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1.DISPENSA Teologia 1 AA. 15-16

Il documento introduce l'argomento della teologia fondamentale e della rivelazione di Dio. Viene discussa la rivelazione divina, Gesù di Nazareth come rivelazione definitiva di Dio, i vangeli come fonte storica su Gesù e il messaggio centrale del Regno di Dio annunciato da Gesù.

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Introduzione alla Teologia

e Questioni di Teologia
Fondamentale

DISPENSE
Prof.ssa RITA PELLEGRINI

Anno Accademico 2015-16


Ad esclusivo uso personale degli studenti frequentanti – riproduzione vietata
INDICE

I PARTE- LA FEDE CRISTIANA COME RISPOSTA ALLA RIVELAZIONE DI DIO p. 5

1. LA RIVELAZIONE DI DIO (DEI VERBUM) p. 6


A. LA STORIA DELLA SALVEZZA: DIO PARLA AGLI UOMINI COME AD AMICI (DV 2-4)
1. La Rivelazione è un atto libero e gratuito
2. La Rivelazione ha un carattere personale (dialogo di amicizia)
3. La Rivelazione ha un carattere storico-salvifico (Dio rivela se stesso in eventi e parole)
4. La Rivelazione ha un carattere cristocentrico (Dio rivela se stesso definitivamente in Gesù Cristo)
B. LA RIVELAZIONE NATURALE COSMICA (DV 3)
1. Dio si rivela attraverso la creazione
2. Dio parla all’uomo attraverso la coscienza
C. ACCOGLIENZA DELLA RIVELAZIONE (DV5): Tradizione viva della Chiesa e Sacra Scrittura
D. RAPPORTO TRA FEDE E CONOSCENZA RAZIONALE (DV 6)
E. LA TRASMISSIONE DELLA DIVINA RIVELAZIONE (DV 7)

II PARTE - GESU’ DI NAZARET RIVELAZIONE DEFINITIVA DELLA VERITA’ DI DIO p. 23

2. CHE COSA DICONO DI GESÙ DI NAZARET? (LEGGERE) p. 24


 Cosa dicono di Gesù di Nazaret?
 I molti volti di Gesù di Nazareth:
l’immagine ebrea – l’immagine laico-umanistica – marxista - antiborghese –
degli psicologi - della nuova religiosità
 I limiti delle immagini di Gesù
 L’immagine di Gesù trasmessa dalla chiesa

 Leggere F. Ardusso: capitoli 1. 2. 3. (pp. 11-52)

3. LE FONTI STORICHE SU GESÙ DI NAZARETH (LEGGERE) p. 24

1. FONTI NON CRISTIANE


 FONTI GIUDAICHE
Giuseppe Flavio (93dC.): “Antichità giudaiche” ( Testimonium Flavianum)
 FONTI ELLENISTICO ROMANE
- Tacito (115-117 dC.): “Annali”
- Svetonio (120 dC.): “Vita Cesari”
- Plinio il Giovane (111-113 dC.)

2. FONTI CRISTIANE (NUOVO TESTAMENTO)


 LETTERE DI S. PAOLO - LETTERE CATTOLICHE

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 1


4. I VANGELI p. 28

A. CHE COSA È IL VANGELO? CHE COSA SONO I VANGELI?


B. FORMAZIONE DEI VANGELI
 Le tre tappe: l’evento Gesù Cristo; la predicazione apostolica; la redazione dei vangeli
 Vangeli canonici e vangeli apocrifi
C. L’AUTENTICITÀ STORICA DEI VANGELI:
 Approcci fondati sui criteri di storicità: criterio della molteplice attestazione o molteplice
testimonianza; criterio della discontinuità o differenza; criterio della continuità o coerenza.
 Approccio fondato sulla spiegazione sufficiente
 Approccio fondato sulla testimonianza: comunità tradizionale; comunità gerarchica; comunità
testimoniale
D. LA TEOLOGIA DEI VANGELI :
 Il vangelo di Marco
 Il vangelo di Matteo;
 Il vangelo di Luca;
 il vangelo di Giovanni

 P. Tremolada, «Da Gesù ai Vangeli» in, F. Manzi, Assaggi biblici, studiare (cap. 1,2,3) pp. 141-153; e solo
due vangeli (obbligatorio per tutti: vangelo di Marco): «Il vangelo di Matteo» pp. 154-164; « Il vangelo di
Marco» pp. 165-176;; «il vangelo di Luca» pp. 177-188; Il vangelo Giovanni» pp. 189-200.

5. IL MESSAGGIO DI GESÙ: IL REGNO DI DIO p. 59

A. IL REGNO DI DIO – LE ESIGENZE DEL REGNO DI DIO


 Studiare Dispensa (PPD) (Cf F. Ardusso: capitoli 5-6. pp. 73-93).

B. L’ANNUNCIO DEL REGNO ATTRAVERSO LE PARABOLE:


Perché Gesù parlava in parabole:
 La parabola descrive dei comportamenti
 La parabola ha una funzione dialogico-argomentativa (il meccanismo linguistico della parabola)
 La parabola ha lo scopo di rivelare
 Studiare Dispensa (PPD)

C. SPIEGAZIONE DI ALCUNE PARABOLE:


 Le parabole del seme (Mc 4)
 Il samaritano (Lc 10,25-37)
 Le tre parabole della misericordia (Lc 15,1-32): in particolare studiare la parabola del Padre
misericordioso e i due figli (Lc 15,11-31)

6. L’ANNUNCIO DEL REGNO ATTRAVERSO LE OPERE p. 89


A. I MIRACOLI
 La testimonianza evangelica sui miracoli
 La storicità dei miracoli evangelici
 Il significato dei miracoli compiuti da Gesù

 (Leggere: F. Ardusso: capitolo 7 - I miracoli di Gesù. pp. 94-106).


R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 2
B. CHI È GESÙ DI NAZARET?
 Gesù accampò delle pretese straordinarie nel proporre il suo messaggio a nome di Dio
 Gesù manifestò tramite il suo agire, di essere il Salvatore inviato da Dio
 Gesù ebbe con il Padre una relazione filiale unica ed incomparabile

 Studiare F. Ardusso, capitolo 8: Chi è Gesù di Nazaret? pp. 107-121

7. IL MISTERO PASQUALE p. 95
A. CROCE E RISURREZIONE
 Il significato della morte in croce di Gesù
 Se Gesù non fosse risorto
 Le negazioni della risurrezione di Gesù
 La risurrezione nel Nuovo Testamento (professioni di fede/inni; kerigma o predicazione missionaria;
le narrazioni evangeliche: racconti sulla scoperta del sepolcro vuoto; racconti delle apparizioni)
 Il linguaggio delle testimonianze bibliche sulla risurrezione

B. IL SIGNIFICATO DELLA RISURREZIONE DI GESÙ

 Leggere F. Ardusso: fine capitolo 9 : Considerazioni conclusive, pp. 138-142;


e capitoli 10-11 La risurrezione di Gesù pp. 143-169.

III PARTE - APPROFONDIMENTI p. 106

8. LA BIBBIA O SACRA SCRITTURA p. 107


A. IL LIBRO DELLA BIBBIA
B. IL SIGNIFICATO DEI TERMINI
C. LE LINGUE DELLA BIBBIA
D. LA BIBBIA DEGLI EBREI - DEI CRISTIANI CATTOLICI – DEI CRISTIANI PROTESTANTI
E. LA BIBBIA EBRAICA (O TANAK)
F. LA BIBBIA CRISTIANA CATTOLICA: Messaggio Teologico dell’ Antico Testamento e del Nuovo Testamento

9. L’ISPIRAZIONE E LA VERITA’ DELLA SACRA SCRITTURA p. 125


A. L’ISPIRAZIONE DELLA SACRA SCRITURA (DV 11a)
1. La Sacra Scrittura è un libro scritto sotto l’ ispirazione dello Spirito Santo
2. Gli autori sono veri autori
3. La realtà divino-umana della Sacra Scrittura

B. LA VERITÀ DELLA SACRA SCRITURA (DV 11b): BREVE STORIA DEL PROBLEMA
1. PERIODO DOGMATICO (sec. I-XVI): fiducia nella verità della Bibbia (S. Giustino, Origene, S. Agostino,
S.Tommaso)
2. PERIODO APOLOGETICO (sec. XVII-XIX) epoca moderna-nascita della scienza:
crisi del concetto della «verità» biblica: caso Galileo Galilei (1564-1642)
3. PERIODO ERMENEUTICO (sec. XX) Concilio Vaticano II – DV 11
DV 11 «I libri della Sacra Scrittura insegnano fedelmente e senza errore la Verità …
in ordine alla nostra salvezza».

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 3


10. L’INTERPRETAZIONE DELLA SACRA SCRITTURA p. 135
A. BREVE STORIA DELL’ERMENEUTICA BIBLICA
1.EPOCA PATRISTICA (I-VIII sec.)
→ si privilegia una esegesi spirituale allegorica e simbolica (Origene; S. Agostino)
2.EPOCA MEDIEVALE (IX-XVI sec.)
→ si privilegia una esegesi dogmatica per dare fondamento sicuro alla dottrina della fede:
la Bibbia è usata per dimostrare posizioni filosofiche e teologiche.
3.EPOCA MODERNA (XVI-XIX sec.): Due eventi importanti:
Scisma protestante: Lutero (“sola Scriptura”)
Sviluppo delle scienze (razionalismo) – nasce lo studio scientifico della Bibbia
→ la chiesa si oppone all’esegesi scientifica perché in quel tempo era influenzata dal razionalismo che
nega a priori ogni evento soprannaturale della Bibbia
→ conseguenze: Bibbia limitata al clero per timore di letture scorrette.

4.EPOCA CONTEMPORANEA (XX. sec)


→ Interventi del magistero che promuovono lo studio scientifico della BIBBIA liberato, dal presupposto
razionalista: Provvidentissimus Deus (Leone XIII) → Divino Afflante Spiritu (Pio XII) → DEI VERBUM (Conc.
Vaticano II)
→ Fioritura dello studio scientifico della Bibbia in ambito cattolico; Bibbia riconsegnata al popolo di Dio;
Sì allo studio scientifico della Bibbia come opera letteraria

B. ITINERARIO ERMENEUTICO PROPOSTO DALLA DEI VERBUM (n. 12)


1. LA RICERCA DEL SENSO LETTERALE DELLE SCRITTURE (capire quello che il testo vuole dire):
→ Sì ai metodi scientifici (es. metodo storico-critico e nuovi metodi di analisi letteraria): i risultati di
questi studi sono per tutto il popolo di Dio
→ Importanza della conoscenza dei «generi letterari» della Bibbia
2. LA RICERCA DEL SENSO SPIRITUALE DELLE SCRITTURE per incontrare la Rivelazione di Dio:
→ Leggere la Bibbia con fede cioè con l’aiuto dello Spirito Santo, perché la Bibbia è Parola di Dio.
→ I tre criteri per cogliere il messaggio divino: unità della Scrittura; tradizione della Chiesa; analogia
della fede.
C. I SOGGETTI IMPEGNATI NELL’ERMENEUTICA
→ Gli esegeti; il magistero; il popolo di Dio

11. LA SACRA SCRITTURA NELLA VITA DELLA CHIESA (Dv 12) p. 146
A. La Sacra Scrittura è degna della stessa venerazione che la Chiesa attribuisce al Corpo di Cristo (Eucaristia).
B. La Sacra Scrittura insieme alla tradizione viva della Chiesa costituisce la regola suprema della fede.
C. La Sacra Scritture ha una dimensione sacramentale, ha cioè la forza, se accolta con fede, di trasformare il
cuore dell’uomo.

Es) La Lectio Divina: Lectio, Meditatio, Oratio, Contemplatio

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 4


I PARTE
LA FEDE CRISTIANA COME
RISPOSTA ALLA
RIVELAZIONE DI DIO

VEn avrch/| h=n o` lo,goj(


kai. o` lo,goj h=n pro.j to.n qeo,n(
kai. qeo.j h=n o` lo,gojÅ
ou-toj h=n evn avrch/| pro.j to.n qeo,nÅ
pa,nta diV auvtou/ evge,neto(
kai. cwri.j auvtou/ evge,neto ouvde. e[nÅ
o] ge,gonen evn auvtw/| zwh. h=n(
kai. h` zwh. h=n to. fw/j tw/n avnqrw,pwn\
kai. to. fw/j evn th/| skoti,a| fai,nei(
kai. h` skoti,a auvto. ouv kate,labenÅ (Gv 1,1-5)

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 5


1. LA RIVELAZIONE DI DIO (DEI VERBUM Cap. I)

→ Cosa si intende per Rivelazione?


→ Come avviene la rivelazione di Dio?

PREMESSA

Il primo grande argomento del nostro corso, la «Rivelazione di Dio», è anche il primo grande tema della
Teologia Fondamentale che si domanda come si debba intendere la “Rivelazione di Dio” nella religione
cristiana. La prima cosa importante da dire è che il Cristianesimo è una “religione rivelata”, cioè una
religione nata a partire da una rivelazione divina: i cristiani adorano un Dio che si è fatto conoscere. Da
quando è nata la Chiesa, la Teologia si è interrogata su come è avvenuta questa Rivelazione, per capire in
tutta la sua portata questo dono ricevuto da Dio. E’ importante tener presente che tutta la riflessione
teologica parte dalla certezza che questa Rivelazione di Dio è realmente avvenuta, Dio ha parlato! So bene
che questa convinzione non è accettata da molti nostri contemporanei, che vivendo in questa epoca della
post-modernità pensano ormai superata la «questione di Dio». Ma questa posizione più che nascere da una
profonda convinzione poggia frequentemente su una non conoscenza del cristianesimo. Da qui la necessità
di porre delle domande fondamentali che possono certamente interessare chi crede, ma anche stimolare
chi non crede: «Che cosa si intende per «Rivelazione» nell’esperienza cristiana?», «Quando è avvenuta?»,
«Qual è il suo contenuto?», «Come si può conoscere e trasmettere oggi?», «Perché è importante per i
cristiani saper leggere correttamente la Sacra Scrittura?».

UNA FONTE AUTOREVOLE: LA DEI VERBUM

La fonte più autorevole per trovare un’adeguata risposta è il documento della “Dei Verbum”, cioè la
Costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione emanata dal Concilio Vaticano II, l’ultimo Concilio della
storia, svoltosi negli anni 1962-65. Si tratta di un documento del Magistero della Chiesa che ha valore
normativo per tutti i credenti, ciò vuol dire che è un punto di riferimento assolutamente necessario, perché
proclama il primato della Parola di Dio ed esorta le comunità ecclesiali a mettere al centro del proprio
cammino e del proprio impegno un ascolto sapiente e spirituale della Parola di Dio. Come tutti i Documenti
Magisteriali è scritta in latino ma è stata poi tradotta in tutte le lingue. Il titolo è dato dalle prime parole con
cui inizia: Dei Verbum = Parola di Dio (DV).

Il testo conciliare è interamente dedicato alla Parola di Dio, che non riguarda però solo le Sacre Scritture.
Spesso noi identifichiamo l’espressione “Parola di Dio” subito e solo con la Bibbia, ma il concetto è ben più
ampio.
“Parola di Dio” è originariamente la rivelazione storica e personale del Dio vivente avvenuta nella storia
d’Israele; Parola di Dio è la luce del Verbo che brilla nella creazione e illumina ogni uomo (Gv 1,5.9); Parola
di Dio è il Signore Gesù, il Verbo fatto carne. Parola di Dio è la predicazione della Chiesa apostolica, la cui
voce continua ancora oggi a risuonare nella tradizione viva della Chiesa; Parola di Dio è la Sacra Scrittura
che attesta in forma scritta, canonica, l’evento della Rivelazione creatrice e salvatrice di Dio.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 6


La Dei Verbum, come vedremo non inizia parlando del testo dalla Bibbia, ma parte dalla Rivelazione di Dio,
dal suo parlare all’uomo, dalla relazione amicale che Dio stringe con lui, nel susseguirsi della storia, dal suo
inizio, fino al suo compimento, nell’evento del Signore Gesù. Mostra poi come questa rivelazione si
trasmette alle generazioni successive, grazie alla tradizione viva della chiesa, che ci consegna il testo scritto
della Sacra Scrittura, che correttamente letto ed interpretato, con la forza dello Spirito, dentro la stessa
comunità ecclesiale che lo ha generato, permette di incontrare e di vivere la comunione con il Dio vivente.
La “Parola di Dio” dunque eccede e precede la stessa Bibbia, che pure contiene la Parola divina, parola
efficace (cf. 2Tim 3,16), capace di cambiare il cuore dell’uomo, in quanto ispirata da Dio.

Il Concilio Vaticano II, in questo documento, affronta e riformula in modo innovativo rispetto alla
tradizione precedente, temi di carattere insieme dottrinale, metodologico e pastorale di grande spessore.

- Tratta in modo nuovo il tema della divina rivelazione e della fede come risposta dell’uomo a tale
rivelazione ( cap I).
- Presenta le modalità della sua trasmissione affrontando con un linguaggio non più apologetico il
rapporto tra la Scrittura e la Tradizione viva della chiesa, mettendone in evidenza la circolarità e
l’unità (cap. II).
- Riafferma l’ispirazione della Sacra Scrittura per mostrarne il suo statuto speciale come “Parola di
Dio” e per meglio istruire sul rapporto tra autore divino e autori umani.
Chiarisce, di conseguenza, in cosa consiste la “verità del testo biblico” mostrando che questa non è
compromessa da possibili errori o discordanze che possono essere presenti nella Bibbia, come
invece si riteneva in passato, quando si affermava l’inerranza della Bibbia (cioè che nel testo sacro
non ci potevano essere errori!).
Dà indicazioni sulla corretta interpretazione del testo biblico, tenendo conto della sua realtà
umano-divina e acconsente all’applicazione dei metodi esegetici (in particolare il metodo storico-
critico) che in passato era stato respinto e visto con sospetto (cap. III).
- Riscopre il valore dell’AT che per molti secoli era stato assente come elemento costitutivo della
teologia ed aveva avuto un posto secondario nella vita della chiesa (cap. IV).
- Sottolinea la centralità del NT mostrando l’eccellenza del Vangeli e il loro valore storico. Pone in
evidenza l’unità tra i due Testamenti (cap. V).
- Soprattutto, mette in luce, la centralità della Sacra Scrittura nella vita della Chiesa: il suo ruolo
nella liturgia, nella predicazione, nella teologia e nella vita religiosa dei cristiani (cap. VI).

SCHEMA DELLA DEI VERBUM

Capitolo I La rivelazione di Dio e la fede. nn. 2-6


Capitolo II La trasmissione della divina nn. 7-10
Rivelazione
Capitolo III - L’ispirazione divina nn. 11-13
- Verità
- Interpretazione
→ della Sacra Scrittura
Capitolo IV L’Antico Testamento nn. 14-16
Capitolo V Il Nuovo Testamento nn. 17-20
Capitolo VI La Sacra Scrittura nella vita della nn. 21-26
Chiesa

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 7


Lo scopo che ci proponiamo in questo corso non è quello di presentare il documento nella sua interezza,
ma solo quelle parti, che permettono una comprensione del tema della Rivelazione di Dio nella religione
cristiana.

A. LA STORIA DELLA SALVEZZA: DIO PARLA AGLI UOMINI COME AD AMICI (DV N. 2)

Al primo capitolo la Dei Verbum parla della Divina Rivelazione. La prima grande novità è data dal modo con il
quale essa viene presentata. Il linguaggio è sorprendente perché la chiesa si trova a parlare della Rivelazione
di Dio all’uomo in prospettiva personalistica e cristologica e non più intellettualistica, (come era avvenuto
nella Dei Filius del Concilio Vaticano I)1. Usando il linguaggio biblico, la Dei Verbum, presenta la Rivelazione
divina come un atto di amore gratuito da parte Dio, come il comunicarsi di Dio stesso all’uomo. La
rivelazione avviene dentro l’esperienza di una relazione amicale con Dio, dunque è un evento, una relazione
d’amore, è non può essere ridotta ad una verità concettuale da credere. Vorrei richiamare alcuni passi del
testo per metterne in luce la profondità teologica che esprimono. Al n. 2 il documento presentata
dettagliatamente le caratteristiche principali della Rivelazione: afferma che la Rivelazione è un atto libero e
gratuito di Dio; ha un carattere personale, ha un carattere storico-salvifico, ha un carattere cristocentrico.

1.LA RIVELAZIONE E’ UN ATTO LIBERO E GRATUITO DI DIO

DV 2a. «Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona e manifestare il mistero della sua volontà (cfr. Ef
1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e
sono resi partecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18; 2 Pt 1,4).

Il Concilio con quel - piacque a Dio - sottolinea l’iniziativa di Dio che si compiace di rivelare se stesso
parlando all’uomo ed entrando con lui in un rapporto di profonda amicizia. Al punto di partenza c’è un
interesse di Dio rivolto all’uomo, così vivo che suscita una sua parola. Dio nella sua bontà e sapienza, cioè a
motivo cioè del suo amore immenso per l’intera umanità, rivela progressivamente il mistero/segreto della
sua persona, che trova la sua piena manifestazione nel Signore Gesù. Il termine «mistero» non va inteso in
senso filosofico o razionalistico come qualcosa di incomprensibile. Nella Bibbia il termine «mistero» riferito
a Dio evoca piuttosto un «segreto». Dio aveva un segreto che l’uomo non poteva conoscere, ma nel
momento in cui incomincia a svelarlo, diventa a lui conoscibile anche se non lo potrà mai esaurire. Perché
Dio si rivela? Qual è lo scopo della sua Rivelazione?
Dio si rivela perché «gli uomini… abbiano accesso al Padre… e siano resi partecipi della natura divina»….
Per mezzo di Cristo e nello Spirito Santo l’umanità, ha finalmente accesso al Padre, entra in una condizione
tale per cui, a poco a poco, può avvicinarsi a Dio, scoprire la sua paternità, può «partecipare della vita
divina». Accogliendo questo amore l’uomo diventa capace di condividere ciò che è «proprio» di Dio: la sua
santità, la sua infinita bontà, la sua grande misericordia, la sua immensa tenerezza, il suo amore forte e

1 Dobbiamo tenere presente che nei quattro secoli successivi al concilio di Trento (1546), il tema della Rivelazione era
stato poco affrontato e i pochi interventi del magistero riflettevano i contesti culturali che li avevano generati (ad
esempio quelli della Riforma protestante del XVI sec. o quelli delle controversie del XIX sec.). I documenti ufficiali
avevano per lo più toni apologetici e miravano a correggere deviazioni dottrinali.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 8


fedele, che si espande su tutti. L’amore di Dio diventa capace di generare nell’uomo la capacità di amare,
come lui ama.
La «salvezza» è questa «comunione profonda con Dio», con colui che è la fonte dell’Amore e da cui ogni
amore proviene. L’umanità in questa comunione viene strappata dall’egoismo, dal peccato, dal male e
l’uomo ridiventa capace di amare, avviene in lui una sorta di cambiamento interiore molto profondo a cui
diamo il nome di «redenzione». Lo scopo dunque della rivelazione non è arricchire il nostro patrimonio di
conoscenze, ma stabilire con Dio un rapporto autentico, una profonda relazione interpersonale.

