prua tanto meglio si navigava. Questi principi erano da rispettarsi
semplicemente soprattutto nelle galere, le quali erano vascelli, come già sappiamo, sottili e
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... perché io ho osservato che'l levar un peso di cento o centocinquanta libre da un luoco e
il far passar doi o tre huomini da una parte della galera ad un’altra l'hanno drizzata senza
altro aiuto, benché prima pendesse manifestamente da una banda, e l'hanno messa in
miglior stiva. (P. Pantera. Cit. P. 77.)
Infatti talvolta, per correggere la stiva, bastava travasare con le manichette di cuoio parte
della provvista d’acqua potabile e di vino in barili situate nel lato opposto del vascello; ma
da che cosa, oltre che dalla predetta linea di galleggiamento, si poteva capire se al vascello
era stata data buona stiva? Da più segni, ma soprattutto dalla poppa, la quale durante la
navigazione stava ferma e stabile senza scuotersi né piegarsi più da una parte che dall'altra,
come se il vascello non si movesse; si capiva inoltre dall'orologio dei timonieri a poppa o
dalle lucerne o da altri oggetti simili che potevano star appesi a mo' di pendolo nelle camere
e negli altri luoghi del vascello; se infatti questi oggetti stavano fermi come se fossero a
terra, allora la stiva era ottima. Si poteva infine ancora comprendere - in caso d’un vascello
remiero - dall'inizio della voga, cioè dalla circostanza che dopo le prime palate la galera o la
galeazza abbrevava facilmente, ossia subito si avviava, e la ciurma non trovava gran
difficoltà nel maneggiare il remo, soprattutto nel cadere sul banco.
Una volta messo un vascello in buon assetto di navigazione, navigandosi di conserva con
altre galee, il còmito doveva far sempre attenzione che la sua non andasse magari a urtare
qualcuna delle altre con conseguente rottura di remi, assetti di voga e magari anche costati
di fiancata, incidenti che ovviamente quanti più erano i vascelli di una squadra o di
un’armata tanto più potevano avvenire e ciò sia per mancanza di visibilità nottura sia per il
maltempo sia per errori di valutazione nel tentativo di non allontanarsi dalle altre galee sia
magari per il desiderio di avvicinarsi di più a quella del capitano generale oppure di arrivare
primi al luogo in cui si doveva andare ad ancorarsi per guadagnarsi così un posto più vicino
878
alla costa, oppure semplicemente perché di notte chi doveva star di guardia o sentinella si
era addormentato. In tali casi, essendo riconosciuta la colpa del còmito, gli si addebitava il
costo delle riparazioni di tutti i danni che si erano così procurati; a meno che però la
responsabilità non fossse da attribuirsi a errore del timoniero, perché in questo caso era a
questi che bisognava addebitare tutti i danni. Di solito però un semplice timoniero non
guadagnava abbastanza da poter risarcire danni tanto elevati, per cui lo si puniva altre
maniere; per esempio nelle armate catalane del Trecento lo si umiliava crudelmente sia
perché rifuggisse da altri errori sia per ammonimento degli altri:
… e, se non può pagarlo né ha con che farlo, per mezza giornata si terrà in piedi su una
botte, a terra davanti alla poppa della galea che avrà danneggiato, in camicia, scalzo, con un
timone nelle mani come se stesse governando, per cui tutti capiscano che ha fatto un errore
nel governare e si stia più attento (è si pagar nou pot, ne ha de qué; segue mig dia en terra
en una bota alt, davant la popa de la Galéa que ferida haurá, en gonella, descalç, ab un
govern en les mans axi com si servaba, per tal que tots veien que ell ha feta errada en lo
servar, è que s'y guarden mils. In Ordenanzas de las armadas navales etc. Cit. P. 90.)
Interessante questo brano anche perché ribadisce che le galee e gli altri vascelli da guerra
attraccavano alla banchina portuale da poppa e non di fianco, come invece
immancabilmente si rappresenta nella moderna cinematografia con ambizioni storiche, ciò
perché i moli di quei tempi erano pochi, anzi a volte unici, e anche brevi e bisognava lasciar
posto anche all’attracco degli altri vascelli; era infatti ai fianchi della poppa che si trovavano
le scalette fisse laterali a disposizione del personale di comando che appunto a poppa
dimorava. Il verbo ‘approdare’ era dunque inappropriato per i vascelli da guerra, mentre era
corretto per quelli commerciali, i quali infatti attraccavano di prua, non potendosi scaricare
né di fianco, per il motivo appena detto, né di poppa, per non impedire le attività di
comando; ma, tornando alla suddetta punizione riservata al timoniero, non si trattava in
questo caso di crudeltà fisica perché ovviamente un altro timoniero non si poteva trovare a
un qualsiasi angolo di strada. A evitare comunque il più possibile tali incidenti, in questo
stesso capitolo si invitava a corrispondere al personale di galera buoni salari in modo da
attrarre al servizio persone ben preparate e non individui di poca arte ed esperienza.
879
Capitolo XV.
coffe sia andando all’arrembaggio, palle di fuoco artificiato, le quali si gettavano a mano o a
mezzo di frombole, pignatte di creta - e più tardi, quando il vetro sarà diventato un materiale
meno prezioso, anche bottiglie di vetro - piene di sostanze esplosive o incendiarie e
granate, queste meglio se oblunghe, in maniera da poter passare attraverso i carabottini
(dal fr. caillebotis) del vascello nemico; si usavano inoltre archibugi e moschetti da braccio
con i loro accessori, archibugi e moschetti da posta, ossia da cavalletto [vn. braga da
pirone, perit(t)olo], i quali, in occasione di combattimento, nelle galere s’aggiungevano
soprattutto sulle pavesate, dardi, spade, pugnali, almeno due spadoni da due mani per
galera e inoltre una buona quantità di armi inastate, anche se, come abbiamo già spiegato
per quanto riguarda queste ultime, non tutti i generali e i comandanti di galea erano del
parere di farne negli abbordaggi un largo uso, essendo nel loro maneggio, soprattutto di
quelle falcate e bipennate (l. falx o hafta falcata, securis, bipennis o fecuris anceps; gr.
δρεπάνη o δορυδρέπανον, πέλεϰυς ἐτερόστομος, πέλεϰυς ἀμφίστομος), pericolose per gli
stessi propri compagni; ma, anche se molte di queste erano diventate nella guerra di terra
ormai del tutto obsolete, in quella di mare erano innegabilmente ancora utilissime - come
del resto anche le trombe e picche di fuoco - a respingere o a facilitare gli arrembaggi, e si
trattava appunto di picche, mezze picche, spuntoni o brandistocchi, alabarde, partesane,
corsesche, spiedi, forconi, ronconi, rampini [vn. rampiconi o rampegoni; fr. (hé)(é)risson,
(grapin de) fer, (ha)rpeau(x); ol. (enter-)dreggen] ecc. Queste armi si tenevano non solo per
soldati e marinai, ma, come abbiamo già spiegato, eventualmente anche per parte della
ciurma. Bisognava disporre inoltre, per quanto concerne le armi difensive, di una buona
scorta di morioni, petti a botta d'archibugio, giubboni di piastra (cioè di pelle ma includenti
una piastra di ferro pettorale), corazzine, rotelle, targhe; infine, ovviamente di polvere e
palle d'artiglieria, polvere e palle per moschetti e archibugi con piombo e calibri per farne;
infine i materiali pirici per fabbricare i predetti fuochi artificiati e quelli da festa.
Dell'altro materiale di bordo d’una galera prescritto dal Pantera elenchiamo ora quei soli
corredi che più possono suscitare l'interesse del nostro lettore:
incatenare i galeotti.
Un numero di manette di ferro sufficiente per tutti gli schiavi (‘remiganti prigionieri
mussulmani’) che fossero a bordo.
Un piede di porco e due incudini con tagliaferri, buttafuori e mazzette per ferrare e sferrare
la
ciurma.
250 barili per acqua, 6 botti e 16 quartaroli (‘quarti di barile’) per il vino, una botte per
l'aceto, 6 barili (o altri vasi) per l'olio, sacchi per il biscotto.
Buglioli per il vino, per l'acqua, per aggottare e per spalmare.
Una manichetta di corame (fr. manche à eau ) per riempire le botti di vino.
26 cuoi o pelli di vacca per coprire i banchi.
Ampioni (‘lampioni’) grandi e piccoli normali e ampioni a candele di cera per i fortunali.
Una chiesola (‘armadietto’) con le sue lampade per la bussola.
Quattro bussole, due grandi e due piccole, e una carta da navigare.
Due ampollette (‘clessidre’) con le sue molle (‘corona di grani’).
Due bilance e una statera grossa.
Due torce da accendere mentre si recita il Salve Regina.
Una cassetta per l'elemosina (per il cappellano).
Un crocefisso o altra sacra immagine per confortare i moribondi.
Un ramarolo, ossia pentola di rame, per fare l'acqua cotta (‘l'acqua calda’) per gli ammalati.
Un forno di ferro o di rame.
100 piatti di stagno per la gente di poppa e per gli altri ufficiali.
Quattro candelieri o lucerne.
Due bacili per lavarsi le mani.
Bicchieri d'argento o di vetro a piacere del capitano.
12 tovaglie, 80 salviette e 24 asciugatoi per la gente di poppa.
20 tovaglie grosse, 100 salviette simili e 20 asciugatoi per gli ufficiali.
Due sedie di cuoi, sei scabelli o scagni di cuoi, due buffetti ossia pouf, un tappeto, quattro
strapunti, il tutto per la poppa.
Doi tavole con le lor battagliole (‘sostegni’) per la credenza del capitano. tre tavole simili per
gli officiali, còmito, padrone e sottocòmito. (Ib. Pp. 171 e segg.)
Per vestiario della ciurma era necessario che ogni galeotto disponesse d'un cappotto
d'albagio, d'una camisciola, ossia giubbetto, di panno o d'albagio, di due camicie e di due
paia di calzoni di tela, d'un berrettino rosso e d'un paio di calzettoni d'albagio per l'inverno;
in più, calzette e scarpe per quelli che si conducevano a lavorare a terra; inoltre ognuno
d'essi doveva disporre d'un ago grosso per cucire vele, tende e altri simili tessuti forti e uno
piccolo per cucirsi i vestiti; erano infine necessari almeno 20 rasoi per rasare la ciurma.
Passando ai tendami, diremo che occorrevano per ogni galera sottile 350 canne di tessuto
per la tenda di canovaccio e 330 per quella d'albagio; inoltre canne 40 per il tendale di
poppa di cotonina e canne 48 per quello d'albagio; canne 40 per due parasoli, ossia, come
già sappiamo, tendaletti - anch’essi di cotonina - per la poppa, canne 25 di panno alto per
costruire, sempre a poppa, una cameretta di panno con le sue porte; ancora:
882
... Per due porte d'arbascio (‘d'albagio’) che vadano dalla poppa alla prora e due per le
spalle della poppa e due per la prora, canne 120. (Ib.)
Occorrevano infine 270 canne di canevaccio per foderare le predette porte e il tendale
d'albagio e per guarnire la tenda d'albagio.
Per quanto concerne poi le vele, un bastardo voleva canne 900 di cotonina di Calabria -
oppure di Marsiglia o di Genova, pezze 27 di canevaccio per guarnirlo e libre 40 di spago
per cucirlo; sempre di cotonina occorrevano poi canne 600 per una borda, 400 per un
marabutto, 300 per un trevo, 250 per una mezana e 300 per un trinchetto, considerando però
che alcune galere usavano portare quadra anche questa vela, e il canevaccio e lo spago in
proporzione. Per le galere bastarde i predetti quantitativi di cotonina e di relativi materiali di
rifinitura andavano aumentati.
Un preventivo di forniture (gr.πλόιμα, πλώιμα; grb. πλουστιϰά) per galera che si ritrova
all'Archivio di Napoli e che è datato 1643, quindi sotto il viceregnato di Ramiro de Guzman
duca di Medina de las Torres (1637-1644), conferma, anche se di parecchio più tardo, la
qualità dei predetti generi tessili, sia per quanto riguarda il vestiario dei remieri, sia per vele
e tendami; tralasciamo stavolta i quantitativi (Fondo delle galere. Sez. Mil. A. S. N.):
…
Panno torchino
Panno rosso
Erbascio (albagio) de Leone (‘Lioni’ nell'Avellinese)
Erbascio de Gefuni (‘Giffoni’ nel Salernitano)
Cannavetti bianchi
Barrettini (‘berrettini’) fini
Barrettini ordinari.
Scarpe e calzette
Cottonina de Marseglia
Cottonina de la Costa (antico nome di Arienzo nel Casertano; oggi solo di una sua frazione.)
Cannavacci
Schiavine
Seguono poi al predetto preventivo effettive consegne di tessuti alla Regia Munizione
dell'arsenale di Napoli, la quale era situata non nell'arsenale vero e proprio, bensì nel
retrostante Castel Nuovo; si tratta di consegne effettuate dal 20 aprile alla fine di luglio del
suddetto 1643 e da esse si ricavano le seguenti interessanti informazioni (Ib.):
- i berrettini fini sembrano destinati ai galeotti delle sole galere Capitana e Patrona;
- le scarpe per i galeotti che si conducevano a lavorare a terra sono di pelle di vacchetta e le
relative calzette de Tavancola (‘Teverola’ nel Casertano o ‘Tavernola’ nell'Avellinese?) sono
turchine;
883
- il panno rosso è quello di Piedimonte d'Alife nel Casertano, mentre quello turchino è di
Sirignano nell'Avellinese; il primo è fornito in quantità all'incirca quadrupla del secondo;
- la cotonina di Genova sembra esser la stessa che viene anche chiamata de la Costa e
quindi potrebbe trattarsi di Costarainera presso Imperia;
- i cannovetti sono di Piedimonte;
- i cannovacci sono del tipo carmignola e sono forniti in balle;
- l'arbascio di Gefuni è suddiviso in due qualità, ordinario ed extraordinario;
- l’arbascio de Leone è detto de retaglia per cappotti.
Tra gli altri materiali di bordo notiamo canape per cordame, barili di pece, catrame, stoppa,
barili di sego per due spalmature, cuoi grezzi [fr. cuirs verds; ol. (vasche beest-)vellen;
vuur-kleeden; huiden] per coprire gli sportelli in occasione di fortunali o per tema che
lasciassero entrare scintille di fuoco, legnami di garbo, ossia pieghevoli, quadre e tavole di
pioppo e d'abete per poter riparare la galera ove necessario, chiavaggione, ossia chioderia,
e ferramenti d'ottone e di bronzo, perché quelli di ferro, tranne i rari stagnati (ma dalla metà
del Settecento si comincerà a zincare i chiodi, ossia a galvanizzarli), si sarebbero arrugginiti
velocemente.
884
Capitolo XVI.
L’ARTIGLIERA NAUTICA.
Nella guerra nautica l'importanza dell'artiglieria era, dalla seconda metà del 500, ormai
ancora più indiscussa che nella guerra terrestre:
... E, perché l'artigliaria è il propugnacolo dell'armata e la più efficace arma che si possa
adoprare nelle fattioni di guerra ...] ammazzando le schiere intiere d'huomini in un colpo e
fracassando gli arbori, i remi e le galee istesse... (P. Pantera. Cit. P. 389.)
Non possiamo inserire nello svolgimento di questa nostra già corposa trattazione anche la
descrizione dettagliata della tecnica dell’artiglieria del Cinquecento, perché materia molto e
complessa e per la quale rimandiamo il lettore ad altro nostro testo a essa dedicato, come
del resto abbiamo già detto che faremo per gli eserciti del tempo in generale; diremo
pertanto ora solo dei tipi, dell'uso, della disposizione e degli accessori delle bocche da
fuoco adoperate in marina, specie di quelle da galera. Bisogna innanzi tutto osservare che i
vascelli andavano sì ben armati d'artiglieria, ma non tanto da aggravarli troppo e renderli
lenti e poco atti alla navigazione e pertanto nei primi secoli, cioè quando i vascelli da guerra
erano ancora piccoli e leggeri, si preferiva armarli di artiglierie di ferro colato piuttosto che
di bronzo; infatti la qualità delle bocche da fuoco d’un vascello si giudicava innanzi tutto
dalla materia di cui la maggioranza dei pezzi di bordo era fatta, cioè se di bronzo o di ferro
colato, perché quelli di ferro, anche se meno costosi e meno frangibili, erano molto meno
potenti, in quanto si riscaldavano con l'uso molto più in fretta, inoltre si arrugginivano
immancabilmente per l'azione della salsedine e delle intemperie marine e infine, se collocati
in prossimità della chiesuola della bussola, falsavano alquanto il funzionamento dell’ago
magnetico. Per armare i vascelli della già ricordata spedizione navale del 1529 condotta da
Hernán Cortés alle Isole Molucche perfino i falconetti si comprarono di ferro (veinte é tres
tiros falconetes de hierro, que han en los dichos navíos. In Colección de documentos
inéditos etc. T. II Cit. P. 405-407); ma si erano imbarcati però anche i seguenti tre grossi tiri,
cioè bocche da fuoco, di bronzo:
- un tiro grande de bronzo chiamato Santiago con quaranta quattro palle di ferro e uno
stivatore e un nettatore e due bulloni e un tassello, (costò) millesettecento pesos.
- Item un altro tiro de bronzo chiamato Juan Ponce con cinquanta palle di ferro e due
bulloni e un tassello e il suo stivatore e il suo nettatore tutto accomodato, costò
(mille)quattrocento pesos.
885
- Item costó un altro tiro di bronzo chiamato San Francisco con cinquanta palle di ferro e
due bulloni e un tassello e stivatore e nettatore tutto molto ben accomodato, costò
millecinquecento pesoso (ib.)
Stivatore e nettatore sappiamo già cosa sono, mentre, per quanto riguarda i due perni e il
tassello, possiamo immaginare che forse servissero a tappare il focone quando la cassa
non era in uso o forse a fissare l’arma ad uno zoccolo di legno.
Si aggiungano in fornitura 3 barili di polvere per un totale di 5 quintali di libbra, una quantità
certo troppo limitata per tante bocche da fuoco e che quindi non doveva essere stata l’unica
provvista di polvere per quell’impresa.
Anche i vascelli commerciali erano tenuti a portare a bordo artiglierie di bronzo o di ferro
colato per la propria difesa e per esempio un’ordinanza reale del re Filippo Terzo
promulgata a Toledo il 26 marzo del 1600 ribadiva l’obbligo per l’Artillero Mayor
dell’esercito di andare a controllare archibugi e artiglierie di tutti i vascelli commerciali in
partenza per le Indie Occidentali dai porti di Siviglia, Cadice e Sanlucar (Recopilación de
Leyes de los Reynos de las Indias. T. III, p. 279 verso. Madrid, 1681).
Nel Seicento verranno introdotte dagli svedesi e dai francesi artiglierie navali di ghisa,
materiale più duro del bronzo e molto più resistente al surriscaldamento; per esempio
vedremo nel 1657, oltre alla già ricordata fregata francese Le Chasseur, La Reine, vascello
anch’esso francese, ma costruito in Svezia, il quale sarà equipaggiato con 237 uomini e
armato con 30 cannoni di ghisa e 2 di ferro. Nelle galere dunque il pezzo più importante era
quello detto di corsia o corsiero, in quanto appunto situato a prua in corrispondenza
dell'estremità anteriore della corsia, e si trattava ordinariamente d’un cannone che lanciava
palle di ferro da 35 a 50 libre ciascuna. Alcuni capitani di galera preferivano usare come
pezzo di corsia invece una colubrina da 30 libre di palla di ferro, visto che questo pezzo
tirava più lontano del cannone da 50 ed era di questo anche più leggero, appesantendo così
di meno la prua della galera e facendola pertanto navigare meglio; ma questi avevano torto,
perché, anche se un pezzo d'artiglieria era fatto per tirare molto lontano, in mare era
estremamente difficile colpire da grande distanza un bersaglio mobile qual era un vascello
nemico e per lo più da una piattaforma anch'essa mobile qual era il proprio vascello:
... che, di molti pezzi che si scaricano da lontano, uno a pena e per sorte colpisce. (Ib. P. 86.)
Inoltre un proiettile da 50 faceva certamente più conquasso nel vascello nemico di quanto
ne potesse provocare uno da 30, anche se più violento e perforante, ed era questo il
886
concetto per cui sino a tutto il Cinquecento - e a volte anche oltre - nella guerra nautica si
erano usate come proiettili anche grosse palle di pietra tirate da pezzi di concezione
quattrocentesca, dalla canna molto larga e corta e detti appunto cannoni petrieri; queste
palle infatti erano sì dotate di scarsa forza di penetrazione, per essere - anche se di maggior
dimensioni di quelle di ferro - di minor peso e di natura frangibile, ma proprio per queste
loro caratteristiche erano adattissime a sconquassare bersagli 'morbidi' come la parte
emersa dei vascelli di legno (fr. coups en bois) e gli assembramenti umani che su d’essi si
trovavano. La forza perforante era infatti nella guerra nautica molto efficace solamente sotto
la linea di galleggiamento del vascello nemico (fr. coups à l’eau), al fine di procurargli una
falla che lo facesse colare a picco (dal fr. pic-à-pic) in breve tempo; con un solo colpo
fortunato del pezzo di corsia si poteva infatti mandare a fondo una galera nemica. E se era
vero che con la colubrina da 30 la prua risultava più leggera e la galera più veloce, era
anche vero che un capitano marittimo doveva vincere il nemico e non gare di velocità; si
poteva comunque rimediare al maggior peso del cannone da 50 facendogli la cassa quanto
più corta era possibile e anche facendo il tamburetto, ossia lo spazio davanti all'albero di
prua, cortissimo, in modo che, tirato il cannone più indietro, vicino al medesimo albero, il
quartiero della prua rimanesse meno aggravato, il che non si poteva ottenere colla
colubrina (fr. coulevrine; ol. slang) per essere questo pezzo sensibilmente più lungo. Infine
il cannone da 50 era, a causa appunto della maggior larghezza di canna rispetto alla
colubrina, molto più capace di proiettili doppi, come le palle incatenate (fr. boulets à chaîne;
anges; ol. ketting-kogels), ossia due palle o mezze palle unite da una catena lunga non più
di tre o quattro piedi, come le palle (in)ramate più conosciute come angioli (fr. boulets à
branche ou à deux têtes, ol. bouts-kogels, staf-kogels, draadt-kogels, knuppels ecc.), cioè
palle o mezze palle unite da una barra di ferro lunga 5 o 6 pollici, proiettili – sia le une che le
altre - molto usati in mare per spezzare al nemico alberi e manovre; oppure scuffie,
scartocci, sacchetti (ol. schroot-sakken), lanterne o tonnelletti, i quali erano involucri pieni
di pallottole di piombo, scaglie di selce o di ferro e pezzi di catene, proiettili insomma con i
quali si faceva ancora più danno agli equipaggi nemici e ai loro vascelli insieme. Molto
efficaci come proiettili erano le branche di catene, costituite da 4,5 o sei fila ciascuna, a
seconda della grossezza delle catene; si usavano generalmente quelle per incatenare i
galeotti al loro banco, delle quali abbiamo già detto, e le loro fila ripiegate si legavano
insieme con una piccola fune prima d’introdurle nel potente cannone di corsia; uscendo
questo proiettile dalla canna del pezzo, la funicella subito si spezzava, la catena quindi si
apriva orizzontalmente e, arrivando così sull'obiettivo, ne spezzava gli alberi, anche quelli
887
dei maggiori navigli, facendoli cadere in coperta con conseguente strage del nemico,
oppure fracassava quant'altro incontrasse e uccideva molte persone in un sol colpo. Poco
usate erano invece a bordo le palle infuocate (fr. boulets rouges; ol. gloeijende kogels),
proiettili incendiari senza dubbio efficaci, ma che riuscivano ovviamente troppo pericolosi -
sia da preparare che da sparare - per lo stesso vascello che li sparava.
L’uso sempre più frequente nella guerra nautica dei suddetti proiettili doppi o a due teste,
più pesanti quindi di quelli semplici, farà ’sì che un secolo dopo le artiglierie di bronzo dei
grandi velieri da guerra saranno presto fatte di metallo più spesso e pesante di quello fuso
per le artiglierie di terra e ciò perché il principio fondamentale dell’artiglieria era che
proiettile più pesante voleva maggior carica di polvere e maggior carica di polvere canna e
culatta più robuste; insomma allora troveremo le artiglierie navali fatte anch’esse - così
come le loro casse - alla navaresca, ossia apposta per la guerra nautica, e non solo perché
saranno più doppie di metallo, ma anche perché saranno più corte di canna; sparandosi
infatti le bordate abbastanza da vicino, si rinunzierà volentieri alla quindi non necessaria
lunga portata dei pezzi, qualità per la quale la lunghezza della canna era invece essenziale,
e si preferirà invece il poterli caricare e servire più facilmente e inoltre l’evitare
l’occupazione di troppo spazio nel rinculo.
Nelle galere ponentine post-rinascimentali a ogni fianco del pezzo di corsia, cioè sotto le
rembate, si portava di solito un sagro e, all'esterno di questo, una moiana, pezzi questi
ambedue generalmente da otto o nove libre di palla di ferro - ma potevano arrivare sino a 12
- e di lunga portata, utili quindi a traccheggiare e scaramucciare il nemico, cioè a molestarlo
e danneggiarlo da lontano per tenerlo discosto. Le moiane si ponevano all'esterno verso i
bordi perché, essendo di canna molto più corta dei sagri, erano più facili da caricare e il
bombardiero per farlo non aveva infatti bisogno di scendere sulla palmetta, dalla quale, a
causa della sua strettezza, si servivano bene solo i tre pezzi centrali. Appresso a ognuna di
queste due moiane si poneva un cannone petriero da 15 o più libre di palla di pietra, il quale
però ora non si usava solo per tirare grosse palle di pietra, uso dal quale aveva tratto il suo
nome, ma, essendo di canna larga, si caricava bene, come abbiamo già detto, anche e
soprattutto con palle di fuochi artificiati incendiari o palle inramate e poi con mitraglia fatta
di scaglie di ferro di diverse lunghezze (fr. chevilles de fer; ol. schiet-bouten), le quali erano
molto adatte, oltre che a uccidere gli uomini, anche a tagliar le manovre, di dadi di ferro e
palle di piombo d'archibugio e di moschetto, di sassi vivi e scaglie di selce, di ramali
(‘fascetti’) di catene, di vecchi chiodi e teste di chiodi, di altra vecchia ferraglia minuta o
frammentata (ol. los scherp, kardoes-scherp, kardoes-schroot), la quale mitraglia si sparava
888
racchiusa nei suddetti tipi d'involucro; quest'ultimo pezzo però, essendo corto e di gran
bocca come tutti i petrieri, tirava poco lontano e si soleva pertanto spararlo all'incontro con
il vascello nemico, affinché facesse colpo sicuro, fracassandolo con la palla di pietra, ma
più soventemente facendo strage del suo equipaggio con la predetta mitraglia.
Questi suddetti nove pezzi erano dunque l'artiglieria del giogo di prua; ma più indietro,
verso le posticcie e sempre uno per banda, si poneva una petriera (ol. basse), pezzo che
poteva essere di ferro o di bronzo, o uno smeriglio, ambedue piccole bocche da fuoco da
braga (in vn. impropriamente da coda), ossia da un più complesso caricamento a
retrocarica che non staremo però adesso a spiegare, ma comunque dal maneggio più
agevole proprio perché la retrocarica non necessitava d’una ritirata del pezzo e quindi di
molto spazio libero retrostante. Questi piccoli pezzi, i quali avevano ambedue un calibro
che andava dalle sei alle 12 once, ma il primo di palla di pietra e il secondo di piombo, si
caricavano spesso, oltre che con piccoli scartocci di mitraglia, anche con piccole palle
ramate, ossia due o tre palle infilate in una barretta di ferro, od incatenate che dir si voglia,
perché il loro colpo fosse più certo, e ciò si faceva nel seguente modo; quando si stava per
investire la galera nemica, si dava contemporaneamente fuoco ai due pezzi caricati ognuno
con palla ladina, ossia leggermente più piccola di quanto il pezzo stesso normalmente
portasse, e incatenata a quella dell'altro, vale a dire con le due palle unite da una lunga e
sottile catena stesa liberamente davanti alla prua della galera, in modo che questa andasse
a tagliare i cordami e a stracciare le vele che incontrasse. Il metodo più comune di sparare
palle incatenate era però quello di porre nel maggior cannone due mezze palle - o due palle
più piccole - unite da una catena e le quali, una volta sparate, si allargavano tendendo così
la loro catena; questa, se coglieva un albero o un’altra struttura, l'abbatteva con grande
rovina; questo più semplice modo d’usare le palle incatenate si era cominciato a usare
molto negli episodi navali delle guerre di Fiandra che afflissero la seconda metà del
Cinquecento. Lo smeriglio aveva anche nome più antico in moschetto da braga e nel
Settecento avrà sulle galere francesi un pezzo corrispondente, il quale si chiamerà
escarpine, pezzo questo a croc (crochet), ossia a forcella fissa posta sul parapetto del
bordo, come del resto potevano essere anche i due predetti, e che, come lo smeriglio, sarà
molto usato per sparare piccole palle ramate.
Infine ad ambedue le spalle della poppa le galere portavano un altro smeriglio o un piccolo
petriero o al limite anche un falconetto (fr. fauconneau, éspoir; ol. valkenet), pezzo dalle tre
alle quattro libre di palla di ferro, ma non altro perché altrimenti la poppa ne sarebbe
risultata troppo aggravata. Il Sereno racconta che a Lepanto Giovanni d’Austria dalla sua
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... Ma i veneziani, che sono diligentissimi osservatori de gli avantaggi di questa professione
[...] sogliono armar le lor galee con molto maggior numero di pezzi. (Ib. P. 88.)
Infatti, oltre all'artiglieria sopradescritta, i lagunari usavano talvolta garidare le loro galere
sino all’albero, cioè alzare un prolungamento all’indietro delle rembate, detto le forcade,
proprio per porvi sopra alcuni falconetti a cavaliere, ossia in posizione più elevata dei pezzi
del nemico; inoltre solevano portare alcune petriere da mascolo, ossia le predette che prima
abbiamo definito da braga, al fogone e anche al lato opposto in corrispondenza della
boccaporta del pagliolo e ancora un piccolo petriero e uno smeriglio o falconetto a ogni lato
della poppa. Questo modo d’armare le galere, detto appunto alla veneziana, era molto più
vantaggioso di quello usato dai ponentini; infatti, pur appesantendo al quanto la galera, non
la ingombrava tanto da impacciarne i servizi di coperta e ci si poteva così difendere anche
dai fianchi e dalla poppa, cosa che non era possibile alle galere ponentine, le quali, come
abbiamo visto, portavano quasi tutta la loro artiglieria concentrata a prua; il Pantera quindi
in teoria consigliava senz'altro l'armamento alla veneziana per tutte le galere. Ecco l’
armamento ordinario d’una galea veneziana, come descritto con molta chiarezza dal
veneziano Giovan Battista Colombina, capitano dei bombardieri di Trevigi, in una sua
operetta del 1608:
…se gli mette per ordinario 13 pezzi di artigliaria; il primo e principale è un cannon da 50
overo una colubrina da 30, un falcon da 6, tre falconetti da 3, doi petriere da 14 e sei petriere
da 12…
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… Quanto all’artellaria, tutte cento galee sono all’ordine secondo l’uso vecchio, ma
dovendosi armar alla moderna, mancheranno:
Centocinquanta periere da sei con suoi mascoli.
Trecento e dieci periere da tre con suoi mascoli.
dall’interno all’esterno – un falcone da 6, una petriera da 14, due da 12. Più indietro nel
quartiere, cioè all’inizio della zona dei remigi, un’altra petriera da 12. Un perit(t)olo da 3
(‘falconetto da incavallettare’) in corrispondenza del fogone, quindi al solo fianco sinistro, 6
trombe di fuoco, da usare dove necessario, 50 pignatte esplodenti, due sacchetti per il
suddetto falconetto da 3, due per il cannone di corsia contenenti ognuno una palla di ferro
per falconetto da 1, una catena da sparare col detto cannone, una manovella grande con
braga per caricare a bordo le artiglierie, due mezze lunette (‘squadre’) per metter a segno
‘(puntare, mirare’) i falconi da 6, 3 braghe di ferro bucate provviste di pirone (‘forcina’) da
incastrare attorno alla coda dei 2 predetti falconi da 6 e quello da 3 per incavallettarli e
poterli così girare a 360 gradi.
Le galeazze e le galee grosse, vascelli che, come sappiamo, erano molto più grossi e
robusti delle galere, portavano ovviamente molta più artiglieria, cioè circa 70 pezzi, il
maggiore dei quali era anche qui il cannone da corsia, un pezzo dalle 50 alle 80 libre di palla
di ferro; la corsia d’una galeazza non era infatti più larga di quella d’una galera e quindi
anch'essa non poteva contenere più d'un solo pezzo. Ai lati del predetto cannone, cioè a
ogni fianco dell'estremità di prua della corsia, c'erano due altri cannoni poco meno grossi
del precedente e sempre a prua - sopra e sotto la piazza del castello - circa altri 10 pezzi tra
mezzi cannoni, mezze colubrine, moiane o sagri; altri otto di questi pezzi si portavano a
poppa, cioè alle spalle e sulla piazza; infine tra ogni banco e l'altro, dalla poppa alla prora,
c'era un petriero dalle 30 alle 50 libre di palla di pietra, pezzo questo che, essendo corto, si
poteva facilmente maneggiare in quei luoghi angusti. Tale armamento delle galeazze è
confermato dal Crescenzio, anche se laconicamente:
... Sogliono mettere nelle prode delle galeazze pezzi quattordici d'artiglieria diversa ed otto
in poppa e uno per bancata... (B. Crerscenzio. Cit. P. 513.)
Galeoni e navi si armavano diversamente a seconda della loro grandezza, della occasione a
cui erano destinati e dell'opinione dei loro capitani, dei quali alcuni tenevano artiglierie sia
sopra che sotto la coperta, altri invece, come per esempio quelli ragusei, preferivano
armare solamente la coperta e i castelli. Generalmente, se il galeone o la nave era destinata
a portar mercanzie, soldati e particolarmente cavalli, allora l'artiglieria si poneva tutta sopra
i cassari, cioè i due castelli di poppa e prua, e sopra la coperta; se invece il vascello era
destinato unicamente alla guerra, allora si poneva un ordine di pezzi anche sotto la coperta,
anche se in effetti, stando al chiuso e in mancanza d'aria, questi pezzi di corridorio [fr.
co(u)radoux], ossia di frapponte, tormentavano molto di più degli altri la struttura del
892
vascello. Questo secondo modo era però ovviamente molto più efficace in combattimento,
specie contro vascelli bassi sull'acqua come le galere, poiché i tiri sparati dall'alto, detti tiri
di ficco, facevano poco danno, in quanto si fermavano nel punto che coglievano o ne
rimbalzavano via, uccidendo così al massimo un solo uomo, mentre il tiro a livello, detto
perlopiù tiro per il nivello dell’anima oppure di punto in bianco, come già accennato,
perforava il vascello e poteva quindi anche affondarlo, inoltre poteva uccidere più uomini
posti sulla stessa traiettoria, come era rimasto memorabile che aveva fatto il 28 aprile 1528
il cannone di corsia della galera del capitano generale Filippino d'Oria alla battaglia di Capo
d'Orso nel golfo di Salerno, località sita tra gli abitati litorali d’Erchie e Maiori, quando con
un suo colpo a zero gradi d'elevazione, presa d'infilata la coperta della galera Capitana
nemica comandata dal vicerè di Napoli fra’ Hugo de Moncada (1527-1528), n’uccise più di 40
uomini tra ufficiali – tra cui lo stesso predetto vicerè, il marchese del Vasto, Pedro de
Cardona e Luis de Guzmán, soldati, marinai e remieri, botta fortunata alla quale Filippino
dovette senza dubbio principalmente la sua vittoria. La concomitanza di due circostanze,
cioè la grande efficacia di questo colpo del pezzo di corsia di Filippino e il nome di basilisco
con cui egli amava chiamare tale bocca da fuoco, fecero pensare all’erudito Carlo d’Aquino
che si trattasse effettivamente d’un pezzo di tal genere; ma era cosa impossibile perché una
leggera galera – ma in effetti nemmeno una nave – avrebbe potuto sopportare un simile
enorme peso tutto concentrato a prua. Ciò nondimeno, in considerazione del predetto
nomignolo attribuitole da Filippino, doveva sicuramente trattarsi d’una bocca da fuoco
maggiore di quelle solitamente utilizzate come pezzi di corsia; forse era un cannone
bastardo o colubrinato, oppure una colubrina di calibro sensibilmente superiore alle
comuni 30 libre di palla; in ogni caso non un doppio cannone, troppo pesante per un
vascello del tempo, né tanto meno un basilisco, il quale sarebbe stato non solo
eccessivamente pesante, bensì anche troppo lungo e quindi privo di spazio per rinculare.
La maggior utilità delle postazioni basse per l'artiglieria di bordo diventerà in seguito
sempre più ricercata, tanto che nel Settecento i pezzi più grossi dei grandi velieri, cioè
quelli costituenti le due grandi batterie di bordo, saranno posti di regola sul primo ponte (fr.
franc-tillac), ossia su quello più basso posto sul fondo di cala e quasi a fior d'acqua, in
modo da poter così agguagliare la grande efficacia dell'artiglieria delle galere, la quale, data
la particolare bassezza di questi vascelli, si trovavano situate, come sappiamo, quasi a pelo
d'acqua; a volte però, specie nelle fregate, la prima linea di fuoco sarà tanto bassa che
bisognerà caricare i cannoni a sabordi chiusi, in modo da lasciar all’onde meno occasioni
d’entrarvi, e infatti nell’oceano si definiva un vascello ottimo da combattere (ol. een wakker
893
schip) quando aveva la predetta batteria principale alquanto alta sull’acqua e i ponti in
generale anch’essi non meno alti di cinque piedi l’uno, in modo da permettere a cannonieri
e serventi un più comodo maneggio dei loro pezzi.
L'artiglieria d’un galeone o d'una grossa nave armata nel periodo post-rinascimentale era
dunque generalmente la seguente: da 14 a 20 pezzi in coperta, cioè i più grossi, affinché
posti lassù tormentassero meno il vascello, e si trattava alla poppa due o quattro mezze
colubrine da 12/18 libre o colubrine da 30 o cannoni da 50, posti alle bande del timone; due
altri pezzi simili si collocavano a ogni lato della mezzania della nave, dove, essendo quella
la zona più larga del vascello, tali pezzi grossi vi stavano ben proporzionati; poi, sempre per
ogni lato, dalla mezzania alla poppa almeno due cannoni petrieri e altri due dalla mezzania
alla prua, pezzi questi di palla grossa, ma, come sappiamo, corti di canna e pertanto adatti a
questi siti dove il vascello era più stretto; a ogni lato della prua infine uno o due pezzi dei
tipi già detti per la poppa, oppure nessuno se il vascello non era tanto grande. Sotto la
prima coperta o coèerta esterna, ossia sulla seconda coperta, si dovevano collocare
almeno altri 12 pezzi, cioè per cominciare 2 per parte alla mezzania, trattandosi delle
predette mezze colubrine o di mezzi cannoni, questi di circa 30 libre di palla, sebbene alcuni
preferissero pezzi più piccoli quali sagri o moiane e ciò per evitare l'eccessivo intronamento
e tormento che, come abbiamo già detto, i pezzi grossi posti sotto coperta in genere
provocavano al vascello, ma, per evitare il più possibile questo dannoso effetto, era
comunque necessario che i pezzi dell’infrapponte fossero posti perfettamente in piano a
diritta linea, come allora si diceva; poi, dalla mezzania alla poppa, 2 petriere da braga e altre
2 dalla mezzania alla prua, sempre per ogni lato.
La predetta artiglieria dei grandi velieri poteva però, se lo si riteneva necessario, essere
accresciuta; per esempio si potevano accomodare su ogni castello da sei a otto petriere da
braga oppure smerigli da una libra, mettendo quelli di poppa affrontati con quelli di prua, in
modo che tutti potessero un po' dall'alto spazzare con la mitraglia il proprio ponte di
coperta scacciandone così il nemico che se ne fosse impadronito, cosa che molte volte era
accaduta, allo stesso modo in cui dai fianchi alti dei baluardi d'una fortezza di terra si
poteva spazzare la propria cortina caduta nelle mani del nemico. Vi erano stati poi galeoni e
navi d'eccezionale grandezza che avevano portato una sterminata artiglieria, quale per
esempio il già più sopra menzionato galeone che misero in mare i veneziani nel 1559,
vascello dai circa trecento pezzi d’artiglieria - tra grandi e piccoli - e destinato a esser
guarnito da ben 500 soldati, ma sfortunatissimo, perché, come racconta nel suo Delle
Historie de’ suoi tempi, Venezia 1589, anche lo storico Natale Conti, appena varato fu
894
rimorchiato nel porto di Malamocco in località Due Castelli, dove fu lasciato pressoché
incustodito; investito colà da un’improvvisa tempesta, imbarcò molt’acqua dai sabordi non
serrati a dovere e il peso di quella provocò lo spostamento da un solo lato delle artiglierie,
le quali evidentemente nemmeno erano state debitamente legate, delle palle di quelle e dei
barili di polvere, già pure portati a bordo in grandissimo numero, e così inevitabilmente
anche il repentino abboccamento, vale a dire rovesciamento, e l'affondamento; vani i
tentativi che furono in seguito fatti, anche dal famoso ingegnere Bartolomeo del Campo, per
far riemergere il vascello, sempre più preso dalla tenace fanghiglia del fondale, e si riuscì
più tardi solo a recuperare qualche gran cannone già incrostato di conchigliame. Sfortunati
i galeoni veneziani! Infatti nel 1621 un altro, detto questo galeone del Balbi e famoso
anch’esso per grandezza e armamento, verrà dolosamente incendiato. Per quanto riguarda
la vastità dell’armamento, soprattutto era stato esemplare il galeone portoghese San
Sebastiano, armato di ben 366 pezzi d'artiglieria:
... il galeone Santo Bastiano, armato di tanti pezzi d'artiglieria quanto ha giorni l'anno
bissesto, e fu quello che, mandato da Portogallo all'impresa del Pignone, ruppe la catena
che vietava il passo a gli altri vascelli mandati da Spagna; e perché un soldato castegliano,
stupefatto di vederlo sparar tanta artiglieria che pareva che tutto ardesse, dimandando a un
soldato portoghese come si chiamava quel suo galeone e quello rispondendo: Chiamasi
Cagafuoco, gli restò quel nome sin hoggidì che si riduce a memoria. (B. Crescenzio. Cit. P.
512.)
Le navi armate a guerra si armavano certamente d'artiglieria minuta, vale a dire di pezzi atti
a uccidere gli uomini più che a rompere le opere del nemico, ma anche si guarnivano con
bocche da fuoco di medio calibro, utili cioè a offendere il naviglio nemico molto lontano fine
anche ad affondarlo, e si trattava dunque di moiane, sagri, quarti-cannoni - questi dal
calibro che andava dalle 12 alle 16 libre di palla di ferro - e mezze colombrinette, pezzi che
variavano invece dalle 12 alle 18. Nella parte mediana della nave, sia in prima coperta che
sotto d’essa, si disponeva l'artiglieria grossa, inclusi i cannoni petrieri.
Bisognava assicurarsi che ai pezzi grossi fosse assicurato abbastanza spazio per le loro
ritirate, ossia rinculate, a evitare che con questo movimento di retrocessione andassero a
sfasciare il vascello, e nei vascelli tondi, poiché in essi si disponeva di spazio a ciò
sufficiente, a ogni grosso pezzo si potevano applicare le ritenute o braghe [fr. bragues,
bracques, dragues, (a)trapes, drosses, trosses, trisses, palans; ol. broek(ing)en], vale a dire
dei ritegni di grosse gomene spesso impiombate, le quali, attraversandone la cassa,
affievolivano la rinculata dello sparo e ciò in aggiunta alle gomene che si tenevano pronte
per assicurare il pezzo in caso di mareggiata o fortunale, a evitare gravi incidenti come
895
quello suddetto del galeone S. Sebastiano. Le casse da marina, ossia alla navaresca, come
allora si diceva, erano piccole e molto compatte, simili a quelle dei mortari, dotate di quattro
ruote piccolissime, prive di raggi, fatte d’un unico pezzo di tavolone per lo più d’olmo, ben
cerchiato di ferro e guarnito d'altre ferramenta dette lame o splanghe, ruote cioè che
dovevano servire solo alla ritirata del pezzo e non alla marcia; d’altra parte queste casse
erano, come abbiamo detto, quasi sempre imbragate e le loro predette ritenute, le quali
servivano anche per riportare il pezzo in avanti o per legarlo in maniera che non si
muovesse, erano, per quanto riguarda i pezzi di batteria, legate per i due capi a due anelli di
ferro posti ai lati del sabordo e questi legami, oltre a impedire che il pezzo potesse rinculare
oltre la metà del ponte, essendo infatti tale movimento, se non impedito, generalmente di
10/12 piedi, anche servivano ad avvicinarlo o ad allontanarlo dal suo sabordo. Si facevano
queste casse fatte generalmente di legno d’olmo e di quercia e solo per pezzi dalle 10 libre
in su di calibro, inclusi quelli in ferro da marina, il cui calibro variava dalle 10 alle 20 libre di
palla di ferro, e si usavano pertanto sui vascelli grandi; in caso di mare molto grosso,
quando cioè si temeva che i pezzi potessero spezzare le loro ritenute, si usava anche a
bordo dei grandi vascelli di fissare degli spessi pezzi di legno dietro le casse, legni che i
francesi chiamavano cabrions.
Nell'anguste galere non c’era spazio per far rinculare le bocche da fuoco e quindi si
fissavano in maniera che non potessero fare alcuna ritirata; i pezzi piccoli, i quali erano la
quasi totalità in una galera, s’incavalcavano su cavalletti fissi, ma girevoli, quelli medio-
piccoli, come i sagri, si legavano strettamente con ritenute di gomene, il che li rendeva però
ovviamente più soggetti a crepare e quindi più pericolosi per la gente di galera; invece al
grosso pezzo di corsia, cioè a quel pezzo - per lo più un cannone da 50 - che, come abbiamo
detto, nelle galere sparava dritto davanti alla prua, la ritirata certo non si poteva impedire e
quindi, oltre a fargli la cassa priva di ruote per far 'sì che rinculasse il meno possibile e ciò
perché nella corsia dietro questo pezzo c'era l'albero di trinchetto e questo poteva
risultarne danneggiato, gliela si faceva anche in maniera che non presentasse all'esterno
alcun minimo impaccio quali teste di chiodi, anelli o branche di ferro, bensì fosse tutta liscia
e uguale tanto di fianco quanto di sotto e ciò a causa della strettezza della corsia che
imponeva di risparmiare anche i millimetri d'ingombro; ma, poiché la rinculata di questo
grosso pezzo, data la sua potenza, avveniva egualmente e la coda della sua cassa, sebbene
priva di ruote, andava egualmente e velocemente a dare dei colpi terribili al piede del
trinchetto, questo si riparava comunque - o eventualmente si riparava il riparo di legno che
poteva esservi stato fatto davanti - con parabordi fatti di corone o natte di corda intrecciata
896
o di pezzi di cavo oppure di fastelli o fascine o anche di cime d’alberatura [fr. colliers,
cordes de défence, déf(f)enses, boute-(de)hors, fagots; ol. kraagen, kransen], oppure con
uno o due stramazzetti fatti anch’essi di pezzi di gomene ben legati insieme o anche - e ciò
era più probabile nell’angusta galera, dove i predetti parabordi potevano certamente
mancare - con ammassi di vecchi strapuntini, stuoie, tende, schiavine logore da galeotto o
da marinaio oppure d'altri oggetti di tessuto malandato di tal sorta. I suddetti colpi che
prendeva il piede del trinchetto erano pericolosi per le fragili galere e, per fare un esempio,
alla grande battaglia tra hispano-francesi e anglolandesi che si combatté nelle acque di
Malaga due secoli dopo, cioè il 24 agosto 1704, i primi persero tre galere, tra cui la Capitana
del duca di Tursi di casa d’Oria che si era aperta per mezzo per l’impeto delle tante
cannonate che avea tirate. (Avvisi di Napoli, anno 1704). Eppure a quel tempo le galere,
specie le Capitane, erano ormai tutte grosse e quartierate!
Le chiavi di legno di queste casse dovevano essere particolarmente robuste, a evitare che
la ritirata del pezzo le spezzasse, visto che questo movimento non poteva essere facilitato
dalla presenza di ruote; inoltre la coda, soggetta pertanto spesso a urti per i motivi appena
spiegati, era rinforzata e protetta con piastre di ferro. Non avendo ruote, questo cannone di
corsia era riportato in batteria dopo il rinculo con un paranco a pastecche; per aumentarne
o diminuirne l'elevazione, si mettevano invece sotto la sua culatta - cosa che del resto si
faceva anche con gli altri pezzi provvisti di cassa - dei cugni sostentati dai gradini dello
scalone posteriore della cassa stessa.
Addirittura si tenevano fermi nei loro luoghi i sagri che fiancheggiavano il predetto cannone
corsiero, impedendone del tutto la rinculata per mancanza di sufficiente spazio retrostante,
e questo era il motivo per cui, mentre il grosso cannone poteva teoricamente arrivare a
essere sparato anche cinque volte nel corso d’una battaglia – diciamo ‘teoricamente’, in
quanto poi in effetti in uno scontro così ravvicinato col nemico molto difficilmente si
riusciva a trovare modo e tempo di ricaricare il pezzo anche una sola seconda volta, i sagri
invece in ogni caso si potevano sparare non solo in pratica, ma anche in teoria una sola
volta e ciò perché, non potendo essere arretrati, per caricarli i bombardieri erano costretti a
scendere sulla palmetta della galera e quindi, una volta avvenuto l’investimento col nemico,
trovandosi così scoperti e tanto vicini agl’imberciatori nemici, sarebbero stati
immediatamente uccisi. Questo era anche il motivo per cui, mentre dopo ogni sparo il
bombardiero oculato avrebbe dovuto per prudenza, prima di ricaricare, trovare tempo e
modo di rinfrescare il pezzo surriscaldato dallo sparo bagnandolo con acqua e aceto (e ciò
897
tanto all’esterno della canna quanto all’interno dell’anima), non c’era ovviamente bisogno
che il capitano raccomandasse d’usare tale avvedutezza anche con i sagri.
Alla fine del Seicento i pezzi di prua, essendo ormai di maggior potenza, si troveranno
generalmente ridotti a quattro, cioè due bastardi (‘grossi’) e due più piccoli, e dalla metà del
Settecento spesso anche a tre.
La mancanza di spazio a bordo, specie delle anguste galere, era un grosso problema per gli
artiglieri e pertanto, oltre all'uso delle suddette moiane, pezzi di bronzo a normale
avancarica, ma di canna più corta del normale, inventati proprio per poterli maneggiare a
bordo più facilmente dei lunghi e ingombranti sagri, al tempo in esame sui vascelli
soprattutto remieri pure si usavano le già più volte nominate petriere da braga, ossia delle
bombardette di ferro a retrocarica dette pure mortaletti o mortarelli, pezzi questi che si
caricavano con mascoli o servitori (fr. boites de pierrer, ol. kameren), ossia con culatte
mobili che si riempivano di polvere calcata, poi tappate con cocconi, ossia con tappi di
legno tagliati a misura della bocca del mascolo, e quindi s’inserivano nella braga del pezzo,
ossia nell’apertura posteriore della loro culatta, apertura che era quadrata invece che tonda,
inzeppandoli con cunei di ferro, i quali andavano però inseriti molto accuratamente, a
evitare che, spinti dall'esplosione della polvere, saltassero violentemente all'indietro
andando a uccidere o storpiare i bombardieri, i marinai e soprattutto i disgraziati forzati, i
quali, essendo incatenati ai loro banchi, non si potevano scansare; ma del complicato
caricamento di questi pezzi meglio diremo nel nostro futuro libro sull'artiglieria di terra e
ora solo aggiungiamo che essi s’incominciavano a criticare proprio per la loro predetta
pericolosità. Il già citato Tommaso Contarini (1588) riportava a tal proposito il pensiero del
granduca Ferdinando de' Medici, succeduto da poco al fratello Francesco I:
... Parlando in questo proposito, mi disse il Granduca che aveva di quei pezzi che si
caricano di dietro e che si stimano opportuni per le galee (per il non poter rinculare), ma che
non li usava perché, potendosi facilmente sparar (‘sfogar’) da quella parte dalla quale si
caricano, apportano pericolo di far gran ruina nelle persone della galea; il che dico perché
si è introdotto di usarli sopra le nostre galee. (E. Albéri. Cit. Appendice. P. 270.)
In effetti veneziani, olandesi e francesi continuarono a servirsi di pezzi da braga a bordo dei
loro vascelli anche nel Seicento, ma, nel caso dei primi e dei secondi, non più delle predette
bombardette di ferro, ma solo degli smerigli di bronzo, però opportunamente irrobustiti e
resi più sicuri.
Per fare i predetti cocconi di legno il bombardiero marittimo doveva farsi provvedere di
legnami di salice o d'altro legno dolce e ne avrebbe così anche fatti di sughero a misura per
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turare con essi e con sego [fr. ta(m)pons; ol. (houte-)(smeer-)(bus-)proppen] le bocche di
tutti i pezzi grandi e piccoli, a evitare che v'entrasse acqua o umidità; allo stesso scopo di
difendere le bocche dei pezzi dall'umidità marina, ma stavolta coprendole e non tappandole,
e anche per costruire delle lanate d'artiglieria, doveva poi provvedersi di pelli di castrone
dalla lunga lana, ma in mancanza di dette pelli le lanate si potevano anche fare di corda;
preservava inoltre i pezzi dall'acqua e dall'umidità anche tappandone i fogoni con sego
misto a carbone. Doveva inoltre farsi dotare di sacchi di cuoio crudo della capacità di
mezzo barile per portarvi per il vascello la polvere pirica da usare, perché posta in quelli
molto meno questa risultava esposta al pericolo del fuoco di quanto lo fosse invece nei
barili di legno, i quali si tenevano pertanto solo nella stiva. Sempre poi per motivi di
maggior sicurezza, i pezzi di bordo ad avancarica, di qualsiasi tipo essi fossero, si potevano
caricare non con semplici cucchiarate di polvere sfusa, ma con pre-confezionati involucri
tubolari detti scartozzi, fatti su forme di legno con carta grigia grossa (ol. kardoes-pampier)
oppure talvolta con carta-pecora o tela e in qualche caso anche con legno o latta, riempiti
della giusta quantità di polvere per ogni singolo pezzo e inoltre di mitraglia fatta di piccole
palle di piombo, di chiodi, di catene o di ferraglia, chiusi con cuciture di filo di canapa (ma i
danesi usavano invece quello di lana); insomma si trattava di antesignani delle cartucce (fr.
cartouches, gargouches, gargousses; ol. kardoesen). Doveva poi il bombardiero farsi una
provvista di sfilacci ricavati da vecchie gomene di canapa o di fieno per farne bocconi,
ossia stoppacci da carica [fr. è(s)toupins, valets, pelot(t)ons; ol. proppen], e inoltre doveva
tenere buona scorta degl'infiniti materiali per la composizione di fuochi artificiati da guerra,
quali trombe, ghirlande, pignatte, palle armate e inramate, antesignane queste delle più
moderne granate, e ancora di torce e stoppini artificiati, corda-miccia d'archibugio, aghi da
sacco e filo da cucire i suddetti scartozzi, spago, cordetta di canapa per legare i portelli
aperti delle cannoniere, corderia grossa per ritenere dal rinculo l'artiglieria ed
eventualmente condurla a terra in campagna, un accialino, una scatola impermeabile con
dell'esca, pietra focale e solfaroli, ossia solfanelli, scuri, accette, magli, mazzette, martelli e
martelletti, manarette, raspe, lime d'acciaio, chiodi grossi e piccoli, mantici piccoli da
ferraro, tenaglie da punte normali, tenaglie di morso, cioè tenaglie cavachiodi, seghe,
trivelle; un trapano con le sue brocche (‘punte’) di acciaro fino, sgubie, vale a dire sgorbie,
ossia scalpelli a una o a due sgorbie, un’incudinetta; piastre di rame per fare le cazze
d'artiglieria e stacchette di ferro, lattone (‘banda stagnata’), e rame per inchiodarle; colla,
tela, fustagno vecchio e carta reale (‘carta grossa’) per fare gli scartozzi o sacchetti, cioè i
già menzionati cartuccioni di polvere per l'artiglieria, fatti a proporzione del calibro dei vari
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pezzi a cui dovevano servire, e per fare i fuochi artificiati da guerra; catene e ferramenta
varie, stoppa di lino, bombace filato per fare gli stoppini artificiati, sego, corda per farne
miccia, cera, candele di sego e di cera, candelieri di legno, salnitro raffinato, pelli, aste,
travi, assi di legno e altro legname per fare cunei e attrezzi tipici del maneggio
dell'artiglieria, anch’essi tutti proporzionati ai singoli pezzi, quali stivadori o calcatori [fr.
(re)fouloirs; ol. stampers; aansetters) per pressare la polvere nella canna del pezzo; lanate o
scovoli (fr. écouvillons, essuïeux; ol. wisschers, brandt-swabbers) per rinfrescare e ripulire
con acqua e aceto l'anima del pezzo surriscaldata dal continuo sparare; buglioli per l’acqua
in cui inzuppare i predetti; buttafuoco (fr. bute-feu), cavafieno o buoli o saccatrapi (dallo sp.
sacatrapos; fr. tire-foin, tire-bourre; ol. kratser, krasser, varken-staart) per tirar fuori dalla
canna i bocconi o foraggi di strame (fr. bouchons); lanzette di ferro per estrarre le palle;
cazze o cucchiare di foglio di rame [fr. cuillers, cu(e)illiéres, chargeoirs, coupelles, lanternes
à charter ou à poudre; ol. laadt-leepels, kruidt-leepels, laaders] per caricare la polvere o i
cartocci (fr. gargousses) e per estrarre questi ultimi, se inutilizzati, dalle bocche dei pezzi,
attrezzi questi ultimi facili a rompersi; assili e ruote d'affusto di riserva, stasatori (fr.
degorgeoirs, touches) per liberare fogoni intasati o per forare cartocci di polvere; forme per
fare i raggi (oggi 'razzi’) per le segnalazioni e i festeggiamenti, i quali erano detti anche
rocchette (da cui l'in. rocket) perché, per irrobustirli, si usava legarli strettamente
tutt’attorno con corda sottile [fr. surlier, roster; ol. (be)woelen, bewinden], venendo così a
somigliare appunto a rocchetti di filato; altra carta reale per fare fuochi d'artificio festivi
come soffioni, girandole, palle e tronadori (‘tric-trac’); forbici da sarto, una statera o pesa,
per le pesate grosse e una per quelle minute, un bilancione di rame con i suoi pesi per
pesare la polvere, un cazzolo di ferro da colar piombo, viti d'acciaio per riparare i fogoni
guasti, brocche o punte d'acciaio molto ben temperate per inchiodare i pezzi d'artiglieria ai
nemici; un bronzino, ossia un mortaio di bronzo, con il suo pestello di ferro per pestarvi le
colle e le materie per fare i fuochi artificiali; treppiedi e caldaie, una livella, lapis rosso da
segnare, una squadra d'artiglieria (fr. équerre, équaire; ol. winkel-haak), una staggia, ossia
regola lunga per livellare; marchi o merchi o calibri [fr. vigotes; ol. (konstaapels-)mallen],
cioè cerchielli o misure intagliate su tavole di legno o su lastre di ferro in conformità alle
bocche di tutti i pezzi d'artiglieria in dotazione al vascello per selezionare le palle di
munizione; forme di palle da moschetto e da altri pezzi sino alle 12 libre (se si potrà);
pallottiere per fare pallottole per armi portatili, corni per la polvere, qualche buttafuori, uno
squadro a piombino, uno o due compassi di ferro, granitoi e crivelli per raffinare gomme e
polveri, lanternoni (ts. lampioni) inastati e lanterne piccole:
900
... Per le cose minute suddette lui se ne deve fare un cassone ben grande e, per quelle cose
più grosse da tenerle e conservarle, lui deve addimandare al capitano della nave o della
galera una delle camere di proda, che colui non gliela può negare in maniera alcuna; e quivi
potrà accommodare il cassone sodetto con tutte l'altre cose e ancora dormire lui ed (i) suoi
compagni. (Luis Collado, Prattica manuale dell’artiglieria etc. p. 378. Milano, 1606.)
Per quanto riguarda la composizione dei fuochi artificiati da guerra, la materia è piuttosto
specifica è conviene rimandarla al già promesso nostro libro che tratterà dell'artiglieria del
tempo nel suo complesso, perché tutti gli autori del Cinquecento e della prima metà del
Seicento che trattano artiglieria si dilungano a descrivere tali misture, a volte molto
complesse, della loro elaborata preparazione e dei complicati involti, confezioni e recipienti
destinati a contenerle e a portarle sul nemico; diremo pertanto ora solo che il buon
bombardiero doveva saper preparare misture incendiarie, esplodenti, illuminanti o solo
anche celebranti, misture di vario genere che in effetti erano in uso sin dall'antichità, ma le
cui formule, tramandate dagli alchimisti erano state poi nel Basso Medio Evo molto
potenziate con l'aggiunta prima di polvere grossa d'artiglieria e poi di polvere più fina e
potente, cioè di quella che si usava per gli schioppetti e poi per gli archibugi. Questi fuochi
furono parecchio usati nelle guerre marittime del Cinquecento, cioè laddove si trattava
d’appiccare il fuoco ai vascelli nemici e di far strage del nemico per aiutare così l'opera
dell'artiglieria, ma nel secolo successivo, con il diffondersi delle granate a mano e delle
bombe esplosive e con il continuo potenziamento della stessa artiglieria, saranno in gran
parte dismessi, perché pericolosi per le stesse persone che dovevano maneggiarli e usarli e
a volte si finiva per appiccare con essi il fuoco allo stesso proprio vascello.
Qui ci limiteremo a spiegare la preparazione delle pignatte e delle trombe di fuoco o
soffioni, le quali, dette infatti al tempo in esame anche trombe di galera perché ormai solo
su quelle usate, erano, come tutti i fuochi artificiati incendiari, un’arma considerata ora nel
Cinquecento non più utile se non appunto nella sola guerra nautica, mentre a terra si
usavano ormai solo i fuochi esplosivi. Erano queste trombe dei tubi lancia-fiamme, perché
costituite infatti da un tubo di legno tornito forte e duro, attaccato all'estremità d’una non
lunga asta che faceva da manico e a volte rivestito all'interno di foglio di rame o di latta;
questo tubo si riempiva d’una mistura che, una volta accesa, soffiava fuoco dalla bocca.
Naturalmente la portata del getto di fuoco era molto limitata e si doveva accenderle solo
quando si stava a stretto contatto col nemico; erano quindi buone a difendere o attaccare
un luogo stretto, come un ponte, una porta o una strada, e si poteva con queste anche dar
fuoco ad alloggiamenti e attrezzature del nemico, ma soprattutto erano, come abbiamo
901
detto, utili nei combattimenti marittimi, dove i bersagli erano quasi totalmente di legno e
quindi facilmente incendiabili. Il Bosio così descriveva le trombe di fuoco del suo tempo e
precisamente di quello dell’assedio di Malta (maggio-settembre 1565):
Le trombe di fuoco erano certi legni fatti al torno, ritondi e concavi, di grossezza di poco più
di due palmi in giro e tre di lunghezza, i quali erano ben conficcati sopra la cima d’alcune
aste, come maniche di alabarde, ed erano piene d’una mistura simile a quelle delle pignatte,
impastata con olio di lino, in maniera tale che, dandole fuoco, per un gran pezzo
sbruffavano e spargevano furiose fiamme, larghe e lunghe alcuni passi, non altrimenti che
fucine grandissime da potentissimi manici stimolate. (Iacomo Bosio, Dell'istoria della sacra
religione et ill.ma militia di San Giovanni gierosolimitano etc. Parte III, p 562. 1602.)
Il suddetto e più tardo Collado, forse il miglior trattatista d'artiglieria del periodo che
principalmente stiamo esaminando, per la fabbricazione di questa tromba prescriveva
d’usare un pezzo di legname duro, forte e lungo 3 palmi e mezzo oppure meno d'un paio di
braccia, a seconda dell'unità di misura che si voleva usare; lo si doveva lavorare al tornio in
maniera che restasse grosso due once, lo si bucava da un lato per 3 palmi di lunghezza e
per un’oncia di larghezza; si bucava poi anche dall'altro lato, ma per una tal lunghezza che
lasciasse tra i due buchi almeno 3 dita di legno, e questo secondo foro doveva esser largo
solo quanto bastava a contenere un pezzo d'asta di picca che facesse da manico; lo si
circondava con tre sottili cerchi di ferro, uno alla bocca, uno nel mezzo e uno alla culatta, e,
per tutto il resto della sua superficie, di stretta e fitta sforzina di canape molto ben
imbitumata di quel miscuglio di cera e pece che gli antichi greci chiamavano malta (μάλθη);
lo s’inastava con un pezzo d'asta di picca lungo due braccia e mezza e lo si riempiva
dall'altro lato di mistura incendiaria ed ecco una prima ricetta:
... e nota che tutta l'importanza di questi fuochi consiste in saper componere e temperare li
materiali e che [...] tutte le misture de' fuochi artificiali vogliono esser peste e setacciate
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minutissimamente, eccetto quelle delle trombe, che debbono esser mezzo peste eccetto
che la polvere. (L. Collado. Cit. P. 285.)
Con questa mistura si riempiva la canna della tromba, spingendovela e calcandovela dentro
con un pestone di legno anch'esso lavorato al tornio nella misura adatta; arrivati a quattro
dita dalla bocca, s’inseriva uno stoppino artificiato e si finiva poi di riempire; si copriva poi
la bocca di tela forte imbombata, cioè intinta, in una mistura di pece e cera liquida e tale
copertura si legava strettamente, facendo però ovviamente fuoriuscire da un buco il capo
dello stoppino.
Ovviamente, invece che di legno, le suddette trombe di fuoco si potevano anche fare di
lamina di rame o di banda di ferro lombardo, ossia di banda stagnata; d'altra parte in
un’ordinanza veneziana del 1768, riportata dal Levi e in cui si da elenco dei materiali
occorrenti all'armo d’una galera sottile di quei tempi, tra l'altro si legge: Canevazza d'Alona
usata per le trombe da guerra...; il che, oltre a significare che nel Settecento quest'arma
medioevale era evidentemente ritenuta ancora utile a incendiare i vascelli nemici, poteva
anche voler dire che i loro involucri si facevano ora di leggero canapaccio d'Olona.
Ecco ora una seconda mistura per le trombe, la quale andava però bene anche per le
pignatte; innanzi tutto si preparava della vernice liquida fatta d’olio di linosa parti quattro e
vernice in grana parti due e poi ecco le necessarie dosi:
... Io ne ho già fatto a similitudine d'una artigliaria, che le ho fatte tirar palle di pietra atte a'
rompere ogni grossa e buona porta di legname, e fui mirabilmente servito nello effetto a che
903
io le feci (Vannoccio Biringuccio, Pirotechnia. Li diece libri della pirotechnia etc. P. 159.
Venezia, 1558.)
E anche di queste appena vantate egli dava la composizione; ma passando ora alle già
menzionate pignatte, diremo che queste erano dei contenitori di creta riempiti, fino al
quindicesimo secolo, di misture semplicemente incendiarie, poi nel Cinquecento di misture
non solo esplosive, perché a base di polvere d'artiglieria, ma a volte anche armate, vale a
dire contenenti anche mitraglia di quadretti o scaglie di ferro o di pallottole di piombo o
d'altro ancora; si lanciavano a mano sul ponte del vascello nemico una volta che lo si era
abbordato e subito prima di saltare all'arrembaggio. Il Bosio così le descriveva:
… Le pignatte di fuoco erano di terra a posta mal cotta, acciò fossero più facili a rompersi,
di grossezza tale che un huomo con (la) mano agevolmente tirar le poteva lontano
venticinque e trenta passi; ed erano piene di polvere di salnitro non raffinato, di sale
armoniaco, di zolfo pesto con canfora, con pece greca polverizzata e con vernice in grana;
havendo la bocca stretta, ben chiusa con tela o carta; legate in croce con quattro capi di
corda d’archibuso coperta di zolfo prima liquefatto e poi secco; i quali capi di corda, doppo’
che accesi s’erano, si lanciavano le pignatte e, rompendosi (queste), quasi mai non
mancavano di accendere il fuoco in quella mistura, che il tutto abbruciava ed era
difficilissima ad estinguersi. (I. Bosio. Cit. P. 561-562.)
Anche se al suo tempo saranno ormai anch'esse alquanto obsolete, così le prescriverà il
Collado:
... Le pignatte si fanno in questa maniera, cioè pigliansi le pignatte di creta d'ogni qualità
che siano, o grosse o picciole solamente, basta che siano di materia frangibile, percioché
l'invenzione di rinchiudere le misture nelle pignatte per uso della guerra fu solamente per
causa di maggior prestezza ed evitar la spesa di haverle da coprire tutte di canevazzo. (L.
Collado. Cit. P. 280.)
Quest'uso, come del resto quello dei fuochi artificiati i genere, era molto antico e lo
testimoniano lo stemma e il conseguente cognome della nobilissima famiglia napoletana
Pignatelli, stemma che rappresenta appunto principalmente alcune pignatte a uso di guerra.
Il Collado consigliava la seguente mistura esplosiva per riempirle:
La polvere e il salnitro dovevano esser molto ben pestati e setacciati e similmente pesti
dovevano essere il sale ammoniaco e la canfora, ma questi due unitamente al solfo; tutte
904
queste sostanze andavano poi mescolate e impastate a mano con olio di sasso od olio di
linosa e la pasta così ottenuta si provava prima in una canna per costatarne l'efficacia e poi,
se risultata potente, se ne riempivano pignatte dunque di creta sottile e dalla bocca
alquanto stretta, bocca che si chiudeva con tela imbevuta di pece greca, cera e trementina
liquefatta, e la tela poi si legava con filo di ferro molto stretto; questa copertura si bucava
due o tre volte per infilarvi dentro altrettanti stoppini artificiali, dei quali si lasciava fuori un
tratto di tre o quattro dita; infine ai piccoli manici della pignatta si legava uno spago doppio
e lungo un palmo e mezzo, per il quale l'arma si lanciava a mano sul nemico dopo averne
acceso i predetti stoppini (Ib.).
Una composizione più antica e interessante per le pignatte è quella del Biringuccio, il quale
non aveva però l'abitudine di fornire le dosi per le sue ricette. Si prendano dunque dei
comuni pignattelli e:
... questi si empiono di polvere grossa un puoco più di mezzi; e fra essa polvere mischiasi
pece greca pesta e di solfo pesto almanco il terzo. Dassigli dapoi sopra una coperta di
grasso porcino scolato, grosso un deto, incorporandovi dentro polvere acciò che la sia
tenace, si che gittandola non si spanda e acciò ch'ella habbi a fare il fuoco più lento, si ch'el
duri per infino che arrivino alli nemici.
... si apre poi un puoco da uno de' lati il grasso [...] e in quello mettesi un puoco di stoppino
con un puoco di buona polvere e attaccavisi il fuoco, tenendolo tanto in mano che si veda
ch'el fuoco sia ben acceso; e così pigliasi poi il tempo del tirarlo. (V. Biringuccio. Cit.)
Del genere delle trombe erano state le picche e i dardi di fuoco (fr. dards ou lances-à-feu; ol.
vuur schichten), armi più presto di quelle abbandonate e consistenti in mezze-picche e
zagaglie o giavellotti da lancio armati, oltre che dei loro soliti ferri apicali per ferire gli
uomini e appiccarsi nel legno, anche di fagotti di misture incendiarie incartocciate e
strettamente rivestite e legate alle loro aste con robuste sforzine; spesso le aste dei predetti
dardi erano armate anche di piccoli uncini, in maniera che si attaccassero alle vele e così
l’incendiassero, ma per raggiungere quest’ultimo scopo molto utile riusciva anche sparare
da vicino con i cannoni sulla velatura nemica involtini di vecchia tela bagnata d’acquavita e
quindi incendiata dallo sparo. Il già citato Bosio così descriveva anche le picche di fuoco:
… Le picche di fuoco erano veramente picche da guerra e da combattere, co’ ferri loro acuti
in punta, il qual ferro si lasciava fuora scoperto, libero e spedito, acciò che ferire potesse, e
vicino a quello si metteva un sacchetto poco men che due palmi lungo, pieno dell’istessa
mistura delle trombe, in maniera tale accommodato che, a poco a poco consumandosi e per
un lungo pezzo vive fiamme sbruffando non punto men furibonde, ma però alquanto minori
di quelle delle trombe, venivano finalmente a sparare due cannoli di ferro o vero d’ottone,
carichi di polvere fina e di pendigoni grossi di piombo, facendo l’istesso effetto di due
archibusetti a ruota. (Cit. P.562.)
905
Tra Seicento e Settecento si useranno nella guerra nautica anche bottiglie incendiarie (fr.
bosses), le quali non sono quindi, come si crede, una più recente invenzione del russo
Molotov, ma nel secondo dei detti secoli già si vedranno poco e solo nel Mediterraneo.
Per quanto riguarda la portata delle descritte bocche da fuoco a zero gradi d'elevazione, qui
espressa in passi comuni o andanti veneziani a cm. 104,1 al passo, alla fine del
Cinquecento era - ma molto approssimativamente - la seguente:
Galere ponentine.
A prua: un cannone da 50 fiancheggiato da due mezzi cannoni, uno per fianco, e ognuno di
questi fiancheggiato a sua volta all'esterno da due sagri un po' arretrati sul quartiero di
prua.
Verso poppa: due sagri nella zona detta il giardino e corrispondente al quarto posteriore
sinistro della coperta della galera, in buona sostanza nella spalla sinistra- nome dovuto al
mantenimento colà di alcune piante medicinali che servivano al barbiero di bordo e che i
remiganti che vi erano assisi avevano il compito di curare; due moschetti da posta messi al
quarto opposto detto il quartiero e cioè ai due lati della scaletta.
Galee turche.
A prua: Un cannone da 50 fiancheggiato da due sagri, uno per lato; e questi a loro volta
fiancheggiati - ma un po' più indietro nel quartiero di prua - da due mortari.
A poppa: due falconetti, uno nel giardino e uno nel quartiero, inforcati su due parettoli,
ossia inforchettati su zoccoli di legno attaccati ai lati della corsia, alti 9/8 di braccio
veneziano, grossi due quarte (‘quarti del braccio’), rinforzati ai due lati da due vere
(‘piastre’) di ferro, forati sopra al centro perché in tale foro verato (‘laminato’) di ferro si
conficcava la coda della forcina di ferro sostenente il falconetto. Anche nel giardino e nel
906
quartiero si tenevano alcune bombarde a palla di pietra (‘cannoni petrieri’) e infine - ai lati
della poppa - qualche moschetto da posta.
Galee veneziane.
A prua: Un cannone da 50 fiancheggiato da due sagri da 12, uno per fianco, e questi, verso
l’esterno, da 14 moschetti da posta, di cui (divisi però per lato) 6 posti sopra due
traversette di legno situate sotto le garitte di prua (‘rembate’), 2 posti sopra due parettoli
che sono tra le sbarre e 8 ai fianchi della prua.
A poppa: 4 falconetti, uno per lato del giardino e uno per lato del quartiero; 2 moschetti
da posta, uno per lato alla scaletta.
Mezzania: Una bombardella di ferro a palle di pietra al barcariggio, ossia al luogo sulla
destra dove era tenuto lo schifo o copano, ossia il canotto, e un’altra al luogo opposto
detto la poggia:
… la quale è quel luogo a canto del fogone dove non si voga e vi si tengono gli animali per il
viver della galea e dove i galeotti liberi (‘le buonevoglie’) vanno a vuotare il soverchio peso
del corpo (C. da Canal. Cit. P. 85).
Abbiamo già detto che le galee veneziane, sottili o bastarde che fossero, erano
sovraccaricate d'artiglieria e perciò molte anche usavano portarne in corsia, per esempio
un sagro nel mezzo della galea, come scriveva il da Canal, oppure quattro smerigli su
cavalletti, due a poppavia e due a proravia della mezzania del vascello, come si dice invece
nel già pluricitato Governo di galere, consigliandosi senz’altro d’imitare quest’uso in
battaglia reale, anzi d’aggiungerne in tale evenienza altri quattro, pure girevoli, ma due nel
luogo del fogone e due in quello dello schif(f)o; inoltre d'ambo i lati un moschetto da posta
per ogni balestriera (che è quella tavola dove il soldato di continuo sta), fissato sopra la
posticcia, il che poteva significare quindi anche addirittura una cinquantina di tali armi in
più:
… Né altre artigliarie portano le nostre galee e la maggior parte anco dei moschetti che esse
portano i nostri sopracòmiti gli ritrovano a spese loro, perché l'Arsenale non ne suol dar più
di sei o ver otto per galea. (Ib.)
Quanto appena affermato dal da Canal è confermato da una ricevuta (itm. apodixa; gra.
ἀποδοχή) firmata il cinque aprile 1556 dal sovraccòmito Zuane (‘Giovanni’) Balbi per le
armi che egli ebbe in consegna dallo Arsenale di Venezia perché n’armasse la sua galera;
tale ricevuta, la quale si conserva o si conservava nell'Archivio di Stato di Venezia tra i
documenti del fondo Casa dell'Arsenale, riporta quanto segue:
- Un cannone da 50 di palla e pesante libre 4.929 (ossia Kg. 2.353,5975, poiché la libra
grossa veneziana era pari a Kg. O,4775).
- Due aspidi da 12, rispettivamente di libre 1.143 e 1.O92.
907
Era l'aspide o aspido un pezzo equivalente al sagro di simile calibro, ma più corto e quindi
dal caricamento più maneggevole e adatto per gli stretti spazi di bordo; ma era anche
alquanto antiquato, perché di metallo più sottile, e quindi sarà presto sostituito dalle
moiane, corte canne come quelle ma da braga e più ricche di metallo, quindi più moderne,
inventate ex-novo appunto per sostituire gli aspidi.
- Sei falconetti da 3, pesanti libre 461, 312, 307, 307, 302 e 300.
Perché il primo dei predetti pezzi sia tanto più pesante degli altri cinque non capiamo; forse
è errore di stampa del libro che riporta la detta ricevuta.
- Sei moschetti da posta da 1, rispettivamente di libre 92, 83, 82, 81, 72 e 70.
- 20 archibugi (questi portatili) da mezz'oncia di palla.
- 40 lancie (‘mezze picche’) d'abete con i relativi ferri apicali.
- 20 schioppi.
- 50 archi da freccie.
- 150 corazzine.
- 150 celate.
- 50 spade.
Più tardi, nel 1620, il Rossetti descriverà l’artiglieria della galera sottile ordinaria veneziana
alquanto ridotta e mutata; in corsia a prua c’era sempre il predetto cannone da 50 oppure
una colubrina da 20, ma le altre bocche importanti non erano più a fianco di quello bensì
sulle garide (it. rembate), al centro della balestriera frontale, ed erano un falcone da 6 e,
disponendone, anche uno da 3 – per ogni banda o lato. Questo significa che dette garide
dovevano essere state appositamente molto rinforzate per sostenere tanto peso. Sotto le
sbarre, cioè sotto i tavolati di dette garide, a ogni lato del predetto cannone da 50 si
ponevano due petriere da 14 e due da 12; due altre da 12 si tenevano nel giardino, cioè,
come abbiamo già spiegato, alla spalla sinistra e un falconetto da 3 allo stante (‘pilastrino,
colonnetta’) sito nei pressi del fogone. Inoltre, ancora a quest’epoca, la galea veneziana era
dotata di 12 trombe sputafuoco, cioè sei distribuite per ogni fianco e di un minimo di 50
pignatte esplosive da lancio da usarsi non appena si fosse giunti a contatto col bordo
nemico.
All'epoca del da Canal la potenza delle polveri piriche adoperate era di molto inferiore a
quelle che saranno poi usate alla fine del secolo e quindi molto diverse erano anche le
caratteristiche e i rendimenti delle bocche da fuoco, in quanto pezzi di concezione ancora
rinascimentale; nel periodo invece che principalmente ci occupa in questo nostro lavoro
l'artiglieria è già proto-moderna e regolata in maniera ormai sufficientemente razionale; al
908
fine di non confondere il nostro lettore, tralasciamo pertanto di riportare i pesi generali e
soprattutto le gittate dei pezzi del tempo del da Canal, limitandoci a esprimere qui di seguito
alcuni concetti d'artiglieria validi sia per il Rinascimento che per l'Evo Moderno. Dobbiamo
però prima spiegare, anche se molto sommariamente, che nella prima metà del secolo la
polvere d'artiglieria era stata generalmente quella detta da quattro-asso-asso (dove asso
significa semplicemente il numero uno), cioè era stata composta di quattro parti di salnitro,
una di carbone e una di solfo; tale polvere aveva sostituito quella molto debole da tre-asso-
asso che si era usata nel Medioevo; poi nella seconda metà del Cinquecento,
approfittandosi della capacità che avevano ora i fonditori di dare alla generalità dei pezzi
d'artiglieria un maggior spessore di bronzo e quindi una maggior resistenza a crepare, cosa
che nel Rinascimento si era riusciti a fare solo saltuariamente, si affermò la polvere con
cinque parti di salnitro, detta pertanto da cinque-asso-asso, la quale sino allora era stata
usata solo per le piccole armi da fuoco quali archibugi, moschetti e smerigli, perché questi,
in proporzione alle loro dimensioni, erano fatti di metallo molto più spesso e resistente di
quello dei pezzi maggiori; anzi, con il diffondersi poi dalla fine del Cinquecento dei pezzi
cosiddetti rinforzati, ossia di bocche da fuoco dagli spessori di metallo ancora maggiori, si
comincerà a usare per questi addirittura la sei-asso-asso, la quale aveva in precedenza
sostituito la cinque-asso-asso nell'uso delle armi portatili.
Quando un pezzo come lo smeriglio o il moschettone da posta o addirittura il falconetto era
inforcato su cavalletto, invece che incavalcato su cassa come i pezzi maggiori, risultava
ovviamente molto più pratico in quanto, come abbiamo già detto, si poteva così volgere da
ogni parte e verso ogni elevazione in un batter d'occhio; di conseguenza cene si poteva
servire, per esempio, per tirare sulle impavesate d'un vascello d'alto bordo o sulle mura
d’una città dopo esserci arrivati molto sotto con la galera, cosa che con qualunque altro
pezzo che non fosse così inforcato e che non fosse un mortaro non si poteva.
Le bombardelle di ferro erano, come sappiamo, a braga e si caricavano teoricamente con
palla di pietra, ma, come già sappiamo, l'uso più comune e utile dei petrieri era quello di
sparare mitraglia, specie di scaglie, soprattutto nel prolungarsi, ossia nell'affiancare la
galera al vascello nemico per poi venire all'arrembaggio, in modo da far prima strage
dell'avversario e rovina delle sue attrezzature. Il da Canal e, come vedremo, anche il
Cataneo, autore a lui precedente, raccomandavano queste bombardelle per le loro galere
ideali e si tratta di pezzi che continueranno a esser apprezzati anche nel Seicento, pur se in
effetti il pezzo corto di ferro per uso navale era di concezione quattrocentesca e infatti tanto
largamente usato in quel secolo; nel 1525 Gasparo Contarini, descrivendo il magnifico
909
… Item una bombarda gruesa de hierro, toda de una pieza, que pesaba 43 quintales, con su
cepo y afuste. It. 12 bombardas servatanas, con sus cepos, horquillas, y calces. It. 12
pasavolantes con sus cepos, horquillas y calces. It. 10 piedras para la bombarda gruesa. It.
66 pares de piedras para dos servatanas y pasavolantes. It. 12 quintales y 2 arrobas de
pólvora.
910
Una bombarda grossa di ferro dal peso di 43 quintali (ma si trattava di quintali di libbre e
non di chili), evidentemente principale se non unica bocca da fuoco di prua, per la quale il
far notare che era fusa in un sol pezzo, significa che eravamo ancora nel periodo di
transizione dalle fusioni delle grosse bocche da fuoco in più pezzi (da cui ancora oggi
diciamo ‘pezzi d’artiglieria’) a quelle invece monofusione. 10 sole pietre per questa
bombarda grossa erano un numero giusto perché, come pure abbiamo già spiegato a suo
luogo, con un pezzo di prua non si potevano in battaglia far molti tiri; al massimo un paio,
ma in genere dopo il primo si andava allo scontro fisico. Le 12 cerbottane erano lunghe
bocche da palla di ferro ed erano a retrocarica, cioè a carica a nezzo di camera o di braga o
mascolo, insomma avevano la culatta asportabile per comodità di ricarica; spieghiamo
questi tipi di caricamento nella nostra opera sull’artiglieria. I 12 passavolanti avevano
anch’essi delle lunghe canne, ma, a differenza delle cerbottane, erano delle monofusioni ad
avancarica che sparavano palle di piombo, anche se generalmente questi proiettili avevano
un anima di ferro per evitare che, non avendo qualla forza d’urto che dava la durezza del
ferro, si andassero soprattutto a spiaccicare sui bersagli, quindi colpendoli con minor
violenza. I proiettili di piombo furono però presto eliminati dall’artiglieria perché, essendo
ovviamente più pesanti di quelli di ferro, richiedevano una carica di polvere maggiore e
pertanto non infrequentemente capitava che allo sparo i passavolanti crepassero con gran
pericolo dei circostanti bombardieri (Guglielmo Peirce, L’artiglieria da diabolica arte a
nuova scienza. P. 291. Napoli, 2010). Non sappiamo se questa galea Reale fosse più grossa
delle altre, ossia un galea bastarda, oppure addirittura una galea grossa, ma comunque il
gran numero sia delle cerbottane che dei passavolanti e soprattutto la loro struttura di
sostegno a forchiglia significavano che si trattava, specie le cerbottane, di bocche
soprattutto da fiancata, come abbiamo già visto a proposito delle canne a forchiglia quando
abbiamo parlato delle artiglierie delle galee veneziane, anche se molto probabilmente alcuni
dei passavolanti, canne di lunga gittata, erano istallati a prua lateralmente alla suddetta
bombarda e forse qualcuno anche a poppa.
Più complesso il discorso di commento che va fatto a proposito delle ‘66 paia di pietre’
fornite alla galea per queste ultime 24 bocche. Infatti, abbiamo perplessità a pensare che si
trattasse effettivamente di proiettili anche perché, come abbiamo appena spiegato, si
trattava di artiglierie che ne sparavano di piombo o di ferro o di ambedue, ma non di pietra,
e d’’altra parte erano bocche troppo sottili perchè si potessero caricare a mitraglia di selci;
possiamo quindi solo pensare che si trattasse di pietre focaie per una precoce accensione a
focile. Se poi si fosse trattato davvero di prioiettili, la circostanza che si usassero sia per le
911
cerbottane che per i passavolanti si potrebbe spiegare solamente col pensarli totalmente di
ferro e non di piombo o di piombo e ferro, perché le cerbottane erano fatte di metallo troppo
sottile per poter regger la grossa carica di polvere necessaria a sparare il pesante piombo;
dunque anche questo particolare ci dimostra che eravamo in un periodo di transizione e
cioè un tempo in cui si era già capito che i pericolosi proiettili di piombo non andavano più
usati, anche se non si era ancora invece arrivati al tempo in cui i passavolanti, essendo
ormai questi diventati dunque canne non più plombiere ma ferriere, fu cambiato anche il
nome ribattezzandoli colubrine. Ma che cosa significava che questi proiettli si fornivano a
pares (‘a paia’)? Qui possiamo solo rispondere con una supposizione e cioè che,
trattandosi di palle di ferro relativamente piccole, le fondessero in forme bipalla e che così,
ancora attaccate a due a due, si fornissero e che poi si provvedesse a staccarle prima di
usarle; è infatti impensabile che, data le loro piccole dimensioni, potesse trattarsi di palle a
due a due incatenate o inramate e, d’altra parte, se si era rinunziato a usare palle di piombo
per i passavolanti perché troppo pesanti e di conseguenza bisognose di una carica di
polvere che a volte faceva crepare quelle canne, è evidente che lo stesso pericolo si
sarebbe corso inserendovi non una ma due palle, ancorché di ferro.
Infine, per quanto riguarda la fornitura di polvere per artiglierie, bisogna ricordare che i 12
quintali sono, anche in questo caso, sono di libbre e non di chili, tant’è vero che la frazione
d’esi sono le due arrobas, essendo l’arroba appunto un quarto di quintale di libbra e
dunque un peso di 25 libbre. Delle altre forniture, sia di armi che d’altro, fatte a questa galea
e ad altre catalane di questo periodo diremo più avanti.
Ma, tornando ora all’artiglieria della fine del Rinascimento e precisamente a quella che si
usava allora sulle galere turche, diremo che nella relazione sull'impero ottomano che il bailo
Domenico Trevisano lesse in senato nel 1554 si legge una dotazione già più pratica e
moderna di quella descritta una dozzina d'anni prima dal da Canal:
... Si mettono sopra cadauna galea sette pezzi di artiglieria tra grandi e piccoli, cioè il pezzo
grosso in corsia, due ai fianchi - uno per banda - e quattro più piccoli alle sbarre di prua. (E.
Albéri. Cit. S. III, v. I, p. 140.)
Non si fa cioè qui accenno ai pezzi di poppa di cui aveva detto il da Canal, anche se bisogna
tener conto che quest'ultimo era un addetto ai lavori e il Trevisano era invece un civile.
Qualche anno più tardi e cioè nel 1560 un altro bailo veneziano, Marino Cavalli, parlerà,
sempre a proposito dell'artiglieria di galera turca, solo di tre pezzi all'estrema prua:
912
... Portano tre soli pezzi di artiglieria; uno in corsia di venticinque a trenta di palla, gli altri
due - uno per banda posti a prua - da dieci ovvero da quindici, ma lunghi assai, e non li
sparano mai se non d'appresso e con certezza di far gran danno; il che è benissimo fatto
perché il tirar lontano, massime in mare, non fa mai colpo e consuma la munizione, mentre
d'appresso un tiro solo che faccia botta dà la vittoria ad una galera e rovina un’altra. (Ib. S.
III, v. I, pp.292-293.)
E che i turchi avessero optato per usare ormai solo queste tre bocche da fuoco sulle loro
galere è
confermato anche dalla relazione del bailo Jacopo Ragazzoni, la quale, come già sappiamo,
è del 1571:
... Non usano portar più di tre pezzi d'artiglieria per galea e molte anche ne sono che ne
hanno un pezzo solo. (Ib. S. III, v. II, p. 100.)
Ma dopo Lepanto, il detto esiguo numero di bocche da fuoco sarà aumentato, come
testimonia il bailo Paolo Contarini nel 1583, il quale infatti, dopo aver letto come, a seguito
della falcidie subita in quella capitale battaglia, l'armata di mare ottomana mancava molto
sia di marinaresca sia d’artiglieri, tanto aggiunge:
... Portano le loro galee cinque pezzi di artiglieria, mentre le christiane ne hanno dodici, ma
quelli pochi uomini che li maneggiano sono esperti. (Ib. S. III, v. III, p. 223.)
I predetti cinque pezzi sono confermati dal bailo Giovanni Moro nel 1590:
... Ma come le galee sono ben provviste di uomini da spada, così sono malissimo fornite di
artiglierie, non avendo ordinariamente, oltre il cannone di corsia, che quattro falconetti a
prua. È vero che li 'bei' (le galere dei bey) hanno qualche pezzo d'avvantaggio e il Capitan
del Mare circa venti in tutto; e, quando armarono le maone a similitudine delle galee grosse
di questa Serenissima Republica, misero due cannoni in corsia con altri trenta pezzi minori
compartiti in ognuna di esse... (Ib. P. 354.)
Tornerà invece a parlare di soli tre pezzi il bailo Lorenzo Bernardo nel 1592:
... Il modo col quale turchi armano le loro galee è questo: non mettono più che tre pezzi
d'artiglieria per galea a prua... (S. III, v. II, p. 342.)
Quanto all'efficienza dell'artiglieria marittima turca, essa era tutt'altro che eccellente e ciò
sia per la scarsezza di validi bombardieri sia perché la Top-Hané, cioè la grande fonderia di
Gálata, sobborgo di Costantinopoli, produceva molto, ma i pezzi che n’uscivano erano di
qualità nettamente inferiore a quelli prodotti nelle fonderie cristiane, se si eccettuano i
913
periodi in cui, come per esempio alla fine del Quattrocento, essa era stata diretta da mastri
fonditori mercenari provenienti dall'Italia e da altri paesi europei. Alcuni principi cristiani,
specie i re di Francia, non disdegnavano poi di vendere cannoni alla Gran Porta, sebbene
questa fosse il nemico mortale della cristianità, come nel 1595 testimonierà lo stesso
Crescenzio, reduce con la sua galera da una tranquilla crociera nelle acque dell'Arcipelago
e della Grecia ottomana:
... E a gli occhi nostri si sono passate dalle navi christiane a' caramuzzali turcheschi i pezzi
d'artegliaria con tutte le sue monizioni... (B, Crescenzio. Cit. P. 480.)
Vogliamo ora riportare anche i precetti del novarese Hieronimo Cataneo (c. 1540-1584),
autore che, anche se le sue opere si trovano pubblicate tra il 1567 e il 1608, ci descriveva
una artiglieria marittima veneziana della prima metà del Cinquecento e che quindi si può
senz'altro attribuire allo stesso tempo del da Canal. Ecco i pezzi che egli prevedeva per i
vari tipi di vascelli (Opera nuova di fortificare, offendere et difendere etc. Brescia, 1564;
Auuertimenti, et essamini intorno a quelle cose, che richiedono a vn perfetto bombardiero
etc.Venezia, 1582; Dell'arte militare libri cinque etc. Brescia, 1608):
Galee sottili.
A proda: un cannone da 50, oppure una colubrina, in corsia; a ogni lato di questo grosso
pezzo un aspide da 12 e all'esterno due falconetti da 3.
Ai fianchi: un falconetto inforcato da tre e qualche moschetto per ogni lato; una bombarda
di
ferro al fogone e una al barcarizzo.
A poppa: un falconetto inforcato da tre per ogni lato, appresso agli scaletti.
Sotto poppa (alle spalle?): quattro archibugi da posta per ogni lato, sulle loro forcadi di
ferro, e
un falcone da 6.
In corsia: un falconetto da tre in forcade girevole.
Era quest’ultimo un pezzo equivalente alla mezza colubrina, ma più potente e che diventerà
ciò nonostante presto obsoleto perché dimostratosi troppo costoso in rapporto alle sue pur
ottime prestazioni; inoltre non capiamo come un pezzo di tal calibro potesse essere
914
Alla poza (a poppa? Alle spalle?): Un curtaldo petriero da 30 o un cannone da 20 per ogni
banda.
Era cortaldo (fr. barces; berches) il nome d’un vecchio pezzo d’artiglieria rinascimentale
molto usato in marina in quanto di canna corta e quindi più comodo da servire; questo, ora
obsoleto, era - quando non petriero, bensì ferriero - simile al falcone e al falconetto, ma di
maggior calibro, più ricco di metallo (‘bronzo verde’) e molto più corto; ce n’erano stati
anche di fusi in ferro invece che in bronzo.
Ma quando queste galeazze mercantili, di cui abbiamo già detto, fossero chiamate a
partecipare a un’armata, la predetta artiglieria si aumentava e il Cataneo consigliava in tale
occasione di porre a prua una periera (‘petriera’) di bronzo almeno da 100, per sfondare i
navigli del nemico.
Per quanto riguarda i grandi velieri, il Cataneo raccomanda di porre i pezzi grossi a poppa,
mentre guarnisce i fianchi con pezzi da 20; ma ciò è, sulla base di quanto abbiamo appena
spiegato, contro ogni più tarda logica che vorrà invece ai fianchi le principali batterie del
vascello e quindi vi dovranno di necessità essere posti i pezzi più grossi, tant’è vero che si
dirà poi nel Seicento che un vascello poteva prestare il fianco (ol. zij-bieden) a uno nemico
nel senso che si sentiva abbastanza forte da mostrargli il fianco e quindi d’accettare di
combatterlo. La verità è che al tempo del Cataneo la moderna scienza dell’artiglieria non era
ancora nata e quindi non c'è da stupirsi se a tale autore mancava una visione razionale
della materia; comunque, anche se le sue sono concezioni rinascimentali, quindi vecchie
d'un cinquantennio e più rispetto al periodo che principalmente ci occupa, vogliamo
egualmente riportare qui di seguito una sintesi della disposizione dei vari pezzi da lui
prescritta, perché resta pur sempre uno dei primi e pochi autori dei suoi tempi che si
dilunghi su questa materia; precisiamo però che, come per le predette galere, alcuni dei
luoghi dei velieri menzionati dal Cataneo sono poco o per nulla identificabili perché
915
chiamati con nomi rinascimentali ormai perduti; inoltre il suo discorso è qui anche
parecchio confuso:
Sottocoperta, a mezza nave: un periero (‘petriero’) da 100 libre per ogni lato.
Sopracoperta, sotto il cassaro: qualche cannone da 20 e qualche sagro da 12 e sulla
coperta:
falconetti da tre o falconi da sei e qualche cannone da 20.
Alle balconate: moschetti da braga.
Sul baladore (‘In coperta’): moschetti da braga più che si potrà e
qualche falcone da 6.
Sopra il cassaro: falconetti da tre o almeno moschetti, accompagnati alle firsade (?) da due
sagri da 12, uno per lato, o per lo meno da due falconi da 6.
Gabbia grande: quattro moschetti almeno.
Gabbia piccola: due moschetti.
Accanto al timone: due perieri da 100, uno per lato e due altri per li fianchi.
A proda, sopra la camera delle sartie: due cannoni da 20, ovvero due mezze colubrine.
Anche se il numero dei pezzi prescritti non è sempre indicato, sembrerebbe questo
suddetto l'armamento d’una nave da circa 36 pezzi d'artiglieria, moschetti da braga esclusi;
ma l'autore aggiunge che, potendosi, si doveva sistemare anche più artiglieria della
suddetta.
Dunque un vascello questo da circa 60 pezzi, moschetti da braga esclusi. Ancora, tutti i
pezzi vorrebbono essere senza vida, affermazione questa che fa capire come il Cataneo
scrivesse questo suo trattato molto probabilmente nel primo quarto del Cinquecento,
quando cioè ancora si usavano talvolta bocche da fuoco quattrocentesche a vite, ossia fatte
di più elementi di canna avvitati l'uno all'altro, non essendo in quel secolo la fondizione
dell'artiglieria sufficientemente evoluta da poter fondere correntemente tutte le bocche in
un solo pezzo. Raccomanda ancora questo autore al bombardiero marittimo di tenere
sempre a portata di mano due mascoli per ogni moschetto da braga, in modo che se ne
potesse caricare uno mentre si usava l'altro, polvere per almeno 40/50 tiri per ogni pezzo e
infine, prima della partenza del vascello, di far approntare dai suoi scolari (‘allievi-
bombardieri’) un buon numero di scartozzi di fustagno, cuciti con aghi da sacco e spago
sottile su cilindri di legno (fr. formes à gargousses; ol. kardoes-stokken), dei calibri
corrispondenti a tutti i pezzi grandi e medi dell'artiglieria di bordo perché in queste navi si
carica con scartozzi ogni sorte d'artiglieria, cominciando da una libra sino a 120. (Opera
nuova di fortificare etc. Cit. P. 80v.) Egli da inoltre parecchie ricette di misture incendiarie ed
esplosive per trombe, pignatte e palle cave di bronzo, ma, poiché sono basate su polvere
d'artiglieria rinascimentale e quindi superata, non riteniamo utile riportarne in aggiunta a
quelle del Collado che abbiamo più sopra riportato.
Hieronimo Cataneo così poi conclude il suo discorso sull'artiglieria marittima:
... Ma delle navi de' mercanti non ho ancora fatto menzione né eziandio dovrei farne,
sapendosi da tutti che sopra quelle il più si usano bombarde di ferro e altre cose, le quali
non meno fanno bisogno in su queste sorti di navi che nelli navigli armati. (Ib. P. 83; p. 19;
pp. 16v, 17.)
Egli vuole insomma dire che l'armamento dei navigli mercantili era poco più che nominale.
Anche databile al primo Cinquecento è il trattato manoscritto di cui fu autore il già ricordato
Filippo von Ravenstein signore di Cléves, il quale, sulla base delle stesse concezioni
espresse dal predetto italiano, arma nel seguente modo la coperta della nave ‘Reale’ del suo
sovrano; fra le due pavesate (‘murate’) dell’infrapponte (fr. couradoux) a ogni lato quattro
cannoni di bronzo o di ferro, ferrieri o petrieri, ossia da palle di ferro o di pietra, e un altro a
ogni lato del timone; sulla prima coperta, tra l'albero di maestra e il castello di prua, a
ciascun fianco due cannoni e una grossa colubrina, pezzi che dovevano costituire
917
l'artiglieria migliore; sul primo suolo del cassero o castello di poppa, cioè dove si tirava il
cabestano o argano maggiore, due grosse colubrine, una per banda dell'albero di poppa, le
quali tiravano però davanti perché troppo lunghe per esser poste trasversalmente al
cassero a tirare di fianco; inoltre due pezzi grossi a ciascuna banda del timone, di cui uno
per tirare di dietro e uno di fianco; al secondo suolo del cassero di poppa, sopra il
precedente, si poneva artiglieria più piccola con la quale tirare da tutti i quattro lati; sulla
cima poi del detto cassero o castello di poppa, cioè dove si ponevano i fanti per
combattere, si poteva installare una mezza dozzina di falconi, pezzi dalle cinque alle sette
libre di palla di ferro e detti in teoria anche mezzi sagri, in modo da tirare anche con questi
da ogni lato. Passando alla prua, il von Ravenstein voleva sul primo suolo cinque o sei
falconi o altri pezzi leggeri e, più in alto, archibugi da posta e serpentine, essendo i primi
quelli che più propriamente si sarebbero dovuti chiamare moschetti da posta o da mura o
anche moschettoni a cavallo (in sostanza i moschetti da palla di piombo da due a quattro
once che abbiamo già visto), i quali erano, come sappiamo, montati ‘a cavallo’ d’un
cavalletto girevole a mezzo d’una forcella alla stessa maniera degli smerigli, dai quali però
si distinguevano per il minor calibro; le seconde, bocche da fuoco delle cui caratteristiche
non siamo purtroppo certi, dovevano però necessariamente - data la loro collocazione -
essere anch'esse piccoli pezzi da posta, vale a dire fissi come i precedenti, e non è escluso
che il loro fosse in realtà solo un nome più antico degli smerigli. Sul suolo superiore del
castello di prua, luogo dove anche combattevano i fanti, il von Ravenstein pone altri tre o
quattro archibugi da posta e un altro piccolo pezzo da braga, smeriglio o serpentina che si
voglia dire; infine egli prescriveva archibugi da posta di rispetto da mettere all'occasione
dove il bisogno lo richiedesse.
Molto interessante è allo stesso proposito l’art. LX d’un editto che Enrico III di Francia
promulgò nel 1584 e che aveva per oggetto la giurisdizione del suo ammiragliato, articolo
citato dallo Jal; in esso si disponeva l’armamento a cui i vascelli mercantili francesi erano
cautelativamente tenuti per poter affrontare anche eventuali azioni di guerra, armamento
che riassumiamo come segue:
12 uomini e 2 mozzi.
2 doppi cortaldi (‘doubles barces’).
2 moiane.
6 mezze picche.
4 archibugi o balestre.
918
Dai 50 ai 60 tonelli.
18 uomini.
2 passavolanti.
4 cortaldi.
6 picche.
6 mezze picche.
4 archibugi o balestre.
Dai 70 ai 80 tonelli.
24 uomini.
2 passavolanti.
6 cortaldi.
12 picche.
6 mezze picche.
6 lance di fuoco.
6 archibugi o balestre.
Un ponte di corda.
Pavesate.
36 uomini.
2 pezzi di gran calibro tiranti palle di pezzo bastardo (‘pesante’).
2 passavolanti.
8 cortaldi.
12 picche.
12 mezze picche.
12 lance di fuoco.
8 archibugi o balestre.
Ben pontato e pavesato.
45 uomini.
2 cardinales o altri pezzi tiranti palle di pezzo bastardo.
4 passavolanti di nuovo calibro.
12 cortaldi.
24 picche.
12 mezze picche.
12 lance di fuoco.
2 faulces lances.
Dardi ferrati da coffa à suffisance.
12 archibugi o balestre.
Ben pontato e pavesato.
… Et tous les dessusdits navires soyent - pour guerre ou marchandise - fournis de poudres
et boulets necessaires pour l’exploict (‘il servizio’) de la dite artillerie. (A. Jal. Cit.)
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Per concludere l'argomento dell'artiglieria marittima, vogliamo dare al lettore una curiosità e
cioè alcune formule di fuoco liquido, ossia di quel fuoco bellico ottenuto da misture di
catrami, bitumi, peci, resine e olii e del quale abbiamo già detto. Il Collado insegna diverse
misture di fuochi bellici, misture alle quali si dava ai suoi tempi per lo più forma globulare e,
proprio come le più tarde granate, se ne facevano d’adatte a essere lanciate a mano oppure
sparate col cannone; queste palle incendiarie si dicevano composte, perché la
composizione delle loro misture era più complessa di quella sufficiente a preparare tanti
altri tipi di fuoco:
... e di questa sorte di palle io te ne potria insegnare a farle in mille modi, perché la loro
invenzione è tanto commune e antica quanto è antica la milizia istessa e maggiormente
nella Grecia, dove furono tanto frequentati questi fuochi che quasi la maggior importanza
delle loro imprese consistevano in essi, li quali facevano ne i modo seguenti... (L. Collado.
Cit. P. 276r.)
Daremo qui alcune ricette per la preparazione di fuochi inestinguibili tratte però solo dal
Collado, dal Biringuccio e dal Ruscelli, perché quelle del primo ci sono sembrate le più
coeve e adatte al periodo che soprattutto ci occupa e quelle del secondo le più antiche e
quindi curiose; abbiamo tralasciato quindi altri autori del Cinquecento e del Seicento che
hanno scritto di queste misture, quali il della Valle, il Moretti, il Chincherni, il Cataneo, il
Crescenzio e altri, perché non potevamo appesantire ulteriormente questo già greve libro.
Tornando al Collado, una prima ricetta, dice questo autore, è molto buona a fare un’altra
sorte di fuoco chiamato 'greco', inestinguibile e potentissimo, e così prosegue:
... Questa sorte di fuoco si legge che accostumava di adoperare il Magno Alessandro ne gli
assedij delle innumerabili terre che da lui furono conquistate, abbruggiando con esso i
ponti e porte e altre machine e ingegni che si usavano a' quei tempi; alla qual composizione
a' nostri tempi si aggiunge la polvere, con la qual'essi diventano assai più potenti e terribili.
(Ib. 83v.)
Ed eccone la ricetta:
A seconda della loro natura, alcune delle predette sostanze si mettevano a liquefare in una
caldaia posta su un fuoco molto lento, fatto con carboni già bruciati due volte a evitare
pericolose faville, mentre altre si pestavano accuratamente, si setacciavano sottilmente e si
aggiungevano nella caldaia, ma con la massima cautela percioché questa sorte di fuoco è
pericolosissimo; il tutto s’impastava a puntino con parti uguali d'olio di sasso (‘petrolio’) od
olio di linosa, di vernice liquida eletta (‘di prima qualità’) e di trementina. La pasta così
ottenutasi, una volta raffreddatasi, s’appallottolava nella misura che si voleva e poi
adoperata come mistura di base per proiettili da lanciare a mano o col cannone; diciamo di
base perché gl’involucri che le si preparavano erano in genere arricchiti da altre misture
secondarie a base di polvere d'artiglieria, salnitro, solfo e altro, anzi talvolta a questa palla
si faceva anche un nucleo centrale esplosivo di polvere fina d'archibugio, perché in tal
maniera, una volta raggiunto il bersaglio e consumatosi lo stoppino, si sarebbe spezzata in
tanti frammenti incendiari e avrebbe appiccato il fuoco, per esempio, in più punti del
vascello nemico. Si poteva pure mandar occultamente dei nuotatori a conficcare nel
fasciame del legno nemico dei triboli di ferro acuminati e avvolti da stoppa bituminosa
accesa oppure un attrezzo provvisto d’un puntone o d’una trivella di ferro [fr. vil(l)ebrequin,
virebrequin, perçoir, ta(r)rière, laceret; ol. zwijkie, frette, (spijkers-)boor, avegaar] e pieno
della suddetta mistura, perché, se anche l'equipaggio nemico avesse tentato di spegnerlo
rovesciandovi dall'alto mastelli d'acqua, essendo quello un tipo di fuoco inestinguibile, non
ci sarebbe riuscito. Un altro sistema simile, ma meno comodo e occultabile del precedente,
era quello delle camicie di fuoco (fr. chemises à feu o chemises soufrèes; ol. geswavelde
hembden), ossia dei pezzi di vecchie vele, le quali, imbevute in una mistura d’olio, petrolio,
canfora e d’altre materie combustibili, s’inchiodavano distese sul fasciame asciutto del
vascello nemico da incendiare e poi si accendevano a mezzo di micce.
Ecco un’altra ricetta del Collado per fare fuochi inestinguibili, che arderanno sotto acqua e
faranno altri maravigliosi effetti.:
Olio di sasso ½
Acquavite di tre cotte ½.
... e questa sorte di palle sono efficacissime in qualunque fattione (‘azione di guerra’),
perché elle ardono con incredibil furia ed è 'sì terribile la sua potenzia che causano gran
timore a chi le guarda e arderanno ogni cosa dove tocca questa materia; resistono alla neve
e all'acqua e, come il fuoco arriva alla polvere fina, si rompe in molti pezzi quella palla e, se
alcuni di quelli nel tempo di un assalto si attacca a una gamba o a una armatura di un
soldato, mai si distacca sin che non sia consumata tutta la materia... (Ib. Ib. P. 278.)
Terza prescrizione di fuoco greco tratta dal Collado è la seguente; con essa si faranno palle
che arderanno sotto acqua e sotto la neve e sono atte ad abbruggiare qualunque materia
del mondo che sia combustibile. (Ib. 279):
Dopo aver liquefatto, pestato e setacciato come al solito e con l'unica avvertenza di pestare
la canfora insieme al solfo, perché la canfora pestata da sola si perde diventando una pasta
non più utile, s’impastava la mistura così ottenuta con olio di sasso o di linosa, oppure con
vernice liquida, e poi la si provava; se fosse venuta troppo furiosa, la si moderava
aggiungendo solfo e pece greca; se troppo lenta, la si potenziava con altra polvere
d'artiglieria:
922
... e questo sarà un fuoco potentissimo e, adoperato in un assalto, farà effetto maraviglioso
e arderà sotto dell'acqua e con nessuna cosa del mondo si ammorza, se non coprendolo di
terra. (Ib. P. 280.)
Ecco una quarta e ultima mistura inestinguibile del Collado, atta a bruciare vascelli, ponti e
altre costruzioni di legno:
... operetta, qual già molto tempo mi pervenne alle mani, la qual fu antichissimamente
scritta in carta pecora, ove le lettere erano tanto caduche che con difficoltà si leggevano;
alla qual, per la maestà dell'antiqua scrittura, fui e son sforzato d'haverla in reverenzia e
dargli fede. (V. Biringuccio. Cit. P. 164v.)
... dicesi che Marco Gracco lo fece per abbrusciar l'armata navale de' Romani [...] bruscia
ancho questo fuoco infin nell'acqua; onde per farlo ci insegna Marco Gracco che si pigli
canfora, oglio di solfo vivo, oglio di trementina, oglio laterino, oglio di giunipero, oglio di
sasso, oglio di lino, alchitrean, colofonia sottilmente pista, oglio di torli d'ova, pece navale,
cera zagora, grasso d'anitra scolato, salnitro e il doppio di tutta la composizione d'acqua
vite e l'ottava parte di tutta la dosa d'arsinico e tartaro e alquanto di sal armoniaco; e tutte le
predette cose si mettano in una boccia ben turata e mettansi poi al caldo in putrefattione
sotto il lutame (‘letame o luto’) per il spazio di dua mesi; e tutte le predette cose si mettan
dapoi in una storta e con fuoco lento si distillino, che d'esse cose fra sette o otto hore di
fuoco n’escirà un liquor sottilissimo, nel qual mettevisi poi tanto di bovina secca in forno,
pesta e stacciata e fatta sottilissima, la qual gli daga corpo simile a un sapone o più liquido.
(Ib. P. 146r.)
Se ben fatta la suddetta mistura si sarebbe dovuta accendere anche con i raggi del sole.
ecco un’altra ricetta del Biringuccio, la quale deve essere d'origine molto antica come la
precedente, ma ora già potenziata con polvere d'artiglieria:
... Fassi ancho una composizione liquida in un caldaro, nella qual mettesi grasso porcino,
oglio petrolio, oglio di solfo, solfo vivo, salnitro due volte raffinato, acqua vite, pece greca,
trementina e alquanta di polver grossa; e liquefatta la pece, il solfo e il salnitro, aggiontovi il
grasso, la tremantina e l'oglio e la polvere sopra il fuoco, l'incorporarete benissimo,
rimanendola in un pignatto o altro vaso [...] è materia incensiva e può facilmente il fuoco
penetrargli, che è anco potente a mantenirvelo... (Ib. P. 335v-336r.)
A tali si faceva una copertura a base di polvere d'artiglieria acciò più facilmente
prendessero fuoco, come abbiamo già spiegato, poi si accendevano e si gettavano sul
nemico a mezzo mazza-frombole o di semplici frombole o con metodi similari, in quanto al
tempo del Biringuccio non era assolutamente ancora pensabile di poter sparare simili
pericolosi e difficili proiettili con le bocche da fuoco; però di tale mistura si potevano anche
fare pallottole col riempirne delle borsette di lino apposta preparate e che poi si
circondavano strettamente di corda per irrobustirle, come si faceva con i rocchetti (‘razzi’),
e infine se ne caricavano, insieme a misture espulsive, le trombe di galera, di cui abbiamo
detto, oppure cerbottane di ferro.
Una mistura incendiaria, questa, la quale si sarebbe accesa al semplice contatto con
l'acqua e che risalirebbe al tempo d’Alessandro Magno, è descritta da Girolamo Ruscelli (†
1566), altro trattatista del Cinquecento, il quale dunque da la seguente prescrizione:
... A far un fuoco col quale Alessandro brucciò il paese d'Agamenor: Pigliate balsamo over
olio benedetto libra 1, olio di lino libre 3, olio rosso d'ova libra 1, calcina viva libre 8; ben
trita la calcina con le predette cose, e si faccia una composizione e poi mettete questa
materia dove vorrete overo ungete con essa quel che vi piace, che, alla prima pioggia che
924
verrà, si accenderà e arderà sino alle pietre (Girolamo Ruscelli, Precetti della militia
moderna, tanto per mare quanto per terra etc. P. 7v. Venezia, 1572.).
Chiudiamo quest'interessante, ma non agile argomento con una ultima ricetta di mistura
incendiaria inestinguibile anch'essa del Ruscelli:
... A far fuoco che non si smorza se non come intenderete: pigliate solfo vivo parte 1,
orpimento parte 1, calafonia parti 2, pece navale parte 1, vernice in grani parte 1, termentina
parte 1, rasia di botte parti 2, del tasso parte 1, incenso parte meza, olio di lino parte meza,
olio petrolio un terzo; dipoi pestate bene tutte queste cose insieme e mettetile in un vaso di
rame a bollir un pochetto e piglierete della stoppa con bambace e fate sciugar detta materia
e fatene palle e sappiate, come voi l'accendete, non si può smorzare se non con aceto o
urina. (Ib.)
Altri materiali con i quali sembrava si potessero estinguere i fuochi greci erano la sabbia e il
cuoio crudo. Addirittura il Crescenzio, nel trattare i fuochi artificiati per uso di guerra
nautica, descriveva un suo progetto di mine subacquee, il che dimostra - come nel caso
dell'innesco a orologeria di cui abbiamo più indietro detto - quanto siano secolari certi
ritrovati tecnici che a noi sembrano invece d'invenzione certamente molto recente.
925
Capitolo XVII.
ossia maestro, mezzana e trinchetto; sei totani, cioè labari, per detti alberi; tre confaloni e
uno stendardo quadro grande, tutti e quattro per la poppa della sola galeazza Capitana.
Questa tela viene presto affidata a Gioan Andrea dello Lieto e compagni, mastri banderari; a
essi vengono pure consegnate 24 canne di tela cruda veneziana per fabbricare le guaine a
tutti i suddetti vessilli e canne 496 di frangetta di filo rosso, bianco e giallo - per un peso
complessivo di libre 86 e mezza - al fine di guarnirne i 20 vessilli. In breve tempo e in due
volte i mastri banderari forniscono quanto richiesto; labari, fiamme e gagliardetti sono tutti
pintati con le arme reali e altre pinture e figure, guarnite con sue frangie de filo de più colori,
rosso, bianco e giallo, con le vayne de tela cruda de Venezia. I confaloni consegnati sono
però due e non tre come sopra scritto; inoltre alle figure certamente dipinte sia su questi sia
sullo stendardo quadro non si fa menzione. La fornitura consegnata dai mastri banderari
include anche - a peso - lacci di filo bianco, rosso e giallo con diversi cordoni e fiocchi per
attaccare le fiamme alle antenne e i labari alle aste di calcese degli alberi.
Il 28 aprile il Sanguinetto riceve - per la sola Zúñiga - 44 cantaria e 9 rotoli di vecchie catene
di ferro da forzati, cioè 54 branche a sei fili per branca, essendo ogni filo lungo 10 palmi; a
tal proposito non dimentichiamo che le galeazze a voga di scaloccio, pur avendo molti più
rematori delle galere, avevano all'incirca lo stesso numero di banchi e quindi anche di remi.
Le dette catene sono da racconciare (cst. recorrer) e da adattare ai banchi del nuovo
vascello. Riceve inoltre tutto il resto del materiale occorrente a ferrare e sferrare la chiusma,
vale a dire la ciurma, e si tratta di maniglie di ferro nuovo con loro perni e chiavette;
ancunie, ossia incudini, di ferro acciaiato nuovo con relative mazzette, buttafuori e
tagliaferri; tre calzete de ferro usate e reconciate utsupra, longa l'una palmi 30 per li mori
dele camere. I mozzi di bordo, di solito giovanissimi schiavi maomettani, dovendo esser
liberi di camminare e quindi portavano alle caviglie ferri differenti.
Altro materiale fornito per i vogatori è il seguente e bisogna tener conto che i quantitativi
indicati non sono necessariamente quelli sufficienti:
10 lampioni guarniti d’osso e legname per far luce in corsia (in modo che i marinai di
guardia di
notte potessero controllare il sonno delle ciurma);
12 lampe (‘lampade’) di vetro;
Anchore cinque a due mazze con suoi ceppi per un peso complessivo di cantaria 29 e rotula
(‘rotoli’) 94;
Un campanello di metallo, ossia di bronzo, per suonare l'Ave Maria;
Un paio di piccole bilance d'ottone con suoi laci de seta verde e rubbi de ferro per pesare le
medicine;
Vintidoi lenzola vecchi e tre mezi sparvieri (‘padiglioni o baldacchini da letto’) de tela bianca
vecchi per stracciare e fare sfilaccie e medicare ferite...
Tovaglie da tavola, da mano, de tela per faccia con sue francie...;
24 salvietti di Fiandra.
Canne sissantadue di cotonina vecchia con sue benne di canavaccio per inforrare il cielo
della
poppa...
Si trattava evidentemente d’un lavoro di tappezzeria riservato al soffitto della camera del
capitano.
Venticinque bolse de baqueta (‘borse di vacchetta’; sp. zurrones) negra de tre palmi scarsa
l'una longa, con
una cordella al bocaglio per la polvera...
Di questi sacchetti di cuoio crudo, usati per tener in maggior sicurezza la polvere
d'artiglieria in coperta, abbiamo già detto.
Un cantaro e sissanta rotula de Mag...(‘magra’?) per tengere e pengere li remi ad altre cosse
dela galiaza...
Probabilmente qui s’intende pittura magra rossa, ossia rosso non all'olio; di tal colore, a
giudicare dai quadri del tempo, si tingevano infatti i remi.
Dudici coijri pelosi, sei castrati e sei vachini levantini, per li portielli e per li scalmi de li
remi...
Pezzi di queste pellicce servivano dunque, come sembra, per fare da cuscinetto tra scalmo
e remo e inoltre per rendere impermeabili all'acqua del mare i portelli dell’artiglieria.
Interessante questo dover sverniciare ben 64 cristalli dipinti per poterli poi usare come
cristalli di fanale! Ecco ora un semplice corredo da farmacia:
C'è ancora del rame lavorato per la cupola del fanale della predetta galeazza Capitana e
inoltre spago, cera, pece greca, ferro, sartie e altri numerosi materiali che non riteniamo
però utile qui anche elencare.
Ecco ora alcuni dei generi ricevuti da Jorge Bremeo, patrone della galeazza Patrona,
chiamata, come sappiamo, la Napolitana:
Anchore cinque de ferro a due marra l'una per dar fondo, tre grandi e due mezane, de peso
cantaria vintinove e rotula novantaquatro...
37 serrature de ferro limate con loro chiave (e) guarnite per li casciuni e ponte (sic; ‘porte’)
de camere, parte a mappe e parte a lichetto...
Diece lampioni guarniti de osso e legname con sue lucerne de lamera de stagno per far la
lume in corseija...
Sei lampionetti guarniti de osso e lamere de ferro stagnato con sue lucerne utsupra...
Dui fanali de tempesta guarniti utsupra...
929
Quarantaotto strapontini de canavaccio pieni de lana caprina, longho l'uno palmi undici in
circa
e largo pal. uno e mezo, per li banchi de la voca...
Dui tovaglie di detta tela (di Fiandra) longa palmi cinque e larga palmi dui e mezo per
asciugamani...
Vintiquattro salvietti de tela utsupra de palmi tre in quatro l'uno...
Dui tovagli de tela bianca guarnite con frangie de filo bianco intorno per la faccia...
Dui tapeti alexandrini [...] per la poppa...
Quindici pome de legname de chiuppo (‘pioppo’) torniati e pintate per le aste dele fiame e
bandere...
Quatro para de ventose de vitro con sue veste de paglia per li enfermi...
Quatro orinali de vitro con loro veste utsupra...
Vintiquatro lenzola vecchie di tela bianca per (far) peze e far sfilacci per medicar li feriti...
Ducento schiavine rase (o ‘rosse’?) per coprir la chiusma...
Canne cinquecentootantasei e meza de canavaccio trino de Genova per far una tenda...
Un caldaro grande de rame con suo coverchio per la chiusma...
Un caldaro per li offiziali con coverchio...
Tre pignate di detta rame, dui con coverchi e una senza, per il capitano e amalati...
Un caldaro per li amalati con suo coverchio...
Una cocoma grande per cocere aqua...
Un caldaro per li soldati con sua manecha de ferro...
Un caldaro per li amalati utsupra...
Quattro cazzole [...] per cucina...
Quattro cochiare...
Quattro maneche de ferro per li quattro caldari, ciò è dela chiusma e dela pece e deli
offiziali...
Otto piati de stagno de Fiandra per la tavola de poppa...
18 piati mezane utsupra...
48 piati piccoli utsupra...
6 scotelle con le orecchielle utsupra...
Due tase (‘tazze’) per vevere (‘bere’) utsupra...
Una salera...
Tre bichieri con loro coverchio per medecine (di stagno di Fiandra)...
Quatro vichieri (‘bicchieri’) senza coverchio per sciaroppi (di stagno di Fiandra)...
Uno colaturo perciato (‘bucato’?) per colar medecine...
Una sciaropera per temperar sciaroppi...
Descriveremo ora l'artiglieria delle due suddette galeazze napoletane e noteremo che essa è
parecchio meno numerosa di quella più sopra prescritta per questo tipo di vascelli; ciò
starebbe forse a dimostrare quanto aveva riportato il residente veneziano Alvise Lando nel
1580 a proposito della incipiente costruzione di queste galeazze e cioè che, dopo essersi
senza successo tentato di costruirle più grandi, si sarebbe poi deciso di farle più piccole.
930
6 cannoni:
Cannone da 50 libre di palla, lungo 12 palmi, nominato S. Felippo, distinto da tre scudi sotto
li mognoni (‘sotto gli orecchioni’), di cui uno con l'armi reali, uno con quelle del
Comendator Maggior di Castiglia, cioè della massima autorità dei cavalieri di Malta nella
Castiglia, e il terzo con l'armi di Carrillo de Quesada. Inoltre accanto al fogone questo pezzo
presentava un cartiglio, ossia un fregio per iscrizione che si leggeva così: Carrillo de
Quesada, General del Artilleria; anche inciso sulla culatta era il peso del pezzo e cioè
cantaria di Napoli 34 e rotola 88.
Altro cannone identico al precedente, ma nominato S.to Jacomo e pesante cantaria 36 e
rotula 5.
Altro identico, ma da 25 libre di palla, nominato S.to Agustino e segnato con un crè (dal fr.
creux,
incisione nel metallo) che riporta il peso di cantaria 24 e rotola 68.
Altro identico al precedente, ma nominato S.to Thomase e pesante cantaria 24 e rotula 4.
Altro identico, ma da 35 libre di palla, nominato S.to Antonio e segnato cantaria 29 e rotola
22.
Altro identico al precedente, ma nominato San Francisco e pesante cantaria 28 e rotola 64.
2 mezze colombrine (nome più antico e che sarà poi corrotto in ‘colubrine):
- Una lunga 11 palmi, contraddistinta da una corona reale e, posto sotto detta corona, un
cartiglio con la
scritta Philippus Rex; sotto gli orecchioni o mognoni due crè, di cui uno diceva
Donefrances (sic) de Alva, General e l'altro cantaria 25 e rotola 65 de Spagna. Questo
pezzo è guarnito di cassa o letto, di ruote chiodate e asse, il tutto di legname.
- Altra identica, ma segnata de peso de Spagna cantaria 24 e rotula 46.
Uno lungo palmi 7, contraddistinto da uno scudo con le armi di Sua Maestà e un crè al
fogone che dava il peso di cantaria 6 e rotula 40; pezzo guarnito d’affusto completo come le
suddette mezze colubrine.
Altro uguale al precedente.
Altro de bronzo tonno alemano, lavorato a fogliaggi, lungo palmi 8 e mezzo, con uno scudo
sopra li triglioni (altro termine per orecchioni) mostrante le armi imperiali; crè che dava il
peso di cantaria 14 e rotula 30; guarnito d’affusto utsupra.
Altro con le armi imperiali, lungo palmi sette e con peso scritto di cantaria 6 e rotula 60,
guarnito d'affusto.
Altro utsupra, ma pesante cantaria 6.
Altro utsupra, ma alemano, lungo palmi 9, senza indicazione del peso.
Altro con uno scudo con le armi di Sua Maestà, lungo palmi sette e con peso segnato di
cantaria 6 e rotula 30, guarnito utsupra.
Altro utsupra, di peso cantaria 6 e rotula 5.
6 sagri:
931
Uno di sei libre di palla, lungo palmi 10, con due scudi, di cui uno raffigurante le armi di Sua
Maestà e l'altro quelle del marchese di Mondesciar (‘Mondejar’), e con un cartiglio sul
fogone che diceva: OPUS X.STOFARI GIORDANI, con peso scritto di cantaria 8 e rotula 89,
guarnito d'affusto utsupra.
4 altri utsupra, ma con i seguenti pesi: cantaria 8 e rotula 46
otto 27
otto 64
otto 52.
Altro utsupra, ma pesante cantaria 8 e rotula 35, con letere al fogone che dicono OPUS
SANTILI ET E. GIUS FILIJ ANTONIO DE SANTIS DE NAP. ANNO D.NI 1578, con peso scritto
di cantaria 8 e rotula 35.
20 smerigli:
Uno lungo palmi 5 ½, con le armi reali sul fogone e sopra la cornice dela camera del
mascolo Crè de abbaco de rotoli 97, guarnito con sua codeta e forchetta de ferro.
Altro utsupra, lungo palmi 6, con indicazione del peso di cantaria 1 e rotula 93, guarnito
utsupra.
3 altri utsupra, ma delle seguenti misure:
uno lungo palmi 5, pesante rotoli 95.
“ “ “ 5 “ “ 97.
“ “ “ 6 “ cantaria 1 e rotula 57.
Altro utsupra, lungo palmi 7, con uno scudo sopra li triglioni, pesante cantaria 3 e rotula 7.
Altro utsupra, di palmi 6½, con uno scuto in bianco (cioè privo di raffigurazioni), signato
sopra la colata (‘culatta’) cantaria dui e rotula 84.
Altro utsupra, di palmi 6, con scudo raffigurante le armi di Sua Maestà, con letere sopra la
camera del mascolo, che mostrano cantaria due e rotula 3.
Altro utsupra, signato cantaria uno e rotula 60.
Altro utsupra, d’una libra di palla e pesante cantaria 1 e rotula 80.
Altro utsupra, di palmi 5, con le medesime arme utsupra, segnato cantaria 1 e rotula 3.
3 altri come il precedente, ma dei seguenti pesi:
cantaria 2 e rotula 5.
“ 1 “ 47.
“ 0 “ 96.
6 altri genovesi, di palmi 5, senza segno e senza peso, guarnite con lo scuto con le arme de
Sua Maestà.
Si fornivano i 22 affusti per i suddetti cannoni, mezze colubrine, mezzi cannoni petrieri e
sagri, includendosi nel numero quelli già notati nelle singole descrizioni dei pezzi:
Cascie vintidue ferrate per detti pezi de artiglieria utsupra con loro rotte (‘ruote’) e assi de
legnamo chiavate con chiodi per guarnimento utsupra....
I 20 smerigli, essendo, come sappiamo, piccoli pezzi a braga, non avevano casse, ma erano
dotati di forchette di ferro fisse che si piantavano su cavalletti di legno girevoli (fr.
chandeliers), potendosi quindi così puntarli a destra e a sinistra, ma anche in basso e in
alto come si voleva, e questi si ponevano generalmente sulle murate:
932
Cavalleti vinte de legname de ulmo con una croce de ferro posta in ogniun cavalleto, dove
vano
a posare le forchette de' detti vinti smerigli...
Anche per i detti 20 smerigli si consegnavano poi 40 mascoli di bronzo, tra grandi, mezzani
e piccoli, a misura cioè degli stessi pezzi a cui erano destinati, considerandosene cioè due
per smeriglio:
Il peso totale di questi masculi sembra essere cantaria 3 e rotula 90. Vengono ancora fornite
44 cochiare di rame con le quali s’infilava la polvere nella bocca dei normali pezzi ad
avancarica; si tratta di cucchiare dalle misure diverse per caricare artiglierie infatti diferenti,
cioè due cucchiare per ognuno dei suddetti pezzi, smerigli ovviamente esclusi perché da
braga. Queste cucchiare erano guarnite d’un maschetto, ossia del modulo di legno attorno
al quale s’inchiodava la parte posteriore della lamina di rame di cui la cucchiara era fatta, e
di un’asta di fao (‘faggio’) che si conficcava nel buco centrale all'uopo praticato nel predetto
modulo; ogni cucchiara era dunque fatta della misura adatta al pezzo d'artiglieria al quale
doveva servire, mentre le relative aste erano state semplicemente divise in tre misure e cioè
ce n’erano da 12, da 15 e da 18 palmi di lunghezza. V'erano poi 44 refilaturi de legname con
loro aste e deve trattarsi dei normali calcatoi, i quali dovevano però essere anch'essi
ognuno di misura adatta al pezzo a cui doveva servire. V'erano ancora 22 lanate de legname
de chiuppo torniati, anch'esse ovviamente a misura, con le quali si rinfrescava e si puliva
l'anima dei pezzi, e infine 25 (quindi tre in più) saccatrapi con relative aste, strumenti da
ravvisarsi senz'altro nei cavafieno, ossia in quelle spirali di ferro inastate che servivano a
estrarre lo stoppaglio di fieno o stracci dalla canna del pezzo, quando si voleva scaricarlo
senza sparare.
Passiamo ora alle palle d'artiglieria fornite a la Zúñiga insieme a quanto predetto:
Palle di ferro:
Palle di pietra:
933
Queste palle erano ovviamente per i predetti otto mezzi cannoni petrieri, a dimostrazione
che questo tipo di proiettili ancora si usava; mentre per gli smerigli si sarebbero fuse a
bordo pallottole di piombo adoperando le apposite forme.
Altri materiali d'artiglieria forniti a la Zúñiga erano i seguenti:
Polvere sottile per artiglieria e archibusci, cantaria 80 posti in barrili 216, netto di tara.
Miccio (‘corda-miccia’), cantaria 20.
75 cugni (‘cunei’) di legname per assestare l'artiglieria sulle sue casse, di palmi da due a tre
l'uno.
7 paia di ruote d'artiglieria de respetto di legno d'olmo con sue code de rendene (‘code di
rondine’) de legname poste con chiodi per le cascie de artiglieria.
Una scaletta di legname d'olmo per incavalcare e discavalcare l'artiglieria.
La scaletta o taglia era una piccola capra molto usata appunto per issare le pesanti bocche
da fuoco e posarli sulle loro casse, oppure da quelle levarli; per imbarcare o sbarcare le
artiglierie si usavano invece grosse pulegge attaccate all’alberatura.
Erano questi assi multi-uso e potevano cioè servire, oltre che per riparare le casse, anche
per costruire o aggiustare una piccola piattaforma da batteria.
Questi boccagli erano non altro che gli stoppagli che s’infilavano nelle canne dei pezzi dopo
la polvere e si calcavano con il calcatoio per rendere le stesse cariche di polvere più
compatte e quindi più potenti.
Declarando che le sopradette sartie, poleggie, artigleria e altre arme [...] bandere e altre
diverse robbe e munizioni, como sopra particolarmente sta declarato, sono state
consignate dal detto Gioseppe de Palmiero, Regio Munizioniero, a detto patron Pietro de
Occioga de Duo per armamento e guarnimento dela predetta galeazza Capitana 'la Zúñiga'.
In Napoli dala Regia Scrivania de Razione a' 10 de agosto 1582.
(firmato:) Antonio Maria Sanguinetto. (A.S.N. – Sez. Mil. N.i.)
Nello stesso suddetto incartamento seguono i materiali d'artiglieria consegnati dallo stesso
regio munizioniero sopramenzionato a Giorge Bremeo, patrone della seconda galeazza,
cioè quella Patrona chiamata la Napolitana, ma, poiché si tratta di forniture che ricalcano
quelle della galeazza precedente, ci limiteremo a trarne solo gli elementi che da quelle le
differenziano. La Napolitana dunque riceve otto cannoni, due mezze colubrine, sette mezzi
cannoni petrieri, sette sagri e 20 smerigli, tutti pezzi di bronzo e guarniti delle relative casse
e cavalletti di legname.
I due primi cannoni, ambedue di 55 libre di palla, portano gli stemmi del re di Spagna e del
marchese di Mondejar e sono anch'essi opera del fonditore Cristofaro Giordano. Il terzo,
chiamato S. Andrea, e il quarto, ambedue da 25 libre, portano ognuno tre stemmi, di cui uno
del re, uno del suddetto commendatore maggiore di Castiglia e l'ultimo dell'anche già
menzionato Carrillo de Quesada, capitano generale dell'artiglieria del regno di Napoli. Il
quinto è un normale cannone da 35 libre, lungo palmi 12 e decorato con le armi di Sua
Maestà il re di Spagna; seguono due cannoni turcheschi, ossia di fondizione ottomana, il
primo lungo 11 palmi e privo di qualsiasi segnale o iscrizione, il secondo invece di nove
palmi, di libre 35 di palla e con letere turchesche ala colata (‘culatta’) senza altro signale né
935
... e sotto li cuglioni (altro termine per orecchioni) un scuto con la corona riale e un aquila
con dui leoni che teneno detto scuto con il tusone (‘Toson d'Oro’) pendente del monte...
La prima mezza colombrina, anch'essa turchesca, è lunga 10 palmi, di 22 libre di palla, priva
d'iscrizioni se non per il crè del peso e cioè cantaria 16 e rotula 0, peso de Sicilia. La
seconda mezza colubrina, questa di 12½ palmi e di 12 libre di palla, ha sotto li triglioni una
corona reale con iscrizione che si legge PHILIPPUS REX e, alla cornice della culatta, altro
crè che invece si legge: DON FRANCES DE ALBA GENERALE, con signale in conto
castigliano gs xxiiij°.1.13.
Il primo mezzo cannone petriero, lungo palmi 7, di libre 14 di palla, porta anch'esso il
seguente abbaco castegliano gs x iij°.1.45 peso de Spagna. Il secondo, lungo e di calibro
come il precedente, si presenta con uno scuto in bianco con una corona di sopra, con crè
de abbaco cantaria 12 rotula 92 de Genova. Gli altri cinque mezzi cannoni petrieri hanno lo
stesso colibre dei due precedenti, ossia 14 libre, e non presentano nulla di diverso se
n’eccettua uno che porta le arme de casa de Toledo.
Dei sette sagri due sono d’8 libre di palla, quattro di 6 e portano un cartiglio che dice: OPUS
SANTILLI DE SANTIS DE NAPOLI; l'ultimo è OPUS CHRISTOFARI GIORDANI DE NAPOLI.
Dei 20 smerigli, pezzi, come sappiamo, a braga e a cavalletto, sette sono lunghi 8 palmi, di 8
once di palla di piombo, senz'alcuna iscrizione né indicazione di peso, ma ognuno con sua
codeta e forchetta de ferro, con suo cavalleto de legname, con una croce de ferro chiavata a
detto cavalleto dove pasa la codetta; tre sono anche di 8 once, ma lunghi circa 5 palmi
solamente e pesanti, due d'essi, rotoli 98 e il terzo cantaria 1 e rotula 1; otto sono invece di
1½ libra di palla, lunghi da 6½ a sette palmi, pesanti da cantaria 1 e rotula 35 ad 1 e 97,
alcuni con lo stemma di Sua Maestà tra li triglioni; un altro è di 6 once di calibro e pesa 95
rotula e l'ultimo di questi 20 smerigli è di 1 libra di palla e pesa cantaria 1 e rotula 33.
Per quanto riguarda le palle di ferro, questa galeazza riceve, oltre a quelle dei calibri forniti
all'altra, anche palle di libre 22, 8 ed 1; riceve pure palle di piombo, cioè 650 de una libra
l'una con sue dadi di ferro dintro, de peso (complessivo) cantaria quatro e rotula vinte ed
800 de onze sei l'una con suoi dadi utsupra, de peso cantaria uno e rotula novantatre.
936
Perché questi proiettili di piombo contenessero dadi di ferro non sappiamo; possiamo però
immaginare che ciò si facesse per alleggerirli e di conseguenza per poter risparmiare
polvere nello spararli.
Tra i molti generi consegnati a la Napolitana riteniamo più interessanti i seguenti:
Le suddette pallottiere ci introducono alla fornitura d’armi portatili per i soldati della
guarnizione di bordo di questa galeazza:
Serravalle e Cividale del Friuli erano, come abbiamo già ricordato, località famose per la
bontà delle spade che producevano.
Centoquaranta rotelle (‘scudi rotondi’) nove de legname pintate con le arme de Sua Maestà
e
guarnite...
Duecento coraze de fostanio nigro de lamera de stagno de aciaro con tutti suoi recapiti per
armare...
Si tratta dunque di corazzine ricoperte di fustagno nero, ma non fatte più di cuoio come
erano state nel Medioevo bensì di lamierina di stagno acciarato, e fornite di tutti i necessari
attacchi per indossarla.
La galeazza Capitana, la Zúñiga, aveva anch'essa ovviamente ricevuto una partita d'armi
portatili, ma, poiché dai documenti risulta inferiore e meno dettagliata, abbiamo preferito
riportare questa suddetta de la Napolitana. Diremo infine che, come da certificazione
rilasciata dal summenzionato Sanguinetto in data 21 marzo 1582, 24 delle casse d'artiglieria
destinate alle due predette galeazze furono consegnate a un mastro falegname (li quali
haverà da acortare e acomodare per servizio del artigleria dele dui regie galiaze); si trattava
evidentemente d'affusti d’artiglieria terrestre da adattare all'uso marittimo, ossia da rendere
alla navaresca, come allora si diceva.
Ma, a prescindere dalla partecipazione delle suddette quattro galeazze, quale era la
consistenza delle forze di mare che nel 1588 costituvano la famosa e sfortunata Invencible
armada? Eccola, secondo una anonima relazione di poco precedente alla disfatta:
Ha Sua Maestà (Filippo II) in ordine per guerreggiare contra la regina d'Inghilterra e ribelli di
Fiandra
350 vele pro armata con novemila marinari in questo modo:
Infanteria e cavalleria.
Tra spagnoli, Italiani ed Alemanni può havere presso di sessantamila persone in questo
modo:
- mille e duicento cavalli leggieri spagnuoli, duicento altri della costa e duicento della
frontiera, che in tutto fanno mille e seicento.
… Di più per il servizio dell'artigliaria (si) sono levati quattromila e duicento huomini, delli
quali quattrocento sono guastatori…
VITTOVAGLIE.
BISCOTTO.
Andalucia ha contribuito dodici mila quintali di biscotto.
Malaga e suo contado vintisettemila e cinquecento quintali.
Cartagena e Murcia cinquemila quintali.
Sicilia cinquantamila quintali.
Burgos e campo cinquantaseimila quintali.
Napoli e l'isole quindicimila quintali.
Possono essere in tutto centosessantasettemila e cinquecento quintali.
Le predette forniture confermano che a quel tempo la Sicilia era ancora la regione d’Italia
principale produttrice di frumento.
CARNE SALATA.
Siviglia ed Estremadura hanno contribuito quattromila quintali .
La Galitia seimila quintali
Asturia ed altre parti mille quintali, che in tutto sono undicimila.
CARNE DI PORCO.
Siviglia ed Estremadura hanno contribuito cinquemila quintali.
Ronda duemila quintali.
Galitia duemila quintali.
Biscaglia duemila quintali, chę in tutto sono undicimila.
FORMAGGIO.
Maiorica ha contribuito duemila quintali.
Siviglia ed Estremadura mille.
Portogallo vinticinque mila quintali che in tutto sono vintiotto mila.
RISO.
Genova e Valenza quattordicimila quintali.
OGLIO ET ACETO.
Andalucia e Napoli hanno contribuito vintremila (‘ventitremila’) pesi:ogni peso vale
vinticinquelibre ed ogni libra sedeci onze.
FAVE ET PISELLI.
Cartagena n'ha contribuito quindicimila aneghe (‘fanéghe’).
Napoli e Sicilia undicimila aneghe, che in tutto sono vintiseimila.
VINO.
Malega, Marovella (‘Marbella’) e Cerefe (‘Jerez’) e loro giurisdittioni hanno contribuito
tredicimila botte.
Napoli seimila botte.
Siviglia e sua giurisdittione settemila botte, che in tutto sono vintiseimila.
Altre prouigioni di biade, ferri, panni di lino ed altre cose necessarie, delle quali ha fornito
l'Andalucia,
Napoli e Biscaglia.
Insomma, il Regno di Napoli non contribuì a quella sfortunata impresa solo con vascelli, ma
anche con grosse forniture di provvigioni.
940
Capitolo XVIII.
LA GUERRA.
Come abbiamo già detto, la navigazione con le galere e i vascelli sottili in genere era
destinata in massima parte al Mediterraneo, perché questi, essendo di bordo molto basso e
di poco pescaggio, non potevano reggere i flutti impetuosi dell'oceano; infatti sia
nell'Atlantico sia negli altri oceani e mari aperti le armate erano costituite quasi
esclusivamente di navi e galeoni, vascelli insomma d'alto bordo e ben reggenti, perché non
restassero sommersi dalle alte e forti onde che percorrevano quei mari, mossi da venti e
maree che il Mediterraneo non conosceva; inoltre questi vascelli tondi, avendo le vele
quadre, si governavano con molto meno problemi e pericoli e infine più erano alti di bordo e
meno ovviamente temevano gli abbordaggi. Questo non significa però che la navigazione
militare a remi non fosse per nulla praticata negli altri mari e infatti, oltre alla già da noi
ricordata e bella impresa fatta sulle coste scozzesi dalle galere di Leone Strozzi nel 1548 e a
prescindere dalla occasionale inclusione di galere avvenuta sia nell’Invencible Armada sia
in quella più tarda del 1597, inclusioni comunque vanificate dai terribili fortunali che
dissolsero ambedue quelle sfortunate armate, le galere asburgiche e filo-asburgiche si
spingevano correntemente al di là delle Colonne d’Ercole per accogliere e difendere i ricchi
convogli spagnoli che dalle Americhe giungevano in Spagna; nel già citato manoscritto
della Bibl. Marciana si descrivono le tappe della campagna di corso che le galere toscane
fecero nel 1567 sulle coste mediterranee del Marocco e poi del loro proseguimento oltre
Gibilterra sino al Capo San Vicente, luogo dove si unirono a quelle di Spagna e di Napoli, le
quali erano appunto in attesa della flotta che stava arrivando dalle Indie occidentali, per
difenderla dai corsari inglesi che infestavano quelle coste :
… per dubbio non fusse la caravana occupata over noiata dai corsali di quei paesi chiamati
‘bertoni’, invero homeni molto terribili sopra l’acque e gran ladroni per quei mari. (Tutte le
vittoriose imprese delle galere del Serenissimo Granduca di Toscana fatte nei viaggi
dall’anno 1565 al 1575. Bibl. Marc. di Venezia. Ms. VI. CVI., B.N.N. Sez. Nap. Per. 2001.)
I corsali bertoni, cioè i vascelli corsari inglesi, erano molto temuti in tutti i mari,
Mediterraneo compreso, già nel Cinquecento, perché portati da gente di grande abilità
navigatoria e sprezzante del pericolo come tradizionalmente i britannici in generale; si veda
per esempio quanto se ne dice in questa esortazione politica di anonimo scritta nel 1598
subito dopo la morte del re Filippo II di Spagna e dedicata al nuovo re Filippo III:
941
… di questi tali vasselli se ne veggono ne’ mari della Grecia alcuni ogn'anno e sono così
arditi e così securi che non temono incontro di sorte alcuna e sono ess itemuti da tutti, né le
galere se gli accostano né altri vasselli armati, in somma sono stimati invincibili e pare che
neanco possa loro contro il mare o'l vento, onde, se ne comparisse qualche buon numero,
metterebbono tutto a fuoco e fiamma senza trovare resistenza… (Del tesoro politico la terza
e quarta parte ecc. P. 181. Tournon, 1612.)
Per cui serebbe utile assoldarne, nel caso il nuovo suddetto monarca decidesse di portar la
guerra agli ottomani, ma con certe cautele:
... Ma in una simil facenda una cosa s'haveria da avvertire diligentemente, che nella
spedizione di tali
vasselli bertoni si ponessero ordini buoni, che portassero rispetto a’ christiani e a gli amici,
perché
quella gente è in credito di non havere punto di risguardo ad altro che alla preda, però
(‘perciò’) saria necessario mettervi un capo d'autorità e far bene imprimere ne gl'animi che
non si dovesse haver fine solo di preda, ma d indebolire il nimico… (ib. P. 182.)
… cominciarono li medesimi inglesi à destrarsi più alla matinarezza, nella quale sono poi
riusciuti superiori à gli hanseatici, e a tutte l'altre nazioni del mondo, tanto per la qualità de'
vasselli, quanto per l'esperienza deʼ marinari e per l'ardire de' capitani, onde hauemo sentiti
nominare in questi ultimi tempi il Drago (‘Francis Drake’), famosissimo archipirata, e
Riccardo Campoverde (‘Richard Grenville’) suo nipote, a' quali hà bastato l'animo di
scorrere e depredare più d'una volta l'Indie Orientali e Occidentali e di circondare anco il
mondo, come con una cintura si cinge un huomo (ib. P. 237).
La Spagna si servì abbondantemente delle sue galere anche nella guerra di conquista del
Portogallo, ossia nel triennio 1580-1582, come ricorda l’anonima discettazione spagnola da
noi più sopra già citata:
… galere, le quali nell’impresa di Portogallo pare che habbino, se non levata, scemata
almeno quella superstiziosa credenza nostra che i legni delle marine di qua non siano buoni
in alcun tempo da navigare l’oceano, come se l’estate non fosse bonaccia in quel mare e se
la bonaccia fosse abortiva di legni; onde non è dubbio che le nostre galere possono
sicuramente arrischiarsi in quel mare i tre mesi dell’estate… (Cit.)
Spagna le Province Unite olandesi usarono dei piccoli vascelli sottili non pontati simili a
bergantini, ma con la prua alta sull’acqua, un piccolo tendale tondo a poppa, un solo albero
molto arretrato, prua e poppa armate con due piccoli pezzi di campagna; erano questi
vascelli remieri che avevano un solo vogatore per banco, ma potevano contenere sino a 100
uomini. Infine, come abbiamo già ricordato, nel Cinquecento la stessa Inghilterra, anche se
potenza solo oceanica, fece qualche uso di alcune galere - ce n’era una, probabilmente
mercenaria, in appoggio all’esercito di Enrico VIII che combatté contro gli scozzesi a Pinkie
Cleugh (Musselburgh) nel 1548 - e di altre poliremi simili alle predette olandesi e che erano
chiamate nel Mediterraneo ramberghe (fr. ramberges, corruzione dell’ing. rowing-barges);
d’altra parte questi vascelletti sottili a remi inglesi dovevano essere una tradizione, a
leggere quanto già ne scriveva Procopio da Cesarea nel sesto secolo a proposito
dell’armata di mare preparata dai britanni contro i continentali varni, sembra nel 542. Si
sarebbe trattato di 400 imbarcazioni portanti centomila uomini, numeri ambedue poco
credibili, specie il secondo; si sarebbe trattato di gente tutta remigante, oltre che
combattente, perché gli inglesi di allora non ancora conoscevano la navigazione a vela,
avendo evidentemente i conquistatori romani, a titolo precauzionale, evitato accuratamente
di insegnare alle popolazioni isolane sia quella sia l’uso del cavallo:
... In tutta quell’armata non c’erano marinai, ma erano tutti remiganti, non maneggiando
infatti mai vele alcuno di quegli isolani, ma navigando sempre solo da remieri (περίνεως δὲ
οὐϰ ἦν ἐν τούτῳ τῷ στόλῳ, ἀλλὰ αὐτερέται πάντες. οὐδὲ ἰστία τούτοις δὴ τοῖς νησιώταις
τονχάνει ὀντα, ἀλλ'ἐρέσσοντες ἀεὶ ναυτίλλονται μόνον. In De bello gothico, l. IV, 20).).
Negli annali della città di Salem nella Nuova Inghilterra alla data del 18 agosto 1697 si legge:
La galera di Salem cattura un vascello francese sui Banchi. (Joseph B. Felt, Annals of
Salem. Volume II. Salem, 1849.)
Che quella colonia americana, anche se s’affacciava sull’oceano, avesse ritenuto utile
dotarsi d’una galera per difendersi dalle minacce marittime portate da francesi e spagnoli è
comprensibile; ma poi alla data del 4 ottobre dello stesso anno è scritto:
Ora che a una galera, anche se della fine del Seicento, si facessero affrontare traversate
transoceaniche ci sembra sinceramente incredibile; riteniamo dunque che si potesse in
effetti trattare d’una rowing-barge, dal bordo quindi più elevato rispetto a quello così tanto
basso d’una galera ortodossa. Poi, alla data dell’11 maggio 1704, leggiamo ancora:
943
Sewall portò a Salem una galea - capitano Thomas Larrimore - a bordo della quale egli
aveva catturato sette pirati e un po’ del loro oro all’isola di Shoals. Giorno 12, altri due di
questi pirati, catturati a Gloucester, sono condotti nelle carceri di Salem. Giorno 13, Sewall
porta i pirati a Boston sotto buona guardia. Giorno 30, il cap. John Quelch e cinque del suo
equipaggio sono impiccati; circa 13 dell’equipaggio di questa nave restano sotto sentenza
di morte, mentre parecchi altri di loro sono stati prosciolti. (ib.)
12 febbraio 1705:
La nave Essex Galley viene spinta a terra alle Barbados da un corsaro francese ed è
perduta. (ib.)
29 dicembre 1702:
La navigazione da guerra remiera fu però nel Cinquecento prerogativa non solo del
Mediterraneo, ma anche del Mare Arabico, scontrandosi in quelle acque frequentemente
squadre portoghesi e ottomane, e molto interessante è a questo proposito il diario d’un
còmito di galeazza mercantile veneziana che, catturato nel 1537 dai turchi, fu con molti dei
suoi compagni trasferito a Suez e imbarcato sulla squadra di galere che Costantinopoli
manteneva nel Mar Rosso per contrastare i traffici tra i portoghesi e le loro colonie indiane.
Il detto diario fu incluso, a partire da p. 296, in una raccolta di viaggi marittimi pubblicata a
Venezia nel 1550 a cura, come sembra, di Giovan Battista Ramusio e ne riporteremo ora il
contenuto per sommi capi. Nel marzo del 1537 Costantinopoli dichiarò guerra a Venezia e
tutti i vascelli mercantili veneziani in quel momento in sosta nei porti ottomani furono di
conseguenza sequestrati e i loro equipaggi arruolati a forza nella marineria turca; ciò capitò
anche ad alcune galee di mercato o galee di viaggio (l. galiae a mercato’) - ossia galee
grosse mercantili - che, sotto il capitanato d’Antonio Barbarigo, si trovavano allo scalo d’
Alessandria d’Egitto; gli equipaggi furono trattenuti sino al 7 settembre qualche tempo in
quella città, finché, scelta di quelli la gente atta al servizio marittimo e cioè bombardieri,
remieri, marangoni, calafati, marinai, còmiti e armiraglio, fu mandata a Suez a partecipare
alla preparazione di un’armata di galere per l’India:
… Il Sues è un luogo deserto, che non vi nasce herba di sorte alcuna, ed è ove Dio
sommerse Pharaone; e quivi fu fatta l’armata per l’india e tutto il legname, ferramenta,
sartiame, munizione furon condotte di Satalia e Constantinopoli per mare fino in
Alessandria e poi, caricate nelle zerme (‘germe’), le condussero su per il fiume Nilo, fino al
Cairo; quivi, prese delle vettovaglie e arteglarie, fu posto il tutto sopra cammelli che le
condussero fino al detto Sues… Questo luogo del Sues è nel principio del Mar Rosso ed è
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un poco di riduttori muro marcio da passa trenta, fatto in quadro, ove stanno di continuo da
venti turchi per guardia di quello. E fecero detta armata di legni settantasei, fra grandi e
piccoli, cioè maone sei bastarde, dicisette galee sottili, 27 fuste nove, galeoni due, navi
quattro e altre sorti di navilij fino al numero de 76. (G. Battista Ramusio, Delle navigationi et
viaggi etc. V. I. P. 274v.)
Fallita ai cristiani prigionieri una fuga in massa il 9 marzo 1538, l’armata fu raggiunta poi il
15 giugno successivo anche dal suo generale, l’eunuco Suleyman Pasha, il quale, dopo
essersi riposato otto giorni, fece dare a ciascuno dei cristiani una paga, consistente in 5
ducati d’oro e 10 maidini, ossia monete con l’effige del Mahdi (‘profeta’), pari in tutto a 215
maidini:
… e parte degli huomini delle nostre galee grosse furno posti sopra l’armata, cioè sopra una
delle bastarde settanta e sopra un’altra delle dette bastarde altrettanti, sopra il ‘chacaia’
(‘caico’) quindeci, sopra la galea de ‘Chielierchi Basí’ (probabilmente ‘Kilirgj Pasha’)
diciotto… il restante veramente di detti uomini furno posti sopra li due galeoni, ove erano
cariche (di) polvere, salnitrij, solferi, balotte, farine, biscotti e il tutto per il bisogno
dell’armata; e ancora il Bassà fece caricar li suoi danari sopra le galee, i quali erano coperti
di cuoi di bue (‘a prova di fuoco’) e tela incerata (‘impermeabile’) e furno cassette
quarantadue… (Ib.)
Il giorno 27 giugno l’armata partì per l’India e, circumnavigata la penisola arabica, arrivò a
Diu, colonia portoghese sulla costa occidentale dell’India, dove il locale castello era tenuto
da una guarnigione di 700 portoghesi ed era guardato da sei galere più alcune fuste; ma
colà i turchi trovarono appoggio in un altro rinnegato italiano che, come poi farà Uluch-Alì,
aveva fatto gran fortuna in Levante:
… A di detto venne uno chiamato il Cosa Zaffer (‘Kosa Jaffer’), il qual è da Otranto, ma
renegato e fatto turco ed era patron di una galea quando il Signor Turco (‘il sultano’) mandò
l’altra armata, la qual si ruppe (perché colta da una tempesta) e si perse e il sopradetto Cosa
Zaffer andò a star con il re del Diu, il quale si chiama re di Cambia e questo per nominarsi
così il paese, e al predetto Cosa Zaffer il re gli haveva donato alcune terre e fatto capitano di
tutto il suo regno e lui praticava con portoghesi ed haveasi fatto loro amico; ma quando lui
intese che l’armata del Signor Turco veniva, fece venire con bel modo gente assai del paese
e tolse la terra di man de’ portoghesi e gli assediò nel castello… il bassà (il predetto
Suleyman Pasha) gli fece honore… (Ib. P. 276v.)
Bella forma di traditore abituale questo pugliese! I turchi sbarcarono artiglierie e, preso una
specie di torrione (e detto castello si chiamava Gogole) difeso da 100 portoghesi, dei quali
gli 80 residui s’arresero e furono incatenati ai remi dai turchi, incominciarono poi a battere e
assediare il castello principale di Diu, ma i cinquecento portoghesi che lo difendevano si
difendevano come lioni arrabiati; Suleyman Pasha intanto si dimostrava tutt’altro che un
generale coraggioso:
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A dì XV (‘15 ottobre 1538’) il bassà smontò dalla maona e andò sopra la bastarda e fece
metter tutti li christiani in ferri e mandò a tuor una vela bianca di un’altra galea, perché la
sua era divisata; e questo fece perché si aspettava l’armata di portoghesi e non voleva che
si sapesse in qual lui fosse e, dubitando anchora dell’artegliaria (‘e temendo anche
l’artiglieria nemica’), fece far a poppa una gran curcuma (‘un riparo’) di gomene e d’ogni
sorte di cavi, assai bastante per sicurtà di una artegliaria quando l’armata fosse venuta,
perché era spauroso e senza animo. (Ib. P. 277v.)
Come se ciò non bastasse, il 2 novembre, saputosi che si stava avvicinando un’armata
portoghese, l’eroico Suleyman Pasha ordino che si rinunziasse all’assedio e ci si
reimbarcasse a rotta di collo, abbandonando le artiglierie grosse a terra e così l’intera
l’impresa d’India. Come tutti i vigliacchi, Suleyman era anche tutt’altro che generoso e
condannava a morte immediata per un nonnulla; il 19 settembre precedente aveva fatto
impiccare il capitano d’una delle sue galere bastarde, la quale era arrivata a Diu solo quel
giorno e molto danneggiata, perché, rimasta indietro durante l’avvicinamento alle coste
indiane, aveva poi sbagliato rotta (havea mal spielegato) e, raggiunto un altro porto, i nativi
le avevano colà ammazzato parecchi uomini; il 17 ottobre aveva fatto tagliar la testa a uno
dei prigionieri veneziani, semplicemente perché costui aveva detto: La mia Signoria
(‘Venezia’) non è morta. Tornata quindi l’armata ottomana sulle coste d’Arabia, dove i turchi
si vantarono d’aver fatto imprese grandi, quasi avessero tolto ai portoghesi tutti i loro
possedimenti indiani, Suleyman commise ancora un altro omicidio gratuito:
A dì VJ (6 dicembre 1538?), essendo il bassà in Aden con tutta l’armata, la mattina fece
chiamare a sé un turco ch’era stato christiano, ma rinegato, homo di gran conto ed era
patron d’una galea, e, senza dir altro, gli fece tagliar la testa. Si mormorava da tutti che’l
bassà, dubitando che costui non l’accusasse della dappochaggine e viltà sua, se lo volse
levar davanti, poiché questo rinegato fu altre volte al soldo del re d’Aden… (Ib. P- 278v.)
Arrivatisi poi al regno di Zibit, ossia della Mecca, Suleyman Pasha ne fece decapitare il re,
nonostante questi avesse regalato a tutti i turchi dell’armata venuti in sua presenza vesti di
seta e uno schiavetto negro per il loro piacere; allora si presentò al pasha l’intera guardia
reale del re:
… onde li vennero da 200 negri abissini, li quali erano soldati del re; questi sono huomini
valenti, terribili, che non stiman la vita e corrono poco manco di uno cavallo e vanno tutti
nudi, ma cuoprono con uno facciolo le lor vergogne, e portano un gran bastone di corniolo
ferrato e alcuni zanettine (‘ginettine, giavellotti’) da tranne a modo di dardi e alcuni una
spada corta un palmo manco di quelle che usano i christiani e universalmente tutti hanno
alla cintura un pugnale storto alla moresca. (Ib.P. 279r. e 279v.)
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Suleyman con una scusa li convinse a tornare disarmati e li fece uccidere tutti e poi, ancora
non sazio di sangue e bisognoso di nascondere al sultano il suo insuccesso, ne fece
un’altra delle sue:
A dì X (10 febbraio 1539) il bassà smontò in terra e fece cavar tutti li portoghesi di catena e
menarli ligati in terra e feceli acconciare in schiera e a tutti li fece tagliar la testa e furno
centoquarantasei, tra quali erano alcuni indiani fatti cristiani; e le teste de’ principali e delli
più belli furno scorticate e salate e impite di paglia; alli altri furno tagliati li nasi e le orecchie
per mandare al gran Signore (‘al sultano’). A dì XIIJ si partì il chacaia in conserva di un’altra
galea e andò al Zidem e di lì alla Mecca e poi andò alla volta di Costantinopoli con le nuove
del viaggio dell’India e con presenti e con le teste, nasi ed orecchie per mostrarle ai
Signore, acciò che si vedesse che haveano fatto faccende assai. (Ib. P. 276v.)
Tornata l’armata a Suez nel giugno successivo, per i cristiani prigionieri iniziò un duro
lavoro:
A dì IJ (‘2’) di luglio si cominciò a tirar la prima galea in terra e fu la bastarda del bassà e poi
le altre, ‘sì come giungevano, si diguarnivano e tiravano in terra e li christiani erano li
bastaggi
(‘facchini’) e quelli che voltavano gli argani, spianavano e diguarnivano; e in conclusione
tutte le fatiche erano sue, insino a dì XVJ, che in quel giorno venne l’emin (‘pagatore’?) e
dette le paghe a tutti li marinari e non solo alli turchi, ma etiam alli christiani; e la paga era
di maidici centottanta per ciascuno… il restante dell’armata giunse al Sues e tutta fu tirata
in terra per man delli christiani, quali stentorno girono e notte. A dì XXVI detto si dette fine
al tira le galee in terra e le gomene e sartiami, ferri, palance, artegliaria minuta e altri rispetti
furno portati in castello. (Ib. P. 280v.)
A dì XXVIIJ di novembre li christiani delle galee di Alessandria si partirno dal Sues e adorno
al Cairo e a dì primo dicembre furno posti in quella casa dove erano stati per avanti e li
davano mezo maidino il giorno per ciascuno, che sono duo soldi veneziani; di modo che si
passavano con grandi affanni e fatiche; però che ogni volta che accadeva far nette cisterne,
spianar monti, acconciar giardini e lavorar fabbriche e altro, tutto il carico era de’
christiani… (Ib. P. 495r.)
Secondo Francesco Vendramino (1595), la Spagna guardava con galere anche le coste dei
suoi possedimenti delle Indie Occidentali, ma in verità non abbiamo trovato conferme a
quest’affermazione. La navigazione da guerra remiera si usava intensamente anche nel
Baltico, dove anzi questo tipo di vascelli si estinguerà anche più tardi che nel Mediterraneo;
si trattava infatti d’un mare anch’esso sufficientemente riparato dai venti e dai flutti più forti
e in esso russi e svedesi si affrontarono con due grandi squadre di galere nella grande
battaglia di Hankoniemi del 1714 e in altri scontri della grande guerra nordica. Infine, non
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sappiamo dire fino a che epoca si useranno i lancioni, specie di galere cinesi più quartierate
di quelle mediterranee, le quali avevano otto ranghi di remo per lato e sei uomini a rango,
vascelli che nel diciassettesimo secolo erano usati in quei lontani mari specialmente dai
corsari, e inoltre i karakor o korkor o anche korkurre del Borneo, ma tutto ciò esulerebbe
dal nostro tema. C’è infine da ricordare, secondo quanto si legge nella relazione approntata
nel 1559 da Leonardo Mocenigo, residente veneziano presso Ferdinando I, un tipo di
bergantino fluviale, detto nassada, che si costruiva nell’arsenale di Vienna, e di cui questo
sovrano affermava allora poter far scendere nel Danubio un’armata di ben quattrocento
esemplari; si trattava di vascelli remieri da 28 uomini da remo ciascuno - tutti ungheresi,
schiavoni e italiani - più un padrone, un timoniero, un proviero e un bombardiero ed erano
appunto di forma simile a quella dei bergantini, ma un po’ più bassa; quest’armata, la quale
includeva anche qualche fusta e qualche bergantino vero e proprio, era tenuta a Komárom e
a Giavarino (‘Raab’), mentre i tanti piccoli pezzi d’artiglieria con cui s’armavano erano
conservati nel predetto arsenale (Cit.).
Fino alla metà del Seicento le armate mediterranee furono dunque costituite principalmente
da galere, i vascelli da guerra per eccellenza, mentre navi e vascelli tondi - o quadri che dir
si voglia - servivano solo da batterie galleggianti (sapendo che con le navi si può difendere
e non assalire, scriveva infatti il Sereno) e per il trasporto di soldati, cavalli, artiglieria,
munizioni, armi, vettovaglie e macchine da guerra; nella seconda metà di quel secolo,
entrando ormai correntemente dall’Atlantico nel Mediterraneo flotte armate, oltre che
spagnole, anche olandesi, inglesi e francesi a combattersi tra di loro, i grandi velieri
divennero presto il nerbo dell'azioni di guerra anche in questo mare e i compiti delle galere
e degli altri vascelli sottili furono gradatamente ristretti alla guardia costiera per il loro
basso pescaggio e alla scorta dei vascelli tondi, i quali, restando fermi in bonaccia, avevano
bisogno di poter essere difesi da altri vascelli sempre in movimento (quando non talvolta
anche rimorchiati per brevi tratti), cioè appunto dalle galere, le quali restavano poi anche
come sempre utilizzate per il rapido trasporto di soldatesche, personaggi e diplomatici,
mercanzie preziose e non molto ingombranti, come per esempio le sete che le galere
pontificie andavano a caricare alla fiera di Messina e scaricavano a Livorno, perché di là
venissero inoltrate a Lucca, importante centro di commercio e lavorazione di quel tipo di
tessuto; a Livorno poi le galere papaline si rifornivano di remi. Insomma le galere
continuarono a essere impiegate in qualsiasi impresa e servizio dove fosse necessaria
molta celerità e una navigazione non completamente dipendente dalla direzione e forza del
vento; oppure per avanguardia di un’armata, per andar a riconoscere, ossia a valutare, il
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nemico o delle coste o per occupare di sorpresa un porto o una fortezza costiera nemica e
ciò grazie alla loro leggerezza e agilità. Esse potevano infatti costeggiare e prendere porto
dove volevano al fine di procurarsi rifornimenti, di torre lingua o di prendere lingua del
nemico, come allora si diceva e come abbiamo già accennato, cioè di catturare qualcuno
del paese ostile e, anche usando la tortura, farlo parlare della consistenza e sui movimenti
dei vascelli avversari, infine d' assumere in paese amico informazioni generali sulla natura
delle coste e sulla loro disponibilità d'acqua, viveri e legname; tutti compiti questi che non
potevano essere ben svolti dai vascelli tondi, i quali, per il loro profondo pescaggio, erano
costretti il più delle volte a dar di fondo al largo della costa.
I vascelli piccoli da remo, come fregate, castaldelle, filuche, gondole, schifi, copani ecc.,
poiché potevano ancora più facilmente avvicinarsi ai lidi, servivano per sbarcare
velocemente un’avanguardia di soldati da squadronare immediatamente sulla spiaggia
nemica per coprire così e difendere lo sbarco del resto dell'esercito, per il quale - come del
resto anche per quello dell’artiglierie - si potevano anche costruire appositamente con
tavole sottili dei barconi larghi e piatti, come fece Juan de Austria nel 1573 per sbarcare le
sue fanterie sulla spiaggia della Goletta, dove però uno dei quali barconi, sorpreso lo
sbarco da un’improvvisa burrasca, affondò facendo purtroppo affogare i più di 70 fanti
tedeschi che trasportava. Barche, leuti, tartane, saettie e gli altri vascelli a vela latina erano
molto utili per portare vettovaglie, munizioni, legname, ferramenta, calce e altri materiali da
costruzione eventualmente necessari a un esercito che volesse fortificarsi su qualche
posizione o a un’armata marittima lontana dalle sue basi.
Un combattimento tra galere assomigliava abbastanza a una battaglia di terra, perché le
galere, benché anguste, erano capaci di portare molti combattenti, i quali si disponevano in
ogni parte delle opere morte, vale a dire alle rembate, contro-rembate, balestriere, corsia,
posticci, barcarizzo, gallerie, tamburetto, palmetta, ecc. Inoltre, per la loro bassezza, le
galere offrivano ben poco bersaglio all'artiglierie nemiche e infine permettevano agli uomini
di saltare facilmente dall'una all'altra con conseguente facilità d’arrembaggio e di soccorso.
Insomma, tra galere si poteva combattere quasi da fronte a fronte come in campo aperto.
Un combattimento tra navi e galeoni e tra questi e le galere ricordava invece la batteria e
l'assalto delle fortezze di terra, perché si trattava di vascelli d'alto bordo; ma molto
dipendeva anche dalla stazza di detti vascelli e ciò quindi non valeva quando le galere
erano quelle grosse da mercanzia e i galeoni erano piccoli da corso, come per esempio
nello scontro che avvenne nella prima metà dell’agosto 1497 nei mari di Calabria e che
leggiamo nei Diarii del Sanuto. Avvenne che un marano veneziano, cioè una nave a doppio
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timone laterale nello stile antico, appartenente al patrizio Andrea Loredano e carico di rame
e altre mercanzie, fu assalito e catturato da 3 fuste e due galeoni corsari francesi, ma,
sopraggiunte due delle quattro galee grosse veneziane da mercanzia allora assegnate alla
rotta di Alessandria [quelle per Baruti (‘Beirut’) erano quell’anno tre] e capitanate da
Bernardo Zigogna (oggi ‘Cicogna’), i vascelletti corsari furono costretti a rilasciare la loro
preda e a fuggire (T. I, col. 722).