2. LA RIVELAZIONE HA UN CARATTERE PERSONALE

La Rivelazione di Dio, secondo la visione del Concilio Vaticano II, non mette prima di tutto l’uomo di fronte
a qualcosa (una dottrina, una morale, una legge… da osservare), ma lo mette di fronte a «Qualcuno» e
questo «Qualcuno» è il Dio vivente, il Dio personale che si è rivelato pienamente nella persona di Gesù
Cristo. Il documento della DV presenta la Rivelazione in chiave personalistica e non in chiave dottrinalistica:
essa appare come “comunicazione di Dio” che per sua libera iniziativa ha voluto parlare di sé. Dio è un
essere personale, che conosce, ama, si esprime ed è capace di entrare in rapporto con l’uomo, e non è una
potenza immensa, non è la somma di tutte le leggi della natura, della fisica e della chimica. Se mettiamo
insieme tutte le leggi della natura… non abbiamo Dio, il suo amore e la sua libertà. Il carattere personale
della Rivelazione è precisato poco oltre con un’immagine molto significativa, presa dall’esperienza umana
dell’amicizia:

DV 2b Con questa Rivelazione infatti Dio invisibile (cfr. Col 1,15; 1 Tm 1,17) nel suo grande amore parla agli uomini
come ad amici (cfr. Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con essi (cfr. Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla
comunione con sé».

Si afferma che Dio «parla» e il suo parlare è contraddistinto da uno stile di confidenza, di affetto, di
amicizia. La Rivelazione viene espressa con la categoria della «PAROLA». Spinto dal suo amore traboccate Dio
«parla»! Come «il parlare» umano è l’atto principale della comunicazione, perché attraverso la parola
l’uomo rivela se stesso e si pone come soggetto che entra in relazione con un altro soggetto, così Dio
sceglie di comunicare con l’uomo attraverso la categoria della «parola». Verrebbe subito da dire: - ma si
può veramente affermare che Dio parla? - Non è questo un linguaggio antropomorfico? Per capire meglio
cosa significhi il parlare di Dio è utile fare una riflessione a partire dalla filosofia del linguaggio.

La filosofia ha mostrato che il linguaggio umano è un “evento” interpersonale attraverso il quale l’uomo
rivela il suo mistero personale e si pone in dialogo e comunicazione con gli altri. Il linguaggio (che va distinto
dalla “lingua”, che è un semplice codice che devo conoscere per comunicare, es. italiano, inglese, francese
ecc.), ha tre funzioni fondamentali: la funzione informativa, espressiva, appellativa.
Con la funzione informativa il soggetto dà delle informazioni (es. linguaggio delle scienze, della didattica),
con la funzione espressiva il soggetto manifesta la sua dimensione interiore, fa scorgere ciò che di sé è
invisibile, esprime e comunica i suoi sentimenti di gioia, di dolore, di odio ecc. Con la funzione appellativa il
soggetto entra in dialogo con l’altro. La parola è fatta per comunicare con gli altri. Ciascuno nel parlare e
nell’ascoltare dona il meglio di sé. Noi abbiamo bisogno che gli altri ci accolgano per quello che siamo:
quando «parliamo», chiediamo agli altri di accoglierci e quando «ascoltiamo», accogliamo l’altro.
Tutte le volte che una persona parla mette in atto queste tre funzioni contemporaneamente, anche se, a
secondo del tipo di comunicazione che si vuole instaurare, ci sarà il prevalere di una funzione sull’altra. Ad
esempio, nel rapporto d’amicizia prevarrà la funzione espressiva perché il rapporto è di tipo affettivo; nel
rapporto professionale prevarrà la funzione informativa; ma le altre funzioni sono sempre presenti!
Chiunque parla esprime se stesso, rivela anche qualcosa della sua interiorità.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 9


La Parola è anche parola efficace e creatrice, non è mai priva di conseguenze: essa può consolare,
convincere, affascinare oppure offendere, irritare… Insomma il linguaggio è un evento! Parlare significa
molte cose: comunicare contenuti …, rivelare se stessi… , il proprio mondo interiore, i propri sentimenti, i
propri affetti, entrare in dialogo, attendersi delle risposte, mettersi in una relazione di reciprocità o di
amicizia.

Tutto quanto riguarda il «parlare dell’uomo», vale anche per il «parlare di Dio». La Parola di Dio non è
prima di tutto un testo scritto, una dottrina, una legge, un catechismo… che comunica delle verità, ma è un
EVENTO. L’atto stesso del parlare di Dio consente all’uomo di fare una reale esperienza di Lui. Israele è il
popolo che per primo ha sperimentato nella sua storia il PARLARE di DIO. Attraverso la sua parola, questo
popolo (i patriarchi, i profeti ecc..) è entrato in contatto con il Dio vivo, con il suo profondo mistero
personale. Se Dio parla è per comunicare la sua interiorità e offrire un dialogo all’uomo, come si fa tra
amici. Questo parlare di Dio non avviene in una forma «sonora», la voce di Dio si fa percepibile nel segreto
della coscienza umana.

Un seconda riflessione su questa espressione: Dio parla agli uomini come ad amici. E’ significativo questo
mettere in luce la dimensione amicale! Si potevano usare altre immagini per esprimere il rapporto tra Dio e
l’uomo, ad esempio – Dio parla agli uomini come un Padre parla al figlio!- e invece la DV cerca un’analogia
con la relazione d’amicizia. L’esperienza ci dice che il parlare tra amici ha connotati precisi: con un amico si
parla per condividere qualcosa della vita dell’altro e donare qualcosa si sé. Sono certo importanti le parole
che si scambiano, ma ha valore anche percepire oltre le parole dette, il vissuto profondo di quella persona e
la volontà di condividerlo. Allo stesso modo il parlare di Dio! Dio parla per cercare un contatto con l’uomo e
per farsi conoscere nel suo intimo. Egli desidera condividere quello che Lui è, con gli uomini.

Nel passo della Dei Verbum sono citati due testi della Bibbia che mettono in luce questo rapporto amicale
di Dio con l’uomo:
- Nel libro dell’ Esodo si dice che «Il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come uno parla con il
proprio amico» (Es 33,11) .
- Nel vangelo di Giovanni, nell’episodio dell’ultima cena, Gesù si rivolge ai discepoli con queste parole: Voi
siete miei amici… Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho
chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi (Gv 15,14-15).
Il privilegio di parlare con Dio, sperimentato da Mosè, diviene possibile ad ogni uomo, attraverso il Signore
Gesù.

L’esperienza dell’amicizia rivela anche un altro fatto molto importante per comprendere il carattere della
Rivelazione: quanto più, nel vivere un’amicizia conosciamo un’altra persona, diventandone più intimi, tanto
più chiaramente ci rendiamo conto che in fondo essa resta per noi un mistero. Quanto più una persona si
svela nella sua interiorità, tanto più essa contemporaneamente si sottrae e appare inaccessibile e
misteriosa. La Rivelazione mette l’uomo in contatto con l’intimità personale di Dio, ma non annulla il suo
mistero. Dio si offre in un rapporto di intimità con l’uomo, e per quanto l’uomo riesca a penetrare in questa
intimità divina, Egli rimane un mistero. Più riesci a conoscere Dio nella frequentazione di Lui, più ti rendi
conto di non conoscerlo a fondo come vorresti! La Rivelazione dunque è lo svelamento dell’identità di Dio,
ma anche il suo velamento: a partire dalla Rivelazione si percepisce qualcosa di Dio, ma non tutto; Dio è
sempre «oltre» ciò che l’uomo percepisce di lui perché il suo mistero è inesauribile. Con il suo «parlare» Dio
si manifesta come colui che cerca un dialogo con l’uomo, un rapporto di amicizia, per condividere la sua
vita.
In questo senso la Rivelazione rivela il suo carattere dialogico e conseguentemente la sua interdipendenza
con la risposta di fede dell’uomo. Propriamente non c’è vera Rivelazione senza una reale accoglienza di essa
da parte dell’uomo. Se la Rivelazione si identifica con la volontà di Dio di comunicarsi, essa diviene realtà
solo nel momento in cui l’uomo accoglie questo dialogo di amicizia e di comunione. Il coinvolgimento
dell’uomo nella Rivelazione si chiama “fede”.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 10


L’obbiettivo della DV è quello di far sentire all’uomo contemporaneo la bontà e la sapienza di Dio, la sua
vicinanza e amicizia, perché il cuore sia mosso e conquistato dalla bellezza del mistero di Dio. La verità di
Dio è affascinante non è qualcosa di arido e astratto. Bellezza e verità sono strettamente congiunte. La
verità di Dio non deve essere mai imposta, perché essa stessa è persuasiva, ha la capacità di conquistare il
cuore dell’uomo.

3. LA RIVELAZIONE HA CARATTERE STORICO SALVIFICO

Dio si rivela nella storia: tutto comincia con la elezione d’Israele, il popolo che Dio si è scelto per il bene
dell’umanità tutta, e per preparare in tal modo, lungo i secoli, la via all’evangelo. La Dei Verbum in maniera
sintetica accenna ad alcuni grandi protagonisti che hanno condotto Israele a riconoscere il «solo Dio vivo e
vero, Padre provvidente e giusto giudice»: Abramo, i patriarchi, Mosè, i profeti..

DV n. 3. … A suo tempo (Dio) chiamò Abramo, per fare di lui un gran popolo (cfr. Gn 12,2); dopo i patriarchi
ammaestrò questo popolo per mezzo di Mosè e dei profeti, affinché lo riconoscesse come il solo Dio vivo e vero,
Padre provvido e giusto giudice, e stesse in attesa del Salvatore promesso, preparando in tal modo lungo i secoli la via
all'Evangelo.

Con la chiamata di Abramo qualcosa cambia nell’esperienza che l’umanità fa di Dio, incomincia una storia
particolare, la storia della salvezza, che prosegue poi con i patriarchi, Mosè, i profeti, i saggi, fino a Gesù.
Questa rivelazione viene raccontata nel libro della Bibbia.

- Con la Parola di Dio rivolta ad Abramo ha inizio la grande storia del popolo ebraico:

«Il Signore disse ad Abram:


vattene dalla tua terra,
dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre,
verso la terra che io ti indicherò.
Farò di te una grande nazione
E ti benedirò,
renderò grande il tuo nome…
e in te si diranno benedette
tutte le famiglie della terra». (Gen 12,1-3)

Abramo è il primo pagano che è diventato «credente», obbedendo alle promesse di Dio e accogliendo la
sua alleanza. La sua vicenda è raccontata nei capitoli da 12 a 25 del libro della Genesi. I primi undici capitoli
della Genesi raccontano il dramma della terra segnata dal peccato e dalla violenza e come Dio per
intervenire e salvare ha bisogno di una persona che creda in lui, che diventi un punto di appoggio a partire
dal quale salvare l’intera umanità e arrivare a benedire il mondo e tutte le nazioni. Al c. 12 si racconta la
chiamata di Abramo. Egli accoglie la Parola che Dio gli rivolge e parte fidandosi di ciò che quella «Parola»
promette. Il libro della Genesi racconta i suoi viaggi e come matura la sua fede attraverso grandi prove e
molti dubbi! Il primo a fare l’esperienza della benedizione divina sarà lui, e il popolo d’Israele che nascerà
dalle sue viscere. La benedizione di Dio, che incomincia da Abramo, si propagherà e si irradierà su tutti i
popoli attraverso il Signore Gesù.

- Mosè è un altro personaggio importante della storia d’Israele, la cui vicenda è raccontata nel libro
dell’Esodo. Dio gli parla dal roveto ardente, attraverso di lui libera il popolo dall’Egitto, lo fa salire sul
monte Sinai, donandogli la legge/Torah che contiene le istruzioni per condurre il suo popolo Israele a
vivere l’alleanza. Egli è un uomo di preghiera, l’amico di Dio, che parla con lui faccia a faccia. Quando
esce dalla tenda del convegno, - durante il cammino nel deserto - il suo volto è raggiante; è anche

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 11


l’uomo che desidera vedere la Gloria di Dio, il suo volto. Aveva pregato Dio così - «Fammi vedere la tua
gloria!» (Es 33,18).

- Dio continua a parlare anche per mezzo del profeti che sono quegli «uomini di Dio» che predicano
durante i momenti più critici della vita d’Israele (monarchia, esilio). Essi denunciano la cattiva condotta dei
re e richiamano il popolo a vivere nella giustizia e nella pace. Sono uomini di speranza che credono nell’
intervento salvifico di Dio nella storia.

L’esperienza che Israele fa di Dio (il primo popolo monoteista della storia!!) costituisce una lenta e lunga
preparazione all’evangelo. Dio fa esistere Israele perché progressivamente conosca il Dio vero e maturi
dentro la storia l’attesa del Messia, che rivelerà definitivamente il vero e autentico volto di Dio. Gesù sarà
riconosciuto da una parte del suo popolo (anche se non da tutti!) come il Messia e il Signore! Questo è il
«mistero», il «segreto» che è rimasto tale a lungo, ma ora è stato rivelato. La Rivelazione è dunque il
coinvolgimento attivo di Dio nella storia degli uomini, in un intrecciarsi di PAROLE ED EVENTI attraverso i quali
Dio parla, agisce, si fa conoscere, per offrire agli uomini la sua piena comunione.

La Rivelazione viene presentata nel documento della DV come una “economia” che avviene nella storia,
attraverso parole e opere di Dio intimamente connesse tra di loro.

DV 2b. Questa economia della Rivelazione comprende eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere,
compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole,
mentre le parole proclamano le opere e illustrano il mistero in esse contenuto.

Il termine economia indica che Dio, non agisce con una serie di interventi staccati e ripetitivi, ma ha un
piano stabilito, pensato, ordinato, unitario. Da questa affermazione si capisce che la Rivelazione non
riguarda un istante, ma è qualcosa che si dilata nella storia. Dio si rivela al popolo d’Israele creando così le
condizioni per la venuta di Gesù, il quale porterà a compimento la rivelazione di Dio in favore di tutta
l’umanità. Perché i fatti della storia rivelino l’agire di Dio diventa necessaria la sua Parola che li spieghi, che
mostri il senso autentico delle sue azioni. La Rivelazione è il «senso della storia» che Dio manifesta
abbinando agli «eventi» la «sua parola». Gli avvenimenti presi da soli, sono spesso opachi, ambigui,
equivoci e quindi non sono pienamente intelligibili. Facciamo degli esempi:
- Senza la parola di Mosè, dei Profeti, l’evento dell’Esodo, (la liberazione del popolo ebraico, dalla schiavitù
egiziana), sarebbe equiparabile ad una qualsiasi “fuga” di schiavi e non avrebbe il significato di un potente
gesto salvifico di Dio che li ha liberati, guidati e salvati.
- Senza la parola di Gesù che spiega il mistero della sua persona, che rivela la sua identità divina, senza la
parola dei suoi apostoli che sotto la forza dello Spirito colgono il mistero della sua morte e risurrezione, la
storia di Gesù potrebbe apparire come la storia di un qualsiasi altro grande personaggio e perderebbe
quell’unicità che le è caratteristica.
- Senza la Parola di Dio, testimoniata dalla Sacra Scrittura, la storia umana non sarebbe capita per quello
che è: una storia di salvezza.
Cos’è la salvezza? Qualcuno potrà rispondere che la salvezza è essere liberati dal peccato, dal male, dal
non senso di una vita tutta ripiegata su di sé, segnata dalla menzogna e dalla ipocrisia. Questa risposta è
corretta ma limitata. La salvezza è un concetto che non deve essere definito solo negativamente, non può
voler dire solamente essere sottratti da qualcosa che minaccia l’autenticità dell’uomo. La salvezza è un
concetto positivo e consiste nell’esperienza dell’essere amati, custoditi, cercati, perdonati, avvolti
dall’amore potente di Dio. Tutto questo rigenera il cuore dell’uomo! La salvezza è fare l’esperienza di
partecipare della stessa vita di Dio e dunque è essere illuminati sul bene da fare, è sapere non solo di avere
una meta (la vita eterna), ma la certezza di poterla raggiungere, poiché di questa vita divina l’uomo può
fare esperienza oggi.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 12


Il significato della elezione d’Israele

La scelta di Dio è caduta su Israele a vantaggio dei popoli. Dio ha bisogno di avere nel mondo un testimone,
un popolo nel quale possa rendere visibile la sua salvezza. Essere eletti non è un privilegio, non è una
preferenza sugli altri, ma un'esistenza per gli altri e quindi la più gravosa responsabilità della storia e Israele
dovette portare tutte le conseguenze di questa scelta. Dio comincia dal piccolo popolo d’Israele, parte da
un limitato settore del mondo, perché da lì la salvezza dell’umanità abbia il suo inizio. A partire da qui «il
nuovo» potrà diffondersi, ma non mediante la persuasione, l'indottrinamento o l'uso della forza. L'uomo
deve avere la possibilità di venire e di vedere; deve poter riconoscere il nuovo e verificarlo. E se poi vuole,
può lasciarsi coinvolgere nella storia della salvezza che è messa in atto da Dio. Soltanto così viene rispettata
la sua libertà. La sua attrazione verso il nuovo non può essere frutto di costrizione, nemmeno di pressione
morale, ma soltanto del fascino per un mondo trasformato. E’ ovvio però che questa trasformazione può
cominciare soltanto nel cuore dell’uomo quando presta ascolto a Dio, si apre a lui e lo lascia agire.
L'autore della prima lettera di Pietro non esita ad applicare alle comunità cristiane, dunque alla chiesa, la
terminologia solenne dell'elezione d'Israele: «Ma voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione
santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle
tenebre alla sua ammirabile luce». (1Pt 2,9). L'elezione d’Israele e della chiesa, non è fine a sé stessa, e non
mira all'autorealizzazione dei prescelti. Ma piuttosto si è eletti per obbedire a Gesù Cristo e proclamare con
la vita le grandi opere di Dio. [Su questo tema: Cf. Lohfink G. Perché Dio ha bisogno di un popolo? in: Dio ha
bisogno della Chiesa? San Paolo 1999, p. 13-54]

4. LA RIVELAZIONE HA CARATTERE CRISTOCENTRICO

La Rivelazione personale di Dio avvenuta nella storia d’Israele trova la sua pienezza in Gesù Cristo. Il
documento della DV afferma al n 2 e al n. 4 che la Rivelazione ha un carattere cristocentrico.

DV 2c La profonda verità, poi sia di Dio sia della salvezza degli uomini, per mezzo di questa rivelazione risplende a noi
in Cristo il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la Rivelazione».

DV 4 Dopo aver a più riprese e in più modi, parlato per mezzo dei profeti, Dio « alla fine, nei giorni nostri, ha parlato a
noi per mezzo del Figlio» (Eb 1,1-2).
Mandò infatti suo Figlio, cioè il Verbo eterno, che illumina tutti gli uomini, affinché dimorasse tra gli uomini e
spiegasse loro i segreti di Dio (cfr. Gv 1,1-18). Gesù Cristo dunque, Verbo fatto carne, mandato come «uomo agli
uomini », « parla le parole di Dio » (Gv 3,34) e porta a compimento l’opera di salvezza affidatagli dal Padre (cfr. Gv
5,36; 17,4).
Perciò egli, vedendo il quale si vede anche il Padre (cfr. Gv 14,9), col fatto stesso della sua presenza e con la
manifestazione che fa di sé con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e
la sua risurrezione di tra i morti, e infine con l’invio dello Spirito di verità, compie e completa la Rivelazione e la
corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e
risuscitarci per la vita eterna.

Gesù, per i cristiani, è il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione perché egli è la Parola del Padre,
“parla le parole di Dio”, compie l’opera affidatagli dal Padre, rivela il volto del Padre. Ricordiamo le parole
di Gesù nel vangelo di Giovanni: «Nessuno va al Padre se non per mezzo di me». Clemente d’Alessandria
dice: «La faccia di Dio è il Logos (“la Parola/il Verbo”), per mezzo del quale Dio si fa vedere e conoscere». In
lui c’è la pienezza dell’agire salvifico di Dio nella storia. Gesù vive tutta la sua esistenza ponendo gesti di
salvezza verso tutti gli uomini, riconducibili solo alla potenza di Dio.
R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 13
In Gesù Cristo morto e Risorto, la Rivelazione personale e storica di Dio approda dunque alla sua forma
definitiva, perciò questo evento della storia, assolutamente unico e originale, ha il valore di criterio
assoluto per interpretare il mistero di Dio che si dispiega nella storia.
La DV citando la lettera agli Ebrei 1,1-2 pone la persona di Gesù in rapporto con tutto ciò che storicamente
è avvenuto prima di lui. Dopo le molte parole dette da Dio nella storia al popolo d’Israele, attraverso i
profeti, alla fine Dio “parla” attraverso il Figlio Gesù, cioè si rivela in Lui in maniera speciale ed unica. Tutta
l’opera di Dio compiuta nella storia d’Israele raggiunge ora il suo vertice.
Gesù è inviato dal Padre con un duplice scopo: dimorare con gli uomini e rivelare i segreti di Dio. Egli
conduce dunque nella «vita intima» di Dio, fa conoscere il cuore di Dio, la sua straordinaria bontà, la sua
paternità, la sua santità, rivelando il mistero trinitario di Dio. Egli prende su di sé anche tutto il dolore e la
sofferenza umana. Egli è il Verbo fatto carne – come dice il vangelo di Giovanni (1,1-18) - è Dio che si fa
uomo, venendo a condividere tutto della nostra umanità, tranne il peccato. Tutto ciò che è umano venne
da lui assunto. Il Figlio «si abbassò », si fece povero; lui, a cui apparteneva la pienezza della divinità, accettò
l'esistenza umana con tutti i suoi pregi e i suoi limiti, si privò della sua ricchezza, dell'esperienza della
perfetta beatitudine, per entrare nel travaglio del nostro mondo, nella nostra storia fatta di chiaroscuri,
segnata dall'imperfezione, avvelenata dalla tentazione, ferita dalla sofferenza. Egli si fece realmente uomo,
carne della nostra carne. Ebbe una famiglia, dei parenti, un paese natale; appartenne a un popolo, il popolo
eletto, condivise una cultura, si calò in una situazione sociale e politica. Tutto questo egli lo accettò e lo
decise liberamente, in accordo con il Padre suo, per condurre l’umanità con lui, in quel mistero di luce e di
gloria che egli da sempre condivideva con il Padre. Ecco un primo straordinario segno del suo grande
amore. Affermare che Gesù è il «Verbo (Logos)» significa che Lui è “Parola vivificante”, “Parola creatrice”;
“la ragione” e “il senso di tutto ciò che esiste”.

Vedendo Gesù si vede il Padre. Dice il vangelo di Giovanni: «Dio nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito
che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1,18). La DV cita anche il testo di Gv 14,9:
Filippo, uno dei discepoli di Gesù, era ansioso di vedere il Padre e gli chiede: «Signore mostraci il Padre e ci
basta!». Gesù gli risponde: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto Filippo? Chi ha visto
me ha visto il Padre… Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?».
Gesù Cristo rivela il mistero del Padre con la sua presenza, con la forza della sua parola, con le sue opere
ma soprattutto con la sua morte e risurrezione e con l’invio dello Spirito Santo che conduce gli uomini a
comprendere dal di dentro la “Verità” della sua persona. Gesù rivela che Dio è dalla parte dell’uomo per
salvarlo, liberarlo dal male (peccato) e dalla morte, donandogli la vita divina, la vita eterna.
I vangeli raccontano questa esperienza del Logos fatto carne. Dunque, per il cristianesimo, non si può
conoscere pienamente Dio, se non conoscendo Gesù, e non si può conoscere Gesù se non andando ai
vangeli che sono la testimonianza dei suoi discepoli che, vivendo con lui, hanno scoperto progressivamente
la sua identità divina.
Ma questi testi sono degni di fiducia, attendibili? Come facciamo a sapere se raccontano la verità di Gesù di
Nazaret? Risponderemo più avanti a queste domande quando tratteremo della «storicità dei vangeli».

DV 4d. L’economia cristiana dunque, in quanto è l’Alleanza nuova e definitiva, non passerà mai, e non è da aspettarsi
nessun’altra Rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo (cfr. 1 Tm 6,14 e
Tt 2,13).