La funzione delle galeazze ponentine e dell’equivalenti galee grosse veneziane era quella di
baluardi delle armate di mare, perché, essendo molto lente e pesanti e stracariche
d'artiglierie e di soldati, si ponevano appunto davanti all'armata in luoghi dove il loro
volume di fuoco facesse da sbarramento protettivo e offensivo allo stesso tempo; questa
tattica, usata in grande stile a Lepanto, fu probabilmente la scelta che più contribuì alla
vittoria dell'armata cristiana. In mancanza di galeazze si usavano alla stessa maniera navi
grosse armate e galeoni, pratica che poi s’intensificherà nel Seicento, approfittandosi del
grande sviluppo delle qualità veliche e nautiche raggiunto dai velieri in quel secolo, e ne fu
un esempio la battaglia che avvenne nel novembre del 1665 al largo di Creta tra tre soli
velieri corsari di Malta e ben 24 galere turche di Mehemet Ogli Pasha e 10 altre di Durach
Bey provenienti da Smirne; all’inizio il fuoco dei maltesi fu inefficace perché troppo alto
sulle basse galere e dopo ben nove ore di combattimento lo scontro finì senza vincitori né
vinti, ma con molti danni e molte vittime d’ambo le parti.
Galeotte, fuste e ancor di più i bergantini, a causa delle loro ridotte dimensioni, del minor
numero di combattenti e della poca artiglieria che, specie le seconde e i terzi, potevano di
conseguenza portare, non erano vascelli atti, come le galere, a investire il nemico, cioè a
urtarlo per poi arrembarlo, nel fronte della battaglia né a sostenerne a loro volta l'impeto;
questi vascelli minori erano dunque impiegati nella guerra di corso, negli scontri
occasionali, nell'andare avanti agilmente e velocemente a scoprire e riconoscere il nemico,
tanto più che, potendosi nascondere nelle piccole insenature costiere, evitavano facilmente
di farsi scoprire dall'avversario; solo i turchi usavano le galeotte come vascelli di linea
indifferentemente dalle galere, perché, come sempre i popoli poco provvisti di tecnologia, in
guerra confidavano soprattutto nel superiore numero di combattenti, anche se magari
armati d’arco invece che d’armi da fuoco. Le fuste erano state molto usate anche da
Venezia fino a Rinascimento incluso:
(1499): … È stato deliberato di armare 8 fuste de 20 banchi l'una per guardia del golfo
contro le fuste del Turco uscite dalla Valona e da Scutari; ed è stato deliberato di fare un
capitanio del golfo ed è rimasto (votato) per scrutinio Agustino Malipiero fu Alvise, il quale
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fu capitanio a Baruto (‘Beirut’), e gli si dà 1 galea e 4 di queste fuste (D. Malipiero, cit. Parte
prima, p. 169).
Le filuche e gli altri vascelli più piccoli, viaggiando di conserva con galere, procedevano a
rimorchio di queste ed erano svincolate quando servissero a mandare ambasciate, missive
e ordini o a portare qualche persona da un vascello all'altro dell'armata [e alcune volte nelle
avversità hanno messi in sicuro e salvati i lor capitani (P. Pantera. Cit.)]. In caso di
programmati sbarchi di soldatesche, navi e galere però anche rimorchiavano o
trasportavano zatte(re), dette allora rade o anche fodri, barche, barcacce e battelli fluviali e
lagunari dal fondo piatto, come per esempio i plati (poi detti peate, peatone) e i burchi
veneziani, adatti quindi ad accostarsi a terra portando il maggior numero di soldati
possibile e magari anche con un piccolo pezzo d'artiglieria a prua. Un esempio di simili
sbarchi, il quale per il luogo scelto anticipa quello di Normandia del 1944, è ricordato dal
Pantera:
... Con barche simili l'anno 1558 un’armata di settanta navi fiaminghe e inglesi mise gente in
terra in un luoco chiamato 'La Conquista' nella costa di Bretagna, dove, essendovi corsi gli
habitatori per prohibir lo sbarco, i fiaminghi, gettati in mare quindici gran battelli di fondo
piatto condotti per quest'effetto - ciascuno de' quali portava gran quantità di persone -
sbarcorono in poco tempo circa sei o sette millia persone, scacciorono i terrazzani e
abbrusciorono il luoco. (P. Pantera. Cit. P. 53.)
I detti sandoni servivano anche per formarne ponti fluviali, mentre i fodri s’usavano
soprtattutto nelle darsene per rifornire di materiali e provviste i vascelli che vi si
ritrovassero alla fonda. I C’è da spiegare il termine terrazzani, il quale significava ‘abitanti’
di un luogo, specie di un luogo protetto da terrazzi, ossia da cinte terrapienate. I vascelli
sottili o da remo che dir si voglia, dai più grandi ai più piccoli, erano inoltre tutti utili per la
guardia costiera:
... Con una grossa squadra di galee guarda la Republica di Venezia continuamente le riviere
dell'Istria, della Dalmazia e di tutto il Mar Adriatico e con altre squadre assicura le isole del
suo dominio. Altrotanto fa il Re di Spagna intorno all'isole di Sicilia, di Sardegna e di
Maiorica e alle riviere del Regno di Napoli e di Spagna; e il Gran Turco mantiene una
perpetua guardia di galee per l'isole di Rodi, di Metelino, di Cipro, dell'Arcipelago e delle
riviere che possiede nel Mar Mediterraneo. (Ib. P. 55.)
galeoni, navi, bertoni, polacche, petacchi, marsiliane e tartane, vascelli questi ultimi che
talvolta, specie quelli barbareschi, se non troppo alti di bordo, erano provvisti anche di remi
all’uso di corso, cioè da usare, smontate e tolte le pavesate, per muoversi alla meglio in
caso di mancanza di vento; il corso era un’attività bellica infatti in cui servivano velocità,
agilità e manovrabilità massima. Nel 1641, al tempo cioè della supplenza nel governo di
Sicilia esercitata dal magistrato Pietro Corsetto e da Raimundo de Cardona y Córdova,
castellano di Castell’a Mare di Palermo e commendator gerosolimitano di Visus Baleris
(‘Íviza Balearis’?) e d’Almos, le galere siciliane, il cui comando sarà in quel periodo
anch’esso affidato a governatori supplenti, dovranno uscire in campagna contro una
squadriglia di tartane da corso francesi che dannificavano i mari siciliani e ne prenderanno
una facendo 34 prigionieri; ma poi gli stessi corsari turco-barbareschi s’adatteranno anche
all’uso di vascelli non remieri e spesso, a tutta la prima metà del Seicento, useranno anche i
bertoni e i galeoni, essendo infatti un galeone da 26 pezzi quello con cui nel 1624 il corsaro
di Smirne Diam Mamet desolerà le coste della Sardegna, anche se, come abbiamo già detto,
la versione turca di tal tipo di vascello era detta in effetti sultana e non galeone; un galeone
a tre ponti di 2.500 salme, 28 pezzi di ferro e 2 di bronzo, 3 petrieri e guarnito di moltissimi
arcieri sarà quello del corsaro tripolino Amet raís che, come abbiamo già accennato, nel
1634 e nel canale dell’isola di Negroponto sarà molto sanguinosamente affrontato e
catturato dalla squadra delle galere toscane comandata da Ludovico da Verrazzano; un
galeone di 36 pezzi e anche di 2.000-2.500 salme quello che invece nel 1640 un nuovo Kara
Hogia, questo un corsaro bisertino comandante di una squadra di potenti velieri, userà
come sua Capitana; nel 1687 una squadra francese comandata dal de Tourville sbaraglierà
presso Ceuta quella algerina guidata da un vascello ammiraglio da 40 cannoni; nel 1698 la
Capitana di Tunisi sarà una sultana da 66 pezzi e un grande vascello da 56 cannoni, 40
petrieri e 600 uomini sarà invece la Capitana della squadra che il pasha di Tripoli, Alì
Antulla, metterà in mare nel 1708 per andare a scorrere le coste della Calabria e sarà poi
armato di 40 cannoni e 200 uomini il vascello algerino La Mezzaluna nel 1713; insomma già
dagli anni Venti del Seicento anche grandi sultane (‘galeoni turchi’) da più di 50 pezzi,
fregate da 22, caramussali, sciabecchi, polacche e altri velieri corsari d’Algeri, di Tunisi e di
Tripoli scorreranno regolarmente il Mediterraneo, talvolta anche in flotte di decine di
vascelli, sostituendo o affiancando i tradizionali vascelli remieri; e, anche se perlopiù questi
vascelli barbareschi erano armati di pezzi in gran maggioranza di ferro e non di bronzo, il
loro potenziale di fuoco era reso temibile dall’essere i loro artiglieri molto spesso non
magrebini né turchi, bensì inglesi e fiamminghi arruolati con grosse paghe.
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Questa guerra di corso era esercitata con singoli vascelli comandati da capitani corsari che
avevano pertanto ricevuto dal loro sovrano un’apposita autorizzazione, detta patente di
corso, e che potevano condurre le loro azioni belliche come meglio credevano, senza che
fossero soggetti a ordini superiori. La guerra di corso per lo più consisteva nella
devastazione, nel saccheggio delle coste nemiche, nella cattura d’infedeli rivieraschi da
destinare alla schiavitù o da mettere a riscatto, ma soprattutto consisteva nella cattura di
naviglio nemico, mercantile o da guerra che fosse, e spesso anche di naviglio amico
quando i corsari fossero solo un po' più spregiudicati, quel tanto cioè da valicare quel
tenue confine che separava la guerra di corso dalla vera e propria pirateria, cioè da quella
che più tardi si dirà schiumare il mare (fr. écumer le mer; pirater, faire toutes voiles
blanches ; ol. opschuimen, zee-rooven, zee-shuimen, zee-stroopen, speelen alle zeilen
blank), ossia raccoglierne il ‘ricco grasso’, come si faceva del brodo di carne, di qualunque
origine e nazionalità fosse, e da cui infatti l’it. grassatori. Facevano eccezione le galee
veneziane destinate da quella repubblice alla guerra di corso, perché lo scopo era
sorvegliare e di fendere in mare i traffici mercantili veneziani, soprattutto quelli che
avvenivano a mezzo delle lucrose galee da mercato; i capitanei – perché, se armate per il
corso, i comandanti delle galee veneziane non avevano il titolo di sopraccomito bensì
direttamente quello militare di capitaneo – dovevano stare in mare raccogliento sempre
informazioni della posizione delle loro galee grosse da mercato in modo da poter portarsi
nella loro zona specie in tempi di minacce nautiche portate dai corsari nemici.
Incessante e intensissima era la guerra di corso praticata dai barbareschi - in effetti l’unica
loro industria e perlopiù generalmente guidata da rinnegati europei - e ne fu testimone il de
Haedo, il quale appunto nel 1578, trovandosi schiavo ad Algeri, così scriveva, in forma di
dialogo, della continua e pressocché indisturbata attività dei corsari algerini:
… Li si potrebbe dire dei cacciatori che inseguono le lepri per passatempo: qui essi
prendono un legno carico d’oro e d’argento proveniente dalle Indie, là un altro giungente
dalla Fiandra, poi ancora un altro in arrivo dall’Inghilterra, a quelli subito seguendone (altri)
dal Portogallo o da Venezia o dalla Sicilia o da Napoli o da Livorno o da Genova, tutti latori
di ricchi e copiosi carichi.
Talvolta prendono per guide dei rinnegati, dei quali ce n’è tanti ad Algeri, provenienti da
tutte le nazioni cristiane, a tal punto che uno potrebbe dire che quasi tutti questi corsari
sono dei rinnegati, tutti ben conoscendo le terre e le marine cristiane; poi partono a lor
piacimento, a metà del giorno o secondo il loro capriccio, fanno uno sbarco, s’avanzano
nell’interno fino a dieci, dodici, quindici leghe e anche più, piombano sui poveri cristiani
sorpresi, depredano le popolazioni, fanno numerosi prigionieri, rapiscono una quantità
d’infanti ancora alla mammella e portano con sé un bottino ricco e vario. Così riforniti, si
ritirano tranquilli e allegri per caricarne i loro vascelli. C’è persino un numero di questi
rinnegati che si trascinano legati dietro i loro padri, i loro fratelli od i loro congiunti, i quali
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essi vendono o fanno turchi o mori, tutto ciò senza che alcuno faccia loro resistenza o dica
loro una parola. È così, voi lo sapete, che sono state rovinate e devastate la Sardegna, la
Corsica, la Sicilia, la Calabria, le marine di Napoli, di Roma e di Genova, Maiorca, Minorca,
Ibiza, tutte le marine di Spagna; queste ultime specialmente a causa dei mori che le abitano
e che, più mori di quegli stessi della Barbaria, li accolgono, li accarezzano e l’informano di
tutto ciò che essi vogliono o devono sapere.
È così che, venti o trenta giorni - a volte un po’ di più - dopo che sono partiti da casa loro
con le mani vuote e il ventre vacuo, tornano sazi e ricchi su dei vascelli riempiti fino al
fondo di cala d’oggetti di gran valore, avendo acquisito in un’ora e senza fatica il godimento
di tutto ciò che il lavoratore indiano e peruviano riporta dalle viscere della terra e dalle
miniere di metalli preziosi con tanta pena e preoccupazione e anche di ciò che cupidi
mercanti, con grande e manifesto pericolo della loro vita, sono stati a cercare a tante
migliaia di leghe, sia alle Indie sia a ponente o a levante, al prezzo di sudori e fatiche senza
numero. (D. de Haedo. Cit.)
… Ma, dirà qualcuno, come ho sentito dire una volta da un còmito di galera spagnolo ad un
gentiluomo che aveva compassione d’un povero schiavo ch’egli picchiava di santa ragione,
come (se fosse stato) un cavallo sdraiato per terra, senza che quello osasse muoversi; e,
rappresentandogli quella crudeltà, l’altro gli rispose così: ‘Se voi foste stato schiavo dei
turchi come me, voi (non) ne avreste pietà, perché essi trattano noi cento volte più
crudelmente che noi loro’; il che è vero e il peggio è che, quando essi tengono noi, noi altri
francesi, ci fanno lo stesso che agli altri cristiani, non avendo alcun riguardo né
954
considerazione alle belle franchigie che ricevono in Francia, come ho visto io, e anche
ultimamente vedemmo arrivare alla Corte del nostro ultimo Re all’incirca sessanta turchi e
mori, i quali erano scappati dalle galere di Genova e s’erano salvati in Francia; il Re li vide e
fece loro donare del danaro per il loro trasferimento e imbarco a Marsiglia. Quelli stessi
dissero che, ben sapendo del privilegio di libertà e della franchigia della Francia, avevano
fatto ciò che avevano potuto per prendervi terra e provavano una gioia estrema d’esservi e
adoravano noi, noi altri francesi, fino a chiamarci fratelli: E Dio lo sa, se essi avessero
tenuto noi in loro potere, ci avrebbero trattato come gli altri… (P. de Bourdeilles. Cit.)
Il perché la vita da schiavo di galera fosse dunque tanto peggiore sulle galere turco-
barbaresche che su quelle cristiane era da ricercarsi nella irrazionalità di fondo della cultura
islamica e nella barbarica crudeltà delle civiltà semitiche; ma soprattutto era peggiore,
come abbiamo già detto, quella che si conduceva sui vascelli da remo barbareschi e la
ragione ce la spiega il già più volte citato de Haedo, schiavo ad Algeri:
… Ci si rende in effetti subito conto che i cristiani impiegati al remo nei vascelli dei turchi e
dei mori si vengono a trovare in una situazione diversa da quella di coloro che sono sulle
galere cristiane, poiché l’unica e continua occupazione di questi barbari è d’esercitare il
brigantaggio su tutte le coste degli stati e reami cristiani… mentre le galere cristiane danno
gran scandalo nei porti, perché quelli che le montano vi stanno a preparare i loro pasti a
loro gusto, a digerirli a loro agio, vi passano i giorni e le notti a banchettare, a giocare ai
dadi e alle carte, questi corsari battono a lor piacimento tutti i mari di levante e di ponente,
senza aver nulla da temere e come se ne fossero i padroni incontestati […] Essi si dedicano
senza tregua al corso, in inverno come d’estate, senza tener conto di cattivo tempo o di
tempesta, poiché non ci mettono più d’un giorno o due per raggiungere quelle isole, dove
sono sicuri e così tranquilli come a casa loro e nei porti di Barbaria od ad Algeri; non
appena sopraggiunge una bonaccia e la tempesta non li travaglia più si mettono subito ad
incrociare liberamente da una parte e dall’altra per cercare e attendere le barche e le navi
cristiane, che essi prendono alla sprovvista o che affondano con l’aiuto delle loro artiglierie,
senza mai riposarsi né di giorno né di notte, sia che il vento sia favorevole sia che sia
contrario, sempre navigando a remi e senza mai alzare le vele per evitare d’essere visti da
lontano, ‘tagliando’, com’essi dicono, ‘il vento nelle braccia dei cristiani’ e inoltre,
navigando ordinariamente, come pure esige l’arte del corso, a tutta forza, col ‘vento in piedi’
e contro le correnti marine. Ci si può ben immaginare dunque… le fatiche, le angosce, le
sudate dei miserabili prigionieri, i quali, sempre e incessantemente, senza alcun riposo,
nemmeno il più breve, devono tirare il remo e sopportare il peso d’un travaglio senza tregua
… i porti (nord-africani) sono colmi di galere, di galeotte, di brigantini pieni di prigionieri
incatenati che, d’inverno come d’estate, di notte come di giorno, senza tregua né riposo,
devono remare, mezzi morti di fame e di sete, con le spalle fesse per i colpi di sferza e dove
il sangue tinge i banchi e arrossa le corsie…
(D. de Haedo. Cit.)
Anche l’alimentazione che il povero schiavo cristiano riceveva dai corsari mori era pessima
e insufficiente:
titolo di regalo gli si aggiunge un po’ d’acqua acidulata, la quale da a quel biscotto senza
sapore un’apparenza di sapore, ed ecco tutto il nutrimento dello sventurato e disperato
remiero. Come bevanda, è dato a ciascuno di prendere l’acqua che può allorché il vascello
ne fa da qualche parte, in tutta fretta e premura per evitare d’essere segnalati; se ciò non si
fa, un cristiano può crepare di sete senza trovare alcuno che gli dia o gli faccia dare un
sorso d’acqua. Come se ciò non bastasse, succede molte volte che questi ladroni, nella loro
insaziabile bramosia di rapine sempre ripetute, trascurano di fare dell’acqua e
compatiscono tanto poco la sorte dei miserabili cristiani che di quelli alcuni svengono, altri
muoiono di sete, altri ancora si riducono a bere la stessa acqua del mare, così come
successe (giugno 1579) sul vascello di Mami Corso: trentadue remieri cristiani, prigionieri
da poco, vi morirono di sete e alcuni schiavi del mio padrone (che erano stati) imbarcati su
quel legno mi giurarono che per più di otto giorni essi non avevano bevuto altra acqua che
quella del mare... (Ib.)
… Quanto ai trattamenti, essi ricevono delle terribili botte, ripetuti ogni giorno, a mezzo di
bastoni duri e nodosi d’olivo o di grossi scudisci di nervo di bue e di forti corde di canapa, i
quali sono maneggiati a due mani e scagliati a ripetizione, non solamente da uno solo, ma
dal ‘reis’ come anche da tutti i turchi o rinnegati che sono nella galera o galeotta; tutti si
fanno boia e carnefici, tutti balzano in corsia, alcuni a dritta, gli altri a manca, scaricando
colpi spaventosi sui nudi cristiani, ciascuno sforzandosi di mostrarsi più crudele del suo
vicino, sferzando loro le spalle, ferendoli alla testa, rompendo loro i denti, strappando loro
gli occhi, in breve, non lasciando alcuna parte del corpo che non sia martirizzata, nera,
contusa, coperta d’atroci lividure; i banchi grondano del sangue cristiano che fanno
sgorgare i bastoni e gli scudisci che s’abbattono da tutte le parti, ogni sentimento di pietà è
messo da parte e le sventurate vittime si ritrovano storpiate di braccia o di gambe. E tale
furia è ordinariamente così diffusa tra tutti quelli che persino quei (remieri che sono) vili
mozzi mori e rinnegati si levano dai loro banchi per distribuire anche dei colpi di pugno, di
piede e di frusta, degli schiaffi a quei disgraziati cristiani vicini a rendere l’anima e che
remano con tutta la loro forza. Tanto non basta ancora, se ne vedono anche molti che si
precipitano su quei miserabili e che, animati da una furia selvaggia, strappano loro le
orecchie a colpi di denti e troncano loro le narici, il che è uno spettacolo quotidiano […] non
s’intende altro che il rumore dei colpi proveniente dall’una o dall’altra specie di tormento,
che le parole infernali urlate dai persecutori: cani, bestie, cornuti, canaglie, nemici di Dio,
sia maledetto il tuo Cristo, maledette siano la tua legge e la tua fede, maledetto sia il Dio che
tu adori e nel quale tu credi […] in breve, uno spettacolo più terrificante e più orribile di
qualsiasi altro. (Ib.)
Ogni minimo pretesto era buono per mettersi a picchiare selvaggiamente i remieri cristiani;
ogni comando di lavoro era accompagnato da violente busse e anche le occasioni
d’allegrezza erano spesso fonte di tali violenze:
(Antonio:) […] Quando essi fanno una ‘cofra’ o banchetto od ancora quando sono pieni di
gioia a causa d’una presa che hanno fatto, s’ubriacano di vino e d’’arrequin’ (‘acquavite’) e
poi all’improvviso fanno abbassare gli abiti a tutta la ciurma e la maggior parte di loro
s’arma di bastoni, di scudisci, di stroppi, mettendosi a colpire a destra e a manca, non
fermandosi se non quando hanno massacrato di colpi tutti quei disgraziati e si sono
macchiate le mani e le vesti del sangue cristiano che sgorga dalle loro spalle come da
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altrettante fontane; restano allora soddisfatti e trionfanti, mentre gli scoppi di risa dei loro
compagni salutano i gridi, i gemiti e l’esclamazioni di dolore dei cristiani.
(Sosa:) […] Perciò non mi stupisce per nulla che i poveri cristiani impiegati nella
navigazione, trovando tanti e tanto crudeli boia avidi del loro sangue e bramosi di
maltrattarli senza pietà, muoiono in così gran numero sotto i colpi, per la fame e per i
supplizi e che tutti quei vascelli, ogni volta che sono in mare, forniscono ai pesci un così
copioso nutrimento per i cadaveri che loro si gettano.
(Antonio:) Non può essere altrimenti e non si può esprimere quale pietà si provi nel vedere
tra quei cristiani spossati di fatica e di tortura, gli uni cadere morti sui loro remi, altri sui
loro banchi, altri ancora tra i banchi. Se ne vedono che, ridotti alla disperazione,
s’appiccano attaccando al banco una corda che si passano al collo prima di gettarsi in
mare; ciò è quello che fecero recentemente (settembre 1578) un napoletano nel tornare da
ponente sulla galera di Mami Reis e uno spagnolo imbarcato sulla galera del rinnegato
genovese Giafar Reis ritornando ultimamente dal corso di Levante in compagnia d’altri
legni. E quelli che restano in vita, in quale stato li si ritrova? Basta che gettiate un colpo
d’occhio su quegli schiavi del vostro padrone che sono rientrati recentemente (all’inizio di
novembre 1578) e che voi avrete (certamente) visto da questo cortile; guardate quei corpi e
quei visi, così scarni, tanto deformi da essere irriconoscibili, così ridotti dappertutto da non
restar loro che le ossa e la pelle, ad un punto tale che, nonostante siano vivi, se ne può fare
lo studio anatomico e scoprire tutte le loro ossa, nervi, vene, arterie e cartilagini. (Ib.)
Sosa conferma che quando questi schiavi, dopo l’arrivo, sono andati a salutarlo, egli non ha
potuto riconoscere diversi di loro, tanto i loro visi erano ora deformati, e allora si era fatto
fare il racconto delle loro sofferenze; ecco i due episodi più impressionanti. Partiti d’Algeri
per andare in corso verso la Sicilia e la Calabria la galera si fermo dopo qualche giorno a
Biserta per il carenamento; colà il raís visitò minuziosamente tutto il corredo, remi inclusi,
per non aver poi cattive sorprese durante la navigazione; arrivati poi a Kélibia, di fronte a
Trapani, dove si voleva dar fondo, mentre i cristiani remavano vigorosamente un remo si
spezzò a metà in corrispondenza d’un nodo del legno. A tal vista i turco-barbareschi e i
rinnegati si misero a gridare ‘Tradimento, tradimento!’ e tutti loro si misero a sostenere che
a Biserta i remieri cristiani s’erano messi d’accordo con il remolaro perché, dando a ogni
remo nascostamente un colpo di scalpello, facesse ‘sì che, quando si fosse stati oggetto di
caccia da parte di qualche galera cristiana, facendosi necessariamente forza sui remi questi
si fossero spezzati, così lasciandoli in balia del nemico. Pertanto, senza nemmeno perder
tempo a verificare se questa loro tesi fosse vera, afferrarono il povero remolaro, un bravo
spagnolo originario di Puerto Santa Maria e schiavo del rais, e, per strappargli la
confessione di tale immaginario complotto, lo fecero distendere bocconi sulla corsia con
mani e piedi fermati e gli dettero trecento colpi sul dorso e sulle gambe e poi, facendolo
girare supino, altrettanti sul petto e sul ventre, tanto da farlo diventare completamente nero
di lividi e da lasciarlo tutto contuso e come morto, nonostante il povero disgraziato urlasse
con il dolore la sua innocenza; s’apprestavano i carnefici a far subire lo stesso trattamento
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… per maltrattare i malcapitati impiegati come ciurma, per farli cadere sotto il bastone e lo
scudiscio, è sufficiente che uno di loro parli a bassa voce ad un suo camerata, rida con lui,
lo guardi fissamente e ciò anche di più la notte, nell’angusto spazio che separa i banchi
d’un piccolo vascello, quando non si possono allungare né i piedi né le mani; che, se c’è
uno che appena muove un braccio od una gamba, che tocca un barilotto od una gamella od
una scarpa, subito i sorveglianti gli sono addosso e, come se l’imputassero di qualche
misfatto, lo colpiscono a tutta forza a colpi di bastone e di scudiscio abbattendolo
immediatamente. (Ib.)
In tal maniera Arab Amat, il già menzionato governatore d’Algeri, nel giugno del 1562 uccise
di sua mano uno schiavo spagnolo e uno ibizano, ambedue giovani di circa 25 anni, i quali,
fuggendo da Algeri verso Orano, erano stati ripresi verso Cherchell e riportati indietro dai
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soliti cavalieri mori che controllavano i vasti territori della Barbaria; così racconta la sua
crudeltà il de Haedo:
… comandò che si facessero sdraiare i prigionieri a terra, li abbatté di sua mano e, non
avendo alcuna vergogna di trasformarsi in un vile carnefice egli stesso, li percosse subito
con una mezza picca della quale andava sempre armato; essendosi spezzata tale arma,
continuò a percuotere sul ventre con un grosso bastone talmente lo spagnolo che finì per
ucciderlo. Morto quello, applicò lo stesso trattamento all’ibizano e gli lese talmente il ventre,
il fegato e gli intestini che lo si credé morto e lo si sollevò per interrarlo come l’altro; questo
visse ancora due giorni, alla fine dei quali spirò… (Ib.)
In una simile maniera, cioè con una tale bastonatura da frantumare tutte le loro ossa,
all’inizio del 1574, ossia durante il suo secondo governatorato ad Algeri, Arab Amat fece
uccidere 10 schiavi di una quarantina che erano fuggiti impossessandosi d’un brigantino
nel porto d’Algeri ed erano stati poi ripresi, perché, avendo incontrato un forte maestrale
contrario, erano stati costretti ad andare a rompersi in terra nei pressi di Porto delle Galline,
oggi Mers-el-Hagege, località costiera posta a circa 40 miglia d’allora a est d’Algeri; quelli
che erano considerati i due capi della rivolta e cioè un calzolaio italiano e un altro schiavo
furono invece uccisi lasciandoli morire appesi alle mura della città dalla parte della marina
(Ib.). Infine Henry de Lisdam racconta che, durante la sua schiavitù in Barbaria, Mustafa
Pasha, un oscuro siciliano rinnegato nativo di Trapani allora governatore di Tunisi, avendo
egli rifiutato di farsi mussulmano, gli aveva fatto somministrare ben 400 bastonate,
lasciandolo più morto che vivo (H. du Lisdam. Cit.).
Come se tanto non bastasse, praticatissimo dai corsari turco-barbareschi era, molto più che
a Venezia, anche il taglio punitivo del naso e delle orecchie:
(Sosa:) […] Ciò che questi barbari stimano di più è il possedere schiavi cristiani mutilati e
segnati da loro stessi. Se scendono a terra è per ubriacarsi ed, una volta ubriachi, per
gettarsi sui (loro schiavi) cristiani e tagliar loro il naso e le orecchie; vadano essi per mare
od in corso, non ne torna un legno in cui non ci siano uno o due schiavi (in più) così
mutilati.
(Antonio:) Perché non parlate dei barbari (ulteriori) trattamenti che essi infliggono in
seguito a quelli che hanno ridotto in tale stato? Perché, non contenti di imbruttirli in tal
maniera, gli fanno anche, sotto minaccia di morte, mangiare quelle orecchie appena tagliate
e tutte gocciolanti di sangue; poi li forzano ad inghiottire una tazza di vino, tutti divertiti e
compiaciuti del loro atto […]
Praticano ancora un’altra crudeltà, soprattutto quando le galere cristiane danno loro la
caccia o quando loro, a loro volta, la danno ai (vascelli) cristiani. Se gli schiavi sono
stremati e privi di forze durante una caccia – e i corsari vi si dedicano con il più grande
ardore, talvolta per la durata d’un giorno intero, senza mangiare né bere, né rallentare la
corsa del loro vascello – se i remieri cadono spossati sui loro banchi, si gettano subito su
di loro armati di cangiarri e di coltellacci, troncano a questi le braccia, quelli tagliano in due
e ad altri troncano d’un sol colpo la testa… (Ib.)
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In effetti, un atto di magnanimità come quello che Giovanni d’Austria volle compiere nel
primo semestre del 1579, cioè concedere la libertà a 12 turchi che remavano sulla sua
galera, episodio sarebbe stato impensabile a bordo d’un vascello maomettano; e a pensare
che appena il 31 agosto seguente due dei predetti turchi così beneficati, trovandosi ad
Algeri, vollero avere il crudele piacere di essere loro a finire ad archibugiate il suppliziato
genovese Giovanni, come racconta il de Haedo (cit.).
La ferrea e feroce disciplina che vigeva a bordo delle galere ottomane faceva sì che sia la
fatica umana sia le ottime doti veliche sopperissero alle scarse qualità remiere; per esempio
nel 1470 il sovraccòmito veneziano Geronimo Longo così osservava:
... Vogano benissimo, ma (solo) con voga spessa (‘arrancata’), (perché) non sono ‘sì bone
da remi come sono le nostre, ma le vele e tutte l’altre cose son più bone che le nostre;
penso che habbino più homeni sopra che non havemo noi, perché facevano vela della
mezana (‘ perché usavano anche un albero di mezzana’) e tutta la galia vogava (‘navigava’)
senza impazo de remo alguno (D. Malipiero, cit., p. 52).
Poiché questa nostra trattazione non si estende alla guerra di corso barbaresca che si
svolse nell’Oceano Atlantico, che pure fu secolare e molto importante per la storia della
navigazione, qui non nomineremo i tanti raís e generali di mare marocchini, moriscos e più
tardi anche inglesi e olandesi rinnegati che in quel vasto mare operavano partendo dalle
loro basi di Tetuan, Larache, Safi, la Mamora e Salé, specie a danno del Portogallo, ma ci
limiteremo a ricordare quelli più noti dei tantissimi turco-barbareschi o, anche qui, rinnegati
europei che, soprattutto nei secoli XVI e XVII, esercitarono la guerra di corso contro i
cristiani nel Mediterraneo e li elencheremo qui di seguito senz'ordine cronologico. Tra i più
conosciuti erano ovviamente quelli che divennero beglerbegi o comunque governatori
d’Algeri o addirittura kapudan pasha, ossia capitani generali marittimi dell’impero
ottomano, come per esempio Baba Arouj, nato a Mitilene nel 1474 e detto dai cristiani
Barbarossa, soprannome che sarà poi dato anche al più famoso fratello Kheir Eddine, come
anche Braccio d’acciaio per la protesi d’argento che portava in sostituzione del braccio
perso in guerra, secondo alcuni, nel 1512 mentre cioè tentava appunto con Kheir Eddine di
togliere Bougie agli spagnoli, secondo altri nel 1514, quando, con la sua galera, quella del
fratello e quella d’un terzo corsaro, prese un vascello detto il galeone di Napoli; i due
fratelli, i quali avevano fatto una gran fortuna col trasporto a pagamento in Barbaria di
moreschi e giudei scacciati dalla Spagna a partire dal 1492, presa ai genovesi Djidjelli, dove
posero la loro nuova base, tentarono ancora inutilmente Bougie, poi nel 1515 Baba Arouj,
partito dalla stessa Djidjelli, prese Cherchell, città costiera di più di mille case, posta a 20
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leghe o a 60 miglia d’allora a ponente d’Algeri e abitata, oltre che da numerosi schiavi
cristiani, in gran parte appunto da moriscos (‘tagarin’ o ‘modejar’, ad Algeri) e marranos,
ossia da quei mori e giudei di Granada, Valencia, Aragona e poi, nel secolo seguente, anche
dell’Andalusia, che in centinaia di migliaia o erano deportati dagli spagnoli in Marocco o
emigravano nei potentati della Barbaria in generale per sfuggire alle persecuzioni cattoliche
e che erano, a dire del de Haedo, i peggiori e più crudeli nemici dei cristiani, specie degli
spagnoli che soprattutto odiavano per i noti motivi, e pertanto queste emigrazioni
provocarono un intensificarsi della pirateria barbaresca e delle offensive marittime turche,
specie contro le coste spagnole, marine che questi fuorusciti ben conoscevano e dove
avevano lasciato tanti loro parenti; memorabile fu per esempio l’assedio e poi il sacco di
Barcellona avvenuto il 25 giugno 1526 a opera di 36 galere turco-algerine comandate da
Sinan Céfut, detto le Borgne, il quale poi seppe agevolmente sfuggire alla tardiva caccia
datagli dalle galere di Andrea D’Oria, e anche da ricordare sono i 40 vascelli algerini di Alì
Oulouj (‘Uluch-Alì’, in turco) che arrivarono nel porto di Almería il mercoledì santo del 1570
e vi sbarcarono armi per i moriscos rivoltosi di Granada, ritirandosi poi solo quando non ci
fu più speranza che la rivolta riuscisse. Cherchell era un porto abbastanza comodo, il quale
era usato come prima o ultima sosta per i corsari algerini che andavano in corso a ponente
o ne tornavano, e Baba Arouj la tolse così all’allora famoso corsaro Kar(a)-Hassan, al quale
fece tagliare la testa, da non confondersi questo con quello dello stesso nome, già
menzionato, ucciso in un ammutinamento del 1577; questa città sarà nel 1531 inutilmente
tentata da Andrea d’Oria al comando della sua squadra, allora di 20 vascelli, e sarà
probabilmente stata questa la prima azione del genovese a favore di Carlo V, poiché proprio
in quell’anno egli aveva iniziato a servirlo. Nel corso del seguente 1516, con l’appoggio del
sultano ottomano Selim I, Baba Arouj, come abbiamo già ricordato, si fece re d’Algeri,
facendo uccidere in un bagno lo sceicco Selim ed-Teumi, signore di Motigiar e d’Algeri,
sottraendo così quest’ultima all’influenza spagnola e cominciando quindi a farne quello che
sarebbe diventato il più potente covo di corsari barbareschi; agli spagnoli restò solo
l’isolotto detto el Peñon, situato a soli trecento passi dalla città; questo, in mano spagnola
d’antica data e fortificato da Pedro Navarro nel 1510, divenne una vera e propria spina nel
fianco del regno d’Algeri, perché, ostacolando l’ingresso e l’uscita dal porto, arrestava così
di fatto le attività dei corsari e il predetto Selim ed-Teumi fu di conseguenza costretto a
concludere una lunga tregua con la Spagna e a pagarle un tributo; ora, nel suddetto 1516, El
Peñon resistette bravamente a 20 giorni di batteria d’assedio, convincendosi Baba Arouj a
desistere dall’impadronirsene; in seguito i due fratelli presero Ténès e, dopo un solo giorno
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d’assedio, anche Tlemcen, regno vassallo della Spagna e governato dallo sceicco Bû Hamû,
allora, dopo quello di Tunisi, il più florido della Barbaria, ma poi nel 1518, nel difendere la
stessa Tlemcen vanamente dall’assedio degli spagnoli d’Orano comandati da Martín de
Argote, Baba Arouj venne ucciso, secondo alcuni in combattimento da un colpo di lancia
che gli trapassò il cuore, secondo altri proditoriamente, cioè solo dopo che, avendogli
l’Argote promesso salva la vita, s’era arreso al nemico; certo è che la sua testa venne poi
esposta dai vincitori a Orano e il regno di Tlemcen fu restituito a Bû Hamû.
Già abbiamo detto del famosissimo fratello di Baba Arouj, cioè di Kheir Eddine, detto dai
cristiani Ariadeno Barbarossa e nativo di Mitilene, il quale subentrò al congiunto nel
dominio d’Algeri, prendendo in tale occasione questo secondo nome dal significato di Il
bene della religione, e, dimostrando pragmatismo politico, si sottomise al sultano di
Costantinopoli, il quale aveva appena conquistato la Siria e l’Egitto sconfiggendo i
mamelucchi, poi acquisì Collo nel 1521, il reame di Bona e Costantina l’anno seguente, poi
Tlemcen e infine, nel 1534, il reame di Tunisi e la Goletta. Checché se ne tenti di dire oggi,
anche questo famosissimo corsaro barbaresco, fu, come del resto tutti gli altri,
crudelissimo e il de Haedo ci racconta infatti del martirio che fece subire a un militare
spagnolo suo schiavo e appartenente all’importante famiglia dei Soto Mayor, i cui esponenti
si trovano più volte menzionati nelle storie, perché lo accusava di complottare con altri la
fuga:
… e, non contento di fargli dare da due turchi duecento terribili colpi di bastone a due mani
sulle spalle, gliene fece dare duecento altri sul ventre e duecento sulla pianta dei piedi. Il
malcapitato Soto Mayor era tutto spezzato, aveva la pelle gonfia e le viscere lacerate.
‘Barbarossa’ comandò poi che gli si applicasse il supplizio del fuoco per fargli confessare
quello che sapeva della faccenda. I turchi gli spalmarono le piante dei piedi di burro e le
esposero al fuoco per lunghe ore… (Ib.)
Ma non riuscirono a estorcergli niente perché il poveretto nulla sapeva; con le gambe
ridotte sostanzialmente a dei moncherini bruciati e dopo nove giorni di terribili ulteriori
sofferenze, il 16 aprile 1532 il pover uomo morì:
… Soto Mayor aveva circa quarantacinque anni; egli era di pelo rosso, d’alta statura ed
esile. (Ib.)
Grande avversario d’Andrea d’Oria fu, come il Barbarossa, pure il turco Torgud detto ‘Il
carpentiero’, chiamato dai cristiani Dorgut, Drogut, ma soprattutto Dragut, per accomunarlo
nel male ai fantastici draghi; egli, nato da genitori poveri nel piccolo villaggio di Charabalaç
in Anatolia, fu dato come paggio a un corsaro suo compatriota di nome Arays, ma presto
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piacque al Barbarossa, il quale lo volle per sé per soddisfare la sua pederastia, costume
sessuale questo molto comune tra gli ottomani e i mediorientali in genere; poi Kheir Eddine,
contento dei servigi ricevuti dal giovane e apprezzandone le qualità, lo ricompensò
facendolo raïs d’una fusta corsara e in seguito dotandolo di più vascelli, con i quali Torgud,
scontratosi nel 1538 nell’Adriatico con alcune galee veneziane comandate dal signor
Pascalico, vinse lo scontro catturando alcuni dei vascelli nemici, mentre il Pascalico con i
rimanenti trovò rifugio a Corfù; ritiratosi alle Gerbe con le sue prede, Torgud si rese conto
che non aveva i mezzi di governare più vascelli grandi come le galere e pertanto conservò
solo quella che poi, come abbiamo già detto, Giannettino d’Oria gli toglierà, mentre fece
disfare le altre e dal legname e dalle ferramenta così ricavate fece costruire, ricavando forse
da quest’attività il suddetto soprannome, cinque più agili e gestibili galeotte, delle quali la
meglio riuscita donò al Barbarossa e le altre tenne per sé, ed, essendosi uniti a lui altri
corsari, si rimise a corseggiare ora con una squadriglia di 11 vascelli, tra cui due erano le
ex-galee veneziane; dopo la sconfitta subita nelle acque della Corsica, la conseguente sua
prigionia e la liberazione, avvenimenti di cui abbiamo già detto, fu governatore di Tripoli dal
1551, cioè dalla riconquista turca di questa città, sino alla sua morte avvenuta all’assedio di
Malta del 1565, ambedue grandi avversari d’Andrea d'Oria, inoltre del tante volte già
nominato Uluch-Alì e del pure già menzionato rinnegato veneziano Hassan; c’é poi da
ricordare Hassan Pasha, il già menzionato rinnegato sardo e uomo fidato del Barbarossa,
che costui nominò suo reggente d’Algeri dal maggio 1533, cioè da quando dovette, come
abbiamo già detto, trasferirsi a Costantinopoli, e da non confondersi quindi con il figlio di
quest’ultimo, Hassan Pasha Ben Kheir Eddine, il quale, già regnando di fatto su Algeri dal
1543, dalla morte cioè di Hassan Pasha, morto infine anche suo padre, il Barbarossa,
all’inizio del luglio 1548, riceverà da Costantinopoli il titolo di secondo beglerbegi d’Algeri;
questo Hassan Pasha, tre volte al potere in Algeri con la predetta carica di beglerbegi (1544-
1551; 1557-ottobre 1561; settembre 1562-1567), da non confondersi nemmeno con
l’omonimo e più tardo rinnegato veneziano di cui abbiamo già detto, nel 1558, approfittando
della terribile sconfitta subita dagli spagnoli il 26 agosto di quell’anno a Mostaganem,
prenderà agli spagnoli Bougie e poi, con l’aiuto di 40 galere turche, tenterà vanamente la
fortissima Orano, città i cui abitanti saranno però subito dopo decimati dalla peste; nel
1563, essendo ora signore anche di Tlemcen, si metterà di nuovo in campagna contro gli
spagnoli d’Orano e di Mers-el-Kébir, uscendo d’Algeri con un esercito di fanteria e
cavalleria che contava 15.000 tra turchi e rinnegati, 21.000 tra mori, arabi e kabili, un po’
d’artiglieria da campagna, 40 vascelli remieri, due vascelli francesi, una caravella genovese
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e una catalana, imbarcazioni queste quattro ultime che per loro sfortuna si erano trovate
allora all’ormeggio ad Algeri ed erano state sequestrate per questa guerra; iniziato l’assedio
di Mers-el-Kébir il 3 aprile, questa piazza, ben difesa da Alonso de Córdoba conte di
Alcaudete e marchese di Cortés, figlio del sopramenzionato Martín, resistette 2 mesi e
mezzo fino all’arrivo del risolutivo soccorso portato da Giovann’Andrea d’Oria con otto
galere ben guarnite di fanti del tercio antiguo di Napoli e con le quali veniva anche
Francisco de Córdoba, fratello di Alonso, costringendo Hassan a ritirarsi, bruciando i suoi
vascelli per non lasciarli cadere nelle mani del nemico e a tornarsene via terra ad Algeri,
dove arrivò il 24 giugno, addolorato perché durante l’assedio un colpo d’artiglieria aveva
ucciso il già ricordato raís rinnegato napoletano Mami, al quale egli era molto affezionato;
nel 1565 andrà poi a rinforzare l’armata turca che allora assediava Malta alla testa d’una
forte squadra turco-barbaresca e nel 1567 sarà, come nel 1533 era avvenuto al Barbarossa,
chiamato a Costantinopoli come kapudan pasha pur restandogli ufficialmente la carica di
beglerbegi d’Algeri. Ancora l’alessandrino Salah Rais, detto Testa di fuoco, corsaro
attivissimo, il quale nel 1543, come abbiamo già detto, devastò le coste della Catalogna e
nel 1552 quelle di Maiorca, nel 1555 riprese Bougie agli spagnoli, essendo ora terzo
beglerbegi d’Algeri col titolo di Salah Pachà (1551-1556), fu poi sconfitto da un veneziano e
cioè da Pandolfo Contarini e infine morì di peste a 70 anni; il rinnegato germanico
ubriacone Mohamed, un ex-tamburino d’una compagnia spagnola facente parte della
disgraziata spedizione del conte Martín de Alcaudete, catturato quindi dai barbareschi il 6
agosto 1558 e subito fattosi maomettano, il quale il 4 agosto 1577 fece bruciare vivo il
napoletano Vincenzo, perché questo schiavo, essendo malato, aveva rotto i suoi ferri ed era
fuggito dalla sua galera, e poi tre giorni dopo tentò di far subire la stessa sorte al
malaghegno N. Morales, perché aveva appreso che costui si proponeva di fuggire, ma riuscì
solo a farlo quasi morire soffocato dal fumo e a tagliargli personalmente un orecchio,
perché alcuni turchi glielo tolsero in tempo dalle mani; il turco Mehmed Kurtog-Alì
(‘Curtogoli’ o ‘Kurdogli’ per i cristiani), consumato raïs di galera e quarto beglerbegi
d’Algeri (1556-1557), il quale per prendere effettivo possesso di questo suo titolo dovette
prima eliminare un temibile e determinato oppositore e cioè Hassan il Corso, appunto un
corso nato nel 1518, il quale era stato rapito dai corsari algerini all’età di cinque anni, fatto
maomettano, poi azam-oglan, ossia giovane educato e addestrato da giannizzero, a
Costantinopoli e divenuto Agà (‘generale’) dell’esercito d’Algeri, in buona sostanza dei
giannizzeri che presidiavano quella città; fattolo arrestare per tradimento, Kurtog-Alì lo fece
uccidere tenendolo ad agonizzare per tre giorni impalato in grossi ganci di ferro, ma perirà
964
anch’egli solo l’anno seguente assassinato durante un altro ammutinamento dei giannizzeri
e sarà sostituito dal già ricordato Hassan Pachà; ma navigavano al comando d'intere
flottiglie pure Kara-Hogia (o ‘Kara-Kazi’), famoso e astuto corsaro che morì a Lepanto, il
temutissimo ebreo Ciffut-Sinan da Smirne, detto il Giudeo (da non confondersi con il più
tardo Sinan l’albanese di cui abbiamo già detto), il quale, talvolta a capo anche di 22
vascelli, fu con Hay ed-din uno dei due principali luogotenenti del Barbarossa - da questi
amatissimo - che difendevano la Goletta nel 1535 e che anzi, alla morte di Kheir Eddine, fu
nominato dal sultano Sulaiman kapudan pasha del Mar Rosso e, più tardi, del Mediterraneo;
il già nominato Hassan-Ghelesi, Deli-Usuf, che aveva la sua base in Barbaria e conduceva
delle fuste, Gianva-Alì, corsaro dell'Anatolia; Alì Ahmed, rinnegato genovese e capitano di
leventi a Lepanto, battaglia in cui egli pure trovò la morte; Guli Basà, Deli-Sefer e Kara-Peri,
altri corsari di Barbaria, dei quali il secondo fu catturato con due sue galere nei pressi
dell'isola di Samo dal predetto Girolamo da Canal, uno dei migliori generali marittimi che
abbia mai avuto Venezia, e il terzo morì a Lepanto; Simon Danser, olandese di Dordrecht, il
quale, pur senza convertirsi alla religione maomettana, farà guerra di corso per Algeri
durante quasi un ventennio a partire dal 1606 e ne rammodernerà l’armata di mare nel
senso di far dare ormai anche agli algerini prevalenza ai velieri rispetto ai tradizionali
vascelli remieri; Morat Rais, patrone della galera Reale a Lepanto, battaglia in cui anch’egli
trovò la morte; un rinnegato sardo omonimo del precedente, il quale si chiamava in realtà
Sebastiano Paolo e che nel 1562 o 1563, preso dagli spagnoli a Puerto Santa dopo varie
peripezie che il de Haedo racconta, fu giustiziato con la garrotta; un terzo omonimo, ma
soprannominato Maltrapillo, del quale abbiamo già detto, e un quarto, rinnegato albanese,
pure già nominato; Mustafà Bifi, che nel 1562 fu preso nell'Adriatico dal veneziano
Cristoforo da Canal, degnissimo omonimo e discendente del precedente, nostra primaria
fonte, il che avvenne dopo un furioso combattimento al largo dell'isola di Sàseno, scontro
nel quale Mustafà, il quale aveva sino allora terrorizzato e dannificato le coste italiane e
dalmate, vide quattro delle sue cinque galere catturare dal da Canal, allora arrivato a
provveditore generale d'armata, il quale però, gravemente ferito da due frecce, morirà a
Corfù dopo pochi giorni e precisamente il 18 giugno di quell'anno. Le acque di Sàseno
portavano evidente sfortuna ai turchi e infatti, oltre alla sconfitta del 1537 già menzionata, si
ricordava anche quella del 1481 subita dagli aragonesi. Hamal-Alì, detto in Italia Camallì,
famosissimo corsaro turco, alla fine del Quattrocento, accompagnandosi talvolta a un altro
corsaro suo compatriota, detto in Italia Richi o Erichi, alla testa d’una squadriglia da corso,
la quale si componeva d’una mezza dozzina di vascelli tra barze o schirazzi, grippi e fuste e
965
… Ancora per lettere da Corfù, drizzate (‘indirizzate’) a esso capetanio (generale Antonio
Grimani) et di Costantinopoli, se intese Camallì corsaro havea preso a li Dardanelli una
caravella de Candia con 150 botte de vin et havea amazato homeni 18 et el signor Turco
havea comesso el sanzaco de Garipoli (aveva ordinato che il sangiacco di Gallipoli) lo
seguitasse con tutte le fuste poteva, per prender ditto corsaro, et cussì esso sanzaco lo
seguitava… (M. Sanuto, La spedizione di Carlo VIII etc. Cit. P. 498.)
veneziani non intendevano attribuire buone qualità al nemico, mentre grosso è solo
quantitativo. Il corsaro si trovava quella sera all’isola Schiatti nei pressi di Negroponto e le
sue forze erano due grosse fuste, 2 bergantini, uno schirazzo e un barzotto (‘barcotto’) da
carico da 200 botti che aveva catturato, quindi nient’affatto eccessive per tre galee ben
armate, anzi. Il Contarini, avuta questa notizia, volle affrettarsi per raggiungere il nemico
prima che si allontanasse da quell’ancoraggio, ma il sopraccomito della galea Sebenzana
ammainò la vela e si fermò, mettendo a mare la scialuppa, e costringendo così anche le
altre due galee a fermarsi:
Insomma, disse che doveva mandare a terra a prendere due uomini che gli stavano facendo
segnali luminosi col fuoco (dallo sp. amatar, ‘spegnere, oscurare’, a sua volta da mato,
‘spento, oscuro’, cioè coprire un fuoco o uno specchio ad intermittenza) e poi disse che
quei due l’avevano avvisato che i corsari avevano nel frattempo lasciato Schiatti. Il
Contarini si mise lo stesso a navigare per raggiungerlo e gli altri due lo seguirono sì, ma
sgranati a distanza, cioè di malavoglia, e quando poi effettivamente raggiunsero il corsaro,
per non restar solo contro di lui dovette tornar indietro verso le sue due conserve e,
raggiunta la Sebenzana, si lamentò con loro per questo modo di fare, ma il còmito di quella
rispose che il corsaro era troppo grosso per investirlo (‘attaccarlo’). Il Contarini comandò
che lo seguissero e minacciò che, altrimenti, li avrebbe fatto punire al ritorno:
… ha messo in terra a Nixia (è sbarcato a Naxos) e ha preso alcuni, tra i quali c’è stato un
prete (greco-ortodosso), il quale, dopo che l'ha torturato, l'ha fatto morir. La Signoria (di
Venezia) ha ordinato che Andrea Loredan, capitanio di tre barze armate, vada a trovar il
provveditore (d’armata’) e che insieme vadano a trovar esso Camali (ib. Parte prima p. 160).
Ricorderemo ancora – anche se un po’ lontano dal periodo storico che ci occupa –
‘Mohamed di Barbaria’, un fiammingo rinnegato che, oltre a ottenere il grado di colonnello
di giannizzeri presso la Porta ottomana, comanderà la squadra di navi barbaresche
vittoriosamente affrontata dai veneziani nel canale di Scio il 3 maggio del 1657, battaglia in
cui lo stesso Mohamed (‘Mehemet’ in turco) troverà la morte. Vi fu poi il molto temuto
Hassan-Celebin, detto il Moro d'Alessandria, il cui nome pare venisse storpiato in Hassan
Cappellino dalla gente di mare veneziana; costui finì nel 1533, quando, tornando dalla
guerra di Modone, si trovava a condurre 11 galere sottili ordinarie e due bastarde e
trasportava 800 giannizzeri ad Alessandria, sennonché nelle acque di Candia volle assalire
due galeazze di mercanzia della Serenissima, ma queste furono però provvidenzialmente
soccorse dal veneziano Girolamo da Canal detto il Canaletto, il quale conduceva 15 galere;
la battaglia, già da noi ricordata, durò tutta la notte tra il 29 e il 30 novembre di quell'anno e i
veneziani vinsero, affondando sei galere avversarie e catturandone 5, uccidendo 1.700
nemici e perdendo solo 200 dei loro uomini, infine catturando lo stesso Moro d'Alessandria,
il quale era d'altra parte stato ferito a morte. Comandanti di galere di fanò erano poi molti
collaboratori di Torgud, quali Gazi-Mustafà, Hassan-Keleh, Mehmed Rais, Sanjak-dar Rais,
Deli-Jafar, oltre ai già sunnominati Uluch-Alì e Kara-Kazi. Andando più indietro nel tempo,
troviamo poi Kara-Dromis, un rinnegato greco che nel 1503 comandava ben 26 fuste e una
galeotta.
Tra gli altri famosi corsari turco-barbareschi o comunque cristiani rinnegati che
combatterono per Algeri o anche talvolta direttamente per Costantinopoli ricordiamo fra
Filippo, un siciliano che disponeva di tre ben armate galere con cui scorreva e dannificava
l'arcipelago greco e anche l’Adriatico e che fu catturato dal predetto Girolamo da Canal nel
golfo di Corone; il già ricordato Hay ed-din, detto Cacciadiavoli, ebreo turco nativo di
Smirne, secondo altri invece cristiano rinnegato nativo della Liguria o dell’Etiopia, ma
comunque corsaro d’Algeri alle dipendenze di Barbarossa, il quale, resosi famoso
soprattutto per la sopradescritta vittoria riportata nel 1529 sul de Portando, fu poi alla difesa
968
della Goletta insieme al predetto Ciffut Sinan e, a dire del Giovo, morì all’assedio di Castel
Nuovo del 1539; Hassan Corso, rinnegato al servizio di Hassan Pasha figlio del Barbarossa,
da non confondersi quindi con l’Hassan il Corso ucciso nel 1556 e di cui abbiamo già detto,
il quale, ricorda il de Haedo, il 20 ottobre 1579 uccise a bastonate di sua mano il suo
schiavo greco Gregori colpevole d’aver dormito fuori casa due notti di seguito; Dali lo
Zoppo, rinnegato greco, attivo intorno al 1567; Danardi, altro rinnegato greco, subordinato
di Mami Arnaute, il quale, trovandosi al comando d’una galeotta e con questa arrivato il 10
maggio 1579 a Caprera, isola deserta nei pressi di Maiorca, vi fece sbarcare un napoletano
di cognome Santoro, perché non remava a sua convenienza, e, fatto accendere un gran falò,
ve lo fece buttare dentro legato mani e piedi, essendo questa la pena di cui solitamente i
barbareschi minacciavano gli schiavi che si dichiaravano incapaci di lavorare perché malati
e la dicevano miracolosa in quanto faceva subito sta bene qualsiasi infermo!
Piri Rais, comandante di galera corsaro che fu poi posto dal sultano al comando delle
galere di guardia ad Alessandria e al quale si attribuisce il possesso d’una bella serie di
carte marittime giunta sino a noi; il còmito rinnegato genovese detto il Pezzuin; Kara-
Celebin, che combatte a Lepanto; il rinnegato corfiotto soprannominato il Baffo, il quale,
catturato dai veneziani a Corfù nel 1571, qualche tempo prima di Lepanto, e interrogato poi
alla presenza di Bartholomeo Sereno, dette informazioni sulla consistenza dell’armata
ottomana; il famosissimo turco Amurat Raïs – detto anche Murat raís, il quale a cavallo
dell’anno 1600 faceva grandissimi danni alle marine e alla navigazione cristiana e
impronterà poi la guerra di corso turco-barbaresca nel Mediterraneo per la maggior parte
del Seicento, in quanto la eserciterà per ben sessant’anni e all'età d’ottanta ancora scorrerà
il mare dopo aver guadagnato tantissimo credito e grandissima stima sia a Costantinopoli
sia in Barbaria; il valorosissimo Karagj-Alì, detto dai cristiani Caragiali o Cara Geli,
luogotenente d’Uluch-Alì morto poi a Lepanto, il quale nel 1568, mentre con la sua galeotta
di 22 banchi e altre quattro saccheggiava le coste corse e quelle sarde, fu attaccato a Capo
Corso da sei galere di Toscana comandate da Alfonso d’Appiano e, nonostante l’inferiorità
dei suoi mezzi, tenne bravamente testa alle assalitrici in un lungo e sanguinosissimo
combattimento dal quale alla fine, dopo aver inflitto grosse perdite al nemico, poté anche
disimpegnarsi con la perdita di due sole delle sue galeotte che erano state catturate dai
toscani, tra cui quella del suo luogotenente, il rinnegato Mamì; per questa vittoria di Pirro il
d’Appiano, rimastovi anch’esso ferito, sarà da alcuni accusato d’incapacità, ma egli, ben
scaricando sui suoi sottoposti la responsabilità del fatto, riuscirà a mantenere il comando
della squadra. A proposito del predetto Mamì, non sappiamo se si trattava del corso, del
969
napoletano o del veneziano che sotto questo nome scorrevano in quei tempi il Mediterraneo
con la bandiera d’Algeri; infatti il rinnegato napoletano di tal nome, il quale attorno al 1550
corseggiava con due galeotte barbaresche di sua proprietà, aveva affidato il comando della
seconda a un rinnegato greco, suo ex-schiavo, che, una volta liberato, aveva preso, com’era
uso tra quei corsari, il nome stesso del suo padrone; ancora un altro Mami – Mami Rais,
temutissimo corsaro di Monastir e luogotenente di Torgud. Il già nominato rinnegato
calabrese Giaffer (‘Jafar Pachà’), anch’egli collaboratore di Torgud e uno dei più esperti
uomini di mare di cui disporranno i turchi alla fine del Cinquecento, il quale all’inizio di
giugno del 1565 fu distaccato con sei galeotte dall’armata turca che assediava Malta perché
prendesse lingua dei preparativi di soccorso dell’armata cristiana e, pur se impiegato in
questo compito, tra giugno e luglio trovò anche il tempo di assalire con tre delle dette
galeotte, una da 22 banchi e due da 17, e una fregata la riviere ligure di Ponente e quella
Toscana e di fermarsi prima a Portovenere ad accettar i riscatti dei civili catturati e poi, per
lo stesso motivo, alla spiaggia di Viareggio, avendo colà predato anche un centinaio di
abitanti di Massarosa; era questo un modo comune di fare dei corsari barbareschi, i quali in
tal maniera realizzavano subito il valore della loro preda, senza doversi così sobbarcare
l’onore di portala sin in Barbaria, per poi dover aspettare l’esito di trattative che a tale
distanza prendevano immancabilmente la durata di svariati anni; alla stessa maniera si
comportavano i corsari uscocchi quando catturavano turchi possidenti, alzando la loro
bandiera di riscatto nell’isola di Sabbioncello o in altre marine di proprietà della repubblica
di Ragusa. Questo Giaffer non è da confondersi con il rinnegato ungherese suo omonimo
che governerà Algeri dal 1580 al 1582, succedendo pertanto in quell’ambita carica al
rinnegato veneziano Hassan Pacha, e con un terzo Giafer, rinnegato veneziano, il quale nel
primo quarto del Seicento sarà a Tunisi uomo di Osta Murat, rinnegato ligure di cui tra
breve anche diremo. Ricordiamo ancora il già menzionato Kar-Hassan, l’albanese Mehmed e
(Kara-)Mamut, valoroso nipote del Barbarossa e genero di Torgud, inoltre Salek, uno dei
migliori corsari del predetto Barbarossa, il quale era stato anche governatore della Goletta;
il già ricordato Mami Arnaute, corsaro famoso definito dal de Haedo il più feroce, il più
crudele dei corsari, il quale, come abbiamo gia accennato, fu reso famoso soprattutto
dall’aver preso prigioniero il Cervantes Saavedra nel 1575; Mami era a quel tempo il numero
due al Algeri dopo il reggente Hassan il Veneziano:
Dopo il re, colui che ha più orgoglio e pretensioni è il rinnegato albanese Mami Arnaute,
capo dei corsari e della squadra d’Algeri, e il più grande nemico del nome di Nostro Signore
Gesù Cristo. Chi nel suo palazzo e sui suoi vascelli ha più di lui cristiani senz’orecchie e
senza naso…? (D. de Haedo. Cit.)
970
Il de Haedo ricorda lo stesso Mami Arnaute conservare come trofei nasi e orecchie da lui
fatti tagliare ai suoi schiavi cristiani, tra cui quelli degli spagnoli Francisco Darga e Juan
Sanchez; ricorda poi che durante la sua schiavitù ad Algeri Mami aveva il 30 maggio 1578
fatto subire il predetto supplizio a due siciliani perché non avevano più la forza di remare,
nell’ottobre successivo, mentre sosteneva la caccia che gli dava Juan Francisco de
Cardona nelle acque di Sardegna, a uno spagnolo di nome Pedro e a un maltese di nome
Giovanni, mentre faceva tagliare addirittura la testa allo spagnolo Benito, perché non
riuscivano a remare forte come voleva lui; tra il 19 e il 26 aprile del 1577 lo stesso Mami,
accortosi che gli mancava uno di due vilissimi vasi di terracotta che si era portato da
Costantinopoli per suo uso personale, vasi, dice il de Haedo, che i barbareschi chiamavano
bardaque, aveva fatto strangolare un povero schiavo spagnolo che quel vaso non aveva
mai né visto né tanto meno toccato; il 29 marzo 1579, trovandosi a Cherchel alla testa di
otto vascelli con i quali andava a corseggiare verso ponente, fracassò la testa allo
schiavone Francesco di Lustrigan e poi lo fece gettare in mare non ancora morto, perché
costui non remava quanto egli voleva, e lo fece usando una mazza di ferro di cui si serviva
abitualmente per picchiare gli schiavi cristiani, mazza che chiamava per spirito bosayan
(‘museruola’), nel senso forse che faceva subito star zitto chi la provava:
La manovra del remo sulle galeotte di questi crudeli corsari è, senza esagerazione, il più
penoso lavoro del mondo e il numero di quelli che sono periti sotto i colpi, la sete, la fame o
che vi sono caduti inanimati sui loro remi è enorme. Coloro che se ne sottraggono non
sono più degli uomini viventi; essi sembrano uscire da sepolcri tanto sono scarni e smunti,
se hanno sopportato tali sofferenze sui vascelli dei corsari, e ne sopportano ben altre su
quelli del capitano Mami Arnaute, perché, secondo le sue stesse parole, egli non condanna i
suoi prigionieri al remo, ma alla morte. (Ib.)
Aveva infatti Mami il 20 giugno del predetto 1579 personalmente partecipato alla
bastonatura a morte di tre suoi schiavi, il francese Jean Gascon e gli italiani Filippo e Pietro,
il primo siciliano e il secondo cosentino, tutti e tre tra i 30 e i 40 anni, colpevoli di essersi
nascosti il 25 marzo precedente per la paura d’essere imbarcati sulla sua galera, la quale
quello stesso giorno era stata di partenza:
… Fece loro legare le mani e i piedi, fece distendere al suolo Jean Gascon con la faccia
verso terra; un rinnegato s’assise sulla testa della vittima, un altro sulle spalle, un terzo
sulle gambe, com’è d’uso, e due altri gli applicarono una così grande quantità di colpi di
bastone a due mani sulle spalle, il ventre, il torace, le braccia, le cosce e le gambe che il
poveretto ne restò pressocché morto, le membra sfatte e nell’impossibilità di muoversi […]
comandò ai rinnegati, stanchi, di allontanarsi e di fa posto a degli altri. Questi scaricarono i
loro colpi sul povero innocente con dei bastoni nuovi, a due mani. Il corpo del malcapitato,
971
già contuso, tumefatto, coperto d’enfiagioni, s’aprì ai primi colpi, il sangue zampillò da tutte
le sue ferite e si sparse per tutto il cortile… (Ib.)
… s’inflisse loro la stessa crudeltà, furono tempestati di colpi di bastone, dati loro dai
rinnegati che si succedevano, finché le loro membra furono fracassate: spalle, ventre,
braccia, cosce e gambe. Erano gonfi come degli otri o dei tamburi; il sangue colava
talmente che il cortile n’era pieno e rassomigliava ad una macelleria, ad un mattatoio […]
Colava un tale fiotto di sangue da quei corpi martoriati dai colpi, senza che quella bestia
feroce ne fosse sazia, che qualcuno che colà si trovava m’ha giurato che un largo rivolo di
sangue colava nel cortile e fino ad allora (il 10 agosto seguente) non si era ancora riusciti a
farne sparire le tracce nonostante tutti i lavaggi che eran stati fatti con abbondante acqua.
(Ib.)
Gascon sopravvisse al martirio sette giorni, il siciliano sei e il calabrese morì invece
l’indomani. Il 16 dicembre dello stesso 1579, a Bona dove si trovava a svernare, Mami aveva
ucciso con un colpo di mazza ferrata sulla testa Pedro de Cardona, amico del de Haedo,
perché questi non aveva dato due colpi di remo nella giusta cadenza. Il 7 maggio 1580
aveva fatto tagliare le orecchie persino a un suo rinnegato, albanese come lui, e in seguito a
un ragazzo d’Ibiza, schiavo del suo patrone, perché aveva tagliato un ramo d’albero nel
giardino d’un moro che se n’era venuto a lamentare! Il 20 ottobre seguente, trovandosi nelle
acque calabresi a dare la caccia a un legno cristiano, aveva personalmente tagliato la testa
a un giovane cristiano suo schiavo che era caduto svenuto sul suo banco a causa
dell’intensa fatica; questo giovane era chiamato comunemente Napoli, perché era un
napoletano.
Sono anche ricordati il rinnegato fiammingo Mourad, il rinnegato greco dallo stesso nome,
il quale, narra il de Haedo, nel luglio 1578 fece tagliare naso e orecchie al siciliano
Cristoforo, perché questi non aveva tirato l’ancora a tempo, il già nominato Morad o Morat
Raïs Maltrapillo, rinnegato iberico, definito dallo stesso de Haedo anche ‘il pidocchioso
spagnolo’; nel giugno 1578 il raís turco Aisa fece subire la stessa pena al romano Antonio
perché, mentre tutti s’imbarcavano, aveva urtato con il suo remo quello d’un altro rematore;
Sinan detto L’orbo, forse da ravvisarsi nel suddetto ebreo Ciffut Sinan, il dieppese Jafar
Rais, Ferhat Agha, eunuco rinnegato favorito di Hamed Pacha, re d’Algeri dalla fine del 1561
al settembre1562; Hassan detto Il calafato, forse quell’alcaide Hassan, rinnegato greco,
ricordato dal de Haedo, il quale il 30 ottobre 1577 strangolò con le sue mani il suo schiavo
navarrese Juan, perché costui aveva nascosto in una grotta del suo giardino 15 cristiani
che attendevano una barca maiorchina con la quale fuggire; Cadi Rais, un turco ubriacone
che fu governatore di Biserta e che il de Haedo ricorda aver nel giugno 1577 fatto tagliare le
972
orecchie a un greco che aveva tentato di fuggire e, per lo stesso motivo, nell’agosto
seguente a un aragonese di nome Francisco, il 18 marzo 1580 al valenziano Pedro, il 20
febbraio 1579 ad altri tre suoi schiavi e cioè il greco Alexis, il francese Péron e il napoletano
Michele, mentre nel giugno del 1578, dandogli la caccia le galere toscane, aveva fatto
tagliare la testa al maiorchino Pedro perché non remava con il vigore che lui voleva e il 15
ottobre dello stesso anno aveva personalmente ucciso a bastonate un vecchio siciliano di
nome Giovanni; il già nominato Rabadan Pachà, reggente d’Algeri, il quale il 26 dicembre
del 1574 aveva concesso che s’uccidesse per disseccamento, supplizio che presto
descriveremo, e con pretestuosissimi motivi un commerciante greco di Cadice, certo
Nicoláos, e poi nel 1577, poco prima d’essere sostituito dal veneziano rinnegato Hassan,
aveva fatto trascinare, legato alla coda di un cavallo, il siciliano Andrea di Sciacca,
lasciando tutte le strade così percorse macchiate del sangue del poveretto, aveva fatto
infilzare vivo sui famosi ganci murali d’Algeri un compagno del predetto Andrea, il
calabrese Antonio della Mantia, e n’aveva fatto lapidare un terzo compagno, dopo averlo
fatto appendere per i piedi all’antenna della galeotta di cui i predetti avevano tentato
d’impadronirsi per fuggire. Il 18 maggio dello stesso 1577 fu la volta del frate valenziano
Miguel de Aranda dell’ordine di Montesa:
… Tutt’Algeri era a rumore, la notizia (della prossima esecuzione) circolava in tutti i quartieri
e una moltitudine di mori di tutte le classi, d’arabi, di kabili, ‘de Azuagos’ (sic), soprattutto di
fanciulli in gran numero accorrevano emettendo grida di gioia. Tale folla s’ingrossò
talmente che non si poteva più circolare e i mori non potevano tutti arrivare fino al povero
martire. Gli uni gli tiravano la barba altri gli strappavano i capelli, altri gli davano dei pugni
sul viso, altri dei calci, degli spintoni. Infine tutti quelli che potevano avvicinarlo lo
colpivano con bastoni, scarpe, tessuti che trascinavano per le strade e più le ferite che gli
facevano era gravi e più grande era la loro soddisfazione. (Ib.)
Il condannato, portato alla marina della città, venne incatenato e legato al ceppo di
un’ancora di galera piantata per terra per il ferro e verticalmente, come comunemente
s’usava per ricavare rapidamente un patibolo; gli fu bruciata completamente la faccia con
una grossa fascina accesa e poi la folla lo lapidò a morte, tirandogli una tale quantità di
pietre da lasciarlo quasi seppellito, e infine il suo corpo fu arso così ancora legato:
… La parte superiore del corpo del sant’uomo era stato consumato dalle fiamme, il resto
essendo protetto dalla massa di pietre che lo seppelliva sino alla cintura. Poiché il fuoco
ancora durava, al cader della notte i mori portarono degli attizzatoi, scostarono le pietre e
gettarono sul braciere ancora una gran quantità di legno e, per saziare la loro rabbia, si
misero di nuovo a gettarvi delle pietre con accanimento. Un moro di Spagna portò, pur se
con notevole fatica, un gran pezzo d’una ruota di mulino e con gran urla lo gettò con forza
sulle ceneri e le ossa in fiamme. (Ib.)
973
Il Morat raís albanese più sopra menzionato, trovandosi il 24 gennaio 1578 al comando di
sei galeotte algerine che stavano carenando a Porto Farina, località a metà strada tra
Biserta e La Goletta e di cui nel secolo successivo il sunnominato Osta Morat farà un vero
porto, fece lapidare a morte per omicidio e proposito di ammutinamento il ventiquattrenne
rinnegato genovese di nome N. Gallo, remigante sulla galeotta d’un altro Morat Rais, questo
rinnegato greco, dopo averlo fatto legare a una roccia della costa; un complice coetaneo del
predetto e cioè un altro remigante genovese, ma questo schiavo e non rinnegato, il quale
ciò nonostante aveva acquisito il nome turco-barbaresco di Morat, probabilmente perché
sperava di farsi un giorno anche lui maomettano, il giorno 27 seguente fu giustiziato a Susa
a mezzo di saettamento, ossia, insabbiato sulla spiaggia fino alla vita, fu bersagliato con gli
archi e fu colpito da un tale numero di frecce da rassomigliare poi a un porcospino.
Il 7 luglio 1578 gli algerini uccisero a bastonate il frate siciliano Ludovico Grasso e poi
anche il francescano siciliano Lattanzio di Polizzi; il 30 novembre 1579 il calabrese Simone
per essersi un giorno sottratto ai lavoro forzati. Il già ricordato rinnegato genovese
Borrasquilla, anch’egli raïs di galera famoso per la sua crudeltà, il quale, ricorda sempre il
de Haedo, ammazzò il 15 settembre 1579 due suoi schiavi cristiani, colpevoli d’essersi
nascosti per paura che li facesse imbarcare con lui per Costantinopoli, e l’8 febbraio
dell’anno seguente fece tagliare le orecchie al suo schiavo italiano Stefano per essersi
anch’egli nascosto mentre si dirigevano verso la predetta città; Agib-Alì, un raís turco che il
28 maggio del 1578, cacciato nelle acque tra la Corsica e la Sardegna dalle galere di Napoli
comandate dal loro generale Juan Francisco de Cardona, tagliò con il suo yatagan
immediatamente la testa al suo schiavo maltese Guglielmo, vinto dalla fatica e pressocché
morto sul suo remo, e poi la inchiodò sullo stentarolo gridando agli altri schiavi di non
lasciare il remo se non volevano fare la stessa fine, mentre nel luglio successivo faceva
tagliare naso e orecchie al napoletano Federico, perché anche questi non riusciva a remare
quanto lui voleva; il raís Hassan, rinnegato genovese detto Hassan il Marabutto, il quale
invece nel maggio del 1579 strappò con i suoi propri denti le orecchie allo spagnolo
Cristóbal, non più capace di remare per la fatica, e poi, mentre subiva la caccia delle galere
siciliane, tagliò un braccio al calabrese Rodolfo, il quale, stremato da 24 ore continue di
voga forzata, era crollato sul suo remo, e con quel braccio troncato prese a picchiare gli
altri schiavi remieri finché non si fu sottratto a quella caccia; questa stessa ultima atroce
cosa fece a un suo spalliero anche Mehmed Bey, nipote del Barbarossa, mentre, come
abbiamo già narrato, cercava di sfuggire alla caccia in cui invece trovò la morte. Il predetto
Hassan nell’agosto dello stesso 1579 strappò ancora a morsi le orecchie al francese
974
Dominique, perché questi, litigando con un altro remigante schiavo, gli aveva dato dei
pugni, e poi, nel novembre successivo, a un altro napoletano di nome Federico, perché il
suo ramo s’era accidentalmente spezzato; forse questo bestiale corsaro è lo stesso Hassan
Pasha che troveremo governatore di Tripoli nel maggio 1601, cioè quando della sua galera,
come racconta l’Aymard, s’impadronirono nelle acque di Gerba 140 schiavi cristiani
ammutinatisi, i quali poi la portarono in Sicilia (M. Aymard. Cit.)
Il de Haedo, il quale annotò molti delitti contro gli schiavi cristiani commessi dai principali
corsari d’Algeri nel triennio che egli prigioniero in quella città, precisa che ovviamente,
sebbene sembrino tanti, erano solo un esempio degli innumerevoli altri commessi prima e
dopo quegli anni e anche in altri luoghi della Barbaria:
… Questi assassini sono stati commessi da quando giungemmo qui ad Algeri, ma a Tetuan,
a Bugia, a Biserta, a Tunisi, a Susa e a Tripoli, tutte località situate in Barbaria, ce ne sono
stati tanti altri di cui non ho intenzione d’occuparmi, poiché sto parlando solo di ciò che è
successo in questo paese qua. (D. de Haedo. Cit.)
Molteplici erano poi, sia in Barbaria sia nell’impero ottomano, gli atroci modi in cui la pena
capitale a carico dei cristiani era ufficialmente eseguita; i supplizi che si praticavano più
frequentemente e che il de Haedo descriveva nei suoi giornali delle atrocità algerine erano
la mutilazione degli arti, il saettamento, l’archibugiazione, il rogo - supplizio questo d’altra
parte correntemente praticato in quei tempi anche dall’Inquisizione spagnola - e poi il
disseccamento, cioè il circondare il condannato d’un fuoco vicinissimo, in modo non da
bruciarlo, ma da disseccarlo con il forte calore così prodotto; la lapidazione, alla quale
spesso era sottoposto il condannato disseccato o saettato, anche se già morto;
l’annegamento, che s’otteneva gettando a mare il condannato con le mani e i piedi avvinti e
con una grossa pietra legata al collo, il seppellimento da vivo, l’impalamento, il quale
consisteva nell’infilzare il condannato con un palo aguzzo, come con uno spiedo, che gli
entrava dall’ano e s’apriva la strada nel suo corpo, sino a che la punta gli usciva dal collo, e
lo si lasciava così ad agonizzare; oppure lo si legava seminudo alla coda d’un cavallo e lo si
strascinava per ore per le strade pavimentate d’una città, finché, con le ossa lussate e le
carni straziate, non fosse morto dissanguato; o anche gli si rompevano tutte le ossa del
corpo a colpi di mazza di ferro e poi lo si gettava su un cumulo di rifiuti in modo che
servisse da pasto ai cani e agli uccelli da preda e, racconta il de Haedo, nel novembre 1576
a Costantinopoli in tal maniera fece Uluch-Alì giustiziare lo schiavo N. Roalés, un soldato
spagnolo di circa venticinquenne fatto prigioniero alla Goletta, per aver ucciso il suo
padrone turco, esasperato dalle continue crudeltà a cui questi lo sottoponeva; o ancora lo
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… Arrivati infine alla plaga sabbiosa che s’estende fuori dalla porta Bab-el-Ued, verso
ponente, molto vicino al cimitero dove s’inumano i cristiani, si misero a scavare un fosso
nella sabbia e v’interrarono il cavaliere di Cristo (cioè il martire) fino alla vita, poi dieci o
dodici cavalieri turchi cominciarono a scoccargli delle frecce con la più grande crudeltà. Ne
ricevette tante da sembrare un novello San Sebastiano e da colargli il sangue in
abbondanza dal torace e da tutto il corpo benedetto. Due dei colpi di freccia furono in
particolare più terribili degli altri, l’uno l’aveva colpito in piena bocca, gli aveva rotto i denti
e gli si era conficcato nella gola, l’altro gli si era affondato in un occhio dal quale colava un
fiotto di sangue. Questo colpo fu così terribile che il martire di Dio ne restò esanime. Allora
i turchi e i mori… s’armarono di pietre e lo lapidarono rabbiosamente, di sorta che, non
solamente egli spirò dopo qualche lancio di pietre, ma le sue membra ne restarono rotte, la
testa fracassata ed egli quasi completamente coperto dalla quantità di pietre che gli si
gettò… (Ib.)
Un altro modo di giustiziare era erigere un patibolo costituito da tre pali in forca caudina,
collegare i due pali verticali, alti circa 26 palmi, con un quarto orizzontale a 10 o 12 palmi più
in basso della traversa superiore, fissare uno o due grossi ganci alla traversa inferiore in
maniera che tenessero le loro punte acuminate all’insù, fissare una puleggia a quella
superiore e trainarvi con una corda il condannato, per poi farlo bruscamente piombare sulle
punte dei ganci, ai quali andava a infilzarsi in uno o due punti del corpo, e là lasciarlo ad
agonizzare anche per diversi giorni; ad Algeri c’erano alcuni famigerati ganci così fissati
all’esterno delle mura della città e che erano utilizzati all’incirca allo stesso modo; ecco il
racconto fatto nel 1589 dal Villamont dell’esecuzione del sangiacco (’governatore’) di
Famagosta, di cui lo stesso viaggiatore francese fu testimone, per aver angariato quella
popolazione e aver costretto il bachà di Cipro ad inviarvi un corpo di giannizzeri per
reprimere i conseguenti disordini:
..il povero sangiacco preso e fatto prigioniero, il suo processo si è svolto in ventiquattr'ore
ed è stato condannato ald essere agganciato. È questo tipo di morte molto strano e si fa in
questo modo, si piantano nel terreno tre lunghi bastoni poco distanti l'uno dall'altro e uniti
in alto con altri bastoni, su tutti i quali sono delle lunghe punte di ferro molto affilate, e nel
mezzo a questi tre legni ce n'è un altro alzato molto più in alto, a guisa di quello per i tratti
di corda, per sollevare il delinquente e per poi farlo cadere su una di queste punte di ferro; il
che è stato fatto a questo sangiacco e la sventura tanto lo colpì che egli ne restò trafitto
solo ad una spalla, per cui rimase ancora in vita per tre giorni, languendo miseramente.
L'ordinanza è tale in tutta la Turchia che un corpo destinato a questo supplizio resta fino
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alla morte nel luogo dove la triste sorte lo ha attaccato, senza che sia consentito ad alcuno
di usare della carità nei suoi confronti, se non vuole incorrere nelle stesse pene di colui per
il quale avrà avuto compassione (J. De Villamont, Libro III. Cit.).
Questo era l’agganciamento, ma poi c’era l’impalamento, ancora più crudele del supplizio
precedente:
... Ce ne sono molti altri impalati o infilzati per l’ano con un palo di legno a mo’ di cappone e
nel modo che segue. Il criminale condannato a morte porta sulle spalle la sua forca, che è
un palo di legno lungo da otto a nove piedi e spesso a un'estremità quanto la testa del
femore di un uomo e molto appuntito all'altro, e questo disgraziato lo porta al luogo dove
dovrà morire, dove, essendovi arrivato, lo si scarica del suo fardello, poi lo si dispone
disteso con la pancia e la faccia a terra e, tenendogli le braccia, le gambe e la testa in modo
che non possa muoversi, gli si infila il palo di legno attraverso l’ano, poi con un grosso
maglio o mazza, si batte l'altra estremità del palo finché non si vede la punta uscire o
attraverso la testa o attraverso la spalla o attraverso lo stomaco o attraverso un altro punto
del corpo. E, avendolo così sistemato, piantano questo legno in terra, e lasciano lì il
‘paziente’ infilzato in questo palo fino alla morte, la quale egli, languendo miseramente,
attenderà per circa tre o quattro giorni, senza alcuna speranza di pietà, senza aiuto di
alcuno, perché, se qualcuno osasse avvicinarsi a lui per dargli da bere o procurargli
qualche altro sollievo, subito avrebbe dovuto fargli compagnia nello stesso supplizio. La
causa per cui spesso restano vivi per lungo tempo, dopo essere stati così infilzati, è che il
legno non offende le parti vitali del corpo: così (invece) non avvenendo, il disgraziato muore
incontanente. Trovo questa morte estremamente crudele: perché infilzare un uomo per
l’ano con un legno appuntito e che poi a poco a poco cresce di grandezza e che basta
piantare a terra per sostenere il paziente, io trovo che si tratta dell'estremo di estremi dolori.
Questo tipo di supplizio è dato a persone che non hanno alcuna accusa particolare, ma solo
perché sono magari mori abitanti nel paese o cristiani che contravvengono alle ordinanze
del sultano (ib.).
… C’è un altro tipo di morte molto dolorosa, della quale anche fanno uso molto sovente,
cioè quelli a cui strappano le unghie dei piedi e delle mani e poi gli fanno scuoiare, la testa
per prima, così come fecero infatti al signor Dandolo gentiluomo veneziano (non era un
Dandolo ma Marcantonio Bragadino nel 1571, n.d.a.) contravvenendo nondimeno alla
promessa che gli avevano fatto, (della cui pelle) essi fanno trofeo d'onore quando è contro
un cristiano. Hanno anche come supplizio il fuoco, al quale condannano i rinnegati che
tornano al cristianesimo e i cristiani che entrano nel tempio di Salomone e in altre moschee
d’importanza o che sono colti mentre godono godere d’una turca. Esistono diversi altri tipi
di tormenti, come conficcare aghi nelle unghie delle mani e dei piedi, che è quello che si da
ai traditori, e lo strangolamento, il quale viene (però) affidato alla camera (di giustizia), per i
bachà e ad altre persone di qualità condannate a morte (ib.).
solo piede o per un solo braccio oppure facendo seguire il rogo o l’inganciamento alle
mutilazioni. Il de Haedo, descrivendo tali atrocità, così aggiungeva:
… Oltre a queste straordinarie crudeltà, quelli impiegano ancor’altri numerosi supplizi che
sarebbe troppo lungo descrivere. Non esiste un palmo del territorio d’Algerie di tutto il
litorale che non testimoni di queste macellerie; tutto è pieno d’ossami e di ceneri
d’innumerevoli cristiani, tutto il paese è bagnato e arrossato del loro sangue… Non c’è per
loro soddisfazione comparabile a quella che provano o giorno più piacevole o festa od
allegria più grande di quella d’abbandonarsi a questi atti di barbarie. Quando tali occasioni
si presentano, sospendono ogni lavoro, cosa che non fanno né per il venerdì né per la loro
Pasqua o per le loro feste; corrono per le strade come dei folli, si radunano, spassandosela
un mondo, nelle piazze, nei cortili, dappertutto, sia nelle case sia sulle terrazze. Le stesse
donne vi si mescolano: esse alzano la voce emettendo clamori e rivoltano il cielo con le loro
grida. Infine il chiasso, il tumulto, la confusione delle genti sono tali che la città sembra
tremare e che da queste prigioni noi stessi l’intendiamo distintamente. (Ib.)
Ecco come la cosa, descritta al de Haedo da testimoni oculari, era avvenuta nel caso dello
spagnolo Juan Molina, un cittadino d’Almeria bruciato vivo ad Algeri nel 1568:
… Condussero la loro vittima davanti alle porte delle moschee alle ore della preghiera o
‘sala’ e per le strade e i luoghi frequentati della città, chiedendo l’elemosina e dicendo:
Dateci di che riscattare questo cane di cristiano, poiché vogliamo bruciarlo vivo… (Ib.)
E spiegavano alla gente i motivi che s’erano inventati per farlo ritenere meritevole di tanta
atrocità; la cosa durò diversi giorni finché non fu raccolta la somma necessaria:
… Che dirò degli affronti, dell’ingiurie, degl’insulti dei mori, dei pizzicamenti, dei ceffoni,
pugni, pedate, spintoni che gli dettero? I vili monelli per di più gli strappavano la barba e i
capelli emettendo grida di gioia. (Ib.)
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L’esecuzione, avvenuta ad Algeri il 27 dicembre 1531, dei già ricordati sette capitani di
galera spagnoli catturati nel 1529, incluso Juan de Portundo, dell’altro pur già menzionato
capitano di galera Luis de Sevilla, catturato invece nello stesso suddetto 1531, d’un mastro-
ferraro spagnolo di nome Francisco, d’un altro, pure spagnolo, chiamato però Marroquino,
e di altri sette cristiani, tutti scoperti ad Algeri mentre si preparavano a fuggire, è così
descritta dal de Haedo, il quale allora ancora si trovava anch’egli schiavo in quella città:
… Il 27 dicembre, festa del glorioso San Giovanni Apostolo… Barbarossa ordinò che si
facessero uscire dal bagno i diciassette cristiani e che li si conducesse a morte. Era appena
stato dato l’ordine che un gran numero di quei turchi e di quei rinnegati armati si portò
immediatamente al bagno e, chiamando tutti quelli che erano stati condannati a morire,
cominciarono ad insultarli, come usano, dando loro del cani, del cani traditori che volevano
sollevarsi contro il paese… Ogni cristiano, con le mai legate dietro la schiena, fu posto tra
due turchi. Fu verso le otto del mattino (secondo vengono contate in Spagna) che essi li
condussero laggiù, fuori dalla porta Bab-el-Ued, la quale guarda ad occidente, ed, appena
furono arrivati, i turchi, snudate le loro scimitarre, fecero a pezzi i diciassette cristiani
incatenati e docili come degli agnelli. Spaccarono loro il cranio, tagliarono loro le braccia e i
garretti, tagliuzzando loro completamente il corpo…
Juan de Portundo era un giovane uomo di circa venticinque anni, a cui la barba cominciava
a crescere; era piacevole, aveva i capelli rossi, la carnagione bianca, lo sguardo vivace,
(era) di statura media e ben proporzionato. Il capitano Luis de Sevilla poteva avere
quarantacinque anni, (era) di bella taglia, egli cominciava appena ad incanutire, (ma) la sua
barba era nera. Il mastro-ferraro Francisco doveva avere trent’anni, era (però) incurvato, la
sua barba era nera. (Ib.)
Barbarossa ordinò che i loro corpi fossero abbandonati sui letamai, perché vi venissero poi
divorati dai cani e dagli uccelli rapaci, ma colui che li aveva traditi, lo spagnolo rinnegato
Francisco de Almanza, ebbe in seguito sorte di poco migliore, perché cercando anch’egli di
fuggire nel giugno dell’anno seguente insieme a un maiorchino di nome Gabriel, mentre
cercavano di raggiungere via terra Orano, furono presi dai mori dell’interno e ricondotti ad
Algeri; il Barbarossa fece punire Gabriel con duecento colpi di bastone e, quanto al
traditore Francisco, lo fece gettare a mare nei pressi del Peñon con una pesante pietra
attaccata al collo. Negli ultimi giorni di marzo del 1535, cioè circa quattro mesi prima che
Carlo V conquistasse la Goletta e Tunisi, lo stesso Barbarossa fece uccidere di strascino a
coda di cavallo e poi abbandonare sul letame, a disposizione dei denti dei cani randagi, un
gentiluomo italiano di nome Luigi Pazienza, catturato in Barbaria mentre si recava come
ambasciatore di Carlo V dallo spodestato re di Tunisi Hassan, rifugiatosi a Karuan, e fece
impalare la sua guida, un maltese che conosceva bene quel paese e la lingua barbaresca:
... Luigi Pazienza poteva avere cinquant’anni, cominciava ad incanutire, era alto, ben fatto e
proporzionato, (ma) assai pingue, era di carnagione bianca e aveva i capelli neri. (Ib.)
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Nello stesso periodo, a quanto scriveva invece il vescovo di Nocera Paolo Giovio (1483-
1552), Kheir-ed-Din fece anche uccidere il genovese Luigi Procenda, da lui catturato nei
pressi di Mahammet (oggi Amamet), perché non gli aveva confessato la verità sui
preparativi di guerra dell’imperatore. Il de Haedo, il quale riporta la predetta descrizione del
Pazienza, fu, come sappiamo, lungamente prigioniero ad Algeri, ma in epoca molto più
tarda, e pertanto doveva essere non solo conoscitore della lingua barbaresca, ma anche
certamente autorizzato a consultare giornali o documenti di quella città. Anche nel secolo
successivo le terribili crudeltà esercitate contro i cristiani continuarono e lo attestava il
frate trinitario francese Lucien Heraut, il quale nel 1643 riscattò e riportò in Francia 50 dei
più di duemila francesi che erano tenuti schiavi ad Algeri, valutandosi allora a più di 30mila
il numero dei cristiani tenuti in cattività in quel regno barbaresco; ma si trattava in effetti di
50 soggetti provvisti quasi tutti di buon cognome, quindi sicuramente di gente che era stata
in grado di pagarsi da sé il proprio riscatto. L’Hearut indirizzava dunque una supplica
stampata all’allora regina reggente Anna d’Asburgo perché s’intervenisse anche per altri
prigionieri e minuziosamente descriveva tutti i martirii che altrimenti li attendevano,
iniziandone l’elenco con gli abusi sessuali secondo e contro natura a cui erano sottoposti i
più giovani:
…e quelli che resistono alle loro bestiali passioni sono scorticati e straziati a colpi di
bastone, appendendoli per i piedi, tutti nudi, ad un palco, strappando loro le unghie dalle
dita, bruciando loro la pianta dei piedi con delle torce ardenti, di tal maniera che molto
soventemente essi muoiono in tali tormenti. Ad altri più anziani fanno portare delle catene
di più di cento libbre di peso, le quali essi trascinano miserabilmente dovunque siano
costretti ad andare e tale pesante fardello è d’ordinario per i ricchi dai quali s’aspettano un
buon riscatto, ed oltre tutto ciò, se si viene a mancare al minino suono di fischietto od al
minimo segnale che facciano perché così s’eseguano i loro comandi, veniamo per
l’ordinario bastonati sulla pianta dei piedi, il che è una pena intollerabile e così grande che
ci sono molto sovente di quelli che ne muoiono; e, quando hanno condannato una persona
a seicento colpi di bastone , se quella viene a morirne prima che tal numero sia stato
raggiunto, non smettono per nulla di continuare a dare quelli che mancano sul corpo del
morto!
Gli impalamenti sono ordinari e le crocifissioni si praticano ancora tra questi maledetti
barbari e nel seguente modo: attaccano il povero paziente su una specie di scala e a quella
gli inchiodano i due piedi e le due mani, poi sollevano e appoggiano la detta scala contro
una muraglia in qualche luogo pubblico od alle porte ed entrate delle città per la più grande
vergogna del nome cristiano e rimangono così a volte anche tre o quattro giorni a languire
senza che sia consentito ad alcuno di dar loro un sollievo. Altri sono scorticati tutti da vivi e
una quantità bruciati a fuoco lento, specialmente quelli che bestemmiano o disprezzano il
loro falso profeta Manometto; e alla minima scusa e senza altra forma di processo vengono
trascinati a tal crudele supplizio e colà attaccati con una catena tutti nudi ad un palo e viene
disposto tutt’attorno a loro un fuoco lento circolare di circa 25 piedi di diametro, al fine di
farli arrostire a piacimento e allo stesso tempo di servir loro da passatempo; altri vengono
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agganciati a delle punte di ferro poste alle torri od alle porte delle città, dove molto di
sovente languiscono per lunghissimo tempo.
Noi vediamo sovente nostri compatrioti morire di fame dentro quattro mura od in certi buchi
che fanno a terra, dove li mettono vivi, e periscono così miserabilmente. Recentemente s’è
praticato un nuovo genere di tormento ai danni d’un giovane dell’Arcivescovado di Rouen
per costringerlo ad abbandonare Dio e la nostra santa Religione; egli fu dunque tenuto
incatenato ad un cavallo in campagna per il tempo di 25 giorni alla mercé del freddo e del
caldo e d’una quantità di altri disagi, i quali non potendo più sopportare, venne meno alla
nostra santa legge… essi credono di guadagnarsi indulgenze e rendere dei grandi sacrifici
a Manometto quando tormentano e affliggono qualche cristiano. (Ib.)
I prigionieri dall’apparenza più delicata, reputati per questo evidentemente ben abituati
e quindi più ricchi, erano trattati più duramente degli altri per costringerli così a pagare un
esagerato riscatto per se stessi o per qualche loro parente che fosse anch’egli prigioniero;
al rogo si condannavano infine anche coloro che avessero abiurato la religione
maomettana. Ma non bisogna credere che i cristiani non avessero - e soprattutto non
avessero avuto nel passato - in questo campo le loro colpe; nel Medioevo nelle guerre che
avvenivano tra le potenze cristiane sia di ponente che di levante (l. tam citra quam ultra
mare; sp. así de aquende como de allende del mar), specie in quelle marittime, di solito più
feroci di quelle terrestri, era prassi comune mutilare i prigionieri del naso, delle orecchie,
della mano destra o d’accecarli, se non era gente in grado di pagarsi un congruo riscatto;
questo perché la religione cristiana vietava di uccidere i prigionieri di guerra della stessa
fede e allora appunto, quando erano troppo poveri perché se ne potesse ottenere un buon
riscatto, si rimandavano al loro paese dopo averli accecati in massa perché non potessero
prendere più le armi contro i vincitori e ciò si faceva particolarmente ai balestrieri genovesi
catturati, perché costoro erano tradizionalmente mercenari e prima o poi ce li si sarebbe
certamente ritrovati di fronte su un campo di battaglia. I prigionieri maomettani invece, se
non da riscatto, s’impiccavano comunemente e questo era però sempre meglio
dell’impalamento o del rogo con cui i turco-barbareschi sopprimevano quelli cristiani; altro
motivo poi, questo d’onore, per cui non si sarebbero dovuti uccidere i prigionieri era
quando s’arrendevano, ma i veneziani, poiché non avevano interesse a far molti schiavi
maomettani dal momento che le loro galere era spinte quasi esclusivamente da
buonavoglia, pur d’eliminare però i pirati dalmatini e i corsari turco-barbareschi che
infestavano l’Adriatico e l’arcipelago greco, quando questi s’arrendevano, li assolvevano sì
per l’azione di pirateria o di corso durante la quale erano stati sorpresi, ma l’impiccavano
per quelle commesse in tempi precedenti, e, se proprio fossero stati nuovi a quel tipo di
crimine, allora li facevano schiavi dopo averli però ben torturati, perché così in futuro, se
anche fossero riusciti a fuggire, avrebbero avuto timore di tornare a far guerra a Venezia;
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del resto, ancora sino alla fine del Medioevo, i soldati veneziani erano stati per
consuetudine premiati con un ducato d’argento per ogni testa di turco consegnata.
Per quanto riguarda il supplizio dell’affissione alla croce (prl. gabalum), non bisogna
credere che sia stata una truce invenzione degli antichi romani, i quali invece l’appresero a
loro spese da popoli barbari, come leggiamo in una citazione del già ricordato Marco
Terenzio Varrone, anche questa fatta da Nonio Marcello:
… (siamo peggiori) noi barbari che affiggiamo romani innocenti alla croce o voi non barbari
che assolvete i rei? (nos barbari, quod innocentes ín gabalum suffigimus Romanos, vos
non barbari, qui noxios absolvitis ? Cit. P. 166.)
In effetti i romani avevano qualcosa di simile, uno strumento di legno detto numella, al
quale si legavano i condannati alla tortura o alla percussione con le verghe, essendovi
trattenuti con piedi, mani e collo inceppati; la differenza era che, mentre a questa
generalmente si sopravviveva, perché usata solo ai fini di torura, l’affissione alla croce era
in una condanna a morte, in quanto vi si lasciava così il reo crucifisso finché non fosse
morto; i ceppi per i piedi si chiamavano pedicae, quelli per le mani manicae e quello per il
collo boja (gr. ϰλοιός, ‘collare’), quest’ultimo un nome forse collegato a un suo uso anche
strangolante, come infatti poi vedremo nella garrota spagnola; ciò perché s’usava in Italia,
in mancanza di esecutori di giustizia (l. lictores; sp. verdugos, dal l. virga), di far eseguire le
condanne a morte al carnefice (l. carnufex, carnifex) cioè a colui che fosse addetto a
uccidere con la scure e a macellare i buoi divenuti troppo vecchi per lavorare e i tori per
procreare, e ‘carnefice’ si diceva appunto vulgo ‘boja’ [dal gr. (ϰρέα) βόεια, ‘carni bovine’],
prendendosi dunque a chiamare boia anche l’esecutore di giustizia (Sebastián de
Covarrubias Orozco, Tesoro de la lengua castellana o española etc. P. 144. Madrid, 1611;
Real Academia Española, Diccionario de la lengua castellana etc. T.I. P. 665. Madrid, 1726).
Tornando ora all’argomento della notorietà dei corsari barbareschi, aggiungeremo che il
rinnegato calabrese Arzan, che nel settembre del 1616, trovandosi al comando d’una
squadra di ben 12 vascelli sottili, fu ucciso in battaglia da galere maltesi e napoletane, il
rinnegato olandese de Veenboer (vulgo Soliman Rais), comandante di una squadra
barbaresca che scorreva il Mediterraneo prima del 1620 e della quale facevano parte altri
due raïs suoi compatrioti e cioè Meinart Dircksen e Jan Janssoon (Murad Rais; Morat, in
turco) di Haarlem; quest’ultimo si emancipò poi dal de Veenboer e si fece un nome sia ad
Algeri sia soprattutto a Salé, repubblica corsara marocchina della quale fu uno dei
fondatori; di lui, temutissimo scorridore delle coste atlantiche, si ricorda principalmente il
famoso sacco di Baltimore in Irlanda, avvenuto nel 1631. C’è ancora da rammentare il già
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menzionato rinnegato ligure Osta Murat, figlio d’un marmoraro di Levanto di nome
Francesco di Rio, e che non è improbabile si chiamasse Costantino di Rio; costui dal 1615
al 1637 fu generale della squadra di Tunisi, la quale aveva allora base a Biserta, non avendo
infatti Tunisi ancora un porto degno di questo nome, e poi dall’inizio del 1638 al giugno
1640, mese in cui morì, fu addirittura reggente della stessa Tunisi; insomma fu un Ulugh Alì
in piccolo, ma il primo evento del quale egli sia ricordato partecipe fu la sonora sconfitta
ricevuta da lui e dalla sua squadra di Biserta nella primavera del 1624 da parte di 10 galere
siciliane comandate dal marchese di Santa Cruz e da quattro di Malta guidate dal
napoletano Niccolò della Marna; tra i corsari fatti prigionieri dai cristiani in quello scontro
dopo sei ore d’intenso combattimento, vi fu Alì Raïs (al secolo l’inglese Sampson Denball di
Dartmouth), comandante di tre velieri, il quale aveva tentato inutilmente di far saltare la sua
santabarbara per non farsi catturare; costui, condannato al remo, morirà l’anno successivo.
Osta Morat, scampato alla disfatta, si rifece subito qualche mese dopo con il sacco di
Perasto, colonia veneziana posta in fondo alle Bocche di Cattaro, e la cattura di 450 dei suoi
abitanti, azione che condusse alla testa di sette galeotte tunisine e insieme a sei algerine di
Alì Mehemi, e poi il 26 giugno 1625 al largo di Siracusa sconfisse le cinque galere di Malta,
delle quali due restarono prese. Il predetto inglese Sampson Denball aveva cominciato le
sue attività corsare navigando nella squadriglia barbaresca comandata dal suo
connazionale John Ward, di cui poi diremo, e con costui in seguito lavorerà
all’ammodernamento della squadra tunisina, divenendo infine vice-capitano generale dei
bertoni o galeoni di Youssuf Bey (o Youssef Dey), il governatore turco di Tunisi subentrato
nel 1610 all’assassinato Kara Osman, questo forse a sua volta successore diretto del già
ricordato Mustafa Pasha, oscuro rinnegato trapanese, il quale, come racconta il de Lisdam
(cit.), nel 1607 era nientedimeno che roy appunto di Tunisi, carica però dalla quale fu
sollevato nell’aprile di quello stesso anno, quando appunto, richiamato a Costantinopoli,
lasciò quella città due galere di Biserta; il Denball partecipò con 6 velieri tunisini alla
battaglia che nel marzo del 1621 avvenne al largo di Malta tra corsari turco-barbareschi e
cristiani; da una parte c’erano dunque i predetti velieri di Alì Rais, 12 galere del corsaro
turco Alì Rostan, 4 galeotte e 3 tartane di Mohammed Escabrig, altro corsaro turco, tutti
disposti a mezza luna com’era loro costume; di fronte avevano una formazione uscita da La
Valletta così disposta: al centro un galeone e una nave fiamminga, a destra 6 galere
toscane, a sinistra due di Sicilia, 2 di Carlo d’Oria e 3 maltesi. La battaglia fu
sanguinosissima per ambedue i contendenti, ma turco-barbareschi ebbero le perdite
maggiori, restando catturati un vascello del Denball, una galeotta e due tartane
983
dell’Escabrig, uccisi più di 300 turco-barbareschi ed 84 cristiani; due anni più tardi il
predetto Carlo d’Oria inflisse ulteriori perdite al naviglio nemico entrando con le sue galere
nel porto di Tunisi, mentre il Denball morirà prigione nel 1625, come abbiamo appena detto.
Frattanto nel settembre del predetto 1624 11 galere napoletane comandate da Diego
Pimentel e da Alessandro da Filicaia, incontratesi a Porto Ferraio con la squadra toscana di
Giulio Barbolani da Montauto, la quale comprendeva due galee grosse e quattro sottili,
invitarono questo generale a unirsi a loro per andare a combattere il corsaro Hasan Agà, il
quale, al comando d’una flottiglia di quattro velieri grandi e due petacchi, infestava allora le
acque sarde. Ai primi d’ottobre i vascelli nemici furono avvistati all’isola di S. Pietro, colà
fermatisi a causa della bonaccia, e dopo 10 ore di sanguinosissimo combattimento un
veliero fu affondato, altri due e i due petacchi furono catturati, salvandosi con la fuga il solo
veliero ammiraglio sul quale era imbarcato Hasan Agà e dal quale in precedenza s’era
dovuta disimpegnare la Capitana di Napoli con il troncare a colpi d’ascia il suo sperone
rimasto incastrato nel fianco di quel legno nemico; vi restarono inoltre uccisi o annegati 400
turco-barbareschi, 200 furono catturati con il raís in seconda, e 60 cristiani furono liberati; i
cristiani vi persero 60 uomini incluso lo stesso Pimentel, presto colpito da un’archibugiata
al petto, ed ebbero 200 feriti. Il predetto Barbolani si aquisterà poi molta fama nel giugno del
1627, quando, trovandosi alla testa della sua predetta squadra di 6 galere, forzerà i
Dardanelli e sotto Capo Giannizzero catturerà l’intera caravana d’Alessandria, in
quell’occasione sfortunatamente formata da 22 vascelli tutti privi di gente armata.
Ci saranno poi anche il veneziano rinnegato Alì Celebi Piccinino, genero del suddetto Osta
Morat e comandante della squadra d’Algeri, il quale nel 1638 devasterà le coste calabresi e
quelle pugliesi; i più tardi Hadjj-Mehmed e il già nominato rinnegato corso Hadji Hussein
detto Hassan Mezzomorto, il quale fu dey d’Algeri e poi comandante generale dell’armata
turca; Hadji Amin, corsaro algerino detto Bruciacristiani, il quale imperverserà nel periodo
1644-1655; poi ancora Sulaiman Rais, del quale abbiamo ricordato la morte in
combattimento, Arabagi, Cacchi detto Il diavolo, Dali-Mami, gl’inglesi Éduard e Uvert, il
marocchino raís Candil, il quale scorrerà il Mediterraneo soprattutto nel 1694, e infine,
nell’Ottocento, Hamidou. Per quanto riguarda infine i corsari di parte cristiana, stranamente
nessuno di quelli del Cinquecento, pur numerosissimi com’è ovvio, nessuno d’essi ha
raggiunto notorietà storica; nel Seicento invece si distingueranno il già ricordato
napoletano Carini, il quale cadrà nel 1663 combattendo contro i barbareschi nel canale
d’Otranto, e il maltese Onorato, il quale dette poi origine a una genia di armatori
sviluppatasi soprattutto nel Napoletano.
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…nel discorso di detta isola (cioè nel trascorrere dalla detta Malta), non avendo fatto caccia
– lo che è impossibile per esservi pratica (‘traffici mercantili’) di gran vascelli (turco-
barbareschi), avendo mancamento d’acqua, potrà lanzarse (‘far rotta’) alla volta dell’isola di
Candia… (Discorso circa il modo et maniera ha da tenere un Capitano etc. Cit.)
A 190 miglia marine verso nord la galera avrebbe trovato la piccola isola di Gozo, posta a 20
miglia a sud di Candia, e, approdandovi di notte per non farsi scorgere da quella maggiore
isola, la sua gente avrebbe potuto riposarcisi qualche giorno, non essendo infatti i vascelli
di guardia veneziani né quelli turchi soliti incrociare in quei paraggi:
…ed, essendo in detto isolotto con guardie (ossia con vedette proprie ben poste sulla riva),
sarrà impossibile che ogni giorno non scoprino deli vascelli quari (‘quadri’) e anco di
mercanzie che vengono de Alessandria e della costa del Cairo, dove sogliono esser delle
maggior mercanzie (che) sono al mondo, come spezierie, drappi di seta e, se per sorte son
di ritorno, portano il danaro contanti per far compra, perché (di) tutti li vascelli di ponente
per quel canale è il lor viaggio… (Ib.)
E si trattava di navi, caramussali, germe, vascelli cioè che, avendo venduto le loro merci
d’oriente nei paesi di ponente, tornavano con almeno 50mila scudi ciascuno per andare a
985
ricaricarne sulla costa egiziana, senza contare quanto avrebbe reso la gente di recatto, cioè
i mercanti turchi e giudei che avrebbe trovato a bordo di quelli e avrebbe poi messo a
riscatto; infatti gli ebrei erano da sempre considerati in Europa, oltre che nemici della fede
cristiana come i turchi, anche esseri spregevoli, affamatori dei popoli per via dell’usura che,
come abbiamo già ricordato, esercitavano come loro principale attività (La perfidia dei
turchi e degli ebrei…, scriveva il Digby nel suo giornale di bordo) e quindi le loro persone e i
loro beni erano sempre presi dai ponentini, specie dai cavalieri di Malta che più scorrevano
i mari del Levante, come bottino di guerra e come sequestro di merci di contrabbando e ciò
dovunque fossero stati trovati, anche, come spesso succedeva, a bordo di mercantili
veneziani, perché la Serenissima era con i giudei molto più tollerante e non ne ostacolava i
traffici, forse per il motivo che, potendo essi vivere e lavorare tranquillamente nell’impero
ottomano, se li trovava spesso come controparte commerciale a Costantinopoli; queste
ottime relazioni dei giudei con la Porta Ottomana continueranno anche nel futuro e infatti
nel Settecento una delle principali attività dei 12mila ebrei residenti a Livorno - su una
popolazione complessiva di 40mila persone (G. Guarnieri. Cit.) - sarà quella di mediatori del
riscatto degli schiavi, tanto cristiani quanto maomettani; ancora oggi i mercanti ebrei sono
in Turchia molto attivi. L’unica difficoltà che i predetti vascelli islamici presentavano era che
usavano vendere cara la pelle in ogni occasione:
…advertendo (che), per minimo (che) sia il vascello, tutti combatteno e sogliono usar delle
stratagemme… (Ib.)
In caso però il capitano di galera corsaro si fosse trovato di fronte a una resistenza troppo
rischiosa, allora non avrebbe dovuto far altro che allargarsi dalla preda, caricare il suo
grosso cannone di corsia non più a catene e scaglie, bensì a palla e con un ben aggiustato
tiro a fior d’acqua metterla a fondo, accontentandosi così della predetta gente da riscatto, la
quale avrebbe ovviamente subito salvato dal naufragio. Se poi sino a questo momento il
capitano fosse stato tanto sfortunato da non far alcun guadagno (‘preda’) - ma si trattava in
effetti d’una molto sfortunata eventualità - lo che (è) impossibile, allora doveva lasciare le
zone ‘facili’ e cominciare ad avventurarsi (per esser il viaggio di molto pericolo), doveva
cioè andare a circumnavigare il Capo di Salamone, situato evidentemente all’estremità sud-
occidentale dell’isola di Candia, circumnavigare l’estremità occidentale della grande isola,
passare poi alla sua costa settentrionale e di lì poteva eventualmente, se voleva, proseguire
per tutto il mare del Levante.
Detto del corso di Levante, diremo ora di quello di Barbaria o di Ponente. Mentre per il
primo si faceva il necessario apparato nella città di Messina, nel secondo si usava come
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base di partenza Palermo e la partenza da questo porto doveva avvenire alle ore due della
notte, in modo da trovarsi alla diana, cioè all’alba, al Capo di S.Vito, dove bisognava però
fare attenzione perché molto spesso vi sostavano vascelli corsari nemici; dopo essersi
trattenuti tutto il giorno al detto capo, bisognava ripartire di nuovo per Trapani, ma ancora
alle due di notte per non esser visti dalle Égadi, isole in cui sempre si trovavano vascelli
nemici; poi si lasciava il porto di Trapani e, dapprima attraverso il canale dell’isola di
Favognana o Favigliana (oggi Favignana), si andava in rotta diretta d’80 miglia a Capo Bon
di Barbaria, località oggi in Tunisia. Disponendosi d’una decina di galere, si poteva andar a
saccheggiare Monastir, città di circa 500 fuochi, ossia famiglie, il che significava che
quell’abitato disponeva di circa 1200 uomini potenziali combattenti, senza contare la
guarnigione turca; oppure, avendo 20 galere, Susa, porto per dodici galee per ogni tempo,
lo definisce il Crescenzio, e con popolazione doppia della precedente, ma con muraglie
deboli; bisognava in ambedue i casi arrivarci di notte e sbarcare un miglio a ponente
dell’abitato, per evitare le secche che proteggevano quei porti, e in tal maniera ci si sarebbe
trovati alla diana con la gente armata sbarcata con gli schifi e un’imboscata preparata agli
abitanti che tentassero di salvarsi nel retroterra; inoltre si trattava di luoghi ricchi di pozzi
d’acqua potabile. Nel corseggiare sulle coste di Barbaria si seguivano ovviamente anche
altri percorsi e si andava per esempio a ovest sino a Gibilterra, come abbiamo detto fecero
le galere toscane nel 1567, ma quello sopra descritto era considerato il più produttivo,
evidentemente anche per i vascelli nemici che si potevano colà catturare; se s’incontravano
vascelli grossi erano per lo più d’Algeri, se si trattava invece di brigantini molto
probabilmente venivano da Susa e Monastir, città occupate da Torgud intorno al 1549.
Questa guerra di corso, specie quella condotta nel levante, diventerà però sempre più
pericolosa per i cristiani; infatti già nel 1559 il Soriano così scriveva nella sua già più volte
citata relazione sui domini di Spagna:
… E perché non si può corseggiare la riviera di Barberia come già si soleva per la gran
guardia che viene fatta da’ turchi e la gran difficoltà di poter trovare uomini da remo, però
(‘perciò’) spesse volte occorre che le galere sono zoppe né possono uscire alle imprese,
onde, se bene Sua Maestà ha sessanta galere in numero, non se ne può poi valere di più di
quarantacinque o cinquanta… (E. Albéri. Cit. S. I, v. III, p. 368.)
Questa difficoltà diventerà sempre maggiore e infatti in una anonima relazione sullo stato
del regno di Sicilia dell’inizio del Seicento si raccomandava, a causa d’alcune sventure così
capitate, di dare licenze di corso con molta parsimonia e solo a vascelli muy buenos y
armados de muy buena gente, eccezion fatta per quelli mandati a prender lingua e per i
bergantini trapanesi, vascelletti come sappiamo, ma questi particolarmente esperti ed
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esercitati nel contrasto ai corsari barbareschi che infestavano le Ègadi, e ai quali quindi si
dava talvolta licenza d’arrivare sino in Barbaria [Ristretto delle forze interne con le quali il
Regno di Sicilia si può da per sé difendere in tempo di guerra (1611-1616). S.N.S.P., Ms.
XXII.C.7]. Tra i corsari cristiani più audaci e temuti dai barbareschi il de Haedo ricorda il
castigliano Juan Cañete, il quale scorreva le coste nord-africane al comando d’un
bergantino di 14 banchi per lato di sua proprietà; si diceva che le madri algerine, per far star
buoni i bambini, minacciassero loro l’arrivo di Cañete, così come a Napoli si poteva
minacciarli invece di quello di un mammone (da itm. maimone, ossia ‘scimmione’); egli, il
quale aveva base a Maiorca, nella notte tra il 26 e il 27 maggio del 1550 fu catturato da due
galeotte del rinnegato napoletano Mami raís mentre tentava di penetrare nel porto d’Algeri
per incendiare la squadra algerina colà ormeggiata; egli, sebbene Carlo V avesse offerto
una grossa somma per il suo riscatto, resterà ad Algeri, schiavo del re Hassan Pachà, fino
all’inizio del 1560, quando, essendo stato in precedenza accusato di essere tra gli
organizzatori d’un progetto di rivolta degli schiavi cristiani in quella città, allora circa
16mila, la metà dei quali soldati spagnoli fatti prigionieri nella battaglia di Mostaganem
l’anno precedente, sarà crudelmente decapitato dal già menzionato Caur Alì:
… Cañete era uomo di circa sessant’anni, di media statura, molto bruno, la sua barba era
bianca, era poco carnoso, ma robusto. (D. de Haedo. Cit.).
Un altro corsaro spagnolo, Francisco de Soto, fu catturato con il suo brigantino nelle acque
di Capo Ténès, a circa 60 miglia d’allora a ponente d’Algeri, all’inizio del dicembre 1562 ed,
essendo re allora di nuovo il suddetto Hassan Pachà, fu portato fuori della porta di Bab-el-
Ued, interrato colà fino alla vita e con le mani legate dietro la schiena, ucciso per
lapidazione e poi bruciato:
… Francisco de Soto aveva circa 40 anni, aveva la barba nera, era ben conformato, snello,
bell’uomo e si distingueva per le sue maniere e per la sua bella presenza. (Ib.)
Nell’estate del 1563 ancora un corsaro cristiano, il maiorchino Jayme Pujol, fu preso con il
suo brigantino dai barbareschi nelle acque di Maiorca e, portato ad Algeri, fu poi utilizzato
come mastro-velaio; ma, nel marzo dell’anno seguente fu poi ucciso per disseccamento
insieme al catalano Garao, un frate dell’ordine di N.S. del Carmelo di circa sessant’anni, il
quale era stato trovato con altri due religiosi a bordo d’una galera spagnola catturata dai
barbareschi mentre navigava da Barcellona a Maiorca, episodio del quale non abbiamo
reperito altre notizie. Quest’atroce esecuzione, autorizzata anch’essa dal predetto Hassan
Pachà, è così narrata dal de Haedo:
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… I rinnegati comandarono subito che si trasportasse una grande quantità di legno secco
alla marina… Essi ordinarono che all’estremità del molo e presso la torre dove si trova la
lanterna si conficcassero in due grandi fossi due ferri di galera, cioè due ancore, con i fusti
verso l’alto, come due colonne, alle quali si dovevano legare i martiri… Allorché furono tutti
e due legati al loro patibolo, li si contornò di legno e di sterpi in maniera che fossero
raggiunti dal fuoco, ma non immediatamente bruciati, e che perissero così a fuoco lento.
Infatti, dacché il fuoco fu acceso, le fiamme circondarono i disgraziati e li disseccarono
senza consumarli… Non contenti, i crudeli rinnegati portavano delle brocche d’acqua e
aspergevano dalla testa ai piedi i martiri disseccati dal fuoco. Quell’acqua, lungi dal
rinfrescarli, aumentava il loro tormento, perché subito i carnefici attizzavano nuovamente il
fuoco… (Ib.)
A differenza del Garao, il quale pertanto morì più presto e fu poi incenerito, il Pujol era stato
legato a una brevissima corda che gli permetteva di girare attorno al suo patibolo nel vano
tentativo di sottrarsi alle fiamme, in modo cioè da divertire la feroce folla di baldis, ossia di
cittadini d’Algeri, che, come al solito, assisteva a quell’orrore ingiuriando i condannati e
sbellicandosi dalle risa. Fu poi finito a pietrate e anche lui incenerito:
… Il benedetto Jayme Pujol doveva avere 55 anni; egli era piccolo, robusto senz’essere
obeso, pressoché canuto e ben proporzionato di corpo. (Ib.)
Anche corsaro – e molto temuto dai barbareschi – era Juan Gascón, il quale, al comando di
due bergantini, all’inizio d’ottobre del 1567 entrò nottetempo nel porto d’Algeri per andare a
metter fuoco ai numerosi vascelli corsari che colà si trovavano all’ormeggio; ma fu
scoperto dalle guardie e l’impresa non riuscì, anzi il bergantino su cui si trovava fu
catturato ed egli fu condannato a essere ‘agganciato’ con il tallone sinistro alla traversa alta
d’un patibolo e a restarvi così appeso finché morte non sopravvenisse, supplizio che
sopportò però solo per circa un’ora perché ne fu salvato per interessamento d’alcuni
corsari algerini; poi, un paio di giorni dopo, fu riportato al patibolo e stavolta giustiziato per
‘agganciamento’, nella consuetudinaria maniera che abbiamo più sopra già descritto, cioè,
fatto precipitare su un grosso gancio, questo gli attraversò il ventre ed egli ne morì poco
dopo; il suo cadavere fu poi lasciato in quella posizione per parecchi giorni fino a restarne
disfatto e consunto dalle intemperie e dagli uccelli da preda:
… Al momento della sua morte Juan Gascón poteva avere circa trentott’anni, era d’alta
statura e ben proporzionato, la sua carnagione era più bianca che bruna, portava una barba
completa, nera e folta; era di ragionevole pinguedine. (Ib.)
Il 22 ottobre dell’anno seguente, essendo ora e solo da circa un mese governatore d’Algeri
Uluch-Alì, fu per ordine di questi ucciso alla stessa predetta maniera un giovane rinnegato
italiano di circa 22 anni, del quale il de Haedo dice di non esser riuscito a sapere il nome;
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(Sosa:) … e i corsari, tutti vergognosi e mogi, per un insuccesso che non aveva precedenti,
morivano quasi tutti di fame ad Algeri, particolarmente i ‘reis’, i marinai e i soldati imbarcati,
per cui dovettero quasi subito ripartire (il 19 settembre) alla ricerca di rapine che loro
permettessero di vivere. Voi lo sapete, tutti i ‘reis’ non dovettero forse indebitarsi e ricorrere
disperati agli usurai?
(Antonio:) Posso certamente attestare che il mio padrone Morad Reis, il pidocchioso
spagnolo, e altri dei suoi amici fecero altrettanto. Non si può (certo) dire né a me né a
chiunque conosca questo paese che tutti gli abitanti d’Algeri e una gran parte dei mori,
possano, senza dedicarsi alla rapina e al furto, nutrirsi o vivere due (soli) mesi, dal
momento che non hanno alcun altro modo di procurarsi di che mangiare. (Ib.)
Per il de Haedo, come facesse una città così ricca a rischiare subito la carestia in mancanza
anche di una sola stagione di guerra di corso era fenomeno inspiegabile (chissà come fa il
diavolo a toglier loro in un’ora ciò che guadagnano o rubano nel corso d’un anno!) e così
ricorda la grande penuria di cibo del 1579:
Durante il mese d’Agosto 1579 il pane mancò talmente, così come tutti gli altri viveri, nella
città d’Algeri e nel suo territorio che gli abitanti morivano di fame e noi ne vedevamo cadere
990
d’inedia da trenta a quaranta al giorno e anche di più… A tal carestia generale s’aggiunse la
notizia che il re d’Algeri (il rinnegato veneziano Hassan Pasha) e i turchi erano in
grand’ambascia perché s’era appreso che si stava formando una grande squadra riunendo
vascelli in tutti i porti della Spagna: Gibilterra, Siviglia, Porto di Santa Maria e Cadice. In
ogni parte si facevano approvvigionamenti e un gran numero di galere e di soldati stavano
arrivando dall’Italia… (Ib.)
La ragione di quanto meravigliava il de Haedo era che, mentre Venezia, la quale, pur
vivendo come Algeri dei suoi proventi marittimi (ma con la gran differenza che si trattava di
traffici mercantili e non di rapine!), accumulava ricchezza ben reinvestendo la maggior parte
di detti proventi, la città barbaresca non reinvestiva nulla dei beni che i suoi vascelli le
procuravano, ma solo li consumava e sperperava e quindi, esaurite le sue scorte, per
piccole o grandi che fossero state, poteva arrivare a rischiare anche la fame.
Per ricordare ora solo qualche devastazione più importante compiuta dai turco-barbareschi,
diremo che nel 1553 l’armata di Sinan e Torgud, partita da Gallipoli all’inizio di maggio,
aggredì e devastò le marine di Puglia, specie Vieste, ciò facendo sempre anche
nell'interesse della Francia, perché in tal maniera costringeva la Spagna a divertire parte del
suo impegno militare e finanziario anti-francese alla salvaguardia dei suoi possedimenti
italiani e africani e non a caso tra le sue 150 vele c’erano anche quelle di 20 galere francesi,
essendone allora capitano generale il più volte nominato Antoin Escalin; e a pensare che
Torgud stesso, corsaro tanto esiziale per la cristianità, era stato all'inizio della sua
sanguinosa carriera in potere di Giannettino d'Oria, figlio del cugino d’Andrea Tommaso e
da questo zio adottato, padre inoltre di quel Gioan Andrea che, nato a Genova nel 1539 e
anch’esso adottato dal principe di Melfi nel 1547, sarà tra i vincitori di Lepanto. Infatti nella
primavera del 1540 Torgud, dopo aver già di così buon tempo devastato l’isola di Capraia e
fatto ottimo bottino, compresa una grossa carraca genovese detta la nave dei Ferrari,
probabilmente perché apparteneva a quella famiglia, si trovava con 11 vascelli nella baia di
Girolata in Corsica, impegnato a spartirsi il bottino con i suoi compagni; poiché Andrea
d’Oria si trovava allora in Sicilia, era al comando della squadra dei particolari genovesi
Giannettino, il quale inviò contro i barbareschi il suo luogotenente Giorgio d’Oria con sei
galere e una fregata, ma Torgud credé di trovarsi di fronte le meno temibili galere d’Antonio
d’Oria e, lasciando due dei suoi vascelli a guardia del ricco bottino, uscì in mare con i nove
altri, tra cui le galere ex-veneziane Bibiena e Moceniga, prese ai lagunari due anni prima in
occasione della battaglia della Prévesa, ma giunse in aiuto di Giorgio lo stesso Giannettino
con altre galere e Dragut allora fugge davanti al numero superiore del nemico; in seguito,
vedendo però che Giannettino gli dava la caccia con soli nove vascelli, numero cioè pari a
quello dei suoi, si voltò e gli dette battaglia, ma mal gliene incolse perché, anche se non
991
sappiamo come, fu sonoramente sconfitto e i suoi vascelli tutti presi, riuscendo a sfuggire
solo una fusta e la galera di Mami Rais, il noto corsaro di Monastir al quale abbiamo più
sopra già accennato e che era stato schiavo – poi riscattato – d’Antonio d’Oria; più tardi il
conte d’Anguillara, le cui galere s’erano ultimamente poste agli ordini di Giannettino, prese
anche i due vascelli che erano stati lasciati a guardia del bottino, contando alla fine i
barbareschi grandissime perdite e poche invece i cristiani; il 22 giugno Giannettino
rientrava trionfalmente nel porto di Genova. Torgud, messo alla catena e fustigato come
tutti gli altri schiavi, offrì 15mila ducati per il suo riscatto, ma la sua offerta non fu allora
accettata; fra’ Parisot, futuro gran maestro di Malta, raccontò al de Bourdeilles d’averlo
visto incatenato al remo e aver scambiato con lui anche qualche parola; dopo tre anni di
prigionia, fu invece accettato il riscatto non eccezionale offerto dal Barbarossa, la cui
grande armata, come abbiamo già ricordato, era allora troppo vicina a Genova perché gli si
potesse opporre un rifiuto, e così la liberazione di Torgud causerà altri innumerevoli lutti e
rovine ai poveri naviganti e rivieraschi cristiani; infatti già nel 1545 costui, al comando di 15
vascelli tra galere o galeotte e fuste, devasterà la riviera ligure di Ponente, specialmente il 5
luglio Capraia e l’8 Monterosso e Cornilia, e, avendone catturato tanti abitanti, si ormeggiò
poi nel Golfo della Spezia ad alzare la bandiera bianca del riscatto e a ricevere la miriade di
barche dei civili che venivano da quei martoriati paesi a trattare con lui il rilascio dei
prigionieri. Tornando però ora al 1553, diremo che, dopo aver dannificato la Puglia, i franco-
turco-barbareschi passarono a infestare la bassa Calabria e la Sicilia meridionale,
sbarcando a Catania, a Pozzallo, prendendo il castello di Licata difeso da 30 soldati
spagnoli, e venendo però poi sconfitti a terra in un’imboscata organizzata dal capitano a
guerra di Modica Guillermo de Belvis; dopo essersi affacciati nel golfo di Napoli,
saccheggiarono e incendiarono l’Elba e, direttisi in seguito verso la Corsica, allora
possedimento genovese, sbarcarono 3mila uomini al comando del marchese de Termes e
presero Bastia senza incontrare alcuna resistenza; si diressero su Calvi, ma questa città,
difesa da tre compagnie di fanti spagnoli che colà si trovavano solo incidentalmente, poiché
si stavano trasferendo da Barcellona a Napoli, resistette alle fanterie franco-turche, mentre
s’arrendeva dopo solo qualche giorno d’assedio Antonio de Caneto, governatore del
castello di Bonifacio, benché questo maniero fosse considerato imprendibile; infine, vista la
stagione avanzata, i turchi se ne tornarono a Costantinopoli lasciando la Corsica in potere
dei francesi, continuando infatti a resistere per la repubblica di Genova la sola Calvi. L’anno
seguente la Spagna corse in soccorso dei genovesi con numerose truppe portate in Corsica
sia dalle galere di quella corona sia da quelle d’Andrea d’Oria, mentre i francesi erano
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aiutati dal fuoruscito corso Sampiero da Bastélica, il quale aveva molto seguito nell’isola, e
di nuovo dall’armata turca di Sinan e Torgud tornata dalla sua base di Prévesa a infestare il
Tirreno, specie la Puglia e la Corsica, sbarcando 3mila turchi addirittura a oppugnare Calvi
con una regolare batteria d’assedio; la città però resisterà ancora, anche se gli ottomani se
ne torneranno a Costantinopoli paghi di 7mila schiavi cristiani e di ricchissime prede. La
Corsica tornerà presto in potere di Genova, ma il conflitto, in parte coincidente con quello di
Siena (1552-1555), si comporrà anch’esso ufficialmente solo il 3 agosto 1559 con la pace di
Castel Cambrese; il Sampiero, riparato in Francia, tornò in seguito nell’isola, ma solo per
porsi presto di nuovo in contrasto con Genova; la causa fu stavolta un palazzo fortificato
che egli si faceva costruire, opera che i genovesi gl’ingiungevano non solo di non
proseguire, ma anche di demolire per quanto aveva già eretto; il Sampiero, pur volendo
obbedire, chiedeva un risarcimento delle spese sostenute, ma i genovesi non erano
ovviamente per nulla disposti a tirar fuori del danaro e quindi nel giugno del 1564 il corso,
valoroso e astuto combattente, sollevò nuovamente l’isola contro l’egemonia dei liguri,
guidando questa rivolta - con il tacito aiuto della Francia e di Costantinopoli, con alterne
vicende e molto sangue - sino alla sua morte, avvenuta nel gennaio del 1567; la resistenza
contro Genova sarà continuata dal figlio Alfonso ancora per breve tempo e infine nell’aprile
del susseguente 1568 l’isola ricadrà interamente in potere dei genovesi. Tornando però a
dire dell’offensiva franco-turca del 1553, c’è ancora da ricordare che lo Strozzi, il quale era
stato richiamato al suo servizio dal re di Francia in occasione della guerra di Siena (1552-
1555), ebbe incarico di dare inizio alla costruzione della fortezza di Port’Ercole nello Stato
dei Presidi di Toscana e poi nel 1554 portò tre galere a sbarcare uomini nel territorio di
Piombino; messosi alla testa di questo contingente per andare a riconoscere di persona il
luogo forte di Scarlino, un paesano armato d’archibugio e appostato tra i giunchi gli sparò
ferendolo gravemente al fianco; riportato a bordo della sua galera, morì dopo qualche
giorno a Castiglione della Pescáia. La sfortuna dello Strozzi, iniziata quindi nel precedente
1551 con la già ricordata mancata sorpresa di Barcellona, continuata l’anno seguente
quando, alla testa di quattro galere maltesi e due toscane, aveva fallito in Algeria un’altra
sorpresa contro un luogo chiamato Zara e posto a 12 miglia dalla costa, ebbe il suo tragico
compimento a causa d’un terzo insuccesso in tale tipo d’azioni; eppure proprio la sorpresa
di St. Andrews in Scozia era stata la grande impresa con cui la sua fama era iniziata! Ma,
tornando alla bellicosità marittima dei turchi, quali erano i veri interessi del ‘Divano’ nelle
imprese devastatrici dei suoi corsari? Ce lo spiega il già citato bailo a Costantinopoli
Domenico Trevisano nella sua relazione del 1554:
993
... (il sultano) dà commodità alli suoi, mandando essa armata alle marine della misera Italia,
non solo di arricchirsi con la preda di robe e anime, la qual fanno facilmente in molti luoghi,
e di farsi prattichi della navigazione di questi mari, ma anco d'aver più facile
l'accrescimento delli mussulmani, ritrovandosi sempre molti delli poveri schiavi (cristiani)
che si fanno turchi, non potendo tollerar le bastonate e la fame né star costanti alle
minaccie della morte, oltre il numero grande de' fanciulli che sono rubati, li quali senza
dubbio alcuno sono fatti turchi. (E. Albéri. Cit. S. III, v. I, p. 143.)
Che non si riuscisse a fronteggiare questo flagello era, secondo il Crescenzio, solo un
problema di mancanza di volontà e di collaborazione tra i principi cristiani:
... Chi non considera si egli è gran vergogna - parendo a' governatori dell'armate non esser
impresa degna de' loro prencipi - pensar che otto o dieci vascelli barbareschi, che sotto la
guida di Amurato raís e arnauteo Mami si armano di canaglia moresca, scorrano tutto l'anno
i christiani lidi e ardiscano a mezogiorno entrar le bocche di Napoli, anzi venirgli sotto alle
fortezze della città ed quelle di Orbitello e ivi sicuramente sbarcare e metter gente in terra,
depredando gli huomini e rimorchiando i vascelli carichi di merci e vettovaglie, da che tanto
detrimento alle provincie resulta. E che più vogliamo? Non hanno questi scalzi prese galee
del Re Cattholico (di Spagna), del Granduca (di Toscana), di Malta e del Papa, appendendo
per più scorno sopra le porte d'Algieri, ove poi noi gli vedessimo, (i medaglioni di legno
rappresentanti) l'arme e i Santi da che esse i nomi pigliavano? (B. Crescenzio. Cit. P. 474.)
L'audacia e la furbizia dei corsari barbareschi o sarracini, come allora erano chiamati
soprattutto nel regno di Napoli, erano grandissime. Il predetto Amurat raís si era reso per
esempio famoso per uno stratagemma con il quale era sfuggito alle galere del granduca di
Toscana; queste avevano scoperto e seguito le sue galere nel porto di Marsiglia, dove
erano al sicuro per via della nota e scandalosa alleanza tra Francia e Turchia ai danni della
Spagna e dei suoi alleati, e colà le assediavano. Amurat ogni giorno usciva dal porto con le
sue galere, disponendole in ordine di combattimento, e, quando i toscani si affrettavano a
fare lo stesso, si ritirava nuovamente nel porto amico; tante volte lo fece che un giorno i
cristiani, sicuri che stesse facendo la solita finzione, non si posero in battaglia e così
Amurat subito scappò in alto mare con tutte le sue veloci galere e non fu più raggiunto.
La colpa degli stati cristiani, premessa quella capitale della Francia che, oltre a non
partecipare mai alle leghe marittime anti-ottomane, aveva addirittura aperto alle armate di
Costantinopoli il Tirreno settentrionale, stava soprattutto nell'aver all'inizio sottovalutato il
problema, permettendo così che il naviglio corsaro dei turco-barbareschi diventasse
sempre più forte e audace:
… Però (‘perciò’) già che il poco conto che al principio di questo s'è fatto è stato causa che i
bergantini diventassero galeotte e le galeotte galee e l'urche di mercanzie galeoni d'armate
e l'uni (e) gli altri potentissimi squadroni navali. (Ib. Pp. 476-477.)
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Ancora viva era l'impressione di recenti terribili scorrerie sulle coste del regno di Napoli,
scorrerie che procuravano al Gran Turco una grande quantità di schiavi cristiani da adibire
in buona parte al remo delle sue galere, il che potenziava notevolmente la sua armata:
... Di ciò fa manifesta fede lo squadrone di galee che il Cicalla condusse in Calabria, armate
de' christiani depredati ne' lidi d'Italia, Francia e Spagna, oltre più d'altri trentamilla che vi
sono in Algieri, Tripoli e Biserta, che, per non se gli poter opponere l'armata catholica,
bisognò dargli tutto il tempo che essi hanno voluto da potersene retirare a salvamento in
Turchia, rimorchiandosi un galeone dell'armata di Sua Maestà (il re di Spagna) con altre due
navi che venivano a Napoli cariche di grano. (Ib.P. 475.)
... Ed hora vediamo gli altri galeoni compagni di questo (suddetto) che hoggi, se il tempo
permette, giorno della sacratissima Ascensione del Signore dell'anno 1595, partono di (‘da’)
questa città di Napoli alla volta di Lisbona, ove si fà la massa dell'armata che va (ad)
aspettare la flota dell'India per assicurarla d'un altra grossissima che la Regina
(d'Inghilterra), invaghita dell'argento del Perù e (delle) gioie dell'India, ha messo in ordine al
suo favorito Drago (‘Francis Drake’). (Ib.)
Per inciso, i suddetti galeoni destinati a Lisbona erano 12 e ragusei; essi, narrano le
cronache napoletane, dovettero tornare indietro nel porto perché respinti dal vento
contrario, per ripartire poi definitivamente nella notte del 14 maggio, giorno di Pentecoste.
Era il 1594 e il siciliano rinnegato Cicala, ora generale di mare dell'impero ottomano, con
un’armata di 160 vascelli aveva preso e bruciato persino Reggio Calabria senza che fosse
stato nemmeno possibile opporglisi onorevolmente; era allora viceré di Sicilia Enriquez de
Guzman conte d’Olivares (1592-1595) ed ecco come riassume il fatto l’Auria:
… Arrivò l’armata numerosa de’ turchi al Capo delle Colonne a 24 d’agosto dell’anno 1594 e
poi alla Fossa di S. Giovanni, mettendo a foco i luoghi fruttiferi di Calabria, onde comparve
a vista di Messina a 2 di settembre. Passò tosto al soccorso di Messina il marchese di
Geraci don Giovanni Ventimiglia in quel tempo straticò (‘capitano a guerra’, ossia
governatore militare), per aversi trovato in Palermo, il quale provide la città di grano, d’armi,
d’artigliarie e altre dovute munizioni… sino a serrar il porto della città con la catena, per
levar la commodità d’entrar le galere nemiche con la furia del vento. Fece entrar nella città
le compagnie de’ soldati di Tauromina e i cavalli della milizia di Patti, di Savoca, Randazzo e
Castroreale compartendoli in diversi luoghi.
Fu veduta l’armata degl’infedeli a vista di Messina nel Capo dell’Armi a 2 di settembre, onde
si sonò più volte la campana del duomo fortemente all’armi. Cominciarono i turchi a dar
fuoco alle contrade della Fossa di San Giovanni, indi, accostati a 3 di settembre alla città di
Reggio, ch’era stata abbandonata da’ suoi cittadini, diede ordine il Cicala a bruciarla e,
tanto s’incrudelirono i barbari, che diedero fuoco a i corpi morti cavandoli dalle sepolture e
particolarmente quello dell’arcivescovo. Indi l’armata si avvicinò verso Messina per metter
genti in terra, ma, conosciuto esser tutti i luoghi ben guardati da i nostri, si ritirò di nuovo
995
L’anno seguente i cristiani però si vendicarono; infatti fatta a Messina la massa delle galere
di Napoli, Sicilia, Genova, Malta e Toscana, vennero scelte 40 galere, le quali, mandate in
Levante, presero e misero a sacco la ricca Patrasso, città che era stata già presa dal
principe Andrea d’Oria 63 anni prima; era comandante di mare di questa spedizione il
generale delle galere di Sicilia Pedro de Gamboa y Leyva e di terra quello della squadra di
Napoli Pedro de Toledo.
Nel Seicento poi la principale minaccia alle coste tirreniche dei possedimenti della Spagna
passerà gradatamente dall’armata turca a quella francese e le galere dei transalpini
turberanno infatti sempre di più i sonni dei viceré e dei governatori spagnoli; ma questa è
altra storia.
Ma, se il Mediterraneo piangeva, l'Atlantico, scorso dagli abili corsari inglesi, tra cui il
famoso Drake, detto appunto il Drago in Italia, certo non rideva:
... Né l'altro mare si potrà rider del nostro, poscia che un corsaro inglese ogn’anno assalta e
fa prese nell'armate dell'Indie, e sono questi e quelli con le continue prede 'sì ingagliarditi
che hora armano grossissime armate, a che la potenza di Spagna non basta a resistere. (Ib.
Pp. 474-475.)
Nel 1589 il residente veneziano nella Savoia, Francesco Vendramin, nella sua relazione al
suo senato, così accennava all'accanimento anti-spagnolo di Drake, il quale solo l'anno
precedente aveva avuto una gran parte nella distruzione dell'Invincibile Armata:
... il quale, nutrito in odio immortale contro gli spagnuoli, si adoperò per tutta la vita contro
di loro. (E. Albéri. Cit. S. II, v. V, p. 143.)
La consistenza della suddetta grande armata con la quale la Spagna di Filippo II tentò per la
prima volta d’invadere l’Inghilterra è riportata dallo Strada; questi la trasse da una nota
spedita dalla stessa armata ad Alessandro Farnese un po’ prima che i combattimenti
iniziassero:
… È composta tutta l’armata di centotrentacinque navili grossi; parte sono galee, over
galeazze, e parte vascelli tondi d’ordinaria grandezza, over galeoni; e di questi (ultimi)
quattro ne sono vastissimi. Gli altri vascelli minori sono quaranta, la maggior parte da
carica o da tragetto, e servono come per aggiunta de’ grossi. In questi vanno cinque terzi
(‘reggimenti di fanteria’) spagnoli sotto i lor maestri di campo (‘colonnelli’) Diego Pimentel,
Agostino Mexia, Alfonso Luzoño, Nicolás da Isla e Francisco de Toledo e contengono
diciottomilaottocentocinquantasette soldati. Son aggiunti i nocchieri e i marinari in numero
di settemilaquattrocentoquarantanove. In oltre vi sono dugentoventi baroni e titolati
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La predetta armata portava tra l’altro viveri per sei mesi e armi di fanteria per armare
gl’isolani britannici che avessero eventualmente voluto schierarsi dalla parte degl’invasori;
c’è poi da dire che uno dei suoi quattro grandissimi galeoni era quello famoso detto di
Portogallo e che l’armata inglese che le si opponeva era di quasi 100 vascelli.
L'intraprendenza dei predetti corsari inglesi non si limitava però al solo oceano, ma si
spingeva sino al Mediterraneo orientale:
... Ne là solamente sono vascelli inglesi che vanno depredando, però (perché) in questo
mare danno opera al medesimo quelli che entrano per lo stretto di Gibilterra, de' quali non
sono tre mesi che (ne) habbiamo lasciato quattro nell'Arcipelago. (B. Crescenzio. Cit. P.
475.)
catturò il cargo veneziano La Santa Maria e poco dopo, il giorno di Natale, uno olandese;
nel novembre 1605 un cargo messinese al largo di Cipro, poi uno francese, nell’aprile del
1606 uno fiammingo, e in quest’anno trovò base e protezione a Tunisi, specie da parte del
già ricordato Kara Osman, potentissimo capo dei giannizzeri sin dal 1594, il quale gli
ricomprava le merci predate a patto di deciderne lui stesso il prezzo. Il 1° novembre 1606
Ward catturò il veliero inglese John Baptist nelle acque di Corone, poi, il 28 gennaio 2007,
il galeone veneziano Rubi, il quale tornava da Alessandria con un ricco carico, e subito
dopo il veneziano Carminati, questo di ritorno dalla Grecia, e trainò queste due ricche prede
a Tunisi; armato poi lo stesso Rubi, con questo e con un altro veliero prese nelle acque di
Cipro un grosso galeone veneziano, il Raniera e Soderina, sovraccarico di merci costose,
poi ancora un altro veliero veneziano; fatto in seguito del galeone veneziano la sua nave
ammiraglia, la fortuna del Ward cominciò a finire ed egli ebbe vari rovesci, tra cui
l’affondamento del galeone medesimo, la perita dei due vascelli del suo comandante
fiammingo Jan Casten, battuto e ucciso dalle galee veneziane il 21 marzo 1608 al largo di
Modone; visse a Tunisi ricco e rispettato sicuramente ancora sino al 1618, ma per le
vicissitudini sue e di tutta la colonia pirata inglese di Tunisi, nella quale si distinsero anche
William Graves e Toby Glanville, conviene leggere non me, ma il suddetto Senior, dal quale
traggo la maggior parte di queste informazioni (ib.). Come raís algerini agirono invece nel
secondo e terzo lustro del Seicento Francis Verney e Ambrose Sayer, ma a questi non
toccarono in sorte le fortune dei loro conterranei di Tunisi.
Altri famosi comandanti inglesi che agirono nel Mediterraneo, ma si trattava di corsari
regolarmente patentati e non di volgari pirati, furono il già più volte ricordato Kenelm Digby
e William Rainsborough; quest’ultimo nell’agosto del 1628, essendo al comando del
Sampson, vascello da 32 pezzi a lunga gittata, di cui infatti 6 colubrine e per il resto mezze
colubrine, si scontrò con 4 galere maltesi, combattimento che risultò molto dannoso per
ambedue le parti e si concluse senza vincitori né vinti; nel marzo del 1630 il Rainsborough
si trovava invece nell’Atlantico al comando d’una flottiglia con la quale bloccava il porto
della cosiddetta repubblica pirata di Salè in Marocco e, dopo cinque mesi di tal blocco, la
costringeva quindi alla resa e a liberare dalla schiavitù 340 inglesi. I pirati di Salè
infestavano le coste atlantiche dell’Europa dalla Spagna all’Inghilterra e infatti proprio
l’anno seguente al predetto blocco compirono un’azione che resterà famosa; infatti nel
giugno del 1631 due vascelli corsari algerini imperversavano nel Canale della Manica sotto
il comando di Murad (tr. Morat) Rais, al secolo il famoso rinnegato olandese Jan Jansson, il
quale aveva come sue principali basi Salè e Algeri, anzi della predetta repubblica pirata era
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stato uno dei fondatori. Raggiunta la costa meridionale dell'Irlanda, catturarono due
pescherecci di Dungarvan e uno dei due comandanti di questi, il cattolico John Hackett,
distolse Murad raís dall’assalire sia la sua città natale Dungarvan sia Kinsale, questa perché
guardata da una nave da guerra inglese, e lo convinse ad aggredire invece Baltimore,
cittadina più a occidente di Cork e abitata da inglesi protestanti; il 20 giugno quindi gli
algerini, guidati da Hackett, sbarcarono, incendiarono molte case di Baltimore e catturarono
89 tra donne e bambini e 20 uomini; tutti costoro furono portati schiavi ad Algeri ai primi di
agosto unitamente ad altri irlandesi, inglesi, francesi e portoghesi catturati in altre azioni
per un totale di 154. John Hackett, lasciato libero sulla costa irlandese in compenso dei suoi
servigi, sarà poi giudicato e giustiziato dagli inglesi per il suo tradimento. Nel 1637 il
Rainsborough bloccherà nuovamente Salè e l’obbligherà a rilasciare 339 inglesi colà allora
tenuti schiavi e a un trattato commerciale che aveva soprattutto lo scopo di far cessare le
azioni antibritanniche di quei corsari. Ma i pirati di Salem e Algeri addirittura traversavano
l’oceano e infestavano le Bahamas, infatti nel 1639 presero prigionieri coloni della Nuova
Inghilterra che si recavano all’isola di Providence in quell’arcipelago e costoro furono poi
liberati dietro pagamento di un riscatto; non a caso la parte più orientale delle Bahamas si
chiama ancor oggi ‘Isole dei Turchi’. Più tardi i corsari inglesi s’impadroniranno di Tangeri
in Marocco, facendone una loro base, e la lasceranno a quel sultano solo nel 1684.
Ma, tornando a parlare delle attività marittime degli inglesi contro il Portogallo nel secolo
precedente, diremo che questo regno sino al 1581, cioè finché era stato anche
sostanzialmente indipendente dalla Spagna, aveva saputo ben tenere a bada i corsari
inglesi, le cui navi erano state inoltre allora più numerose di quelle di cui disporrà poi Drake
ai suoi inizi; la Corte di Lisbona permetteva infatti ai cittadini di Viana, città marittima a nord
d’Oporto, d’armare i loro vascelli a proprie spese contro tali predoni e di combatterli senza
quartiere, col risultato che questi ne restarono tanto debellati che i pochi rimasti
rinunciarono alla guerra di corso; però, quando il Portogallo perse la sua libertà, i corsari
inglesi, anche perché guidati ora dall’audacissimo Francis Drake, ripresero la loro attività
con sempre maggior vigore, non più ostacolati dalla consumata esperienza e maestria
navigatoria dei lusitani, sino ad arrivare a quella grande azione del 1587, quando cioè Drake
sorprese la squadra spagnola a Cadice e la danneggiò gravemente; dall’anno seguente poi,
dopo la sconfitta dell'Invencible Armada, la cui impresa sarà voluta dalla Spagna proprio
perché Cadice era stata la goccia che aveva fatto traboccare un vaso già colmo, gli inglesi,
già superiori in mare sia per abilità marinaresca sia per numero di vascelli pubblici e privati
e di marinai, prenderanno addirittura un totale sopravvento e predominio sull'Oceano
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Atlantico, come per esempio testimonia un altro attacco inglese a Cadice avvenuto nel
giugno del 1596, il quale, guidato ora non più dal Drake, morto nel gennaio dello stesso
anno, bensì dall’ammiraglio Howard e dal conte di Essex, risulterà peggiore di quello
suddetto, perché la flotta spagnola, sorpresa di nuovo all’ancora in quel porto, ne resterà
stavolta completamente distrutta e la stessa città sarà devastata e messa a sacco, sebbene
non ne restasse poi occupata dagli inglesi perché si trattava solo di un’azione corsara; e nel
1597, proprio come era avvenuto nel 1588, la grande armata approntata e spinta da Filippo II
verso l’Inghilterra sotto il comando generale dell’adelantado, ossia del governatore
maggiore di Castiglia, per vendicare anche la nuova onta di Cadice, sorpresa da una
terribile tempesta, parte perirà tra le onde con perdita di ben 35mila persone e parte a stento
e maltrattata riuscirà a riparare nei porti di Spagna; ma sarà l’ultimo grande scacco subito
da questo re, il quale infatti morirà il 13 settembre del 1598, succedendogli il figlio ventenne
Filippo III, il quale nel 1603, morta il 3 aprile di quell’anno la regina Elisabetta, concluse
finalmente la pace con l’Inghilterra.
Il Mare Adriatico, detto sino alla fine della Serenissima, come sappiamo, Golfo di Venezia e
dai francesi anche Golfe Adriatique, oltre che dai corsari barbareschi, era infestato anche
dai pirati dalmatini, i più noti e attivi dei quali, eredi di quelli croati di Almissa (oggi Omis)
che nella seconda metà del Duecento venivano ad annidarsi anche nelle isole Tremiti e che
furono poi vinti dai veneziani, erano ora gli uscocchi o segnani, ossia quelli abitanti il
territorio della già ricordata città di Segna nella Dalmazia settentrionale, territorio soggetto
non a Venezia, bensì all'arciduca d'Austria, e dove nel Medioevo anche i tergestini (oggi
‘triestini’), i mulgensi (oggi ‘muggesani’) e gli iadertini o iaderensi (oggi ‘zaratini’) si
dedicavano soprattutto alla pirateria; inoltre gli uscocchi del territorio del fiume Narenta
nella Dalmazia meridionale e, combattendo contro questi ultimi, aveva perso la vita
addirittura un doge di Venezia e cioè Pietro Candiano I nell'anno 886. Anche molto attivi
erano stati i pirati cimerioti, ossia i nativi della Chimera, regione dell'Albania meridionale, i
quali dannificavano sia i cristiani sia i turchi, così come usarono fare gli uscocchi fino a un
certo periodo; nel 1533 questi albanesi riuscirono a far prigioniero il capitano del golfo
Francesco Dandolo, sorprendendo le sue galere al largo di Sàseno, ma più tardi il
provveditore d'armata veneziano Girolamo da Canal al comando di 17 galere devasterà
irrimediabilmente quella regione, inducendo in poco tempo quei pirati a molto più miti
consigli. In verità, come si sa, l’Adriatico era infestato dalla pirateria anche nell’antichità e i
romani impiegarono secoli ad averne un’accettabile ragione; i razziatori dalmati avevano
sempre tradizionalmente usato veloci vascelli remieri monoremo, cioè sia miuoparoni (gr.
1000
μυοπάρωνες), legni bi-scafo antenati delle bilancine e degli odierni ‘catamarani’ dei quali
abbiamo già parlato, sia barche longhe e nel Medioevo anche i piccoli lembi. Ma chi erano
veramente gli uscocchi di Segna? Ce lo dice Minucio Minuci:
Gli uscochi sono gente dalmatica dallo stato d’un principe, o per delitti commessi o per
impazienza del giogo tirannico fuggiti a i dominij di principe vicino e questo si dimostra
dall’istessa voce ‘scoco’, che in latino si direbbe transfuga… (Minucio Minuci, Historia degli
uscochi etc. P. 5. Venezia, 1676.)
Si cominciò a parlare d’uscocchi all’inizio del Cinquecento, cioè quando molti balcanici
cominciarono a sottrarsi alla sopraggiunta tirannia turca e a ritirarsi in luoghi forti dai quali
esercitare la guerra di corso contro gl’invasori. Il primo di questi luoghi fu Clissa, posto nei
pressi di Spalato e tenuto da Pietro Crusic, feudatario della corona d’Ungheria, ma, dopo un
anno d’assedio, nel 1537 i turchi l’espugnarono e uccisero il Crusic; allora gli uscocchi
sfuggiti all’assedio si rifugiarono più a nord, a Segna, località costiera di fronte all’isola di
Veglia e facente allora parte del grande dominio dei conti Frangipani, la quale poi, sebbene
pretesa dai turchi come pertinenza del regno d’Ungheria, l’imperatore Ferdinando incorporò
al suo impero, ben accogliendovi gli uscocchi e intrattenendoli ai suoi stipendi proprio in
funzione anti-ottomana:
… perché, essendo essi huomini feroci e usi non solo a caminare, ma anco a correre con
piedi saldi per boschi e per balze, pensò mediante l’opera loro tener lontani i turchi… (Ib. P.
7.)
E per i primi tre anni questi transfughi si dettero infatti a danneggiare i turchi con audaci e
improvvisi attacchi specie notturni, movendosi su un tipo velocissimo di barca lunga da
loro stessi introdotto, la quale portava di solito una trentina d’uomini, quindi di remi, ma ne
arriveranno a usare anche alcune da 50; poi, a partire dal 1540, cominciarono a
ladroneggiare e rapinare anche i cristiani con il pretesto di volersi impadronire solo dei beni
e delle merci giudee e turche dai vascelli mercantili cristiane trasportate, risparmiando
d’attaccare solo i popoli dalmatini perché davano loro ricetto e appoggio. Facevano più
volte l’anno uscite generali, di cui tradizionalmente una a Pasqua e una a Natale, uscite alle
quali partecipavano tutti gli atti alle armi, anche quelli delle terre vicine a Segna, per un
totale che variava dai 400 ai 600 uomini, e con un numero massimo di 15 o 20 barche, il
quale però tra il 1614 e il 1615 arriverà anche a 25. Costantinopoli protestava con Venezia,
alla quale, in base al trattato di pace del 2 ottobre 1540, toccava tenere mondo da corsari e
pirati, come suo antico dominio, tutto il Golfo di Venezia, ossia tutto l’Adriatico fino allo
1001
stretto tra Otranto e La Valona, e minacciava di fare da sé inviando una sua armata in quel
mare, il che avrebbe significato un’estensione dell’impero marittimo ottomano
rovinosissima per tutta l’Europa; Venezia, paventando sommamente questo e vedendo che
anche i suoi traffici cominciavano a esser danneggiati da quegli audacissimi corsari,
combatteva gli uscocchi per mare e quanti ne catturava tanti n’impiccava senza pietà; ma,
non potendo intervenire su Segna per terra perché feudo imperiale, chiedeva con insistenza
all’imperatore di mettere quei criminali sudditi dell’arciducato d’Austria in condizione di non
nuocere e in ciò impetrava l’appoggio del Papa per l’influenza che questo certamente aveva
sulla cattolica Vienna, dalla quale però, conoscendosi che in fondo Venezia aveva più
timore dell’espansione turca in Istria e Dalmazia che degli uscocchi, sempre si rispondeva
pretestuosamente che, tutto sommato, i segnani erano buoni cristiani ed erano di gran
utilità nel contenimento della potenza ottomana; eppure una volta era la Corte di Vienna a
lamentarsi con Venezia della pirateria adriatica, la quale infatti esisteva anche prima degli
uscocchi di Clissa e di Segna, come dimostra una lettera diplomatica del 3 settembre 1504
citata dal Minuci e indirizzata al doge d’allora, Leonardo Loredano, missiva in cui un
ministro dell’imperatore Massimiliano lamentava che la barca d’un suddito imperiale,
mentre si recava proprio a Segna, quindi in acque veneziane, era stata assalita da una barca
armata de’ violatori del mare (Minucio Minuci, Supplimento dell’Historia degli Uscochi etc.
P. 31. Venezia - Paolo Sarpi, Opere varie. T. II. P. 249. Helmstat, 1740.).
Nonostante il contrasto veneziano, gli uscocchi però, invece di diminuire, aumentavano
perché a Segna si trasferivano continuamente banditi, fuoriusciti e fuggitivi dalle galere sia
dei domini veneziani sia di quelli turchi:
… e questo avveniva così perché già in Segna cominciava a concorrere diversa sorte di
gente di mal affare che tutta passava poi sotto nome d’uscochi […] ne concorrevano tanti
che non bastava Segna a capirli, ma s’andavano anco spargendo per le vicine castella di
Ottossaz, di Moschenizze, di Bunizza, di Brigne e de alcun altri luoghi, da’ quali erano poi
convocati quando s’aveva a far qualche sortita per terra o per mare […] tutto questo
numero non ascendeva però mai oltra li 500 a 600 huomini da fatti… (P. Sarpi. Cit. P. 222.)
Come siamo informati dal bailo a Costantinopoli Maffeo Venerio, la cui relazione è del 1586,
questi uscocchi segnani compivano scorrerie contro i turchi, oltre che per mare, soprattutto
per terra, infestando i vicini confini dell’impero ottomano, essendone quindi allora in
campagna, scriveva questo residente, ben 2mila sotto il comando del loro capitano Giorgio
Nesich:
... E ciascuno di questi vale per quattro contro i turchi. (E. Albéri. Cit. S. III, v: II, p. 306.)
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Ma sia il Minuci che il suo continuatore fra’ Paolo Sarpi attribuiscono questo numero di
2mila all’intera popolazione di Segna e delle sue dipendenze, quindi comprendendovi
donne, bambini e anziani non più combattenti.
I veneziani cominciarono allora a perseguitarli con le stesse barche longhe armate che
usavano loro, arrivando ad armarne fino a 30, in quanto si trattava d’imbarcazioni molto
adatte a inseguire quei pirati negli stretti canali e sui bassi fondali della costa dalmatica,
luoghi dove essi, quando vedevano comparire in lontananza alberature di galee veneziane,
andavano a nascondersi, affondandovi immediatamente le loro barche col togliere un
semplice tappo dal loro fondo, per poi andarle a recuperare passato il pericolo; praticarono
inoltre talvolta, non potendola assalire da terra, anche il blocco navale di Segna, come fece
per esempio nel 1578 con cinque galere il provveditore del Golfo Luigi Balbi; infine fecero
scortare da galere i loro più grossi vascelli mercantili e protessero le merci turco-giudee
facendole imbarcare solamente su una galea grossa, a volte anche scortata, che faceva la
linea Venezia-Spalato. Da parte sua l’arciduca d’Austria, essendo l’imperatore pressato
dalle lamentele di Venezia, alle quali s’erano ora aggiunte anche quelle del re di Spagna, il
quale vedeva le marine e i fiorenti traffici adriatici dal regno di Napoli a Venezia danneggiati
da quei ladroni, cominciò a non pagarli più come suoi stipendiati, anzi impose loro delle
gravezze, e allora i segnani, aumentando le loro difficoltà d’azione, diventarono ancora più
aggressivi e crudeli, desolando completamente il territorio di Zara e non rispettando più
nemmeno i popoli che in Dalmazia tenevano loro bordone. Questa repressione degli
uscocchi messa in atto da Venezia aveva però il difetto da lasciare sguarnito l’Adriatico
meridionale e quindi di lasciar maggior libertà d’azione ai corsari turco-barbareschi contro
le marine e i traffici adriatici del regno di Napoli e dello Stato Ecclesiastico, aumentando
quindi le lamentele provenienti da tali potentati; questi non avevano infatti squadre di galere
in quel mare, perché Venezia, considerandolo da sempre un mare suum, tanto da imporne
geograficamente il nome di Golfo di Venezia, da sempre s’era anche accollato l’onere di
difenderlo. Ciò nonostante gli uscocchi continuavano a esistere e ciò perché in realtà
l’arciducato vedeva di buon occhio il gran danno che facevano sia alla Sublime Porta sia
alla repubblica di Venezia (anco per la mala inclinazione naturale che portano i principi alle
republiche. Minuci), alla stessa maniera in cui i cosacchi del fiume Dnieper dannificavano
gli stessi turchi e il re di Polonia, alle rimostranze di questi, rispondeva che non era in suo
potere fermarli; inoltre i funzionari arciducali, essendo corrotti, ricevevano dagli uscocchi il
loro buon tornaconto. Certo che la guerra quattordicennale (1592-1606) che i turchi, sotto il
comando del loro generale bosniaco Hassan Pasha, condussero all’impero ebbe come
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formale pretesto proprio la questione di Segna, a dimostrazione che gli uscocchi non
contenevano affatto i turchi, anzi li richiamavano, e fu proprio approfittando di questa
guerra che Venezia poté dare ai segnani i colpi più duri, nominando generale in Dalmazia
Almorò Tiepolo, comandante esperimentato nella caccia ai corsari e da essi molto temuto, e
affidandogli il comando dell’operazioni contro gli uscocchi con carta bianca; costui impiegò
un maggior numero d’armati albanesi, particolarmente efficaci in questo tipo di guerriglia
marittima:
… né è dubio che in ogni occasione potriano li signori veneziani cavar di là copia d’huomini
feroci (‘combattivi’), atti a milizia di mare e di terra anco se si havesse a guerreggiare contra
il medesimo Turco, ma haveranno sempre essi bisogno di esser retti da uomini della
propria nazione e di molta autorità presso di loro, perché, quando si trovano molti insieme,
sono facili alle risse con altre genti e a tumulti. Questi in Dalmazia obedivano a Paulo Ghini,
nobile fra loro ed honorato per la molta esperienza… (Ib. P. 157.)
C’era anche un altro motivo per cui questi albanesi riuscivano contro i segnani migliori dei
mercenari croati e cioè perché questi ultimi, parlando la stessa lingua di quei corsari ed
essendo loro vicini, ne avevano qualche rispetto di troppo e ne temevano le vendette:
… così gli albanesi, non havendo alcun rispetto tale, tosto che cominciorno ad
insanguinarsi, concepirono tant’odio contra gli scochi e gli scochi similmente contra di loro
che una parte andava cercando l’altra a morte, con continue stratageme e insidie e, quando
si trovavano, si facevano crudelissime uccisioni. (M. Minuci. Cit. P. 27.)
Morto il Tiepolo, nel periodo della guerra turco-imperiale si susseguirono nell’ordine al suo
posto il senatore Giovanni Bembo, il capitano del golfo Antonio Giustiniano, l’ex-
governatore delle galee dei condannati Nicolò Donato, il provveditore dell’armata Filippo
Pasqualigo, il generale Giovan Battista Contarini, il quale nel 1574 era capitano della
guardia di Candia, il generale Giovanni Giacomo Zanne, Marc’Antonio Venerio, Agostino da
Canal, di nuovo Filippo Pasqualigo, ma, nonostante i pur apprezzabili conseguimenti
1004
ottenuti, Venezia non riuscì a risolvere questo suo grosso problema; eppure molti capi degli
uscocchi furono presi e uccisi, tra questi i principali furono - ma si tratta di cognomi che sia
il Minuci sia il suo continuatore Padre Paolo hanno evidentemente storpiato - Martino conte
di Possidaria, Marco Marketic, voivoda di Ledenizze, un castello nei pressi di Segna; il
raguseo Giorgio Mastarda, più scelerato e facinoroso de gli altri; quello conosciuto come ‘il
Moretto’ e poi ‘il conte di Cetina’. Altri capi ricordati furono Giovanni Vulatco, Pietro
Rosantic, Iurissa o Purissa, Nico Radic, Milos Malotic, un certo Rosic, Giorgio Milansic, il
quale fu catturato e torturato per farlo parlare, Giovanni Libic, Giorgio e Paulo Danisic o
Dianisivic, i fratelli Nicolò e Vicenzo Craglianovic o Carglinovic, Andrea Ferletic, famoso
capo e molto scelerato.
La maggiore battaglia marittima tra i mercenari albanesi e gli uscocchi avvenne il giorno 8
maggio del 1613 o più probabilmente del 1614 a S. Giorgio a Capo di Lesina, nel tratto di
mare tra la costa del Biokovo e appunto l’isola di Lesina; s’affrontarono colà 12 barche
armate d’albanesi contro altrettante d’uscocchi in un sanguinoso e lungo scontro in cui i
pirati ebbero la peggio, perché due loro barche furono catturate ed ebbero 60 morti, tra cui
il loro suddetto capo Nicolò Craglianovic, mentre gli albanesi se la cavarono con 8 morti e
19 feriti, tra cui il figlio di Giovanni Dobrakvic, governatore di quella squadriglia. Qualche
tempo dopo, in quello stesso1614, Vincenzo Craglianovic vendicò però terribilmente la
morte del fratello; successe infatti che una galea veneziana, quella del sovraccòmito
Cristoforo Venerio, lasciò la sua base istriana per andare a raggiungere la squadra del suo
generale nel basso Adriatico e fece sosta per la notte nel porto di Mandre, situato nell’isola
di Pago; la mattina seguente sei barche uscocche la sorpresero e se n’impadronirono;
n’uccisero a uno a uno tutti gli ufficiali e i soldati, in tutto 40 persone, facendoli passare
sulla scaletta di bordo e di là gettandone i corpi direttamente in mare, poi, mentre portavano
la galera verso Segna, tagliarono la testa a due passeggeri gentiluomini, avendo
evidentemente rinunciato a cercare d’ottenerne il riscatto, e depredarono di vesti e gioielli la
moglie d’uno dei due e le sue cameriere; arrivati poi nei pressi della Morlacca, scesero a
terra e decapitarono con un’accetta il Venerio, ne spogliarono e gettarono a mare il corpo e
ne conservarono invece la testa, la quale tennero in bella mostra a troneggiare sul convito
che poi colà fecero; infine rilasciarono i remiganti con l’intimazione però che non ardissero
di ritornare negli stati della repubblica e posero le artiglierie della galera a difesa delle mura
di Segna; il Minuci non dice che fine abbiano fatto invece fare alle suddette donne catturate
(M. Minuci. Cit).
IL Vecellio, illustrando il vestiario tradizionale degli uscocchi, così ne riferisce:
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… Questa è una nazione molto feroce, arrisicata e terribile, soggetta al principe Carlo
d’Austria. Habita in luoghi aspri e montuosi ed hanno per loro abitazione residente un luogo
chiamato Segna. Vivono continuamente di ratto o rapina […] Portano nel guerreggiare
camicie di maglia fine […] Maneggiano armi corte e massime la spada, per esser più atta
alla guerra navale […] Sono così lesti e agili nel correre che vanno così veloci, per quei
monti inaccessibili, come le camozze… (C. Vecellio. Cit. P. 420v.)
Il loro armamento, scriveva il suddetto teologo fra’ Paolo, monaco dell’ordine dei Servi, il
quale, come già detto, continuò la Historia del Minuci, non era da soldati, ma da ladroni:
… Nessuno di loro porta sorte alcuna di arme difensive, non morione o celata, non arme
hastate, e del rimanente portano un arcobugio a ruota ben picciolo, debole e leggiero, come
bisogna a chi confida più ne i piedi che nelle mani, e un manerino (‘piccola accetta’). Alcuni
di loro hanno di più un stiletto… (P. Sarpi. Cit. P. 56.)
Quella degli uscocchi era una delle questioni che più metteva in imbarazzo i diplomatici
veneziani accreditati alla Corte di Costantinopoli e infatti così si legge per esempio nella
relazione letta al doge nel 1585 dal bailo Gian Francesco Morosini, a proposito di come
mantenere buoni rapporti tra Venezia e la Porta ottomana:
... Quello che più di ogn’altra cosa pare a me che al presente possa turbare gli animi de'
turchi è la cosa degli uscocchi, alla quale quando non si pensi ritrovar altro rimedio, tengo
per cosa certa ch'abbia da partorire qualche mal effetto, o di tirar un’armata (turca) in Golfo
(‘nell'Adriatico’) o d'introdur una guardia di legni armati (turchi) a Narenta, perché i turchi né
vogliono né possono a modo alcuno restar capaci che la Serenità Vostra, quando volesse,
non potesse impedire le loro ruberie; anzi tengono per certo che li sudditi e ministri della
Serenità Vostra gli diano (cioè ‘a questi pirati’) aiuto e favore per poter far maggior danno.
Di che se bene io credo che, quanto alli ministri della Serenità Vostra, senza ragione si
dogliano, così vorrei poter dire il medesimo de' sudditi, li quali, per dire il vero, danno
grande occasione a' turchi di lamentarsi; però (‘perciò’) sarà officio degno della singolar
prudenza della Serenità Vostra, in quanto tiene cara la pace con il Turco, veder in ogni
modo di provveder a questo disordine, perché, non lo facendo io temo grandemente che ne
segua qualche importantissimo inconveniente. (E. Albéri. Cit. S. III, v. III, p. 315.)
Tanto gravi erano infatti i danni che l'impero ottomano riceveva dall'attività degli uscocchi
che anche il bailo Lorenzo Bernardo nel 1592 vi ravvisava un costante pericolo al
mantenimento della pace stipulata nel marzo del 1573 e dell'equilibrio politico tra Venezia e
Costantinopoli e ciò maggiormente perché i veneziani si erano nel frattempo finalmente
impegnati - con un capitolato sottoscritto con i turchi - sia a vietare le marine e le acque di
Candia ai corsari ponentini sia a difendere dagli uscocchi i possedimenti e i navigli dei
turchi nell'Adriatico, compito al quale la Serenissima, nonostante il sincero impegno e la
grande spesa, non riuscivano a far fronte in maniera che fosse soddisfacente per la Porta
Ottomana; quest'ultima quindi continuamente chiedeva che Venezia permettesse lo
1006
stazionamento nell'Adriatico d'una squadra di galere turche che si affiancassero alle sue
nella repressione della pirateria e nell'allontanamento dei corsari ponentini, ma questa era
una condizione che Venezia non poteva assolutamente accettare perché il suo imperio
sull’Adriatico non doveva essere messo in discussione dagli ottomani, i cui vascelli, una
volta entrati in quel mare, avrebbero ovviamente compromesso il dominio veneziano su di
esso e quindi anche sull'Egeo occidentale e oltre tutto sicuramente non se ne sarebbero più
andati. D’altra parte, come scriveva il Sereno, la Porta ottomana nulla faceva per dar reale
soddisfazione ai veneziani, quando erano questi a lamentarsi a Costantinopoli dei danni
loro provocati dai corsari turchi. Così dunque leggeva il Bernardo al suo doge:
... La Serenità Vostra spende ogni anno un tesoro nella guardia contra gli uscocchi e nella
guardia di Candia contra ponentini, tutto a benefizio e sicurtà principalmente de' sudditi
turcheschi; e se questo non si stima (dal sultano), parendogli forse che sia fatto tutto ciò a
benefizio anco de' sudditi nostri, dovria pur stimare una utilità di cinquecento o
seicentomila zecchini all'anno che gli apportano li mercati e sudditi viniziani con li dazii
delle loro mercanzie a tanti scali di quell'imperio; e se l'utilità non può muover quel Signore,
che è tanto grande e che aspira alla monarchia del mondo, lo muova al meno la ambizione e
il desiderio di dominare e consideri che, mentre che lui starà in pace con questa Republica,
sarà arbitro e padrone del mare con la sua armata, la qual sempre è stata superiore alla
spagnuola; ma, quando ha avuto guerra con questo Stato (di Venezia) sa benissimo quello
che sia seguito alla sua armata (a Lepanto) e quanto sia stata inferiore a quella della
christianità... (Ib. S. III, v. II, p. 397-398.)