Essendo Cristo il compimento della Rivelazione di Dio, - continua la DV - non ci si deve aspettare nessuna
nuova “rivelazione pubblica”, perché Dio ha già detto “tutto di sé” nel Figlio Gesù. La «Rivelazione»
pubblica di Dio si è conclusa per sempre con la morte e risurrezione di Gesù Cristo e con la morte dei suoi
apostoli che hanno trasmesso a tutti il «segreto di Dio» che la Pasqua ha rivelato. Ora questo «segreto» che
è il mistero di GESÙ VIVENTE E RISORTO che guida la storia e si fa compagno di ogni uomo, va sempre più
approfondito, compreso e proclamato a tutti, nell’attesa del ritorno e della manifestazione gloriosa del
Signore Gesù alla fine del mondo.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 14


Nessuna apparizione o rivelazione nuova potrà mai aggiungere nulla di nuovo a quanto già detto dal Figlio
di Dio: Gesù Cristo. Se mai, apparizioni o rivelazioni – riconosciute vere con estrema cautela dalla Chiesa –
riportano a comprendere sempre meglio quanto il Signore Gesù ha già detto ed è confluito negli scritti
sacri e ispirati dei VANGELI.

Ma allora Dio non ha più nulla da dire all’uomo?

La comunità cristiana deve riproporre sempre le verità offerte dal passato senza mai aspettarsi niente di nuovo?
Diciamo che con l’evento Gesù Cristo la Rivelazione di Dio è giunta al suo compimento e dunque è terminata LA FASE
COSTITUTIVA della Rivelazione, che si è chiusa con la scomparsa della generazione apostolica. Ma per quanto riguarda
LA FASE DI RECEZIONE la Rivelazione continua durante tutta la vita della Chiesa, fino alla fine dei tempi, cioè al ritorno
glorioso del Signore Gesù. In questa seconda fase il significato della Rivelazione, che è inesauribile, viene sempre più
approfondito e ricompreso. (Sesbouè B., Credere, Queriniana 2000, p. 158).

B. LA RIVELAZIONE «NATURALE O COSMICA» (DV N. 3)

La rivelazione di Dio ad Israele, che si è compiuta in Cristo, è destinata a tutta l’umanità, questo però non
significa che chi non conosce questa Rivelazione non possa conoscere Dio in altro modo. Il Documento
della DV dopo aver parlato della rivelazione storico-salvifica, afferma che essa è preceduta da un’altra
modalità di rivelazione che possiamo chiamare «rivelazione naturale o cosmica», che si dà ancor prima
della rivelazione di Dio incominciata con la chiamata di Abramo… (1800 a.C.), prima ancora della chiamata
del popolo d’Israele. Il momento primo della Rivelazione di Dio avviene attraverso «la creazione». Il creato
porta il riflesso del suo creatore e all’uomo che è il culmine della creazione, Dio parla attraverso «la legge
della coscienza».

1. DIO SI RIVELA ATTRAVERSO LA CREAZIONE

Dio si manifesta come creatore perché è colui che è all’origine di tutte le cose create e si prende cura
dell’uomo. L’uomo può conoscere Dio attraverso le opere del creato. Dio offre una perenne testimonianza
di sé attraverso ciò che ha fatto esistere (Cf. c. 4 Bibbia-Genesi: Il racconto delle origini del mondo e
dell’uomo/umanità)

Afferma la DV:

DV 3a «Dio, il quale crea e conserva tutte le cose per mezzo del Verbo (cfr. Gv 1,3), offre agli uomini nelle cose create
una perenne testimonianza di sé (cfr. Rm 1,19-20)…

«Questa rivelazione non è semplicemente ‘originale’, come se avesse avuto luogo al primo momento della
creazione. E’ una rivelazione permanente. Vale per gli uomini di tutti i tempi… Questa prima rivelazione
mediante la creazione è, per così dire, la condizione di possibilità della seconda. E’ il momento primo
della salvezza…» (Sesbouè B., Credere p.144).

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 15


La magnificenza dell’universo e degli universi, parla di Dio. Anzi secondo il vangelo di Giovanni, tutto ciò che
esiste, non è solo opera del Padre, ma anche del Figlio, del Logos, e dello Spirito.

Riprendiamo qualche versetto del «Prologo» del vangelo di Giovanni.

In principio era il Verbo (Logos)


Il Verbo era presso Dio
E il Verbo era Dio…
Tutto è stato fatto per mezzo di Lui…
E senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste…
… il mondo fu fatto per mezzo di lui (Gv 1,1-3.10)

L’evangelista Giovanni risale oltre la creazione, al di là della storia per contemplare il mistero divino,
l’intimo amore e comunione che esiste tra il Padre e il Verbo (Logos), che è Gesù Cristo nella sua
preesistenza divina. Egli trasporta chi legge dentro il mistero trinitario. Il Verbo, persona divina è rivolto
verso il Padre in un mistero di unità e di comunione senza limiti. Questo amore reciproco tra il Padre e il
suo Verbo è lo Spirito Santo. Dunque al principio di tutto, quando ancora non esisteva niente, c’era la vita
divina che è beatitudine, oceano di pace, gaudio. Dio non è presentato come un essere rinchiuso nella sua
trascendenza sovrana, ma è mistero dialogico, è relazionalità. La creazione – dice l’evangelista Giovanni –
nasce dalla vita divina che si comunica, vita che è gioia, entusiasmo, creatività. Attraverso il Verbo, Dio crea
tutta la realtà, tutto ciò che esiste, non solo il cosmo globalmente inteso, ma ogni singolo essere umano,
nella sua individualità, nella sua storia è desiderato, amato, voluto: Tutto è stato fatto per mezzo di Lui (del
Verbo) e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste… (Gv 1,3). Senza il Verbo nulla esiste! Fuori di
Lui, nulla! Tutto è avvolto nel mistero santo di Dio e del suo Verbo. C’è un disegno divino su tutta la
creazione e dunque su ogni esistenza, c’è un legame ontologico tra il Verbo e gli uomini. Tutto riceve
l’impronta del Verbo e trova il suo senso in Lui.
La bellezza di Dio, la bellezza del Verbo (che è Gesù nella sua preesistenza divina) si riflette nella bellezza
del cosmo e dell’intera umanità. Tutto in qualche modo partecipa di quella potenzialità rivelatrice che il
Logos possiede… Attraverso la bontà, la bellezza, l’immensità, l’ordine delle realtà create, l’uomo può
arrivare ad intuire le realtà invisibili, ma soprattutto dentro di sé, nella propria coscienza, ogni uomo può
conoscere la luce divina del Verbo.

2. DIO PARLA ALL’UOMO ATTRAVERSO LA «LEGGE DELLA COSCIENZA»

Dio si è rivelato e si rivela continuamente all’uomo attraverso «la legge della coscienza» e «il peccato
dell’umanità», non impedisce a Dio di prendersi cura dell’uomo. Afferma Sesbouè:

«… fin dall’inizio della storia dell’umanità egli [Dio] si è manifestato a titolo personale al cuore della
coscienza dell’uomo per aprirgli la via della «salvezza». Questa forma di rivelazione viene già chiamata
«soprannaturale» perché è la prima espressione della comunicazione che Dio vuole fare di se stesso. Da
un capo all’altro della storia Dio non soltanto inscrive nel cuore dell’uomo una vocazione, ma gli fa anche
dei doni necessari perché questa vocazione egli la possa realizzare… Il fatto che gli uomini siano divenuti
peccatori non sopprime in nulla l’iniziativa di Dio che li mantiene nella «speranza di una salvezza» e
promette loro una redenzione. Egli si prende cura del genero umano «senza interruzione», per dare la
vita eterna a coloro che lo cercano facendo il bene».
(Sesbouè B., Credere, p. 145).

S. Paolo nella lettera ai Romani (Rm 1,19-20) afferma che attraverso il creato l’uomo può scoprire il volto
del creatore, e attraverso la coscienza l’uomo può discernere il bene dal male e può dare il giusto senso alla
sua esistenza. San Paolo dice però che la ricerca di Dio attraverso il creato è una ricerca che procede a
R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 16
tentoni… (cf. At 17,27). La storia delle religioni ci dice che si può confondere Dio con altro… che il vero
volto di Dio si può stravolgere…

«In ogni modo, nessun uomo, in nessun tempo e in nessun luogo, è dimenticato da Dio. Tutti possono
giungere a conoscerlo in una maniera sufficiente per ricevere la salvezza e quindi la felicità definitiva.
Questa affermazione non vale soltanto per il periodo molto lungo e misterioso che si estende dalla
creazione fino alla vocazione di Abramo, ma vale anche per tutti i popoli che oggi non hanno alcun legame
con Abramo o non conoscono nulla della rivelazione cristiana». (Sesbouè B., Credere, p. 145).

La rivelazione «naturale» o «cosmica», e la rivelazione attraverso la «legge della coscienza» sono destinate
a COMPIERSI NELLA RIVELAZIONE STORICO-SALVIFICA che culmina e si fa luminosissima nel Signore Gesù. Solo
attraverso di lui l’uomo può raggiunge la piena comunione con Dio.

C. ACCOGLIENZA DELLA RIVELAZIONE (DV N. 5)

→ Come l’uomo può accogliere la Rivelazione di Dio avvenuta nella storia della salvezza che si è
compiuta nel Signore Gesù?

Torniamo ora a riflettere su come l’uomo può arrivare a cogliere la Rivelazione di Dio avvenuta nella storia
della salvezza e che si è compiuta nel Signore Gesù. La DV afferma che «A Dio che si rivela l’uomo risponde
con l’ obbedienza della Fede».

DV 5. A Dio che rivela è dovuta « l’obbedienza della fede» (Rm 16,26; cfr. Rm 1,5; 2 Cor 10,5-6), con la quale l’uomo
gli si abbandona tutt’intero e liberamente prestandogli « il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà » e
assentendo volontariamente alla Rivelazione che egli fa.

Perché si possa prestare questa fede, sono necessari la grazia di Dio che previene e soccorre e gli aiuti interiori dello
Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente e dia « a tutti dolcezza nel
consentire e nel credere alla verità ». Affinché poi l’ intelligenza della Rivelazione diventi sempre più profonda, lo
stesso Spirito Santo perfeziona continuamente la fede per mezzo dei suoi doni.

La fede è abbandono fiducioso e libero al Dio di Gesù Cristo che si fa conoscere, che svela il suo volto,
parlando, invitando, amando, offrendo all’uomo la sua amicizia e la sua comunione. La fede è
un’esperienza esistenziale totalizzante che coinvolge mente, cuore e volontà. Nell’atto del «credere» è
coinvolto anche la dimensione cognitiva, l’intelletto, dunque la ragione (riflessione teologica) e anche la
volontà. Il soggetto della fede è «tutto l’uomo» perché la fede è un’esperienza vitale, è una relazione con il
Dio vivo, che si è manifestato in Gesù Cristo, che impegna tutta la persona.

La fede non è in contrasto con la ragione, non la teme, ma la stimola, è più grande della ragione e la ospita
dentro di sé. Credere vuol dire fidarsi e fidarsi con intelligenza. La fede non si contrappone alla ragione:
questo dualismo è purtroppo figlio dell’illuminismo. Afferma Sesbouè:

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 17


La nostra ideologia contemporanea dà fiducia al “sapere” soprattutto al sapere scientifico, e getta sospetti
sul “credere” che è ritenuto una convinzione interiore più incerta rispetto al sapere anche se il “credere” è
esperienza quotidiana nelle nostre vite e noi non possiamo farne a meno.
Innanzi tutto, le nostre stesse conoscenze sono frutto della recezione del sapere di altri. Tutto quello che il
bambino o l’adolescente impara a scuola lo riceve o lo crede sulla base della scienza dei suoi docenti. Egli
non è assolutamente in grado di rifare tutte le verifiche, ricerche o esperimenti scientifici che gli
permettono di giungere al medesimo risultato. Forse un giorno, limitatamente alla disciplina che avrà scelto
sarà in grado di verificare personalmente quanto fino ad allora avrà creduto…
Lo stesso vale per informazioni che leggiamo sui giornali… Senza dubbio dobbiamo essere critici e valutare
l’attendibilità di quanto riceviamo. Rimane però questo dato elementare: noi non possiamo vivere senza
credere agli altri. Questa fiducia è alla base della società…
La ricerca scientifica stessa comporta una parte di credenza. Che cosa è un’ipotesi se non la credenza che
una determinata legge può spiegare i fenomeni analizzati? Lo scienziato costruisce allora un esperimento
per verificare se la sua ipotesi è corretta oppure no.. L’interpretazione credente e provvisoria senza dubbio
è il motore della sua ricerca… Il credere non è un atteggiamento esclusivamente religioso, bensì una realtà
umana… invade le nostre informazioni quotidiane. E’ anche presente nella ricerca scientifica…
Credere vuol dire dare fiducia… questa esperienza è alla base di tutte le nostre relazioni significative.
Non possiamo vivere senza dare fiducia agli altri. Non ci può essere un’amicizia e non può nascere un amore
senza fiducia, senza avere fede nell’altro. Ogni amore appoggia su una fede reciproca, una fede che conta
sulla fedeltà dell’altro.
Anche nell’esercizio di una professione è necessaria la fede. Certo la professionalità è importantissima,
ma da sola non basta, io devo credere in quello che dico e faccio, devo avere fiducia che l’altro a cui è
diretta la mia prestazione professionale possa accoglierla…
L’atto de credere è un atto essenziale alla condizione umana, un atto nobile e autenticamente umano
e non un atto di cui vergognarsi. Esso interviene nella nostra vita, indipendentemente dal credere
propriamente religioso. Volerne fare a meno non sarebbe soltanto una contraddizione esistenziale, ma in
un certo qual modo una perdita di sostanza rispetto a ciò che siamo. (Sesbouè B., Cosa significa credere? p.
34ss).

La Rivelazione, che è l’amore di Dio che si comunica, si offre alla libertà dell’uomo, dunque non è evidenza
che costringe, ma è luminosità che attrae e affascina l’intelligenza e il cuore. Si trasmette con l’amore e non
con la forza. Solo la bellezza dell’amore di Dio può affascinare e convincere l’uomo “dal di dentro”.

Per giungere alla fede è necessaria la Grazia. La fede non è frutto solo della decisione dell’uomo, essa è
preceduta dall’azione di Dio che la suscita. La grazia (= Spirito Santo) è l’azione di Dio che “muove il cuore”
dell’uomo e lo rivolge a Dio. Il «cuore» nella Bibbia non è solo la sede dei sentimenti e degli affetti. Nella
concezione biblica con il termine «cuore» si intende il centro della persona, la sua “coscienza”, che è il suo
mondo interiore, invisibile e segreto. Il «cuore» è la sede dei sentimenti, degli affetti, dei pensieri, dei
progetti; dal cuore scaturiscono le decisioni e le azioni. La grazia divina attira e rigenera il cuore dell’uomo,
crea le condizioni perché gli uomini possano arrivare a credere, ma sempre nel rispetto della loro libertà.
Lo Spirito – dice ancora la DV - muove il cuore… e apre gli occhi della mente: si sottolinea ancora come
l’azione divina dello Spirito tocca la dimensione interiore del cuore e la dimensione conoscitiva. Cuore e
mente sono coinvolti e attratti da questa rivelazione d’Amore di Dio, che è la rivelazione trinitaria, che si è
svelata nella Pasqua di Gesù. E’ sempre lo stesso Spirito che fa sperimentare a chi si apre ad accoglierlo la
«dolcezza nel consentire e credere alla «Verità».

«L’opera di apertura della mente, inseparabile dall’opera di sollecitazione del cuore, ha i tratti di
un’opera di attrazione interiore che crea una sorta di sintonia con il mistero santo di Dio, di cui si
percepisce la bellezza e la dolcezza» (P. Tremolada).

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 18


L’ultima affermazione della DV sottolinea che la fede è un cammino: «Affinché poi l’intelligenza della
Rivelazione diventi sempre più profonda, lo stesso Spirito Santo perfeziona continuamente la fede per
mezzo dei suoi doni». La fede non è un atto posto una volta per sempre ma è un cammino. Lo Spirito che
«muove il cuore» e «apre la mente» accompagna il credente lungo il percorso dell’intera sua esistenza,
guidandolo con i suoi molteplici doni, verso un’intelligenza sempre maggiore del mistero di Dio.

La grazia di Dio è per tutti?

Questa «Grazia» di Dio che è necessaria per la fede, senza la quale la fede non può esistere, è un dono dato a tutti o
solo ad alcuni? Questo dono gratuito è destinato a tutti, ma molti fattori che vengono dalle nostre storie personali,
dalle nostre famiglie, dai nostri ambienti sociali, dalla nostra cultura, possono in una certa misura impedire, ostacolare
oppure rendere più faticoso e lento il riconoscimento. L’offerta di Dio è comunque sempre rivolta alla libertà
dell’uomo!

D. RAPPORTO TRA FEDE E CONOSCENZA RAZIONALE (DV N. 6)

→ La Rivelazione che Dio fa di sé, è un dono straordinario che oltrepassa il livello di ciò che l’uomo con
la sola ragione potrebbe raggiungere

Dio attraverso la Rivelazione raggiunge gli uomini per renderli partecipi dei beni divini che trascendono la
comprensione umana. La Rivelazione che Dio fa di sé, è un dono straordinario che oltrepassa il livello di
ciò che l’uomo con la sola ragione potrebbe raggiungere, anche se, attraverso la ragione e le realtà create
ogni uomo può intuire il mistero di Dio.

DV 6. Con la divina Rivelazione Dio volle manifestare e comunicare se stesso e i decreti eterni della sua volontà
riguardo alla salvezza degli uomini, «per renderli cioè partecipi di quei beni divini, che trascendono la comprensione
della mente umana ».

Il santo Concilio professa che « Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza con il lume
naturale dell’umana ragione a partire dalle cose create» (cfr. Rm 1,20); ma insegna anche che è merito della
Rivelazione divina se « tutto ciò che nelle cose divine non è di per sé inaccessibile alla umana ragione, può, anche nel
presente stato del genere umano, essere conosciuto da tutti facilmente, con ferma certezza e senza mescolanza
d’errore ».

La Rivelazione personale, storico-salvifica che si compie in Cristo fornisce all’umanità la possibilità di


conoscere più speditamente, con certezza e senza mescolanze di errori le verità che riguardano Dio.
Senza la Rivelazione che si è compiuta in Gesù Cristo, è possibile farsi anche false immagini di Dio.

La Rivelazione viene incontro provvidenzialmente alla “ragione” con una manifestazione più luminosa di
quella stessa “verità” che la ragione sta cercando e che può essere esposta ad errori e fraintendimenti. Es)
Ci sono religioni che mescolano verità ed errori: teorizzano un Dio violento in nome del quale si legittimano
le guerre e le stragi.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 19


Ciò che troviamo nella Rivelazione culminante in Gesù Cristo è qualcosa che non avremmo mai potuto
possedere attraverso la ricerca di Dio compiuta solo dalla “ragione”. E’ immensamente «di più» quello
che veniamo a conoscere e a sperimentare di Dio grazie a questa rivelazione.

Ad esempio: attraverso Gesù scopriamo che Dio è Padre, che è misericordioso, che è comunione d’amore
(Padre, Figlio e Spirito Santo); attraverso il Figlio scopriamo che Dio è il Dio AFFIDABILE, CHE AMA L’UOMO
SEMPRE. L’uomo è amato proprio mentre è peccatore, ingiusto, disonesto, violento, egoista. Dio dà la vita
per l’uomo peccatore, perché l’uomo scopra che la sua bontà e il suo perdono per lui sono senza limiti. Solo
L’AMORE DI DIO è capace di guarire il cuore umano.

E. LA TRASMISSIONE DELLA DIVINA RIVELAZIONE (DV N.7)

→ Come la Rivelazione di Dio si trasmette in maniera integra a tutte le generazioni,?

Il cap. II della Dei Verbum tratta della trasmissione della divina rivelazione: si vuole rispondere alla
domanda “Come la Rivelazione di Dio, che si è compiuta nella morte e risurrezione del Signore Gesù, si
trasmette, in maniera integra, alle future generazioni?”2. Il Concilio vaticano II, afferma che Dio stesso è
all’origine della trasmissione della sua Rivelazione, è lui che decide la forma e il modo di comunicarla.
La Dei Verbum afferma che Cristo Risorto diede l’incarico agli Apostoli di predicare a tutti il Vangelo… e di
comunicare a tutti i doni divini…
DV 7a. Dio, con somma benignità, dispose che quanto egli aveva rivelato per la salvezza di tutte le genti,
rimanesse per sempre integro e venisse trasmesso a tutte le generazioni. Perciò Cristo Signore, nel
quale trova compimento tutta intera la Rivelazione di Dio altissimo, ordinò agli apostoli che l'Evangelo,
prima promesso per mezzo dei profeti e da lui adempiuto e promulgato di persona venisse da loro
predicato a tutti come la fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale, comunicando così ad
essi i doni divini. Ciò venne fedelmente eseguito, tanto dagli apostoli, i quali nella predicazione orale,
con gli esempi e le istituzioni trasmisero sia ciò che avevano ricevuto dalla bocca del Cristo vivendo con
lui e guardandolo agire, sia ciò che avevano imparato dai suggerimenti dello spirito Santo, quanto da
quegli apostoli e da uomini a loro cerchia, i quali, per ispirazione dello Spirito Santo, misero per scritto il
messaggio della salvezza.
Da una storia della Rivelazione che culmina nel Cristo Risorto, si prosegue in una storia nella quale la
Rivelazione viene trasmessa. La trasmissione della Rivelazione avviene in una prima fase attraverso il
vissuto storico della chiesa apostolica.

Il vangelo di Matteo riporta queste parole di Gesù risorto ai suoi discepoli:

Mt 28,18-20
Gesù, si avvicinò (agli Apostoli) disse loro: «A mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra.
Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e
dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono
con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo.

2
Questo capitolo ci introduce nella parte più originale della costituzione, che fu molto discussa dai padri conciliari. Si
tocca una questione spinosa dibattuta da secoli. Reagendo al principio protestante della sola Scriptura il Concilio di
Trento diceva che la Rivelazione si trovava in due fonti - e nella Scrittura e nella Tradizione viva della chiesa. La DV
eredita una tale tematica e senza usare un linguaggio apologetico, ma anche senza falsi irenismi, non parla più di due
fonti, ma di un’unica fonte, perché Scrittura e Tradizione non si possono separare: sono tra loro congiunte e
comunicanti.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 20


Gli apostoli proclamano l’evangelo, il messaggio di Gesù Risorto e fanno vedere come le Scritture
dell’Antico Testamento avevano preparato la strada alla sua venuta. I cuori di molti si aprono alla fede,
perché il Cristo Risorto parla attraverso i suoi Apostoli! Il Vangelo che trasmettono gli apostoli non è però
solo una Parola da insegnare, ma è Parola da vivere! Essi che costituiscono la comunità di Gesù, la chiesa
apostolica, testimoniano con la vita la bellezza del Vangelo, trasmettendo i tanti doni ricevuti da Gesù: i
sacramenti, in particolare l’Eucaristia, il culto, la vita di carità, di fraternità. Tutto questo forma la TRADIZIONE
VIVA DELLA CHIESA che continua ancora oggi attraverso la riflessione teologica, la guida del magistero, la
testimonianza dei santi ecc… Dunque il Vangelo trasmesso dagli apostoli non è una semplice dottrina, ma è
vita di comunione e di amore. Gesù infatti non solo ha insegnato, ma ha anche raccolto il popolo d’Israele in
una comunità, la chiesa; il suo insegnamento si trasforma in vita e la sua vita diventa insegnamento. Il
Vangelo è dunque questa esperienza di conoscenza e di condivisione di vita che gli apostoli hanno vissuto
con Gesù e che è continuata anche dopo la sua Pasqua, grazie al dono del suo Spirito.

Questo annunzio di salvezza (IL VANGELO) che gli apostoli predicarono a tutti, attraverso la loro parola e
soprattutto attraverso la loro esperienza di Chiesa, ad un certo punto viene messo per iscritto da alcuni di
loro e da altre persone che condividono la loro esperienza. Questa “Scrittura” è guidata dallo stesso Spirito
Santo che già ispirava la loro predicazione e la loro testimonianza di vita. Concretamente questa Scrittura si
identifica con gli scritti che formeranno il Nuovo Testamento. In particolare nei Vangeli troviamo descritta
l’esperienza vissuta da Gesù con i suoi discepoli.

Dunque attraverso la conoscenza dell’Antico Testamento e degli scritti del Nuovo Testamento - soprattutto
i Vangeli che racchiudono l’esperienza di fede che la chiesa apostolica ha fatto di Gesù -, e attraverso la
Tradizione viva della Chiesa che trasmette i molti doni divini (sacramenti, liturgia, vita fraterna e di carità),
le generazioni successive possono conoscere ed accogliere la Rivelazione di Dio per loro.

La RIVELAZIONE DI DIO
si trasmette alle future generazioni attraverso:

la TRADIZIONE VIVA DELLA CHIESA
(il vangelo vissuto- sacramenti – vita di carità
vita di fraternità, testimonianze dei Santi, riflessione teologica, guida del magistero)

e l’annuncio della «Paola di Dio»
SACRA SCRITTURA (AT+NT)

Tutto questo costituisce il «DEPOSITO DELLA FEDE»

In una fase successiva, dopo la morte degli Apostoli, I VESCOVI, che sono i loro successori, testimoni e
garanti della tradizione vivente, custodiscono e trasmettono la Sacra Scrittura e la sacra Tradizione perchè
la Rivelazione di Dio possa raggiungere integra ad ogni uomo.

DV 7b. Gli apostoli poi, affinché l'Evangelo si conservasse sempre integro e vivo nella Chiesa, lasciarono
come loro successori i vescovi, ad essi « affidando il loro proprio posto di maestri ». Questa sacra
Tradizione e la Scrittura sacra dell'uno e dell'altro Testamento sono dunque come uno specchio nel
quale la Chiesa pellegrina in terra contempla Dio, dal quale tutto riceve, finché giunga a vederlo faccia a
faccia, com'egli è (cfr. 1 Gv 3,2).

La sacra Tradizione della Chiesa e la Sacra Scrittura sono dunque tra loro strettamente congiunte e
comunicanti, non si possono scindere, non si può pensare l’una senza l’altra, sono un solo sacro deposito,
come acque che scaturiscono dalla stessa sorgente. La Sacra Scrittura stessa sorge dalla Tradizione della
chiesa apostolica e la Tradizione si nutre della Scrittura e trova in essa il punto di riferimento e la sua
R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 21
norma. Dunque attraverso una profonda conoscenza della Sacra Scrittura, ma soprattutto i Vangeli, che
racchiudono l’esperienza di fede che la chiesa apostolica ha fatto di Gesù , e attraverso la Tradizione viva
della Chiesa, che dagli apostoli ad oggi trasmette i molti doni divini (sacramenti, liturgia, vita fraterna e di
carità), e continuamente progredisce rinnovandosi (teologia), le generazioni successive possono conoscere
ed accogliere, illuminate dallo Spirito, la Rivelazione di Dio per loro.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 22


II PARTE
GESU’ DI NAZARET
RIVELAZIONE DEFINITIVA DELLA
VERITA’ DI DIO

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 23


2. CHE COSA DICONO DI GESÙ DI NAZARET? (leggere)

 Leggere in: F. Ardusso, Gesù Cristo Figlio del Dio vivente (San Paolo), i capitoli 1.2.3. (pp.
11-52)

 Cosa dicono di Gesù di Nazaret?

 I molti volti di Gesù di Nazareth e i limiti delle immagini di Gesù:


l’immagine ebrea – l’immagine laico-umanistica – marxista - antiborghese –
degli psicologi - della nuova religiosità - l’immagine di Gesù trasmessa dalla
Chiesa.
 I limiti delle immagini di Gesù

3. LE FONTI STORICHE SU GESÙ DI NAZARET (leggere)

Per il cristianesimo il culmine della Rivelazione di Dio è costituito dall’evento Gesù Cristo. La fede cristiana
si fonda tutta su un uomo, Gesù, vissuto duemila anni fa, che è stato riconosciuto come «Signore» e «Figlio
di Dio» da un primo gruppo di persone, che ne ha tramandato la memoria attraverso i Vangeli e la vita
stessa della Chiesa.
La teologia fondamentale non può non interrogarsi su questo fondamento della fede, chiedendosi:
Quest’uomo è veramente esistito? Ha detto e fatto tutto quello che dicono i Vangeli? E soprattutto è
davvero il Figlio di Dio? Che valore ha la documentazione dei Vangeli su Gesù? Queste problematiche
stanno alla base di quella che si chiama “la questione del Gesù storico”. Incominciamo a presentare le fonti
storiche su Gesù di Nazareth.
Qualsiasi ricerca su un fatto o personaggio che pretende di essere “storico” non può prescindere da un
previo accertamento sulle fonti.
Certamente le fonti più ampie di Gesù di Nazareth che la storia ci ha lasciato sono I QUATTRO VANGELI, e
ad esse dedicheremo ampio spazio più avanti per verificarne la validità da un punto di vista storico.
Accanto alla testimonianza evangelica, ci sono altre fonti che ci parlano di Gesù: esse sono classificate in
base all’ambiente in cui sono nate. Possiamo così parlare di:

A) FONTI NON CRISTIANE

 FONTI GIUDAICHE
Giuseppe Flavio (93dC.)
 FONTI ELLENISTICO ROMANE
Tacito (115-117 dC.)
Svetonio (120 dC.)
Plinio il Giovane (111-113 dC.)

B) FONTI CRISTIANE EXTRA- EVANGELICHE


Lettere di S. Paolo; Lettere cattoliche

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 24


Le notizie su Gesù, provenienti da non cristiani e giunte a noi dall’antichità classica e giudaica, sono poche
di numero e scarse di contenuto. Questo non deve stupire, perché la storiografia antica era attenta
soprattutto ai fatti di natura politico-militare e dunque la vicenda di Gesù viene ad assumere proporzioni
modeste, quasi insignificanti.

A) FONTI NON CRISTIANE

 FONTI GIUDAICHE

 Giuseppe Flavio
La più antica testimonianza non cristiana di Gesù, quella di GIUSEPPE FLAVIO, uno storico giudeo nato negli
anni 30 in Palestina e passato dalla parte dei Romani, dopo la distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C..
Consegnatosi ai romani e spacciatosi per profeta preannunciò la fortuna alla famiglia nobile romana dei
“Flavii”, assicurandosi così il futuro a Roma, a spese della famiglia imperiale. E’ qui che scrive le sue opere
storiche sul popolo giudaico, tra cui la sua opera maggiore: le “Antichità giudaiche” (93 d.C.) che
contengono riferimenti diversi a Gesù, chiamato Cristo. Il testo più famoso, anche perchè più esplicito di
tutti, è quel brano chiamato “Testimonium flavianum”, che appare là dove Giuseppe racconta gli incidenti
capitati in Palestina al tempo del governo del procuratore Pilato:

«A quell’epoca viveva un saggio di nome Gesù. Poichè egli era operatore di fatti
straordinari e maestro degli uomini che accolgono con gioia la verità si trascinò dietro
molti Giudei e molti greci. Egli era considerato il messia. Sebbene Pilato, su accusa dei
nostri capi, lo condannò alla croce, quelli che fin dall’inizio lo avevano amato non
cessarono di proclamare che era apparso loro dopo tre giorni ancora vivo. I profeti di Dio
avevano detto queste cose e altre innumerevoli meraviglie su di lui. E ancora fin al
presente la stirpe dei cristiani, così chiamata in rapporto a lui, non ha cessato di
esistere». (Ant. XVIII, 3,3, §§.63-64).

In generale da altri dati che ci offre Giuseppe Flavio in altri testi si ricava questo: egli menziona Gesù, come
fratello di Giacomo e lo distingue da altri personaggi chiamati con lo stesso nome, riferendo l’appellativo
“Cristo” (testo che non abbiamo letto); di lui conosce l’attività di insegnamento e i miracoli; riguardo al
processo e alla condanna a morte di croce menziona l’iniziativa dell’autorità giudaica e l’intervento decisivo
di Pilato; sa anche dell’esistenza di un movimento di discepoli di origine giudaica e greca che si richiamano
alla sua persona e alla convinzione di averlo visto vivo dopo la morte.

Le cose che Giuseppe Flavio riporta riguardo a Gesù concordano sostanzialmente con i dati della tradizione
cristiana. Il fatto che non dica molto su Gesù e valuti sommariamente il movimento cristiano, già noto a
Roma e agli ambienti imperiali, è perfettamente comprensibile con la sua intenzione di presentare al
mondo colto la storia del popolo giudaico sotto una luce favorevole mettendo in sordina gli avvenimenti e i
personaggi che potevano ingenerare il sospetto di un popolo strano, turbolento e sedizioso. Bisogna tener
conto inoltre che quando Giuseppe Flavio scrisse quest’opera (sotto il regno di Domiziano) l’atmosfera
politico-religiosa non era favorevole al movimento cristiano.

 FONTI ELLENISTICO-ROMANE

 Tacito
Il primo storico non-giudeo che menziona Gesù è TACITO negli Annali (115-117 d.C.). Riferendo
dell’incendio scoppiato a Roma nel luglio del 64, Tacito afferma che Nerone, per stornare la diceria
popolare secondo la quale l’incendio sarebbe stato ordinato dal potere politico stesso, «fece passare per
colpevoli e sottopose a raffinatissimi tormenti coloro che il volgo chiamava cristiani e odiava per le loro
azioni nefande. Cristo, il fondatore della setta, dal quale avevano preso il nome, era stato giustiziato dal
R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 25
procuratore Ponzio Pilato, sotto il regno di Tiberio. Ma la rovinosa superstizione, repressa per il momento
dilagava di nuovo non solo per la Giudea, luogo di origine di quel male, ma anche per Roma, dove
confluiscono e trovano seguito tutte le atrocità e vergogne del mondo». (Ann. XV,44).

Lo stile, il tono del brano, la valutazione che lo storico dà della setta cristiana riflette la mentalità dei
cittadini benpensanti di Roma che guardavano con disprezzo e sospetto il pullulare delle sette straniere. Ad
una di queste appartengono i cristiani.
Tacito dimostra di conoscere l’appellativo Cristo e la sua condanna capitale sotto Tiberio e il procuratore
Ponzo Pilato in Giudea.

 Svetonio

Un secondo autore romano che accenna al personaggio di Gesù è SVETONIO. Scrivendo la biografia degli
imperatori romani (“Vita dei Cesari”), nel 120 d.C. circa, quando parla dell’imperatore Claudio, che regnò
dal 41 al 54 d.C., riferisce dell’editto con il quale egli “espulse da Roma i giudei i quali, istigati da un certo
Chresto (Cristo), provocavano spesso tumulti”.
La notizia dell’espulsione dei Giudei e dei cristiani da Roma corrisponde a quanto dice Luca negli Atti (At
18,2). La confusione tra Giudei e cristiani (Svetonio parla solo di Giudei istigati da Cristo) è comprensibile,
perchè i romani non avevano una chiara conoscenza di quali fossero le differenze tra Ebraismo e
Cristianesimo: entrambe queste religioni venivano dalla Palestina, entrambe avevano la Bibbia come testo
sacro.
Svetonio dunque conosce l’esistenza di un certo Cristo all’origine dei tumulti tra Giudei che portarono alla
loro espulsione da Roma.

 Plinio il Giovane

Il nome di Cristo ricorre in un altro documento romano, il più antico di tutti: si tratta della lettera che
PLINIO IL GIOVANE, governatore della Bitinia dal 111 al 113 d.C., invia all’imperatore Traiano per chiedergli
istruzioni circa i provvedimenti da usare contro i cristiani deferiti al suo tribunale. Dalle sue investigazioni e
interrogatori si è reso conto che il cristianesimo è una delle tante “superstizioni”; tra le loro pratiche
religiose c’è quella di riunirsi “in un giorno fisso per cantare un inno a Cristo come fosse Dio”.
Da questa testimonianza del letterato e giurista scrupoloso qual è Plinio, si può dedurre solo che agli inizi
del II sec i cristiani, già diffusi in Bitinia, nelle loro assemblee cultuali professano la fede in Cristo.

Conclusioni

Da queste testimonianze si deve concludere che i dati relativi alla persona e opera storica di Gesù si
riducono ad alcune notizie telegrafiche: il fondatore di quel movimento che dalla metà del I sec. in poi fa
sentire la sua presenza a Roma e nelle province, è conosciuto con il nome appellativo Cristo; è un ebreo
condannato al supplizio della croce dal governatore romano Ponzio Pilato al tempo di Tiberio, in Palestina.
Agli occhi degli storici romani la vicenda di Cristo interessa solo per il fatto che a lui si deve una di quelle
tante “superstizioni”, cioè religioni non ufficiali che si sono diffuse nell’impero, da guardare con sospetto.
Proprio questo atteggiamento ostile rende le frammentarie notizie su Cristo e sui cristiani molto preziose,
in quanto si trovano perfettamente concordanti sulla sostanza dei fatti con quelle cristiane.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 26


B) FONTI CRISTIANE EXTRA EVANGELICHE

Oltre ai vangeli, la tradizione cristiana primitiva ci ha consegnato altri scritti che contengono un riferimento
a Gesù, alle sue parole ai suoi gesti, al suo messaggio e che dunque possono essere importanti per la ricerca
storica.

 Le lettere di Paolo

Partiamo dalle più antiche che sono le lettere paoline. Esse, che costituiscono la più antica tradizione
cristiana (sono state scritte prima dei Vangeli!), sono molto sobrie sugli eventi storici e l’insegnamento di
Gesù. Questo può apparire strano, in realtà corrisponde esattamente alla prospettiva di Paolo, il quale, per
convincere gli avversari Giudei da una parte e i filosofi pagani dall’altra, punta tutto sulla relazione di fede
vitale con Gesù Risorto, tralasciando il riferimento specifico al Gesù terreno.
Dice Paolo nella seconda lettera ai Corinzi: “E anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non
lo conosciamo più così” (2Cor 5,16). Non è la conoscenza di un giudeo del passato o il rapporto con l’uomo
terreno che conta per la salvezza, ma l’incontro con il Cristo Risorto, con colui che oggi vive nello Spirito.
Nonostante questa peculiarità degli scritti paolini, in essi si può comunque ricavare anche un’immagine
precisa di Gesù Cristo, che Paolo stesso dice di desumere dalla tradizione: egli ci attesta che Gesù, ebreo
della stirpe di Davide, è vissuto in Palestina; ha raccolto un gruppo di discepoli, noti come i “Dodici”, tra i
quali Pietro, che egli conosce con il nome onorifico di Cefa, e Giovanni; la sera prima della morte ha fatto
con i discepoli quella che ora è chiamata “cena del Signore”; è stato messo a morte per iniziativa dei capi
Giudei, ma con l’intervento decisivo dell’autorità romana; dopo essere stato crocifisso e sepolto è stato
risuscitato da Dio ed è apparso a diversi e qualificati testimoni.
I dati dell’epistolario paolino concordano con quelli evangelici, anche se mostrano un particolare silenzio: in
Paolo manca qualsiasi riferimento ai miracoli di Gesù, alla sua attività in Galilea, al suo insegnamento in
parabole sul regno di Dio.

 Le lettere cattoliche

Le altre lettere cattoliche contengono ancora meno riferimenti all’esistenza e insegnamento di Gesù
terreno e nelle scarse notizie che danno confermano quanto è emerso dal quadro offerto da Paolo. Non
consideriamo invece gli Atti degli apostoli in quanto è riconosciuto che siano opera dello stesso autore del
terzo Vangelo e dunque non costituiscono una fonte autonoma rispetto ai vangeli.

 Conclusione

In generale possiamo concludere che l’analisi delle fonti extraevangeliche ci ha mostrato che oltre ai
Vangeli e agli scritti cristiani, esistono anche altre fonti che parlano di Gesù che appartengono ad ambiti
diversi come quello giudaico e romano, piuttosto ostili al cristianesimo e che quindi non suppongono un
interesse di parte. Queste fonti, non essendo direttamente interessate a Gesù, ci danno solo notizie
piuttosto frammentarie che, però, concordano con il quadro più ampio offerto dai Vangeli.
L’indagine fatta, dunque, ci rimanda ai Vangeli confermando che essi costituiscono la più ampia fonte sulla
figura di Gesù e che parlano di un uomo veramente esistito in Palestina nel I sec a.C. e segnato da una
tragica fine sotto Ponzio Pilato.

BIBLIOGRAFIA
- F. Ardusso, Il Gesù storico in: Gesù Cristo Figlio del Dio vivente, San Paolo, 1992, pp. 51-70
- F. Lambiasi, Le Fonti su Gesù: i Vangeli, in: Teologia Fondamentale, Piemme, n.19, 1996, pp.26-42.
- R. Fabris, Gesù il ‘Nazareno’, Indagine storica, Cittadella, Assisi, 2011 (per approfondimenti).
R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 27
4. I VANGELI

→ Che cosa significa la parola vangelo?


Come sono nati i vangeli? In che periodo sono stati scritti?
I vangeli sono delle biografie su Gesù di Nazaret?
Perché abbiamo ben quattro vangeli, non ne bastava uno?
Perché i primi tre vangeli: Marco, Matteo e Luca sono chiamati i vangeli sinottici?
Come sono da valutare dal punto di vista storico?

3
A. CHE COS’ È IL VANGELO? CHE COSA SONO I VANGELI?

 P. Tremolada, Vangeli, in: F. Manzi (ed.) Assaggi Biblici, Ancora, pp. 141-153.

IL SIGNIFICATO DEL TERMINE «VANGELO» E «VANGELI»

VANGELO = buona notizia


Deriva dal greco EUAGGELION (si legge euanghellion) = (e)vangelo→ (aferesi) → = vangelo
EU= buona, lieta AGGELION= notizia (deriva dal verbo agghello = annunciare)

E’ importante chiarire prima di tutto il significato della parola “vangelo” e distinguerlo dal termine plurale
“vangeli”. Quando noi sentiamo parlare di “VANGELO” immediatamente pensiamo ai quattro libretti dei
vangeli, ma la parola “vangelo” non evocava mai in passato l’immagine di un libro ma piuttosto l’immagine
di un messaggero in corsa che proclamava a tutti una notizia particolarmente importante che riempiva di
gioia. Il termine «evangelo», in greco euaggèllion, che per la caduta della vocale iniziale (afereresi) diventa
nelle nostre lingue «vangelo», significa «buona notizia». Non è una parola coniata dai cristiani, esisteva già
nel mondo greco profano per indicare una vittoria militare o un messaggio di salvezza portata a tutto il
popolo da un imperatore o da una persona importante. Questo termine si trova anche nell’Antico
Testamento ed è usato per indicare l’annuncio di vittorie (2Sam 18,19.20.25.27; 2Re 7,9) o le azioni di
salvezza di Dio (Sal 68,12; 96,2), oppure nel secondo e terzo Isaia, la venuta e l’intervento di Dio che viene a
salvare il suo popolo (Is 40,9-10; 52,10; 60,6; 61,1ss). Nella comunità cristiana del I secolo la parola
«vangelo» non intendeva assolutamente rimandare ad un testo scritto.

Nel Nuovo Testamento la parola VANGELO è abbondantemente usata al singolare (euaggelion) ed è


sempre riferita prima alla predicazione di Gesù e poi alla predicazione della chiesa delle origini. Soltanto
nel II secolo si cominciò a definire come “vangeli” i libretti di Marco, Matteo, Luca, Giovanni.

3Cf. P.TREMOLADA, Da Gesù ai vangeli, in F. Manzi (ed.) Assaggi biblici, Introduzione alla Bibbia anima della
teologia, Ancora 2006, pp. 141-153.
R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 28
B) LA FORMAZIONE DEI VANGELI

→ Come si passa dal vangelo predicato della chiesa primitiva ai vangeli scritti
(Mt-Mc-Lc-Gv)?

Questa domanda riguarda la formazione dei vangeli. Se il vangelo è stato prima di tutto predicato, come si
arriva a mettere per iscritto questa predicazione? Lo schema seguente fa vedere come si è arrivati alla
formazione del NT. Ci fermiamo a considerare in particolare la redazione dei vangeli. Gli esegeti attraverso
uno studio attento dei vangeli e delle lettere del NT hanno individuiamo tre tappe: 1) l’evento Gesù Cristo,
2) la predicazione apostolica, 3) la redazione dei vangeli.

LE TRE TAPPE NELLA FORMAZIONE DEI VANGELI

1-30 30-65 65-90 100-110

PRIMA TAPPA SECONDA TAPPA TERZA TAPPA

EVENTO PREDICAZIONE DEGLI REDAZIONE DEI VANGELI


GESU’ CRISTO APOSTOLI

(tradizione orale)
Kerygma pasquale MARCO

ATTIVITÀ DI GESÙ NASCITA DELLE PRIME GIOVANNI


COMUNITA’CRISTIANE
Morte e Chiesa apostolica MATTEO
Risurrezione ↓

Raccolta delle prime


fonti scritte su Gesù LUCA

Racconti della passione
e risurrezione – miracoli - ATTI APOCALISSE
Parabole DEGLI
APOSTOLI

50-80
LETTERE DI PAOLO
LETTERE CATTOLICHE

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 29


 PRIMA TAPPA: L’EVENTO GESÙ CRISTO (FINO AL 30 CIRCA)

La prima tappa di formazione dei vangeli è costituita dalla vicenda storica di Gesù: egli ha parlato e agito,
ma non ha scritto nulla e nessuno registrò le sue parole precise. Non ha neppure ordinato ai suoi discepoli
di scrivere, ma solo di predicare il vangelo.
Gesù appare in scena come il messaggero della gioia, l’annunciatore di una “buona notizia” che ha
dell’incredibile: il vangelo di Marco afferma che Gesù inizia il suo ministero dicendo: «… il regno di Dio è
vicino; convertitevi e credete al vangelo» (Mc 1,14-15).
La notizia straordinaria che Gesù annuncia è che Dio si fa vicinissimo all’uomo e fa sentire la sua signoria
nella storia, proprio attraverso la sua persona. Le promesse dei profeti si compiono! Ciò che le Scritture
dell’Antico Testamento annunciavano e che il popolo d’Israele attendeva in un lontano futuro finalmente si
realizza, si entra nel compimento del tempo! Il popolo di Dio è sollecitato a dare la risposta, a convertirsi
cioè a «cambiare mentalità» e a credere.
Il messaggio di questa lieta notizia portata da Gesù è accompagnato e avvalorato dal suo agire “potente”,
anche se sempre opera con discrezione e senza spettacolarità. Gesù invita uomini e donne a seguirlo,
sceglie dodici apostoli e li invia in tutte le località d’Israele; avvicina le folle, i poveri, gli emarginati, guarisce
gli ammalati, li tocca, li prende per mano, impone loro le mani, mette le dita nelle orecchie dei sordi, con la
terra e la saliva fa del fango che spalma sugli occhi dei ciechi; benedice i bambini, scaccia i demoni. Mangia
e beve in compagnia di pubblicani e peccatori, dona il pane ad una folla immensa, accoglie e perdona i
pubblicani e le prostitute, rimette i peccati. Rimprovera i ricchi che accumulano solo per loro stessi,
disapprova la rigidità di alcuni scribi e farisei chiusi nella religione del “dovere”, una religiosità piatta e
formale. Lava i piedi dei suoi discepoli durante l’ultima cena, infine, dona la sua vita per tutti e con la sua
risurrezione vince il potere della morte e del male. Gesù rivela la sconfinata bontà di Dio, la sua paternità,
la sua incredibile misericordia, la sua potente salvezza. Ecco la buona novella, ecco il vangelo di Gesù!
Noi non possediamo nessun documento risalente al periodo della vita terrena di Gesù. Cosa successe
dopo la sua morte e risurrezione?