... Le cause possono essere accidentali, come fu quella della galea di Ramadan Bascià,
dalle quali bisogna pregar Dio che ne guardi, perché tutte non passano di una maniera (cioè
non tutti gl’incidenti diplomatici finiscono bene come quello); possono esser anco cause
ordinarie, come sono li danni delle galee ponentine e degli uscocchi, delli quali li baili
hanno continue ed ordinarie querele a quella Porta.
Ma, laudato Dio, da un tempo in qua non molestano più la Serenità Vostra per causa delle
galee ponentine, perché sono ormai chiari (‘convinti’) che, si come è impossibile il poter
proibir loro di far acqua e legne nelle isole nostre, facendo queste cose anco nelle loro
proprie, così la presa delle galee di Malta e l'aver disarmata la galea ponentina e appiccato il
capo di essa, ha in tutto sincerato l'animo de' turchi in questa parte (‘a questo riguardo’)
con grandissimo beneficio publico (per noi veneziani) a quella Porta.
Ma non posso già negare che un giorno, se Dio non ci provvede, per causa degli uscocchi
non si abbia a sentir qualche travaglio, perché, illustrissimi Signori, (i) turchi si mettono in
questo caso a dir quel che son per dire io e spesse volte son stato alle strette con il
magnifico Bascià (‘il primo visir’), dicendomi esso: o voi siete obligati per la capitolazione a
difender li nostri sudditi dagli uscocchi o no; se sì, adunque difendeteci e, se ci vien fatto
danno, siete in obligo voi di satisfarlo; se non siete obligati, adunque lasciate che noi ci
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difendiamo con metter una banda di galee in Golfo (‘nell’Adriatico’), le quali, o congiunte o
separate dalle vostre, facciano la guardia e suppliscano a quello che o mancate o non
potete far voi, come l'effetto dimostra.
E, se noi (veneziani) ci scusiamo che non si può far d'avantaggio (di più) di quello che
facciamo e che ogni male procede dagli arciducali (‘dagli austriaci’) che danno ricetto a
questi ladri in Segna, rispondono subito: andiamo insieme a distrugger Segna. E, se noi ci
escusiamo dicendo aver pace con li arciducali, adunque - rispondono - noi soli andremo a
distrugger Segna e voi ritiratevi con le vostre galee, perché per questa via libereremo voi e
noi da questo travaglio. Che si può risponder a questo? Per(ci)ò, Signori Illustrissimi, io
dubito (‘temo’) molto che questa sarà la causa finalmente di mandar armata (turca) in Golfo,
la qual potrà venir sin sopra questo lido (di Venezia), e però (‘perciò’) sarà causa di
metterne alle strette e intorbiderà questa pace, che noi dobbiamo procurar con ogni spirito
di conservare... (Ib. Pp. 400-401.)
Che Venezia si fosse nel frattempo decisa ad agire più decisamente contro i corsari
ponentini che andavano a far terraz(z)anie (‘razzie di schiavi’) nei possedimenti turchi
dell’Arcipelago non significa però che prima non lo facesse; infatti nella sua relazione del
1561 il residente veneziano a Firenze Vincenzo Fedeli, a proposito della squadra di galere
toscane, ricordava che recentemente Cosimo I, oltre ad aver perduto due delle sue galere
nelle acque della Corsica, prese dalle galeotte algerine, le quali per poco non catturarono
anche la Capitana della squadra, ne aveva anche avuto un’altra sequestrata dalla guardia di
galere che i veneziani mantenevano a Cipro e che poi, a puro titolo di cortesia, gli era stata
da questi restituita; inoltre che tale impegno fosse osservato anche in precedenza è anche
dimostrato dal già più volte citato Governo di galere, trattatello che, pur essendo oltre che
anonimo anche non datato, da diverse affermazioni che contiene riguardo ad altri argomenti
dovrebbe però, come abbiamo già detto, esser stato scritto nel periodo che segue la
battaglia delle Gerbe (1560) e precede quella di Lepanto (1571); infatti l’anonimo autore
consigliava di non andare in corso di Levante in primavera e non alla fine dell’estate o
addirittura in autunno, come molti spesso imprudentemente facevano, perché il maltempo
spesso costringeva queste galere corsare a prendere terra per salvarsi e a rischiare così di
cadere o nelle mani dei turchi o ancora più probabilmente in quelle dei veneziani, i quali
allora dunque già guardavano quelle isole per qualche altro precedente impegno preso con
la Porta Ottomana:
… e non come hoggi dì si fa, che partino nel tempo dell’inverno che li sopraviene e poi per
colpa del tempo son costretti a lor dispetto (a) darsi in preda dove che le guardie de’ nemici
dimorano e inchiampare (‘inciampare’) anco nelli veneziani per volersi accostare nelle loro
isole per fortuna (‘a causa di fortunali’)…perché forzati sono toccare (‘prender terra’)
nell’arcipelago e nelle dette isole de’ veneziani, perché i veneziani guardano (il) loro mare e
isole, il provveditore con sedeci galere, il capitano del golfo con sei galeotte per detta difesa
e vanno discorrendo (‘incrociando’) tanto nell’estate come nell’inverno…per tutte quelle
parti come Corfù, Cifalonia, il Zante, il Zirico (‘Cerigo’, ossia Kithairon) e Candia vanno
1008
intorno delle guardie assai e molto in ordine… (Discorso circa il modo et maniera ha da
tenere un Capitano etc. Cit.)
Dunque i veneziani non avevano mai sottovalutato il grave pericolo che i corsari ponentini
rappresentavano per i loro buoni rapporti con Costantinopoli, ma non riuscirono a risolvere
il problema, e la stessa sanguinosissima guerra in cui persero Cipro (1570-1571) era stata,
oltre ad altre pretestuose ragioni date, principalmente motivata dai turchi con l’asilo che tali
corsari, dopo aver compiuto rapine e devastazioni ai danni dei vascelli e delle marine
dell’impero ottomano, trovavano regolarmente rifugio in quell’isola, sfuggendo così
facilmente alla reazione nemica. La stessa motivazione era stata data dai turchi al loro
attacco a Malta del 1565 e cioè le continue scorrerie dei ponentini, specie dei cavalieri
giovanniti di Malta, tra cui famoso corsaro francese, il quale si troverà poi a Lepanto, era il
commendator de Rommegas, il quale conduceva con gran successo due galere maltesi
contro i possedimenti e il naviglio turco e barbaresco; la goccia che fece traboccare il vaso
fu un tentativo dei gerosolimitani, comunque non riuscito, di prendere il castello ottomano
di Malvagia (oggi Malvasia). Nel 1645 poi, avendo una galera maltese catturato tra Rodi e
Candia, in quello che, con nome oggi perduto, allora ancora si chiamava Mar Carpazio, il
galeone Reale di Costantinopoli carico di ricchezze e facendo così prigionieri un figlio e una
concubina del sultano che si trovavano in viaggio su quel vascello, si darà ai turchi pretesto
di nuova guerra e l’uscita dell’armata ottomana di Yussuf Pasha, consistente nel settembre
di quell’anno in 70/80 galere, 50 vascelli d’alto bordo, numerose saicá e caramussali e la cui
rovinosa violenza andrà a scaricarsi però non contro i cavalieri di S. Giovanni, bensì su
Candia, quindi contro i veneziani; i turchi cominceranno infatti quell’anno a occupare l’isola
in un ormai inarrestabile processo che la vedrà poi nel 1669 passare tutta in loro mani. Nel
corso di questa guerra l’armata ottomana manterrà all’inizio la suddetta consistenza e infatti
nel 1654 uscirà in campagna con 75 galere, 6 maone e 46 velieri, di cui 25 barbareschi; poi il
numero delle galere, secondo un processo in atto nel Seicento in tutte le marinerie europee,
decrescerà ancora sensibilmente e nel 1657 Topal Pasha porterà alla guerra 50mila uomini
con 30 galere, 10 maone, 18 velieri e un gran numero di saicá e barconi.
Anche la questione degli uscocchi si aggraverà, tanto è vero che nel 1594 il bailo Matteo
Zanne ne faceva questione pregiudiziale perché i turchi potessero eventualmente ritirarsi
dalla guerra contro il Sacro Romano Impero che nel 1592 avevano ripreso invadendo
l'Ungheria:
... Per la confusione nella quale sono caduti in questa guerra, (alleandosi a popoli cristiani
quali ungheresi, polacchi e moscoviti, i turchi) hanno perduto assai del loro valore (della
1009
loro forte motivazione religiosa), massime che, se bene sono in quantità, combattono
disarmati (d'armi difensive, quali armature, corsaletti e corazze) contro gente armata; con
tutto ciò non così facilmente vorranno la pace o la tregua se non si leveranno li uscocchi da
Segna o dagl'imperiali (‘dagli austriaci’) non saranno rifatti (‘risarciti’) dei danni che
continuamente ricevono. (E. Albéri. S. III, v. III, p. 440.)
Costretti poi inevitabilmente a intensificare le loro azioni contro gli uscocchi e ad attaccarli
anche per terra onde distruggerne i principali covi, i veneziani finiranno per trovarsi nel
1615 in guerra con gli arciducali, guerra che però vinceranno e infatti, col trattato di pace di
Madrid del settembre 1617, otterranno finalmente la cessazione dell’appoggio austriaco alla
pirateria segnana.
Per concludere il discorso sulla pirateria, diremo che i vascelli mercantili del tempo erano
anche minacciati da quella costiera, cioè da popolazioni litoranee di naufragatori e
grassatori che cercavano d’impadronirsi dei carichi commerciali in transito lungo le loro
coste, a volte anche con semplici estorsioni doganali; il du Lisdam (cit.) per esempio
racconta d’una tartana marsigliese alla quale nell’estate del 1607, mentre era in sosta a
Oristano, furono a scopo di rapina assassinati con somministrazione di veleno sia l’intero
equipaggio sia i pochi passeggieri, lasciandone così il carico del tutto incustodito.
Le galere e i vascelli sottili in genere erano dunque necessari e insostituibili per
sorprendere una località costiera del nemico e per fare la guardia alle proprie marine, in
sostanza quando bisognava agire sollecitamente anche in mancanza di vento favorevole, e
in effetti la navigazione costiera era la più indicata per le galere, le quali, potevano uscire in
mare quasi esclusivamente nel solo Mediterraneo e solo nella buona stagione, ossia da
maggio a settembre – buona stagione che invece per i grandi vascelli oceanici si estendeva
dal 15 marzo a ottobe incluso - , e dovevano, se possibile, mantenersi in navigazione sotto
la costa senza ingolfarsi, cioè senz'allargarsi troppo in alto mare, tranne che non volessero
nascondere la loro rotta agli osservatori da terra:
E, se tu in nave vai,
L'alto mar feguirai;
Che l'appressar' a terra
A nave è mortal guerra.
Così più secura ene
Galea, ch'a riva tene;
Saluo, che se volesse
Sua via non si savesse,
Tenga per lo marʼ alto.
(F. da Barberino, cit. P. 263).
1010
Naturalmente ciò non sempre era possibile, anzi le varie squadre di galere della corona di
Spagna, vale a dire quelle di Spagna, di Napoli, di Sicilia, di Sardegna, dei d'Oria, dell'alleata
Genova e infine di quelle amiche della signoria di Toscana e dello Stato della Chiesa,
dovevano continuamente far dritto camino, cioè rischiare l'attraversamento di lunghi bracci
di mare [fr. faire canal ou droit(t)e rout(t)e, aller ou courir ou faire sa rout(t)e en droiture,
aller ou porter à rout(t)e, tenir la mer ou le larg(u)e; ol. oversteeken] nel Tirreno, perdendo
così di vista la terra e trascorrendo qualche notte in navigazione, per trasportare milizie e
grandi personaggi o per portare soccorso da una provincia all'altra dei vari possedimenti di
quella corona. I disastri marittimi nel Mediterraneo erano dunque non infrequenti e a volte
terribili, come quello catastrofico avvenuto nel 1569, di cui abbiamo già detto, e come quello
delle 10 galere della potente squadra che il viceré di Napoli Manuel de Guzman conte di
Monterey (1631-1637) invierà il 10 maggio del 1635 all'impresa di Provenza; queste, sette di
Napoli, due di Sicilia e una di Genova, furono affondate da un fortunale nei pressi di capo
Corso con la totale perdita, oltre che delle ciurme e degli equipaggi, anche di più di duemila
soldati che vi erano imbarcati.
Un insieme di squadre costituiva un’armata e di questa prendeva il comando una galera
detta Reale, sulla quale s’imbarcava il capitano generale nominato dal sovrano; anche
squadra o armata si chiamava un insieme di vascelli tondi da guerra, ma di questa prendeva
per lo più il comando un personaggio che aveva per lo più titolo di ammiraglio (gr.
ναύαρχος στόλου) avendo questo nell’Oceano il significato di capitano generale, mentre,
come abbiamo visto, nel Mediterraneo e nelle squadre di galere in particolare tale epiteto
era riservato al còmito reale.
La galera o il vascello tondo che aveva titolo di Reale portava lo stendardo reale, ossia
ostentante le armi reali, ed era prima nella navigazione e nella battaglia e da essa partivano
gli ordini e la rotta per tutte le Capitane dell'armata; essa doveva quindi essere il miglior
vascello di tutti e il meglio armato ed equipaggiato, perché durante il combattimento era
l'obiettivo principale del nemico, quello più bersagliato e tentato; si faceva infatti sempre
ogni sforzo per cercare di colpire, abbordare, arrembare e catturare la Reale o comunque la
Capitana avversaria, evento che certamente avrebbe molto scoraggiato tutta l'armata
nemica. Solo alla Capitana d’un regno indipendente si riconosceva il titolo di Reale, titolo
che dunque per esempio toccava a quella del capitano generale delle galere di Francia, la
quale portava infatti stendardo reale – quadrangolare, con le armi di Francia in campo rosso
seminato di fiori di giglio d’oro – e non toccava alla Capitana della signoria di Toscana né a
quella di Napoli, mentre era riconosciuto a quella papalina alla quale cedevano il passo le
1011
galere Reali di tutte le teste coronate cattoliche, essendo lo Stato della Chiesa considerato
dipendente solo da Dio. Ecco a tal proposito una delle raccomandazioni della predetta
anonima relazione sullo stato del regno di Sicilia:
... Quando las galeras del Papa no saludasen primero a los castillos, como lo acostumbran
las otras esquadras de potentados, hay orden de Su Magestad que no se proceda con ellas
en el modo que se suele hazer con las demas que acaen en esta falta por el respeto que es
su voluntad se tenga a la yglesia. (Ristretto delle forze interne etc. Cit.)
…pero haviendoles el Conde de Alva una vez hecho por esto salir del puerto (di Napoli?), se
han emendado… (Ib)
A insolenze estreme estremi rimedi! Era comunque riconosciuta la qualità di Reale anche
alla Capitana di Venezia, in quanto questa repubblica aveva posseduto i reami di Cipro e di
Candia, ma si trattava ovviamente d’uno stratagemma di convenienza politica in quanto non
si poteva certo pretendere che la Capitana d’una signoria forte e potente come quella
cedesse sempre il passo alle Reali d’altri stati. Infatti la Capitana di Genova, la quale
rivendicò la stessa qualità per molto tempo con il pretesto d’aver la sua repubblica
posseduto il regno di Corsica, vide questa sua rivendicazione sempre tanto contestata dalle
Capitane di Toscana e di Malta, le quali non accettavano di doverla pertanto salutare per
prime in ogni situazione, e quindi, a evitare ulteriori incidenti diplomatici, tra Seicento e
Settecento i genovesi finirono per rinunciare definitivamente alla pretesa di far ostentare
alla loro Capitana uno stendardo reale. Anche le Capitane di Napoli, Sicilia e Sardegna si
fregiavano del titolo di Reale inutilmente, perché, essendo di reami feudatari della corona di
Spagna, non ricevevano nei saluti la predetta precedenza, anzi, a dire la verità, nemmeno si
sognavano di pretenderla.
Fino a Seicento inoltrato pochi furono i principi e le repubbliche mediterranee che
mantennero armati vascelli tondi, vale a dire a prevalente vela quadra, come già sappiamo,
e anche i sovrani i cui stati si affacciavano sull'Atlantico - persino il re di Spagna, il quale
aveva tanti traffici con le Americhe - spesso non n’avevano a sufficienza per le loro imprese
d'oltremare; infatti il residente veneziano Federico Badoero così leggeva nella sua relazione
di Spagna del 1557:
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... galeoni né barche armate né fuste non ha al presente Sua Maestà né li particolari
(‘privati’). (E. Albéri. Cit. S. I, v. III, p. 285.)
Cioè oltre alle galere Filippo II non aveva altro d'armato sul mare. Nel 1573 però, come
spiegava un altro residente della Serenissima, Leonardo Donato, la situazione era un po'
migliorata:
... Di armata grossa, cioè di navi, non ha Sua Maestà in Spagna cosa alcuna di proprio,
eccetto la guardia per le Indie; ma de' particolari che navigano da Siviglia nelle Indie e dalla
Biscaglia in altre parti dell'oceano si potrebbe prevalersi di una conveniente squadra; ma
tutte però queste navi sono con molta poca artiglieria. (Ib. S. I, v. VI, p. 396.)
Nel 1584 poi il residente Matteo Zanne leggeva al suo senato che il re di Spagna continuava
a non disporre d’una sua armata di vascelli a vela quadra, ma eccezion fatta per una
flottiglia di 28 biscagline che appunto i nativi di Biscaglia tenevano su quelle coste a difesa
dai corsari (Cit.). Ciò però non significava che all'occorrenza la Spagna non potesse
raccogliere in breve tempo una sua armata di navi e galeoni, tutt'altro, e ben si vedrà nella
sfortunatissima occasione della Invincibile Armata nel 1588; infatti in caso di guerra o
d'altra urgente necessità si usava allora semplicemente chiudere all'improvviso (fr. fermer) i
porti e sequestrarvi i vascelli dei privati e i loro rispettivi equipaggi da arruolare
forzosamente, di qualsivoglia nazionalità amica o neutrale essi fossero, i quali si trovassero
in sosta o capitassero nei porti dei vari regni e stati dipendenti da quella corona e
possibilmente in quelli amici o dei confederati; quindi navi, orche e caravelle erano sempre
disponibili a centinaia, bastando solo attrezzarle e armarle per la guerra a spese della Real
Corte oppure adibirle al semplice trasporto di vettovaglie e munizioni al seguito dell'armata
che si stava raccogliendo. Per esempio, come abbiamo già più sopra accennato, nel 1359,
nell’ambito della guerra che l’opponeva al regno d’Aragona, sette galere del re Pedro I di
Castiglia detto Il Crudele presero nelle acque dell’arcipelago di Cabrera una grossa caracca
veneziana di più coperte e la portarono a Cartagena perché il detto re la aggregasse alla sua
armata:
… in quanto i re, com’è loro costume, quando fanno armata, prendono a soldo i vascelli che
trovano, quantunque siano di amici; e perciò le sette galere del re presero quella caracca
dei veneziani sebbene fossero amici del re (Crónicas de los reyes de Castilla etc. Tomo I, p.
277. Madrid, 1779).
In seguito, a partire dalla metà del Seicento, i più potenti sovrani, disponendo ormai di loro
stabili armate di vascelli da guerra, ordinarono tali sequestri generalmente solo per
arruolare forzatamente (fr. presser; ol. pressen, presten, perssen) i marinai giudicati idonei
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alla campagna militare; ai padroni dei navigli si pagava comunque un regolare nolo per il
loro forzato servizio, a meno che i loro vascelli non fossero di nazionalità nemica, e in
sostituzione del nolo si usava anche stipendiarli perché servissero con i loro vascelli e i
loro equipaggi nell'impresa di guerra che si andava preparando. Ai vascelli così requisiti si
toglievano subito i timoni e le vele affinché non potessero tentare la fuga. La Corona di
Spagna, quando ne aveva necessità, attingeva a man bassa dalla vastissima flotta di navigli
mercantili di Fiandra:
… non essendo quasi mai che nel solo porto di Amsterdam in Olanda non se ne vedano 300
e 400 e alle volte 600… (E. Albéri. Cit. S. I, v. IV, p.395.)
Questi embargos (fr.arrestes, fermetures des ports; ol. bestagen, beslaanen; ct.
impediments de senyoria) a scopi militari erano prassi legale e comunissima presso tutte le
potenze marittime né i mercanti, i proprietari e i padroni di navi potevano rifiutarsi di
consegnare i loro vascelli perché l'editto di sequestro che il principe emanava era del tutto
incontrovertibile. Un embargo a danno della sola Venezia fu, come annotava il cronachista
leccese Antonello Coniger, quello che decretò nel 1505 il sultano di Costantinopoli,
ordinando di fermare nel porto d’Alessandria le galeazze e gli altri mercantili veneziani che
allora vi si trovassero, evidentemente per esercitare così una pressione sulla Serenissima,
ma quei vascelli riuscirono egualmente a fuggire.
I ragusei, mercenari del mare per eccellenza e nel tempo tributari di austro-ungheresi,
aragonesi, veneziani e turchi, davano di conseguenza e senza problemi a nolo i loro vascelli
da trasporto sia ai cristiani che ai maomettani, come avvenne nel 1574, quando il sultano
Selim II, prossimo a morire, fece trattenere le navi mercantili veneziane che si trovavano nei
porti del Levante e prese a nolo appunto le navi dei ragusei, perché trasportassero le
provvisioni al seguito della sua armata che si preparava alla riconquista della Goletta.
Aveva lo stesso sultano fatto requisire due mercantili veneziani nel 1571 per la guerra di
Cipro; nel 1582 poi Filippo II fece trattenere nel porto di Napoli tutti i mercantili che vi erano
capitati per servirsene nelle operazioni previste per contrastare le pretensioni d’Antonio
priore d’Ocrat sul trono di Portogallo, pretensioni che furono appoggiate concretamente,
ma sfortunatamente da Caterina de’ Medici e infatti nella già menzionata battaglia marittima
avvenuta nel luglio di quell’anno presso le isole Terzeire l’armata francese comandata da
Filippo Strozzi, figlio del maresciallo Piero, la quale era andata a sostenere le pretensioni di
Antonio d’Ocrat al trono del Portogallo, sebbene forte di 60 vascelli, fu sconfitta e fugata da
i soli 26 spagnoli del marchese di Santa Cruz, il quale con una crudeltà, oggi diremmo
1014
‘terroristica’, paragonabile solo a quella delle invasioni mongole in Medio Oriente nel
Medioevo, non contento d’aver preso il vascello capitano nemico e lo stesso Strozzi ferito
mortalmente, lo fece gettare in mare e fece anche in parte impiccare e in parte decapitare
ben 800 soldati francesi che si erano onorevolmente arresi; il de Bourdeilles, scrivendo poi
nel 1590 delle grandi qualità di capitano generale del Santa Cruz, non si dilunga infatti
molto, così giustificandosi:
… Fu dunque il detto marchese che sconfisse il signor Strozzi presso le Terzere; ecco
perché io non mi dilungherò nei suoi elogi, anche se egli ne merita certo di più alti dei miei;
ma mi farebbe male dover dire tanto bene di colui che ha fatto morire il mio più grande
amico e che ha fatto morire e tagliare la testa a tanti buoni gentiluomini francesi, come egli
appunto fece in quel viaggio. (Cit. )
In effetti poi il Santa Cruz, nonostante quel grande successo, non restò nelle grazie del suo
re, perché lo si accusò di non aver ‘seguito’ la vittoria e di non aver occupato le Terzeire, le
quali erano ormai rimaste ben poco difese.
Una volta presi a nolo o a servizio questi vascelli mercantili sequestrati era compito e spesa
del principe sequestratore raddobbarli, armarli e fornirli di tutte quelle provvisioni che si
convenivano all'impresa che si andava ad affrontare e solo allora si poteva pretendere da
un padrone sottoposto a embargo che seguisse l'armata senza pregiudizio per il suo
vascello.
La prima notizia della formazione d'una armata reale spagnola permanente di vascelli tondi
si legge nella relazione del residente veneziano in Spagna Francesco Vendramin, la quale è
del 1595 (Cit.). Scopo di tale armata era la difesa dei traffici con le Indie Occidentali e la sua
costituzione era stata decisa in conseguenza del grandissimo danno che quelle flotte di
galeoni e navi provenienti dalle Americhe apportavano i corsari inglesi, tanto più
imbaldanziti da quando c'era stato il disastro dell'Invencible Armada; come abbiamo già
ricordato, quello storico evento aveva conferito infatti tanta maggior sicumera a quegli
esperti e coraggiosi navigatori che nel 1593 così riferiva il già citato Tommaso Contarini:
… Per questa infelice riuscita delle cose tentate da’ spagnuoli, reso più audace e insolente,
l’inglese, con grosse armate proviste di tutte le cose necessarie e sopra tutto di
esperimentati ed eccellenti capitani, s’è fatto e fa tuttavia sentire per tutti i mari, sviando le
navigazioni, spogliando i mercanti, distruggendo i commerci e apportando infiniti
incommodi alle flotte che dal Mondo nuovo e dalle Indie orientali indirizzano il loro viaggio
verso Lisbona, havendo in questi tre anni passati fatto preda di ottocento vascelli. (E.
Albéri. Cit. S. I, v. V, p. 412.)
I corsari aspettavano le flotte spagnole provenienti dalle Indie Occidentali con i loro ricchi
carichi specialmente nelle acque tra le Isole Azzorre e le coste della Spagna e quindi quelle
1015
... L'armata grossa è di dodici galeoni d'ordinario in Siviglia e altrettanti in Lisbona per
assicurar la flotta a spese della mercanzia. (Ib. S. I, v. V, p. 488.)
indicare il luogo di raccolta (fr. rendré-vous; ol. wagt-plaats) d'un esercito di terra od di
un’armata di mare, è preso a prestito dalla pastorizia, indicandosi appunto con massa il
posto in cui si adunavano in Puglia i greggi da condurre in transumanza sino ai pascoli
d'Abruzzo. Una seconda condizione era che le squadre che a Messina confluivano dai vari
stati cristiani si raccogliessero in tempo utile perché, finita l'estate, non conveniva più
andare ad affrontare, oltre al nemico, anche le burrasche autunnali; però alcune volte un
capitano generale della Lega poteva strategicamente scegliere di sfidare il maltempo
d'ottobre pur di non trovarsi poi alle spalle l'armata turca proveniente da levante in
soccorso dei suoi tributari barbareschi; ciò perché appunto a ottobre quest'armata andava
a disarmarsi a nei porti anatolici. Quanto sofferta e pericolosa fosse questa scelta l'abbiamo
già accennato a proposito dell'impresa d’Algeri di Carlo V nel 1541 e di quella di Famagosta
dei veneziani nel 1570. Dunque era su questa difficoltà di raccogliere l'armata in tempo utile
e su l'opposta tentazione di condurre la guerra fuori stagione che si giocavano la maggior
parte degli esiti dell'imprese di mare delle Leghe cristiane del Cinquecento. Per non essersi
riusciti a completare la massa a Messina fallì con perdita di molti vascelli l'impresa portata
contro la Barbaria nel 1559, impresa poi sfortunatamente ritentata l’anno successivo con la
disastrosa sconfitta subita all’isola delle Gerbe, come poi, per simili e per altri motivi, non
riuscirà quella già ricordata di Gioan Andrea d’Oria contro Algeri nel 1601.
Nel porto in cui si faceva la massa di un’armata bisognava sorvegliare di notte i vascelli alla
fonda e all'attracco destinati all'impresa con ronde di fregatine o schifi che girassero loro
attorno per tener lontani i nuotatori sospetti e le piccole imbarcazioni e per impedire che
qualche spia lasciasse detti vascelli per andare ad avvisare il nemico dei preparativi in atto.
Nuotatori subacquei nemici potevano infatti nottetempo venire ad attaccare il fuoco
all'opera viva dei vascelli (cosa che si faceva preferibilmente presso il timone o in
corrispondenza della S. Barbara), accendendovi fuochi artificiati, di quelli, detti greci o
d'Alessandro, che erano inestinguibili e che talvolta ardevano anche sott'acqua, come
abbiamo già detto nel capitolo sulle forniture marittime, usandosi in tali casi come micci
delle manichette impermeabili piene delle stesse suddette sostanze. Una spia fu scoperta a
Napoli alla fine del 1571:
… È stato tenagliato per tutta la città e poi impiccato uno di Cattaro, spia turca. (N. Nicolini.
Cit.)
Per chi non lo sapesse, tenagliato vuol dire che il condannato era stato portato in giro per la
città su un carro mentre un carnefice gli andava straziando le carni con tenaglie arroventate
e una simpatica variazione a questo supplizio poteva essere il lardellamento, ossia il
1018
sostituire le tenaglie con continui versamenti di lardo fuso sulla pelle del giustiziando; si
trattava comunque di supplizi che, incredibile a dirsi, in realtà non eguagliavano in crudeltà
né l’impalamento né lo scorticamento né il rogo, tutti preferiti invece dai maomettani se si
eccettuano i cavalieri di Rodi, i quali avevano praticato correntemente il primo, come si
legge nel diario del viaggio in Terrasanta di Gabriele Capodilista, quando cioè i pellegrini
giungono appunto in quell’isola:
… E nel dicto giorno (domenica 11 giugno 1458) hebbeno novelle che una galea della
cruciata (ossia ponentina) e una de Rhodi havevano prese tre fuste de turchi, le quale
dovevano gionzere fra pochi giorni e dovevano esser tagliati a pezi e fiti suxo palli (‘infitti su
pali, impalati’), come è usanza di fare quelli cavallieri rodiani, perché el simile e pezo
(‘peggio’) turchi fanno loro… (A. L. Momigliano Lepschy. Cit.)
Tornando alle spie, diremo che sorte non molto più grata era poi capitata a un’altra che era
stata presa a Messina nel giugno del 1572, quando cioè nel suo porto Giovanni d’Austria
aveva nuovamente raccolto un’armata contro Costantinopoli nella speranza di ripetere la
grande impresa dell’anno precedente:
…in sul far della sera fu presa una spia e, disaminata, si trovò il suo fallo meritevole di
esser, come fu, per tutta Messina strascinata a coda di cavallo e di poi squartata… (N.
Nicolini. Cit.)
Nella già citata relazione sullo stato del regno di Sicilia all’inizio del Seicento così l’anonimo
autore scriveva testualmente:
…Estando este Reyno tan cerca de infieles, conviene procurar tener particulares
inteligencias y avisos de su andamientos… al presente hay dos espias residentes en
Constantinopla y demas de esto se embiaron el año pasado otras tres para, en caso que
viniese armada, se embarcasen con ella… (Ristretto delle forze interne etc. Cit.)
Bisognava poi guardare i vascelli dal pericolo dell’incendio portato dai brulotti (gr.
πυρφόρεῑς ηῆες; fr. brulots, navires sorciers; ol. brenderen, brandt-schips), navi di piccolo
tonnellaggio e cariche di barili di polvere d’artiglieria e di grosse pietre, le quali, già in uso
nel Trecento - ma allora cariche solo di brusca e materie incendiarie, equipaggiate solo con
pochi uomini che percepivano per questo pericoloso lavoro una doppia paga (l. duplicarii),
erano spinte col vento a favore contro l'armata nemica attraccata nel ristretto spazio del
porto della massa e, accese le polveri al momento opportuno, possibilmente dopo esser
addirittura riusciti ad agganciarle ai vascelli nemici, le facevano saltare attaccando così
anche a questi un violento fuoco; perché le polveri dei brulotti si accendessero al momento
giusto, si usavano lunghi stoppini artificiati dalla sperimentata durata e strisce di polvere
(fr. fusées d’artifices ou de poudre à canon; ol. vuur-pijlen), oppure - e ciò già allora, cioè
1019
già nella seconda metà del Cinquecento - ci si serviva di congegni d’acciarini a orologeria, i
quali erano tecnicamente possibili in quanto molti orologi a molle e ruote erano già in quei
tempi provvisti del meccanismo detto svegliarino.
Otto furono i brulotti inglesi che, veleggiando dall'Inghilterra, raggiunsero parte
dell'Invencible Armada che nel 1588 si trovava nel porto di Calais per invadere la Gran
Bretagna; i vascelli spagnoli li avevano avvistati in tempo, ma, non accorgendosi che si
trattava di pericolosi brulotti, invece di sfuggirli andarono a circondarli e ne restarono
distrutti; anche questo preliminare episodio di quella tragica impresa dimostra quanto fosse
inetto e inesperto il generalato che il duca di Medina-Sidonia esercitava su quell'enorme
armata, la più grande che avesse mai solcato ogni mare; infatti la vera fortuna degli inglesi
era stata la repentina morte del marchese di Santa Cruz avvenuta poco tempo prima a
Lisbona, perché appunto al valoroso marchese doveva essere affidato il comando anche di
quella spedizione. Solo pochi anni prima, cioè nel 1585, tre brulotti esplosivi di nuova
concezione progettati dal mantovano Federico Giambelli (detto da olandesi e inglesi anche
Genibelli o Gianibelli), uno dei tanti eccellenti architetti ingeneri militari italiani di cui molte
corti europee si servivano, avevano distrutto un meraviglioso ponte galleggiante che
Alessandro Farnese, grandissimo capitano generale di terra, aveva fatto costruire sul fiume
Escaut per stringere maggiormente il suo assedio attorno ad Anversa durante le
sanguinose guerre di Fiandra (de Hondt e Strada); il Genibelli poi, caduta Anversa e
divenuto nel frattempo famoso per dette sue realizzazioni, passerà dal servizio olandese a
quello britannico. Comunque, il primo uso dei brulotti a polvere d'artiglieria di cui siamo
riusciti a trovare notizia è quello avvenuto tra il 13 e il 19 settembre 1495 nel porto di Napoli,
mentre questa città era difesa dagli aragonesi dall'assalto dell'armata di mare angioina,
come si legge nelle cronache di Marin Sanuto:
... et essendo in assedio li castelli e combattendo Pizafalcon e l'armata franzese esser sotto
li castelli, el re (Ferandino d'Aragona) parecchiò do nave e messe dentro di brusca e
polvere di bombarde per mandarle apizate a brusar ditta armata [...] Unde, messo le nave in
hordine e trovato homeni che li bastò l'animo de far questo, e a dì ditto fonno messe a vella
con uno vento in pope via ed, essendo mezo mio (‘miglio’) lontan di l'armata, quelli dentro li
parse metter foco; e per el gran vento el fuogo se impiò in le velle, in modo che le nave non
poté far camin e se brusono tutte avanti zonzesseno a ditta armata nemicha. Quelli le
conducevano montò ne la barcha e ritornò in la terra, havendo gran dolor di haver apizato el
fuogo molto per tempo, 'sì che non fo fatto nulla e perso la spesa. (Cit.)
Ovviamente l'uso dei brulotti è molto più antico di quello della polvere d'artiglieria e
numerosi sarebbero gli esempi della storia medioevale, quando cioè i brulotti si riempivano
di fascine e materie incendiarie, come oli, peci e bitumi, e si spingevano contro i vascelli
1020
nemici perché v'appiccassero il fuoco; l’esempio più antico che troviamo è quello
menzionato dallo storico Teofane Isauro all’inizio del nono sec. nella sua Chronographia a
proposito del fallito assedio saraceno di Bisanzio dell’anno 709, cioè quando l’imperatore
Giustiniano II comandò di far uscire dei brulotti contro l’armata avversaria, incendiandone
così un buon numero di navi nemiche che si erano ammassate in angustie portuali:
… Il pio imperatore immediatamente fece uscire dalla darsena della citta delle navi ardenti
contro di quelle, le quali, col favore degli dei, presero facilmente fuoco (ὀ δὲ εὐσεβὴς
βασιλεὺς παραχρῆμα ἐμπύρους ναῡς ϰατ'αὐτῶν ἐϰπέμψας ἀπὸ τῆς ἀϰροπόλεως, θείᾀ
συμμαχίᾀ πυριαλώτους αὐτὰς ἐποίησεν·)
Troviamo una seconda menzione dell’uso dei brulotti fatto dai bizantini nell’opera di un
altro storico, Genesio, questo però vissuto nel decimo secolo, il quale nel libro II del suo
Regum libri narra un episodio delle guerre civili che si combatterono nell’Alto Medio Evo
tra l’imperatore Michele II l’Amoriano e i suoi ribelli Tommaso e Gregorio tra gli anni 821 e
823:
Un terzo brano storico, però di ben quattro secoli più tardo, che menziona i brulotti è quello
che lo Jal trae dalle cronache delle guerre di Sicilia raccolte nel tomo VIII del Muratori e che
si riferisce a un tentativo di bruciare un ponte fluviale fatto dai barbareschi nel lontano
1218:
A bordo di questi vascelli incendiari si ponevano però ora, oltre alla povere d'artiglieria e
alle grosse pietre che, lanciate dall'esplosione, si tramutavano in devastanti proiettili, anche
recipienti di quelle complicate misture incendiarie, dette fuochi artificiati di guerra, di cui
abbiamo già parlato e che, accese e lanciate in aria dalle polveri, ricadevano anch'esse sui
vascelli nemici attaccandovi il fuoco. Per difendersi dai brulotti, come del resto anche dagli
abbordaggi e dagli urti accidentali, bisognava avere pronti in coperta dei buttafuori [fr.
bout(e)-(de)hors, minots, défences, de(f)fenses; ol. londt-stoken], i quali potevano essere o
1021
quei raffi inastati con i quali solitamente si evitava che due vascelli all’ancora, spinti dalle
onde, venissero a urtarsi oppure semplicemente delle lunghe pertiche o pezzi d’albero
lunghi da 15 a 20 piedi che si fissavano sporgenti fuori dal bordo perché ostacolassero il
contatto. Era però naturalmente meglio se si poteva evitare che essi arrivassero così vicini
ai propri vascelli e pertanto bisognava prima tentare di far andare loro incontro scialuppe
con marinai che andassero ad abbordarli per fermarli o deviarne il corso, come per esempio
faranno i francesi alla battaglia della Manica nel maggio 1692 per allontanare i brulotti della
flotta anglolandese nemica.
Quando l'armata di mare era pronta a lasciare gli ormeggi (ltm. palamaria solvere) e a
partire per la prefissata impresa di guerra, bisognava che il suo generale ordinasse che si
togliessero le vele e i timoni a tutti i vascelli mercantili presenti in quel porto, affinché, se
tra quelli ci fosse eventualmente stato qualche piccolo legno-spia del nemico, questo non si
sarebbe potuto nascostamente allontanare per andare ad avvisare i suoi dell'imminente
partenza dell'armata:
... I cavalieri di S. Giovanni, chiamati hoggi di Malta, tengono il medesimo stile quando sono
per andare a fare alcuna impresa in Levante o in Barbaria o dove son chiamati
all'occasione, trattenendo, alquanti giorni prima che si partano e alquanti dapoi che si son
partiti, tutti i vascelli o grandi o piccioli o proprij o forastieri che si trovino ne i lor porti per
non esser disturbati. (P. Pantera. Cit. P. 313.)
Ma bisognava tener segreta la data d’ogni singola partenza di galera e quindi ogni capitano,
anche dovendo andare in semplice corso, era tenuto a non confidarla a nessuno dei suoi
ufficiali prima di metterla in atto. Arrivato però finalmente il tempo della partenza, il capitano
generale dell'armata ordinava che alla poppa della sua galera si ostentasse la bandiera della
partenza, la quale s’inalberava in genere al calcese dell'albero di maestra o sulla penna
dell'antenna, come più piaceva al capitano medesimo, ma sui vascelli tondi anche a poppa.
Sui vascelli olandesi questo vessillo era chiamato de blaauwe vlag perché appunto
tradizionalmente usato da quella nazione di color azzurro. Gli uomini dovevano imbarcarsi
senza portar a bordo roba superflua che potesse ingombrare o appesantire la galera e ciò
pena gravi punizioni; solo ai passeggeri che fossero dei personaggi d'autorità e dei
venturieri d'alto lignaggio era concesso di portare casse o forzieri interi d'effetti personali,
senza però che anche costoro eccedessero pretendendo di volersi portare roba
d'ostentazione, di pompa o di soverchia comodità e ciò anche in considerazione che
spesso, durante una burrasca, si doveva, come già sappiamo, ricorrere al gettare in mare la
roba meno utile per alleggerire il vascello. Per lo stesso motivo il capitano di galera non
doveva permettere che s’imbarcassero dei servi al seguito, a meno che fossero quelli di
1022
signori di gran qualità e, per quanto riguarda i gentiluomini venturieri, al massimo poteva
accettare uno schiavo per ogni due di loro; né doveva permettere che salissero a bordo
meretrici e sbarbatelli equivoci, i quali, altre all'ingombro, avrebbero presto provocato
questioni e scandali tra gli uomini dell'equipaggio; allo stesso modo non si sarebbero
dovuti accettare né passeggeri né roba di nolo, soprattutto senza averne ricevuto licenza
dal generale volta per volta, ma in effetti si accettavano gli uni e l'altra per la cupidigia di
danaro dei capitani. In ogni caso il capitano di galera non doveva accettare troppi
passeggeri e, se anche glieli avesse mandati il suo generale, doveva rifiutarli ugualmente;
e, se poi il generale avesse insistito a comandarglielo, allora doveva recarsi da lui e
protestare l’imbarazzo che gli si stava così procurando, il danno che la sua galera ne
avrebbe potuto ricevere, il pericolo a cui la si esponeva e per il quale egli declinava
ovviamente ogni responsabilità.
Le partenze di singole o di poche galere avvenivano per lo più segretamente di notte e ciò
perché era frequente che flottiglie di corsari turco-barbareschi si nascondessero nelle cale
d’isole vicine proprio per assalire all’improvviso i vascelli uscenti dal porto, come per
esempio a Porto Paone di Nisida o a Caleta de Fuste in Spagna; quando ciò avveniva ai
danni d’imbarcazioni mercantili, si poteva considerare la cosa una triste fatalità, ma, se
erano così aggrediti dei vascelli militari, allora non si poteva trattare di sfortuna, bensì
certamente d’imperizia del comandante. Nel caso d’intere armate non c’era ovviamente
bisogno di temere simili limitati assalti e si poteva quindi partire senz’altro di giorno,
preoccupandocisi solo, come abbiamo già detto, di tener segreta la destinazione perché il
nemico non venisse a sapere qual era l’obiettivo della spedizione e non potesse così
approntare al meglio le sue difese; due ore prima della partenza il capitano generale faceva
quindi scaricare a salve un pezzo d'artiglieria della sua galera per richiamare a bordo
dell'armata coloro che, nonostante fosse ormai ostentata da tempo la predetta bandiera di
partenza, ancora si attardassero a terra e nel medesimo tempo e allo stesso scopo faceva
suonare il leva leva (‘partenza!’) con la tromba (sp. tocar a leva); consegnava
personalmente ai capitani di tutte le galere convenuti sulla sua - o glieli faceva pervenire - i
suoi ordini disciplinari con le relative pene previste, ordini e pene che erano più o meno
simili in tutte le squadre e le armate di galere cristiane e che si dovevano subito pubblicare,
ossia affiggere, in ogni galera, affinché nessuno potesse allegare d'ignorarli. Tralasciando
certamente la maggior parte di tali ordini che trattavano delle segnalazioni marittime,
materia che, seppur interessante, appesantirebbe troppo il nostro discorso, traiamo ora da
essi solo quanto di singolare e inatteso potessero generalmente presentare e cominceremo
1023
col dire che non più s’usavano alcuni modi antichi di segnalazione diurna e cioè il riflettere
la luce del sole con degli specchi e lo sventolare tele molto bianche, modi che si
consigliano per esempio nella già ricordata Ναυμαχία bizantina del sesto secolo.
Se si scoprivano per esempio vele da una galera in navigazione, l'informazione andava
subito passata alle altre della stessa armata col mettere di giorno una bandiera o un panno
sul calcese e di notte coll'uso di fanali o di lampi di polvere d'artiglieria, se da lontano, e
con la semplice voce se da vicino, non avendo noi trovato per questo periodo ancora
traccia del megafono di ferro bianco, [fr. porte-voix, trompe(tte)-parlante; ol. roeper, spreek-
trompet] strumento che vedremo invece in uso un secolo dopo e la cui invenzione sarà
allora attribuita all’inglese Morlan; se le vele scoperte fossero risultate nemiche, allora
bisognava regalare 10 scudi di premio al primo uomo che le avesse viste e segnalate. A
Lepanto una fregata esploratrice cristiana avvisò l’armata di Giovanni d’Austria
dell’avvicinarsi di quella nemica semplicemente mettendosi alla sua vista da lontano e
passando alla banda, ossia mostrandole uno dei fianchi spalmati; la lucida bianchezza del
sego era infatti rivelatrice, specie quando rifletteva i raggi del sole.
Se la galera Reale - o anche la Capitana nel caso d’una sola squadra oppure la Magistrale
nel caso di Malta (gr. τριήρης βἂσιλιϰή) - spiegava sullo stentarolo o pilastrino di poppa una
bandiera quadra bianca, significava che bisognava fare un’elargizione straordinaria di pane
alle ciurme, una rossa voleva invece dire che bisognava darle del vino e ovviamente pane e
vino insieme se ne ostentavano insieme una bianca e una rossa. Se una galera qualsiasi
mostrava invece allo stentarolo una bandiera con una mano dipinta nel mezzo, ciò
significava che aveva immediato bisogno d'aiuto dalle altre più vicine, perché magari aveva
perso l'albero, l'antenna o le vele o le era capitato qualche altro accidente particolarmente
grave; probabilmente da quest'antico segnale è derivato il modo di dire dare una mano, per
dire porgere aiuto. Se l'incidente avveniva di notte, la galera bisognosa d'aiuto sparava un
colpo di cannone o segnalava a mezzo del fanale o di lanterne poste in luoghi convenzionali
della sua attrezzatura (ol. blikken, blik-vuuren); lo stesso faceva di giorno se era molto
lontana dalle altre e, se era più vicina, ma sempre non abbastanza da mostrare alle altre la
predetta bandiera di soccorso, allora faceva una o due fumate bianche con un fuoco che si
accendeva sul capomartino. In caso di nebbia tanto fitta che i vascelli d’una stessa flotta o
squadra non potessero vedersi, quello che portava lo stendardo tirava, per esempio, tre
colpi di cannone ogni mezz’ora e gli altri confermavano la loro presenza rispondendo con
trombe o tamburi.
1024
Se la Capitana mostrava sulla ruota di poppa una bandiera pendente, voleva dire che tutte
le altre dovevano seguirla sottovento in fila indiana, venendo per prima la galera Padrona e
poi tutte le altre secondo il loro diritto di precedenza per anzianità o preminenza. Ogni
mattina all'aurora e ogni sera al tramonto le galere dovevano salutare la loro Capitana con
le trombe, se le avevano, altrimenti alla voce, ossia con la voce delle ciurme, sempre però
che il tempo lo permettesse e non ci fosse pericolo d'essere così uditi e localizzati dal
vicino nemico. Ogni sera bisognava anche che ogni galera mandasse qualche ufficiale a
bordo della Capitana, mettendo a mare lo schifo, a prendere, come d'uso, la tessera od il
nome, ossia la parola d'ordine valevole per le prossime 24 ore; se ciò non fosse stato una
sera possibile per il maltempo o perché magari la Capitana navigasse forte senza curarsi di
dare il predetto nome, allora si usava ancora quello della sera precedente oppure uno
convenzionale ordinato prima della partenza. Bisognava poi che ogni galera facesse
generalmente quello che faceva la Capitana, senza però per questo prevenirla in niente; per
esempio nessuna poteva mandar l'uomo alla penna per vedetta, cosa che poi spiegheremo,
né mettere in mare lo schifo o una fregatina se ciò non era stato fatto prima dalla Capitana,
a meno che fosse per ovvia necessità o che sulla Capitana fosse stata esposta la
banderuola - bianca nel caso degli olandesi e dei francesi - che faceva da segnale di
convocazione a parlamento dei capitani delle galere (ol. pitsjaars-vlag), i quali vi sarebbero
subito andati portando con sé i loro piloti e i loro consiglieri più savi e autorevoli. Anche la
vela da alzare si segnalava dalla poppa della galera Capitana, si mostrava infatti una
particolare bandiera perché tutti alzassero il bastardo e la si teneva sulla sua asta (vn.
staza) finché tutte l'avessero vista; la stessa bandiera si mostrava due volte se si doveva
innalzare la borda, tre volte per il marabotto e quattro per il trevo. Bisogna infine
considerare che già allora esisteva il far bandiera bianca al nemico in segno di richiesta di
sospensione d’ostilità – o, non avendone, sollevare un cappello sulla punta d’una picca,
ma, nel caso della guerra tra cristiani e maomettani, tal bandiera si chiamava bandiera
bianca di ricatto, in quanto il suo significato era stato in origine quello di fermare il
combattimento per procedere al ricatto (‘riscatto’, ‘scambio’) dei prigionieri; da qui poi il
modo di dire far bandiera di ricatto, nel senso appunto di ricattare, taglieggiare. Su questo
argomento è interessante anche leggere la novella El amante liberal del Cervantes, dove i
prigionieri cristiani dei barbareschi da mettere a riscatto non sembravano poi in verità esser
trattati tanto duramente quanto da sempre raccontavano le cronache e, come nel caso
seguente, anche i registri delle deliberazioni del Senato veneziano
1025
(9 dicembre 1389) … Invio d’un ambasciatore a Tunisi per riscatatre i prigionieri che vi
sono trattati “come dei cani” (Envoi d'un ambassadeur à Tunis pour racheter les captifs qui
y sont traités
“comme des chiens” (Hippolyte Noiret, Cit. P. 29).
La materia delle segnalazioni marittime era, allora come oggi, molto complessa ed è quindi
conveniente abbandonarla qui; aggiungeremo solo necessariamente che la galera Capitana
portava a poppa un grande fanale in mezzo a due lanterne minori dette sottofanali dai
veneziani; la galera Patrona - o qualsiasi altra che avesse comando sulle altre - portava il
solo fanale in segno di preminenza e precedenza sulle galere ordinarie, le quali invece
portavano una semplice lanterna di posizione; ma le galere di retroguardia, avendo
ovviamente più necessità di farsi scorgere davanti che da dietro, oltre alla lanterna predetta
ne portavano un’altra detta ampione (‘lampione’) e accesa nel calcese del trinchetto,
affinché potessero appunto essere individuate di notte da quelle che le precedevano. Questi
usi per le galere di comando furono introdotti nella prima metà del Cinquecento dal principe
Andrea d'Oria nella sua squadra di particolari genovesi e poi furono via via imitati dalle
squadre di galere delle altre nazioni, Venezia inclusa, in quanto sino allora le Capitane,
anche quelle delle squadre medievali (vedi la già cit. ordinanza aragono-catalana del 1354 a
p. 89), avevano sempre portato il solo grande fanale, limitando l'uso dei due lumi aggiuntivi,
i quali si ponevano più indietro verso le spalle, solo ai casi di fortunale o di notti
particolarmente buie. Nel corso del Seicento questi ordinamenti verranno da qualche
nazione ulteriormente modificati e troveremo per esempio la Capitana della squadra di
Francia, detta, come sappiamo, la Reale, distinguersi per portare a poppa tre fanali in linea
dritta, mentre le normali Capitane ne porteranno anch'esse tre, ma in linea curva, e le
Padrone due .Per quanto riguarda i vascelli tondi da guerra francesi, un’ordinanza reale del
1670 disporrà inoltre alla poppa quattro fanali per il vascello ammiraglio, tre invece i vascelli
del vice-ammiraglio, del ‘contro-ammiraglio’ (cioè l’ammiraglio della retroguardia) e del
capo di squadra e uno solamente tutti gli altri vascelli, da guerra o da mercanzia che
fossero; il che però differisce da quanto si legge nel vocabolario marittimo d’anonimo del
1681 e cioè normalmente tre fanali per il vascello ammiraglio, due per il vice-ammiraglio e
uno per gli altri vascelli; inoltre l’ammiraglio portava all’albero di maestra, oltre alla
bandiera reale, il suo personale stendardo, mentre il vice-ammiraglio (l. subpraefectus) e il
contro-ammiraglio lo portavano - ma sotto forma di gagliardetto o galante – il primo al
trinchetto e il secondo all’artimone.
Le galere di comando che portavano il grande fanale, dette per questo motivo galere di fanò
(dall’gr. φανός), potevano così di notte continuare a far da guida alle loro conserve, ossia
1026
alle altre che navigavano con loro e che dovevano pertanto limitarsi a seguire le loro luci di
poppa, luci che d'altro canto, unitamente ad altre occasionali che ora vedremo, servivano
anche a far segnalazioni a porti e fortezze costiere. Per questa ragione nessun’altra galera o
nave della squadra o dell'armata doveva portare fanale o altra luce accesa che potesse
confondersi con quelle di guida delle galere di comando, salvo in casi di convenienza o
necessità particolari; per lo stesso motivo di notte tutti i vascelli dovevano star dietro alle
loro Capitanie e queste a loro volta dietro alla loro Reale, anche quei vascelli che durante il
giorno avessero eventualmente preceduto la squadra o l'armata in avanscoperta o per
necessità di burrasca, di guerra o di caccia del nemico, essendo questi i soli motivi per cui
di giorno una galera ordinaria poteva passare e navigare avanti alla sua Capitana. Nelle
armate veneziane vigeva per esempio la regola che nessuna galera ardisse di sopravanzare
col suo sperone il fogone della galera Capitana. Bisognava anche star attenti a non far vela
sopra vento alla Capitana, cioè a non toglierle il vento, né ad accostarsi alla costa più di
quanto lo fosse già essa e in ogni caso bisognava portar gran rispetto sia a quella sia alle
altre che portassero fanale, vale a dire che fossero galere di comando.
Era anche usato amat(t)are, vale a dire segnalare dall’albero di maestra, in modo prescritto
eventi straordinari che avvenissero di notte, quali richieste di soccorso o necessità di
manovre impreviste, con una lanterna accesa sul calcese dell'albero oppure con tre lumi
posti uno a prora, uno al fogone e uno a poppa; oppure a prora, alla mezzania e a
capomartino; ovvero con uno o due lumi distanziati sull'antenna e, per quanto riguarda i
vascelli tondi, sul sartiame, sulle gabbie, sul bastone della bandiera ecc. Per esempio,
quando nel 1533 il già ricordato Girolamo da Canal (soprannominato anch’egli, come molto
più tardi il famoso pittore di ugual cognome, il Canaletto) combatté nei pressi dell'isola di
Candia contro il corsaro detto il Moro d'Alessandria, poiché la battaglia avvenne di notte,
affinché le sue galere sembrassero al nemico in numero doppio di quante invece in realtà
erano, ordinò che portassero, oltre all’ordinaria lanterna (o sottofanale) accesa a poppa,
anche un’altra a prua (Marco Guazzo, Historie di tutte le cose degne di memoria etc. Pp. 178
bis e segg. Venezia, 1545). Questi lumi o fuochi potevano, a seconda delle situazioni, essere
appunto del tutto palesi oppure coperti, ossia schermati dalla parte del nemico, se non si
voleva esser da quello scoperti.
A bordo i personaggi di riguardo potevano avere una lampada personale accesa per farsi
luce, ma si doveva trattare di lampade di sicurezza, cioè piene per metà d'acqua e con l'olio
di sopra, e non candele né altri tipi di lumi che potessero esser causa d'incendio. Quando
c'era vento in poppa, lo stesso fanale della galera doveva essere sostituito da una lanterna
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contenente tre o quattro lampade a grossi micci, perché non potesse così spargere a bordo
pericolose scintille di fuoco, pur facendosi in tal modo egualmente gran luce; c'era poi il
fanale di burrasca, cioè un lanternone rinforzato e ramato che ogni galera doveva
accendere in caso di fortunale notturno o d’altre situazioni di scarsa visibilità perché in tal
maniera non si perdessero di vista. Se portava la fanaleria di comando anche la galera
seconda in grado, fosse essa detta la Patrona o l'Almiranta, insomma quella del
luogotenente del capitano generale, allora la galera Capitana doveva portarne a poppa due
per distinguersi e farsi così seguire, mentre l'Almiranta restava magari di retroguardia onde
raccogliere da dietro in tal modo con il suo fanale tutta l'armata ed evitare che si
disperdesse.
Quando si stava fermi a pernottare nei porti e nelle cale, s’accendevano sotto la tenda gli
ampioni e fanali di coperta che servivano appunto a sorvegliare la ciurma di notte,
ovviamente tranne che si volesse restare occultati al nemico.
In un’armata d'importanza c'era, a bordo della galera di comando del capitano generale lo
stendardo reale, il quale pochi giorni prima della partenza dal porto della massa, ossia di
raccolta, era benedetto dal più eminente prelato del luogo oppure da un messo pontificio e
poi s’inalberava solennemente con sparo a salva prima degli archibugi, poi dei moschetti,
poi dei pezzi minori d'artiglieria e infine di quelli maggiori di tutta l'armata:
... La qual salutazione o salva, come si chiama nelle galee, si sforzino i capitani di far che
sia quanto più potrà essere ordinata, pomposa, allegra ed honorevole per riputazione
dell'armata e per un certo buon augurio della festa che si suol fare dopò la vittoria. Per la
medesima causa usi (il generale) esquisita diligenza perché'l vascello reale sia guarnito e
abbellito di stendardi vaghissimi e di bandiere ben lavorate, acciò faccia da ogni parte
graziosa mostra e riesca bene addobbata di ricchi ornamenti [...] se vi s’imbarcasse il
Principe o andasse a veder l'armata, che vi sia ricevuto con ogni possibil giubilo e applauso
delle voci della ciurma, de gl'instrumenti bellici e dell'artigliaria e, quando uscirà del porto,
che sia accompagnato con ogni termine d'honore e della riverenza che deveno portare i
vassalli al lor signore. Così fece il Principe d'Oria vecchio, quando il Principe Filippo di
Spagna s’imbarco nel porto di Rosas per venire in Italia del 1548, perciò che fece ornar tutta
l'armata di bandiere e di stendardi preziosissimi di varij colori con l'arme e imprese
dell'Imperatore e del Principe suo figliuolo, lavorate riccamente d'oro e d'argento, e fece
scaricar tanta artigliaria che non solamente levò col fumo la vista di ogn’altra cosa, ma con
lo strepito intronò i luochi circonvicini di maniera che parve che ruinassero. (P. Pantera Cit.
P. 198-199.)
partirono il 21 seguente (Ordenanzas etc. Cit. Alle pp. 26 e 27); ma, per tornare alla predetta
armata comandata da Andrea d’Oria, essa comprendeva, oltre alle galere proprie del
genovese, il quale soleva averne per lo più 22, anche quelle di Napoli e Sicilia e fu proprio
l’assenza delle galere napoletane dal loro regno che indusse Torgud ad assalire il golfo di
Napoli, dove fece quindi facile razzia delle popolazioni di Pozzuoli e di Castell’a Mare di
Stabia e dove, come racconta il de la Gravière, ebbe poi l’indisturbato ardire d’aprire a
Procida, avendo inalberato la consueta bandiera bianca del riscatto, una specie di mercato
dei numerosissimi schiavi appena fatti, mettendoli così a disposizione dei parenti che
giungevano in quell’isola per riscattarli con danaro sonante. In quei giorni una galera di
Malta, ignara della presenza in quei mari dei vascelli barbareschi, veniva dalla Francia con
circa ventimila scudi che i cavalieri giovanniti di quella nazione, detrattili dalle loro rendite,
si facevano ogni anno così portare a Malta per il loro sostentamento; arrivata all’altezza del
lago di Lucrino fu assalita da forze soverchianti di Dragut, le quali fecero strage di quei
cavalieri, nonostante la loro eroica difesa, e così poi i barbareschi, finalmente paghi degli
utili conseguiti, abbandonarono il golfo e tornarono ai loro covi africani (J. De la Gravière.
Cit.).
A proposito poi di bandiere e vessilli preparati per spedizioni navali, ecco quelle che Martín
de Córdova y de Velasco, conte de Alcaudete e signore di Montemayor, commissionò nel
1542 per l’armata di Barbaria affidatagli da Carlo V, armata destinata a partire dai porti di
Málaga e Cartagena:
… Stando dunque l’illustrissimo Signore nella sua villa di Montemayor, inviò il suo
cameriere Garcia de Navarrete alla città di Córdova con tutto il necessario per prendere le
sete per le sue bandiere e stemmi di quelle, le quali furono in numero di quarantaquattro,
molto belle, dai molti colori, croci e fasce e in ciascuna d’esse uno stemma rosso con la
Croce d’oro di Gerusalemme e la divisa che portano i cavalieri di Santiago nel mezzo della
Croce - e questo perché sua Signoria è cavaliere del detto ordine - con una scritta d’oro
intorno, la quale diceva: ‘Tu in ea et ego pro ea’… (Durand de Villegaignon, Nicolas. Cit.)
… Era di taffettà doppio, rosso, con molte scritte molto didascaliche e lettere d’oro
ricamate, le quali contenevano in sé grandi segreti e maraviglie, e nel mezzo di questo
stendardo, poiché era molto magnifico e grande, come conveniva per una tanto santa
impresa e perché rappresentava la persona reale, portava da una parte l’immagine della
pura Concezione della Vergine Nostra Signora, vestita d’azzurro, e dall’altra la Croce di
Gerusalemme e davanti un guidone bianco di damasco con la Croce di Gerusalemme in
mezzo e la divisa di Santiago con molto oro ricamato. (Ib.)
1029
Oltre alla guardia contro le insidie che potevano venire dalla propria ciurma, a bordo della
galera bisognava ovviamente organizzare anche quella contro il nemico, il quale era
perennemente incombente, perché, anche quando non si era in guerra con nessuno,
sempre il Mediterraneo era, come abbiamo visto, infestato da corsari e da veri e propri pirati
(fr. pirates, forbans, écumeurs de mer; ol. zee-roovers, zee-stroopers, zee-schuimers). A
questa seconda guardia erano adibiti i timonieri e i marinai chiamati parte e mezza; i primi
guardavano il timone e la poppa in genere sia di giorno che di notte, facendo attenzione che
nessun vascello si accostasse alla galera e che questa non si urtasse con altre della propria
squadra; i secondi avevano invece il compito di fare la guardia diurna sulla gabbia o sul
calcese, ossia sulla sommità dell'albero di maestra, per scoprire così da lontano sia la terra
sia gli altri vascelli. Nel 1528 furono appunto i guardiani del calcese della galera di Filippino
d'Oria a scoprire nel golfo di Salerno che il viceré di Napoli fra’ Hugo de Moncada,
comandante della squadra imperiale, per farla apparire maggiore di quanto in realtà fosse,
vi aveva mescolato diversi piccole imbarcazioni e Filippino, il quale già aveva risoluto di
fuggire la battaglia, temendo che il nemico gli fosse numericamente superiore d’un terzo,
avvisato invece di questo stratagemma del Moncada, l'affrontò e, soprattutto forse per
quella fortunatissima cannonata di cui abbiamo detto, lo vinse nella battaglia che si
combatté nelle acque di Capo d'Orso presso Maiori.
Nel giugno del 1480, cioè durante l’assedio turco di Rodi, un simile stratagemma fu
adoperato da Vittorio Soranzo, capitano generale dell’armata di mare veneziana, si trovava a
Modone con 28 galee quando da un’armata turca gli fu chiesto il permesso di entrare nel
Golfo, ossia nel Mar Adriatico, permesso che non poteva esser negato per via degli patti
che vigevano tra le due potenze; i turchi quindi passarono con una sessantina di vele, tra 13
galee e altri vascelli, e il Soranzo prese a seguirli per controllarne gli intenti, ma cercò di far
loro credere di disporre di forze maggiori (trad. dal veneziano):
… e il general, per far numero di vele, comandò al Reggimento di Corfù che facesse armar
30 gripi grossi con 30 fin 40 uomini per uno con obbligo de servir per 2 mesi; e che, (una
volta) armati, andassero a trovarlo (Domenico Malipiero, Avvisi veneti etc. Cit. Parte prima,
p.130-131).
L’armata turca in questione aveva relativamente poche galee perché non era stata preparata
per affrontare battaglie di mare bensì per andare ad aggredire niente di meno che Otranto:
… Fu messa a sacco la città di Otranto e furono tagliati a pezzi (‘uccisi all’arma bianca’)
12.000 uomeni. I turchi, avuta Otranto, tentarono Lecce e Taranto, ma Alfonso Duca de
Calabria, primogenito del Re Ferando di Napoli, andò a recuperar Otranto con 20.000 fanti e
60 galee, 6 navi e 16 caravelle di 300 fin 600 botti… (Ib.)
1030
… È stato deliberato di armare qua in la Terra 20 caravelle da 200 fin 400 botti con 50 uomini
per una con paga di due mesi…(ib. P. 170).
… Con la sollecitudine dei due esecutori (a ciò incaricati) sono partite 24 caravelle da 200
sin a 300 botti, con 50 uomini per una, ben armate (ib.)
Effettivamente i turchi dopo Otranto presero anche Lecce perchè si trattennero nell’italia
meridionale per parecchio tempo e quindi poterono fare scorrerie anche molto più a nod
della costa jonica; ma infine, sia per la predetta forte controffensiva portata dal duca di
Calabria sia per la notizia arrivata della morte del loro sultano Maometto II, deceduto il 3
maggio 1481 durante l’impresa di Persia, abbandonarono Otranto e le altre conquiste fatte e
se ne ripartirono dall’Italia (ib.)
Come si poteva fingere da lontano d’avere più vascelli del reale, si poteva anche far credere
d’averne di meno per attirare il nemico a battaglia; ciò si otteneva disalberando parte delle
galere e attraccandone una disalberata a una alberata, in modo che, posti gli scafi di fianco
rispetto al nemico, da lontano si vedeva una sola alberatura per ogni coppia di vascelli e
due galere sembravano una sola; oppure si potevano spiegare sulla galera delle vele
piccole o anche qualche quadra, in modo che da lontano sembrassero non dei vascelli
remieri da guerra, bensì delle barche a vela o delle piccole saettie.
Ai marinai chiamati parte e mezza toccava anche la guardia notturna di prora, ma questa
s’esercitava dalle rembate e in ciò essi erano coadiuvati dalle maestranze di bordo, alle
quali per consuetudine pure toccava questo stesso compito. Lo scopo della guardia di prua
era ancora quello di scoprire da lontano e inoltre d’evitare gli urti con le altre galere.
Quando si voleva esser più prudenti e si voleva scoprire il nemico da maggior distanza,
oltre alla guardia del calcese, si doveva far l'huomo alla penna (vn. far cicogna), cioè si
legava con un balzo un giovane proero alla penna dell'antenna e si alzava detta penna il più
possibile in verticale, facendone praticamente un prolungamento dell’albero e facendola
così diventare il punto più alto di tutta la galera; i balzi erano cinture attaccate all'antenna e
con le quali si sostenevano in aria i marinai addetti alle manovre aeree, affinché non
rischiassero di precipitare in coperta; per questo motivo i proeri in veneziano si
1031
chiamavano anche pennesi. Poiché la penna non era certo luogo comodo e sicuro, dovendo
il marinaio starsene a cavalcioni dell'antenna, non si poteva tener un uomo lassù se non per
breve tempo e conveniva quindi mandare l'huomo alla penna una volta allo spuntar del
sole, per vedere se la notte avesse riservato delle sorprese, e la sera immediatamente prima
del tramonto, per vedere se ne stesse per riservare; fu proprio questa diligenza che nel 1571
permise all'armata della Lega cristiana di scoprire molto da lontano l'armata ottomana
mentre questa spuntava dal promontorio chiamato Capo Matapan e quindi i cristiani ebbero
tutto il tempo di prepararsi alla battaglia ordinando comodamente le loro squadre. L’uomo
da mandare in osservazione alla penna della galea - e in generale al pennone della nave -
doveva essere, oltre che molto agile, anche un coraggioso e questa qualità ne faceva un
personaggio degno di privilegiate remunerazioni e col tempo anche un uomo di comando;
infatti, come abbiamo già visto, il sotto-còmito prese appunto il nome di pennese (gra.
τερθρηδών, da τέρθρον, ‘penna’).
Trovandosi la galera alla fonda in luogo sospetto e non protetto da alcuna fortezza amica,
conveniva integrare di giorno la guardia del calcese mettendo in terra dei timonieri o altri
marinai; questi si ponevano in postazioni elevate, per lo più su monti o colline vicine, e si
dicevano velette - termine più tardi corrotto in vedette - in quanto posti in alto come delle
piccole vele di perucchetto in capo agli alberi della nave. Essi dovevano da lassù segnalare
al loro vascello la presenza e i movimenti di vascelli lontani, trasmettendosi tra di loro tali
avvistamenti con segnali di fumo di giorno e di fuoco di notte, fino a farli appunto arrivare
alla guardia del calcese, in modo che il capitano ne fosse subito avvertito. Gli uomini
destinati a fare questo tipo di segnalazioni di notte si chiamavano in l. excubitores e in gr.
φρυϰτωροὶ; generalmente le fiaccole si mostravano immote pe significare che si stavano
avvicinando amici e invece si agitavano per dire di nemici.. Con una simile guardia posta
sui monti circostanti si salvò nel 1572 l'armata turca a Navarino, luogo già propizio per gli
ottomani dato che nel 1499 avevano in quelle acque sonoramente sconfitto la flotta
veneziana; il suo accorto generale Uluch-Alì fu infatti in tal maniera avvisato
tempestivamente dell'approssimarsi dell'armata della Lega cristiana, la quale era
desiderosa di ripetere il gran successo dell'anno precedente; poté quindi prevenirla
uscendo immediatamente da quel porto, ritirandosi sempre davanti al nemico e andandosi a
rifugiare nel molto più sicuro porto di Modone, dove armò le alture circostanti con
artiglierie, le quali, aggiunte a quelle della locale fortezza, convinsero i cristiani ad
andarsene; evitò così uno scontro che, dopo la rovinosa esperienza di quello della
campagna precedente, assolutamente non voleva accettare, e ciò nonostante avesse forze
1032
superiori a quelle della Lega, disponendo infatti, a quanto poterono numerare dai vascelli
cristiani, di 180 galere, 60 galeotte da 20 banchi e un numero di brigantini.
In caso di stesse alla fonda in luogo particolarmente sospetto, la guardia verso l'esterno
doveva essere intensificata e allora la notte si affidava la poppa della galera ai timonieri, le
spalle ai soldati di bordo, la prua alle maestranze, ai parte e mezza e ad altri soldati, mentre
l'aguzzino e i marinai di guardia potevano sorvegliare anch'essi dalla corsia, perché
ovviamente in tali situazioni di pericolo non si spiegava la tenda. Si mandavano inoltre
buoni marinai ben armati sulle fregatine, ossia sugli schifi di bordo, ai vicini capi e
promontori, acciocché, avvistando luci sul mare, ne dessero immediato avviso alla propria
armata segnalando tale avvistamento a mezzo di lumi e fuochi, i quali dovevano essere però
tenuti sì scoperti verso la propria armata, ma coperti invece dalla parte del nemico che si
approssimava altrimenti l'avvistamento sarebbe risultato reciproco. Bisognava poi tener in
mare altri schiffi e barchette perché sorvegliassero le gomene delle ancore; il nemico infatti
poteva nottetempo venire a tagliarle segretamente per mandar a terra i nostri vascelli e
attaccarli mentre fossero stati così impossibilitati a manovrare per difendersi; tali piccole
imbarcazioni di guardia avrebbero dovuto anche rivoltare a mare eventuali fuochi incendiari
galleggianti che il nemico, approfittando di vento o corrente favorevole, avesse mandato
verso i nostri vascelli alla fonda per appiccarvi il fuoco.
L’ordinanza catalana del 1354, più volte qui citata, disponeva che comunque in ogni caso,
stando la squadra all’ormeggio in terra o alla fonda, doveva il còmito della galera Capitana
mandare due persone a terra perché vi restassero tutto il tempo della sosta e facessero da
‘guardia’ (ma qui più nel senso di vedette e sentinelle), perché, essendo venuti poi
eventualmente a conoscenza di qualcosa di importante per la sicurezza della squadra, uno
dei due tornasse immediatamente a bordo a riferire lasciando l’altro di guardia (Cit. P. 93),
oppure, non potendosi tornare, facessero segnali al loro vascello.
A evitare che, approfittando dell'oscurità della notte, qualche spia salisse a bordo, alla
gente di guardia si distribuivano il nome, ossia la parola d'ordine, come già sappiamo, la
quale si chiamava così perché molto spesso si trattava di nomi di santi, ed inoltre eventuali
contrassegni aggiuntivi, quali voci contraffatte, fischi ecc., insomma allo stesso modo in cui
si faceva nella guerra di terra. Non si guardarono dalle spie alcuni capitani cristiani che nel
1572 si trovavano con i loro vascelli alla fonda a Candia; essi infatti, ingannati dalla falsa
promessa d’un grosso bottino fatta loro da un turco travestito da sacerdote greco, si fecero
condurre da questa spia sino a cadere in potere dell'armata d’Uluch-Alì, dalla quale furono
dunque presi e fatti schiavi.
1033
Trovandosi poi l'armata alla fonda in un’isola di piccolo circuito, si dovevano adibire le due
galere di guardia di cui abbiamo già detto o comunque due vascelli qualsiasi, ma sottili,
veloci e ben armati, alla continua circumnavigazione dell'isola, uno in un senso e un altro in
quello contrario, in modo da riconoscere tutte le coste senza sosta. Importantissimo era per
l'armata anche l'uso di vascelli esploratori, vascelli che dovevano essere particolarmente
agili, veloci e ben armati e che si mandavano a prender lingua, ossia, come già sappiamo, a
raccogliere informazioni e a spiare la consistenza e le mosse dell'armata nemica; questi
vascelli navigavano spesso anche di notte, dipinti interamente di nero e a luci spente per
non essere avvistati e in tali occasioni i còmiti non usavano il fischietto per dare i comandi,
ma lo facevano a bassa voce e con voce fischievole, ossia fischiettando debolmente con la
bocca; per lo stesso motivo a bordo di questi vascelli si tenevano i micci accesi per le armi
da fuoco nascosti in alcuni barili e non si permetteva di tenere nessuna luce all'interno
dello scafo in modo che potesse esser vista dall'esterno. Si poteva chiaramente aver
informazioni utili dalle popolazioni costiere (gr. παράλιοι, παραλιώται, παραλίται) e dalle
imbarcazioni di pescatori, ma più produttivo era a questo fine catturare vascelli nemici di
passaggio, i quali nel loro viaggio avevano più facilmente potuto, se non vedere, sapere
molte cose sui movimenti della loro armata; pertanto, appena catturatone uno, bisognava
separare tutti gli uomini di bordo in maniera che non potessero parlare l’uno con l’altro e
cominciare a interrogarli; ora, i marinai che servivano a bordo dei vascelli turco-barbareschi
erano in maggior parte greci, ma non bisognava pertanto credere che, in quanto cristiani,
avrebbero detto la verità e ciò perché, essendo generalmente tutti cointeressati alle
mercanzie che portavano a bordo, non potevano mettersi contro i loro padroni, senza
contare che i turchi poi gli avrebbero castigati, andando anche a distruggere le loro case in
Turchia o nelle isole del Peloponneso. Ricevendosi, come il più delle volte avveniva, varietà
di risposte da quest’interrogatori, si torturavano i turchi e i mori, specie gli ufficiali in
quanto più informati, mentre non c’era generalmente bisogno di farlo con i predetti greci
perché di solito questi, vedendosi di ciò minacciati, subito spiattellavano ogni cosa che
sapevano; pertanto, confrontate le varie confessioni così ottenute e ricavatane la verità, il
capitano inviato a prender lingua poteva tornare dal suo generale a riferire.
Le buone relazioni degli esploratori erano, per mare come per terra, della somma
importanza per la sicurezza dell'armata e per la preparazione dei piani di battaglia; la
mancanza di queste fu una delle ragioni determinanti della sconfitta dell'armata turca ai
Curzolari (‘Lepanto’) nell'anno 1571, perché fu mandato a riconoscere l'armata delle Lega
che si avvicinava un gruppo di galere comandate dal Caracosa, il quale, benché corsaro
1034
famoso e molto versato nelle cose marittime, non vide il corno sinistro dell'armata cristiana
che era comandato dal generale veneziano Barbarigo, perché quello si trovava in quel
momento dietro lo scoglio detto di Villamarino; egli dunque, tornato indietro, riferì quindi
erroneamente che le forze cristiane erano di molto inferiori a quelle ottomane, anche se una
certa moderata inferiorità in effetti c’era perché i cristiani, a leggere il Contarini,
combatterono con 203 galere e alcuni brigantini, appoggiati da 22 velieri, contro uno
schieramento turco di 209 galere, 37 galeotte e 20 fuste, appoggiato da una quarantina
d’altre vele che si trovavano in direzione del golfo di Corinto e diviso, come quello nemico,
in quattro formazioni, avendo infatti una battaglia di 96 tra galere e galeotte capitanate dallo
stesso capitano generale di terra Müezzin-zâde Alì Pasha e da Pertev Pasha, capitano
generale di mare, un corno destro di 55 comandato da Šuluk Mehmed, bey d’Alessandria e
detto Sciroc(c)o dai cristiani, un sinistro di 96 comandata da Uluch-Alì, il quale aveva
portato 20 galere barbaresche, e finalmente un soccorso di 30 tra galere, galeotte, ma
soprattutto fuste, il quale, essendo ciurmato di buonevoglie anche combattenti, pare fosse
privo di soldati; sembra infatti che, fortunatamente per quella della Lega, l’armata ottomana
non raccogliesse quel giorno tutte le sue forze, avendo in precedenza i turchi inviato in altri
luoghi 57 tra galere e galeotte, sei maone, 30 passa-cavalli e due navi recentemente prese ai
veneziani (G.P.Contarini. Cit.); di conseguenza, sebbene i turchi avessero ricevuto in
precedenza diverse altre relazioni più veritiere e che pare li facessero propendere più per
evitare la battaglia che per accettarla, incoraggiati ora dalle più fresche e autorevoli notizie
portate dal Caracosa, si presentarono allo scontro e furono rovinosamente sconfitti in una
delle battaglie più determinanti per il corso della storia. Müezzin-zâde Alì Pasha era
coadiuvato nel comando, oltre che dal suddetto Pertev Pasha, poi rimasto come lui ucciso
in quella battaglia, anche da Mustafà Celebin, esdey del tesoro ossia tesoriero generale,
Murat Trasil, scrivano dell’arsenale, Giafer Celebin, bey della gabella, Giafer Agà, bey di
Tripoli di Siria, Mamur, generale dei giannizzeri, Mamut Saider, bey di Metelino, Previl Agà,
bey di Napoli di Romania, Šuluk Mehed, bey d’Alessandria, Uluch-Alì, beglerbegi d’Algeri,
Caram Bey, figlio del predetto, Carabine (o Caraban), bey di Suriasar, Mehmed, bey di
Negroponto, Mohamed Ben Salah Raïs, figlio del sunnominato Salah Raïs beglerbegi
d’Algeri ed egli stesso reggente di quella città dal 1567 al 1568; Afis Clue Agà, bey di
Gallipoli, Hassan, bey di Rodi, Hassan Pasha, figlio questo del Barbarossa, Dardagan Bey,
governatore dell’arsenale, Caidar Memi, bey di Scio, Kaya, bey di Koca-ili, Kara Hozia, bey
di Valona, dai corsari Karagj Alì, Alì Genovese, Kara Hozia, Monsulman Alì, detto Caur o
Giaur Alì e da noi già più volte nominato, e da altri; il de Bourdeilles riporta anche altri nomi,
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In sostanza, se anche Müezzin-zâde Alì Pasha fosse scampato alla battaglia e fosse tornato
a Costantinopoli, certamente il sultano lo avrebbe accusato di colpevolezza e fatto
decapitare. Sull’altro fronte invece s’esaltarono i meriti dell’armata cristiana e per esempio il
Pantera, il quale dalle storie di Natal Conti trasse azioni e successi dell'armata della Lega
cristiana dei primi anni '70 del Cinquecento, scriveva che tali fatti, contenendo molte
variazioni della fortuna militare, erano esemplari per comprendere come bisognava
governare e condurre un’armata marittima; dava tra l’altro molta importanza al buon uso
che degli esploratori aveva saputo fare Giovanni d'Austria:
... soleva mandare ogni giorno vascelli benissimo armati sotto la scorta di valorosi e
qualificati personaggi a scoprir gli andamenti dell'armata turchesca, tra i quali il
Commendator Gil de Andrada, soldato prattico mandato hora con fregate ed hora con
velocissime galee rinforzate, la raguagliò sempre diligentemente. (Cit.)
Il de Andrada, noto anche per esser orbo di un occhio, riceverà poi il titolo di
commendatore dell’ordine di Malta e nel 1579 anche quello di generale delle galere di
Sicilia, incarico questo che però ricoprirà, non sappiamo perché, solo pochi mesi e anche
condividendolo con il conte di Villatorres.
Alcuni volevano che i vascelli esploratori fossero piccoli e sottili, quali erano le fregate e le
filuche, perché, in quanto piccoli, potevano scoprire senza essere scoperti; altri dicevano
invece che i vascelli piccoli erano anche deboli e potevano pertanto più facilmente essere
catturati dal nemico e diventare così giocoforza da spie delatori e ciò con grande
pregiudizio dell'armata che li mandava, preferendo dunque che si mandassero in missione
esplorativa galee veloci e rinforzate di buoni vogatori (sp. anche galeras escogidas), anche
se queste in effetti raramente potevano, date le loro dimensioni, scoprire senza essere
scoperte a loro volta. Questa seconda pratica era particolarmente usata dai veneziani e nel
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Tirreno si pensava che nessuno più di loro s’intendesse di milizia marittima, mentre, come
sappiamo, c'erano esperti veneziani che, a ragione, apprezzavano moltissimo usi e
caratteristiche delle galere ponentine; comunque anche nelle armate veneziane c'era anche
un certo numero di fregate che servivano ad andare a spiare le mosse del nemico e i loro
padroni (‘comandanti’) dovevano, dato il loro delicato incarico, essere intendenti, sagaci,
valorosi, ottimi nuotatori, conoscitori delle lingue principali del Mediterraneo, onde poter
facilmente prender lingua del nemico o dai navigli che incontrasse o dai rivieraschi; i loro
galeotti ottimali sarebbero poi dovuti essere non corpulenti e, nel caso delle fregate
veneziane in cui vogavano buonevoglie, anch'essi esperti nuotatori:
... Ed, essendo piccoli, asciutti e nervosi, sarebbono più atti a maneggiarsi (‘destreggiarsi’)
in un picciol legno e di men gravezza nell'andare alle dette fregate, durarebbono anche più
alla fatica del remo ed haverebbono somigliantemente gran lena in notar per lungo spazio.
(C. da Canal. Cit. P. 272.)
Bisognava dunque spiare senza sosta l'armata nemica con vascelli veloci e, trovandosi
molto vicini a essa, anche servendosi di nuotatori:
... di quei notatori di Samo che durano tutto un giorno a notare e star sopra l'acqua e più di
due hore sotto acqua, i quali, notando al buio della notte, si metteranno sotto il palamento e
apposticci delle galee dell'avversario a sentir quel che si tratta e la fama, murmurando,
riporta di banco in banco, come quando si passa la parola... (B. Crescenzio. Cit. P. 496.)
Dopo aver così orecchiato, i nuotatori avrebbero dovuto subito comunicare ciò che avevano
appreso al loro generale tramite le fregate amiche a cui si appoggiavano o anche tramite
segnalazioni convenute ad altre spie disseminate per mare ed eventualmente anche sulla
costa. Dell'abilità natatoria dei sami così ancora scriveva il Crescenzio:
... I greci che hoggi vi sono nell'isola di Samo - sono anchora di questi in Napoli di Romania
(‘Neapolis nel Peloponneso’) - sono 'sì dati all'essercizio del notare e andare sotto acqua
che tengono per commun proverbio tra loro che il giovane che non pesca qualche cosa
gettata a posta in mare, in cento passa di fondo, non merita darsegli moglie. (Ib. Pp. 496-
497.)
In effetti degli esperti palombari (fr. mourgons, plongeurs, plongeons, urinateurs; ol.
Duikers; sp. palomeros), nome che viene da palomba ossia colomba - vecchio nome della
chiglia, come abbiamo già detto - erano molto necessari a bordo della galera, tipo di
vascello che frequentava soprattutto acque costiere e quindi poco profonde, per andare
appunto a verificare eventuali danni riportati dalla predetta palomba in caso d’urto su scogli
sommersi o secche oppure per recuperare oggetti che fossero accidentalmente caduti in
mare. L’Aubin scriveva:
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Il da Canal consigliava che i padroni delle fregate esploratrici portassero due gagliardetti o
insegne per ciascuno dei principali capitani di mare del Mediterraneo e dei loro principi
stessi - uno da porsi a prua e l'altra in cima all'albero, in modo da farsi credere d'altra
nazione in caso di bisogno; anzi a bordo di queste fregate avrebbero tutti dovuto avere la
possibilità di cambiare anche foggia d'abito per aumentare tale ingannevole effetto e
soprattutto avrebbero dovuto poter fingersi turchi:
... che il padrone si vesta di una di quelle loro habbe o dulimani di carisca o d'altro panno e
nella cima dell'albore pona un gagliardetto di color celeste con tre lune nel campo e fesso
in due parti nella cima e un altro somigliante nella prora e che i galeotti si volgano intorno
alla testa un panno di lino, si come usano essi turchi, o tante berrette rosse o pavonazze,
lunghe e rilevate con doi picci che li cadino dinanzi e di dietro, usate in cotal guisa dalli
asappi; leventi, che noi normalmente gli addimandiamo. (C. da Canal. Cit. P. 272.)