 SECONDA TAPPA: LA PREDICAZIONE APOSTOLICA (30-65):

La seconda tappa è costituita dalla vita della Chiesa delle origini, che nasce per opera dello Spirito Santo,
dopo la morte e risurrezione di Gesù, a Gerusalemme. Vediamo di ricostruirla attraverso i testi
neotestamentari, perché queste sono le uniche fonti per accedere a questo tempo. Gli esegeti sono riusciti
a vedere negli scritti, facendo un cammino a ritroso, le tracce di questa predicazione orale.

Gli apostoli hanno vissuto con Gesù una grande avventura senza esserne consapevoli fino in fondo. Solo ad
avventura terminata, dopo l’incontro con Gesù Risorto, cominciano a rendersi conto della straordinarietà
dell’uomo che ha cambiato la loro vita. Giunti alla fede pasquale attraverso le esperienze delle «apparizioni
del Risorto» e come dice Luca, grazie all’«effusione dello Spirito Santo» (cf. At 2), incominciano a predicare
apertamente la potenza del “vangelo”, cioè la buona notizia della vittoria di Gesù sulla morte. L’effusione
dello Spirito del Signore Risorto apre la loro mente, il loro cuore e li rende capace di proclamare che Gesù
di Nazareth è il crocifisso Risorto, il Kurios, il Signore della storia! Tutta la predicazione parte da questo
centro! L’annuncio gioioso dei primi apostoli, Pietro e poi Paolo è tutto è centrato su Gesù Cristo, la sua
morte e la sua risurrezione, dunque su quello che si chiama il kerigma pasquale!

Abbiamo un’eco di questa predicazione apostolica negli Atti degli Apostoli. Luca è esplicito nel collocare la
prima proclamazione del vangelo a Gerusalemme e pone sulla bocca di Pietro il primo annuncio
kerigmatico del «mistero pasquale» che avviene subito dopo l’effusione dello Spirito Santo a Pentecoste

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 30


(At 24). Con parresia cioè con ‘coraggio’, senza timore, l’apostolo viene reso capace dalla forza dello Spirito
del Signore Risorto di proclamare, l’opera del Padre, che ha risuscitato il Figlio, da loro crocifisso. L’evento
della passione e morte di Gesù che prima sembrava una tragedia inspiegabile e un enigma, viene ora
compreso come il punto di arrivo di un disegno di misericordia e di salvezza per tutti, compresi quelli che
hanno partecipato alla sua crocifissione e alla sua morte.

Uomini d'Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nazaret - uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di
miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso operò fra di voi per opera sua, come voi ben sapete- dopo che, secondo il
prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l'avete inchiodato sulla croce per mano di empi
e l'avete ucciso. Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che
questa lo tenesse in suo potere. Questo Gesù Dio l'ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni. Innalzato pertanto
alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi
stessi potete vedere e udire… Sappia dunque con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e
Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso. (At 2,22-31)

Il primo frutto dello Spirito è l’annuncio della “Parola”, la proclamazione del VANGELO. Attorno agli apostoli
si comincia a formare una comunità di credenti che, accogliendo l’annuncio si allarga sempre di più.
Luca negli Atti degli Apostoli riferisce che dopo il discorso del primo degli apostoli, i numerosi presenti “si
sentirono trafiggere il cuore” e dissero a Pietro e agli altri apostoli “che cosa dobbiamo fare fratelli?” E
Pietro li invita alla conversione e a ricevere il battesimo che dona lo Spirito Santo, nel nome di Gesù Cristo.
Allora coloro che accolsero la sua parola e furono battezzati furono circa tremila persone (At 2,37-41). E’ la
nascita della Chiesa! L’autore degli Atti avrà particolare cura nel descrivere le vicende della prima comunità
cristiana, abbozzando un quadro ideale nei tre sommari a lei riferiti (At 2,42, 4,32-35; 5,12-16) e illustrando
i quattro pilastri su cui la nuova comunità era fondata: l’insegnamento degli apostoli (didachè), la
comunione fraterna (koinonia), la frazione del pane (eucaristia), le preghiere. L’esperienza di Cristo fatta da
questa comunità acquisterà un valore paradigmatico per tutte le altre chiese, perché si tratta della prima
chiesa nata sotto la guida autorevole degli apostoli.

Nella chiesa madre di Gerusalemme gli apostoli «testimoni oculari» della vicenda di Gesù sentono sempre
più forte l’urgenza di raccontare e comunicare la loro esperienza e la loro fede in quell’uomo che hanno
riconosciuto come Figlio di Dio; si comincia a fare memoria delle sue Parole e dell’esperienza di vita con lui,
cercando di far emergere dalla sua vita il mistero della sua persona. Incomincia la predicazione orale del
vangelo, «la catechesi», che consente alla prima comunità cristiana di approfondire il mistero di Cristo con
una più ampia conoscenza della sua Parola e delle sue opere.
Le domande dei nuovi discepoli, che entrano a far parte della comunità, la vita liturgica, le esigenze
pastorali, missionarie, stimolano gli apostoli, testimoni oculari della vicenda del Gesù terreno (al quale si
aggiungerà anche Paolo l’apostolo dei gentili), a sempre nuove riflessioni. La comunità delle origini guidata
dagli apostoli costituisce dunque l’ambiente vitale in cui le Parole e i gesti di Gesù furono ricordate e
approfondite alla luce delle Scritture dell’ AT. Dentro questa nuova intelligenza dell’evento Gesù,
confessato come il «Signore- Kurios », , diventa importante riprendere e fare memoria delle parole di Gesù
e dei suoi gesti, degli avvenimenti più importanti della sua vita, per ricomprenderli alla luce del mistero
pasquale. Tutto questo per istruire i nuovi discepoli di Gesù. Si sente quindi la necessità di recuperare la
dimensione narrativa del Kerygma cristiano. Nascono così le tradizioni orali: si racconta tutto ciò che Gesù
aveva detto e operato. Nella chiesa primitiva, gli apostoli incomincino ad operare una ricomprensione
ancora più profonda di Gesù, delle sue parole e delle sue opere, ora illuminate dalla luce del mistero
pasquale. Possiamo dire che solo ora si arriva ad una comprensione adeguata di tutto quello che Gesù ha
detto e fatto prima della sua morte-risurrezione.

4Questo annuncio ritornerà con sfumature diverse, altre quattro volte nel libro degli Atti: dinanzi al popolo
ebraico, dopo la guarigione dello storpio (At 3,12-15), dinanzi al sinedrio (At 4,8-12; 5,29-32) e infine a casa
del centurione Cornelio (At 10,34-43).
R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 31
La Risurrezione di Gesù illumina tutto, non è solo l’ultimo atto che conferma quanto Gesù aveva detto, non
è solo il sigillo finale di una vicenda che rende chiaro ciò che già si era intuito, non è solo un grande
miracolo, ma è l’atto decisivo della Rivelazione di Dio. Dunque c’è una comprensione del mistero di Gesù
che avviene alla fine. L’interesse degli apostoli, non è tanto quello di fare un resoconto esatto - dal punto
di vista della cronaca - delle parole e fatti di Gesù, ma di trasmettere - fedeli al dato storico - il senso
profondo dell’evento, di attualizzarlo, di riformularlo teologicamente, con un linguaggio comprensibile,
perché coloro che ascoltano possano accedere alla stessa esperienza di fede degli apostoli.
Facciamo un ipotesi assurda: se gli apostoli avessero stenografato le parole dette da Gesù terreno, le
avessero ricordate con esattezza estrema, le avessero scritte ad una ad una prima della Pasqua, la loro
comprensione sarebbe stata minore, perché è il Risorto, il VIVENTE a guidare il gruppo apostolico alla VERITÀ
della sua persona. I primi apostoli e tutti i primi cristiani, non parlano di Gesù come di uno che appartiene al
passato, ma di uno che adesso è il vivente. Gesù Signore è vivo nella sua chiesa e la guida. La sua comunità
vive di Lui e in Lui, celebrando nella cena, la sua morte e risurrezione.

E’ in questo ampio intervallo di tempo (dal 30 al 65-70 circa) che il vangelo viene trasmesso oralmente,
interpretato e attualizzato dentro le comunità cristiane. E’ qui che si forma quello che possiamo chiamare il
DEPOSITO DELLA FEDE, le tradizioni orali su Gesù e poi le prime tradizioni scritte (confessioni di fede, inni
cristologici, racconti della passione-risurrezione, i racconti dei miracoli, parabole ecc…), quelle fonti da cui
attingeranno gli evangelisti per scrivere i loro vangeli.

 TERZA TAPPA: LA REDAZIONE DEI VANGELI MATTEO, MARCO, LUCA GIOVANNI (65-110)

La predicazione orale su Gesù viene poi messa per iscritto e tra il 65 e il 110 d.C., nascono quattro libretti
che vennero chiamati «vangeli» solo a partire dalla seconda metà del II secolo. Nessuno dei quattro scrittori
fece uso di questo termine per identificare la propria opera. Fu la tradizione della Chiesa a chiamare questi
testi «vangeli». Perché usare questa parola tendenzialmente riservata all’annuncio orale - quello della
predicazione su Gesù - per designare gli scritti di Matteo, Marco, Luca, Giovanni? E’ probabile che ciò sia
accaduto perché in questi testi è stata riconosciuta la verità dell’ «evangelo», cioè della «lieta notizia»
riguardante Gesù Cristo e la sua opera di salvezza. Si vide con chiarezza che i vangeli non intendevano
offrire un semplice resoconto delle vicende riguardanti la persona di Gesù, essi volevano piuttosto fissare
per iscritto, nella forma di una narrazione progressiva, l’annuncio della salvezza realizzata dalla persona di
Gesù Cristo. I vangeli non sono delle biografie di Gesù, ma sono un racconto teologico. Infatti vediamo che
hanno molte lacune dal punto di vista «biografico»: essi raccontano in modo approfondito solo gli ultimi
anni del ministero pubblico di Gesù; dell’infanzia abbiamo pochissimi dati in Lc 1-2 e Mt 1-2. Possiamo
dunque dire che essi sono delle «attestazioni di fede», ovvero, scritti attraverso i quali è offerta ai lettori,
sotto forma di narrazione, la testimonianza credente dei discepoli di Gesù Cristo e delle prime generazioni
dei cristiani. La chiesa primitiva ci ha consegnato quattro vangeli convinta di consegnarci la testimonianza di
un’unica persona e di un unico evento, riletto e approfondito sotto quattro angolature differenti. In effetti
lo scopo di questi testi non è semplicemente quello di riferire importanti eventi accaduti, ma piuttosto di
condividere con i futuri lettori quella fede che portò a considerare simili eventi come l’annuncio della
salvezza universale offerta da Dio all’umanità, mediante Gesù di Nazareth (cf. P. Tremolada, op.cit. 143).

I «vangeli» sono i libretti di Matteo, Marco, Luca, Giovanni, ma perché ne abbiamo quattro e non uno o
due o cinque? E’ importante prima di tutto dire che i vangeli trattano dell’unico evento centrale della storia
della salvezza – Gesù Cristo, proclamato nella Risurrezione Figlio di Dio , ma ogni evangelista presenta il
mistero di Gesù con sottolineature proprie e accentuazioni differenti. Gli evangelisti usano linguaggi diversi
perché i vangeli sono rivolti a comunità cristiane differenti, provenienti dal giudaismo o dal paganesimo e
dunque si adattano ai loro uditori. Ma come giustificare il loro numero?

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 32


L’esistenza di questi quattro vangeli, tutti e solo questi, dipende da un’operazione tanto suggestiva quanto
complessa, che potremmo definire di “discernimento ecclesiale” per cui da subito questi vangeli vennero
considerati molto presto come scritti sacri e ispirati. Questo discernimento è avvenuto fondamentalmente
nei primi secoli dell’era cristiana, sotto la guida dello stesso Spirito che ha ispirato gli autori dei testi
evangelici. Sappiamo bene che altri testi sulla vita di Gesù furono scritti nei primissimi secoli del
cristianesimo, ma non furono riconosciuti dalla tradizione cristiana come autentica espressione della
rivelazione di Dio. Parliamo dei vangeli apocrifi che sono molto diversi da questi quattro vangeli canonici,
che soli sono stati riconosciuti come sacri e ispirati, entrando così a far parte del canone (cf. P. Tremolada,
op. cit 143).

- La «Questione sinottica» e il Quarto Vangelo


Gli esegeti si sono accorti che i primi tre vangeli - Marco, Matteo, Luca - sono molto simili tra loro e per
questo motivo sono stati chiamati “Vangeli sinottici”.

Il termine SINOTTICI deriva dal greco synopsis = con uno sguardo unico e sta ad indicare che
questi tre vangeli si possono leggere con un unico sguardo, disponendo il testo su tre colonne
parallele.
Esempio - Sinossi battesimo di Gesù

MARCO 1,9-11 MATTEO 3,13-17 LUCA 3,21-22

9 13 21
Ed ecco, in quei giorni, Gesù Allora Gesù dalla Galilea venne al Ed ecco, mentre tutto il
venne da Nàzaret di Galilea e fu Giordano da Giovanni, per farsi popolo veniva battezzato e Gesù,
battezzato nel Giordano da battezzare da lui. ricevuto anche lui il battesimo, stava
Giovanni. in preghiera,
14
Giovanni però voleva
impedirglielo, dicendo: «Sono io
che ho bisogno di essere battezzato
15
da te, e tu vieni da me?». Ma
Gesù gli rispose: «Lascia fare per
ora, perché conviene che
adempiamo ogni giustizia». Allora
egli lo lasciò fare.

16
10 Appena battezzato, Gesù uscì 22
E subito, uscendo dall’acqua, vide il cielo si aprì e discese sopra di lui
dall’acqua: ed ecco, si aprirono per lo Spirito Santo in forma corporea,
squarciarsi i cieli e lo Spirito lui i cieli ed egli vide lo Spirito di
discendere verso di lui come una come una colomba,
Dio discendere come una colomba
colomba. e venire sopra di lui.

11
E venne una voce dal cielo: «Tu 17
Ed ecco una voce dal cielo che e venne una voce dal cielo:
sei il Figlio mio, l’amato: in te ho
diceva: «Questi è il Figlio mio, «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te
posto il mio compiacimento».
l’amato: in lui ho posto il mio ho posto il mio compiacimento».
compiacimento».

Le somiglianze tra i vangeli sinottici nascono dal fatto che ci sono tra loro dei rapporti di dipendenza
letteraria. Presentano una simile sequenza narrativa ed hanno un medesimo contenuto:

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 33


- TRITTICO SINOTTICO (Battesimo di Giovanni Battista, Battesimo di Gesù e Tentazioni di Gesù nel deserto);
- MINISTERO DI GESÙ IN GALILEA
- MINISTERO DI GESÙ IN GIUDEA (che termina con la sua passione-morte-risurrezione).
L’argomento che riguarda i rapporti di dipendenza tra i primi tre vangeli va sotto il nome di «questione
sinottica».

Afferma P.Tremolada:

«Dei quattro vangeli che oggi possediamo, il primo ad essere scritto fu, con ogni probabilità, il
vangelo secondo Marco esso andrebbe datato poco prima del 70 d.C. Seguirono il vangelo secondo
Matteo e il vangelo secondo Luca verosimilmente negli anni 70-80. Ultimo nell’ordine, vide la luce il
Vangelo secondo Giovanni, che, nella sua forma definitiva, fu redatto verso la fine del primo secolo o
all’inizio del secondo. I primi tre vangeli (Matteo, Marco, Luca) appaiono molto simili, sia per
struttura o sequenza narrativa che per contenuto… Il vangelo secondo Giovanni appare invece
sensibilmente diverso anche nell’impianto generale. La denominazione “quarto Vangelo”,
frequentemente utilizzata, intende alludere anche alla sua originale impostazione. Il testo di Marco è
il più breve ed è probabilmente divenuto una fonte per il vangelo secondo Matteo e per quello
secondo Luca: la gran parte del vangelo di Marco, infatti, si ritrova negli altri due sinottici. Si deve
tuttavia rilevare che alcuni episodi e soprattutto alcuni detti di Gesù sono presenti in Matteo e in
Luca ma non in Marco. Ciò farebbe pensare ad una fonte comune a Matteo e Luca, che Marco non ha
conosciuto. La si è voluta nominare “fonte Q” (dal tedesco Quelle, che significa appunto “fonte”,
“sorgente”). D’altra parte, è anche vero che in Luca abbiamo molti episodi e insegnamenti che non
sono presenti negli altri due vangeli. Seppure in maniera minore, lo stesso si deve dire dello stesso
vangelo secondo Matteo. Ne dobbiamo dedurre che Luca e Matteo possedevano ciascuno delle fonti
proprie, che si fusero con le fonti comuni e con la tradizione di Marco. Giovanni … procede per una
sua propria strada, in modo alquanto indipendente dalle fonti dei sinottici… ancorato ad una
tradizione e ad un ambiente autonomi…».

Semplificando possiamo presentare questo schema:

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 34


 CONCLUSIONE

Le tre tappe della formazione dei vangeli sono espresse anche nel documento della Dei Verbum al n. 19,
che tratta anche del carattere storico dei Vangeli.

Dei Verbum n. 19: Carattere storico dei Vangeli

La santa madre Chiesa ha ritenuto e ritiene con fermezza e con la più grande costanza che i quattro suindicati Vangeli,
di cui afferma senza esitazione la storicità, trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra
gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro eterna salvezza, fino al giorno in cui fu assunto in cielo (cfr At
1,1-2). Gli apostoli poi, dopo l'Ascensione del Signore, trasmisero ai loro ascoltatori ciò che egli aveva detto e fatto,
con quella più completa intelligenza delle cose, di cui essi, ammaestrati dagli eventi gloriosi di Cristo e illuminati dallo
Spirito di verità, godevano. E gli autori sacri scrissero i quattro Vangeli, scegliendo alcune cose tra le molte che erano
tramandate a voce o già per iscritto, redigendo un riassunto di altre, o spiegandole con riguardo alla situazione delle
Chiese, conservando infine il carattere di predicazione, sempre però in modo tale da riferire su Gesù cose vere e
sincere. Essi infatti, attingendo sia ai propri ricordi sia alla testimonianza di coloro i quali « fin dal principio furono
testimoni oculari e ministri della parola », scrissero con l'intenzione di farci conoscere la « verità » (cfr. Lc 1,2-4) degli
insegnamenti che abbiamo ricevuto.

VANGELI CANONICI E VANGELI APOCRIFI

Vogliamo ora fare un’ultima osservazione per chiarire la differenza che esiste tra i vangeli canonici (riconosciuti dalla
chiesa) e i vangeli apocrifi (non riconosciuti).

I VANGELI di Marco, Matteo, Luca Giovanni sono chiamati «CANONICI» perché sono entrati a far parte del
canone delle Scritture e sono considerati dalla chiesa «sacri» e «ispirati» in quanto sorti in «ambiente
apostolico» custodiscono la tradizione dei testimoni oculari e riportano il fatto storico. Essi sono stati
accettati e utilizzati dalla chiesa delle origini, ininterrottamente, come testi normativi: questo è il criterio
che fonda la loro canonicità.
Ci sono altri scritti che hanno ricevuto il nome di «VANGELI APOCRIFI» che non sono stati accolti nel canone
delle Scritture. Questi scritti che vanno dal II al V secolo dC. hanno un valore differente in quanto non sono
sorti in ambito apostolico. Prima di presentarli, spieghiamo il significato del termine “Apocrifo”.

APOCRIFO significa «tenere nascosto» deriva da una parola greca composta da sue elementi: «apò» che
significa «lontano, da parte» e la radice del verbo «krypto» che significa “nascondere”.
Questo termine non appartiene al linguaggio cristiano delle origini ma viene dalla cultura classica ed è
utilizzato in ambiti filosofici esoterici per indicare discorsi segreti, che devono essere tenuti nascosti, in
quanto rivolti a un gruppo chiuso, a pochi «iniziati».

-I Vangeli Apocrifi sono stati scritti con l’intenzione di aggiungere notizie o rivelazioni nascoste su Gesù che
non erano presenti nei vangeli canonici. Si tratta in realtà di scritti sorti in ambiente popolare distante dalla
comunità degli apostoli. In alcuni di essi domina l’elemento fantasioso, l’intenzione edificante e il
messaggio emozionale. Gesù appare come un personaggio da favola, un fanciullo prodigio che compie
miracoli strani e magie, o come un eroe che affronta la sofferenza senza percepirne il peso. Questi testi non
colgono la vera portata del «vangelo» esponendo una visione ingenua della divinità di Gesù.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 35


- Altri, come i vangeli gnostici, sorgono da sette gnostiche che incorporavano al loro interno elementi presi
dalla filosofia platonica, da altre religioni e dal cristianesimo. La comunità cristiana li ha subito rifiutati
perché incompatibili con la fede cristiana testimoniata dagli apostoli (es. Il vangelo di Giuda).

Per quanto concerne … il valore e lo scopo degli apocrifi, Testaferri ritiene che essi ricoprano una
funzione integrativa e una di auto – legittimazione. Infatti la letteratura apocrifa si forma “dopo i
Vangeli canonici al fine di integrare il ritratto di Gesù in essi veicolato”. Essi, da questo punto di
vista, rappresentano una sorta di “cristologia dal basso”, nel senso indicato dal noto studioso
tedesco Alois Grillmeier per cui “nel mondo ellenistico del II secolo la cristologia cristiana dovette
confrontarsi e incontrarsi con la cultura popolare incline alle leggende, alle apoteosi e alle
narrazioni fantastiche e mitizzanti sulla vita dei personaggi e degli eroi”. Un ritratto di Gesù
quindi espresso ricorrendo ad un codice e ad un linguaggio “basso”, di carattere
folkloristico/popolare, contrapposto a quello “alto” della teologia speculativa in via di
formazione. Essendo poi gli apocrifi “per lo più espressione di gruppi dissenzienti o gnostici che
confidavano nel possesso di una sapienza arcana da custodire gelosamente e da riservare solo
agli uomini ‘spirituali’”, essi svolsero di conseguenza anche un ruolo propagandistico, per servire
il quale era diffuso il ricorso alla pseudoepigrafia, fenomeno del resto conosciuto anche
all’interno dello stesso Nuovo Testamento (F. Cigognini).

La lettura degli Apocrifi permette di mettere ancora più in luce la bellezza ed autenticità dei vangeli
canonici. Leggiamo un testo preso dallo Pseudo Matteo.

[20, 1] Nel terzo giorno di viaggio, gli altri camminavano, ma la beata Maria stanca per il troppo calore
del sole del deserto e vedendo un albero di palma disse a Giuseppe: "Mi riposerò alquanto all'ombra di
quest'albero". Giuseppe dunque la condusse premuroso dalla palma e la fece discendere dal giumento.
Sedutasi, la beata Maria guardò la chioma della palma, la vide piena di frutti e disse a Giuseppe:
"Desidererei, se possibile, prendere dei frutti di questa palma". Giuseppe le rispose: "Mi meraviglio che tu
dica questo, e che, vedendo quanto è alta questa palma, tu pensi di mangiare dei suoi frutti. Io penso
piuttosto alla mancanza di acqua: è già venuta meno negli otri e non abbiamo onde rifocillare noi e i
giumenti". [2] Allora il bambino Gesù, che riposava con viso sereno sul grembo di sua madre, disse alla
palma: "Albero, piega i tuoi rami e ristora mia mamma con il tuo frutto". A queste parole, la palma piegò
subito la sua chioma fino ai piedi della beata Maria; da essa raccolsero i frutti con i quali tutti si
rifocillarono. Dopo che li ebbero raccolti tutti, la palma restava inclinata aspettando, per drizzarsi, il
comando di colui al cui volere si era inclinata. Gesù allora le disse: "Palma, alzati, prendi forza e sii
compagna dei miei alberi che sono nel paradiso di mio padre. Apri con le tue radici la vena di acqua che
si è nascosta nella terra, affinché da essa fluiscano acque a nostra sazietà". La palma subito si eresse, e
dalla sua radice incominciò a scaturire una fonte di acque limpidissime oltremodo fresche e chiare.
Vedendo l'acqua sorgiva si rallegrarono grandemente e si dissetarono con essi anche tutti i giumenti e le
bestie. Resero quindi grazie a Dio. [21] Il giorno dopo partirono di là. (Evangeli Apocrifi dell’infanzia:
Pseudo Matteo)

Bibliografia
- sito: www.christianismus.it : Voce Apocrifi - Testaferri F. I vangeli sconosciuti. I vangeli apocrifi e il Gesù
storico, Assisi, Cittadella 2011 (Recensione di F. Cicognini).
- Gli evangeli apocrifi, Massimo 1979 Testi scelti e tradotti da F. Amiot; Introduzione di Daniel-Rops;
presentazione di E. Galbiati.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 36


IL VANGELO APOCRIFO DI GIUDA

Il vangelo di Giuda, è stato scritto in greco probabilmente il 150 dC. ed è andato perduto. Nel 1978 è stato
trovato, casualmente, nel deserto presso El Minya, in Egitto una copia di questo testo scritto in copto
intorno al 300 dC che riporta alcune conversazione tra Gesù e l’apostolo Giuda. Questo manoscritto dopo
essere passato in mano a molti mercanti di antichità, ed essere rimasto depositato in una banca per 16
anni, fu acquistato nel 2000 da un’antiquaria di Zurigo, Frieda Nussberger-Tchacos e successivamente fu
ceduto alla National Geografic Society, che lo fece tradurre e pubblicare progressivamente dagli inizi del
2006. Intorno a questa pubblicazione - del ritrovato vangelo di Giuda - è stato inscenata un astuto evento
commerciale (forse perché l’istituzione doveva rifarsi delle esorbitanti spese sostenute per la traduzione e
la conservazione del documento): viene accusata la Chiesa antica, in particolare Ireneo di Lione (II sec. dC.)
di aver tenuto nascosto questo vangelo perché esso metteva in discussione la validità dei vangeli canonici.
Mass-media e giornali hanno dato risalto a questa sensazionale notizia: la scoperta di questo vangelo mette
in pericolo la verità dei vangeli canonici!

Ma le cose non sono andate in questo modo. S. Ireneo di Lione nel suo lavoro «Adversus haereses» (Contro
le Eresie) scritto intorno al 180 dC. parla del vangelo gnostico di Giuda e lo dichiara «inautentico» perché
solo i vangeli canonici di Matteo, Marco, Luca, Giovanni avevano la garanzia di essere una produzione
apostolica fedele al messaggio apostolico originale in quanto già accettati da tutti dovunque e da sempre
(questo è un criterio per la canonicità!). Ireneo non ha tenuto nascosto niente!
Il vangelo di Giuda essendo un testo «apocrifo» era tenuto “nascosto” dalla setta gnostica dei cainiti
(discendenti di Caino), perché riservato solo agli appartenenti a questo gruppo gnostico. Per questo motivo
il documento era introvabile.
Questa setta dava peso e valore a tutti i personaggi negativi. Per gli gnostici, Dio è cattivo perché
responsabile del male nel mondo; la materia è cattiva, è una prigione maligna, solo la morte libera la
scintilla divina. Giuda Iscariota è presentato in una luce positiva: a lui viene affidato il compito di tradire
Gesù per liberarlo dalla carne. Il gesto dell'apostolo non fu dunque un tradimento, ma l'esecuzione di un
ordine di Gesù stesso, che aveva bisogno di lui per compiere l’opera di redenzione dell’intera umanità.
Questo vangelo ha valore per la comprensione dello gnosticismo, ma non mette assolutamente in
discussione la validità dei quattro vangeli canonici di Matteo, Marco, Luca, Giovanni.
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NB) Il testo di Dan Brown, Il codice da Vinci riprende i vangeli apocrifi di questo tipo.
Al di là del racconto narrato, ovviamente di fantasia, il libro pretende seriamente di fondarsi su documenti
ed eventi storici reali, anche se tenuti nascosti da un complotto secolare, di cui la Chiesa (cattolica) è il prin-
cipale artefice (Cf. Introduzione dell’autore). Incredibile… ma falso! Per un’accurata recensione vedi il sito:
www.christianismus.it

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 37


C) L’AUTENTICITÀ STORICA DEI VANGELI
APPROCCI E CRITERI

→ Come facciamo a sapere con certezza che quanto riferito dagli evangelisti è riconducibile a Gesù di
Nazareth e non è una loro invenzione? → I quattro vangeli sono autentici dal punto di vista storico?
→ Come si fa a verificare la storicità dei vangeli?

La Dei Verbum afferma al n. 19 la storicità del vangeli.

Dei Verbum n. 19 Storicità dei vangeli

La santa madre Chiesa ha ritenuto e ritiene con fermezza e con la più grande costanza che i quattro … Vangeli, di cui
afferma senza esitazione la storicità, trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli
uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro eterna salvezza, fino al giorno in cui fu assunto in cielo (cfr At 1,1-
2).

Questa dichiarazione sulla storicità di questi testi è il risultato di un intenso lavoro compiuto dagli esegeti, i
quali hanno studiato il valore storico del contenuto dei vangeli, per vedere se i vari dati riferiti a Gesù sono
storicamente attendibili e autentici. Questo lavoro di studio e di ricerca del dato storico è stato condotto
attraverso diversi approcci. I più praticati dagli storici sono questi tre:

 APPROCCIO FONDATO SUI CRITERI DI STORICITÀ


 APPROCCIO FONDATO SULLA SPIEGAZIONE SUFFICIENTE
 APPROCCIO FONDATO SULLA TESTIMONIANZA

Gli studi in questo campo sono vasti e complessi, noi li riprendiamo solo sinteticamente perché sono
utilissimi nel mostrarci l’attendibilità di questi quattro vangeli. In particolare ricordiamo questi contributi:

LATOURELLE R., Storicità dei vangeli, in: R. LATOURELLE, R. FISICHELLA, Dizionario di Teologia fondamentale,
Cittadella Ed. Assisi, 1990, pp. 1405-1431.

FUSCO,V., Il valore storico dei Vangeli, in LACONI M. e collaboratori, Vangeli sinottici e Atti degli Apostoli, Elle
Di Ci , Logos, 5 -1994, 119-132.

 L’APPROCCIO FONDATO SUI CRITERI DI STORICITÀ

L’approccio fondato sui criteri di storicità comprende tre criteri: il criterio della molteplice attestazione, il
criterio della discontinuità, il criterio della continuità. Ricordiamo che tutti e tre questi criteri devono
essere soddisfatti. Riprendiamo semplificando molto alcuni dati essenziali dello studio di R. LATOURELLE.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 38


 IL CRITERIO DELLA MOLTEPLICE ATTESTAZIONE (O MOLTEPLICE TESTIMONIANZA)

Un primo criterio è chiamato di “molteplice attestazione”: è da ritenersi autentico un dato evangelico


quando è attestato in tutte, o quasi tutte, le fonti della tradizione purchè esse siano diverse e
indipendenti tra loro (fonte Marco, fonte “Q”, tradizioni particolari di Matteo e Luca, fonte giovannea e
paolina).
Questo criterio è di uso corrente nella storia universale. Una testimonianza concordante, proveniente da
fonti diverse e non sospette di essere intenzionalmente collegate tra loro, merita di essere riconosciuta da
tutti. La certezza poggia sulla convergenza e sull’indipendenza delle fonti.
Questo criterio ha un maggior peso se anche un dato evangelico è reperibile in diverse forme letterarie
attestate nelle fonti molteplici presenti nei Vangeli. Quando il dato è presente in modi diversi, cioè per es.
in una narrazione, e poi anche in una controversia, ma anche in un sommario, e poi ancora in un discorso,
ecc... è ancora più storicamente attendibile.

Per es. il tema dell’amore di Gesù per i peccatori ha un’alta garanzia di storicità perchè è attestato in una
parabola, quella del figliol prodigo (Lc 15,11-32); in una controversia, come quella contro i sommi sacerdoti
e gli anziani del popolo che conclude: “I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio”( cfr.
Mt 21,28-32); in un miracolo, cioè la guarigione del paralitico a cui Gesù dice: “Ti sono rimessi i peccati”,
prima ancora di guarirlo (Mc 2,1-12); in un episodio come quello della vocazione di Levi (Mc 2,13-17).

Lo studioso R. Latourelle, per es., in un suo famoso studio pubblicato su una rivista scientifica (“Autenticità
storica dei miracoli di Gesù”, in “Gregorianum”, 54/2, 1973, 225-261) ha potuto mostrare che il tema dei
miracoli di Gesù si trova attestato in tutte le fonti dei vangeli e anche in forme letterarie assai diverse tra
loro, come le narrazioni, le controversie, i sommari, i discorsi.

Questo criterio permette dunque di riconoscere come storicamente attendibili i tratti essenziali della figura
di Gesù presenti nei vangeli: la sua presa di posizione di fronte alla legge giudaica; il suo amore per i poveri
e i peccatori, il suo rifiuto ad essere un Messia politico; la sua predicazione in parabole; i suoi miracoli; la
sua morte per la salvezza di tutti gli uomini.

 CRITERIO DELLA DISCONTINUITÀ (O DIFFERENZA, DISSOMIGLIANZA, ORIGINALITÀ)

E’ da considerarsi autentico un dato evangelico che costituisce qualcosa di unico e originale in rapporto
ad ogni altra letteratura, qualcosa di irriducibile sia alle concezioni del giudaismo sia a quelle della chiesa
primitiva.

Prima di prendere in considerazioni i racconti particolari, si può dire che i Vangeli nel loro insieme, si
presentano come un caso di discontinuità, nel senso che costituiscono qualcosa di unico e di originale.
Sono in discontinuità con la letteratura giudaica antica, come pure con la letteratura cristiana successiva. I
Vangeli non sono né biografie, né apologie, né speculazioni dottrinali, ma sono testimonianze sull’evento
unico della venuta di Dio nella storia.

Il criterio della discontinuità afferma che se un elemento presente nei vangeli ed attribuito a Gesù (una
parola, un atteggiamento), non trova la sua spiegazione né nella cultura giudaica a cui appartenevano Gesù
e gli apostoli, né nella prassi della comunità cristiana, in cui si sono formati i Vangeli, non resta che
confermarlo come autentico, cioè come realmente proveniente da Gesù. Questo dato infatti non si spiega
né come prodotto della tradizione biblico-giudaica, né come retroproiezione di ciò che caratterizza la
Chiesa primitiva. Grazie a questo criterio possiamo ritenere come storici molti fatti.

Riportiamo solo alcuni esempi:

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 39


a) Gesù chiama Dio “Abbà” (papà): era inaudito per lo spirito religioso di un ebreo rivolgersi a Dio con un
termine affettuoso, intimo e popolare come “papà”; per esprimere il rispetto per la trascendenza di Dio, un
ebreo non pronunciava il nome di Dio e «raramente» ci si rivolgeva a Lui chiamandolo «Padre». Era dunque
impensabile chiamarlo «Abbà»! Solo una persona «geniale» in grado di modificare il sistema religioso
tradizionale poteva farlo. Come potevano gli Apostoli inventarsi questo modo confidenziale di pregare di
Gesù? Erano gli apostoli più geniali di Gesù? Dai testi questo non appare! E’ ragionevole condurre a Gesù
questa espressione: egli svela così la sua «coscienza filiale» e solo lui autorizza gli uomini a rivolgersi
sempre a Dio come a un Padre e a pregare con l’espressione « Padre nostro».

b) I vangeli presentano Gesù che viene battezzato da Giovanni Battista

Mc 1,9-11
Ed ecco, in quei giorni, Gesù venne da Nàzaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E
subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una
colomba. E venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio
compiacimento»

Sappiamo che il Battesimo di Giovanni Battista è un rito per la remissione dei peccati. Gesù si unisce ai
molti peccatori e si fa battezzare da Giovanni. Possono gli apostoli o gli evangelisti aver inventato questo
fatto? No! Perché questo evento sembra presentare Giovanni più grande di Lui e Gesù sembra essere un
peccatore che si mescola ad altri peccatori. La chiesa primitiva non avrebbe potuto inventare questo fatto
perché sarebbe apparso in contrasto con la proclamazione di Gesù come «Figlio di Dio». L’episodio del
battesimo di Gesù appariva a chiunque, equivoco, ambiguo, pericoloso perché sembrava smentire la
divinità di Gesù. Perché viene raccontato? Perché è realmente accaduto. È un dato storico! Gli evangelisti
hanno compreso che Gesù, a differenza dei battezzati che confessavano i loro peccati, riceve nel momento
in cui è battezzato una teofania: il Padre lo proclama suo Figlio, l’amato, perché lui che non ha peccati,
prende su di sé tutti i peccati dell’intera umanità.

c) L’atteggiamento di Gesù di fronte alla Legge (Torah) e ai precetti giudaici: egli non ha l’atteggiamento
dei farisei ossessionati dai dettagli dell’osservanza esteriore, ma la sua attenzione va allo «spirito» della
Legge. Vedi, il discorso della Montagna (Mt 5-7), il suo atteggiamento nei confronti del riposo sabbatico
(Mc 3,1-6), delle purificazione rituali (Mc 7,18-22). Tutto questo rappresenta un caso di rottura con il
mondo rabbinico.

Mt 5,21-22 (discorso della montagna)


Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio.
Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al
fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco
della Geènna

Il discepolo di Gesù non solo non dovrà «uccidere» ma dovrà guardarsi dall’ira, non si lascerà mai
trasportare dalla collera verso l’altro, non lo offenderà e non lo insulterà. Chi si adira, chi va in collera, chi si
arrabbia alzando la voce, sbraitando, dà sfogo ad una aggressività che porta in sé il germe dell’omicidio. C’è
come una forza mortale verso l’altro che si espande sotto forma di rabbia. La stessa cosa si deve dire, e a
maggior ragione, dell’insulto. Esso può essere grave e gravissimo. Dire ràcha al proprio fratello significa,
nella nostra lingua, dirgli: «per me tu non esisti più». Con il termine pazzo si traduce qui una parola (nabal)
che nella lingua aramaica equivale a rinnegato, empio, cioè senza rapporto con Dio, senza dignità,
maledetto da lui. E’ una parola carica di disprezzo, tendente ad annientare la dignità dell’altro. Il Figlio di
Dio, che conosce il cuore dell’uomo meglio di chiunque altro, vuole mettere in guardia di fronte ai
meccanismi segreti del mondo interiore dell’uomo (P. Tremolada, La regola di vita della comunità di Gesù,
in dialogo 2005, p.47) .

Mc 3,1-6 (nuova interpretazione del riposo sabbatico)

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 40


Entrò di nuovo nella sinagoga. Vi era lì un uomo che aveva una mano paralizzata, e stavano a vedere se
lo guariva in giorno di sabato, per accusarlo. Egli disse all’uomo che aveva la mano paralizzata: «Àlzati,
vieni qui in mezzo!». Poi domandò loro: «È lecito in giorno di sabato fare del bene o fare del male,
salvare una vita o ucciderla?». Ma essi tacevano. E guardandoli tutt’intorno con indignazione, rattristato
per la durezza dei loro cuori, disse all’uomo: «Tendi la mano!». Egli la tese e la sua mano fu guarita. E i
farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio contro di lui per farlo morire.

Gesù guarisce e opera in giorno di «sabato». Il «fare del bene all’uomo» non infrange il precetto perché
questo è - secondo Gesù - il modo di dare culto a Dio. Egli è però contestato giudicato degno di morte,
perché per i farisei «guarire» qualcuno, voleva dire «lavorare» e quindi non rispettare la legge del riposo
sabbatico.

Mc 7,18-22 (abolizione delle leggi rituali)


E disse loro: «Così neanche voi siete capaci di comprendere? Non capite che tutto ciò che entra
nell’uomo dal di fuori non può renderlo impuro, perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va nella
fogna?». Così rendeva puri tutti gli alimenti. E diceva: «Ciò che esce dall’uomo è quello che rende
impuro l’uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità,
furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza.
Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo».

Gesù dice chiaramente che il cuore dell’uomo deve essere purificato e non tanto le mani o le stoviglie! In
questo modo abolisce molte leggi rituali.

c) L’ affermazione di Gesù di non conoscere nè il giorno nè l’ora del giudizio finale:

Mt 24,36
Quanto a quel giorno e a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli del cielo né il Figlio, ma solo il Padre.

d) Il fatto che venga descritto in stato di penosa prostrazione al Getsemani:

Mc 14,32-42
Giunsero a un podere chiamato Getsèmani ed egli disse ai suoi discepoli: «Sedetevi qui, mentre io
prego». Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Disse loro: «La
mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate». Poi, andato un po’ innanzi, cadde a terra e
pregava che, se fosse possibile, passasse via da lui quell’ora. E diceva: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a
te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu». Poi venne, li trovò
addormentati e disse a Pietro: «Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare una sola ora? Vegliate e
pregate per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole». Si allontanò di nuovo
e pregò dicendo le stesse parole. Poi venne di nuovo e li trovò addormentati, perché i loro occhi si erano
fatti pesanti, e non sapevano che cosa rispondergli. Venne per la terza volta e disse loro: «Dormite pure
e riposatevi! Basta! È venuta l’ora: ecco, il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori.
Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino».

Si potevano inventare gli apostoli un Gesù così affranto ed angosciato? Se avessero voluto creare un mito,
queste passo sarebbe stato coerente con la loro intenzione?

e) Ci sono passi nei vangeli nei quali si sottolineano l’incomprensione e i difetti degli apostoli, essi non
fanno bella figura, viene fuori la loro debolezza. Non ha senso inventarsi tutto questo! es) i tre
rinnegamenti di Pietro (Pietro giura e scongiura per tre volte di non conoscere Gesù al momento della sua
passione); il tradimento di Giuda.

Mc 14,66-72 (rinnegamento di Pietro)


Mentre Pietro era giù nel cortile, venne una delle giovani serve del sommo sacerdote e, vedendo Pietro
che stava a scaldarsi, lo guardò in faccia e gli disse: «Anche tu eri con il Nazareno, con Gesù». Ma egli
R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 41
negò, dicendo: «Non so e non capisco che cosa dici». Poi uscì fuori verso l’ingresso e un gallo cantò. E la
serva, vedendolo, ricominciò a dire ai presenti: «Costui è uno di loro». Ma egli di nuovo negava. Poco
dopo i presenti dicevano di nuovo a Pietro: «È vero, tu certo sei uno di loro; infatti sei Galileo». Ma egli
cominciò a imprecare e a giurare: «Non conosco quest’uomo di cui parlate». E subito, per la seconda
volta, un gallo cantò. E Pietro si ricordò della parola che Gesù gli aveva detto: «Prima che due volte il
gallo canti, tre volte mi rinnegherai». E scoppiò in pianto.

Mc 14,43-50 (tradimento di Giuda)


E subito, mentre ancora egli parlava, arrivò Giuda, uno dei Dodici, e con lui una folla con spade e bastoni,
mandata dai capi dei sacerdoti, dagli scribi e dagli anziani. Il traditore aveva dato loro un segno
convenuto, dicendo: «Quello che bacerò, è lui; arrestatelo e conducetelo via sotto buona scorta».
Appena giunto, gli si avvicinò e disse: «Rabbì» e lo baciò. Quelli gli misero le mani addosso e lo
arrestarono. Uno dei presenti estrasse la spada, percosse il servo del sommo sacerdote e gli staccò
l’orecchio. Allora Gesù disse loro: «Come se fossi un ladro siete venuti a prendermi con spade e bastoni.
Ogni giorno ero in mezzo a voi nel tempio a insegnare, e non mi avete arrestato. Si compiano dunque le
Scritture!». Allora tutti lo abbandonarono e fuggirono…

Tutti questi dati non possono derivare dalla prima comunità cristiana, né dagli Apostoli, né dagli
evangelisti. Non possono essere stati inventati perchè la comunità cristiana, in forza della fede in Gesù,
come Figlio di Dio, sarebbe stata più portata a sopprimere questo genere di dati, piuttosto che a crearli.

Questo criterio suppone una conoscenza storicamente attendibile dell’ambiente giudaico e di quello delle
prime comunità cristiane. Gli studi a questo riguardo hanno raggiunto un buon livello, ma non possiamo
escludere che in futuro si possa raggiungere qualche altro risultato, grazie al progresso di questa
conoscenza.

Il criterio di discontinuità dice che è autentico tutto ciò che è originale in Gesù, ma non si può escludere
come storico tutto ciò che originale non è, cioè ciò che è in continuità con la comunità ebraica e con
quella cristiana. Se questo criterio è indispensabile per farci arrivare ad un nucleo di detti e fatti di Gesù
che costituisce un minimum criticamente sicuro, è però, da solo, insufficiente a farci ricostruire tutta la
storia autentica di Gesù di Nazareth.
Se valesse solo il criterio di discontinuità, arriveremmo a tracciare un profilo di Gesù simile a quello di un
marziano, come se fosse un essere disincarnato, vissuto fuori dallo spazio e dal tempo, senza radici nella
storia che lo precede, senza collegamenti con quella che lo segue.
Ma come avrebbe potuto Gesù comunicare anche le idee più innovatrici ai suoi contemporanei senza una,
sia pur minima, comune base culturale? Ecco, allora, la necessità di correlare questo criterio con un altro
ad esso complementare: il criterio della continuità.

 CRITERIO DELLA CONTINUITÀ (O COERENZA, SOMIGLIANZA, CONFORMITÀ)

E’ da ritenersi autentico un dato evangelico che è conforme con l’ambiente palestinese e giudaico al
tempo di Gesù, quale noi lo conosciamo dalla storia, dall’archeologia e dalla letteratura.
Questo criterio dice che si possono accettare come autentici quei dati della storia di Gesù che: a) si
inseriscono bene nel contesto ambientale dei suoi tempi b) e si accordano con il nucleo originale del suo
messaggio.

a) Con il criterio di continuità si verifica la corrispondenza tra i dati evangelici e l’ambiente palestinese del I
sec., così come emerge dalle varie fonti extra evangeliche che abbiamo a disposizione e si scopre che i dati
extra evangelici concordano con i dati dei vangeli.
Esempi:

- a livello storico politico: sono risultati attendibili la menzione dei personaggi politici citati dai vangeli:
Quirino, Erode Antipa, Caifa, Pilato. Non ci sono nomi inventati!
R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 42
- a livello geografico: sono attendibili i dati topografici relativi al lago di Tiberiade, alle città di Genesareth,
Cafarnao, Cesarea di Filippo. Per es. si è costatato che quanto si dice nella parabola del Buon Samaritano a
proposito della “discesa” da Gerusalemme a Gerico è vero, perchè c’è un dislivello di circa 1000 m.
Interessanti risultati, in questo senso sono, stati apportati dalle numerose scoperte archeologiche che
hanno riportato alla luce i diversi strati delle città antiche, riuscendo a costatare alcuni particolarità relative
alle varie epoche di esistenza.

- a livello culturale: tutti i dati, presenti nei vangeli, relativi agli usi, costumi, vestiti, abitazioni, cibo,
occupazioni, linguaggio sono in sintonia con l’ambiente palestinese del I sec.