Ci siamo chiesti perché il da Canal facesse qui sinonimi i termini azap e leventi, mentre
sappiamo che i primi praticamente corrispondevano agli scapoli dei ponentini e i secondi
erano non altri che i corsari barbareschi, cioè quelli che soprattutto nell'Italia meridionale si
dicevano sar(r)acini; forse i mori, oltre che darsi alla loro piratesca guerra di corso, erano
anche soliti servire come arcieri sulle galee ottomane; e che gli azap fossero soprattutto
arcieri è confermato anche dal Vecellio nella didascalia che egli aggiunge all’illustrazione
del loro abbigliamento:
… Fu sempre buona usanza de’ turchi assuefarsi quanto più è possibile al tirar dell’arco, la
onde armano le sue galere di assai azappi. Questi sono soldati che, servendo, hanno di
provisione cinque aspri il giorno…. Si accommodano la scimitarra e la faretra con alcuni
legami che pendono dal collo sino sopra il fianco e, come qui sopra si vede, portano l’arco
ancora… (C. Vecellio. Cit. P. 383v.)
... La qual astuzia è anchora meravigliosamente usata dalla nazione inglese che queste
fregate pitte (‘dipinte’) le addimandano e, perché la bianchezza delle vele non li facciano di
lontano ai nemici manifesti, le tingono di colore più simile al mare e con la medesima cera
con la quale ongere le dette sogliono, ungono parimente le funi e gli albori e così usano
vestire li huomini che sopra vi mandano dell'istesso colore, acciò che agevolmente si
possano occultare non solo di notte, ma di giorno all'occhi de riguardanti. (C. da Canal. Cit.
P. 273.)
Si trattava quindi di dipingere queste imbarcazioni di un verde chiaro, come anco usavano
talvolta i corsari barbareschi e così faceva, scriveva il de Haedo, il corsaro moresco di
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Cherchell Alì Caha, il quale negli anni immediatamente successivi a Lepanto, con un
bergantino – o per meglio dire appunto una fregata - di 12 banchi e con altri corsari
infestava le coste soprattutto della Valencia, da lui ben conosciute in quanto sua terra
d’origine, riportandone ad Algeri schiavi cristiani da vendere al famoso souk (‘mercato’) di
quella città e a Cherchell moreschi in fuga dalla Spagna; egli manteneva appunto il suo
vascello tinto di verde e inoltre disponeva d’un gran numero di bandiere e di fiamme per
fingersi all’occorrenza d’altre nazionalità. Questo Alì Caha, catturato poi nel 1576 durante
una delle sue azioni da galere spagnole, fu prima posto al remo e in seguito, appurati tutti i
suoi crimini e considerati troppo gravi, nelle prigioni del Sant’Uffizio di Valencia, dove,
avendo pervicacemente rifiutato di convertirsi, fu infine nel mese di novembre del predetto
anno bruciato sul rogo da quella Santa Inquisizione (D. de Haedo. Cit.).
Era inoltre consigliabile che queste fregate, se spinte da buonevoglie e non da galeotti
incatenati, avessero sul fondo un foro grande come una noce di cocco e otturato con un
coccone (‘tappo’) avvolto di stoppa, in modo da potersi all'occorrenza affondare lo scafo su
d’un basso fondale e così occultarlo temporaneamente al nemico, per poi vuotarlo
dell'acqua e così recuperarlo non appena passato il pericolo. Dovevano quindi i loro uomini
essere buon sorinatori (‘sommozzatori’; l. urinatores; gra. ϰολυμβηταῖ; sp. buzos), non solo
per poter andare a spiare il nemico nuotando sott'acqua, ma anche per andare a verificare
guasti sotto il fondo dei vascelli della loro armata, per sarpare un’ancora incagliata, per
recuperare qualcosa che fosse caduta a mare su un fondale non troppo profondo, ecc.
Questi uomini usavano sin dall’antichità piccoli trucchi del mestiere per agevolare il loro
lavoro; per esempio, dovendo tuffarsi a cercare qualcosa in un fondale oscuro, lo facevano
con la bocca piena d’olio, olio che, arrivati sul fondo, rilasciavano in modo che spargesse
un po’ di chiarore riflesso dalla superiore luce del sole, e probabilmente questo derivava da
un’esperienze originarie fatte durante i tentativi di recupero di anfore d’olio affondate in
naufragi; inoltre, ad evitare che magari pesci mordaci annidati tra le rocce dei fondali, pesci
in quei secoli ancora numerosi, mordessero loro i piedi o le mani, prima di tuffarsi si
tingevano di nero dette estremità per renderle meno visibili; infine, allenati alle lunghe
apnee, invece di tuffarsi dopo aver ben riempito d’aria i polmoni, come si usa oggi, lo
facevano dopo aver trattenuto il fiato, in quanto pensavano che quell’aria presente nel
corpo, invece di agevolarlo, avrebbe ritardato il loro immergersi in profondità (Stanislao
Bechi, Istoria dell’origine e progressi della nautica antica. P. 112. Firenze, 1785).
Due delle suddette fregate dovevano precedere d’un miglio la avanguardia, due dovevano
accompagnare la battaglia, ossia il nucleo centrale dell'armata, e due dovevano seguire a
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Antonio Gallo e Bartolomeo Senarega, c’è quella non solo coeva ma anche ’di prima mano’
che nel 1525 ci lasciò il secretario (‘console, residente’) veneziano Gasparo Contarini nella
sua già più volte da noi citata relazione di Spagna e Nuova Spagna, lavoro che l’acuto e
informatissimo diplomatico presentò al suo senato appena ritornato dalla sua lunga
missione alla corte di Carlo V, ambiente in cui aveva conosciuto personalmente Diego
Colombo, figlio del grande navigatore, e dove aveva con lui più volte a lungo e
approfonditamente conversato:
… La prima e principale (delle Indie Occidentali) è l’isola Spagnuola (‘Hispaniola’) […] nella
quale fa residenza l’Almirante e il Consiglio Regio; questo Almirante è figliuolo di Colombo
genovese e ha grandissime giurisdizioni concesse a suo padre, benché molte gli ne sono
state usurpate e continuamente gli se ne usurpano dell’altre; io l’ho lasciato alla Corte, dove
era andato per espedirsi (‘spiegarsi, lamentarsi’) […] mi afferma che fra l’isola Spagnuola
(‘Hispaniola’) e la Giamaica […] solevano essere, quando furono ritrovate da Colombo, un
milione d’anime e più; hora per li crudeli trattamenti de’ spagnuoli (specie perché li
costringono a lavorare nelle miniere) […] sono mancati quasi tutti, talmente che hora
nell’isola Spagnuola non sono 7mila anime e comprano degli schiavi negri della Barbaria e
li mandano lì alle miniere, delli quali molti, poco avanti il partir mio di Corte, si erano
congiunti con alcuni di quelli del paese ed erano fuggiti insieme alla montagna. (E. Albéri.
Cit. S.I, v. II, pp. 50-51.)
Ovviamente, se il padre non fosse stato genovese il figlio glielo avrebbe sicuramente
precisato. Che poi il Colombo non sia magari nato proprio a Genova, ma in una cittadina del
circondario, nulla toglie a quel suo esser definito genovese, perché allora così si
chiamavano all’estero tutti gli abitanti del territorio della Repubblica di Genova e non solo
quelli della città capitale; allo stesso modo nel resto d’Italia e del mondo si dicevano
napoletani tutti gli abitanti del regno di Napoli e non solo quelli della città partenopea,
milanesi tutti gli abitanti della Lombardia e veneziani tutti quelli del territorio della
repubblica di Venezia.
Dell’antichità della tratta dei negri abbiamo già detto. Quando s’inseguiva qualche vascello
nemico che si era messo in fuga, si diceva dar la caccia (fr. anche hausser) e il vascello
inseguito si diceva che pigliava la caccia; naturalmente in tal azione bisognava far molta
forza sui remi e bisognava quindi aver prima rifocillato i galeotti:
... Ma (la galera) non si metta in caccia prima che la ciurma habbia mangiato, accioché
possa resistere alla fatica, non dovendosi in modo alcuno esporla digiuna a così gran
travaglio, nel quale, non havendo lena sufficiente, non durarebbe lungamente e forse
correrebbe rischio d'alcun notabile accidente. (P. Pantera. Cit. P. 319.)
In queste occasioni le frustate sulla schiena dei remiganti fioccavano numerose per
convincere così quei disgraziati a fare il massimo sforzo; e già erano fortunati rispetto ai
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loro predecessori del Medioevo, i quali, oltre a esser fustigati, erano anche malignamente
minacciati di accecamento, in caso non avessero raggiunto il vascello fuggitivo o, nel caso
opposto, se si fossero fatti raggiungere da quello che dava loro la caccia; infatti la cecità
non pregiudicava l’efficacia della voga, anzi rendeva crudelissimamente un remiero molto
più mansueto, controllabile e inoltre incapace di tentare la fuga. Crudeltà e spietatezza
erano state infatti anche maggiori in quei secoli, sebbene tanto pervasi di fede religiosa.
Durante la caccia era inoltre necessario tenere giù nelle camere la maggior parte della gente
e lasciare in coperta solo quella necessaria al servizio; ciò doveva esser fatto imponendo a
quelli che andavano a stare di sotto anche di mantenersi al centro del vascello, in modo da
migliorare la stiva della galera col loro peso, e comandando a quelli che invece dovevano
restare in coperta di star quieti, fermi, uniti e seduti a terra o sul suo banco, a meno che non
dovessero muoversi per le manovre; si pensava infatti che qualsiasi movimento che
avvenisse a bordo, anche il minimo, potesse rallentare il corso della galera:
… e si tenghi ordine nelle camere non tenere robbe appese, per che si à visto molte volte
che, per tener alcun sacchetto o lanterna appesa, il vascello perde gran parte del suo
camino. (Ib.)
Si doveva inoltre nella predetta occasione alleggerire il vascello di tutto ciò che non fosse
necessario alla caccia, cioè bisognava arrivare a gettare a mare - senza farsene alcuno
scrupolo - anche l'artiglieria non essenziale e poi eventualmente persino quella necessaria,
come se ci si trovasse in una violenta burrasca, se ciò poteva servire a raggiungere
sicuramente l'abbordaggio del nemico. Così fece nel 1563 l’armata barbaresca che
appoggiava dal mare l’esercito del Sheriff (titolo del re del Marocco), il quale, spinto a ciò
dal beglerbegi d’Algeri, allora Hassan Pasha, s’era posto all’assedio d’Orano, città della
Barbaria allora posseduta dalla Spagna; arrivato all’improvviso di notte in quel porto il
soccorso di 34 galere di Spagna, i mori e i loro vascelli si misero in fuga abbandonando
anche la loro artiglieria d’assedio per far più presto; le galere spagnole presero tre grossi
vascelli barbareschi, mentre gli altri, cacciatisi nelle secche, gettavano in mare l’artiglieria
per alleggerirsi e poter così sfuggire all’inseguimento, ma, infine raggiunti, ci fu un
sanguinoso scontro del quale gli spagnoli restarono vincitori, catturando ben 25 galeotte
algerine; la squadra spagnola poi, probabilmente per dare una lezione al predetto Sheriff,
prese e saccheggiò l’abitato di Vélez. Bisognava poi sorvegliare strettamente gli schiavi,
soprattutto i mozzi di bordo, i quali, come già sappiamo, solitamente si sceglievano tra gli
schiavi; questi, essendo liberi dalla catena, potevano segretamente andare a forare con le
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verine [‘trivelle, menarole’, fr. (ville)brequins] lo scafo della galera in qualche parte remota
delle camere sotto coperta e fare così entrare l'acqua per rallentare la corsa del vascello,
perché - se in caccia - non raggiungesse quello suo correligionario, oppure - se sotto caccia
- potesse esser raggiunto e lui stesso così liberato. Un uso storico di questo trivellamento
fu fatto dall’ammiraglio aragonese Pietro di Lauria, quando nel giugno del 1284 sconfisse
l’armata angioina a Capo Palinuro; inviò infatti dei nuotatori provvisti di questi arnesi contro
la Capitana di Carlo d’Angiò, detto Lo Zoppo, vascello che gli resisteva accanitamente, la
fece in tal modo affondare e prese prigioniero lo stesso principe ereditario Carlo. I vascelli
infine, quando davano o prendevano la caccia, dovevano fare ogni sforzo per restare uniti il
più possibile con le proprie conserve per potersi proteggere l'un l'altra.
Una delle più rimarchevoli cacce che avvennero nel Tirreno fu quella guidata nel 1598 dal
commendator Magalotto, il quale era luogotenente generale delle galere pontificie e con il
quale navigava allora il Pantera come capitano di galera. Il Magalotto, scoperti quattro
vascelli turcheschi (‘turco-barbareschi’) molto vicini alla costa di Monte Circello (oggi
Monte Circeo), deliberò di prenderli e si mise in caccia con due delle tre galere che allora si
trovava, solo due perché evidentemente i vascelli nemici erano più piccoli dei suoi,
probabilmente delle fuste. Prese presto due dei nemici vicino terra e un terzo dopo una
caccia di 60 miglia, avendolo raggiunto presso l'isola di Bentitiene (oggi Ventotene); il
quarto fu costretto a dare in terra presso Sperlonga, dove fu pertanto raggiunto e una parte
dei suoi uomini, fuggita a terra, fu catturata dalla gente del posto. Così furono liberati molti
schiavi cristiani che erano galeotti di quei vascelli corsari e spesso ai disgraziati così
liberati era anche concesso, specie se in qualche maniera avevano contribuito alla sconfitta
dei loro aguzzini, di partecipare alla spartizione finale della preda.
Il Cervantes Saavedra racconta nel suo Don Quijote una caccia intrapresa da una galera
spagnola ai danni d’un bergantino barbaresco e ci lascia capire che, una volta raggiunto il
vascelletto nemico, la galera lo affianca e lo imprigiona lasciandogli cadere sulla coperta il
proprio palamento, il che doveva esser reso possibile dall'essere evidentemente il bordo
del bergantino sufficientemente più basso. A questa tecnica non accenna però alcun altro
trattatista del tempo e il de la Gravière, il quale invece la menziona, si rifà con ogni
probabilità allo stesso racconto del Cervantes Saavedra.
All'inizio d'agosto del 1572 Uluch-Alì, il quale, pur essendo alla testa della sua armata, non
cercava il contatto con quella della Lega nemica perché i turchi erano ancora sotto
l'impressione della sconfitta disastrosa dell'anno precedente, si trovò non volendo di fronte
a quella, la quale l'aveva abilmente raggiunto; egli fece dunque dapprima credere agli
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avversari che voleva accettar la battaglia, poi traccheggiò sino a sera quando, fatta
scaricare a salve tutta l'artiglieria delle sue galere, coprì di fumo tutta la sua armata
togliendosi così dalla vista dei nemici e n’approfittò per fuggire cambiando
improvvisamente rotta; prima però aveva lasciato sul posto un certo numero di fregatine
che portavano lumi accesi e questi da lontano sembravano fanali di galere; fece così
credere al nemico di non essersi allontanato e in conclusione i cristiani non videro più la
sua armata né riuscirono ad averne più notizie se non tre giorni dopo. Bisogna però dire
che, per non farsi raggiungere, Uluch-Alì era stato costretto a perdere la galera di Mehmed
Rais, nipote del Barbarossa, la quale, raggiunta durante la caccia da quella del marchese di
Santa Cruz, dopo una strenua resistenza e uno scontro sanguinoso era stata catturata; nel
frattempo, approfittando della concitazione del combattimento, uno schiavo cristiano aveva
ucciso Mehmed, molto probabilmente per vendicarsi di qualche torto da quello ricevuto.
L'episodio è raccontato con qualche differenza, ma anche con più dettagli dal Cervantes
Saavedra nel suo Don Quijote ed è collocato nel ritorno dell'armata cristiana di Giovanni
d’Austria dall'insuccesso di Modone:
... In questo viaggio si prese la galera che si chiamava 'La Presa', della quale era capitano
un figlio di quel famoso corsaro Barbarossa. La prese la Capitana di Napoli, chiamata 'La
Loba' (‘La Lupa', in sp.), comandata da quel fulmine della guerra, dal padre dei soldati, da
quel fortunato e mai vinto capitano don Àlvaro de Bazán marchese di Santa Croce. e non
voglio omettere di narrare quello che avvenne nella presa del 'La Presa'. Era il figlio di
Barbarossa tanto crudele e trattava tanto male i suoi schiavi che i remiganti, non appena
videro che la galera 'Loba' li cacciava e stava per raggiungerli, lasciarono andare tutti
insieme i remi e afferrarono il loro capitano, il quale stava sul capomartino (sp. estanterol)
gridando che vogassero più forte, e passandolo di banco in banco da poppa a prua, gli
davano tali morsi che, appena dopo aver passato l'albero già la sua anima era passata
all'inferno; tanta era, come ho detto, la crudeltà con cui li trattava e l'odio che quelli gli
portavano. (M. de Cervantes Saavedra. Cit.)
ammazzatine molti, catturò la galera, le galeotte e due delle fuste, guadagnandosi con
questa vittoria la fama di valente capitano di mare.
L'armata turca vendicò il predetto e altri episodi molto più tardi, cioè nel 1552, quando,
chiamata nel Mediterraneo occidentale da Enrico II di Francia in funzione anti-spagnola e
forte di 103 galere, quattro galeotte e due maone poste sotto il comando di Sinan Pachà e di
Torgud, dopo aver all’inizio di luglio di nuovo saccheggiato e incendiato Reggio Calabria e i
dintorni di Messina e, procurando così alla città di Napoli uno dei maggiori spaventi della
sua storia, essersi poi trattenuta 12 giorni a Procida in vana attesa di quella francese, la
quale, promessa dal suddetto re, doveva esser guidata dallo Strozzi e dal principe di
Salerno Ferdinando Sanseverino, transfuga in Francia, s’era poi indirizzata più a nord a
cercare un contatto con quella alleata e infine s’era fermata a Ponza per spalmare. Il d'Oria,
ormai gravido d'anni, con ben 39 galere e cioè 17 sue e d’altri capitani di condotta genovesi
tra cui Marco Centurione, 5 d’Antonio d’Oria, 11 di Spagna capitanate da Juan de Mendoza,
5 di Napoli comandate dal loro generale Garcia de Toledo e infine la Capitana di Monaco
veniva al soccorso di Napoli, minacciata anche dall’armata francese, la quale però, forse
anche per l’entrata in campo del d’Oria, non riuscirà a unirsi a quella turca; egli, lasciata
Genova al mattino del 26 luglio e arrivato il mercoledì 4 agosto all’altezza di Civitavecchia,
incontrò due fregate corsare napoletane dalle quali fu avvisato della presenza dell’armata
turca e poi alla sera del giorno seguente, trovandosi a 25 miglia da Palmarola, fu raggiunto
da una sua fregata che aveva mandato due giorni prima avanti per haver lingua del nemico
e gli fu confermato dal comandante di questa, certo fra’ Marco, evidentemente un cavaliere
di Malta, che l’armata nemica di trovava a Ponza dove aveva completato la spalmatura. Il
d’Oria non volle - secondo alcune fonti - ascoltare i suoi capitani, i quali, dal momento che i
turchi erano descritti molto superiori di forze, lo sollecitavano a passare al largo di
quell’isola per non farsi scoprire e quindi successe che alle 4,30 della mattina di venerdì 6
agosto, trovandosi le 39 galere cristiane tutte insieme a 5 miglia da Ponza, all’improvviso si
trovarono addosso l’avanguardia di 12 galere dell’armata turca, la quale, informata sulla
costa laziale dell’arrivo dei vascelli del d’Oria, aveva loro teso un agguato e quindi come
loro, navigava a luci spente; a quell’incontro la Capitana turca, tirò un tiro di cannone e
accese il fanale di comando per richiamare il resto dell’armata; le galere cristiane si posero
allora in fuga verso sud, ma la notte era sfortunatamente illuminata dal chiaro di luna e
quindi dopo un paio d’ore due di quelle di Napoli, cioè la Liona e la Santa Barbera, furono
raggiunte e catturate; la stessa sorte toccò sul far del giorno alla Marchesa del principe
Andrea, alla Speranza d’Antonio d’Oria e alla Santa Barbera di Spagna e infine più tardi,
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verso le ore 15, i turchi presero ancora la Padrona e la Donzella del principe; ma, secondo il
de Bourdeilles, due di queste sette galere non furono prese bensì affondate. Sfuggite le
altre alla caccia dei turchi, la Capitana di Spagna informò il principe Andrea che verso le ore
6 si era beccata una cannonata sotto la linea di galleggiamento, subito dopo il fogone, e
pertanto chiedeva il permesso di far forza di remi per arrivare in un porto amico il più presto
possibile; ottenuto l’assenso del comandante in capo, detta Capitana e le altre sette od otto
migliori galere spagnole cominciarono a distanziare il resto dello stuolo del d’Oria, il quale,
non potendo più proseguire verso Napoli, andò a rifugiarsi all’Elba. La relazione da cui sono
stati tratti i particolari predetti, particolari che differiscono alquanto da quelli riportati un po’
fantasiosamente dal de la Gravière, si trova tra le Carte Strozziane dell’Archivio di Stato di
Firenze ed, essendo appunto molto particolareggiata, deve sicuramente esser stata stesa
da qualcuno trovatosi in quella sfortunata circostanza; non riteniamo perciò attendibile
nemmeno la variazione narrata da alcuni storici, secondo cui il d’Oria fu avvisato al largo
d’Ostia che l’armata turca si trovava parte a Ponza e parte a Monte Circello (‘Circeo’) e
quindi, volendo passare imprudentemente tra le due posizioni nemiche, anche se in effetti
lo faceva di notte e a luci spente, fu scoperto dalle guardie del kapudan pasha Sinan e di
Torgud, preso in mezzo dai vascelli turco-barbareschi che si erano mossi sia dal monte e
sia dall'isola e costretto a combattere col predetto disastroso risultato di perdere ben sette
galere, le quali erano oltretutto cariche di genti di guerra, specie d’alemanni sotto il
comando di Aliprando Mandruzzo, giovane nipote del cardinale di Trento che in quella
sconfitta troverà purtroppo la morte, e anche di metalli preziosi destinati a batter moneta a
Napoli per pagare appunto le soldatesche imperiali inviate a difesa di quella città. Qui il
comportamento d’Andrea d’Oria fu invece in sostanza molto semplice e condivisibile; egli,
pur disponendo d’una considerevole forza di 39 galere, fu assalito sì solo da 12 nemiche,
ma queste erano però, come sappiamo, l’avanguardia di un’armata di ben 109 vascelli, e
non poteva quindi trattenersi a combatterle perché avrebbe dato moto a tutto il resto dei
vascelli nemici di piombargli addosso ed, essendo in tre contro uno, di fargli perdere non
solo 9 vascelli, ma tutti i 39.
Torgud compirà poi un’impresa simile alla precedente nel luglio del 1561, quando catturerà
sette galere della squadra di Sicilia nel mare delle Lipari; si trattava di galere appena
costruite, le quali, partite da Messina la notte tra il 23 e il 24 giugno di quell’anno sotto il
comando del nuovo capitano generale commendator Guimerano e guarnite di soldati
siciliani da poco reclutati, dopo essersi trattenute alquanto a Milazzo, nei presi dell’Eolie
s’incontrarono con Torgud, il quale conduceva in corso 11 galere, tra cui due grosse
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bastarde a guisa di galeazze (G. Buonfiglio Costanzo. Cit. P. 546), e, offrendo evidentemente
ben poca resistenza, si fecero tutte ignominiosamente catturare.
Tornando alla caccia, bisognava far attenzione a non intraprenderne una che potesse
portare a un’imboscata, come stava per avvenire nel 1579 al capitano generale della Chiesa
Fabrizio Colonna, il quale, catturata una galeotta algerina nel Tirreno, si vide poi venire
incontro veloci vascelli barbareschi che subito lo invitarono alla caccia allo scopo
d’attirarlo in un luogo dove il grosso della loro squadra li attendeva e dove, forti del
numero, avrebbero sicuramente avuto la meglio sulle poche galere cristiane, oltre tutto
stanche per la caccia sostenuta; ma Fabrizio, insospettitosi, interrogò i prigionieri fatti sulla
galeotta su quanti erano effettivamente i vascelli corsari usciti d'Algeri di conserva alla
ricerca di mercantili cristiani da predare e, poiché quelli non volevano dirgli la verità, tanto li
fece battere che, essi, vinti dal dolore delle nerbate, rivelarono che si trattava di 25 vascelli
tra galeotte e fuste e che lo stavano attirando in un agguato; per il che Fabrizio lasciò
l'impresa. Chiamato intanto dal padre Marco duca di Tagliacozzo, Gran Contestabile del
Regno di Napoli e ora anche viceré di Sicilia (1577-1585) al generalato delle galere siciliane,
il 3 luglio dello stesso predetto 1579 Fabrizio Colonna assumerà tale nuovo incarico, ma,
morto poi appena il 22 febbraio seguente, con la successiva necessaria approvazione reale
sarà fatto immediatamente generale al suo posto il fratello Prospero, colonnello di fanteria;
quest’ultimo però, forse non tagliato per tale mestiere, rinunzierà il primo di giugno
successivo, trovando infine le galere di Sicilia il loro nuovo definitivo generale in Alonzo
Martinez de Leyva (1580-1587).
Un vascello corsaro che avesse voluto impadronirsi d’alcuni mercantili nemici che
viaggiavano di conserva e che potevano in parte sfuggirgli, si fingeva un mercantile egli
stesso, si faceva cacciare da quelli e si faceva raggiungere, per poi ritirare la gomena in
gran fretta, girarsi improvvisamente contro gl’inseguitori e tirare fuori le unghie; e per farsi
raggiungere artatamente il miglior sistema era gettare da poppa a mare una grossa gomena
che, distendendosi nella scia [fr. sillage, cinglage, singlage, seill(e)ure, eau, (h)oüa(i)che,
ovaiche, ovage, hoüage; ol. sog] del vascello, ne rallentasse segretamente il corso, il che a
volte e in certe occasioni anche si faceva per rendere il corso del vascello più diritto;
oppure si trascinavano da poppa rotoli di canapo, tramagli, barili pieni affondati o ancore
galleggianti, ossia altri oggetti che si mantenessero invece affioranti.
L'armata - e si parlava d'armata quando c'era un concentramento d’almeno un centinaio di
vascelli da guerra, perché uno di vascelli mercantili si diceva invece flotta - si poneva in
navigazione divisa in tre schieramenti successivi, proprio come se fosse stato un esercito
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… Poi che i turchi ebbero tolte le vele dall’antenne, venivano con la loro armata, avendo
l’una galea accostata all’altra con la proda verso i nostri, quasi in ordinanza diritta, se non
che nel mezzo si spingevano alquanto in fuora in forma acuta e la testa del loro corno
destro, che era dalla parte della terra, se ne veniva molto piegata innanzi… (Carlo Téoli. Cit.
P. 24.)
narrazione del Diedo a Lepanto Giovanni d’Austria dette il segnale della battaglia
esponendo in tal modo una bandiera verde e non rossa, ma ci sembra strano visto che in
quella stessa armata il color verde già serviva per distinguere i vascelli che formavano
l’antiguardia. Se però nemmeno questo poteva esser sufficiente a farla vedere da tutti,
allora dalla stessa galera Reale si sparavano anche uno o due colpi di cannone, ai quali tutti
i vascelli dovevano formare subito detto schieramento, inalberando tutti gli stendardi,
bandiere, fiamme e segnali acciocché ogni galera riconoscesse la sua Capitana, la sua
squadra nella quale disporsi e sapesse pertanto qual era il suo posto. A tal scopo in una
grande armata a ogni corpo in cui quella era stata divisa prima della partenza si attribuiva
una bandiera (un gaillard, secondo il de Bourdeilles) d'un certo colore, al quale tutti i
vascelli di quel corpo dovevano subito conformarsi alzandone una d'egual colore sulla cima
dell'albero di maestra o sulla penna o sulle sartie o sul trinchetto o comunque in luogo
cospicuo, in modo da non potersi sbagliare nel porsi insieme e nel restare in ordinanza; a
Lepanto le 203 galere dell'armata della Lega portavano una banderuola azzurra sul calcese
nella battaglia, ossia nel corpo centrale, fatto questo - secondo i dati del Contarini, i quali
sono quelli da noi soprattutto utilizzati in quanto appaiono i più meticolosi - di 62 galere e
due delle sei galee grosse veneziane e comandato dal capitano generale della Lega
Giovanni d’Austria sulla galera detta la Reale, dal suo luogotenente generale Marc’Antonio
Colonna, generale delle galere pontificie, dal generale veneziano Sebastiano Venerio, dal
mastro di campo generale Ascanio della Cornia, il quale era quindi il successore del
milanese Giuseppe Francesco Mandriano, conte di Mandriano e straticò (dall’gr.
στρατηγός), quindi capitano a guerra) di Messina, il quale aveva avuto lo stesso incarico
nell’armata della Lega l’anno precedente, e dal generale dell’artiglieria Gabrio Serbelloni;
una verde sulla penna nell’antiguardia o corno destro, formato di 58 galere e due altre delle
galee grosse della Serenissima e guidato da Gioan Andrea d’Oria, capitano generale della
squadra dei particolari genovesi, gialla al oste sinistra (‘alla spalla sinistra’, ma forse in
verità a quella destra) nella retroguardia o corno sinistro, costituito da 53 galere e le due
ultime galee grosse veneziane, tutte sotto il comando d’Agostino Barbarigo, provveditore
generale dell’armata veneziana, e bianca alla poppa nel soccorso cioè nel retrostante corpo
di riserva di 30 galere comandate da Àlvaro de Bazán marchese di Santa Cruz, allora
capitano generale della squadra di Napoli; in più i cristiani avevano pochi brigantinelli de
non troppo momento (A. Scetti. Cit.) e 22 navi appoggio non combattenti. Gli altri principali
comandanti e ufficiali dell’armata della Lega erano Francesco Duodo, capitano generale
delle galee grosse veneziane, Juan Francisco de Cardona, capitano generale della squadra
1049
di Sicilia (in seguito di quella di Napoli), Antonio da Canal e Marco Quirini, provveditori
dell’armata veneziana, Jorge Manriquez, provveditore generale, con il suo segretario sig.
Giovanni di Cotto, Pedro Velasco, veditore maggiore dell’armata, Paolo Giordano Orsino, il
commendatore Gil de Andrada, Luiz de Requesens, commendator maggiore gerosolimitano
di Castiglia, il commendator de Leiny, capitano generale savoiardo, Alfonso d’Aragona
d’Appiano, il quale si trovava con la Padrona toscana nella squadra di riserva, Ettore
Spinola, capitano generale delle galere pubbliche di Genova, galere delle quali tanto tempo
prima, nel 1513, quando cioè Luigi XII era signore di Genova e di tutta la Liguria, era stato
nominato comandante lo stesso Andrea d’Oria, e fra’ Pietro Giustiniani, priore
gerosolimitano di Messina.
Ogni galera doveva esporre, oltre ai consueti e prescritti vessilli, ogn’altro ornamento o
abbellimento di cui disponesse, a meno che si trattasse di qualcosa che poi potesse
risultare d'imbarazzo per le operazioni:
... non solamente perché l'armata ne comparisca più vaga ed habbia più honorevole
aspetto, ma ancora perché [...] l'inimico ne può ricever dispiacere, smacco e alcune volte
spavento. (P. Pantera. Cit. P. 356.)
Sempre a Lepanto poi, in osservanza delle norme di prevenzione della buona disciplina
militare, ognuno dei predetti corpi d’armata cristiani, soccorso escluso, era formato di
galere d’ogni nazione e volutamente mescolate, al fine d’evitare quelle confidenze tra
equipaggi di galera che potevano portare a organizzare qualche sedizione, ammutinamento
o fuga dalla battaglia.
La galera Reale - o anche il galeone Reale - si poneva, fiancheggiato da altri vascelli potenti,
al centro della battaglia, sia perché era generalmente il vascello più forte dell'armata e
faceva quindi da fulcro dello schieramento sia perché da quella posizione centrale tutti
potessero riceverne i segnali; se però il fronte era molto esteso, come nel caso dell’armata
cristiana a Lepanto, la quale formava un fronte di circa cinque miglia di lunghezza, allora i
segnali si dovevano per lo meno inviare ai vascelli più grossi e rinforzati che comandavano
i vari corpi, affinché questi li ripetessero subito a tutti gli altri. Ogni galera doveva
mantenersi lateralmente lontana dalle altre non più di tre fusti di galera, distanza sufficiente
a girarsi e a manovrare senza rischiare d'intricarsi (vn. avvilupparsi) con i remi o con le
sartie delle conserve (‘compagne’), impacciandosi così l'un l'altra; tale distanza serviva
anche a lasciar spazio all'eventuale passaggio d'una galera di soccorso che venisse dalle
retrovie e inoltre rendeva le artiglierie più efficaci, in quanto - come un vecchio principio
militare diceva - le armi da fuoco avevano bisogno d'un fronte esteso, perché più fossero
1050
state tenute ristrette meno avrebbero offeso il nemico. Alcuni sostenevano però che una
distanza laterale di tre o quattro fusti di galera, buona per separare corpo d’armata da corpo
d’armata, era invece pericolosa da usarsi tra galera e galera dello stesso corpo perché
permetteva sì di girarsi, ma concedeva anche ai vascelli nemici d'intrufolarsi e d'investire i
nostri vascelli di fianco, rompendo così anche la stessa nostra formazione; sostenevano
inoltre costoro che, così facendo, in una grande armata il fronte risultava troppo esteso e le
squadre non si potevano soccorrere a tempo l'un l'altra; meglio dunque era tenere le galere
d’uno stesso corpo solo a distanza di remi, cioè che si potesse solo vogare senz'urtarsi e
così infatti i cristiani preferirono disporsi a Lepanto.
Dovevano poi le galere essere ordinate in modo che ognuna, investendo il nemico, non si
trovasse a dover combattere con due delle avversarie, bensì con una sola galera nemica e
ciò anche a discapito della comune prassi di lasciare fuori e dietro lo schieramento alcuni
vascelli, i quali potessero soccorrere quelli che a un certo punto del combattimento
dimostrassero d'averne bisogno; il combattimento ortodosso era infatti quello in cui ogni
vascello combatteva abbordato contro un solo vascello nemico e il capitano generale
prudente doveva perciò fuggire quella battaglia in cui, essendo la sua armata decisamente
inferiore di numero, tale condizione non si sarebbe potuta verificare, a meno che però egli
ritenesse d'avere forze qualitativamente superiori a quelle dell'avversario. Poiché i difensori
d’una galera abbordata s’affollavano sul lato abbordato per respingere gli assalitori, il loro
vascello sbandava da quel lato e spesso tanto da far alquanto fuoruscire dall’acqua la
poppa dall’altro lato, e quelli erano sia il punto sia il momento più adatti perché altre galere
nemiche ne approfittassero per investire violentemente con la loro prua e danneggiare tanto
gravemente la suddetta poppa del vascello abbordato da mandarlo a fondo; su questa
manovra già si dilungava la da noi più volte citata Тάϰτιϰα bizantina del IX° sec.
Oltre al numero dei navigli, un altro fattore estremamente determinante nelle battaglie
marittime era il favore di vento, perché avere questo significava per i velieri poter
manovrare a proprio piacimento contro il nemico, e nel 1582 il marchese di Santa Cruz,
dovendo scontrarsi all'isole Terzeire (oggi Azzorre) con l'armata di don Antonio di
Portogallo, se ne stette tre giorni ad aspettare il vento prospero e, avendolo finalmente
ottenuto, solo allora attaccò il nemico e lo vinse; nella stessa maniera si era comportato nel
1577 il capitano francese Lansac, quando, cambiato a suo favore il vento che sino allora era
stato invece favorevole agl'inglesi, attaccò questi e li sconfisse catturando la maggior parte
dei loro vascelli, ammiraglia inclusa. Il favore di vento dava anche un altro vantaggio e cioè
che il vento stesso portava in faccia al nemico il fuoco e il fumo delle artiglierie d’ambedue
1051
le armate che si stavano combattendo e così, offuscandosi l'aria, quella sottovento restava
incapace sia di mirare i bersagli - che più non vedeva - sia d'eseguire correttamente le
manovre; il vento che ai Curzolari (‘Lepanto’) poco prima della battaglia mutò da levante a
ponente maestro, a favore quindi dell'armata della Lega, la quale appunto proveniva da
ponente, provocò ai turchi quest'inconveniente di portare il fumo contro di loro e di
limitarne quindi ulteriormente la vista, già infastidita dall'avere essi il sole di faccia,
combattendosi infatti tale battaglia per quattro/cinque ore pomeridiane. Ovviamente, oltre al
vento e al sole, anche una corrente marina a favore contribuiva a dare più forza al colpo da
inferire all'armata nemica.
Una sola squadra di galere si disponeva in battaglia a scala e cioè parallele di fianco
appunto come gli scalini di una scala. Un’intera armata fronteggiava invece generalmente il
nemico in schieramento semi-circolare e suddiviso in quattro corpi; questi erano disposti,
come le singole squadre e le singole galere, con un certo intervallo tra l'uno e l'altro e - nel
caso appunto d’interi corpi - questa soluzione di continuità doveva esser di non più d'un
miglio e di non meno di mille passi, perché ognuno d'essi potesse avere un suo spazio per
manovrare autonomamente dagli altri corpi e cioè il corno destro, formato dall’avanguardia,
il corno sinistro, costituito dalla retroguardia, la battaglia posta al centro e il corpo detto il
soccorso, il quale stava generalmente dietro quello della battaglia, ma poteva anch’essere
diviso in due squadre poste ognuna dietro uno dei corni laterali, squadre che - dette ora
sopraccorni - servivano anche ad aggirare a un certo punto il nemico, senza che dovessero
quindi farlo necessariamente i corni della prima linea, i quali potevano così restare a
sostenere l'urto dell'avversario. Le galere d’una stessa nazione in un’armata multinazionale
si mescolavano nei vari corpi con quelle delle altre, a evitare sedizioni e accordi di fuga. Il
posto della galera Reale era, come abbiamo già detto, al centro della battaglia e quindi di
tutto lo schieramento lunare; ai fianchi di questo vascello principale si dovevano mettere,
sia per sua guardia e difesa sia per aumentare la forza di questo nucleo centrale, le galere
migliori e meglio armate; infatti a Lepanto la Reale di Giovanni d’Austria aveva alla sua
destra la Capitana del Papa con Marc’Antonio Colonna, galera che si diceva la Generale e
che aveva il ruolo di Padrona dell’intera armata, e subito dopo quella di Savoia con il de
Leiny e Francesco Maria della Rovere duca d’Urbino, alla sua sinistra la Capitana di Venezia
con Sebastiano Venerio e immediatamente dopo quella di Genova con Alessandro Farnese
duca di Parma; seguivano la Reale, pronte a difenderne la poppa e a soccorrerla, le due
principali galere di Spagna, cioè la Capitana di Luiz de Requesens e la Padrona di Luiz de
Acosta. Anche con le migliori galere, ossia con vascelli tra i più grandi e meglio armati, si
1052
dovevano guarnire le due estremità sia della battaglia – e infatti quella di Giovanni d’Austria
aveva all’estrema destra la Capitana di Malta e la galera papalina di Paolo Giordano Orsini e
all’estrema sinistra quella del Lomellini - sia dei due corni, affinché tutti e tre i corpi dello
schieramento fossero non solo ben muniti da ogni lato, ma nemmeno rischiassero
d’allargarsi troppo e quindi di disperdersi; il fianco comunque che in ogni corpo si doveva
munire di più era quello posto sopravvento, affinché, come propugnacolo difendesse e
desse animo a quello meno forte che gli restava sottovento. Un altro principio da osservare
era che i corni andavano formati con galere veloci, perché dovevano sempre tentare
d’aggirare rapidamente il nemico o per lo meno di prenderlo di fianco, mentre le galere lente
e dalle qualità nautiche peggiori potevano stare nella battaglia, ossia nel corpo centrale,
dove invece non bisognava mai muoversi dalla propria posizione. Ognuno dei due corni
doveva poi essere comandato da una galera di fanò di persona di molta autorità e molto
valore, così come capitani molto pratici ed esperti dovevano essere posti alle due estremità
d'ogni corpo e d'ognuna delle squadre che formavano i quattro corpi dell'armata. In ognuna
delle predette squadre si doveva anche deputare un capo per ogni decina di galere, il quale
avesse cura di farle mettere in ordinanza, ai loro posti prefissati e in buon ordine; nel
formare lo schieramento si dovevano inoltre impiegare persone pratiche, le quali a bordo di
velocissimi velieri andassero intorno all'armata rivedendone ogni cosa, in modo da
rimediare prontamente ai disordini e alle manchevolezze che costatassero. Tutto questo
complesso schieramento andava ovviamente discusso, deciso e preparato prima del
combattimento in lunghi consigli di guerra che si tenevano sulla galera Reale.
La squadra del soccorso, posta, come abbiamo detto, solitamente dietro alla battaglia,
doveva essere composta dalle galere più agili, veloci e manovriere e doveva essere
comandata da un capitano esperto e assennato, capace di discernere subito dove fosse più
necessario portare rapidamente il soccorso; alla battaglia dei Curzolari - oggi però nota
come di Lepanto - questo soccorso era comandato dal marchese di Santa Cruz, allora
generale della squadra di Napoli. Oltre a questo corpo di riserva, bisognava però che in
ogni squadra si designassero due galere ottime e ben armate da porsi a poppa della
Capitana della squadra medesima e che fossero così pronte a soccorrerla in caso essa si
trovasse in difficoltà.
Il capitano generale era dunque al centro della battaglia con la sua galera Reale e, a
differenza dello squadrone del generale di terra, il quale era l'ultimo corpo a partecipare al
combattimento, sul mare il vascello Reale o Generale doveva essere tra i primi ad attaccare,
perché era solitamente grosso e potente, in grado cioè d'infliggere al nemico un duro colpo
1053
iniziale; così fecero infatti le due galere ammiraglie nemiche a Lepanto, dove subito si
scoprirono e si colpirono vicendevolmente con le artiglierie e si abbordarono, dando così il
via e l'esempio a tutte le altre.
I vascelli da remo medio-piccoli dell'armata, quali galeotte, fuste, bergantini, filuche e
fragate, non potendo stare alla fronte perché non in grado - a causa della loro ridotta mole -
né d'urtare il nemico con vantaggio né di sostenere l'urto delle sue galere, dovevano porsi
al di fuori dello schieramento, cioè dietro i corni, affinché non s’intrecciassero con i remi
dei vascelli maggiori creando così confusione e impaccio; una volta iniziato il
combattimento, questi vascelli minori dovevano però portare pronto soccorso ai maggiori
che n’avessero bisogno e dovevano infestare continuamente il nemico. Le armate ottomane
della seconda metà del Quattrocento usavano assegnare a ogni galera una fusta che la
seguisse in permanenza e la sostenesse durante il combattimento; ma nel secolo seguente
si preferì appunto concentrare alle spalle i vascelli remieri minori, molto probabilmente
perché ci si era resi conto che il loro intromettersi poteva recare un grosso e pericoloso
impaccio alla tenuta dello schieramento delle stesse proprie galere. Prima che si arrivasse
al combattimento questi vascelli sottili minori potevano invece esser utilizzati come vascelli
esploratori o avvisatori veloci al posto delle fregate, quando si temesse che quest'ultime
potessero essere assalite da vascelli più grandi e quindi ben poco difendersi; oppure al
posto delle galere sui bassi fondali o in quelle strettoie della costa scogliosa in cui le galere
non sarebbero potute passare; al tempo della voga a sensile infatti, come ci spiega il da
Canal, una galera sottile completamente armata pescava quattro piedi (m. 1,39), mentre una
fusta - anch'essa armata - solo piedi 2½ (m. O,87). Dovevano quindi questi vascelli remieri
minori addentrarsi nelle fiumare, aggirare i capi, costeggiare le spiagge di paesi nemici,
ecc., godendo in sostanza d’una certa libertà di movimento:
... ma (stando) di continuo però dietro alle armate e mai non altrimente robbando e
saccheggiando a voglia loro e seguitando el costume che ne' campi terrestri tengono
(purtroppo) le squadre di venturieri. (C. da Canal. Cit. P. 277.)
Questa era dunque lo schieramento lunato o a mezzaluna; ma, come abbiamo già ricordato,
trovandosi l'armata dotata anche di grossi vascelli tondi d'alto bordo, quali galeoni, navi o
galeazze, questi, poste le giunte alle vele maggiori e spiegate le vele di gabbia per
aumentare la loro potenza velica, si dovevano porre in linea retta non più di mezzo miglio
avanti alla fronte dello schieramento di galere e tanto distanti l'uno dall'altro da coprire tutto
il fronte stesso, ammesso però che fossero in numero a ciò sufficiente. Questi velieri, ben
forniti di moschetteria e d'artiglieria, dovevano presentare il fianco (fr. anche mettre le côté
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en-travers; ol. zybieden) al nemico e, al segno dato dal generale e solo a quel punto,
cominciavano la battaglia tirando all'armata avversaria, soprattutto ai suoi corni, cercando
di tenerla così lontana dalla propria armata sottile, ossia dalle proprie galere, e di
danneggiarla e indebolirla il più possibile prima del vero e proprio contatto con essa,
contatto nel quale avrebbero invece avuto la meglio i cannoni delle galere per il vantaggio
che questi avevano nel tirare orizzontalmente sul pelo dell'acqua, cioè i più basso possibile,
tiri che erano i più micidiali perché andavano a sfondare l'opera viva del nemico. Questa
supremazia delle galere nel contatto ravvicinato, specie in totale mancanza di vento, è
ricordata anche dal de Bourdeilles, laddove egli dichiara di essersi molto meravigliato del
poco sforzo ed effetto che fecero le 12 galere di Spagna, le quali, pur presenti al lungo
assedio d’Ostenda (1601-1604), non ne avevano mai impedito l’accesso ai vascelli di
soccorso nemici, ragion per cui gli spagnoli impiegarono tanto tempo a impadronirsene:
… non dico durante l’inverno, poiché allora esse potevano perdere la loro ragion d’essere e
sapere e forza; ma d’estate, durante le calme e le bonacce che sopraggiungono, quando
non c’è galera che non tenga agevolmente testa a sei o sette vascelli tondi, come ho visto io
quando ero alla Rochelle, dove vidi l’armata del conte di Montgomery, ammontante a
cinquanta vascelli, indietreggiare davanti a sei galere che le andavano a cannoneggiare da
vicino per ordine del nostro generale; al diavolo se le altre osavano muoversi! (P. de
Bourdeilles. Cit.)
A questo gran ruolo svolto dalle galere francesi del generale Antoine Escalin nel corso
dell’assedio della Rochelle abbiamo già più sopra accennato; va bene che l’accesso a quel
porto era reso particolarmente difficile, non tanto dalla forte catena che lo chiudeva, quanto
dal non trattarsi di un havre d’entrée, cioè di un porto accessibile in qualsiasi momento,
bensì di un havre de barre ou de marée, ossia dall’accesso condizionato dall’alternarsi di
bassa e alta marea. La suddetta tattica di porre i grossi vascelli quadri alla fronte
dell'armata fu adoperata per esempio, oltre che a Lepanto, alla già menzionata battaglia
delle isole Terzeire, dove il marchese di Santa Cruz così sfruttò infatti le numerose e grosse
artiglierie di grossi velieri di cui disponeva, quali il grandissimo galeone S. Matteo, il
galeone S. Martino e la grande nave del capitano Bovadilla. Ovviamente i vascelli tondi si
ponevano in questa linea avanzata solo quando il vento era favorevole o quando si era in
bonaccia, perché col vento contrario si sarebbe rischiato di vederli retrocede addosso alle
proprie galere retrostanti e così scompaginarle; bisogna infatti tener presente che, all'epoca
di cui stiamo parlando, la guerra era soprattutto guerra di stabili ordinanze e schieramenti
così in terraferma come sul mare e pertanto mantenere i propri ordini e file e rompere quelli
del nemico era il primo obiettivo che ci si proponeva nelle battaglia, il che valeva ancor di
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più per i grossi velieri pesanti e poco manovrieri del tempo, i quali erano dunque fatti per un
tipo di combattimento da fermo e quasi terrestre.
Quanto abbiamo appena detto non significa però che il movimento non fosse ricercato,
anzi, proprio a causa della generale staticità, molto spesso delle squadre che riuscissero a
cogliere il nemico di fianco o addirittura alle spalle portavano in breve alla vittoria; infatti,
avendosi il vento fresco a favore, si usava pure porre i navigli a vela quadra in una linea
lunga e traversa che andasse decisamente e violentemente a investire la formazione delle
galere nemiche, sparando a quelle bordate dai loro fianchi irti di grosse artiglierie, e poi,
poggiando od orzando sempre con l'aiuto d’un vento tanto gagliardo da potersi reggere e
girare, presentare al nemico l'altro fianco per nuove micidiali bordate, le quali avrebbero
anch'esse provocato nelle galere avversarie una grandissima rovina; le galere avversarie si
sarebbero infatti disordinate e scompigliate e, se il vento a loro contrario fosse stato
particolarmente forte, buona parte d’esse avrebbe corso addirittura il pericolo d'essere
travolta e affondata dall'urto di detti grandi velieri, sempre meno potendo sostenere un
simile scontro quanto più forte era detto vento contrario. In caso infine di vento debole
l’urto predetto sarebbe stato egualmente svantaggioso per le galere; per esempio a bordo
dei velieri si usava prolungare il pennone di bompresso, ossia attaccarlo sul suo albero non
orizzontalmente, bensì in alto verticalmente e ciò perché altrimenti la sporgenza laterale di
tale verga avrebbe impacciato l’abbordaggio del nemico; bene, in previsione d’un urto di
prua s’allentava l’albero così appesantito, provocandone quindi, a seguito di detto urto, il
violento e molto offensivo crollo sul più basso vascello nemico. Se, a schieramento già
fatto, il vento cambiava o cessava del tutto, bisognava trovare il tempo di togliere da mezzo
i vascelli tondi rimorchiandoli in un luogo non pericoloso per quelli sottili, vale a dire da
dove questi non se li vedessero a un certo punto venire addosso spinti da un nuovo vento e
dove non fossero poi facilmente raggiungibili dalle galere nemiche; in caso di bonaccia i
vascelli quadri si ponevano però soprattutto ai fianchi dell'armata sottile, venendone a
costituire così i sopraccorni e fungendo da baluardi dell'armata stessa, e in tal modo le
nostre galere potevano essere offese dal nemico solo per prua, perché, se i nemici
avessero tentato d’aggirarle, si sarebbero trovati esposti alle grosse artiglierie dei fianchi di
detti velieri e le galere, come sappiamo, non disponevano d’artiglierie da fiancata in grado
di controbattere la lunga gittata di quei grossi calibri, anzi nemmeno il pezzo di corsia, il più
grosso della galera, poteva generalmente gareggiare con certe grossissime bocche da
fuoco che erano quasi sempre presenti sui vascelli d'alto bordo. Oppure, sempre in caso di
bonaccia, se le nostre galere erano inferiori di numero a quelle del nemico, si soleva anche
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intramezzare i velieri alle galere, in modo che le difendessero come a terra forti e bastioni
difendevano un esercito; altrimenti i vascelli tondi se ne stavano in disparte, ma inviavano
le loro scialuppe cariche d’archibugieri dietro le poppe delle loro galere in attesa di ricevere
ordini da queste.
Questo forte propugnacolo di vascelli grossi fu il principale strumento della vittoria che la
Lega cristiana ottenne nel 1571 sui turchi a Lepanto; esso era in quel caso costituito da 6
galee grosse veneziane poste in larga linea circa un miglio davanti alla fronte dello
schieramento delle galere cristiane; gli ottomani le sottovalutarono e le loro galere si
buttarono egualmente all'attacco di quelle cristiane, passando tra i sei detti grossi vascelli
remieri, e molte di loro furono così dai grossissimi cannoni di queste ultime talmente
sconquassate e fracassate, tanto di fronte quanto poi di fianco e di dietro, mentre i circa 500
archibugieri che ciascuno di quei mastodontici vascelli pure portava a bordo aumentavano
la strage degli equipaggi turchi, che, disordinate e indebolite ormai le loro schiere, le galere
ottomane furono circondate e battute con ardire e vantaggio dal resto dell'armata cristiana
sino ad restarne completamente sbaragliate. Le uniche galere turco-barbaresche che
riuscirono a sottrarsi alla strage furono, come si sa, a destra alcune del governatore
d’Alessandria Šuluk Mehmed, tra cui quella dell’esperto e già da noi ricordato corsaro
Karagj Alì, e a sinistra quelle d’Uluch-Alì, il rinnegato calabrese di cui pure abbiamo già a
lungo parlato; Siroco, ben conoscendo quegli scogli e quei fondali, non solo schivò le
bordate delle galee grosse veneziane, ma fece gran danno al corno sinistro cristiano
formato sostanzialmente dalla grande squadra di Venezia e governata in quella occasione
da Agostino Barbarigo e da Marco Quirini; costoro, avendo invece poca conoscenza di quei
mari e di quelle secche, si lasciarono circondare e disordinare dal nemico, restandovi
ucciso il Barbarico, e le galere turco-barbaresche passarono senza danno tra le secche e si
salvarono; Šuluk Mehmed restò però preso e, a causa delle mortali ferite riportate, alcuni
giorni dopo la battaglia chiese e ottenne dal nemico d’essere finito; preso fu pure il corsaro
Karagj Alì, mentre Hassan Bey ed Hassan Pasha, figlio del Barbarossa, si fecero uccidere
combattendo valorosamente.
A Lepanto i cristiani misero in campo, oltre alle sei predette galee grosse veneziane e
secondo i dati del Contarini, 203 galere delle 207 partite da Messina, perché prima della
battaglia, come abbiamo già accennato, quattro galere furono disarmate per rinforzare
d’uomini le altre; 84 di queste 203 galere - tra spagnole, napoletane, siciliane, genovesi,
savoiarde e maltesi - erano state mandate da Filippo II, 13 - di cui 12 toscane - dal Papa, 106
da Venezia; c’erano poi alcune fuste e brigantini, una settantina di fregate e infine 22 navi
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… In questi giorni sono arrivati e ripartiti di qui tre cavalieri spagnuoli mandati da don
Giovanni rispettivamente all’Imperatore, al Re Cattolico e a Venezia. Sono stati concordi nel
magnificare la condotta dei nostri vascelli e nell’attribuire la decisione della vittoria al fuoco
micidiale delle nostre galee grosse… (N. Nicolini. Cit.)
… Non potendo io mancar di quel che richiede la verità e il merito del clarissimo signor
Francesco Duodo, capitan generale delle galeazze, dico che nella giornata per la bontà di
Dio ottenuta contra l’armata turchesca dette galeazze furono al parer mio gran parte della
vittoria, atteso che, essendosi spinte avanti la nostra battaglia, oltre al dar terror e danno
all’inimico con l’artigliaria da prima tirata, causorno che detta armata venisse a rincontrare
ripartita in più capi e disordinata al combattere per non accostarsi a quelle. In fede di ciò…
Marcantonio Colonna… (G. A. Quarti. Cit.)
Racconta il Sereno che, ringraziando i suoi capitani dell’impegno profuso nella battaglia,
Giovanni d’Austria volle farlo particolarmente al Duodo:
… Più particolari grazie rendeva a Francesco Duodo, delle magnifiche galeazze capitan
generale, le quali confessando essere state potissima cagione della felice vittoria, come
quelle che prime gl’inimici avevan disordinato, con una patente che gliene fece di
onoratissimo tenore volle che al mondo fosse manifesto… (B. Sereno. Cit. P. 212.)
Non bisogna pensare che la vittoria cristiana fosse arrivata insperata, anzi gli alleati se
l’aspettavano perché erano da loro ben conosciute diverse caratteristiche negative
dell’armata degli ottomani, le quali si andavano ad aggiungere a quelle allora invece meno
note e considerate che abbiamo già descritto e relative soprattutto all’inferiorità numerica e
operativa dell’artiglieria di prua delle loro galee e inoltre alla decisiva presenza delle sei
galee grosse veneziane irte di bocche da fuoco. Ecco per esempio quanto tra l’altro
leggiamo in un incarico che il cardinale Alessandro Farnese (1520-1589), vice-cancelliere
dello Stato della Chiesa, nel 1571, qualche tempo prima dell’epocale battaglia, aveva dato a
un suo emissario inviato a Civitavecchia ad attendervi il passaggio della squadra spagnola
di don Giovanni d’Austria mandato a capitanare l’armata della Lega cristiana:
… nè havemo pensiero che l'Altezza Sua non sia per havere la più segnalata vittoria che si
habbia mai havuta a memoria d'huomini di mare, atteso che l'armata christiana non solo è il
più bello e maggior numero de' legni grossi e fottili atti a battaglia che ci sia ancora visto,
ma porta la più nobile, per consequenza & miglior gente, di tutta l'Europa. Né ci ha da far
stare sospetti il maggior numero de' legni e gente barbara, perche questa va per
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commandamento e per forza alla battaglia, oltre il non essere così ben armata né i Soldati
loro atti a maneggiare schioppi ma solo archi e scimitarre senza alcuna difensione. I nostri
all'incontro con gl'archibugi fanno la loro fattione e prima hanno sparate quattro botte che
quelli una e con le pavesate si riparano, oltre li petti di ferro. Le sei galeazze solamente che
conduce Sua Altezza per antiguardia è opinione che debbano mettere in disordine e
confusione tutta l'armata turchesca (Del tesoro politico la parte terza e quarta etc. Cit. Pp.
93-94).
… E parimente s'è venuto a quest’uso dell'archibugio, ne’ quali chi sarà più essercitato che
l'inimico e l'userà ‘sì che più da lungi comminciano ad offendere e perturbare (cosa che
fanno hoggi li spagnuoli con li suoi moschettoni e si può credere si farà un dì con li pezzi
maggiori) haverà sempre il migliore della battaglia, il che s'è visto per isperienza nella
memoranda vittoria havuta gli anni a dietro dell'armata turchescha, la quale non per altro
s'ottenne che per esserci di gran lunga superiori li christiani all'infedeli di numero e pratica;
e, ‘sì come s'ottenne quella vittoria per il vantaggio di numero ed uso d'archibugio e
vantaggio delle pavesate, così si saria ottenuta per il vantaggio degli ordini de i legni, se le
galeazze, che del loro disordine furno causa, non havessero dato tempo da riordinarsi col
procedere loro, più lontano che non conveniva, dalla fronte e battaglia de’ christiani (Luca
Antonio Tomasoni da Terni, Discorso militare in La seconda parte del Thesoro politico etc.
Pp. 56 verso e 57 recto.Vicenza, 1602)
Dunque, oltre alla predetta inferiorità pirobolica, gli altri difetti che rendevano a Lèpanto le
galee ottomane inferiori a quelle della Lega cristiana erano il disporre di pochi archibugi,
prediligendo gli archi, incompatibili con pavesate difensive, l’esser inoltre quei pochi
archibugieri molto lenti a ricaricare nella sproporzione di 1 a 4, il non avere impavesate
difensive né i loro combattenti usavano i petti di ferro.
Bisogna precisare che sia il Colonna sia il Sereno, non essendo veneziani, bensì ponentini,
chiamavano impropriamente ‘galeazze’, cioè alla loro maniera, le galee grosse di Venezia.
Che i veneziani considerassero le loro galee grosse del trafego impiegabili anche in guerra
e con successo non era in realtà una nuova idea di quei tempi; infatti, per fare un esempio,
ecco quanto fecero quasi un secolo prima, cioè nel 1498, quando si ebbe notizia che i turchi
stavano per mandare una grossa armata alla conquista dell’isola di Rodi, allora storica sede
dei cavalieri di S. Giovanni:
… Ai 17 del detto marzo sono state messe (in navigazione) le galee di Levante, 4 per
Barutho (‘Beirut’) e 4 per Alessandria, sebbene (la cosa) sia in anticipo. Si soleva metterle
da metà aprile a metà maggio, ma, giungendo voce che il Turco sta facendo una grande
armada contro Rhodi e temendosi anche per l’isola di Cipro, sono state messe (in
navigazione) adesso, affinché siano dotate per tempo di ufficiali e che (quindi) possano
andar in armata in caso de bisogno (B. Malipiero, cit. Parte prima, p. 159).
… Ai 4 d'aprile sono state messe 4 galee per Barutho e 4 per Alessandria, così per mandarle
a i loro (consueti) viaggi come per averle all’ordine in caso di bisogno, confermandosi da
ogni banda che il
Turco ha in essere 60 galee da far uscir fuora…(Ib. P.162).
C’era poi a quel tempo una nona galea grossa che faceva il viaggio di Aqua morta (oggi St.
Tropez in Costa Azzurra) e una decima che invece percorreva quello di Fiandra. Contro la
minaccia turca si misero quell’anno insieme 46 galee sottili e inoltre, in caso di bisogno, si
poteva anche contare sulle 10 grosse predette, anzi di più:
Candia non era uno scalo finale delle galee grosse commerciali veneziane, ma solo uno
intermedio; evidentemente, a causa delle nuove precauzioni di guerra, era stato ordinato
che si fermassero là in attesa di possibili impieghi bellici. Lo stipendio di sopraccomito,
titolo che dai documenti d’archivio risulta avessero i comandanti delle galee sottili
veneziane sin dall’inizio del Trecento, si dava dunque, come in questa citazione abbiamo
visto, anche ai capitanei delle galee grosse da mercato quando quei legni si armavano per
uso bellico; per la precisione, lo stipendio era lo stesso ma, per quanto riguarda il titolo,
non si trattava in realtà di quello di sopraccomito bensì di quello di governatore di galea
grossa, come leggeremo poi in questa notizia del 15 settembre successivo:
Nella loro ordinarietà commerciale le galee grosse veneziane erano comandate dunque non
da un sopraccomito bensì da un capitaneo, il quale si occupava però dei soli aspetti nautici
del viaggio, mentre un patrone l’affiancava per la gestione di quelli commerciali, quindi
occupandosi sia del carico di merci sia delle provviste di bordo. Era giunta però nel
frattempo voce che l’obbiettivo degli ottomani sarebbe però potuto anche essere non Rodi
ma Corfù:
… del che i corfioti avertiti, offrirono a la Signoria di armare a loro spese 60 grippi, dando
loro la Signoria il pane e le artegliarie; e con questi 'secondi avvisi, è stato deliberato di
accettare l'offerta dei Corfioti… (ib.)
Sarebbe stato interessante qui sapere con quali minori canne d’artiglieria si armavano i
grippi a quell’epoca; ma, tornando all’uso bellico delle galee grosse, ancora nel 1499,
nell’ambito dei preparativi precauzionali che a Venezia si fecero nel timore di un attacco
portato a Corfù o a Napoli di Romana dall’armata turca, il capitanio generale da mar Antoni
Grimani tra l’altro così ordinò:
Ai 22 di luglio è uscita (dal Bosforo) l'armata del Turco di 300 vele e ai 24 veleggiava nel
golfo di Corone; e il capitanio generale fece partire il capitanio (delle navi armate Alvise)
Marcello con 34 navi e 12 galee grosse e andarle contra in tre squadroni, con quattro galee
sottili per galea grossa; e il generale è restato con 34 galee sottili (ib. P.171).
Dunque in quel tempo già c’era un uso bellico tattico delle galee grosse, basato
evidentemente anche allora sull’uso delle artiglierie pesanti che detti vascelli potevano
imbarcare ed usare. Il successo che tre quarti di secolo dopo si ottenne con quelle usate a
Lepanto, sulle quali, secondo una relazione francese, pur costituendo esse la prima linea
dei cristiani, restarono uccisi solo tre uomini, fece sì che l'anno seguente la Lega cristiana
si dotò a spese comuni di 40 navi grosse da trasporto cariche di munizioni e provvisioni da
guerra, le quali seguivano l'armata e, quando appunto nel 1572 le galere di Venezia e quelle
papaline offrirono battaglia a Uluch-Alì, furono poste come propugnacoli davanti alle galere
proprio alcune di queste navi irte di grossi cannoni; ma Uluch-Alì, compresa la lezione
dell'anno precedente, da prudente capitano rifiutò lo scontro e si disimpegnò. Perché poi si
volevano usare stavolta grosse navi e non più galee grosse? Probabilmente ci si era resi
conto che queste, quando armate a guerra, erano sì delle potentissime fortezze galleggianti
stracolme d’uomini e artiglieria, ma presentavano pure alcuni limiti importanti; erano infatti
dei vascelli lenti e impacciati e non dei vascelli manovrieri che potevano andare a
raggiungere abbastanza facilmente da soli la propria assegnata posizione, per poi variarla a
seconda del vento e delle mosse dell'avversario; infatti, essendo più alte di puntale e più
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larghe delle galere, ma non tanto da poter essere considerati dei vascelli d'alto bordo, non
facevano parte né della categoria dei vascelli tondi né di quelli sottili, non offrendo quindi
né le qualità nautiche dei primi né i vantaggi dei secondi. Senza contare poi che le grandi
navi erano noleggiabili con embargo dappertutto, mentre le galee grosse e le galeazze
esistenti erano poche e, al di fuori dei veneziani, pochi ne erano ufficiali esperti.
Un altro esempio del buon utilizzo bellico dei vascelli quadri e della importanza delle loro
grosse artiglierie risale alla lega anti-francese tra Papa Giulio II e Venezia nel 1510 e alla
conseguente battaglia delle Fosse di Villamarino, località della riviera ligure di levante poco
lontana da Genova; si erano colà stanziate 17 galere della Serenissima e sei del Papa sotto
il comando del già ricordato veneziano Hieronimo Contarini, detto Grillo, e con l'intenzione
di porre l'assedio marittimo a Genova, città allora occupata dai francesi e che, per il suo
sterile entroterra e la difficoltà delle vie d’approvvigionamento terrestre, non avrebbe potuto
sopportare un blocco marittimo più lungo d'un mese. Il Contarini aveva davanti a sé uno
scanno (vn. scagno), ossia una duna di rena nel mare, la quale si diceva anche cavallo e
che lo proteggeva dall'eventuale approccio di vascelli di pescaggio maggiore di quello delle
galere, cioè di vascelli detti allora - con terminologia ancora medioevale – carrache e barze
armate, ossia vascelli quadri grandi e medi. Per prevenirlo i francesi uscirono dal porto di
Genova con sei galere e altrettante carrache armate di grossi pezzi da 100 libre di calibro,
come allora si usava, e andarono a fronteggiare il Grillo; per superare l'ostacolo della duna
di sabbia, furono messe in acqua le sei barche delle carrache, ognuna armata con un
cannone da 30 libre, e queste, galleggiando sullo scanno, si misero a bersagliare le galere
del Contarini, forti della protezione delle loro proprie galere, le quali erano rimaste più
indietro a causa di quei bassi fondali ed erano a loro volta protette dalle carrache armate
fermatesi necessariamente ancora più indietro. Il Contarini vedeva il palamento delle sue
galere spezzato dai tiri dei pezzi da 30 delle barche, le quali egli invece non riusciva a
colpire data la loro piccolezza, né poteva a quelle avvicinarsi, aggirando lo scanno, perché
sarebbe entrato così nel campo di tiro dei pezzi da 100 delle carrache francesi, senza che
potesse egli controbatterle con i suo pezzi di corsia, i quali erano da 50 solamente né
avrebbero potuto del resto esser maggiori. Le barche francesi sparavano il loro pezzo, poi
le carrache le tiravano indietro con una lunga fune, affinché i loro cannoni potessero essere
ricaricati in tutta tranquillità, e infine si spingevano di nuovo sulla duna perché sparassero
di nuovo. Così il Contarini, per evitare la rovina dei suoi, fu costretto a rinunciare al suo
proposito e ad abbandonare quei luoghi con non molto onore.
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Nonostante il predetto e altri episodi, a causa della loro limitata manovrabilità, l'importanza
dei vascelli tondi in battaglia tardò ancora molto a essere apprezzata e per i primi tre quarti
del Cinquecento si continuò a considerarli utili a un’armata soprattutto in quanto
rifornivano le galere di provvisioni e di fanteria, potendosi solo nel 1572 individuare un
primo teorizzatore del vantaggioso loro uso frontale in battaglia in luogo delle galee grosse
in Adriano Bragadino, allora capitano delle navi veneziane, il quale appunto in un suo
Discorso lo suggeriva al capitano generale dell’armata veneta Jacopo Foscarini; per
esempio nel 1538, quando si volle mettere insieme una lega anti-ottomana tra Carlo V, il
papa, re Ferdinando e il doge, il primo non disponeva d’un numero sufficiente di galere per
far fronte al suo impegno, il quale era per la metà di tutta l'impresa, e ben suppliva però con
le barze armate, anche qui intendendosi per queste vascelli tondi in generale; ciò non di
meno molti lo criticarono perché dicevano a ragione che in questo modo l'armata cristiana
sarebbe stata come divisa in due parti distinte e mal atte a unirsi per combattere; ma che
altro si sarebbe potuto fare, visto che anche negli anni seguenti la Lega cristiana si trovò a
disporre solo di 150 galere al massimo e 60 barze contro le 300 galere del sultano? Questa
netta inferiorità numerica di forze fu il principale motivo per cui allo scontro generale,
avvenuto poi a Lepanto, si arriverà così tardi.
Il primo significativo scontro tra vascelli tondi e vascelli sottili nel Mediterraneo si può
dunque considerare quello che avvenne nella seconda metà del secolo - la data precisa ci è
ignota – al quale partecipò l’ufficiale d’artiglieria di galera estense Eugenio Gentilini, il quale
comunque era nato nel 1529. Egli racconta che, trovandosi allora al servizio dei cavalieri di
Malta da venturiero, si trovava in mare con quelle galere e di conserva con le sette di Sicilia,
inclusa la loro Capitana, e, imbattutisi in cinque bertoni inglesi, vollero attaccar battaglia
perché allora la regina d’Inghilterra era in guerra con la Spagna e quest’ultima, come si sa,
era una strenua difenditrice dell’ordine gerosolimitano; quindi doveva trattarsi del periodo
1568-1571. Ben presto però dovettero ritirarsi perché i bertoni, per nulla intimoriti dal
numero, rispondevano colpo su colpo, anzi uccisero alquanti uomini delle galere incluso un
nipote del viceré di Sicilia, il quale per fatalità si trovava a bordo in gita marittima. Una più
combattuta battaglia avvenne poi nei pressi dello stretto di Gibilterra il 24 aprile del 1590,
quando cioè 12 galere comandate da Gioan Andrea d’Oria, quello stesso capitano generale
genovese che quasi vent’anni prima era stato tanto criticato per il suo comportamento poco
coraggioso a Lepanto, avevano colà attaccato 10 vascelli tondi inglesi che tornavano dai
loro traffici del Levante con l’impero ottomano, potenza con cui l’Inghilterra aveva ottime
relazioni, tant’è vero che nelle memorie della sua schiavitù in Barbaria il du Lisdam tra
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l’altro ricorda che nel 1607 un vascello provenzale che gli stava dando un passaggio da
Cagliari a Livorno fu inseguito sino all’isola d’Elba da un gros vaisseau armé, moitié Turcs
et Anglois (cit.); ma quella del d’Oria non risultò esser stata una buona idea, perché per ben
sei ore le sue galere furono talmente maltrattate dalle bordate delle artiglierie inglesi da
doversi alla fine ritirare e lasciare gl’inglesi completamente vincitori. Questa sconfitta fu
comunque nulla rispetto a quella ben più grave che il 25 aprile del 1607 la marineria
spagnola subirà da parte di quell’olandese nello stesso stretto di Gibilterra; solo nello
scontro dei primi di ottobre del 1624 la flotta spagnola di Cadice comandata da Francisco
de Ribera – 22 galeoni grossi e 3 petacchi – riuscirà a scontrarsi in quelle acque con un
convoglio olandese di 82 vascelli – in maggioranza fortunatamente mercantili – senza
restarne soccombente.
Nel disporre in linea retta di battaglia un’armata oceanica, vale a dire un’armata composta di
soli vascelli tondi, si osservava il principio opposto a quello in uso per le galere
mediterranee; cioè con i vascelli più grossi si costituiva il corpo dello schieramento stesso
e avanti a questo si ponevano i vascelli più piccoli, più agili e capaci d’aggirare, assaltare di
fianco, cambiare improvvisamente rotta o fuggire celermente, quali per esempio le urche.
Proprio per difendere un fronte di galeoni e grosse navi armate dall'assalto di questi
vascelli più piccoli e agili conveniva mettere ai suoi corni vascelli ancora più agili, quali
erano per esempio tali le cosiddette caravelle d'armata, caravelle cioè che i re del Portogallo
usavano mandare ad aspettare la flotta proveniente dall'India perché la difendessero dagli
attacchi dei corsari inglesi e roccellesi ... et sono così agili nel voltare come se si voltassero
con i remi...(P. Pantera. Cit. P. 43.)
Compito di questi velieri minori era dunque il tentare di circondare la armata nemica,
d'impedirle di manovrare e infine eventualmente anche di sottrarsi velocemente finché i
propri galeoni (bertoni, nel caso degl’inglesi), vascelli nei quali nel Cinquecento consisteva
il nerbo dell'armate oceaniche, non fossero arrivati all'abbordaggio:
... non altrimenti usano i cacciatori di uccelli, che mandano gli smerigli (‘falchetti’) innanti a
far trattener e romper il volo all'uccello che fugge, sin che il falcone che ha da fare la presa
arrivi con il men veloce volo. (B. Crescenzio. Cit. P. 527.)
Come abbiamo già ricordato, nel Quattrocento, quando cioè la navigazione transatlantica
ancora non esisteva, grandi armate di 40/100 velieri costituite in prevalenza di ‘caravelle’,
ossia di vascelli tondi atlantici, erano allestite dai sovrani iberici e si aggiravano anche nel
Mar Tirreno per apportare soccorsi di soldatesche e di provvisioni militari agli aragonesi di
Napoli e Sicilia, sempre impegnati a fronteggiare le invasioni francesi; per esempio nel 1481
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l’armata portoghese di vascelli a vela quadra inviata al soccorso di Otranto, assalita dai
turchi, si componeva di 19 caravelle e di una nave. Nei primi mesi del 1495, Ferdinando il
Cattolico, nell’ambito della guerra che l’opponeva agli angioini per il possesso del regno di
Napoli, mandò a Messina un’armata di ‘caravelle’, della quale era capitano generale
l’italiano conte di Trivento, e un legno che il primo marzo giunse dalla Sicilia a Corfù riferì al
capitano generale del mare veneziano, allora Antonio Grimani, il quale colà aveva raccolto
la sua armata perché vi fosse raddobbata, d’aver contato 54 ‘caravelle’, di cui l’ammiraglia
del Trivento di ben duemila botti e una dozzina dalle 400 botti in su, non trattandosi quindi
certamente, perlomeno per quanto riguarda quest’ultime, effettivamente di caravelle
propriamente dette, perché come sappiamo, queste non raggiungevano assolutamente
portate tanto elevate; questi velieri poi, congiuntisi a 20 galere del re di Napoli Ferrandino,
andranno a sbarcare in Calabria soldatesche, le quali prenderanno ai francesi molte terre
(‘abitati’), e il 24 marzo successivo saranno raggiunti a Messina da un’altra armata spagnola
comandata da Gonzalo Hernández de Aguilar e composta di circa 40 caravelle o vero barze
di Spagna, di cui 15 di 400/500 botti di portata e le altre di 200/400; più avanti il Sanuto,
riferendosi ancora a detta armata del re di Castiglia a Messina, scriverà più volte che
trattavasi di barze et caravelle, cioè vascelli a vela quadra e vascelli a vele latine con quadra
di trinchetto. Ancora nel 1543, l’armata che il predetto conte di Alcaudete portò in Barbaria
era formata in prevalenza non da galere, ma da 22 vascelli quadri, tra i quali 10 grandi navi
inclusa la Capitana , cioè una genovese particolarmente bella (suntuosa), di cui era il
padrone tal messer Francesco d’Aosta, e la Patrona, ossia una biscaglina, e ciò era allora
possibile in quanto si trattava in effetti semplicemente di trasportare un esercito oltremare e
ciò senza temere un incontro con l’armata turca, la quale a quell’epoca non s’era fatta
ancora tanto minacciosa. Nonostante il loro gran numero, questi velieri non costituirono
però mai nel Mediterraneo il nerbo di un’armata in battaglia, ruolo che era - e lo sarà ancora
per lungo tempo - riservato ai vascelli remieri, in quanto tanto più manovrabili e di molto più
rapido intervento di quanto fossero allora i velieri.
Unici vascelli da remo in grado di sostenere la forza dei flutti oceanici erano le galeazze, da
usarsi però in guerra sempre e solo come potenti batterie avanzate, e infatti, come
sappiamo, esse furono incluse nell'Invencible Armada che tentò invano di piegare
l'Inghilterra, armata sconfitta, a dire il vero, più dalla sfortuna del maltempo che dagl'inglesi,
e sembra che fossero già presenti anche nell'armata con cui la Spagna aveva conquistato le
isole Azzorre nel 1582. Ma tornando ora alle galere e alla nostra guerra mediterranea,
diremo ancora che, in caso si accettasse battaglia col mare agitato (il che era però da
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evitarsi sempre per molti rispetti), gli schieramenti non si potevano ovviamente più
mantenere e perciò in quel caso ogni galera era libera d'andare a combattere contro una
delle nemiche a sua scelta e come meglio credeva; certo, riuscendosi a guadagnare il
vento, bisognava far di tutto per diminuirne l'impeto, per esempio serrando la vela in due
parti sin quasi all'antenna, il che in veneziano si diceva ghindar l'angelo od issare l'angelo
per la forma che la vela stessa andava così ad assumere, oppure bordeggiando o anche
rastellando (vn. facendo scia) nell'acqua con una metà del palamento, mentre
contemporaneamente si continuava a vogare, ecc. In simili condizioni del mare non si
doveva temere che il nemico avesse più galere dei nostri, perché, una volta urtatesi due
galere, era poi molto difficile che riuscissero a restare unite; ma in sostanza era molto
difficile far buona giornata con un simile mare e quindi per combattere conveniva senz'altro
aspettare il bel tempo. Inoltre prima d’ordinare alla sua armata di porsi in ordine di battaglia,
il buon capitano generale doveva scrutare il tempo e accertarsi che non stesse per piovere;
la pioggia avrebbe infatti, come abbiamo già spiegato, reso inservibili sia gli archibugi sia i
moschetti; inoltre, combattendosi contro i turchi, ciò avrebbe posto i cristiani in condizioni
d'inferiorità, perché anche nella guerra di mare quelli facevano grande ed esiziale uso
dell'arco e infatti a Lepanto, circostanza alla quale abbiamo anche già accennato, gli arcieri
turchi risultarono, nonostante la sconfitta generale, molto più efficaci degli archibugieri
cristiani; e in quella battaglia non pioveva nemmeno!
Le opere difensive d’un vascello potevano essere fisse, cioè i castelli di poppa e prua di cui
abbiamo già parlato, oppure mobili, quali le impavesate rigide o componibili con i pavesi e
le rembate delle galere, di cui pure abbiamo detto, o anche occasionali, come le baricate e
le traverse, opere queste ultime che si ponevano sulla prima coperta o coperta esterna del
vascello per opporre resistenza ad avvenuti arrembaggi e si facevano generalmente con il
sopra ricordato spigone traversato all’ingresso della poppa dietro le spalle, poggiandone
l’estremità sui bandili laterali, e con trinchetti traversati e incrociati alla base dell’albero,
poggiando infine su queste ringhiere improvvisate strapuntini, schiavine e tende per riparo
degli uomini retrostanti. La coperta della poppa della galera andava inoltre o invece protetta
ponendovi tutt’intorno strapuntini, cappotti e schiavine, specie a difesa del timoniero; la
poppa era la posizione che il capitano doveva maggiormente difendere e tenere (“poi che
quella è la sua fortezza, il suo castello ben custodito”) e quindi, quando durante il
combattimento si tratteneva in corsia, doveva lasciarla in custodia di gente molto fidata.
Sulle bande dei vascelli a vela quadra armati a guerra, dove si usavano per la difesa della
prima coperta pure le reti, anch'esse utilissime a ostacolare il nemico arrembante, si
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comincerà presto a usare, per amor di leggerezza, impavesate fatte di panno o di tela (rossa
nel caso degl’inglesi, talvolta blu e alta all’incirca un’aune nel caso dei francesi), anche se
talvolta questo tessuto si poneva a doppio per poter così racchiudere un’imbottitura che
fermasse i proiettili d’armi leggere, perché, trattandosi di vascelli d’alto bordo, c'era
ovviamente meno bisogno d’una protezione aggiuntiva e tali ripari, sorretti da bastoni o
sbarre di legno [fr. (es)pontilles] e posti spesso anche attorno alle gabbie, servivano
pertanto unicamente a nascondere gli uomini ai tiratori nemici, anche per il motivo che la
gente dei vascelli quadri, in mancanza di natte di cordami, usava porsi dietro il bordo
facendosi scudo con i suoi materassi appesi in verticale all'esterno o all'interno del bordo
stesso; ma si usava talvolta anche sulle galere attaccare all'esterno della pavesata
schiavine e pagliericci (ol. bult-sakken] perché assorbissero alquanto i colpi d'arma da
fuoco del nemico; mancando d’impavesate un vascello poteva usare allo stesso scopo delle
vecchie vele e in ogni caso tali protezioni aggiuntive andavano possibilmente intrise
d'acqua per cercare di rendere difficile all'avversario l'incendiarle. Bisognava infatti
premunirsi perché a bordo della galera nemica poteva esserci qualche uomo armato di
lunghissima picca con fuoco incendiario alla punta e con la quale appiccare le fiamme alle
vele o a quant'altro fosse facilmente incendiabile. In mancanza di bande di tessuto tenute
appositamente per farne delle impavesate, si usavano spesso a tal scopo le vele di
coltellaccio. Il nome d'impavesate deriva, com’è noto, dall'essersi usati, sino a
Rinascimento incluso, nel Medioevo appunto in tal funzione i pavesi, ossia i grandi scudi da
difesa statica posti in filari serrati lungo i due bordi della coperta, e ciò appunto fino a circa
il 1550, quando furono dismessi del tutto; ma ciò non avvenne perché fu anche a quello
stesso tempo che i balestrieri, i quali erano stati sino allora mantenuti in affiancamento
degli archibugieri, furono da questi totalmente sostituiti. Infatti, i robusti scudi, i quali
potevano fermare i verrettoni delle balestre, avrebbero rappresentato un’utile difesa anche
contro i proiettili di piombo, in quanto questi, poiché sparati da schioppetti e archibugi e
non ancora dai potenti moschetti portatili, erano tirati troppo debolmente per perforarli
sistematicamente, tanto che ancora nel Seicento, quando si archibugiava un soldato
condannato a morte, non era insolito trovare poi sul suo corpo proiettili fermati dal suo
normale vestiario di panno e questo è il motivo per cui presto si prese l'abitudine
d'archibugiare i condannati in camicia. I pavesi furono invece dismessi sia per rendere le
galere più leggere, preferendosi quindi magari fare delle impavesate utilizzando le tende e i
tendali piegati lungo le fiancate, sia perché si incominciavano a usare sulle fiancate piccole
artiglierie su forcina girevole e i proiettili di queste i pavesi certo non li potevano fermare.
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… Ed erano le galere meglio apparecchiate che ci fossero mai state, poiché le avresti
trovate tutte dipinte con le armi del re d’Aragona e di Sicilia e avevano così tanti scudi, ad
ambedue i lati da poppa a prua, che non ce ne sarebbero capiti altri; e tra due scudi c’era
una balestra. Sui fianchi delle galere c’erano anche bandiere e pennoni dalla poppa fino alla
prua da tutte le parti; e bei drappi di pressato (‘seta lustrata’) vermiglio e di seta che
stavano stesi sui castelli a poppa delle galere, il che quasi non si potrebbe descrivere, tanto
splendidamente e tanto nobilemente erano apparecchiati.(Cit.)
Si abbassavano poi a prua le rembate, se non già fatto in precedenza, le quali - specie nelle
galee veneziane - potevano essere impavesate come le fiancate della mezzania, e si
facevano tre traverse attraversanti la coperta della galera per ostacolare il nemico che fosse
riuscito a mettere piede a bordo, utilizzandosi a tal scopo balle di lana, se ce n’erano,
perché era la miglior protezione contro l'artiglieria sia che questa sparasse palle sia scaglie
di mitraglia, e in mancanza di queste balle le traverse si facevano di rotoli di sartiami o di
grosse gomene, di cuoiami, di reti da pescatore, di strapuntini, di materassi o stramazzi, di
schiavine e cappotti bagnati per evitare che prendessero subito fuoco, di vele, tende e simili
anch'esse opportunamente bagnate con acqua di mare; degli stessi materiali si facevano
pure ripari (l. munimines, munimenta) laterali al tamburetto di prora per difendere gli
artiglieri dal fuoco nemico. Queste traverse (fr. bastions), irrobustite da un’ossatura di rami
legati insieme, andavano da un filare all'altro a prua, all'albero di maestra e alla mezzania in
corrispondenza dello schifo, insomma nei luoghi in cui davano meno fastidio ai banchi di
voga; l'ultima delle tre era quella che doveva opporre la maggior resistenza a un’eventuale
invasione del nemico proveniente da prua e infatti i due punti forti d’essa, lo schifo e il
fogone, erano generalmente guarniti di difensori sotto il comando dell'alfiere, uomini
valorosi e risoluti a farsi uccidere prima di permettere al nemico di raggiungere la
retrostante bandiera e d'impossessarsi della poppa, ossia del luogo di comando, perduto il
quale si poteva considerare l'intera galera.
Sulle galeazze i predetti svariati materiali difensivi servivano pure a rinforzare le impavesate
sino a farne dei veri e propri parapetti, cosa resa possibile dal non dover essere le
balestriere di quei vascelli attraversate dai remi come quelle delle galere, le quali invece
non potevano quindi esser turate; infatti le balestriere delle galeazze erano pensili e situate
al di sopra dei remi, come abbiamo in precedenza spiegato, e bisognava solo stare attenti
che, riempite dei detti materiali, non s’incendiassero con il fuoco emesso dai propri
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sottostanti cannoni di bancata. Sui vascelli quadri anche si alzavano reti di corda a difesa
della coperta e su quelli meno manovrieri si preparavano lungo le impavesate grossi sassi
da gettare dall'alto del loro bordo sulle basse galere che si facessero sotto all'attacco, ma
quest'ultimo espediente non sempre sarebbe riuscito a causa delle frecce e archibugiate
che in tale occasione dalle galee erano copiosamente tirate verso i difensori delle
impavesate della nave assalita, specie se invogliati dall'essere il bordo di questa non tanto
alto e magari anche finestrato; meglio dunque era disporre sul ponte superiore di qualche
trabucco (antenato del mortaro) sempre carico e pronto a sparare ad arcata sulla galera
nemica che si facesse sotto bordo, ma per tali pezzi e per l’artiglieria di coperta in generale
bisognava spesso costruire apposite piattaforme, poiché per lo più le coperte non erano
perfettamente orizzontali, il che accadeva soprattutto nel caso dei flauti, il cui ponte
superiore saliva sensibilmente da prua a poppa.
A bordo della galera, nell'imminenza del combattimento, il capitano innanzitutto si
confessava e faceva sì che tutti a bordo lo facessero, poi, al comando Mettere le armi in
coperta!, si compartivano gli archibugi, le balestre, perché, come abbiamo spiegato, ancora
l’usavano i marinai, i moschetti da braccio, se già si usavano, le rotelle, le mezze picche, le
alabarde e le altre armi inastate alla poppa, in corsia, allo schifo, alla piazza d'arme, ossia
davanti all'albero di maestra, alla prora e alle balestriere, perché i soldati, i buonavoglia e i
marinai se ne potessero servire al bisogno; mezze picche e alabarde si ponevano per
esempio nella ritirata preparata a poppa e una per banco, affinché il più animoso e fidato
remigante cristiano del banco, se ce n’era uno, l'usasse per respingere il nemico
maomettano che venisse all'arrembaggio. Le aste di tutte queste armi si ungevano di sego
dal ferro apicale sino alla metà, affinché i nemici non riuscissero ad afferrarle e a strapparle
di mano ai nostri soldati. Si distribuivano del pari nelle bancate le trombe e gli altri fuochi
artificiali (quantunque ora, come abbiamo già detto, in sostanziale disuso), ma solo alle
persone che sapessero maneggiarli, a causa del pericolo che rappresentavano per la stessa
propria galera, se posti in mani inesperte. Inoltre questi fuochi, tenuti pronti a poppa, a prua
e dovunque il nemico tentasse di venire all'arrembaggio, dovevano essere usati solo se il
vento era favorevole, perché con vento contrario invece di nuocere al nemico si sarebbe
rischiato d'appiccare il fuoco alla propria galera. I soldati muniti eventualmente d’obsolete
pignatte di fuoco artificiato ne dovevano portare una sola - meglio se in una sacchetta di
fustagno a tracolla - e dovevano accenderla al momento con lo stoppino d'archibugio; allo
stesso modo si accendevano le dette trombe di fuoco o trombe di galera.
1070
Con i venturieri, cioè con i combattenti fuori organico e senza paga, i quali, come abbiamo
già detto, partecipavano alla guerra con la speranza del bottino o di segnalarsi per poi
essere arruolati come ufficiali, con gli intrattenuti, ossia con ufficiali (specialmente capitani
di galera) che, come pure abbiamo già spiegato, facevano parte d’una ‘riserva’ retribuita
dalla quale attingere quando necessario, con i gentiluomini di poppa e infine con qualche
soldato avvantaggiato a bordo della galera si costituiva il principale corpo del soccorso,
pronto a intervenite dove fosse più necessario durante il confronto con la galera avversaria,
mentre ad alcuni agili e animosi marinai si affidava il compito di saltare per primi sul
vascello nemico; si stabiliva inoltre la piazza d'armi, come già accennato, ai piedi dell'albero
di maestra, in modo che il forte gruppo di combattenti là ammassato potesse, da quella
posizione centrale, soccorrere tutti i luoghi della galera che stessero per cedere al nemico e
anche eventualmente reprimere gli schiavi ai remi che, approfittando della distrazione e
della concitazione del combattimento, tentassero di liberarsi dalle catene per poter così
andare a schierarsi dalla parte del nemico. Secondo alcuni, invece d’un unico grosso corpo
del soccorso in posizione centrale, era più utile predisporne molteplici più piccoli, detti
questi corpi del soccorso di quartiero e comandati, oltre che costituiti, da venturieri o da
militari intrattenuti, e cioè per esempio uno alla poppa di 20 soldati e poi tre di 10, di cui uno
alla prua, uno al fogone e uno allo schifo. Sia i soldati dei corpi di soccorso sia i predetti
marinai prescelti per il primo arrembaggio dovevano essere armati di larghe spade e di
rotelle e non dovevano indossare oltre alla rotella alcun’altra arma difensiva, in modo da
essere più agili nel saltare e nel soccorrere. Si mandavano sotto coperta i non combattenti,
cioè il cappellano che doveva assistere i moribondi, il barbiero che doveva medicare i feriti
e amputare gli arti, le maestranze che dovevano tappare le falle provocate dall'artiglieria
nemica, controllandosi che costoro tenessero effettivamente pronti i loro strumenti e
attrezzi per intervenire lestamente a riparare (lem/ctm. adobar) i danni riportati dallo scafo.
In diversi luoghi della coperta, ossia dove combattevano i soldati e gli altri uomini armati, si
spargevano sul pavimento sale e cenere – se disponibili – per evitare che gli uomini
sdrucciolassero combattendo e, per lo stesso motivo d’avere piede più saldo (fr. pied
marin), si ordinava a tutti, marinai e soldati, di togliersi le scarpe; ma al contrario, se invece
si prevedeva di dover essere abbordati perché il nemico era più forte, allora si poteva anche
scegliere di rendere la coperta ancora più scivolosa, spargendovi per esempio del sego o
del burro, perché i nemici appena venuti all’arrembaggio del vascello vi sdrucciolassero, in
tal modo indebolendosi il loro assalto. Si racconta che così avesse una volta fatto il de
Ruyter quando era ancora semplice capitano di vascello; essendosi rifugiatosi infatti nel
1071
porto dell’isola di Wight perché oppresso dai corsari di Dunkerque, prima di riuscirne, fece
cospargere di burro la coperta e le parti del vascello più esterne e, quando quelli, che lo
attendevano fuori, lo arrembarono, scivolarono sul ponte e gli olandesi ne fecero strage; ma
il de Ruyter a partire dal 1651, ossia da quando gli Stati Generali dei Paesi Bassi gli
affideranno per la prima volta il comando d’una squadra – 22 vascelli e 6 brulotti, diventerà
presto il più grande ammiraglio del Seicento e pertanto le sue imprese possono esser state
talvolta un po’ mitizzate.
Negli stessi suddetti luoghi di combattimento si distribuivano inoltre barili, mezzi barili e
altri recipienti pieni d'acqua marina per poter subito estinguere i focolai d'incendio
provocati dal nemico che eventualmente attaccasse con fuochi artificiati e bisognava anche
deputare uomini (possibilmente comandati da un capo), i quali, provvisti di barilotti e altri
vasi, fossero pronti a portar acqua per riempire i barili suddetti; sotto il predetto medesimo
capo si ponevano anche persone che avevano il compito di rifornire d'acqua e d'altri
materiali necessari l'artiglieria di bordo. Bisognava poi deputare una persona prudente e
fedele alla cura della polvere da sparo che per gli archibugieri e i moschettieri si teneva
pronta in coperta, generalmente in barili o più prudentemente in sacchetti di cuoio crudo,
essendo quest'ultimo, come abbiamo già detto, un materiale ignifugo con il quale nel
Quattrocento s’era usato ricoprire addirittura interi vascelli per preservarli da frecce e altre
armi da getto incendiarie; costui doveva essere coadiuvato da due o tre uomini attenti e
assennati, perché il pericolo che la polvere prendesse fuoco accidentalmente era grande:
... Hanno provato il pericolo del fuoco i veneziani l'anno 1569 con gran danno del loro
arsenale, dove si abbrusciò e ruinò una torre piena di questa polvere e con essa alquante
galee con tanto terror della città di Venezia e de i luochi circonvicini, ancorché lontani molte
miglia, che gl'habitatori più vicini all'incendio ricorsero per salvarsi alle barche e avvennero
notabilissimi accidenti. (P. Pantera. Cit. P. 375.)
Far saltare in aria un intero vascello era dunque cosa semplicissima e si ricordavano a tal
proposito alcuni episodi; primo quello avvenuto prima del 1557, quando era capitano
generale delle galere maltesi il già ricordato François de Lorraine, il quale un giorno,
postosi con le sue quattro galere all’ingresso del porto di Rodi, sfidò a battaglia le sei
galere turche che vi sostavano a guardia dell’isola; egli perse una galera, ma delle nemiche
una catturò e due mise a fondo. Su una di queste ultime erano a salire a bordo da prua
alcuni cavalieri e, nonostante il loro esiguo numero, erano arrivati fino all’albero; poi,
avendo il nemico ricevuto un rinforzo dalla sua poppa, i cavalieri furono costretti ad
arretrare e abbandonare il vascello nemico, ma uno di loro, un guascone, di cui il de
1072
Bourdeilles che narra il fatto dice di non ricordare il nome, raggiunto il fogone e sottrattone
un tizzone acceso, si precipitò di sotto nella camera delle munizioni e mise fuoco alle
polveri, facendo saltare in aria tutta la galera nemica e se stesso (P. de Bourdeilles. Cit.) Se
l’episodio accadde veramente è però improbabile che sia accaduto proprio come rammenta
il de Bourdeilles, perché una galera non sarebbe certo andata alla battaglia con il fogone da
cucina acceso, usandosi in tale occasione tener solo infiammati a bordo, oltre alle micce
personali degli archibugieri, uno o due ben guardati stoppini per dar fuoco alle artiglierie;
eppure il farraginoso memorialista francese dice di aver avuto questo racconto sia dallo
stesso de Lorraine sia da altri cavalieri che si trovarono con lui in quello scontro, di cui
certo il ‘gran priore’ doveva ben ricordare i particolari, visto che v’aveva ricevuto ben due
serie ferite di freccia, che ben pochi dei suoi non ne erano rimasti morti o feriti, che le sue
galere ne erano uscite terribilmente malconce (“et quasi ayant perdu forme de galeres”) e
che infine un giorno a Genova lo stesso ormai vecchio Andrea d’Oria se n’era
complimentato con lui, presente il de Bourdeilles (Ib.).
Ma, al tempo del Pantera, s’era aggiunto nel ricordo qualche altro simile caso, come quello
della dama cipriota presa schiava dai turchi quando questi, negli anni 1570-1571, avevano
conquistato quell’isola; portata dunque prigioniera a bordo d’una galera nemica la
gentildonna con virile comportamento ne raggiunse le polveri e la fece saltare con tutto
l’equipaggio, preferendo la morte alla schiavitù in un harem ottomano; ed ecco ora un altro
esempio di tali estremi atti, precursori di quello di Pietro Micca:
L'atto dello scrivano ebbe il massimo effetto, perché in tal modo lo scrivano uccise sé
stesso, i suoi compagni superstiti, i turchi già entrati a bordo e quelli che si apprestavano a
entrarvi. Il Pantera riporta questo episodio stigmatizzandolo; egli infatti, come del resto gli
altri autori del tempo, non ammette questo tipo d'eroismo e soprattutto perché, sulla base
del pensiero di S. Agostino, lo vede chiaramente contrario alla religione cristiana, senza
contare che era contrario anche alla legge civile del suo tempo, la quale voleva che l'uomo
non fosse padrone del proprio corpo e quindi non ammetteva il suicidio, anche in caso
come quello descritto, nobilitato in effetti anche dall'intento d’evitare l'ignominia delle
catene della schiavitù:
1073
... e a i tempi nostri sono puniti nella fama quelli che lo fanno, essendo appesi al patibolo
della giustizia terrena come huomini degni dell'ultimo supplicio (cioè della pena di morte).
(Ib. P. 328.)
Bisognerebbe poi aggiungere che, facendo saltare una galera nemica, s’uccidevano
certamente anche chissà quanti poveri schiavi cristiani incatenati al remo! L'episodio
predetto comunque insegnava che, non appena ci si fosse impadroniti d’un vascello
nemico, bisognava immediatamente andare a mettere buona guardia alla sua polveriera,
specie se si fosse trattato di un vascello turco-barbaresco, perché da sempre i mussulmani
vinti usavano praticare correntemente questo ‘suicidio offensivo’ per cercare di fare un
ultimo grave danno al nemico vincitore; per questo motivo già nel Quattrocento i veneziani,
vinti in mare vascelli turco-barbareschi, preferivano affondarli a cannonate o incendiarli a
distanza piuttosto che abbordarli per farne bottino.
Prima dell'introduzione del moschetto portatile, cioè sino all'epoca di Lepanto, si era anche
molto usato d’armare d’uomini la coffa (in origine una semplice botte oppure un cestone di
vinchi, ossia vimini, per questo detto gabbia, ricordando infatti le gabbie per uccelli) che si
portava alla cima dell'albero di maestra dei vascelli tondi, munendola anche di tinozze ben
coperte di pelli ignifughe di montone in quanto tenute piene di materiali incendiari, esplosivi
e offensivi in genere da gettare sul vascello nemico abbordato, cioè palle armate e pignatte
esplosive, dardi di fuoco, sassi, barre di ferro e palle di piombo, triboli di ferro appuntiti
oppure ruote di legno chiodate con stoppa o simili materiali accesi e conficcati nei chiodi,
pentole piene fuochi artificiali incendiari, di cenere ardente o calce viva, di sapone molle per
rndere scivolosa la coperta del nemico, d’acqua, d’olio o catrame bollenti, di pece liquida
accesa, di piombo liquefatto, di molle sapone per renderne la coperta scivolosa, al limite
anche pignatte piene di serpenti o scorpioni velenosi, come facevano gli egiziani, ecc.,
insomma gli stessi spiacevoli materiali che si buttavano sulle basse galere nemiche dai
castelli e dalle coperte dei vascelli d'alto bordo e a terra dalle mura delle fortezze sugli
assalitori; ma, mentre in precedenza gli uomini delle gabbie dei vascelli quadri e dei gatti
delle galere – in questi ultimi ce ne potevano stare due - erano stati abbastanza difendibili
dalle frecce e dalle deboli palle d'archibugio col semplice circondarli di strapuntini, tende,
cappotti e schiavine da forzato (tessuti tutti comunque da mantenersi inzuppati d’acqua per
evitare che potessero prendere incidentalmente fuoco dal maneggio dei predetti fuochi
artificiali), adesso sarebbero invece stati troppo esposti ai proiettili del potente moschetto e
quindi un tal uso era diventato molto meno frequente. Se proprio si voleva comunque usare
tal espediente, bisognava dunque ora proteggervi gli uomini attaccando all'esterno delle
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gabbie vecchi e grossi canapi arrotolati e al loro interno dei materassi e questo era detto dai
marinai far stramazzo alla gabbia; era pure prudente coprire alla fine le gabbie di cuoi grezzi
ignifughi a evitare appunto che prendessero facilmente fuoco (pratica che nel Medioevo si
faceva in maniera molto più estesa a bordo, p.e. anche alle fiancate, e non limitatamente alle
gabbie) e allo stesso scopo approntarvi dentro, come del resto bisognava fare anche
generalmente in coperta, qualche mastello d’acqua e panni vecchi con i quali, inzuppatili in
detta acqua, soffocare il fuoco; in effetti le gabbie erano di solito coperte di pelli di montone
grezze (ol. mars-vellen, schaapen-vachten) anche quando non si andava in guerra, perché
queste servivano anche a evitare che si guastassero i cordami e le vele che vi dessero
contro. Con le gabbie non bisognava però esagerare e si ricordava infatti ancora quanto
successo alla nave ammiraglia d’Alfonso d’Aragona alla battaglia di Ponza del 1435,
battaglia in cui questo re era stato sconfitto e preso prigioniero dai genovesi unitamente a
tutti i suoi principali signori e capitani; la nave dunque, squilibrata da una seconda gabbia
di maestra sconsideratamente aggiunta a metà dell’albero, gabbia molto più grossa e carica
d’uomini di quella ordinaria che stava più in alto, a un certo punto della battaglia sbandò
molto e s’inclinò tanto da provocare lo spostamento della zavorra sul fianco, di
conseguenza non poté esser raddrizzata e si dette così immediato agio a una nave nemica
d’arrembarla e catturarla.
Uno degli ultimi episodi del Cinquecento in cui si armarono le gabbie fu la battaglia delle
isole Terzeire, che, come abbiamo già ricordato, si combatte nel 1582 tra le armate del
marchese di Santa Cruz e di don Antonio di Portogallo; il Santa Cruz fece armare le gabbie
dei suoi grandi vascelli, oltre che di materiali da getto, anche d’archibugieri e addirittura di
piccoli pezzi d'artiglieria, come usavano fare i portoghesi alle gabbie delle loro grandi
caracche, dopo averle anche fatto fortificare con trapunte e con canapi, e da quelle si
racconta che abbia fatto gran danno ai nemici portoghesi. Gli archibugi infatti, se erano
troppo deboli per sparare con successo in alto verso le gabbie, andavano invece bene per
l'uso inverso, cioè per sparare dalle gabbie all'ingiù, in ciò aiutati dunque dalla forza di
gravita; i moschetti, armi più lunghe, pesanti e dal maneggio più ingombrante non si
sarebbero potuti usare agevolmente nelle strette gabbie. Si era anche visto qualche volta in
alcune navi da battaglia lo schifo issato sino alla metà dell'albero di maestra e là, ben legato
e coperto, servire da gabbia per il lancio dei predetti materiali sul vascello nemico
abbordato, il quale espediente era per esempio stato usato dalla vittoriosa armata marittima
veneziana che nel 1081 era andata in soccorso dei bizantini di Durazzo assediati da
un’armata navale di Roberto il Guiscardo; i veneziani avevano prima rinforzato le alberature
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a mo’ di torri di legno e poi vi avevano innalzato sulla cima le scialuppe di bordo; gli uomini
che vi salirono furono forniti di pesanti ciocchi di legno ben armati, sporgendovi cioè
dappertutto lunghi e acuminati chiodi, da lanciare sulle affollate galere nemiche per ferirne
anche in questo modo gli occupanti (Anna Comnena, Alexiadis. L. IV, 2).
L'albero delle galere, più piccolo e leggero di quelli dei vascelli tondi armati, non portava
gabbie, ma una volta per esso si era usata, ma poi dismessa, la già ricordata mezza-gabbia
detta gatto nel Mediterraneo di ponente e alla quale abbiamo già accennato. In effetti anche
nel Seicento si armeranno talvolta le coffe in previsione d’abbordaggi, piazzandovi
dell’artiglieria minuta e delle tinozze piene di granate o d’acqua per spegnervi eventuali
incendi, e comunque sempre munendole di bastingaggi perché non si potesse prendervi gli
uomini di mira. Un vascello che si volesse difendere dall'esiziale lancio di materiali grevi,
quali barre di ferro, palle di piombo e pietre da lancio manuale, dalle coffe del nemico
bisognava che si presentasse alla battaglia con la coperta e i castelli coperti da grosse
corde tese da una banda all'altra sul capo dei combattenti, corde che avrebbero ostacolato
anche lo arrembaggio che fosse stato tentato dal nemico; a questo proposito è interessante
leggere come si avvicinavano alle difese costiere veneziane le galere genovesi durante la
guerra di Chioggia del 1379 nella descrizione fattane dal de Redusiis nel suo Chronicon
tarvisinum:
... Però (‘perciò’) si hanno a custodir bene gli schiavi e credere che non pensino mai ad altro
che a ricuperar la libertà; e non è buona opinione che non si abbiano ad apprezzare né che,
levandosi la vita ad uno o a doi di loro, gli altri si tengano a freno, come pensano gl'huomini
vani, perché se ne sono veduti esempij totalmente contrarij. (P. Pantera. Cit. )
La ciurma ottimale da portare in battaglia era dunque quella in cui, oltre agli schiavi, ci
fosse buon numero di sforzati e, meglio ancora, di buonevoglie, a evitare la probabilità
d'una sollevazione generale dei galeotti. Ecco comunque come Giovan Pietro Contarini
descrive l’imminenza della battaglia sulle galere cristiane a Lepanto:
…e allora i nostri cristiani, allegri, cominciarono a nettar le coverte, levar le sbarre, spazzar
le puppe, distendendo l’arme ‘sì da offesa come da difesa sopra le corsie e altri luoghi
bisognevoli e tutti con l’armi pertinenti a loro si armarono, chi con archibugi, alabarde,
mazze ferrate, picche, spade e spadoni compartiti tutti tra le sbarre, balestriere, puppa,
prova (‘prua’) e a meza galea con buonissima ordinanza, essendovi per ogni galea uomini
da spada duecento e nelle galee ‘Capitane’ e di fanò, secondo li gradi, dove trecento e dove
quattrocento; ebbero dipoi i bombardieri caricati tutti li pezzi di balle armate con catene,
quadrelli, scaglie e ballini di piombo, con l’apparecchio de’ fuochi arteficiati di pignatte,
trombe e altri simili strumenti, il tutto con mirabil ordine alli suoi luoghi e a carico di cui (‘di
chi’) se gli appartengono, posero gli archibugi da posta sopra le pavesade e canoladi
(‘smerigli? petriere?’) da puppa carichi, furono sferrati nelle galee li sciavi (‘schiavi’)
cristiani condannati al remo e messi in libertà perpetua, inanimati a combattere per Giesu
Cristo, il qual gli aveva donato tanta grazia di uscir di servitù, e quelli tutti armati di
corazzine, spade e targhe si come gli altri indifferentemente. Le galee fra questo si
ridussero alle loro schiere e luoghi suoi con mirabile ordine e silenzio, furono di poi
remurchiate le galeazze da cui (‘da chi’) ne havea il carico a luoghi suoi stabiliti. (G. Pietro
Contarini, Cit. Pp. 48-49.)
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Per quanto poi riguarda la preparazione di tutti gli uomini, la pancia piena era la prima cosa
da osservarsi:
... Facciasi mangiar la gente dell'armata prima che si venga alla battaglia, perché il cibo
augumenta le forze e fa - oltra lo stimolo dell'honore - gl'huomini arditi e pronti alla fatica, la
quale ne i conflitti dove si corre ad un quasi certissimo rischio di perdere la vita è
grandissima e massime che alcune volte si sta un giorno intiero con l'arme indosso, con
sudore, con sete e con affanno non meno dell'animo che del corpo, né si può l'huomo
ristorare con altro cibo né recrearsi pur con un sorso d'acqua. (P. Pantera. Cit. P. 379.)
Oltre al cibo si distribuiva anche del vino perché ovviamente esso migliorava l’umore degli
uomini e dava loro coraggio.
Nell'imminenza del combattimento il capitano generale scendeva in una fragata e
percorreva in essa tutto lo schieramento delle sue galere, facendosi di vascello in vascello
chiamare i capitani [“che si facino à vedere”], perché spesso non si mostravano neppure,
per poterli così esortare e animare al combattimento. Tornato a bordo della sua Reale o
Capitana il generale indossava le sue armi e montava sullo stentarolo con la spada nella
destra e la rotella al braccio sinistro, tenendo in mano sotto tale rotella un crocefisso,
mentre in ogni galera il capitano faceva la stessa cosa:
…e nel detto stendarolo s’ingenocchiarà, farrà orazione con raccomandarse al signor Jesu
Cristo e gloriosisima Vergine Madre e il simile facino tutti l’altri pregando quella benedetta
madre si degni intercedere con lo suo glorioso figlio, li vogli concedere vittoria in quella
battaglia per augumento della Santa Sede Apostolica. Havendo fatta simile orazione, (deve)
il capitano alzarse con impito e con furia allegra uscir di sotto la rotella il Santo Crocifisso
ed erborarlo con dimostrarlo a tutti di galera con voce altiera e superba: ‘questo è il nostro
Capitano, per questo hoggi si combatte, costui è il donatore delle vittorie e alla fine
promette e dà la Santa Gloria’, a questa maniera animando tutti i soldati e genti di galera il
capitano, ciascheduno risponderà non solamente una, ma mille vite sarranno pronti
perdere. (Ib.)
Dunque a loro volta i singoli capitani, gli altri ufficiali generali dell’armata e i cappellani di
bordo infiammavano all'impresa gli animi dei loro combattenti con orazioni e gli esortavano
a combattere per la fede cristiana e per l'onore di Dio prima che per il loro, come
debitamente fecero i capi della Lega cristiana a Lepanto:
... l'anno 1571 invitando, prima che combattessero, le lor genti a pregar Dio per la vittoria,
come fu fatto, havendo mostrato ogn’uno segni di penitenza e con parole di profonda
humiltà dimandato devotamente perdono a Dio de i suoi peccati inanzi allo stendardo della
Lega, nel quale era figurata l'imagine del santissimo Crocifisso, e pregatolo a voler aiutare i
suoi campioni (‘difensori’) nel prossimo conflitto, procurando intanto molti padri
cappuccini, giesuiti e altri religiosi con i crocifissi in mano di accendere gli animi dei
combattenti ad espor volentieri la vita per la fede, promettendo a quelli che fossero morti
nella battaglia eterna vita in cielo e a quelli che fossero restati vivi eterno merito in terra
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d'haver abbassato la superbia de gli empij inimici di Dio e liberati di servitù tanti cristiani
che erano nelle lor mani, offerendo, insieme con un amplissimo giubileo conceduto dalla
santità del Papa, la remissione di tutti i lor peccati. (Ib. Pp. 382-383.)
A bordo dunque, condotti dal cappellano o dal còmito, si recitava un’orazione comune (vn.
laudo) per chiedere a Dio di concedere ai cristiani la vittoria; nel 1495, come narra il Sanuto,
sulla galera Capitana della squadra veneziana che si preparava a investire dal mare (gr.
ἐπιπλεῖν, ἐπιπλείειν) le fortificazioni della ricca città di Monopoli, dichiaratasi di parte
angioina, si recitò il laudo nella seguente maniera:
… L’armiragio (vn. per ‘ammiraglio’) Antonio di Stefano fo quello el disse, stando in pie’
armato a cao (‘capo’, cioè prua), el zeneral (Antonio Grimani) armato a meza galia et Marco
Buza suo canzelier (‘patrone’) insieme. Et fece el capetanio far uno comandamento, sotto
pena di la forca niun non se partisse di le sue poste, et volse el capetanio esser el primo
che investisse con la sua galia con la prova in terra… (M. Sanuto. La spedizione di Carlo VIII
etc. Cit. P. 494.)
Premesso che l’armiragio era nella marineria da guerra veneziana il luogotenente del
capitano generale, i veneziani, accompagnandosi col loro grido di guerra Marco! Marco!, il
quale s’opponeva al Franza! Franza! degli assediati, presero d’assalto la città e se ne
impadronirono incrudelendo contro gli abitanti per la dura resistenza messa in atto, per cui
alla fine dappertutto apparivano i segni d’una carneficina:
… et in le case fo trovati assa’ morti et feriti, femene et puti. Uno di anni cinque fo ferito de
uno mandreto (‘mandritto’) in la fronte, un altro de anni sette era cazato (‘s’era cacciato’)
sotto alcune doge de boter (‘doghe da bottaro’) a la piaza et si teneva con una man stropati
(‘chiusi’) li ochi; et, andato ivi Francesco Brognolo cogitor (‘serragente’) dil capetanio,
vedendolo tutto sanguinoso, zercò si l’era morto et lui, sentendose tocar, disse: ah fratello,
non mi amazar, ma dame un poco de aqua; costui havia tutto el brazo sinistro mozo fin
quasi al cubito (‘gomito’)… (Ib. P. 495.)
La spietatezza dei lagunari era considerato un dato di fatto, come si evince dal
Commentarius di Pietro Curneo a proposito dell’assedio veneziano di Ficarolo del 1482,
dove i difensori si arresero a patti alquanto proditori, e quindi furono ben trattati, anzi
remunerati dai veneziani, in deroga al loro usuale crudele modo di fare (contra eorum
naturam. In L. A. Muratori, Rerum italicarum scriptores etc. C. 1.202, t. 21. Milano, 1732). Se
tanto freddamente spietati erano in guerra i civilissimi veneziani immaginiamo che cosa ci
si potesse allora aspettare dagli altri! Il suddetto stendardo della lega anti-turca che i
potentati cristiani strinsero il 25 maggio 1571 e la cui armata combatté poi a Lepanto è
descritto da più fonti contemporanee nella maniera seguente:
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Campo di seta damascata azzurra con ricami in oro e argento raffiguranti rami, fiori e nodi
e un crocefisso, ai cui piedi si vedeva al centro l’emblema dello Stato della Chiesa, a destra
quello di Spagna e a sinistra quello di Venezia, emblemi dai quali, a mezzo di catenelle,
pendeva infine lo stemma di Giovanni d’Austria.
Questo vessillo e il bastone di comando supremo furono consegnati il 14 agosto 1571 nella
basilica di S. Chiara di Napoli a Giovanni d’Austria dal viceré cardinale di Granvelle per
conto di Pio V. Il Sereno scriveva nei suoi Commentarij che miracolosamente esso, a
differenza di tutti gli altri vessilli ostentati dalle galere cristiane in quella battaglia, restò
perfettamente integro, non bucato né lacerato dalle pallottole e frecce turche e fu in seguito
conservato nella cattedrale di Toledo; descriveva poi anche lo stendardo concesso dal
Papa per l’occasione alla sua propria squadra di galere, descrizione ripresa più tardi anche
dal Catena:
Infine, lo stendardo turco, venuto direttamente dalla Mecca, sarebbe invece stato, sempre a
quanto letto dal Quarti, bianco e ornato su ambedue i lati con versetti del Corano in oro (G.
A. Quarti. Cit.)
Fatto quanto suddetto, il capitano di galera, sempre spada alla mano, ordinava che una
metà dei combattenti andassero a trattenersi nelle camere sottostanti, perché al momento
d’investire il nemico tanta gente in coperta avrebbe non solo creato intralcio e confusione,
ma sarebbe stato anche comodo e facile bersaglio per la sicura scarica d’artiglieria e
archibugeria nemica; comandava inoltre al còmito di far arrancare la ciurma e far prendere
alla sua galera il suo prefissato posto nello schieramento, mentre si raccomandava agli
uomini il silenzio, acciocché s’intendessero gli ordini, e spesso si obbligavano i remiganti a
ficcarsi in bocca i loro berrettini, per soffocare così in combattimento le loro grida di
spavento e i loro urli di dolore; poi, inalberata la bandiera di combattimento – generalmente
rossa (ol. bloed-vlag, roode-vlag, vegt-vaan), con un tiro d'artiglieria sparato dalla Reale si
dava il segnale della battaglia, al qual colpo i corni dell'armata, se ben ordinati a
combattere, dovevano rispondere ognuno con due tiri e a questo punto i vascelli dovevano
muoversi tutte insieme verso il nemico, mentre si suonavano le trombe (l. tubae), i claretti
(‘clarinetti’), i pifferi e i flauti (l. tibiae e fistolae), i corni (l. buccinae), le zampogne (l.
ceramellae o calamellae o calamelli), i tamburi, i timbri, le naccare o timpani, più tardi detti
‘timballi’, dallo sp. atabales, ossia tutti gli altri strumenti musicali che si usavano in guerra e
di cui si disponeva, e si gridava all’arme, all’arme! per infiammare gli animi alla battaglia:
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…e a strepito delli sudetti suoni e gridi (deve il capitano) ordinare alli suoi bombardieri e
soldati stiano pronti con loro archibusci, cannoni, sagri, mortarelli, smerigli, pignate e
trombe di fuoco, i marinari e compagni loro con loro balestrieri (‘balestre’) e li forzati con
loro arme in aste e picche, i turchi e cattivi (‘prigionieri maomettani’) che nella galera si
trovino con il remo nelle mani, vocando (‘vogando’) sempre inanti… (P. Pantera. Cit.)
Questo modo d’incitarsi al combattimento era antico e si legge infatti pure nel Chronicon di
Giorgio Franzes a proposito del tanto infausto assedio turco di Costantinopoli del 1453,
cioè laddove si narra del già ricordato scontro nautico tra alcune navi onerarie genovesi e
bizantine e galee ottomane, avanzando appunto le prime verso il nemico con strepito di
timpani e trombette cornee (μετὰ τυμπάνων ϰαὶ ϰερατίνων σαλπίγγων ϰροτοῦντες. Cit. L.
III, par. III). É interessante a questo proposito leggere l'art. 15 della già citata Ordinanza del
doge Tommaso Mocenigo come doveva avvenire l'inizio del combattimento tra galee
veneziane e fusti (‘fuste’) nemici all'inizio del Quattrocento:
... In quella fiada zascadun debia far armar tutta la soa zente fazando le soe pav(e)xade
(‘impavesate’) ordenade, chel se pos(s)a far l'honor de la nostra Signora (‘la Madonna’), 'sì
che a la prima trombeta (‘al primo squillo di tromba’) ognun sia armadi, alla segunda ognun
sia bene in ordene; a la terza trombeta de bataia, se queli fusti serà de inemixi, vada a ferir
de buon anemo arditamente. Ma ordena messer lo Capetanio che alcuna galia non pos(s)a
né presuma andar a investir (‘urtar il nemico’) sel non sarà sonada la terza trombeta, sotto
pena de perder la testa. (A. Jal. Cit.)
... comanda (il doge a) misier lo Capetanio che, sel fose descoverto più fusti e lui terminase
(‘determinasse’) andare a queli in quela fiada, el farà levar el so (‘suo’) stendardo d'oro cum
la so arma al fanò a pope [...] e faza dar arme in coverta ed ordene le sue pavexade a prova
(‘anti-proiettili’) segondo uxanzia e lo resto de pavixi (‘pavesi’) sia per imbrazar e andar per
coverta e per suso le pertegete (‘pertichette’) sia mes(s)o schiavine segondo l'usanxa
(‘usanza’) e a la prima trombeta zascadun se debia armar, a la segonda levar l'insegna di
San Marco e rinfrescarsi (‘rifocillarsi’) i corpi. A la terza, quando serà levado a meza galia el
standardo quadro con la insegna del nostro signor misier Jesu Christo, all'hora ognun vada
arditamente - e, com'è buon ordene, che una galia non impac(c)i l'altra - ad investir i dati
navilij over fuste e non se desparta dalla battaia (‘battaglia’) sine a l'ultima sconfit(t)a. (Ib.)
La suddetta ordinanza del doge Mocenigo è, a dire dello Jal che la riporta, del 1420, ma in
essa si nota come già allora le galee veneziane fossero armate, oltre che di balestrieri,
anche d’alcuni schioppettieri e di bombarde e spingarde a prua e alle bande, artiglierie che
erano per esempio utilizzate per difendere i vogatori che fossero stati mandati a terra in
territorio nemico a far l'acquata, ossia la provvista d'acqua; e a questo riguardo dovevano
essere recentemente avvenuti più tragici episodi, se la pena prevista dall'ordinanza per chi
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non avesse preso le necessarie precauzioni per assicurare una tale difesa era una violenta
morte, tipica della sanguinaria legislazione criminale veneziana:
... Comanda de fato (‘intorno al predetto’) comandamento per (‘a’) misier lo Capetanio e
l'Armeraio (‘il governatore dell’armi o capitano a guerra di bordo’) che quelli ch'el
desobedirà el debia sbudelar... (Ib.)
Ma l’incitare alla battaglia navale con gli strumenti musicale era prassi già nei secoli
precedenti, come e.g. vediamo fu nel 1283 nelle acque portuali di Malta, quando cioè le
galee catalane dell’ammiraglio Ruggero di Lauria sconfissero quelle provenzali del re di
Francia Filippo III detto l’Ardito:
… e date le armi alle ciurme delle galee, invocato il nome della gloriosa Vergine Maria delle
Scale, l’8 giugno – XI indizione – con il suono delle trombe e di altri istrumenti che fanno il
clangore di guerra, entrate nel porto investono vigorosamente i nemici. (Bartolomeo di
Neocastro, cit. Cap. LXXVI.)
a riscatto; pertanto ogni vascello cercava di venire all'abordo (‘abbordaggio’) d'un legno
nemico per rimetterlo, cioè per conquistarlo palmo a palmo, come allora si usava.
Ovviamente un vascello che andava ad abbordare non doveva prendere di mira un nemico
più gordo (‘grosso’) di lui e con equipaggio più numeroso del suo, perché in tal modo
avrebbe quasi sicuramente perso la partita; soprattutto una galera non doveva tentare di
prolungare (‘abbordare’) una nave o un galeone, perché non le sarebbe poi bastato riuscire,
dopo magari un pericoloso e sanguinoso contrasto, a mettervi piede a bordo, ma i suoi
uomini avrebbero poi dovuto anche scavalcare i suoi ripari e conquistare i due castelli di
poppa e di prua oltre alla coperta; inoltre due vascelli tra loro abbordati non potevano più
valersi d'altra artiglieria che dei cannoni petrieri dei pezzi piccoli che portavano nelle opere
morte, ossia in coperta e sui castelli, e, avendone chiaramente in maggior numero i vascelli
grossi, questi erano anche per questo molto avvantaggiati sui più piccoli; comunque, se
proprio una galera voleva abbordare un vascello tondo, perché magari questo era non tanto
grosso né pieno di gente, doveva per lo meno scegliere di farlo perché magari esso
presentava quella particolarità strutturale che i francesi chiamavano (em)belle e gli olandesi
Hals, cioè un tratto di coperta privo di pavesata laterale per comodità di carico e d’imbarco,
tratto dal quale era quindi più semplice salire a bordo (fr. aborder en belle ou de bout au
corps) e che si trovava suppergiù al primo terzo da prua del vascello; in procinto d’un
combattimento però di solito la belle si tappava con delle tavole di legno (fr. fargues, fardes)
o con natte o stuoie fatte di cordami intrecciati o anche di grossi cavi (fr. gardes-corps; ol.
servings, boevenet), spesse quindi almeno cinque o sei dita e sostenute da puntelli [fr.
(es)pontilles], coprendo poi il tutto con una bella pavesata di tessuto, generalmente rosso o
turchino, in quanto era normale che da quel luogo il nemico tentasse soprattutto di
penetrare; queste natte, poste in maniera da lasciare un sottile intervallo tra esse e la
coperta per permettere ad archibugieri e moschettieri di fare i loro tiri sdraiati sul ponte
medesimo, potevano comunque esser usate anche in altri luoghi sul normale bastingaggio
per accrescere così la copertura dei propri combattenti. Investendo, vale a dire urtando,
invece con la propria galera ordinaria una galera ordinaria nemica pressappoco della stessa
altezza di bordo, si poteva più facilmente arrembarla, ossia saltarle a bordo, e non si doveva
perder poi tempo e uomini a conquistare castelli, visto che nei vascelli sottili questi
mancavano, ma si maneggiavano dunque le armi in piano allo stesso livello del nemico. I
grappini a mano o d’abbordaggio che dir si volesse (ol. handt-dreggen, enter-dreggen), fatti
a quattro braccia, come le predette ancore di galera, si gettavano sul vascello nemico
dall’alto delle proprie manovre o del proprio bompresso e si agganciavano a qualche
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cordame o alla impavesata del nemico; gl’inglesi usavano cercare d’agganciare con essi
l’incastellatura posteriore o anteriore del nemico per subito saltarvi su ben armati di corte
sciabole, di corti moschetti e d’asce d’arme (ol. enter- bile), cioè asce a taglio da una parte e
a punta dall’altro.
Pendendo dunque generalmente negli arrembaggi la vittoria dalla parte del vascello che
aveva maggior numero d’uomini armati, i vascelli piccoli e leggeri dovevano limitarsi a
molestare quelli nemici più grandi con tiri d'artiglieria sparati a distanza; comunque nel
caso d’abbordaggio tra galere e grosse navi o galeoni tale regola poteva però talvolta
essere smentita a favore della galera, la quale disponeva di solito di numerosi soldati, tanti
da poter agevolmente opprimere anche i difensori d’un grande vascello quadro. Se c'era
vento, la nave era avvantaggiata sulla galera perché con la sua spinta poteva urtarla e
affondarla passandole addirittura sopra e immaginiamoci con quale strage dei poveri
remiganti incatenati ai loro banchi! Se invece il vento era nullo o insufficiente, allora la nave
doveva cercare di tener lontana la galera con incessanti colpi d'artiglieria, non solo perché
non venisse a remi all'abbordaggio, ma anche perché in bonaccia e a distanza ravvicinata
l'artiglieria della galera, tirando radente all'acqua, era molto più devastante di quella d'un
vascello d'alto bordo, la quale era costretta a tirare alle galere invece di ficco (fr. avec le
canon plongeant), cioè dall'alto in basso. Questi vantaggi offerti dalla galera in battaglia,
insieme agli altri logistici di cui abbiamo già detto, spiegano perché la navigazione a remi fu
tanto tarda a morire nella guerra nautica; essa coesistette infatti con quella velica - ormai
adulta - sino a tutto il Settecento, anche se con compiti sempre più limitati.
Ricapitolando una tartana armata non doveva sfidare all'abbordaggio un galeone, né la
stessa cosa conveniva a una galera; ma d'altra parte in mancanza di vento il galeone e la
nave grossa dovevano cercare di tener opportunamente lontana la galera, considerate le
micidiali capacità offensive della bassa artiglieria di prua di quest'ultima.
Il punto in cui conveniva investire un vascello nemico era certamente quello in cui più ne
potesse restare offeso e quindi il fianco o mezzania (fr. gros), poiché questa era infatti la
parte più bassa e spesso, nel caso dei vascelli tondi, presentava addirittura la predetta belle
dalla quale salirvi poi a bordo più facilmente; il vascello investito restava colà più esposto
alle artiglierie di prua e alle archibugiate e più facilmente si poteva quindi sconcertarne
l'equipaggio; nei vascelli da remo era preferibile investire nella parte della mezzania più
vicina alla poppa (fr. aborder de bout au corps), perché, una volta montativi su da quella
parte, si poteva conquistarne appunto la poppa e, caduta questa, luogo di comando, era
praticamente vicina la presa dell’intera galera nemica. Tutto ciò non avveniva se s’investiva
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il vascello nemico alla sua prora (fr. si aborder de franc-étable), cioè sperone contro
sperone, perché, essendo quello un punto alto, si sarebbe difeso molto meglio, né gli
assalitori potevano dalla loro prua scoprire, ossia vedere, tutto il vascello da loro abbordato
e valutare quindi in ogni momento le mosse dei suoi difensori; inoltre il nemico poteva a
prua fortificarsi, essendoci di solito le traverse di cui abbiamo già parlato e poco lontano
anche la piazza d'armi ai piedi dell'albero di maestra, dalla quale i difensori della prua
potevano ricevere soccorso; dunque, anche se si riusciva a montarvi su, la prua nemica
offriva certamente maggior resistenza e con maggior difficoltà si poteva guadagnare poi
tutto il vascello nemico partendo dal solo acquisto della prora, cioè dalla sua estremità,
dovendosi poi infatti combattere tutto il resto a palmo a palmo. Alla più volte ricordata
battaglia di Lepanto, scontro che certamente tanto contribuì a tener lontana dall'Europa
occidentale la minaccia asiatica, la galera Reale turca, abbordata alla prua da quella della
Lega, tre volte fu dai cristiani sanguinosamente guadagnata sino all'albero di maestra e tre
volte fu ricuperata dai turchi, sia perché essa aveva il doppio dei combattenti che aveva
quella cristiana sia per il soccorso che questi continuamente ebbero dalla loro poppa, dove
affluivano altri soldati ottomani provenienti da un’altra loro galera. Inoltre investire di prua
era pericoloso perché, a meno che non vigesse a bordo una rigorosa disciplina, tutti i
combattenti finivano per accorrere appunto a prua, dove cioè si doveva affrontare il nemico,
lasciando così tutto il resto della galera sguarnito e vulnerabilissimo da parte di un’altra
galera nemica che si accostasse per portare soccorso alla prima. C'è poi da aggiungere che
quando una galera ne investiva un’altra di fianco, non doveva temere la sua artiglieria,
perché, come sappiamo, quella più grossa era situata tutta a prua e da quella posizione non
poteva nuocere; per lo stesso motivo il vascello investitore poteva invece usare la sua con
il massimo vantaggio. Una galera investita di fianco era dunque costretta, se voleva ben
difendersi, a tentare di girarsi verso l'assalitrice e, ciò facendo, molto probabilmente a
disordinare lo schieramento del suo stuolo ossia squadra, il che poteva anche tradursi in
una sconfitta generale.
Alla già menzionata battaglia di Capo d'Orso (1528), come riprende da Paolo Giovio il de
Bourdeilles, Filippino d'Oria conduceva, oltre alla sua Capitana, altre sette galere che,
scriveva il de Bourdeilles, si chiamavano Pellegrina, Donzella, Sirena, Fortuna, Mora,
Signora e Nettuno (quest’ultima montata dal capitano di condotta Lomellino), e avevano
guarnizioni di fanti francesi concessi dal de Lautrec, il quale, com’è noto, si trovava allora
all’assedio di Napoli; il Moncada invece, oltre alla galera Capitana, ne aveva sei altre -
Gobba, Villamarina, Perpignana, Calabresa, Oria e Sicama - e inoltre disponeva di quattro
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stessa Capitana del Moncada e la Gobba. Quest’ultima galera si chiamava così per esser il
suo comandante un anziano genovese gobbo della famiglia Giustiniani; egli fu gravemente
ferito alla coscia, mentre a bordo del suo vascello, perirono pure Cesare Fieramosca,
preclaro ufficiale, il quale, colpito da una palla di smeriglio, precipitò in mare, e Baredo,
capitano spagnolo di fanteria ucciso da ben tre ferite mortali. Restarono ai franco-genovesi
molti prigionieri il più feriti, tra i quali i più nobili e quindi cospicui furono, oltre ai predetti
marchese del Vasto e Ascanio Colonna, Francesco Icardo, fratello di Ludovico, noto
castellano di Napoli, Filippo Cerveglione, Giovanni Gaetano, monsieur de Vaury, uno dei
borgognoni che avevano accompagnato in Italia Carlo V, Gogna, favorito del connestabile
di Borbone, Serone, cancelliere del consiglio senatorio di Napoli, Camillo Colonna e
Annibale di Gennaro, questi due ultimi molto amici del Moncada. Grandi erano stati gli
insuccessi marittimi di Hugo de Moncada e c’è infatti da ricordare, oltre a quello del 1518
contro Algeri che abbiamo già menzionato e questo di Capo d’Orso, in cui perse addirittura
la vita, anche quelli relativi al fallito assedio a cui Carlo V sottopose la città di Marsiglia nel
1524, guerra in cui il Moncada fu fatto prigioniero da Andrea d’Oria, allora al servizio di
Francia, e poi, dopo aver trascorso qualche tempo in cattività, per ordine di Francesco I fu
liberato.
Questa sanguinosissima e molto poco ricordata battaglia, iniziata alle due del pomeriggio,
era durata sino a un’ora dopo l’imbrunire e la vittoria sarebbe potuta esser per Filippino
anche maggiore e meno faticosa se le tre galere ritornanti avessero anche loro usato le
grosse artiglierie di prua, avendo ora infatti anche questo vantaggio sul nemico, invece
d'andare semplicemente a investire i vascelli avversari come fecero, in quanto, pur
urtandoli di prua, non poterono evitare d'intricarsi alquanto con quelli, cosa che avrebbero
potuto probabilmente evitare se gli avessero prima maltrattati con l'artiglieria. L’andamento
di questo combattimento dimostra quello che fu uno dei principi fondamentali della guerra
nautica velico-remiera, principio al quale abbiamo già accennato, e cioè che il capitano d’un
vascello doveva, prima d’iniziare il combattimento, guadagnare il vento e ciò sia per
l'impulso che nell’investire il nemico ne avrebbe ricevuto sia per evitare il fumo dei cannoni,
il quale sarebbe così andato a finire tutto sugli oppositori, sia infine perché in tal modo,
spirando vento di mare, facilmente i vascelli nemici sarebbero andati ad arenarsi o
incagliarsi (fr. investir) sugli scogli della costa; quest'ultimo pericolo era particolarmente
incombente soprattutto per le galee veneziane, le quali avevano, come sappiamo, ciurme
non incatenate:
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... percioché avviene il più delle volte, subbito che la zuffa è attaccata, che i galeotti lassano
e abbandonano i remi e si travagliano in altro e il governo delle vele in tal tempo è
parimente lasciato; onde infinite volte, non si avvedendo i combattenti, sono in breve
spazio i legni dal mare gettati a terra. (P. Pantera. Cit.)
D’uno stratagemma come il suddetto, ossia dell’improvviso attacco di vascelli che avevano
dapprima finto il disimpegno, si erano già serviti i genovesi anche nel 1435 per battere la
flotta di Alfonso d’Aragona; si raccontava poi nel Cinquecento che anche l'armata dei
crociati che nel lontano dodicesimo secolo aveva sconfitto quella di Saladino aveva
ottenuto tale vittoria per esser riuscita a investire il nemico nel fianco e pare infine che il
predetto espediente di fingere la fuga fu pure tentato a Lepanto da 15 galere del corno
sinistro dell'armata turca, galere che a un certo punto si diressero pertanto verso il largo,
ma uno dei capitani veneziani, il senatore Giacomo Soranzo, per prevenire tale
stratagemma, ordinò ai a piloti e proeri delle sue galere di sorvegliarle strettamente e ad
alcune delle migliori di tenere sempre la prua volta verso dette galere nemiche per esser
così pronte a disturbarle non appena quelle, invertita improvvisamente la rotta, si fossero
avvicinate all'armata cristiana; i turchi, vedendo queste misure, rinunziarono al loro intento
e tornarono al loro corno. In mancanza di vento bisognava cercare di guadagnare almeno il
vantaggio di sole, ossia porsi con il sole alle proprie spalle, in modo che sia l’astro stesso
sia i riflessi sulle proprie armature abbagliassero il nemico.
Abbiamo voluto, in deroga al nostro assunto, descrivere la battaglia di Capo d’Orso perché,
pur essendo oggi tanto poco nominata e conosciuta (come però del resto, se si eccettuano
quelle di Lepanto e d’Inghilterra, tutte quelle marittime del Cinquecento), fu invece
importantissima, tanto da determinare il futuro corso della storia europea. Infatti, il de
Lautrec chiese a Filippino d’Oria tutti i prigionieri da lui fatti in quell’occasione con la
motivazione che erano stati catturati dai fanti francesi che guarnivano le sue galere; ma il
d’Oria, indispettito da tale ingiusta richiesta, glieli negò tutti e preferì portarli a suo zio
Andrea a Genova. Qui, scriveva il de Bourdeilles, peccarono entrambi i capitani, il francese
di prepotenza [‘’Ainsi que Monsieur de Lautrec estoit trop haut à la main et qu’il vouloit
imperier trop’’ (cit.)] e il genovese evidentemente d’avarizia, perché, avendo fornito uno le
fanterie e l’altro le galere, avrebbero dovuto poi dividersi di buon accordo tutto il bottino,
prigionieri compresi. Qui cominciò il disgusto d’Andrea d’Oria per l’arroganza francese,
quel disgusto che presto lo porterà a cambiar fronte e a portare i suoi servigi a Carlo V,
decisione che darà alla Spagna il controllo del Mar Tirreno a discapito della Francia e che
purtroppo porterà anche la reazione di quell’innaturale alleanza tra Parigi e Costantinopoli
apportatrice di tanti lutti e rovine ai popoli rivieraschi dell’Europa cristiana. Il de
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Bourdeilles, il quale, come abbiamo visto, fu forse l’unico a giudicare di solito prudenti e
ragionevoli i tanto discussi comportamenti d’Andrea d’Oria, invece, da buon francese,
considera proditorio il suo passare al nemico, anche se in verità il genovese lo fece
correttamente solo alla formale scadenza del contratto di condotta stipulato con Francesco
I e non prima; così infatti scriveva a tal proposito il cortigiano francese:
… mais, ayant remarqué que la fortune, envieuse des prosperitez du Roy, se declaroit pour
l’Empereur Charles V, il embrassa son party et retint les galeres de France, ainsi devenu
perfide et manquant à sa foy, sous preteste de quelque mécontentement imaginaire… et
s’engagea tout-à-fait avec l’Empereur aux mêmes conditions et avantages qu’il recevoit de
la France… (Ib.)
L'uso dell'artiglieria in battaglia, come abbiamo già detto, non s’iniziava da lontano, perché
era estremamente difficile e fortunoso cogliere dei bersagli remoti e resi instabili dal più
piccolo moto ondoso; a distanza si sparava quindi solo per traccheggiare e molestare il
nemico, né conveniva farlo a media distanza, perché, avvicinandosi di prua, la galera
nemica continuava a offrire poco bersaglio e al massimo le si sarebbero potuti spezzare dei
remi, il che non le avrebbe impedito, data la breve distanza ancora da percorrere, di venire
lo stesso a investire, anche se con minor velocità, oppure le si sarebbe potuto far rovinare
albero e antenna provocandole qualche morto, ma anche ciò non l'avrebbe a quel punto
fermata ne disordinata. Inoltre, sprecato così questo primo colpo a media distanza, non ci
sarebbe poi stato il tempo di ricaricare a regola d'arte e riprendere la mira per tirarne un
secondo a brevissima distanza, cioè il colpo più dovuto ed efficace, essendosi nel
frattempo i vascelli avversari ormai praticamente raggiunti e investiti ed essendo ora i
bombardieri o impediti dal proprio arrembaggio o assaliti da quello nemico; inoltre bisogna
considerare che, che a breve distanza, mentre era teoricamente possibile ricaricare il
cannone di corsia perché questo rinculava fino all'albero di trinchetto, lo stesso non si
poteva fare con i sagri, i quali, non avendo spazio per arretrare, erano tenuti fermi e si
caricavano unicamente dalla palmetta, sulla quale però i bombardieri non avrebbero a quel
punto potuto più scendere perché, trovandosi colà allo scoperto, vi sarebbero subito stati
facile bersaglio del nemico.
Lo bordate d'artiglieria si scaricavano dunque solo da distanza molto ravvicinata, cioè
appena un istante prima dell'impatto col nemico, e questa norma era tanto più valida
dovendosi colpire le galere, i cui scafi erano molto bassi sull'acqua e i cui equipaggi,
stipatissimi di ciurma, soldati e marinai, ben si prestavano a essere colpiti da vicino con
mitraglia di scaglie di ferro, di pezzi di catene e di simili proiettili che vi avrebbero fatto
sicura e orrenda strage, anche perché in quel momento i nemici erano probabilmente tutti in
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piedi ai loro posti e quindi molto scoperti. Per tal motivo, correndosi a dar quel colpo
d'artiglieria subito prima d'investire il nemico, il capitano di galera doveva ordinare che tutti
gli scapoli e soldati non se ne stessero in piedi, bensì rannicchiati sulle balestriere o distesi
sulle reggiole (vn. bilancie), le quali, essendo quasi al livello del mare, facevano 'sì che gli
uomini colà distesi fossero quasi coperti dai flutti; in tal modo gli uomini non offrivano
bersaglio alla mitraglia e difficilmente ne potevano restare colpiti. Bisognava comunque
riuscire a sparare per primi perché tal colpo ravvicinato di prua, se preciso, risultava
rovinoso per la galera che lo riceveva, in quanto spesso anche succedeva che qualcuno dei
suoi pezzi, colpito magari a palla e non a mitraglia, ne restasse frantumato o spinto
violentemente all'indietro dal violento urto e indietro - intero o in pezzi - rovinasse,
scorrendo un lato della galera verso poppa, aumentando così la strage dei propri uomini,
spezzando le rembate e facendo cader le sbarre o traverse e altro ancora, il che inoltre
apriva un largo varco agli assalitori, i quali subito n’approfittavano per gettarsi tra i nemici. I
turchi preferivano invece correre il rischio di dover sopportare il primo colpo del nemico,
per poi poter così sparare il loro il più da vicino possibile:
... Usano lasciare che l'inimico spari prima l'artiglieria e loro stanno bassi, poi vicini tirano
la loro, indi gli scappoli e uomini da remo (volontari) con archibugi e freccie danno un
assalto terribile e, vicini, con la spada fanno il resto [...] Non sparano (quindi) se non
quando veramente è il bisogno. (E. Albéri. Cit. S. III, v. I, p. 294.)
D'accordo con i turchi, ossia sull'importanza di scaricare la propria artiglieria sul nemico
all'ultimo istante prima dell'impatto, senza perciò preoccuparsi di riuscire a farlo prima del
nemico, era il più volte nominato Garcia de Toledo; egli, rispondendo a un preciso parere
richiestogli in tal senso da Giovanni d'Austria con sua lettera del 31 agosto 1571, scritta
mentre questo allora, non ancora famoso, si trovava da capitano generale a Messina, dove
era giunto il 24 precedente, alla massa della grande armata che colà stava allora
raccogliendo e con la quale il 16 settembre sarebbe poi appunto partito per andare a
sconfiggere i turchi in quella tanto capitale battaglia che fu Lepanto, dava il seguente reciso
responso riportato dal de la Gravière:
... Non si può sparare due volte prima che le galere si abbordino; bisogna dunque fare - a
mio giudizio - ciò che raccomandano gli armaruoli, tirare il proprio archibugio così vicino al
nemico che il suo sangue vi salti al viso. Io ho sempre inteso dire - e da capitani che
sapevano ciò che dicevano - che il rumore degli speroni che si spezzano si deve
confondere con quello dell'artigliaria che si scarrica e non produrre - in certo modo - che un
solo suono. Quando ci si propone di tirare prima del nemico, ci sono cento pronti a
scommettere che si tirerà da troppo lontano. Tal'è il mio parere. (J. De la Gravière. Cit.)
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Nello stesso momento dunque che s’investiva il vascello nemico si scaricavano contro di
esso, oltre all'artiglierie di prua, caricate non a palla, bensì a catene e scaglie, anche tutte le
armi da fuoco e da tratto (gr. ἂτραϰτος, ‘freccia’) portatili, quali - a seconda dell’epoche -
archi, balestre, schioppetti, archibugi, archibugetti, pistoni, pistole, cherubini (ossia, come
già detto, i moschettoni a ruota, nome presto corrotto in carabini e infine in 'carabine’),
moschetti, moschettoni, fuochi artificiati, pali di ferro e pietre, delle quali ultime bisognava
approntare una sporta in ogni balestriera. Aggiungeva poi il da Canal:
... vorrei anco che nell'istesso tempo egli (il capitano di galera) gridar facesse a' suoi
'Vittoria!'; che, 'sì come le più volte l'opinione di haver perduto è cagione che perdino, così
il creder d'haver vinto causa spesso la vittoria; o vero vorrei che si gridasse il nome del
gonfalone e insieme accompagnar col grido il suono delle trombette e piffari e così il
battere de' tamburri... (C. da Canal.Cit. P. 248.)
Subito dopo l’investimento si continuava a far vogare con forza i remieri, perché la galera
che avrebbe vogato più forte avrebbe spinto la prua dell’altra di lato, sottraendosi così alla
minaccia delle bocche da fuoco nemiche e tenendo invece il fianco dell’oppositrice sotto
tiro della propria artiglieria; ma, a prescindere dalla possibilità che ancora si avesse di
scaricare i propri pezzi, questa posizione era anche vantaggiosa perché, come abbiamo già
detto, permetteva d’incominciare a saltare dall’alto della propria prua sul più basso fianco
della nemica e, come abbiamo appena visto, fu questo un vantaggio fondamentale per la
vittoria di Filippino d’Oria a Capo d’Orso; poi, per poter combattere e invadere meglio il
vascello nemico, s’iniziava a prolungare (ol. zy aan zy leggen, breedt leggen) il proprio
vascello, cioè si cercava d'accostarlo per la lunghezza del fianco al fianco dell’altro, mentre
immediatamente si provvedeva ad agganciare bordo con bordo la galera nemica (fr.
aramber) con forti uncini di ferro detti arpagoni (poi arpioni) o ganzi o rampini [l.
rampi(n)cones, rampiones unci, harpagones; sp. garfios, garabatos; gr. ἀγϰῠλίδες], in
modo che i due vascelli non potessero involontariamente separarsi durante l'arrembaggio,
e nel frattempo si potevano usare, oltre che le armi da sparo e le balestre, anche le trombe
di fuoco e le palle armate o granate a mano, armi queste ovviamente in grado di far gran
danno al nemico, ma che, come abbiamo già detto, era essenziale che fossero affidate a
persone molto pratiche e scrupolose e che il vento fosse a favore, perché altrimenti il vento
contrario avrebbe spinto il getto di fuoco e di fumo delle trombe indietro contro i propri
commilitoni; anche per questa ragione, oltre che per dare un colpo più violento al nemico e
per poter governare meglio di lui, conveniva dunque cercare sempre d'abbordare
sopravvento. Per quanto riguarda il predetto agganciamento, come leggiamo nel de
Capmany, nel Medioevo, cioè prima che si diffondesse l’uso delle artiglierie nautiche, i
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catalani usarono – sembra però senza particolare successo - anche dei vascelli detti
rampíns, perché muniti a prua di un ponte terminante in un grosso rampino da abbattere sul
legno nemico appunto per mantenerlo agganciato.
S’usava premiare l'uomo che avesse dato inizio a un arrembaggio saltando per primo sul
vascello avversario; nelle marinerie di ponente il premio s’aggirava attorno a un valore di 30
scudi, il secondo l’avrebbe avuto di 20 e il terzo di 10 e ciò per consuetudine. Conquistato il
legno nemico, nessuno doveva scendervi sotto coperta; inoltre, chiunque avesse trovato a
bordo di tal legno gioie, danaro o altro di gran valore doveva - pena grave punizione -
denunziarlo al suo generale e da questi avrebbe ricevuto un corrispettivo di un decimo del
valore complessivo di quanto trovato a titolo di quota competente; nessuno poteva in ogni
caso ardire d'aprire casse, bauli e forzieri o di slegare balle e fagotti o altro bagaglio che si
fosse rinvenuto a bordo del vascello nemico, sopra o sotto coperta che fosse.
Non doveva comunque il capitano farsi tentare di consumare inutilmente i suoi uomini
mandando squadre su squadre al pericoloso arrembaggio, ma doveva tenerli tutti il più a
lungo possibile ai loro posti, intenti solo a sparare, e ciò perché, combattendosi
augurabilmente contro galere ottomane, bisognava essere consapevoli che i cristiani erano
in tale azione molto avvantaggiati; i turchi infatti, oltre a non usare come i cristiani né armi
difensive né rembate e contra-rembate, nemmeno, come abbiamo già detto, adoperavano le
pavesate in quanto, essendo la loro principale arma da tratto ancora l’arco, tali parapetti ne
avrebbero ostacolato l’uso, e dunque erano pressoché indifesi contro i proiettili e contro i
getti di fuoco e la piccola mitraglia che scaturivano dalle trombe, picche e pignatte
artificiate e dalle predette palle armate. Comunque, strettamente affiancate e uncinate che
fossero ormai le due galere, sponda contro sponda, non era più possibile continuare a
usare le predette armi da sparo e da fuoco, sia perché non c'era più tempo di ricaricarle sia
perché, formatosi un affollamento dei combattenti in luogo ristretto, si rischiava d'offendere
con esse nemici e amici insieme; anche per un altro motivo non si dovevano ora più usare
assolutamente né le trombe di galera né le altre armi di fuoco artificiato e cioè perché il
fuoco appiccato al vascello nemico si sarebbe facilmente propagato a quello proprio. I
soldati montavano ora dunque sulla galera nemica armati di spade, rotelle, pugnali e, se lo
spazio lo permetteva e l'occasione lo richiedeva, anche d’armi inastate, per lo più solo
mezze picche, perché queste colpivano solo di punta, mentre già dalla metà del
Cinquecento si erano sostanzialmente dimesse quelle da taglio quali ronconi, partigianoni,
alabarde e simili, in quanto, anche se molto utili a tagliare le manovre del nemico, nelle
mischie il loro maneggio era anch'esso pericoloso per i propri commilitoni che
1092
combattevano dintorno; per lo stesso motivo si era anche dimesso l'uso degli spadoni a
due mani, molto apprezzati prima di Lepanto perché utilissimi se ben usati, ma a maggior
ragione pericolosi per i commilitoni quando ci si ritrovava in luoghi ristretti; era insomma il
medesimo motivo per cui tali armi erano ormai ricusate anche dalle fanterie di terra.
Durante l’arrembaggio i difensori cercavano di respingere gli assalitori con le loro armi
inastate e poi, una volta che questi erano riusciti a entrare sul loro vascello, mettevano
anche loro mano a spade e rotelle, mentre i soldati tenuti giù nelle camere erano fatti salire
su in corsia per soppiantare man mano quelli che, a seconda dei casi, stavano andando
all’arrembaggio o a questo resistevano; fatto questo, le camere sottostanti subito erano
serrate, a impedire che i propri combattenti andassero a nascondervisi per sottrarsi al
combattimento, eccezion fatta per il gavone di prua, perché lì dentro si ricoveravano i feriti,
e la camera di mezzo, cioè il locale dove si poneva lo scrivano, il quale durante la battaglia
restava, come abbiamo già detto, giù per distribuire le polveri ai combattenti.
Per non aver osservato le predette precauzioni relative ai fuochi artificiati nel 1555 era
avvenuto un grave incidente all'armata francese che combatteva contro quella fiamminga al
largo di Dover nella Manica; i francesi avevano uncinato 15 vascelli nemici, ma,
difendendosi accanitamente e valorosamente i fiamminghi, stanchi e già sconquassati dalle
loro artiglierie, i transalpini tentarono di liberarsi dagli agganci (fr. deborder) e così
disimpegnarsi e, poiché il nemico non glielo permetteva, diversi equipaggi francesi
appiccarono il fuoco ai vascelli olandesi, perché questi, presi dalla preoccupazione delle
fiamme, li lasciassero sottrarsi alla battaglia; giunse però a questo punto un forte vento
contrario che, non avendo ancora avuto tutti i vascelli francesi il tempo di sganciarsi,
spinse il fuoco anche su di loro e vi restarono alla fine bruciati sei vascelli francesi e
altrettanti olandesi. Come narra il Giovio, l'imprudenza predetta era stata già commessa
anche dai veneziani nei pressi di Modone l'anno 1499; due vascelli veneziani n’attaccarono
dunque colà uno turco che trasportava mille soldati; perché non fuggisse, il legno nemico
fu uncinato dai due veneziani e, mentre così si combatteva, fu gettato fuoco sul vascello
turco e questo s’incendiò a poppa; il fuoco avanzò rapidamente e si attaccò anche ai due
vascelli cristiani, i quali, non potendosi rapidamente staccare da quello ottomano,
bruciarono con esso miseramente. Fu questo uno dei peggiori episodi d'incapacità e
d'indisciplina tra i tanti che caratterizzarono l'infelice guerra nautica che l'armata veneziana
sostenne quell'anno contro i turchi soprattutto sotto Navarino e che il 10 agosto dell’anno
seguente portò alla perdita di Modone. Bisognava quindi sempre conservarsi una
possibilità di dar le poppe, ossia di ritirarsi o addirittura fuggire, soluzione questa a volte
1093
necessaria e che il capitano prudente doveva saper adottare senza vergogna, e così
saggiamente fece Uluch-Alì alla battaglia di Lepanto:
... E Uluzzalì, fuggendo con quaranta galee (30, secondo il più attendibile Sereno) e con
molte galeotte, consolò molto Sultan Selim, grandemente afflitto per la rotta notabile della
sua armata e sollevò quei popoli, i quali, disperati e pieni di spavento, aspettavano l'ultimo
esterminio da i vincitori cristiani e fu causa ancora che si apparecchiassero nuove forze per
l'anno seguente, con le quali il medesimo Uluzzalì - e con l'ingegno più che con l'arme -
sostentò la riputazione della casa otomana facendo molte volte larga mostra della sua
armata e quasi provocando i cristiani a nuova battaglia, ancorché havesse altra intenzione;
onde nacque ch'egli tornò in un certo modo vittorioso a Costantinopoli senza haver sentito
alcun notabile danno. (P. Pantera. Cit. P. 395.)
A una galea che volesse sottrarsi a preponderanti forze nemiche, essendo un vascello
remiero di basso bordo, conveniva non dirigersi verso l’alto mare, ma ritirarsi verso la
costa, sulla quale andare, se possibile, a occultarsi, muovendosi a remi con l’albero
abbattuto, cosa possibile in una galea, mentre in una nave si potevano solo abbassare le
vele:
Nel caso di una costa aperta e arenosa, conveniva addossarsi con un fianco alla spiaggia e
abbattersi lateralmente su di essa, mostrando così al nemico sopraggiungente il solo fondo
di carena e sperando di esser così creduta un relitto abbandonato; meglio ancora,
ricoprendola di frasche se la costa, più che sabbiosa, fosse stata ricca di vegetazione:
Secondo l’anonimo autore del manoscritto della Bibl. Marciana da noi già più volte citato,
personaggio che, a suo dire, avrebbe partecipato alla battaglia e infatti ne riporta particolari
1094
da nessun altro ricordati, come per esempio la morte per suicidio d’ Müezzin-zâde Alì
Pasha, Uluch-Alì fuggi con sole 25 galere e non con 40 (Tutte le vittoriose imprese delle
galere del Serenissimo Granduca di Toscana etc. Cit.).
Ma, per tornare alla difficoltà di maneggio dei fuochi artificiati da guerra nei combattimenti
nautici e la loro pericolosità per chi li usava fece sì, come abbiamo già avuto occasione di
dire, che questo tipo d'armi cadesse quasi del tutto in disuso nella seconda metà del
Cinquecento, ossia in correlazione con il grande potenziamento delle armi da fuoco, il quale
li rese quindi pressoché inutili.
Un altro pericolo connesso all’andare all’arrembaggio era che, a causa d’improvvisi colpi di
vento, i vascelli assalenti si potevano trovare distaccati da quello assalito, lasciando quindi
isolati e indifesi quei loro uomini che vi fossero già saltati e facendo rischiare a quelli che vi
stessero allora saltando di cadere in mare e magari affogare; così avvenne per esempio nel
1255 davanti a Barletta tra una nave filo-angioina e 4 galee di parte aragonese,come si
racconta ne I diurnali (1247-1268):di Matteo Spinelli:
In caso si ritrovasse scarsità di combattenti - cosa non insolita, come sappiamo, a bordo
delle galere degli avari genovesi - il capitano generale poteva ordinare d'armare d’armi in
asta una delle tre categorie di vogatori e cioè i forzati, promettendo loro la libertà se
avessero combattuto valorosamente; una tale proposta era in genere accettata dai
condannati come una gran fortuna, sia perché, restandosene invece incatenati ai loro posti
anche durante l'abbordaggio, sarebbero morti in gran numero senza potersi né difendere né
sottrarre ai colpi e al fuoco del nemico sia anche perché, contribuendo anche loro al
raggiungimento della vittoria, avrebbero così scansato il pericolo di veder perpetuarsi a vita
la loro condanna al remo a bordo di galere del nemico, se questo avesse prevalso. La
decisione di far intervenire i forzati poteva anch’esser presa dal capitano della galera
durante il combattimento; lo scontro tra due vascelli da guerra abbordati, specie se grossi,
non era infatti cosa che dovesse durar poco ed era capitato a volte che un combattimento
1095
del genere avvenuto tra due grosse navi o galeoni fosse durato sino a due giorni e due
notti, prima che si risolvesse a favore dell'uno o dell'altro dei contendenti; era necessario
pertanto affrontare la battaglia sempre con gente, oltre che sazia, anche ben riposata.
Uno dei più felici esempi d'utilizzo dei forzati come combattenti fu quello fatto nel 1568 in
cinque galere della signoria di Toscana che erano state attaccate e abbordate da sette tra
galere e galeotte turco-barbaresche; il signore di Piombino che le comandava si rese conto
che i suoi, nonostante si difendessero più che bene, non sarebbero riusciti a resistere per
molto e pertanto, con il parere favorevole di molti valorosi cavalieri che erano con lui, sferrò
e armò i suoi forzati promettendo loro la libertà; quei galeotti combatterono così
valorosamente che non solo salvarono le galere toscane, ormai quasi perdute, ma furono
causa che si scompigliassero i vascelli barbareschi e i cristiani addirittura facessero preda
d'uno di loro. Alla stessa risoluzione si pervenne anche nella giornata delle Gerbe, come
implicitamente si dice nel Governo di galere, e in quella di Lepanto, facendovi Giovanni
d'Austria promessa di libertà a tutti i forzati delle galere della Lega che avessero voluto
combattere al fianco di soldati e marinai, e si disse che la cosa fosse risultata di gran
giovamento all’armata cristiana; dopo la grande battaglia molti forzati, non fidandosi però
completamente di tale promessa, non tornarono sulla loro galera, ma ripararono su altre
dove non erano conosciuti (Discorso circa il modo et maniera ha da tenere un Capitano etc.
Cit.).
Bisogna infine considerare che comunque già dall'inizio del Seicento, con il sostanziale
potenziamento delle bocche da fuoco da poco ottenutosi, all'arrembaggio si doveva arrivare
sempre più raramente, perché un vascello che fosse irrimediabilmente danneggiato dalla
batteria dell’artiglieria nemica, magari anche in procinto d'affondare, in genere si arrendeva
prima; per tal motivo un capitano prudente durante il combattimento teneva lo schifo in
mare per poter così, oltre che raccogliere qualche ferito che cadesse in acqua, anche e
soprattutto accorrere con quello laddove ci fosse immediato bisogno di turare
provvisoriamente una falla appena aperta nel vivo dall'artiglieria nemica, in attesa di poterla
poi rombare, ossia riturare in maniera più ortodossa in un cantiere, cambiando per intero la
tavola danneggiata; ma si trattava di precauzione, come si può ben immaginare, non
sempre adattabile all’andamento e al fervore d'una battaglia.
Parleremo adesso d’un altro tipo di combattimento e cioè degli assedi marittimi, un
esempio dei quali si ebbe in occasione della più volte da noi nominata battaglia delle Gerbe,
avvenuta nell’estate del 1560, e quindi ne racconteremo per sommi capi qualcosa anche se,
come abbiamo già detto, non è nostro intento appesantire inutilmente questo nostro lavoro
1096
raccontando quegli eventi della storia tanto importanti quanto però effimeri che sono le
singole battaglie; cronache dei fatti d’arme più rilevanti, coeve o poco posteriori, si
possono oltre tutto reperire, come tutti sanno, senza troppe ricerche. Aveva Filippo II re di
Spagna nell’agosto del 1559 iniziato a raccogliere un’armata nel porto di Messina, il quale a
ciò sempre ben si prestava perché capace di dar asilo a qualsiasi armata navale per
numerosa che fosse, per tentare così l'impresa d'Africa, ossia di Tripoli, per contrastare i
gravi danni che Torgud, da quando aveva tolto tale città ai cavalieri di Malta, cioè dal 15
agosto del 1551, e occupato anche l’isola delle Gerbe, arrecava da quei luoghi navigazione
e alle riviere cristiane; quest’armata, tra vascelli spagnoli, siciliani, napoletani, maltesi,
toscani, papalini, monegaschi e genovesi e secondo le poco precise relazioni del tempo,
contava 53 galere, 11 galeotte, sette bergantini, 16 fuste, 12 grippi, 2 galeoni e 28 navi sotto
il generalato di Juan de la Cerda duca di Medina Coeli, allora vicerè di Sicilia, il quale aveva
sostituito Juan de Vega ed era coadiuvato da Alvaro de Sande, mastro di campo generale,
Bernardo Aldana, generale dell’artiglieria, Andrea d’Oria, generale delle galere del re,
Flaminio dell’Anguillara di quelle della Chiesa, Bernardino de Mendoza di quelle di Spagna,
Sancho de Leyva di quelle di Napoli, Berlinghiero Requesens di quelle di Sicilia, Nicolò
Gentile delle toscane, il provenzale gran commendator de Tejeira delle maltesi, Andrea
Gonzaga, generale degli italiani e dei vascelli tondi; gli uomini armati erano quasi 15mila tra
spagnoli, italiani e alemanni. Questa massa, iniziata già tardi, fu inoltre completata con
molta lentezza e pronta solo nell’ottobre; cinque tentativi di partenza furono impediti dai
venti autunnali contrari ormai intervenuti e solo all’ultimo d’ottobre l’armata si poté
spostare a Siracusa; qui giunta fu di nuovo fermata dal maltempo ed molti soldati italiani
imbarcati s’ammalarono, dovendosi quindi ancora ritardare la definitiva partenza fino al
primo dicembre; però ancora i venti sfavorevoli costrinsero le navi, le quali non riuscivano
a passare il Capo Passaro, detto dagli antichi Capo Polidoro, a tornarsene a Siracusa e le
galere invece a sostare lungamente a Malta, dove il Medina Coeli ricevette in dono dal Gran
Maestro lo stocco che era stato di San Luigi e che colà si conservava, reliquia che, come
vedremo, sarà però tutt’altro che protettrice dell’impresa. Si consumava il tempo in Malta in
attesa delle navi da Siracusa e, quando queste arrivarono, aumentate d’altre tre mandate dal
vicerè di Napoli Parafan de Rivera duca d’Alcalà, dai due ai tremila soldati erano ormai morti
a bordo per le febbri contagiose e la violenta dissenteria intervenute nel frattempo e a
queste morti s’aggiungevano le numerose e inevitabili diserzioni dovute a una così lunga e
inerte sosta; si dovette pertanto mandare ad assoldare nuove fanterie in Sicilia e nel regno
di Napoli, ma comunque non le si attese e il 10 febbraio, migliorato il tempo, si partì per la
1097
Barbaria con non più della metà dei soldati che si erano avuti all’inizio l’anno precedente e,
dopo aver toccato le isole di Lampedusa e Cherchen, cinque giorni dopo si sbarcò all’isola
delle Gerbe per far provvista d’acqua in un luogo a ciò consueto; qui i tremila fanti sbarcati,
mal utilizzati dal poco esperto e attento Medina Coeli, furono affrontati e rotti con molti
morti e feriti, anche di conto, da un numero quasi doppio di mori armati di lunghi archibugi
e di turchi a cavallo guidati da Torgud, il quale voleva loro impedire l‘acquata’, e lo stesso
Alvaro de Sande rimase gravemente ferito da un’archibugiata. Rimbarcatisi i cristiani,
l’armata se n’andò verso est e si trasferì in un inospitale paraggio di ’acque morte’, ossia di
luogo di marea particolarmente bassa, della Sirte Minore detto le Secche di Palo
(chiamandosi infatti ancora sirti in quei secoli le pericolose secche formate da sabbie in
movimento sul fondo marino), dove un altro virulento contagio febbrile ne uccise gli uomini
a centinaia; lo stesso Gioan Andrea d’Oria s’ammalò e dovette passare il comando delle
galere genovesi al colonnello Quirico Spinola, il quale però dopo solo qualche giorno era
ucciso dall’epidemia; si decise pertanto infine il Medina Coeli a tentare Tripoli senza
aspettare le fanterie di rinforzo che attendeva da Malta, ma venti contrari risospinsero
l’armata all’isola delle Gerbe, e allora egli, essendo stata abbandonata l’isola da Torgud, il
quale s’era spostato a Tripoli, e non avendo ormai più forze sufficienti ad attaccare quella
città, la quale d’altra parte Torgud manteneva ben difesa di fortificazioni e presidio, pensò
d’occupare perlomeno quell’isola, dove poi mettersi ad attendere i rinforzi dalla Sicilia;
infatti il 13 marzo la bandiera cristiana sventolava sull’isola e il Medina Coeli si mise a
fortificarla, facendo costruire all’ingegnere militare Antonio Conti una regolare fortezza in
meno di due mesi, ricevendo poi il giuramento al re Filippo dai mori che l’abitavano,
impressionati da quelle opere; ma in seguito, pur essendo stato da tempo avvisato che
l’armata turca, alla sua molto superiore, si stava avvicinando, si fece sorprendere da quella,
la quale, sfortunatamente per i cristiani, non aveva avuto la cattiva sorte di perdersi tutta in
una tempesta di mare come era successo esattamente cinquant’anni prima a quella che era
allora uscita in mare sotto il comando del generale Jamal-Alì per soccorrere Tripoli
attaccata dagli spagnoli di Pedro Navarro. Quando l’armata ottomana, capitanata da Pialì
Pasha, da Mustafa, governatore di Metelino, da Torgud e da Uluch-Alì, arrivò nelle acque
dell’isola - era l’11 maggio - trovò dunque quella cristiana disorganizzata e divisa, parte in
fuga verso la Sicilia e parte in secco abbandonata dagli equipaggi e dalle guarnigioni, le
quali pensavano di difendersi nel forte dell’isola appena trasformato in fortezza, e così, oltre
a 27 navi da trasporto e a una galeotta, furono prese ben 28 delle galere in fuga, tra cui due
toscane e quelle di Pio IV, la cui Capitana pare che fu raggiunta perché le si era rotta
1098
l’antenna di maestra, ma questo legno del Papa Pio IV, racconta il de la Gravière, sarà
riconquistato dai cristiani a Lepanto e portato trionfalmente a Pio V. Furono così passati a
fil di spada migliaia di cristiani, specie gli spagnoli e gli alemanni, genti per le quali era più
difficile ottenere un riscatto di quanto fosse per gli italiani, i primi per quell’ostinato,
naturale orgoglio che spesso impediva loro di chiedere danaro ai loro parenti, specie se
indigenti, e i secondi per la lontananza e la tradizionale avarizia delle loro famiglie; a
Flaminio Orsini, generale delle galere pontificie, fu tagliata la testa; molti altri vascelli però
riuscirono a fuggire e si sottrassero così alla cattura o alla morte, tra gli altri, Gioan Andrea
d’Oria, Gil de Andrada e il duca di Medina Coeli, mentre il figlio di questi fu fatto prigioniero.
Sette galere spagnole si rifiutarono di darsi a vergognosa fuga e si andarono a rifugiare
sotto il predetto forte, nel quale s’era rinchiuso Alvaro de Sande con 2.200 uomini tra
spagnoli, tedeschi e italiani; il generale spagnolo le fece ritirare in un luogo del porto più
protetto dalle artiglierie terrestri, le fece restringere insieme in modo che potessero
difendersi a vicenda, le trincerò tutt'intorno con bastionamenti di sarte tese e, perché non
potessero esser colte di mira, fece distendere grandi vele tra esse e il nemico; fece infine
costruire in mare una travata d'alberi e antenne di galera, legata e fortificata con catene, che
usò come antemurale posto davanti ai suoi vascelli, e infatti poi due assalti che i turchi
condussero alle galere cristiane con piccoli brulotti per attaccarvi il fuoco furono respinti
proprio dalle scariche d'archibugieri e moschettieri che guarnivano tale travata. I turchi alla
fine di maggio iniziarono un ortodosso assedio con regolare batteria, con lo scavare trincee
e l‘elevare cavalieri, con l’impedire agli assediati l’accesso ai pozzi d’acqua, tranne a uno. I
cristiani, nonostante le coraggiose sortite contro ben 14mila turco-barbareschi, sortite in
cui facevano certi danni al nemico, tanto è vero che in una di quelle lo stesso Torgud restò
ferito a una coscia, pativano molto la sete, anche perché, pur trovandosi nel pieno d’una
caldissima estate, avevano a disposizione solo cibi salati e cioè principalmente cacio, carne
salata e tonnina; si racconta che tra i difensori c’era un certo siciliano di nome Sebastiano
che lambiccava l’acqua salata, riuscendo a produrne così 20 barili al giorno, comunque del
tutto insufficienti per tanti uomini, e poi, venuta a mancare la legna per questo lavoro,
dovette smettere. Tormentati dalla sete, molti d’ogni nazionalità cominciarono a fuggire nel
campo nemico, chi offerendosi a servitù volontaria e chi a ri(n)negare la fede di Christo, e in
questa maniera il de Sande perse più di 1.200 uomini; poi, dopo alterne vicende, i cristiani,
persa anche una grotta marina dalla quale traevano un’acqua poco salsa, quindi più facile
da lambiccare, privi di legna per quest’operazione, con i viveri alla fine, le difese del forte
spianate e l’artiglieria in buona parte crepata, imboccata o scavalcata, dopo 80 giorni
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d’assedio furono costretti alla dedizione. Il de Sande s’era già arreso il 31 luglio mentre,
vedendo tanti dei suoi disertare nel campo nemico, tentava di fuggire in una barca; s’arrese
a un rinnegato genovese, certo Conforti di Promusso, e fu portato nella galera Reale turca,
dove trovò già prigioni il de Leyva, il Requesens, Juan Francisco de Cardona, futuro
capitano generale delle galere di Sicilia e in seguito, cioè dal 1578, di quelle di Napoli, e
Gastón de la Cerda, figlio del Medina Coeli; quest’ultimo poco dopo morì, secondo alcuni
avvelenato dai turchi, i quali comunque non osservarono i patti della resa e, infatti entrati
nel forte dei cristiani, uccisero tutti quelli che si erano arresi, tranne alcuni che, riusciti a
rifugiarsi nel castello vecchio per scampare alla strage, furono poi fatti schiavi. Pialì tornò a
Costantinopoli il 27 settembre portandovi i predetti illustri prigionieri; il de Sande fu lasciato
poi circolare liberamente nella metropoli ottomana sino all’anno successivo, quando,
finitosi di pagarne il riscatto, poté finalmente avere il permesso d’andarsene, il Requesens,
trabaldato (‘riscattato’) anche lui e già anziano, morirà nel 1562 d’una malattia contratta
durante la prigionia; nel frattempo Pialì approfittava della favorevole congiuntura per
attaccare la Sicilia meridionale, così prendendo e distruggendo la città d’Augusta.