- a livello religioso: i dati storici confermano l’esistenza dei vari gruppi religiosi citati nei vangeli: farisei,
sadducei, zeloti. Così pure sono attendibili le controversie rabbiniche e le concezioni a riguardo dell’attesa
messianica e della centralità del Tempio, ecc...

Tutte queste corrispondenze sono talmente strette e precise che ci permettono di superare il dubbio di una
ricostruzione artificiale o di una invenzione posteriore di sana pianta. Queste verifiche contribuiscono a
ricomporre la cornice dei vangeli nel suo insieme.

I criteri di discontinuità e continuità si completano a vicenda. La conformità con l’ambiente consente di


situare Gesù nella storia e di concludere che egli appartiene veramente al suo tempo, mentre il criterio di
discontinuità rivela Gesù come “persona” assolutamente originale e unica.

 APPROCCIO FONDATO SULLA SPIEGAZIONE SUFFICIENTE

Questo criterio viene usato abitualmente in storia, in materia di diritto e nella maggior parte delle scienze
umane. Se c’è un particolare “evento” occorre risalire ad una spiegazione sufficiente che giustifichi
adeguatamente tale “evento”.
- I miracoli di Gesù, il fascino che esercita su tutti, il prestigio che possiede, la sua autorevolezza (ecc… )
esigono una spiegazione sufficiente che viene trovata nella unicità della sua persona, nella quale agisce la
potenza di Dio. Leggere tutti questi dati come invenzione e costruzione della chiesa primitiva non spiega
adeguatamente tutto questo e crea molti più problemi.
- A proposito della Risurrezione di Gesù si parte da una domanda: come mai ad un certo punto un gruppo di
ebrei ha proclamato Gesù di Nazareth, morto sulla croce, non solo Risorto, non solo Messia e figlio
dell’uomo, ma addirittura Signore (Kyrios) e Figlio di Dio in senso trascendente e divino? (cf. Fil 2,6-11). Per
un fatto così sconvolgente si esige una causa sufficiente. Essa non la si trova nei discepoli stessi, soltanto
buoni ebrei come tutti gli altri, ma nella esperienza che essi hanno fatto di Gesù Risorto. Il passaggio dei
discepoli dalla crisi per la morte di Gesù alla esultanza e gioia è stato così repentino che può essere
spiegato solo dall’evento della Risurrezione.

 APPROCCIO FONDATO SULLA TESTIMONIANZA

E’ l’approccio più normale in campo storiografico: identificare la fonte di una determinata notizia, i suoi
portatori, e verificare se siano in possesso dei requisiti indispensabili per essere accettati come testimoni
attendibili. Si indaga non solo sui quattro evangelisti, ma anche sulla comunità primitiva. Che tipo di
comunità era, quali erano le sue caratteristiche che possono aver influito positivamente o negativamente
sul valore storico del materiale trasmesso? La sua creatività fin dove poteva spingersi? Aveva interesse alla
realtà storica degli avvenimenti?

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 43


Elementi di risposta vengono offerti dagli Atti degli Apostoli e soprattutto dalle lettere paoline.
Direttamente quest’ultime ci informano solo sulle comunità fondate da Paolo, indirettamente però,
soprattutto quando sono in gioco i fondamenti stessi della fede cristiana, anche sulle altre con i quali la
comunione, anche nei momenti più difficili, non venne mai meno.
Da queste fonti emerge un’immagine di comunità primitiva con tre importanti caratteristiche in ordine al
nostro problema: tradizionale, gerarchica, testimoniale.

a) Una comunità tradizionale: la comunità proclama un messaggio di cui non è padrona, al quale nulla si
può aggiungere o togliere o modificare. Esso infatti non è una «sapienza umana» frutto delle esperienze o
delle riflessioni dei suoi membri, ma un «vangelo», «euanggéllion» unico, come unico è il Cristo (Gal 1,6-8;
1Co 1,10-13), e perciò tradizione che si riceve, si trasmette, si conserva con fedeltà (cf. 1Co 11,2.23-25;
15,1-3.11; Gal 1,9; Fil 4,9, 1Tes 2,13).
Essa ha un preciso punto di partenza nel tempo e nello spazio (Rm 15,19): Gerusalemme che è anche il
punto di comunione per tutte le chiese fondate da Paolo.

b) Una comunità gerarchica


Gli Apostoli intervengono con autorità per correggere eventuali deviazioni dottrinali o pratiche della
comunità (1 Co 4,17-21; 5,3-5; 11,33s; 2Co 13,1-10) in modo da garantire che tutti i fedeli mettano a frutto i
loro doni spirituali. Gli Atti ci danno notizia degli inviati da Gerusalemme che visitano le nuove comunità
fondate da Paolo: Pietro e Giovanni visitano la Samaria (At 8,14-17), Barnaba va ad Antiochia (At 11,19-26);
Pietro passa da una comunità all’altra (At 9,32; 12,17). Questi dati ricevono una conferma almeno globale
da Paolo (Gal 2,1.11.13; 1 Co 9,5).

c) Una comunità testimoniale


Nei primi decenni della vita della comunità sono presenti persone che avevano conosciuto Gesù, anzi erano
stati suoi apostoli, scelti allo scopo di assimilare in maniera completa l’insegnamento di Gesù. Il gruppo che
è storicamente attendibile (si parla di Giuda il traditore e della sua sostituzione) era una realtà irrepetibile,
legata strettamente a Gesù. Gli apostoli (I DODICI) costituiscono anche dal punto di vista storico un ponte
che unisce saldamente le due rive, la comunità post-pasquale e Gesù. Nel momento in cui ha preso forma il
grosso della tradizione evangelica, le comunità avevano in mezzo a loro, in posizione autorevole questi
testimoni oculari. Per essi Gesù non poteva essere un nome qualsiasi, un ricordo sbiadito, una pagina
bianca sulla quale il primo venuto poteva scrivere quello che voleva.

CONCLUSIONE

I tre approcci descritti rispondono tutti e tre alle esigenze della critica storica. Essa infatti, come ogni buon
investigatore, deve dar peso sia alle tracce ancora visibili, sia alle deduzioni necessarie per collegare e
spiegare i fatti, sia alle deposizioni dei testi degni di fede. Pur mantenendo ferma la differenza tra i tre
approcci e la necessità di rispettare la logica interna di ognuno, va ribadito che essi si prestano ad essere
usati non tanto come alternativi, quanto come complementari, come del resto avviene in ogni corretta
storiografia.

Mediante l’uso di questi criteri e di altri che non è qui il caso di ricordare, gli studiosi sono giunti a
ricostruire un quadro globale della vita e dell’azione di Gesù. Il Cristo di cui parlano i vangeli è veramente il
Gesù storico (ottenuto mediante l’applicazione di rigorosi metodi storico-critici). Non si parla più di
“falsificazione” o di “deformazione” da parte degli evangelisti o della comunità primitiva.
Certo questo non vuol dire che noi sappiamo tutto sul Gesù storico: non si può scrivere scientificamente
una “vita di Gesù”: oggi, infatti, più nessuno si azzarda a farlo. Ugualmente, però, i Vangeli ci danno dei dati
sicuri sul messaggio, sull’azione e sulla persona di Gesù.
Questo nucleo storico è sufficiente ad assicurare la ragionevolezza del credo cristiano. Se Gesù è nato nel
6-7 a.C. piuttosto che nell’anno 0 non è così importante per un credente, mentre è fondamentale per la

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 44


decisione di fede sapere che veramente Gesù ha avuto un particolare amore per i peccatori e ha regalato
loro il perdono di Dio!

Purtroppo nella cultura contemporanea, anche italiana, dove la cultura religiosa è assolutamente
marginale, girano ancora immagini di Gesù poco rispettose del dato storico appurato criticamente dai
vangeli. Ci sono autori contemporanei che trattano i vangeli con sfacciata e allegra disinvoltura, non
essendo al corrente dei metodi di indagine scientifica approntati in questi ultimi decenni, e soprattutto
ignorando la ricchezza degli studi teologici. Si cancella così come «non storico» tutto ciò che non rientra
nei criteri aprioristici e razionalistici della propria mentalità, in questa direzione va purtroppo il testo di
C.Augias-M.Pesce, Inchiesta su Gesù, 2006.

Dopo questo percorso ci resta un ulteriore passo da compiere. Dal punto di vista storico si può dimostrare
come attendibile tutta la vicenda storica di Gesù, il suo messaggio, il suo comportamento, la sua morte. Ma
che dire della sua Risurrezione? Questo tema sarà oggetto di studio particolare nel c. 10 di F.Ardusso, Gesù
Cristo, Figlio del Dio vivente, San Paolo.

BIBLIOGRAFIA

ARDUSSO F., Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente, c. 4 , San Paolo, pp. 65-70.
DEI VERUM N. 19.
ISTRUZIONE DELLA PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA (21-4-1964) La verità storica di vangeli in: Enchiridium
Biblicum, EDB.
FABRIS R., Gesù il ‘Nazareno’, Indagine storica, Cittadella, Assisi 2011 (per approfondimenti).
FUSCO,V., Il valore storico dei Vangeli, in LACONI M. e collaboratori, Vangeli sinottici e Atti degli Apostoli, Elle
Di Ci , Logos, 5 -1994, 119-132.
LATOURELLE R, “Autenticità storica dei miracoli di Gesù”, in “Gregorianum”, 54/2, 1973, 225-261.
LATOURELLE R., Storicità dei vangeli, in: R. Latourelle, R. Fisichella, Dizionario di Teologia fondamentale,
Cittadella Ed. Assisi, 1990, pp. 1405-1431.
TREMOLADA P., Da Gesù ai vangeli, in F. Manzi (ed.) AsSaggi biblici, Introduzione alla Bibbia anima della
teologia, Ancora 2006, pp. 141-145.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 45


D. LA TEOLOGIA DEI VANGELI

IL VANGELO DI MARCO

 Tremolada P., Vangelo secondo Marco, Assaggi Biblici, pp. 165-176.

1. INTRODUZIONE BREVI CENNI SULL’AUTORE, I DESTINATARI, LA DATA DI COMPOSIZIONE

- Marco autore

Il NT ricorda con una certa insistenza un personaggio della primitiva comunità cristiana che portava questo
nome. E’ presentato come collaboratore e discepolo di Paolo: è accanto a lui prigioniero (Fm 2,4; Col 4,10)
e l’apostolo lo vorrà con sé fino alla fine (2Tm 4,11) 5. È anche vicinissimo a Pietro, che lo chiama addirittura
“mio figlio” (1Pt 5,13). E’ ricordato anche da Luca nel libro degli Atti, abitualmente insieme a Barnaba, di
cui era cugino (cf. Col 4,10), però col nome completo di Giovanni Marco. E’ di Gerusalemme (At 12,12),
collabora con Paolo e Barnaba alla formazione della chiesa di Antiochia (At 12,24) e si affianca come loro
aiutante nella prima grande impresa missionaria (At 13,5); si stacca però da loro appena sbarcati sulle coste
della Panfilia (At 13,13), finendo così per diventare motivo di una irreparabile rottura fra i due grandi
missionari (At 15,36-39). La tradizione da Papia in poi, identifica Marco con questo personaggio.
Per gli esegeti moderni è un giudeo-cristiano, che parla greco e comprende bene l’aramaico. Lo dimostrano
le 12 parole aramaiche6 che riporta con esattezza e che spesso traduce, non riportate da Mt e Lc.
Probabilmente proveniva da Gerusalemme, perché mentre conosce bene la terra santa, non conosce
altrettanto bene la geografia della Galilea7. L’autore del primo vangelo non fu un testimone oculare del
ministero di Gesù. Ma raccolse la predicazione di Pietro e attinse alle tradizioni (orali e scritte) già formate
nella chiesa apostolica.

- Destinatari, origine

Non è stato scritto per una comunità palestinese8; in questo caso non si capirebbe l’insistenza nel tradurre
espressioni aramaiche (3,17;5,41;7,11-34;14,36) e nello spiegare usanze di quell’ambiente (7,3-4), ma è
stato scritto per una comunità di origine pagana. Lo dimostrano l’assenza di problematiche tipicamente
palestinesi, l’insistenza nello spiegare termini e usanze giudaiche, il forte interesse verso la missione ai
pagani. L’origine del vangelo è molto probabilmente romana. In questo senso vanno le affermazioni di
diversi Padri dal 3° secolo in poi (Clemente Alessandrino, Girolamo, Eusebio, Efrem), confermate da
numerosi latinismi presenti nel testo (es. kentyrìon-centurione [15,39.44.45]; xéstes-stovoglie [7,4];
spekoulàtor-guardia [6,27]; denarion-denaro [6,37]). Esistono altre possibilità, per esempio di un’origine
antiochena da alcuni presa in considerazione (per i rapporti con Pietro), ma quella romana sembra meglio
fondata.

5 LACONI M., I vangeli sinottici nella Chiesa delle origini, in Vangeli Sinottici e Atti degli Apostoli, pp.138-139, Logos,
Elle Di Ci 1994, pp 138-139.
6 Aramaismi: Boanerghea/figli del tuono (3,17); Talitha koum/giovinetta alzati (5,41); Korban/offerta sacra (7,11);

Rabbi/Maestro (14,45); Golgotha (15,22); Eloi Eloi lema sabachtani/Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?
(15,34).
7 SEGALLA G., Evangelo evangeli, EDB 1993
8 LACONI M., I vangeli sinottici nella Chiesa delle origini, in Vangeli Sinottici e Atti degli Apostoli, p. 142.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 46


- Datazione

Più verosimilmente tra il 67 e il 70 del primo secolo.9 Non molto prima (dato lo sviluppo delle tradizioni e le
notizie antiche), non molto dopo, dati i rapporti con gli scritti successivi di Mt e Lc.

- Scopo del Vangelo

Condurre i lettori a scoprire l’identità di Gesù: l’intero libro è come percorso da questo interrogativo: “Chi è
Gesù di Nazaret?”, che in più di una circostanza emerge in superficie.

2. UN VANGELO SOTTOVALUTATO E INCOMPLETO?

Il primo contatto con il vangelo di Marco è assai sconcertante10. E’ forse il vangelo che si conosce di meno.
Forse a motivo della sua brevità è stato ritenuto il vangelo più povero e dunque meno letto. Ad eccezione
del tempo delle origini (I-III d.C) dove questo testo era molto valutato, il vangelo di Mc è stato
progressivamente trascurato e svalutato; viene commentato poco nell’antichità in confronto a Matteo e
Luca che venivano privilegiati perché apparivano più ricchi e completi. La scarsa utilizzazione è confermata
dalla presenza assai ridotta nei lezionari liturgici e l’assenza quasi completa di commenti. A partire dal XIX
secolo la ricerca scientifica moderna ha scoperto che Marco è il vangelo più antico che è la base degli altri
due sinottici, l’hanno dunque esaminato a fondo come la testimonianza più solida e autentica di Gesù di
Nazareth. Da allora il vangelo è stato rivalutato e studiato. Anche la liturgia lo ha riscoperto recentemente e
con la riforma liturgica postconciliare del 1973 incomincia ad essere letto per intero (o quasi) nel ciclo
liturgico.
Dire che Marco è il vangelo più antico non è un puro dato cronologico, significa molto di più: Marco è
l’inventore del genere letterario vangelo. Prima di lui era esistito, con l’apostolo Paolo, il vangelo come
annuncio della passione, morte risurrezione di Gesù Cristo (1Co 15,1-8) ed era esistita una tradizione orale,
forse anche scritta, di singoli episodi o insegnamenti. Marco è il primo che raccoglie questo materiale e lo
ordina in un racconto continuo e il primo che antepone al racconto della passione i fatti riguardanti
l’attività di Gesù (predicazione - miracoli). La sua opera sarà dunque un modello per gli altri evangelisti.
Ma quali sono stati i motivi di tanta trascuratezza nel passato? Si è soliti individuarli nel fatto che Marco
presenta una povera forma letteraria, ma soprattutto perché appare sconcertante la sua incompletezza
rispetto agli altri due sinottici.

- L’incompletezza di Marco rispetto ai vangeli Sinottici

Marco parla spesso dell’insegnamento di Gesù (1,21-22; 2,13; 6,2.6.34; 10,1,11,17; 12,14.35; 14,49) ma il
contenuto di tale insegnamento non viene mai espresso, come se non avesse nessuna importanza! Perché?
E’ troppo facile rispondere che l’evangelista dava già noti al lettore i contenuti di questo insegnamento;
come mai riporta altri materiali di altro tipo: miracoli, controversie... e non l’insegnamento del Maestro?
Non che l’evangelista si dimostri indifferente all’insegnamento di Gesù; al contrario, nessuno come lui
sottolinea con tanta frequenza questa attitudine di Gesù e il sostantivo “insegnamento” (didachè) gli è
caratteristico. Certamente non mancano degli insegnamenti espliciti al c. 4 (la sezione delle parabole) e al
c.13 (il discorso escatologico). Pochi sono, a confronto di Matteo e Luca, gli insegnamenti sulla sequela di
Gesù lungo la via che sale a Gerusalemme (8,31-10,52): abbiamo solo qualche esemplificazione dettagliata
sulle ricchezze, il matrimonio, il potere, ma in sostanza tutto si riassume nella chiamata a seguire Gesù. A
Marco dunque non interessa tanto l’insegnamento come “dottrina”, bensì la vicenda drammatica di Gesù
che perciò si impegna a raccontare con fedeltà assoluta. I pochi insegnamenti servono dunque per
comprendere pienamente la PERSONA DI GESU’. L’assenza dei grandi discorsi, quelli che per intenderci
formano la ricchezza di Matteo e di Luca, (è un vangelo senza discorso della montagna - nemmeno un

9 ID, p. 142-43.
10 FUSCO V., Marco: il vangelo difficile? in Rivista Clero Italiano 11(1987) pp. 754-761.
R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 47
frammento!-, senza beatitudini, senza le parabole della misericordia, senza nemmeno il padre nostro!), non
suppongono necessariamente disinformazione da parte dell’evangelista! Marco fa la scelta precisa di
puntare tutta la sua attenzione sulla vicenda e la persona di Gesù.

- Le particolarità del lessico marciano

Mc usa un lessico, una sintassi e uno stile piuttosto poveri11. Scrive M.Laconi12:

“Senza dubbio il linguaggio di Marco è povero, e lo stile è modesto e monotono. La sua conoscenza del
greco è assai ridotta e i semitismi abbondano...; e tuttavia il suo vangelo è un libro leggibilissimo,
addirittura gustoso e spesso accattivante. Sembra di sentire una persona parlare con semplicità e
spontaneità, con le incongruenze naturali del “parlato” e l’istintiva vivacità del narratore nato. Non c’è
bisogno di documentare l’evidente modestia di questo vangelo; più importante è scoprire i misteri della
sua spontanea comunicativa. Si serve del linguaggio popolare greco diffuso in tutta l’area del
Mediterraneo e parlato da tutti e risente fortemente delle origini semitiche dei suoi ricordi; ...riesce
benissimo a mantenere desta l’attenzione del lettore fino alla fine”.

- Usa dei semitismi: i verbi al passivo teologico, il soggetto che rimane implicito è sempre Dio.
- E’ povero come quantità di parole usate (1345 vocaboli su 11.229 parole); è molto frequente l’uso di
alcuni avverbi come “subito”(euthys), “di nuovo”(palin), “molto” (polloi). L’avverbio ‘subito’ serve per
segnalare talvolta una svolta ne racconto, ma sottolinea anche l’urgenza e l’obbedienza.
- Usa parole aramaiche sparse un po’ a caso e si preoccupa sempre di tradurle per i suoi lettori: Boanerghes
(figli del tuono) 3,17, Talithà koum (giovanetta alzati) 5,41; korban (offerta sacra) 7,11; effathà (apriti!)
7,41; Hosanna (gloria a Dio) 11,9-10; Abba (papà) 14,36; Rabbi (maestro) 14,45; Golgotha (cranio)15,22;
Eloi Eloi lemà sabachtàni (Dio mio Dio mio, perchè mi hai abbandonato?) La ragione è che l’autore non
obbedisce alle regole dello stile, ma alla testimonianza, al ricordo da tramandare. Tuttavia quando si
accorge che queste parole rischiano di non essere comprese dal suo lettore, egli le spiega.
- Sono frequenti anche i latinismi, parole o espressioni latine tradotte in greco: denaro, censo, moggio,
centurione, legione, guardia, lettuccio ecc..
- In Mc abbondano anche i diminutivi: figlioletto (7,25), giovinetta, barchetta (3,9), pesciolini, cagnolini
(7,27.28) ecc...

La sintassi è poco curata rispetto ad una corretta sintassi greca; ma è vicina allo stile popolare e a quello
semitico: proviene dal greco popolare o dal semitico l’uso frequente della paratassi invece che della
sintassi: le frasi sono coordinate, unite dalla congiunzione ‘e’ (kai) piuttosto che subordinate. In certi casi si
ha una vera cascata di frasette accostate l’una all’altra (Mc 6,30-33 E si riuniscono... e gli riferirono...e dice
loro... e partirono... e li videro....e capirono... e accorsero...e li precedettero). Frequenti gli anacoluti: le
frasi sono interrotte lasciate in sospeso (2,10; 3,16-17; 4,31-32 ecc..). Si nota anche l’uso dell’asindeto
(inizio brusco della frase, senza il legamento caro al greco, abituale in aramaico) che se da una parte
denuncia poca sensibilità alla lingua, dall’altra imprime al racconto un ritmo incalzante. La sua fermata
brusca e il cambiamento di soggetto improvviso sembra essere la riproduzione scritta di un testo “parlato”
e quindi non sprovvisto di una certa suggestione. Usa abbondantemente la costruzione perifrastica, il
participio presente storico, la doppia negazione, il plurale impersonale.

Il testo di Marco ha il gusto dei piccoli particolari vivaci, del tutto inutili per il procedere del racconto,
servono per suscitare l’interesse del lettore (Il tetto scoperchiato; Gesù schiacciato dalla folla; Gesù e i
discepoli non hanno neppure il tempo di mangiare).

11 DUFOUR X.L., Il vangelo secondo Marco, in GEORGE A., GRELOT P., Introduzione al Nuovo Testamento.
vol.2 L’annuncio del Regno, Borla 1976, 31-68.
12 LACONI M., Introduzione speciale, in Vangeli Sinottici e Atti degli apostoli, LOGOS, Elle Di Ci (1994), pp.

167-168.
R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 48
Troviamo ripetute o duplicate espressioni o domande con le quali il narratore vuole sottolineare aspetti
che non devono sfuggire al lettore. (2,5-10 “Ti sono rimessi i peccati - Chi può rimettere i peccati? - Il potere
di rimettere i peccati) .
Aggiunge, alla fine di un racconto, particolari importanti per la comprensione di un episodio (1,16; 2,6; 5,42
ecc). Imperizia letteraria o abilità del narratore che ha voluto tenere in sospeso il suo interlocutore? Spesso
l’autore mescola i tempi dei verbi con una disinvoltura eccessiva (6,7-9); ma, l’abbandono dell’aoristo
classico nelle narrazioni, in favore del perfetto presente storico (quasi 150 casi) conferisce vivacità ai
racconti e coinvolge il lettore.
Qualche autore (B.Orchard) è dell’avviso che l’evangelista riproduca il linguaggio orale della predicazione di
Pietro. Il vangelo dunque sembra sia stato scritto per essere soprattutto proclamato ed ascoltato.

3. TENSIONI E CONTRASTI: L’umanità e la divinità di Gesù sono fortemente sottolineate

- Gesù esprime i suoi sentimenti

Marco non esita a descrivere la grande umanità di Gesù, i suoi sentimenti, le sue emozioni, con tutta una
gamma di reazioni psicologiche che Matteo e Luca hanno preferito eliminare od attenuare.

- 1,41.43 Gesù si commuove davanti al lebbroso; dopo averlo guarito lo ammonisce con sorprendente severità.