Un’armata attaccata in un porto doveva, oltre a fortificarsi come sopra, frapporre tra sé e il
nemico galeoni o navi grosse, se ne disponeva, le quali fossero ben fornite di gente e
artiglierie e facessero da propugnacoli e trincee, tenendo così lontani i vascelli nemici dalla
propria retrostante armata sottile e debilitandoli con tiri continui; doveva inoltre sbarcare
artiglierie per costituire delle batterie a terra. L'avversario dal canto suo, se il suo attacco
era così respinto e intendeva tramutarlo in un assedio, doveva tra l'altro far affondare
all'ingresso del porto dei grossi legni carichi di pesanti massi, affinché non potessero
entrarvi soccorsi agli assediati e doveva costruire delle batterie galleggianti o utilizzare a tal
scopo vascelli tondi ben muniti d'artiglierie oppure coppie di galere affiancate per costruirvi
sopra di traverso piattaforme o bastioni armati di colubrine e di grossi cannoni d’assedio,
come fece nel 1572 sotto Modone Giovanni d’Austria, approfittando della presenza nella sua
armata di patron Pier Tiragallo, còmito reale della squadra del granducato di Toscana e noto
esperto di batterie d’assedio, o anche di galere inframezzate con barconi altrettanto armati
di grosse bocche da fuoco.
Naturalmente le possibilità di resistere a un assedio marittimo dipendevano, oltre che
dall'eventuale ricezione di soccorsi via mare, anche e soprattutto da ciò che il retroterra
poteva offrire alla città costiera così assediata; molto patì infatti Genova l'assedio marittimo
francese del 1577, giungendo quasi al punto di perdere la sua libertà, proprio perché,
avendo un retroterra sterile, la città dipendeva in massima parte dai rifornimenti marittimi,
1100
per la salvaguardia dell’indipendenza della loro piccola repubblica, gli pagavano un tributo
annuo di 12mila ducati, ottenendone in cambio anche licenze e salvacondotti per poter
navigare liberamente senza essere aggrediti dai vascelli turco-barbareschi; affermava
quindi tale delegato che nulla bisognava che i ragusei sapessero degli accordi che i
potentati cristiani stavano prendendo ai danni della Gran Porta.
C’era la consuetudine che una galera o un galeone che avesse spezzata col tagliamare la
catena d’accesso a un porto nemico, se aveva il tempo e il modo di farlo, la ritirava a bordo
e la portava con sé, come trofeo da conservarsi ed esporsi poi in qualche cattedrale o
chiesa cittadina dedicata al santo che si voleva ringraziare della vittoria così conseguita.
Nel 1287 i genovesi, spezzata la catena che chiudeva Porto Pisano e incendiate fortificazioni
e navi colà all’ormeggio, la avevano portato via come trofeo ed era poi stata esposta a
Genova nella chiesa di S. Lazzaro; sarà restituita a Pisa solo nel 1860. Ovviamente, per
impedire l’accesso a un porto, invece di catene si potevano anche usare palizzate (fr.
estacades) piantate nell’acqua o filari di battelli strettamente legati insieme; si potevano
anche utilizzare veri e propri vascelli uniti in maniera da formare, oltre che una bastionata
irta d’artiglierie, anche un vero e proprio comodo accampamento militare marino e vi si
poteva affondare del grosso materiale come massi, graticciate di ferro, imbarcazioni grosse
e robuste, magari dai fianchi ricoperti di lamine di ferro (gra. ϰατάφραϰταῐ νῆες; l. naves
cataphractae), se vi era stato il tempo di prepararle. Troviamo quest’ultimo consiglio già
dato nel terzo secolo a.C. da Filone di Bisanzio [… vascelli tondi aventi gli scafi di ferro…
(στρογγύλαι͵ σιδεροίς δὲ ϰόλποις ἐχύσας. In Βελοποιἲϰών λόγος, in Veterum
mathematicorum opera etc. P. 94 Parigi, 1693)]. Così nel 1499 si prepararono per esempio i
veneziani di Napoli di Romania (oggi Ναύπλιο nel Peloponneso) nel timore che la potente
armata di mare ottomana che, come nuove giunte, stava per uscire dal Bosforo potesse
soffermarsi ad attaccare anche quella località:
… Il generale (Antonio Grimani) ha dato ordine al provveditore (Simone) Guoro che, se l'
armata del Turco terrà la via di Napoli, guadagni tempo e vada ad affondare in porto alcuni
scafi di galea (D. Malipiero, cit. P. 170).
I veneziani, per ovviare il più possibile alla vulnerabilità delle catene portuali, cercavano di
limitarne la lunghezza ostruebdo le bocche dei porti soprattutto con delle purpurelle, cioè
con delle basse barriere frangiflutti che arrivavano a pelo d’acqua, accorgimenti dui era per
esempio dotato il porto della città di Zara:
… Oltre il sitto, che la rende inespugnabile, è nella bocca del porto una purpurella che
traversa e serra due terzi della bocca predetta e l'altro terzo d'esso canal che fa il porto
1102
verso la faccia del castello è serato da una cattena, alla quale vi stanno di continuo e dìi e
notte dei guardiani soldati del castello per aprirla e serarla quanto bisogna, di modo che i
navigli non ponno entrar in porto ne uscir
se non per quella parte della bocca che è serrata dalla cattena. La purpurella non è altro che
un amassamento di pietre vive con artificio buttate in aqua ed è alta fino al pillo d' aqua,
larga circa sei passa, lunga passa 225 in circa, di maniera che non è possibile che per sopra
vi passino né galera né altre sorti di barche. V'è poi la purpurella che circonda la città
cominciando della parte di tramontana fin in ostro, cioè dal castello fino al baluardo
chiamato ‘cittadella’, che è uno spazioi due terzi di miglio e della medesima larghezza. È
vero, ch'ella è in più luoghi rovinata per le pietre che vengono levate e rotte dagli uomini
delle galere di generali, proveditori, capitani, sopracomiti ed altri padroni di galea e dai
rettori di Zara per cavar i datoli (‘datteri’) marini, che si nutriscono dentro (‘che vi vivono
dentro’), onde saria ben riconciarle e proveder bene che più non si rovinassero, come
abbiamo fatto noi. Più presso alla muraglia v'è un altra purpurella della medesima sorte per
riparamento della muraglia e delle fondamenta, le quali due ostano a tutte le galee et altri
legni da mare che si volessero appostarsi alle mura della città per batterle, di maniera che
da quella parte di mare rendono la fortezza inespugnabile (Simeon Ljubić, Commissiones et
relationes venetae. T. II, annorum 1525-1553. Pp. 193-194. Zagabria, 1877).
Questi frangiflutti, essendo formati da ammassi di pietre calcaree, erano tanto intensamenti
colonizzati dai prelibati datteri di mare, come si accenna nel brano, che quasi ne
assumevano il colore bruno rugginoso, da cui il loro nome veneziano di purpurelle. Mentre i
cristiani, andando ad assediare una piazza marittima, s’accontentavano di costituire le loro
batterie con i cannoni di corsia delle galere, pezzi sufficienti a tale scopo, i turchi,
disponendo di molti schiavi e in ogni caso d’infinita quantità di bastagi, guastatori e mano
d’opera in genere a ottimo mercato, si portavano invece dietro, specie nel tardo
Rinascimento, enormi e pesantissime bocche da fuoco, armi che i loro sultani molto
amavano farsi fondere e possedere per dimostrare anche così la loro potenza e intimorire
maggiormente il nemico. Di tali smisurate artiglierie era per esempio dotato l’armata che
Sulaiman il Magnifico invio nel 1522 alla conquista di Rodi, un’armata turco-siro-egiziana
che, tra vascelli grandi e piccoli arriverà a contarne circa 400 e il cui fulcro era costituito da
quella remiera turca e cioè da 103 galere, 35 maone e inoltre galeotte, fuste e brigantini; si
trattava cioè, per quanto riguarda l’artiglieria grossa d’assedio, di gigantesche bombarde e
di 12 enormi mortari a palla di pietra, di basilischi e grossi cannoni a palla di metallo; c’era
poi tanta artiglieria media, specie passavolanti, ossia gli antenati delle colubrine, e sacri e
falconi; infine spingarderia, ossia artiglieria minuta, in grande quantità.
Altro interessante episodio d'assedio marittimo, anch'esso tratto dal Pantera come altri di
quelli che abbiamo già menzionato, fu quello che si svolse attorno agli anni 1553-1554 nel
corso della lunga lotta che nel Mediterraneo oppose Andrea d'Oria ai corsari barbareschi
Barbarossa e Torgud e che vide quest'ultimo sorpreso dal principe mentre faceva spalmare
i suoi vascelli nel canale del luogo detto dai francesi les Sequennes de Barbarie e dal quale
1103
non avrebbe potuto uscire senza cadere nelle mani dei genovesi; ma l’astutissimo corsaro
non si perse d’animo e fece subito costruire in tutta fretta un fortino all’imboccatura del
canale e lo munì di tre o quattro cannoni di corsia sbarcati dalle sue galere, artiglierie con il
cui continuo tiro impediva alle galere del d’Oria l’accesso al canale, poi ingaggiò 500 uomini
del posto e, unitili ai suoi remiganti, marinai e soldati, in una sola notte fece tirare a terra i
suoi vascelli e, facendoli scorrere su dei rulli d’albero all’uopo preparati, li fece trascinare
per un lungo tratto sino a un altro canale vicino, dove li riarmò e, dopo aver ritirato
nascostamente gli uomini del forte, i quali non avevano mai smesso di combattere, fuggì; la
mattina seguente il principe s’accorse dell'inganno subito dall’astuto corsaro avvistando i
suoi vascelli già in alto mare, tentò quindi di raggiungerlo, ma Torgud era ormai tanto
lontano che, non contento di questa beffa, nei pressi dell’isola di Cherchen catturò, quasi
sotto gli occhi del nemico, la galera Padrona di Sicilia che stava andando a raggiungere il
d’Oria con una provvista di viveri e 50 soldati, episodio che convincerà i corsari siciliani a
essere d’allora in poi molto più guardinghi nell’andare a fare la guerra di corso sulle coste
della Barbaria, e infine s’eclissò definitivamente. Quest’episodio divenne subito notissimo
sulle rive del Mediterraneo, come testimonia il de Bourdeilles:
… J’en ay oüy faire le conte à une infinité de mariniers et soldats, qui le disent encor par
toutes les costes… (Cit.)
Andrea d’Oria, per giustificare il suo smacco, sempre poi sosterrà che quello stratagemma
di Torgud era stata palesemente opera del diavolo, altrimenti avrebbe dovuto ritenere quel
turco il più grande capitano di mare mai esistito e non aveva altri elementi per doverlo
credere tale :
… et comme André Doria s’estonna de cette escapade, si bien qu’il ne pouvoit croire que
c’eust esté un œuvre divin, mais du tout diabolique et infernal… Et il dit bien plus que, si le
Diable ne s’en fust point meslé ou quelque nompareil sorcier par adjurations et par
imprecations, il tenoit Dragut le plus grand capitaine de la mer et qu’il luy cedoit la gloire ;
comme certe ce cas fut admirable… (Ib.)
Capitolo XIX.
DOPO LA VITTORIA.
... Dopò la vittoria che hebbe l'armata della Lega cristiana a i Curzolari (‘Lepanto’) nacque
gran discordia per la preda tra i soldati italiani e spagnoli, concorrendo avidamente questi e
quelli al bottino delle più belle e delle più ricche spoglie de i turchi con gran contrasto,
sforzandosi gli spagnoli di offuscare il merito de gl’italiani e cercando all'incontro gl’italiani
di sostentarlo con tanta alterazione di parole e d'ingiurie che furono per combattere insieme
(‘tra di loro’). (P. Pantera. Cit. P. 398.)
… Tutti sono così malcontenti di don Giovanni da non aver ritegno d’affermare apertamente
che per nulla al mondo tornerebbero l’anno venturo a prender servizio sotto di lui… (N.
Nicolini. Cit.)
Evidentemente Giovanni d’Austria aveva finito per favorire gli spagnoli nella divisione del
bottino, come spesso succedeva in quegli eserciti multinazionali al servizio della Spagna.
Coloro che si erano distinti in combattimento erano premiati in pubblico con ricchi oggetti
presi al nemico e con il conferimento di perpetue commende. Ancora a proposito di
Lepanto così scriveva il Pantera:
1105
... Gratissima si è mostrata la Republica di Venezia verso quelli che l'hanno servita e sono
morti in quella giornata e verso i lor descendenti, come suol fare per antico instituto verso
quelli che si adoprano in suo servizio e come fanno i Re di Spagna e particolarmente Filippo
Terzo hoggi regnante, il quale, caminando per i vestigij delli suoi generosi progenitori,
remunera i suoi servitori e figlioli e successori loro con premij e stipendij larghissimi e non
solamente i suoi vassalli, ma ancora gli stranieri. (Cit. Pp. 399-400.)
Sembra di leggere nelle predette righe un implicito rimprovero allo Stato della Chiesa per il
quale questo forse veneziano capitano allora militava e che evidentemente non si
dimostrava altrettanto generoso con chi lo serviva!
La divisione del bottino di guerra che spettava ai principi collegati che avevano partecipato
con le loro squadre a una impresa comune, quale fu appunto quella di Lepanto, poteva
essere oggetto di patto preventivo o - in mancanza di questo - si faceva a proporzione della
spesa che ognuno d'essi aveva sostenuto per formare e mantenere l'armata. Ai principi
spettavano dunque i vascelli catturati, la loro artiglieria, gli schiavi e le provvisioni da
guerra e da bocca che si erano rinvenute a bordo di quelli; sempre nel caso di Lepanto, il
bottino fu diviso come segue:
Al Papa, il quale sosteneva un sesto della spesa, toccarono 19 galere, due galeotte, 19 pezzi
d'artiglieria grossi, 3 petriere, 42 pezzi piccoli e 558 schiavi ;
alla repubblica di Venezia, che ne sosteneva due sesti, 39 galere e mezza, quattro galeotte e
mezza, 39 pezzi grossi e mezzo, 5 petriere e mezza, 86 pezzi piccoli e 1.223 schiavi;
al re di Spagna, sul quale gravavano tre sesti della spesa, 58 galere e mezza, 6 galeotte e
mezza, 58 pezzi grossi e mezzo, 8 petriere e mezza, 128 pezzi piccoli e 1.870 schiavi. (Ib.)
Ci furono inoltre una cinquantina di personaggi da riscatto (M. Aymard. Cit.) Come si vede,
le circa 140 galere e galeotte prese in quella battaglia ai turchi, si erano poi ridotte nella
spartizione a sole 114 in totale, essendo evidentemente il resto stato giudicato inutilizzabile,
mentre tutte le altre erano andate nel combattimento affondate, sfasciatesi sulla costa e
quindi bruciate, tolte però una cinquantina fuggite; infatti, oltre a quelle salvatisi con Uluch-
Alì, circa 15 galere e 10 galeotte riuscirono a rifugiarsi a Lepanto. Ufficiali generali e
maggiori, capitani di galera inclusi, ebbero in regalo degli schiavi. Secondo il Catena, gli
schiavi fatti a Lepanto, ufficialmente circa 6mila, furono molti di più di questi dichiarati e
cioè circa 10mila, in somma per la maggior parte tenuti nascosti dagli ufficiali che se
n’erano appropriati. Altra cosa da notarsi nella predetta spartizione è che il numero dei
pezzi grossi d'artiglieria predati è pari a quello delle galere e quindi si tratta evidentemente
1106
dei soli cannoni di corsia, dei quali ce n’era uno solo per galera, come sappiamo. Gli
stendardi conquistati restarono ai generali. Mentre generali e capitani e gentiluomini
dell’armata, sbarcati a Messina, erano da quella cittadinanza tanto acclamati e festeggiati, i
semplici soldati e marinai furono dai messinesi subito considerati solo dei pollastri da
spolpare:
… Erano in Messina i soldati come se ognuno di essi fosse stato un sacco pien di zecchini
d’oro riguardati, per che quelli a’ quali era toccato più il buscare (‘far bottino’) che il
combattere, essendo genti basse, tanto poco use ad haver danari che non sapevano che
farne, andavano tanto prodigamente spendendo che, come coloro a’ quali gli aspri (moneta
corrente turca) d’argento erano venuti in puzza, si sdegnavano di comprar cosa, ben che
picciola fosse, con altra moneta che con quelli zecchini, non replicando mai a prezzo che
lor fosse domandato, di maniera che chi non aveva in quel tempo zecchini malamente a’
suoi bisogni provvedeva… (B. Sereno. Cit. P. 226.)
Ma in effetti il danaro contante trovato a bordo delle galere turche era stato piuttosto poco:
… Eran poi quelli che havevan danari da far queste cose pochissimi, perché il guadagno
dell’armata, quanto alla grossa preda de’ danari, non era stato in più di tre galee,
perciocché, da quella de’ contatori (‘pagatori militari’) in poi, che portava le paghe, e la
Capitana di Rodi e la Reale del Bascià, non so che in altri vascelli si trovasse quantità d’oro
né di argento, né in moneta né in vaso; ben è vero che generalmente quasi ogni soldato
basso, almeno nello spogliare i morti, guadagnò qualche cosa, perché quasi tutti i turchi ne’
fondelli de’ lor turbanti havevano, come reliquia sacra, qualche zecchino cucito, oltre che
delle giubbe e delle spoglie andavano sempre facendo qualche danaro. (Ib. Pp. 226-227.)
In seguito, testimonia sempre il Sereno, tali soldati non si videro ricompensati dai loro
sovrani come avrebbero meritato; per esempio i soldati papalini furono trattati nella
maniera più avara possibile, perché dapprima si era addirittura pensato, per far risparmiare
le finanze pontificie, di saldare i loro conti e di farli sbandare nella stessa Messina, ma poi,
essendo divenuto ciò inattuabile perché il loro commissariato pagatore Grimaldi era dovuto
improrogabilmente partire per Genova, godettero perlomeno della comodità d’essere
trasportati a spese del loro stato sino a Napoli:
… Dove, ritornato che fu il detto commissario, tanto minutamente fu fatto loro il conto che,
come se mai fazione (‘azione di guerra’) alcuna havessero fatto, non procurando per loro
chi ne doveva aver cura (vale a dire, non difendendo il loro generale, come avrebbe dovuto,
i loro interessi), fu lor fatto pagare (‘detratto dalla paga’) sino alle proprie munizioni, che col
sangue loro dai nemici, combattendo, si avevano guadagnate. Di modo che, non essendo
lor (stato praticamente) donato la paga – che, sebbene con nome di donativo, molto
debitamente dopo le generali fazioni si deve – e ritrovandosi la maggior parte di essi senza
danari, licenziati che furono, non bastò loro vendere le armi per vivere, ma, nel ritornare alle
lor case scalzi e spogliati, di andar miseramente mendicando furon costretti… (Ib.)
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… Aggiungevasi alla lor miseria ancora che, essendo in Napoli e in Roma prima di essi
comparsi quelli che più havevano procacciato il guadagno che combattuto e, havendo di
molt’oro fatto mostra pomposa, furon cagione che, quando essi meschini, che da buoni
soldati onoratamente havevano fatto il debito loro, così maltrattati vi giunsero, credendosi
ognuno che solo i vigliacchi ed (uomini) da poco guadagnar non havessero saputo, non
solo non trovarono chi li aiutasse, ma furono di più comunemente scherniti… (Ib. Pp. 227-
228.)
E il Sereno avrebbe potuto nominare molti dei suddetti vigliacchi profittatori e millantatori
che a Roma si spacciavano per eroi di Lepanto, così oscurando e danneggiando quelli che
invece, anche se tornati dalla guerra più poveri di come erano partiti, eroi lo erano stati
veramente!
Quanto abbiamo testé detto riguardava la spartizione del bottino guadagnato in battaglia
ordinata, ma, se in navigazione si faceva qualche preda estemporanea, il relativo bottino si
spartiva ad arbitrio del capitano generale, il quale avrebbe dovuto distribuirlo secondo i
meriti e le qualità delle persone che avevano partecipato a quella particolare azione. Il duca
di Medina Coeli, prese alle Gerbe (1560) due navi nemiche, vi fece subito sostituire li
stendardi con quello del re di Spagna, v'aggiunse buona guardia affinché non venissero
saccheggiati e fece di tale preda tre parti, delle quali due dispensò ai capitani e ai militari
più segnalati della sua armata e una fece invece distribuire equamente tra i soldati.
Il già menzionato contratto di condotta del 1337 stipulato tra Aitone d’Oria e la corona di
Francia prevedeva per quest’ultima la metà delle prede fatte sia in mare che in terra, ma la
totalità sia dei beni immobili conquistati, cioè città, terre e castelli, sia dei diritti ereditari e
dei prigionieri (J. De la Gravière. Cit.).
Nel caso invece della guerra di corso, tutto il bottino di vascelli, artiglierie, munizioni e
schiavi andava al principe e al personaggio che aveva armato i vascelli corsari e li aveva
mandato in corso a sue spese, levatane però quella parte che si era promessa in
ricompensa al proprietario dei vascelli medesimi, il quale spesso era lo stesso principe. Al
capitano che col suo vascello di corso aveva da solo investito, abbordato e conquistato un
vascello nemico toccava in particolare la gioia, ossia uno schiavo, e anche un premio
speciale si dava a coloro che erano stati i primi a montare sul legno avversario. Ai còmiti e
ai piloti toccavano le sartie, le vele e un’ancora; ai marinai e ai soldati le robbe tagliate, cioè
le vesti e le armi che si fossero trovate sopra coperta, qualcosa insomma di simile al fr.
pillage (ol. plonderagie) che si praticava sull’oceano e che significava che, mentre al
1108
capitano andavano immediatamente tutti i viveri e tutte le armi minute del vascello
catturato, ogni singolo uomo poteva impadronirsi degli effetti personali del nemico da lui
preso o ucciso e, sino però a un certo limitato importo, anche del danaro che quello aveva
addosso, andando l’eccedenza invece a far parte della massa del butin. Sui vascelli di corso
armati a terzo biscaino, ossia non da un solo importante personaggio, bensì da una società
di più persone, si divideva la preda in proporzione alle quote d'armamento e all'ufficio che
ognuno dei soci eventualmente esercitasse sul vascello; prima pero se ne levava la quota
detta l'ammiragliato, cioè quella che si pagava al principe che aveva dato al capitano del
vascello la licenza d'andare in corso con il suo stendardo e la relativa patente.
L'ammiragliato consisteva generalmente nel 10% di tutto il valore del bottino fatto; il
restante 90% si divideva in tre parti, di cui una toccava al vascello, un’altra andava di
rimborso della spesa d'armamento e delle vettovaglie e la terza toccava all'equipaggio e alla
guarnigione militare, divisa quest'ultima secondo l'ufficio e il carico che ciascuno ricopriva
a bordo. Ma questi usi di distribuzione del bottino di mare variavano ovviamente da stato a
stato e da tempo in tempo e quelli da noi suddetti sono solo alcuni dei più ricorrenti; infatti
il già più volte da noi citato residente veneziano Girolamo Ramusio così descriveva nel 1597
quelli allora in vigore nel regno di Napoli:
... Nel dividere la preda si tiene quest'ordine: se il vascello è di tre gabbie, è tutto del Re; se
non è tale, si stima il vascello e tutto il carico; se è presente il Generalissimo o suo
luogotenente, si cava la decima per suo conto; se sono lontani, se gli fa un presente detto
'la gioia', secondo la qualità del bottino; il resto viene ripartito in cinque parti: tre al
generale, una ai capitani di galea, la quinta ai soldati e galeotti. Gli schiavi che si prendono
sono del Re, il quale da in ricompensa a quelli che li hanno presi trenta ducati per ogni
schiavo e, per i 'rais', cento ducati l'uno. (E. Albéri. Cit. Appendice.Pp. 347-348.)
Era antica tradizione veneziana invece che la preda venisse ripartita unitamente, ma
secondo le competenze di ciascuno, dal sovraccòmito, dal capitano di fanteria e da un
galeotto o altra persona in rappresentanza quest'ultimo delle buonevoglie, le quali, essendo
uomini liberi, avevano anch'esse diritto alla loro parte di bottino. É interessante poi leggere,
a proposito degli antichi usi veneziani di spartizione della preda, la predetta ordinanza del
doge Mocenigo (1420):
... Se le galie de guarda over algune de le altre prenderà fusti o fuste, la roba de coperta sia
soa, eceto che scorieri (‘corsari’) de le dite fuste, i quali debino presentar a misier lo
Capetano; se veramente prendesi griparia (‘barche di servizio’) over altro naviglio, non
tocando alcuna cosa, ma quela deba aprexentar a misier lo Capetano azò el posa desponer
de esa el consueto. (A. Jal. Cit.)
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Gli ammiragli turchi usavano far man bassa del bottino e quindi rapidamente si
arricchivano, vedi per esempio Pialì Pasha (ungherese da Tolna, secondo l'Albéri), il quale,
pur essendo uomo timido e inesperto di mare, aveva molto approfittato della sua fortunosa
vittoria all'isola delle Gerbe (1560), come commentava il segretario veneziano Marc'Antonio
Donini nella sua relazione sull'impero ottomano redatta nel 1562:
... Si ritrova (Pialì Pasha) al presente più che 700 schiavi buoni per vogare in galea, parte
acquistati al Zerbi e parte in diversi altri luoghi dove prima ha avuto vittoria, oltra altri 600 in
circa che lo servono nelle altre cose che gli occorrono. Si tiene che sia molto ricco per
antedetta cagione e per aversi appropriate le paghe delle galee (cristiane) e delli soldati che
furono ritrovati (‘che si ritrovarono’) in quelle e nel forte del Zerbi, che, per quanto s'è
ragionato da molti, importarono più che 300.000 scudi, oltra li riscatti di molti signori
capitani e soldati. (E. Albéri. Cit. S. III, v. III, p. 189.)
… tutte le vecchie imbarcazioni che fossero del tutto inutili alla navigazione né in alcun
modo si potessero riparare o ripristinare e gli armamenti delle predette imbarcazioni (che
fossero anch’essi) vecchi e del tutto inutili a qualsivoglia vascello […] tutte quelle cose si
debbano mettere a disposizione dell’ammiraglio come da consuetudine del nostro regno.
{omnia vasa vetera, que prorsus inutílía fuerínt ad navígandum nec modo quolíbet poterint
reparani nec non аffici et armamenta ípsorum vasorum vetera et prorsus inutilia vasis
quíbuscumque […] secundum consuetudinem Regni nostri ea omnia Ammiratí commodo
debeant applícari. G. Del Giudice, cit. P. 14.}
Comprendiamo che, detto solo in tal maniera, non tutto risulterà molto chiaro al nostro
lettore in questa materia della spartizione dei bottini, materia che però, essendo solo
accessoria a quella prettamente bellica, principale oggetto di questo lavoro, preferiamo
senz'altro abbandonare; vorremmo solamente chiarire che, anche dalla presa di una galera
nemica si poteva, aldilà degli uomini da vendere come schiavi e di quelli di qualità da
mettere a riscatto, ricavare ricchezze materiali, anche se non erano più i tempi del Medioevo
in cui a bordo di una galera si erano potuti trovare gran quantità di metalli e tessuti preziosi:
… E gli uomini delle galere del re d’Aragona sbarcarono a terra e ciascuno portava con sé
ciò che aveva guadagnato: coppe d’oro e d’argento e taglieri e scodelle e bellissimo
vasellame d’argento e gualdrappe di seta e ricchissimi guarnimenti e bellissimi abiti di
zendado impelliccciati di vaio e tanto denaro e argento monetato che nessuno ne potè
sapere l’ammontare (d’Esclot, Cronica, all’anno 1282).
1110
Ottenutasi dunque la vittoria in una regolare battaglia, si liberavano gli schiavi cristiani
trovati sulle galere maomettane - ben 12/15mila nel caso di Lepanto - e si facevano schiavi i
maomettani perché divenissero proprietà privata o servissero al remo sulle galere cristiane;
se tra costoro v'erano ufficiali o personaggi importanti, questi s’imprigionavano, ma si
trattavano bene e li si tenevano da parte perché un giorno sarebbero serviti come mediatori
per chiedere al nemico la cessione di fortezze, città o stati, oppure si sarebbero potuti
liberare a riscatto o scambiare con qualche personaggio cristiano in mano dei turco-
barbareschi, così come si fece dopo la battaglia di Lepanto, quando, tra gli altri fatti
prigionieri dalla Lega, dall’allora duca di Paliano e Tagliacozzo Marc’Antonio Colonna,
generale delle 12 galere toscano-pontificie che avevano partecipato a quella capitale
battaglia e in seguito, come sappiamo, vicerè di Sicilia, furono portati a Roma uno dei due
figli di Müezzin-zâde Alì Pasha, generale dell'armata ottomana, ossia Sain Bey, essendo
morto nel frattempo a Napoli l’altro, il diciottenne Melebu Bey, di dispiacere, come si disse,
e inoltre Mehmed Bey, sangiacco di Negroponto, Mohamed Ben Salah Rais, Monsulman Alì,
chiamato, come abbiamo già detto, detto Caur Alì, capitano di fanò, comandante di 12
galere e membro del consiglio di guerra del defunto capitano generale Alì, il corsaro Karagj
Alì e altri, i quali tutti, sebbene costretti a presentarsi al Pontefice vestiti con la livrea del
vincitore, furono da lui ben trattati e furono scambiati in seguito con Gabrio Serbelloni,
preso dai turchi nella guerra di Tunisi del 1574, e altri segnalati nobili cristiani che erano da
tempo schiavi dei turchi; ecco un brano d’un dispaccio del Bonrizzo da Napoli datato 19
febbraio 1572:
… Tre giorni fa giunsero a Napoli i due figli del defunto Alì, capitano del mare, il sangiacco
di Negroponto e altri prigionieri turchi di riguardo che don Giovanni invia al Papa per mezzo
di don Rodrigo de Benavides, suo cameriero maggiore. Partiranno per Roma non appena
saranno pronti i loro vestiti, tutti di seta e coi colori di Sua Altezza. (N. Nicolini. Cit.)
Il crudele Caur Alì morirà durante la traversata di ritorno a Costantinopoli. Se però la libertà
di qualcuno di questi personaggi di qualità fosse stata giudicata molto pericolosa in quanto
avrebbe certamente rinvigorito il nemico, allora quello si sopprimeva per sicurezza dello
stato e così fece per esempio il capitano generale Lansac durante le guerre di religione che
sconvolsero la Francia nella seconda metà del Cinquecento (1562-1598), quando, vinti gli
ugonotti in combattimento navale, ne prese prigionieri circa 600, facendone incatenare al
remo la maggior parte, mentre alle persone di maggior importanza fece levar la vita nel
timore che potessero suscitare nuove ribellioni. Allo stesso modo, come abbiamo già detto,
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si comportò Àlvaro de Bazán marchese di Santa Cruz, quando, sconfitta e presa l'armata di
don Antonio di Portogallo alle Terzeire, fece morire come corsari circa ottocento principali
soldati francesi che vi trovò a bordo, perché questo fosse di monito alla Francia. Si
giustiziavano inoltre i ribelli, i felloni e i traditori che si fossero trovati sui vascelli nemici.
Tutto ciò, anche se molto crudele, rappresentava comunque un evidente miglioramento
rispetto agli usi che c‘erano stati nelle battaglie marittime del Medioevo, quando cioè
s’usava conservare la vita ai soli prigionieri di valore, quelli per intenderci dai quali si
poteva ricavare un buon prezzo di riscatto, e tutti gli altri, soldati, marinai o remieri che
fossero, anche se molto numerosi, si ammassavano legati o incatenati nel sottoponte di
quelle delle galere nemiche che, per esser state troppo maltrattate dalla battaglia, non era
conveniente armare di propri uomini o trainarsi dietro, e si mandavano a fondo senza
alcuna pietà, sfondando i fianchi di quei vascelli. Nelle Croniche catalane del d’Esclot e del
Muntaner frequentemente si legge di episodi del genere.
Quando l'armata vincitrice tornava in un porto amico, secondo un uso comune già
documentato nel Duecento, i vascelli v'entravano in pompa magna e con gran solennità,
ornati non solo dei propri vessilli e delle proprie tappezzerie (fr. faire la parade), ma anche
degli stendardi e delle bandiere tolte al nemico e che s’inalberavano però capovolti alle
sartie, ma più spesso pendenti e strascinati nel mare dalla poppa propria o degli stessi
vascelli vinti, se catturati, come usavano anche i turchi quando tornavano vincitori a
Costantinopoli, in segno che i sovrani che rappresentavano erano stati debellati e quindi di
loro umiliazione, e nell’oceano si usava anche molto attaccare i vessilli dei vascelli vinti al
sartiame invece che alle poppe; entravano in porto inoltre rimorchiando i vascelli presi al
nemico, ma tenuti di poppa, nudi e privi d'ogni ornamento in segno, segni anche questi
dello sterminio dei loro precedenti padroni. Gli stessi soldati e marinai si ornavano poi delle
più ricche spoglie che avevano predato ai nemici. L'entrata si faceva in bell'ordinanza e in
un tripudio di stendardi, bandiere, fiamme e gagliardi su alberi, antenne, stentaroli e in
genere su tutte le parti alte del vascello, le quali i greco-bizantini chiamavano acrostolia
(ἀϰροστόλια); c’era inoltre l’accompagnamento del suono di tamburi, trombe, clarinetti,
pifferi, ecc., di allegre e festose grida di vittoria, di salve d'artiglieria e archibugiate, in modo
da dare al popolo amico il più giocondo e bello spettacolo possibile, mentre da terra si
rispondeva con salve e, se l'entrata avveniva di sera, con fuochi d'artificio e luminarie. Così
avvenne quando l'armata di Giovanni d'Austria, vittoriosa a Lepanto, arrivò nel porto di
Messina, città in cui la notizia della vittoria era arrivata solo il 28 ottobre precedente;
cominciò ad arrivare la sera del 30 novembre lo stesso Giovanni accompagnato dalla
1112
Capitana di Savoia e da 10 altre galere, mentre il resto dell’armata capitò a Messina a poco
a poco, rimorchiando i vascelli presi al nemico; l’arrivo è ricordato sommariamente dal
diplomatico veneziano Placido Ragazzoni, il quale allora si trovava in quella città (1574), ma
la scena è descritta più diffusamente dal Collado, laddove questi tratta delle varie specie di
fuochi a salve e artificiati in uso ai suoi tempi:
... Tutte le quali cose assai piacciono e dilettano a tutti, maggiormente quando la salva si fa
di notte, come fu quella che si fece nel porto della città di Messina su l'armata della Lega
cristiana dopò che l'anno 1571 fu rotta l'armata turchesca, essendo generale dell'armata il
serenissimo signor don Giovanni d'Austria, fratello del gran Filippo Re di Spagna, le quali
allegrezze si crede che siano state le più magnifiche e sontuose che mai al mondo si siano
fatte in mare, corrispondenti veramente a quella inaudita vittoria ottenuta dai christiani in
quella impresa e al grandissimo numero de' galeoni, carrache, urche, navi, scorciapini (l.
scorcium pini, ‘scorza, corteccia di pino’, ‘piroga insomma’), galere, galeotte, fuste,
bergantini e fregate che quivi si ritrovarono quella estate. Li quali vasselli tutti non
solamente pareva che si ardessero insieme, ma che l'elemento del fuoco si fosse abbassato
per convertire in fumo, fuoco e fiamma l'Universo, perché erano tanti e 'sì terribili e
innumerabili i tuoni della grossissima artiglieria dell'armata e la corrispondenza
dell'artiglieria de i castelli e della città di Messina con essa che le montagne tremavano da
per tutto intorno alla marina. Erano tante le differenze de' fuochi artificiali fabricati da
valent'huomini marinari e bombardieri che non si potea sotto il cielo vedere il più bel
spettacolo o udire il più maraviglioso di quello che quella notte fu sentito e veduto. (L.
Collado. Cit. Pp. 196-197.)
Nel trasferirsi da Corfù a Messina, essendosi ormai in autunno inoltrato, l’armata era però
incappata nel maltempo ed era successo che le galere nemiche rimorchiate con la poppa
davanti, come era regola, alleggerite di tutto e spinte dai flutti, erano andate a investire tante
di quelle che le rimorchiavano, danneggiandone seriamente le poppe e costringendo molti
capitani cristiani a trattenersi poi a lungo a Messina in attesa che si terminassero le
riparazioni necessarie ai loro vascelli. A proposito del predetto uso di portare le bandiere
nemiche strascinate nell’acqua del mare, bisogna ricordare che nel Quattrocento Santo
Brasca scriveva incidentalmente d’un trattamento simile riservato nella marineria veneziana
alle bandiere nazionali, ma questo in segno d’allegrezza (A. L. Momigliano- Lepschy, Cit. ).
Fatta la solenne e gioiosa entrata, il generale sbarcava e, accompagnato da tutti i suoi
principali ufficiali, preceduto dagli stendardi conquistati al nemico, seguito dagli schiavi
maomettani più nobili incatenati a mo' d'antico trionfo, procedeva sino alla chiesa maggiore
dove avrebbe pubblicamente reso grazie al Signore per la vittoria guadagnata e dove gli
avrebbe consacrato i vessilli conquistati, vessilli che poi sarebbero rimasti esposti in
permanenza in qualche cattedrale o chiesa d’importanza. Infine si disarmavano i vascelli,
pagandone e licenziandone le soldatesche; si licenziava anche la marinaresca di quei
1113
vascelli che avessero finito di navigare e si trattenevano in servizio solamente gli alti e
basso ufficiali perché continuassero ad aver cura dei loro vascelli e i marinai di guardia
perché ancora sorvegliassero le ciurme; e delle ciurme che cosa succedeva? Ecco cosa ne
scriveva il Pantera, l'autore dal quale tanto abbiamo appreso:
... Alle ciurme si concederà largo riposo per ristoro delle fatiche fatte. Gl'infermi saranno
curati diligentemente; ai sani, oltra la buona provisione del vivere, si haveranno a dar panni
atti a potergli difender dal freddo, quasi implacabile inimico dei galeotti, perché, non
potendosi muovere mentre stanno de i porti, ne restano offesi più che da gli altri disagi e
alcune volte tanto che quelli di loro che non hanno potuto morir dalle archibugiate nelle
battaglie né da' molti altri acerbissimi patimenti sono morti di freddo. Questo av(v)enne alle
ciurme dell'armata di Giovanni Soranzo nel Mar Maggiore, il qual, havendo vinti e spogliati i
genovesi della città di Teodosia, hoggi chiamata Cafà (‘Caffa’), volse svernare in quelle
parti, dove, essendo il paese espostissimo al settentrione, perdette un gran numero di
galeotti che non poterono resistere alla vehemenza del freddo, oltra quelli che rimasero
stroppiati delle mani e de i piedi che furono quasi tutti, talmente che le sue galee restorono
disarmate. (P. Pantera. Cit. P. 406.)
E ciò nonostante quei galeotti fossero, trattandosi di galee veneziane, delle buonevoglie,
ossia gente che, non essendo incatenata, poteva muoversi a bordo quasi a suo piacimento.
L'episodio predetto è delle guerre che Venezia combatté contro Genova nel secolo
quattordicesimo; la città di Caffa sarà poi tolta ai genovesi dall’armata turca il 6 giugno
1474.
Della vittoria di Lepanto Giovanni d'Austria mandò subito ragguaglio al papa, all'imperatore,
al re di Spagna e alla signoria di Venezia, inviando a quei potentati alcuni illustri personaggi
che vi avevano partecipato. Lo avvenimento fu festeggiato in tutta la cristianità e la Signoria
di Venezia, per esempio, decretò che ogni anno in quel giorno, allora dedicato a S. Giustina
il doge si recasse in solenne processione alla chiesa della santa, obbligandosi di
solennizzare gli anniversari e facendo stampare monete commemorative con l'effige della
stessa S. Giustina. A Roma Pio V, accompagnato dal collegio dei cardinali e dal popolo, si
recò a rendere grazie al Signore nella basilica di S. Pietro, istituendo l'annuale processione
del Rosario nelle chiese dei domenicani in memoria di così fausto evento; poi fece
celebrare a Marc’Antonio Colonna un trionfo tanto degno d’un antico romano da essere
giudicato eccessivo dai certamente un po’ invidiosi francesi, come racconta il de
Bourdeilles:
… J’estois à la Cour quand ces nouvelles vindrent, ma j’y en vis aucuns grands se mocquer
de ce ‘sot triomphe’, qu’ils appelloient ainsi. (Cit.)
1114
Ma si sa che i transalpini, non avendo la Francia partecipato alla lega di Lepanto per via
della sua ancora sostanziale intesa con Costantinopoli e ostilità alla Spagna, non avevano
certo gioito né alla notizia di Lepanto né dei relativi festeggiamenti.
1115
Capitolo XX.
Adesso che sappiamo che cosa erano le galere e come combattevano, possiamo
concludere questo studio affrontando con cognizione di causa i documenti barcellonesi
pubblicati o citati nel Settecento dallo storico ed economista catalano Antonio de Capmany
(1742-1813), soprattutto con riferimento alle armate di mare aragono-catalane del Trecento.
Cominceremo pertanto con l’ordinanza promulgata dal re Pedro III nel 1354, da noi qui già
più volte citata, con la quale si dispone il seguente equipaggio per ogni singola triremi; ma
è da badarsi che ci si riferiva solo alle ordinarie triremi sottili e non a quelle, più ampie
specie a poppa e quindi atte a portare più gente che, come abbiamo già detto, erano dette
basterde o bastardelle, né tanto meno a quelle che, come pure si è già visto, erano chiamate
grosse o di commercio o anche galeazze:
Un patrone al comando politico e militare della galea con un seguito di due scudieri
balestrieri a suo completo carico economico e di un consigliero, il quale non era di sua
scelta ma che era a carico della sua mensa personale.
30 balestrieri, incluso lo scrivano di bordo.
Un còmito e un sotto-còmito al comando della navigazione. Il primo si occupava soprattutto
della voga e quindi dei remiganti, il secondo soprattutto della manovre di prua, cioè
della vela e delle ancore.
Un senescallo, più tardi detto algozino, cioè un questurino ed esecutore di giustizia.
8 nocchieri, ossia lo scrivano, i timonieri e gli artigiani (mastro d’ascia, calafato e
remolaro).
8 proeri (‘prodieri’), cioè marinai per le manovre delle ancore, quindi di servizio a prua.
6 curuglieri (da corral, ‘recinto’), marinai che coadiuvavano il còmito nella conduzione della
voga e nella sorveglianza dei vogatori.
6 alieri (da alas, ‘vele’); pennesi, gabbieri, addetti alla manovra delle vel...
8 spallieri, marinai di servizio alle spalle della galea, cioè tra la poppa e l’inizio della zona
dei remigi. Questi erano soprattutto addetti alle necessità poppiere, come per esempio
all’uso del tendalino, e molto probabilmente anche alle esigenze di camera degli
ufficiali di comando; inoltre, poiché il deposito dei viveri era a poppa, è molto probabile che
a questi spallieri fosse affidato pure il servizio di cucina.
Un barbiero, ossia un pratico di medicina o comunque almeno di chirurgia, il quale era
tenuto a imbarcarsi fornito di tutti i suoi strumenti professionali.
Il còmito e il sotto-còmito dovevano imbarcare a loro spese, oltre che corazze guarnite e
armamento per loro stessi, un infant, cioè un mozzo, il quale servisse ambedue, mentre più
tardi, cioè a partire dal tardo Rinascimento, vedremo che tutti i mozzi di bordo saranno tratti
dalla ciurma dei remiganti, quindi a spese della galea e non più dei singoli individui.
1116
I nocchieri, i cui salari erano differenziati a seconda dei loro ruoli, dovevano dotarsi a loro
spese di una corazza guarnita, di un pavese, ossia di uno scudo da difesa statica, di
balestra con crocco e di 100 verrettoni; tra quelli della galea di comando generale cioè della
Reale, dell’Ammiraglia o della Capitana, c’erano alcuni consiglieri, uomini di grande
esperienza di navigazione, e inoltre i mastri artigiani vi tenevano ruolo di mestres mayores
(‘maestri maggiori’).
I proeri dovevano provvedere per proprio conto a dotarsi di corazza guarnita, di pavese e di
daga; oppure, non disponendo di una daga (le buone lame acciarate erano care), di balestra
con crocco e di 100 verrettoni, il che significa che erano considerati conbattenti; invece gli
alieri, curuglieri e spallieri bastava che portassero a bordo una corazza guarnita e un
pavese, quindi un armamento unicamente difensivo.
I balestrieri dovevano essere 30 per galea sottile e 40 per galea grossa e ognuno doveva
portarsi a bordo una corazza guarnita e due balestre con i loro crocchi semplici più un
crocco a due mani per lanci più potenti; nel loro numero si conteggiavano, i due scudieri
del patrone. Tra i balestrieri della galea di comando predetta si conteggiavano lo scrivano
reale o d’armata e un mastro balestriero con i suoi attrezzi che provvedesse, per tutte le
galee, alle riparazioni di quelle armi.
Come vedremo, questa complessa suddivisione dei ruoli, la quale ancora sicuramente
risentiva di quella delle antiche triere romane, i cui usi e le cui tradizioni sopravvissero
appunto a Barcellona (l. Barcino-nis) più a lungo che nella stessa Italia, diventerà più tardi,
probabilmente a partire dal tardo Rinascimento, molto meno rigida e diversificata.
Aggiungendosi 156 remiganti, inclusi i due, che come vedremo, fungevano anche da
palombari, a bordo di una galea aragono-catalana del Trecento si trovavano dunque di
norma 227 persone da pagare, di cui 225, cioè patrone e consigliero esclusi, ricevevano
ciascuno, oltre al rancio, una razione giornaliera di 24 once catalane di biscotto nero
(‘galletta’), cioè due libbre; i due predetti esclusi avevano diritto invece a pane o anche
biscotto ma bianco, insomma alla stessa panatica di cui godevano gli ufficiali generali
dell’armata. Anche il consigliero, di solito un marittimo di consumata esperienza e di
autorevolissimo parere, mangiava pane bianco perché, pur non essendo una persona
proposta dal patrone, consumava i suoi pasti a spese di querst’ultimo sedendo alla sua
tavola.
I due scudieri balestrieri che il patrone era autorizzato a portare e a tenere a bordo al suo
seguito personale, ma anche a sue completa spesa, furono presto aboliti con un’ordinanza
1117
del 1363 (Ordenanzas etc. Cit. P. 115), visto che si era costatato che in effetti i patroni,
chiaramente per evitarne la certo non trascurabile spesa, non se ne servivano.
Nella sua appendice all’opera suddetta Antonio de Capmany riporta, purtroppo solo in
maniera sunteggiata e parziale, gli inventari di corredi e armi fornite alle galee aragono-
catalane tra la metà del Trecento e l’inizio del Quattrocento; dai documenti risulta dunque
che le galee grosse, cioè quelle dette anche galere di commercio o galeazze, erano
provviste di due timoniere, due carte di navigazione, di tre vele, cioè quella d’artimone, fatta
di 40 paños (ferze), la lop de proa, ossia la vela detta trinchetto, di 30 paños e la mezzana di
22; inoltre di soli 56 remi sensigli istallati (perché i remi servivano solo per le manovre
portuali e costiere o contro pericolosi venti contrari) e di 124 di ricambio, il che significa che
avevano 23 banchi per lato, anche se purtroppo il Capmany non riporta il numero e la
tipologia degli uomini imbarcati su questo tipo di galee e quindi non possiamo capire se si
trattasse di remi mono-rematore o già di remi pluri-rematori; di 3 ancore pesanti 5 quintali
ciascuna (500 libbre non chili) e due rezoni (anche ronzoni, ‘ancore a grappino’; da cui il
nome dell’ancoraggio romagnolo poi divenuto il porto di Riccione), ancora per fondali
pietrosi ma dallo stesso peso delle predette ancore. Poteva inalberare una larga bandiera
reale (‘stendardo’), di stamigna, due bandiere quadre reali, una bandiera reale larga o
stendardo e due bandiere quadre dell’ammiraglio o del capitano generale. Premesso che le
armi da polvere, oggi diremmo da fuoco, anche se già introdotte, non erano però ancora
usate a quel tempo dalle marinerie tirreniche, l’armamento riportato dal de Capmany è il
seguente:
Molto interessante è qui notare che, prima che si diffondesse appunto l’uso della armi da
polvere, queste galee medievali europee ponentine usavano contro il nemico due tipi di
proiettili e cioè uno a media distanza, i verrettoni da balestra, e uno a distanza ravvicinata
(in pratica prima degli abbordaggi), trattandosi di quei dardi da lanciare a mano detti verruti
1118
e corrispondenti agli antichi pili dei romani. Invece dalle galee turco-saracene si lanciavano
solo frecce da arco in qualsiasi occasione di guerra.
Alla galea grossa Ammiraglia o Capitana si fornivano a parte anche 20 pavesi grandi,
evidentemente per la difesa degli ufficiali generali durante le battaglie. Non si fornivano né
catene né ceppi per remieri a conferma che si trattava di lavoratori che vogavano
volontariamente; anzi, come tutti gli altri imbarcati, anche loro erano tenuti a presentarsi a
bordo forniti di armi proprie.
Le differenze di corredo e armamento della galea bastarda erano le misure delle tre vele
suddette, rispettivamente 35, 25 e 18 ferze, il peso di ancore e rezoni (4 quintali di libbra e
non 5). Per quanto riguarda le armi, le differenze erano che le corazze guarnire e complete
di gorgiera e celata erano solo 100, le lance leggere solo 400 e i verrettoni solo 500. Aveva
inoltre gli stessi vessilli della galea grossa, compresi eventualmente quelli ostentanti le
armi dell’ammiraglio o del capitano generale.
La galea sottile differiva anch’essa nell’ampiezza delle tre vele (30-22-16), nel peso di
ancore e rezoni (3 quintali di libbra ciascuno) e, per quanto riguarda le armi, lo corazze
guarnite e complete erano solo 80, le lance leggere solo 300, i dardi 800, i verrettoni 400, le
partigiane 16, le falci 16, i fanali 4. Inoltre portava una sola bandiera reale quadra (ib.)
Nel 1418 il re d’Aragona Alonzo V preparò un’armata di mare che poi l’anno seguente
avrebbe portato in Sardegna e in Corsica per consolidarvi i possessi aragonesi; si trattava
di 20 galere, 10 galeotte, 14 grosse navi e un balanero, grande vascello fluviale detto
belinzero o balonero in Italia e del quale abbiamo già detto; il de Capmany riporta i nomi di
solo 12 di detti vascelli e dei loro comandanti, i quali - cosa molto interessante - ora in
questo nuovo secolo non sono più patroni bensì capitani, asserendo che, pur trattandosi di
una spedizione di 33 vascelli remieri da guerra, 13 navi armate e 44 imbarcazioni da
trasporto, nell’archivio di Barcellona non se ne trovano altri, ed elenca i materiali di
fornitura da questi ricevuti. Comincia con la galea chiamata dei cani, forse perché il vessillo
del suo comandante mostrava dei quadrupedi, leoni o pantere che fossero; il suo patrone
era il nobile Ramon Xammar (Jammar). Questa galea ricevette, tra l’altro, 180 remi rifiniti,
completi di lamina di ferro all’altezza dello scalmo e contrappesi di piombo all’estremità
interna, 3 gomene di canapa dal peso di 530 libbre ciascuna, una vela maggiore di 40 ferze e
una di trinchetto di 36. Ed ecco l’armamento di fornitura reale, ove ora, a differenza delle
galee del secolo precedente di cui abbiamo appena detto, risultano anche armi da fuoco:
Il gran numero dei primi fa capire che dovevano servire alla formazione d’impavesate, cioè
di parapetti sulle fiancate, mentre i pochi secondi servivano evidentemente a difendere lo
stato maggiore della galea durante i combattimenti.
Sono bombarde da prua, ovviamente, ma la relativa pochezza delle suddette scorte di palle
e polvere può significare che delle bocche da fuoco si faceva allora un uso ancora solo
saltuario.
La galea Real aveva come patrone Bernardo Sirvent, ma era capitanata a guerra da un
nobile capitano che si chiamava Pedro de Esplúga, nome non catalano; si era fornita una
vela chiamata lop de proa o vela detta trinchetto di 36 ferze, di cui 7 bianche e le altre
rosse.
Alla galea San Juan, capitanata da Gabriel Suñer, il fabbricante di pavesi barcellonese
Jayme Ferrer fornì 120 pavesi di taglia reale e 12 da barriera, mentre i maestri corazzieri
Benito Campderrós e Mateo Glasar la provvedevano di 120 corazze e 120 gorgiere del tipo
di munizione, cioè approvato dalla Corte.
1120
Alla galea San Nicolas, capitanata da Bernardo de Centellas, si fornirono molte cose tra cui
50 remi rifiniti e provvisti di lamina di ferro, come già spiegato.
Alla galea chiamata el halcón (‘il falcone’), capitanata da Gilaberto de Cruilles (in realtà il già
nominato ‘de Crudiliis’, famiglia sarda), si davano, tra l’altro, 40 sacchi di biscotto, una vela
da albero di maestra di 32 ferze, 24 dozzine di triboli, 120 pavesi di taglia reale 25 corazze di
munizione, 2 bombarde di ferro dal calibro non specificato.
Alla galea La vittoria, insignita dello stemma del Principato di Catalogna e capitanata da
Bedrnardo de Vilaragut, si fornivano solo una vela detta mezzana di 19 ferze e di 28 canne e
6 palmi di tela per rifare le due ultime ferze della vela maggiore che arrivavano alla penna
(cst. pena), cioè all’estremità sottile dell’antenna.
Alla galea San Paolo recante le insegne della Deputazione Generale di Catalogna, cioè
dell’organo di governo che rispondeva alla Corona, e capitanata da Juan Martinez de Lana,
si dettero una scialuppa (esquife) fornita di tutto il necessario, inclusa una tela
impermeabile (cst. carroza) larga 16 palmi per difenderla dalle intemperie, e inoltre 19 canne
e 4 palmi di canapaccio e 4 ferze per la vela maggiore, fatte queste ultime di 52 canne e 4
palmi di tela.
Alla galea San Jorge, la quale batteva la bandiera della città di Valencia ed era capitanata da
Nicolás Joffre e da Juan de Valterra, i quali ricevevano armi di munizione e cioè 96 lance
manesche (vedi sopra), 25 lance larghe, ossia partigiane, e 5 dozzine di dardi.
Alla galea Santo Thomas, anch’essa con le insegne della città di Valencia, capitanata da
Juan Pardo e da Thomás Fabre, furono forniti diversi generi tra cui un’arroba (peso di 25
libbre) di polvere da bombarda.
La galea San Vicente con le insegne della città di Valencia, capitanata da Pedro de Centellas
e Francisco de Belvís ebbe, tra l’altro, anch’essa un’arroba di polvere da bombarda e
inoltre 25 remi rifiniti e laminati, 6 dozzine di dardi, 4 dozzine di lance manesche del
genere di munizione.
La galea San Juan recante le insegne dell’Ordine di Montesa armata dal gran maestro di
detto ordine e capitanata da Miguel de Pejó commendatore di Xivert, riceveva una penna
d’antenna solamente.
Il balanero (it. balonero, v.s.) chiamato el Moro, capitanato da Juan de Bardaxí (‘Bardají’), il
quale ebbe 275 soldi, costo del rifacimento di una verga di gabbia (sic). (Ib.)
Ecco poi, molto sintetizzato, un conto di pagamenti di materiali da guerra fatti fare nel
1419 ad artefici barcellonesi per la suddetta spedizione:
1121
Al ferraro Pedro Grau, ‘il quale fa ferri di freccia’ (que hace hierros de flechas), per 35
casse di frecce, cioè, 15 casse di tipo caravana, 15 di tipo con punta acuta e le 3
rimanenti di tipo con baffo…
Da notare qui che, non usandosi gli archi, come per il precedente saetas, anche per
questo flechas s’intendono i quadrelli o verrettoni da balestra.
Flechas de aguada significa che i galeotti che si mandavano a terra a fare acquata,
ossia provvista d’acqua potabile, erano scortati da balestrieri e che questi portavano
verrettoni di un tipo differente, perché probabilmente semplificato, meno costoso
perché evidentemente senza alette stabilizzatrici, delle quali, come abbiamo già
spiegato, non avevano bisogno neppure quelle di caravana, dovendo queste colpire da
vicino in occasione di abbordaggi, e neanche quelle di punta acuta, essendo destinate a
un bersaglio non solo vicino ma anche grosso quali erano le fiancate del vascello
nemico.
Per ‘frecce di baffo bastardo’ s’intendevano quelle con un sola grande aletta stabilizzatrice
codale invece delle due piccole laterali, come abbiamo già spiegato…
Al verrutaro Pedro Estaper per 19 casse di di frecce di varie sorte, cioè 6 di caravana, 6 di
punta aguzza e una di baffo (‘de vigote’)…
Al verrutaro Pedro Comelles per 19 casse di frece di varie sorte, cioè, 8 di caravana, 8 di
punta acuta, 2 di baffo e 1 di baffo bastardo…
Al verrutaro Pedro Noguers per 8 casse di frecce di varie forme, cioè, 2 di caravana, 4 di
punta acuta e 2 di acquata…
Al fabbricante di candele di cera Antonio Matheu per 4 casse di frecce di caravana…
trazdizionalmente quelle ‘di punta acuta’, cioè quelle provviste di materiale incendiario alla
punta.
Termina questo elenco di pagamenti fatti ad artefici con quello di 605 soldi barcellonesi
pagati il 20 agosto 1420 ad Alghero dal maestro fabbricante di bombarde catalano Pedro
Font a Juan de Lira, anche questo mastro barcellonese, ma fabbricante di polvere da
bombarda. Poco dopo il Font riceverà denaro di conto reale in rimborso dei seguenti
acquisti fatti appunto a Barcellona:
16 quintali (di libbre) di rame di miniera nuova (‘de mena nueva’, ‘di qualità superiore’) per
fare bombarde.
5 quintali e 4 libbre di stagno.
23 libbre di filo di rame per unire le forme delle bombarde.
Filo ‘di peso di ferro’ per lo stesso scopo.
6 trapani di acciaio per trapanare il focone delle bombarde.
2 torni di ferro con guarnizione di legno e corde di budella.
1 pentola (‘cazo’) di ferro.
2 buttafuoco (‘brochas’) di ferro per sparare le bombarde.
3 tinozze per il rame.
Un paio di mantici (‘fuelles’) grandi.
2 coxols (cojols) (?) per coxolar (cojolar) (?) forme di bombarda.
Anche se si tratta di quintali di libbra e non di chilo, un peso di circa 250 chilogrammi a
pietra per bombarde che a quel tempo non erano certo già di grosso calibro, ci sembra in
verità eccessivo e quindi riteniamo che sia stato mal riportato dal de Capmany.
156 picche di ferro con loro manici (‘aste di legno’), dal peso complessivo 1.202 di libbre, e
48 aste di riserva.
Dividendo il predetto peso per il numero di picche abbiamo un peso per picca di libbre 7,70,
il che, a differenza del peso precedente, appare realistico, im quanto non si trattava qui
delle lunghe picche di fanteria che a quel tempo non ancora erano entrate nell’uso.
Un peso esagerato per le ancora piccole bombarde del tempo; infatti ecco anche 2 sportoni
di sparto di corda di canapa intrecciata, para cargar y descargar piedras de bombarda xde
igualpesdo de las sobredichas. Sarebbe stato infatti impossibile trasportare pietre da 5
quintali di libbra in ceste di sparto
Siamo infatti ancora ai primordi dell’artiglieria, quando cioè con le bocche da fuoco si
sparavano non solo pietre ma anche dardi.
I mantelletti, cioè i ripari di legno dietro i quali si ponevano balestrieri, arcieri e bombardieri,
cioè tutti coloro che dovevano lanciare proiettili da fermo, erano rivestiti davanti da larghi
cuoi freschi per evitare che nemici li incendiassero lanciandovi dardi infocati.
Il de Capmany troverà poi in archivio anche una fornitura fatta in quel 1419 al maestro
maggiore dell’artiglieria (non spiega se del regno o della suddetta armata) di vari materiali
destinati a 20 galere, tra cui 20 fiamme (banderas partidas), 20 bandiere quadre con le armi
reali e altre 20 con quelle di Sicilia, tutte di stamigna, e inoltre un quantitativo di consimili
vessilli, pari però alla loro metà, e destinati invece a 10 galeotte (ib.)
Ecco poi anche alcune annotazioni di pagamenti fatti nel 1420 a vascelli da carico che
impiegati nell’ambito della predetta spedizione. A Simone Dorso, patrone di una tafureya di
Messina (dal gr. τό φορεῖον, ‘barella, portantina’; nome che non abbiamo più trovato altrove
e che doveva in origine essere quello di un vascello levantino corrispondente alla tarida
ponentina) si dettero 220 soldi barcellonesi per il nolo del detto vascello, il quale doveva
trasportare cavalli, pietre da bombarda e armi da Alghero alla Corsica. Il 10 settembre poi,
essendo tornato ad Alghero, gli si dettero ancora soldi 792 per un altro nolo, questa volta
per portare cavalli e gente d’armi dalla Sardegna alla Sicilia.
Gli stessi identici suddetti pagamenti ebbero altri tre patroni di tafureye messinesi,
Alessandro Pino, Martino Spatafora e Biagio Mazza, per portare carichi molto simili negli
stessi predetti viaggi in Corsica e poi in Sicilia; per simili noli, cioè per il trasporto di cavalli,
gente d’armi e pietre da bombarda, aggiuntivi talvolta anche viveri, furono fatti pagamenti
anche a due patroni di tafureye catanesi, Giovannino Reale e Pietro Maiale, e a nove patroni
di otto navi, cioè a Juan de Vallota, Antonio Cucello, Juan Bastér, Nicolao di Pisa, Gabriel
Esquius, Jayme Fábregas, Mateo Sarrovira e a Bernardo Lleopart con il suo socio Bernardo
Martí. L’unica differenza era che le navi, potendosi permettere carichi maggiori,
trasportavano spesso, oltre a cavalli, anche artiglierie da sbarcare.
Ancora nel predetto 1419 alle navi (‘vascelli tondi’) destinate a trasportare anche cavalli si
fornì il materiale per costruire staccionate, le quali dovevano certamente essere sotto
coperta perché altrimenti avrebbero troppo impacciato le manovre; si trattava di legno,
chiavagione e perni di ferro per delimitare e staccionare gli scomparti (estancias) della
stalla dei cavalli, abbondante canapaccio da stendere detrás de los caballos para que no se
pelen las colas; evidentemente il pelo delle code dei cavalli era considerato esteticamente
molto importante e quindi da salvaguardare. Si fornivano ancora molte pelli di giovane
asino per pulire gli animali, barili per l’acqua da porre loro davanti e quindi fornite nello
stesso numero dei predetti scomparti e quindi degli animali da portare. Infine, anche nello
stesso munero di quelli, delle fasce, non sappiamo però di quale materiale e per quale uso;
forse servivano per fasciare loro gli occhi, in modo da evitare che durante il viaggio
1125
C’erano poi 5 scale d’assalto preparate per la suddetta spedizione, le quali, fatte di legno di
pino, di olmo, di leccio e di cordami di canapa, si trasportavano in viaggio smontate in pezzi
e, una volta montate, si elevavano a mezzo di carrucole di bronzo e si trainavano su basi di
tavolato munite ognuna di 6 ruote di legno di pino, fino ad accostarne i sostegni anteriori
alle mura nemiche. Si trattava di grandi macchine di complessa fattura e infatti ognuna
portava un suo nome, come se si fosse trattato di grosse canne d’artiglieria:
C’è da aggiungere una scala piccola, detta de hurtar, cioè da scalata furtiva per depredare,
34 pezzi di scala per farne eventualmente delle altre; inoltre 40 mantelletti e anti-porta
armati di punte di ferro; 7 paia di rote per mantelletti e altri attrezzi e ricambi di legname.
Sempre leggemdo il de Capmany, torniamo ora alle forniture fatte alla già ricordata Reale
San Juan Bautista y San Juan Evangelis della squadra aragono-catalana di nove galee che
nel 1506 era in partenza per l’impresa di Napoli, galea le cui bocche da fuoco abbiamo già
descritto nel capitolo sulle artiglierie nautiche e che, oltre a quelle, ricevette di munizione in
quell’occasione anche le seguente altre armi:
Qui è’ necessario aggiungere qualche altra nostra spiegazione e cioè che le suddette 30
balestre sono quelle piccole individuali da fante balestriere e quindi basta caricarle a mezzo
di un gancio da trazione manuale, mentre le 8 grosse da trapassare, cioè da trapassare il
bersaglio per la loro grande forza di penetrazione, sono quelle da posta (‘da postazione’) e,
per caricare i loro grossi e robusti archi è necessario trarne la corda non a mano bensì con
un martinetto; queste inoltre poggiano su un carrettino usato a mo’ di affusto. Le ‘frecce’,
ossia i verrettoni o quadrelli per dette balestre, possono essere o di munizione, ossia di
ordinaria fornitura militare, oppure da prova, ossia con punta d’acciaio molto penetrativa,
alla quale non resistono nemmeno le armature più spesse, cioè quelle appunto ‘a prova’ di
penetrazione. I 100 pavesi sono quelli normali da formarne appunto impavesate, cioè
parapetti difensivi sulle fiancate del vascello, mentre gli 8 da barriera sono più grandi e
servono per farne a poppa un circolo difensivo attorno al gran capitano - o all’ammiraglio -
e al suo seguito.Le 24 tavolette di legno non sapremmo dire per cosa potevano servire, le
rotelle sono gli scudi rotondi piccoli (quelli grandi si chiamavano rondacci). Le 125 lance
‘manesche’, cioè da usare con una sola mano, sono di conseguenza corte e leggere, mentre
le 12 lunghe (delle semi-picche insomma) si usano pe gli scontri di prua, perché infatti
combattere dalla prua significa farlo a una distanza dal nemico maggiore di quella che si ha
quando si combatte per fianco. Le rajauelas (‘fenditrici’) appaiono essere un altro tipo di
lama astata ma non sapremmo descriverle; i dardi garbuces sono giavellotti che si lanciano
a mano. Alla Reale si fornivano inoltre:
- 4 timoni, di cui due a ruota (de rueda) e due a semplice barra (de caña e non de caxa, come
invece erroneamente interpreta il de Capmany).
- Una bussola (cst. brujula, brujola; cat. bruijula).
- 5 ancore dal peso totale di 2.525 libbre, tra le quali una di riserva.
- 3 vele e cioè un’artimone, fatta di 47 ferze (paños), una bastarda di 37 e una mesana di 22.
- 150 remi con 170 scalmi.
1127
- 8 bandiere quadre di lino dipinte con le armi reali. 4 stendardi di lino dipinti di verde
e viola con lo stemma del re. Una bandiera di lino con l’immagine di Sant’Jago e San
Giorgio. Una bandiera di lino, chiamata il tagliamare (el tajamar), con la croce di S. Giorgio.
Una una bandiera grande di seta, di raso carmesino (‘cremisi’), tutta dorata (sic) e con le
armi reali. Altra simile di lino dipinto con le armi reali.
- 122 catene per ferrare galeotti.
- 138 anelli di cavigliera
- 20 grilli (di ferro) con doppio anello e loro polsiere.
Dei 4 timoni ovviamente uno s’usava e gli altri si tenevano di riserva. Per quanto riguarda il
nome ‘bussola’, gli italiani credono che venga dal gra. πυξίς, ‘pisside, vasello, scatola di
legno di bosso’, essendo infatti l’aguglia direzionale racchiusa in una scatoletta di legno, e
gli spagnoli da parte loro avvalorano questa tesi credendo che il loro brujula - o anche
brujola - derivi appunto dall’italiano ‘bussola’ (Diccionario de la lengua castellana etc. Vol. I,
p. 692. Madrid, 1726); ma in linguistica le consonanti non s’inventano mai, tanto meno per
vezzo fonetico, e quindi quella ‘r’ dello sp. brujula deve venire da qualcosa di non italiano,
visto che nel vocabolo italiano essa non c’è. Considerando che la marineria mediterranea
spagnola è soprattutto di origine catalana, andiamo a vedere come si dice ‘bussola’ in
questa lingua e troviamo bruixula, vocabolo che ha tutta l’aria di aver subito un processo
metateco e infatti in quella lingua troviamo anche burxa, dal significato di mestolo, ma
anche di ‘bacchetta, stilo appuntito o ago’ (aguja o pincho, si dice nel suddetto
autorevolissimo dizionario); di conseguenza burxar significa anche ‘pungere, ferire di
punta’. Noi vediamo dunque bruixula derivato da burxa (‘ago’) e l’italiano ‘bussola’ derivato
o appunto dal cat. bruixula o dal cast. brujola, il che, se fosse confermato, metterebbe in
discussione anche l’italianità dell’invenzione della bussola, acclarato ormai, com’è noto,
che un inventore di nome Flavio (da) Gioia non è mai esistito.
Le tre vele non significano ovviamente che gli alberi fossero tre e infatti a quel tempo, come
abbiamo già spiegato, le galere, quelle grosse mercantili escluse, avevano ancora un solo
albero fisso, quello maestro, ed inoltre avevano un alberello mobile d’appoggio, detto ‘di
mezzana’; quello di trinchetto, comunque anch’esso mobile, ancora non c’era. La vela
artimone e la bastarda si usavano in alternativa sull’albero di maestra; la prima, più grande,
con i venti più deboli per intercettarne quindi il più possibile; il trinchetto, la più piccola,
s’usava invece per prendere poco vento, cioè quando questo era troppo forte e quindi
pericoloso per l’alberatura.
Ai 150 remi, numero da galea trireme, e ai 170 scalmi il de Capmany aggiunge 20 hastillas,
le quali però con i remi non dovrebbero aver avuto nulla a che fare, a meno che con esse
1128
non si intendessero i medesimi predetti 20 scalmi in più di rispetto, visto che gli scalmi non
sono infatti né più né meno che delle asticciole.
I vessilli in dotazione a questa galea Reale ci informano che lo stemma della Corona
d’Aragona era differente da quello della casata del Re; questo perché il primo era
ovviamente soggetto ad evoluzione politica, per esempio aveva dovuto sicuramente
accogliere anche quello del principato di Catalogna. La bandiera chiamata il Tagliamare
trovava probabilmente una giustificazione del suo nome ad una posizione prodiera.
I ceppi, in mancanza di immagini, non si possono descrivere; immaginiamo comunque, che
se le catene erano di numero un po’ inferiore a quello dei 150 remiganti vuol dire che alcuni
di loro, per esempio gli spallieri, non erano da incatenare; i 20 grilli da polso dovevano
servire a controllare i più cattivi, cioè per tenerli appunto ‘ai ferri’, come si diceva.
Tra le forniture fatte in generale alle nove galee comandate dalla Reale suddetta nella stessa
occasione il de Capmany, purtroppo un po’ alla rinfusa, elenca:
Qui ritorna la perplessità sulle pietre piccole alle quali abbiamo già più sopra accennato,
anche se, essendo ora in maggior numero, si può anche pensare, dati i tempi molto precoci,
più che a selci da usare per improbabili spari a mitraglia, a pietre manuali da lanciare sul
nemico dall’alto delle coffe e delle quali infatti a bordo delle galee medievali doveva essere
sempre abbondanza perché di giavellotti e dardi da lancio non se ne poteva portare in gran
1129
numero sia per il costo sia per la mancanza di spazio. Le faldette del corsaletto o
dell’armatura si chiamavano lasaynas (dall’it. lasagne) perché larghe e sottili come
l’omonima pasta di farina. L’arco da passata è ovviamente un arco da balestra e non un
arco propriamente detto. Di che forma fosse la lama della rajauela non sapremmo; ma
bisogna dire che tutte queste armi in asta medievali (chiaverine, romagnole, rajauelas,
falconi, ronconi ecc.) diventeranno poco più tardi obsolete per aver lasciato il loro posto
alle alabarde.
Il de Capmany cita poi altri interessanti documenti e cioè quelli che ricordano la costruzione
delle 50 galee fatta a Barcellona per le imprese che nel 1528 l’imperatore Carlo V si propose
di compiere in Italia e in Tunisia; di queste solo 10 potettero essere costruite al coperto
perché 10 erano i volti di quell’arsenale; ecco i nomi delle prime 20:
1. La Santa Trinidad.
2. San Francisco y Santa Clara.
3. Nuestra Señora de Loreto.
4. San Onofre y Santa Tecla.
5. San Jorge.
6. San Gerónimo.
7. Santa Paula.
8. Galera de Tortosa ‘San Luis’.
9. Nuestra Señora de Monserrate.
10. Santa Eulalia y San Telmo.
11. San Martín.
12. Galera de Tortosa ‘Santa Tecla’.
13. San Antonio de Padua.
14. Galera de Tortosa ‘Santa Ana’.
15. Nuestra Señora de la Pietad.
16. La Asunción de la Virgen.
17. Galera de Tortosa ‘La Marieta’.
18. San Vicente.
19. La Conceptión.
20. Nuestra Señora del Puig de la Neu.
Non riporteremo qui anche i nomi dei capitani delle predette galere perché tutti di famiglie
spagnole o catalane e quindi di poco interesse per lo studio delll’antroponimia italiana;
diremo solo che la prima, la Santa Trinidad, varata nel 1529, era la Reale e infatti era
1130
comandata dal capitano generale della squadra Rodrigo Portundo; si trattava di una trireme
da 150 remi sensigli, come presto vedemo. Il de Capmany non trova purtroppo le artiglierie
fornite a questo vascello e la circostanza che tra le armi vediamo ancora elencate 19 trombe
di fuoco alla vecchia maniera non significa che questa galea non avesse artiglierie; infatti,
da altri documenti citati dal predetto autore e che commenteremo di seguito, si evince
chiaramente che a quel tempo le galee aragono-catalane già avevano a prua sia il grosso
cannone di corsia sia bocche minori; ma ecco gli altri armamenti forniti:
- 114 pavesi dipinti di bianco, giallo e rosso, più 16 con le armi reali.
- 20 rotelle nere con due contorni d’oro, più 16 verdi.
- 12 balestriere di legno di pioppo guarnite (guarnecidas).
- 20 corsaletti bianchi, con loro bracciali sinistri, e 20 celate.
- 6 corazze guarnite, passate a vernice e imbottite.
- 60 lance manesche.
- 60 picche.
- 24 chiaverine e romagnole.
- 96 dardi.
- 240 saette.
- 24 zagaglie (‘gorguces’).
- 12 alabarde.
- 50 archibugi e 10 scoppietti.
- 1 quintale (di libbra) di polvere per detti archibugi.
- 115 libbre di piombo per farne pallottole per i detti archibugi.
- 24 quintali di polvere da artiglieria.
- 19 trombe di fuoco.
- 724 vasi (ollas) di argilla per farne fiaschi.
- 810 libbre di zolfo.
- 15 libbre di pece greca.
- 12 libbre di olio di lino.
- Una ‘bandiera grande’ da poppa, ossia uno stendardo, con le armi del re, 12 bandiere
quadre di tela dipinta con le armi reali, 3 gagliardetti con lo stemma (divisa) del re, una
‘bandiera d’insegna’, cioè quella che contraddistingueva il vascello di comando, per l’albero
di maestra, una bandiera ‘di tagliamare’, cioè per l’estrema prua, con la croce di S. Giorgio.
- Una tenda d’albagio di ferze nere e grigie e un’altra tutta verde; un tendale d’albagio di
ferze nere e bianche, un tendaletto di ‘tela genovese’ (‘cotonina’) di ferze bianche, rosse e
gialle; tappezzerie e parabande (‘impavesate’) di panno giallo, rosso e bianco. Un parasole
(‘tendaletto’) e bonetta (‘aggiunta’) di tela genovese degli stessi predetti tre colori.
- 4 ancore di 5 quintali (di libbra) cadauna e un rampino (rezon; it. rezone, ‘ancora a
grappini’) di 6 quintali.
- 150 remi, 52 in servizio e gli altri di riserva.
- 150 coperte di lana.
- 48 gioghi di catene di 3 ramali e 7 grilli (‘ceppi per piedi’) doppi.
- 24 botti da 4 some e 150 barili per acqua.
- Un forno per cuocere il pane.
- Un mulino di pietra con due mole.
La tenda a fasce nere e grigie era sicuramente quella invernale, trattandosi di colori non atti
a impedire il passaggio del calore dei raggi solari, mentre il color verde per quella estiva era
evidentemente allora considerato utile a rifletterlo. Le pietre da mola si importavano
perlopiù dall’isola greca di Melos.
La circostanza che solo 52 dei 150 remi forniti erano da istallarsi immediatamente, mentre
gli altri erano da tenersi di riserva, non significa che la galera fosse spinta solo da 52 remi,
ma significa invece che, pur essendo la fornitura intesa anche per un eventuale cambio
totale del remeggio, ne era già stata consegnata una precedente fornitura e che al momento
solo 52 erano quelli mancanti; tutto ciò naturalmente sempre che il de Capmany non abbia
mal interpretato i dati che ne lesse negli antichi documenti. Comunque, che i remiganti
fossero 150 è ben confermato poi dalle 150 coperte di lana e dai 150 barilotti d’acqua forniti.
In verità, se si consideraro i gioghi di catene da tre ramali, questi non sono per 50 banchi
ma per 48; il che però non significa necessariamente che questo fosse il numero dei banchi,
ma, a nostro avviso, si può invece per esempio intendere, come del resto abbiamo già
detto, che i primi due banchi di poppa, cioè quelli dove sedevano i più fidati remiganti
spallieri, fossero mantenuti esenti da catene.
Nel 1530 sei galee costruite a Palamós furono trasferite a Barcellona sotto il comando
di Diego Mexía e messe nella disponibilità di Alvaro de Bazán, capitano generale
delle galere di Spagna; i loro nomi erano i seguenti:
Tre anni più tardi, nell’ambito dei preparativi per la futura impresa di Tunisi,
all’armata di galere si fornisce il seguente materiale sia dall’arsenale di Barcellona
sia dallo smantellamento della galera Santa Catalina, il cui scafo si è aperto e quindi,
in attesa delle necessarie lunghe riparazioni da effettuarsi, è da considerarsi
inservibile:
- 60 rotelle.
- 20 corsaletti.
- 50 dozzine di picche di faggio.
- 30 quintali di sartiame.
- 120 pavesi usati.
- 25 dozzine di gavette e vernicali.
- 2 dozzine di aste di picche di faggio per bandiere e un albero di mezzana.
La differenza tra gavette e vernicali consisteva forse soprattutto nel manico che le prime
probabilmente avevano per facilitarne il trasporto, manico che invece ai secondi,
consumando i remiganti il loro pasto incatenati ai loro banchi, doveva mancare. La gavetta
era di legno duro, non poroso, mentre tutte le altre stoviglie erano di stagno. Dalla predetta
Santa Catalina in disarmo poi si prendevano:
- Il cannone di prua.
- I due versi di prua, i versichi di poppa (sic) e due mezzi cannoni.
- La tenda di albagio.
- 130 remi.
- L’albero con le antenne.
- Le balestriere.
- L’impavesata.
- I due timoni di ruota.
Questi vocaboli versi e versichi, ad indicare piccole canne del primo genere d’artiglieria,
cioè di quello detto delle colubrine, non si ripetono in altri documenti del periodo e doveva
dunque trattarsi di forme particolari dell’artiglieria catalana di allora; possiamo solo pensare
che i primi, trovandosi a prua, potevano forse essere come dei falconi posti ai fianchi del
grosso cannone, mentre i secondi, più piccoli e situati a poppa, cioè in un luogo dove il
limitato spazio era riservato alla gente di comando e ai timonieri, potevano forse anche
essere piccoli pezzi da forcella girevole posti sull’impavesata laterale. I 130 remi poi non
significano che la galea in disarmo ne usasse solo tanti, ma che, dei consueti 150 in uso
nelle triremi, solo tanti ne risultavano ancora utilizzabili. L’impavesata infine non era
l’insieme dei pavesi ma il recinto di parapetto al quale essi si appoggiavano. Infine, la
1133
ciurma, ossia l’insieme dei remiganti, della galea da riparare, sarebbe stata distribuita nelle
altre galee della squadra a seconda delle esigenze di ciascuna.
Dopo Antonio de Capmany sarà principalmente il religioso italiano Alberto Guglielmotti a
pubblicare storie e documenti relativi alla guerra con le galere condotta dalla marina
pontificia a partire già dall’Alto Medioevo. Ecco, proprio come trascritto dal Guglielmotti,
l’inventario della galera Capitana fatto il 16 aprile 1534 all’atto della sua consegna, assieme
a quella di altre due e di un brigantino, al capitano generale della squadra pontificia fra’
Bernardo Salviati, priore a Roma dell’Ordine Gerosolimitano; ne commenteremo ora il
materiale bellico e quello per la voga a conferma e implemento di quanto già sappiamo:
- Il corpo della galea fornita, con suoi banchi, pedagne, balestriere e battagliole.
- Item dodici catene di ferro per fornimento della sartia.
- Item due timoni forniti con loro aggiacci, aguglie e feminelle
- Item uno schifo con sua catena, e tre paja di remi.
- Item un fanale dorato.
- Item l'albero della galèa et antenna, fornito di sartia e taglie; e bronzi per imbronzare il
calcese e le taglie, come si usa.
- Item allre taglie, pasteche di schifo e da arborare et alcune di rispetto.
- Item remi pel fornimento di una galèa et di rispetto, in tutto centosellanta. (Da questo
numro di remi si evince che trattasi ovviamente di una trireme).
- Item piombo per impiombare il palamento et altre cose necessarie alla galèa, cantari nove
e un terzo.
Si tratta principalmente del piombo per controbilanciare il maggior peso di quella parte del
remo che fuoriesce dalla fiancata.
- Item catene pei forzati interziate, coi loro perni e chiavelte, quarantanove.
Le catene sono interziate, cioè ognuna ha tre ramali, perché tre sono i vogatori che al
massimo possono esser presenti su ogni banco.
- Item per la cucina della galèa, una caldaja grande, una mezzana, una terza ed otto
calderotti piccoli.
- Item padelle tre et spiedi quattro .
- Item due ronzoni (‘rezoni’) di ferro per sorgere.
Qui non c’entra nulla la ‘stipa’ nel senso di brusca o scopa, come erroneamente pensava il
Guglielmotti, trattandosi invece di stipa nel senso di ‘stiva’. La manichetta di cuoio serviva
infatti, come abbiamo già spiegato, per travasare acqua o vino da barili posti lungo una
fiancata della galera ad altre situate alla fiancata opposta, perché a volte era sufficiente far
questo per ottenere la stiva, ossia il riequlibrio, di quel leggero vascello.
Siamo nel 1534 ma ancora si usano i pavesi per farne delle impavesate laterali difensive.
Anche qui per stipa s’intende acqua e vino stivati e non brusca, anche perché per
conservare questa certo non c’era bisogno di tenere impegnate delle botti.
- IL VELAME.
- Un artimone guernito co’suoi mattaffioni e cordini.
- Un bastardo guernito, come sopra.
- Una borda guernita, come di sopra.
1135
- LE TENDE.
- Una tenda di albagio.
- Una tenda di canavaccio.
- Un tendale di albagio.
- Un tendale di cotonina.
- Due bussole da navigare.
SARTIAME.
- Cinque gomene.
- Due gomenette.
- Un prodàno, et una vetta di prodáno.
- Le vette da ghindare.
- Le oste della galera.
- Le orze a poppa e l'orza novella.
- Un pajo di amanti.
- Due scotte.
- Due palmare.
- Una grippia da collo.
- Una vetta da arborare.
- Una barbetta per lo schifo.
- Un provese.
- Una quarnaletta.
- Gli stroppi con che voga il palamento.
- L'ARTIGLIERIA .
- Un cannone serpentino per la prua della galèa col suo ceppo ferrato.
- Due mezzi cannoni serpentini per la prua, coi loro ceppi ferrati
Cannoni serpentini fu, come già sappiamo, il primo nome che si dette ai cannoni ferrieri,
cioè a quelli che sparavano palle di ferro, per distinguerli così dalle vecchie bombarde
petrarie, ossia a proiettili di pietra. Per ceppo ferrato s’intende l’affusto di sostegno di legno
con le sue necessarie guarnizioni di ferro.
Mentre i due quarti cannoni erano posti a prua alle bande, cioè ai fianchi, della bocca da
fuoco principale, i due smerigli grandi, essendo per la zona delle bitte, erano più arretrati,
cioè lateralmente all’inizio del tavolato di prua; i quattro smerigli piccoli erano invece
distribuiti sulle bande, qui nel senso di fiancate, e istallati su forcelle girevoli.
1136
- Lo inventario di sopra scritto è tutto della galea capitana e così delle altre due galèe,
riservato il fanale et le caldaje di pece.
- Et più il bucio (‘lo scafo’; sp. buque) del brigantino co'suoi banchi.
- Item albero et antenna guernito di sartia e taglie.
- Item remi trentadue.
- Item una vela guernila.
- Item un ferro (‘un’ancora’) per sorgere (‘dar fondo’).
- Item un cavetto e due provesi .
Si trattava in effetti di un brigantino classico, cioè di 16 banchi per lato e con un solo albero.
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1153
INDICE.
Abbreviazioni. P. 2.
Prefazione. 3.
Cap. I : Vascelli tondi e vascelli latini. 10.
Cap. II: La partecipazione mercantile dei genovesi all’ottava
crociata. 47.
Cap. III: Dal Medioevo all’Età Moderna. 58.
Cap. IV: L’equipaggio. 87.
Cap. V: I viaggiatori. 117.
Cap. VI: I vascelli remieri. 124.
Cap. VII: La gente di remo. 355.
Cap. VIII: La gente di capo. 501.
Cap. IX: La gente di poppa. 562.
Cap. X: La gente di spada. 607.
Cap. XI: La gente di passaggio. 645.
Cap. XII: Ufficiali maggiori e ufficiali generali. 669.
Cap. XIII: Squadre del Mar Tirreno. 757.
Cap. XIV: Arsenali del Mediterraneo. 812.
Cap. XV: Le forniture e gli armamenti leggeri. 879.
Cap. XVI: L’artiglieria nautica. 884.
Cap. XVII: La partecipazione napoletana all’Invencible Armada. 925.
Cap. XVIII: La guerra. 940.
Cap. XIX: Dopo la vittoria. 1.104.
Cap. XX: Galee catalane e pontifice del Basso Medioevo e del
Rinascimento. 1.115.
Fonti. 1.137.
Indice. 1.154.