- 3,5 Gesù guarda con “indignazione” e con “amarezza” i farisei che lo osservano quando nella sinagoga
guarisce l’uomo dalla mano inaridita, per poi accusarlo.
5,30 E’ sorpreso dal tocco dell’emorroissa che spera di essere guarita.
- 6,6 Si “meraviglia” di fronte all’incredulità dei compaesani di Nazareth.
- 6,34 Gesù prova compassione davanti alla folla prima della moltiplicazione dei pani
- 7,34; 8,12 Gesù sospira e geme
- 9,36 10,16 Abbraccia teneramente i bambini
- 10,41 Dimostra un certo malcontento verso i discepoli che non vogliono che i bambini si avvicinino a lui.
- 14,41 Li rimprovera perché non sanno vegliare con lui del Getsemani.
- 10,18 Reagisce con una istintiva protesta al sentirsi attribuire, dal ricco notabile ’appellativo- buono”,
che spetta solo a Dio.
- 14,33: Nel Getsemani prova “angoscia” e “sgomento” e ha bisogno del conforto dei tre discepoli intimi durante
l’agonia (14,34).. Matteo attenua, parla di “angoscia e tristezza; Luca elimina entrambi i termini.

Marco menziona molte volte a differenza di Mt e Lc lo sguardo di Gesù:

- 3,5 sguardo d’ira, sugli avversari ostinati;


- 3,34 sguardo tutt’intorno sulla sua nuova famiglia intenta ad ascoltarlo;
- 8,33 sguardo rivolto in modo significativo su tutti i discepoli mentre rimprovera Pietro;
- 10,23 sguardo su chi gli sta attorno mentre mette in guardia dal pericolo delle ricchezze;
- 9,25 sguardo un po’ preoccupato sulla folla che sopraggiunge per vedere se guarisce
l’epilettico;
- 10,21 sguardo di amore sul giovane ricco nel rivolgergli la chiamata;
- 11,11 sguardo tutt’intorno appena entrato nel tempio, quasi a prenderne autorevolmente;
possesso, costatando gli abusi delle autorità religiose;

Marco non rivela mai la preoccupazione di attutire i sentimenti di Gesù, come Luca quando sostituisce al
grido drammatico di Gesù sulla croce di Mc15,35 : “Dio mio Dio mio perché mi hai abbandonato” , una

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 49


preghiera più pacata: “Padre nelle tue mani affido il mio Spirito” (Lc 23,46). Questo realismo marciano,
dimostra la fedeltà del narratore alle fonti in suo possesso.

- La divinità di Gesù
Marco esprime anche la divinità di Gesù con un linguaggio più forte rispetto a quello di Matteo e Luca.
- Non accenna alla preesistenza divina di Gesù ma fin dall’inizio ne professa la divinità (1,1). Gesù insegna
con autorità (1,27), scaccia i demoni, compie miracoli, rimette i peccati manifestando di possedere la stessa
autorità di Dio, ma il mistero della sua persona si manifesta progressivamente come un’epifania segreta. La
divinità di Gesù provoca in chi ne è testimone delle reazioni molto diverse, persino violente. Il vocabolario
a questo proposito è ricchissimo; si parla di stupore, meraviglia, sbigottimento, timore, un senso oscuro di
malessere, come quello che spinge i pagani geraseni a mandarlo via dal loro territorio per la reazione al
danno economico dei duemila porci precipitati nel burrone... Matteo lascerà cadere queste annotazioni;
Luca preferirà trasformarle in una reazione assai meno inquietante: un bel coro di lode e rendimento di
grazie (Lc 5,26;9,42;18,43).
In Marco queste reazioni sono sottolineate continuamente, diventano quasi un’atmosfera che avvolge
continuamente la persona di Gesù.
- Nei racconti di miracolo queste annotazioni si fanno più pressanti. Nell’episodio dell’epilettico, prima
ancora della guarigione, al solo vedere arrivare Gesù la folla è già presa da quel caratteristico senso di
sbigottimento (9,15)
- Anche i discepoli, che pur dovrebbero essersi ormai familiarizzati con lui, hanno le medesime reazioni:
nell’episodio della tempesta sedata (4,35-41), all’improvviso scendere della calma sulle acque infuriate,
sono presi da timore, e si interrogano su di lui come parlando di uno sconosciuto: “Chi è dunque costui, che
anche il vento e il mare gli obbediscono?”; e anche quando una situazione simile si ripete di nuovo, al
vederlo apparire sul lago di notte restano terrorizzati e non riescono a contenersi dal gridare (6,49ss.)
- E’ come se per Marco la presenza di Gesù tra gli uomini sia segnata da un continuo “apparire”, un
manifestarsi sempre nuovo e sorprendente. La trasfigurazione in cui Gesù svela il suo volto divino a tre dei
suoi discepoli, avviene in disparte e resta misteriosa anche ai tre eletti che ne sono testimoni. Capiranno
solo più tardi, dopo la sua Risurrezione (9,1-13). l mistero divino Gesù è presente in ogni episodio del
vangelo: l’evangelista riporta le reazioni della folla, dei discepoli, che sperimentano nell’umanità di Gesù
l’evento sconvolgente del manifestarsi di Dio. Completano questo quadro anche le urla forsennate degli
indemoniati al suo avvicinarsi (1,23.16; 5,11; 5,7; 9,20); la continua ressa della folla, che Marco ama
sottolineare in modo pittoresco descrivendone le conseguenze impreviste e a volte poco piacevoli: “si
radunarono tante persone da non esserci più spazio nemmeno davanti alla porta” (2,2); “si radunò attorno
a lui molta folla, al punto che non potevano neppure prendere cibo” (3,20. 6,31). Spesso Gesù deve tenere
a portata di mano una barca su cui saltare per non essere travolto dai malati che si gettavano su di lui per
“toccarlo” (3,7-10); barca che poi sarà necessario usare effettivamente (4,1).

- Marco un testo drammatico

Comprendiamo da tutto questo che siamo di fronte non ad una narrazione più elementare, più semplice
rispetto agli altri vangeli, ma al contrario ad una più complessa. Ci rendiamo conto che non si tratta di
incapacità tecnica, ma della volontà di esprimere fortemente, anche a spese del realismo dei dettagli e
della stessa plausibilità della scena, certi significati. Quando però non ci si rende conto di questo, la lettura
di Marco diventa estremamente difficile, come conferma l’esperienza degli antichi e quella dei moderni. Si
è di fronte ad un testo che, a prima vista non si capisce bene come vada utilizzato. Chi cerca il resoconto
storico, resta urtato dalle troppe lacune, tensioni, incoerenze. Chi cerca la teologia, ma è abituato ad
intendere quest’ultima come discorso, esplicitazione, riflessione, approfondimento dei concetti, resta
altrettanto deluso. Non c’è da stupirsi che la chiesa antica preferì rivolgersi per il resoconto storico a
Matteo e a Luca e per la teologia a Giovanni e Paolo.
Oggi forse possediamo delle possibilità migliori, nella misura in cui andiamo recuperando lo spessore
teologico della narrazione e, rieducandoci ad un’umile e paziente lettura della narrazione come tale, senza
presumere di saltare affrettatamente da essa nè ai “fatti storici”, nè alle “idee teologiche”, ci mettiamo in

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 50


condizioni di percepire l’autentico punto di forza di Marco, che è precisamente la sua struttura
profondamente unitaria, percorsa da una tensione altamente drammatica. Il testo di Marco rivela la sua
forza quando viene letto per intero, di seguito, tutto d’un fiato per recuperare la nuda forza della parola
narrativa per poi assaporarlo con un ritmo più disteso e più lungo.
Letto in questa maniera, le tensioni e le rotture che attraversano tutto il racconto, si rivelano punti di forza,
chiavi di lettura: un paradosso esiste, ma questo paradosso è il Figlio di Dio fatto uomo e crocifisso per la
salvezza di tutti.

4. IL VANGELO DEL “SEGRETO” MESSIANICO

Analizzando il rapporto che Gesù aveva con le folle, con i discepoli, con i malati che guarisce, con gli
indemoniati, si vede che Egli si rivela e si nasconde, si manifesta e si sottrae.

- Il rapporto con le folle


Il rapporto con le folle è fatto di fuga e inseguimento. Già dal primo giorno, a Cafarnao, Gesù si sottrae alla
pretesa di bloccarlo là (1,35-38); ma la cosa si ripete sistematicamente (2,1s.13; 3,20; 5,21; 6,30-34.53-46...)
Il fatto curioso è che lui stesso provoca quell’entusiasmo a cui Gesù vuole sfuggire è lui a provocarlo
soprattutto attraverso i miracoli. Fortissima in effetti, quasi intollerabile è in Marco questa tensione tra
rivelazione e nascondimento. Nel testo che riferisce del suo viaggio a Tiro e Sidone, città pagane, si trova
questa espressione ”Ed entrato in casa, voleva che nessuno lo sapesse; ma non potè restare nascosto...”
(7,24); oppure nel testo che parla della guarigione del sordomuto si legge : “E comandò loro di non dirlo a
nessuno, ma più egli lo raccomandava, più essi ne parlavano e pieni di stupore dicevano: ‘ha fatto bene
ogni cosa; fa udire i sordi e fa parlare i muti’ ” (7,36). Queste espressioni rendono bene al di là del singolo
episodio, questa continua dialettica tra rivelazione e nascondimento.

- Gesù impone il silenzio ai malati guariti.


Anche i malati guariti che potrebbero diventare dei canali di trasmissione di ciò che Gesù compie, devono
tacere. Alcuni miracoli più chiaramente messianici vengono compiuti in disparte, lontano da occhi
indiscreti, e una volta compiuti ne viene severamente proibita la divulgazione. Questa proibizione appare
però poco realistica; le circostanze sono tali che essa non può non rimanere inefficace.
- 1,40-45 Gesù guarisce un lebbroso e gli ordina di non parlare. “E ammonendolo severamente lo rimandò
e gli disse: ‘Guarda di non dire niente a nessuno, ma va presentati al sacerdote... per la tua purificazione’ ".
Ma il lebbroso disobbedisce e proclama il fatto... Non riesce a tener nascosto il miracolo, e la folla accorre;
Gesù allora fugge in luoghi deserti, ma non c’è nulla da fare: anche là la folla continua a raggiungerlo
ininterrottamente (1,40-45). Nel vangelo di Luca tutta questa tensione si perde (Lc 5,12-16); cosa c’è di più
ovvio che andare un po’ nel deserto dopo il bagno di folla, per una pausa di solitudine e di preghiera?
- 5,43 Gesù risuscita la figlia di Giairo e raccomanda ai genitori che nessuno venga a saperlo e ordinò loro di
darle da mangiare. Prima di entrare nella camera della ragazza morta, Gesù “caccia via” tutti quanti,
lasciando entrare solo i genitori della ragazza e, del gruppo dei Dodici solo Pietro, Giacomo e Giovanni
(5,37.40); dopo il miracolo ingiunge il silenzio assoluto. Ma con tutta la buona volontà, come avrebbero
potuto rispettare questo comando? Dovevano tenere nascosta la ragazza in casa? Come potevano non
smentire la notizia della morte, che essi stessi avevano dato a tutto il vicinato che si era già raccolto in
lutto? Matteo lascia cadere tutte queste indicazioni, sostituendole con la bella finale della divulgazione del
fatto in tutta la regione (Mt 9,26).
- Dopo la guarigione del sordomuto (7,31-37), Gesù gli ordina di tacere. Ma il fatto viene divulgato. Mc fa
notare che più Gesù raccomanda loro di tacere, più essi parlano. Come non meravigliarsi che l’ingiunzione
venga trasgredita?
- Dopo la guarigione del cieco di Betsaida (8,22-26) non si rasenta l’assurdità ordinandogli di tornare a casa
sua, “senza nemmeno entrare nel villaggio”? Questi comandi sono poco comprensibili dal punto di vista
narrativo.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 51


- Gesù impone il silenzio ai discepoli.
- 8,30 Dopo la confessione di Pietro (Tu sei il Cristo!), Gesù ammonisce i suoi discepoli di non parlare con
nessuno.
- 9,9 Dopo la trasfigurazione, mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare a nessuno ciò
che avevano visto, se non dopo che il figlio dell'uomo fosse resuscitato dai morti.
Come capire questo "silenzio" imposto? Perché Gesù agisce in questo modo?

- Gesù impone il silenzio a demoni.


I demoni sono in Marco i veri avversari di Gesù, perché essi sono i primi a conoscere la sua vera identità, la
sua dignità messianica e cercano di renderla pubblica, per denigrarla.
- 1,24 Il posseduto dallo spirito immondo esclama: "Che c'entri con noi Gesù nazareno, sei venuto per
rovinarci! Io so che tu sei il santo di Dio. Gesù lo sgridò: "Taci, esci da quell'uomo!" (1,25).
-Mc descrive in un sommario l'attività di Gesù che guarisce e scaccia i demoni (1,32-34) ed afferma: "Ma
non permetteva ai demoni di parlare perché lo conoscevano".
- 3,11-12 Gli spiriti immondi, quando lo vedevano gli si gettavano ai piedi gridando: "Tu sei il figlio di Dio!"
Ma egli li sgridava severamente perché non lo manifestassero.

Questo aspetto che è proprio del Gesù di Mc, ha portato gli studiosi a definire il Vangelo di Mc come il
Vangelo del "segreto-messianico". Qual è il significato di questo "segreto"? Perché Gesù ordina il silenzio?
Non sembra questo essere contraddittorio? Da una parte Gesù vuole manifestarsi e dall'altra impone di
tacere?

- Il significato del segreto messianico


Si può comprendere il significato di questo "segreto” sullo sfondo di altri testi nei quali Marco presenta un
Gesù che si rivela nel suo parlare e nel suo agire.
- Gesù rivela apertamente la sua messianicità quando rivendica il suo potere di rimettere i peccati (2,10),
quando afferma che egli è il signore del sabato (2,27), nei suoi miracoli, nel suo entrare trionfalmente in
Gerusalemme (11,7-10).
Dunque quello che si vede è che in Mc sono presenti questi due aspetti che sembrano contraddittori. Gesù
da una parte si manifesta, le sue parole e le sue azioni dicono il suo mistero e dall'altra si nasconde. Questi
due aspetti vanno presi insieme perché attraverso questa opposizione Mc ci vuole dire qualcosa. A cosa
serve il segreto messianico?
A questa domanda sono state date diverse risposte:
- in passato qualcuno aveva visto in questo segreto il fatto che Gesù non si voleva proclamare Messia, ma
questa è senza fondamento perché i testi mostrano la rivelazione che Gesù fa di sé.
- Altri sono giunti a questa conclusione: Gesù rifiuta di essere chiamato Messia, vuole cioè il segreto sulla
sua persona, per evitare dei malintesi sulla sua identità, per non far coincidere la sua persona con una
persona erronea di Messia. Anche questa soluzione pur non essendo falsa non è soddisfacente.
Il motivo del segreto messianico va cercato ancora più in profondità, non è solo una pedagogia di Gesù
verso le folle o i discepoli. Nell’intenzione di Marco, il segreto messianico è la natura stessa della persona di
Gesù: egli deve passare per il massimo del nascondimento umano, deve passare attraverso il dolore, la
persecuzione, la morte perché solo attraverso questa radicale impotenza, si può manifestare l’amore di Dio
per l’uomo, cioè la salvezza. E’ nel cammino verso la croce e non attraverso i miracoli che si compirà
realmente l’evento di rivelazione e di salvezza che potrà essere proclamato al mondo. I miracoli sono
importanti ma solo per far credere che la croce di Gesù è la croce del Figlio Dio. Infatti il silenzio e
l’incomprensione intorno alla figura di Gesù vengono dissolti soltanto dalla parola del centurione pagano
che vedendo Gesù in croce proclama: “Quest’uomo era veramente il Figlio di Dio”.
Il segreto messianico fa risaltare la domanda che percorre tutto il vangelo: “Chi è mai costui?”. Per Marco il
mistero di Cristo è così profondo e misterioso che non può essere contenuto in formule o concetti, lo si
può comprendere solo seguendo Gesù lungo tutto il suo cammino fino all’evento della sua morte e
risurrezione.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 52


STRUTTURA LETTERARIA DEL VANGELO DI MARCO

TITOLO: «Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio» (1,1)

INTRODUZIONE (1,2-13): Trittico Sinottico


- Predicazione di Giovanni Battista (1,2-8)
- Battesimo di Gesù (1,9-11)
- Tentazioni di Gesù (1,12-13)

PRIMA PARTE: IL MISTERO DI GESÙ E LA SUA ATTIVITÀ IN GALILEA (1,14-8,30)


1. PRIMA SEZIONE: L’annuncio del Regno e la manifestazione dell’autorità di Gesù (1,14-3,6)
2. SECONDA SEZIONE: La rivelazione in Gesù del Regno di Dio (3,7-6,6a)
3. TERZA SEZIONE: Il faticoso riconoscimento di Gesù da parte dei discepoli (6,6b-8,26)

→ CENTRO: Professione di fede di Pietro: “Tu sei il CRISTO!” (8,27-30)

SECONDA PARTE: IL MISTERO DI GESÙ IN GIUDEA E IL SUO CAMMINO VERSO GERUSALEMME (8,31-16,8)
4. QUARTA SEZIONE: I tre annunci della passione, morte, risurrezione del Figlio dell’Uomo (8,31-10,52)
5. QUINTA SEZIONE: L’attività di Gesù a Gerusalemme (11,1-13,37)
6. SESTA SEZIONE: Passione, morte e risurrezione del Messia (14,1-16,8).

→ FINE: 15,39 Professione di fede del centurione pagano: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio”.

- FINALE CANONICA: Le apparizioni del risorto (16,9-20)

Ps) Studiare sinteticamente: Tremolada P., Vangelo secondo Marco, in Assaggi Biblici, pp. 165-176.

VANGELO DI MATTEO

 Testo: P. Tremolada, Vangelo secondo Matteo in, ASSAGGI BIBLICI pp. 154-164

Autore: - La tradizione dei Padri (Eusebio) lo identifica con il «pubblicano Levi» che prende il nome di
Matteo (Mt 9,9; 10,3) divenendo uno dei Dodici apostoli e riferisce che scrisse per primo il
vangelo in aramaico.

- La critica moderna ritiene invece che il vangelo di Matteo fu scritto in greco, da un giudeo-
cristiano della seconda generazione che parlava bene il greco e conosceva bene le tradizioni
giudaiche. Questo evangelista però è probabilmente custode di una tradizione che risale a
Matteo-Levi apostolo di Gesù. Non fu il primo vangelo scritto.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 53


Destinatari: Comunità cristiane provenienti dalla Palestina e dalla Siria. Per questo l’autore cita
frequentemente l’AT ed usa espressioni che sono chiare solo a chi ha familiarità con l’ambiente
giudaico (es. «filatteri»: cinghie con scatoletta contenente frammenti della torah che si usava
per la preghiera).

Datazione: scritto tra il 80 e il 90 d.C.

Stile: scritto in buona lingua greca e in stile semitico. Frequenti le citazioni dell’AT

CONTENUTO SINTETICO: Matteo mette in luce la maestosità della persona di Gesù che viene a compiere le
attese messianiche dell’AT. Il ministero di Gesù è presentato ponendo in evidenza la prospettiva
catechetica o di insegnamento e offrendo una forte sottolineatura della dimensione ecclesiale ed etica. Tra
i sinottici, Matteo è quello che più spesso parla del Padre. La perfezione cristiana consiste nell’imitare la
vita del Padre avendo come modello Gesù di Nazaret. Nell’amore del Padre che Gesù rivela si ha il
compimento della Legge e dei Profeti. Mt dà grande importanza al costituirsi della chiesa (ecclesìa): essa è
una comunità di fratelli; una comunità purificata dalla tentazione del peccato di grandezza, di prestigio
umano; è una comunità che pone alla base del suo esistere un atteggiamento di umiltà; è una comunità che
va alla ricerca anche di uno solo che si è smarrito; una comunità che non lascia nulla di intentato per
guadagnare il fratello; una comunità che nella preghiera e nella prassi del perdono si rivela come imitatrice
del comportamento del Padre.

LE NOVITÀ PIÙ RILEVANTI (RISPETTO AL VANGELO DI MARCO)

- RACCONTI DELL’INFANZIA (Capitoli 1-2)


Il vangelo si apre con una «genealogia» che guarda al passato (1,1-17): si presenta Gesù come
appartenente al popolo d’Israele: Figlio di Davide, Figlio di Abramo. Si raccontano poi episodi dell’Infanzia di
Gesù, riletti alla luce dell’evento della Risurrezione. L’interesse non è biografico ma teologico. Episodi:
l’annuncio della nascita di Gesù a Giuseppe (1,18-25); La visita dei Magi (2,1-12); La fuga i Egitto (2,13-18); il
ritorno dall’Egitto e la residenza a Nazaret (2,19-23). Gesù è da subito presentato come il Messia di Dio
atteso dal suo popolo.

- I DISCORSI

L’evangelista è stato colpito e affascinato dalla sapienza straordinaria che traspariva dalle parole di Gesù e
raccoglie i suoi insegnamenti ordinandoli con cura in cinque lunghi discorsi.

1. Discorso della Montagna (5,1- 7,29)


E’ pronunciato da Gesù su un’altura. Dopo la proclamazione delle otto Beatitudini di felicità
(5,1-12) e alcuni detti sul sale e sulla luce ( 5,33-16 ), il discorso tratta di come l’uomo credente
è chiamato a vivere: le relazioni con il prossimo (5,20-48 ), la relazione con Dio ( 6,1-18), la
relazione con il beni (6,19-7,11).
Gesù reinterpreta con autorevolezza la legge e i precetti ebraici (Vi è stato detto… ma io vi
dico…) invitando a imitare il comportamento stesso di Dio con gli uomini e propone all’interno
del suo discorso un’etica da capogiro i cui frutti visibili sono: la mitezza e l’umiltà, la rinuncia
alla violenza, la ricerca costante della pace, uno sguardo benevolo verso i malvagi, la capacità
del perdono senza misura, la lealtà e la sincerità assoluta, il rispetto per il legame
matrimoniale, il superamento dell’angoscia e dell’affanno, il coraggio di soffrire per Dio e per
la verità. Al centro del discorso c’è il tema della preghiera e il Padre nostro. Solo chi ha
scoperto il segreto della paternità di Dio e a lui si affida, riceve il dono di vivere questa etica
straordinaria.
R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 54
2. Discorso Apostolico o Missionario (10,1-11,1)
Comprende la chiamata dei dodici, il loro invio in missione e le disposizioni che devono avere
durante la loro missione. Mt in questo modo parla del compito della Chiesa e ciò che è
chiamata ad essere: essa deve portare al mondo l’annuncio del Regno e prolungare l’azione del
Signore. I dodici sono coloro che continuano la stessa missione di Gesù: "guarire gli infermi,
risuscitare i morti, sanare i lebbrosi, cacciare i demoni" (10,8). La loro missione è povera e
gratuita: "gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date!" e deve essere portata avanti
nella più completa fiducia in Dio. Il destino dei dodici è uguale al destino di Gesù: "vi
consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle sinagoghe... sarete condotti davanti ai
governatori ed ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro ed ai pagani" (10,18). In
questo discorso emerge chiaramente la figura di Gesù inviato dal Padre che a sua volta manda
gli apostoli come continuatori della sua presenza e della sua opera nel mondo.

3. Discorso In Parabole (13,1-52)


Attraverso le parabole Gesù spiega il mistero del Regno. Un Regno che appare nascosto che è
respinto, ma che non cessa di crescere e di operare. Le parabole narrate da Mt sono: la
parabola del seminatore; della zizzania; del granello di senape che diventa un albero grande;
del lievito nella pasta; del tesoro e della perla preziosa; della rete. Gesù narra a tutti le
parabole, ma solo i discepoli le comprendono e chiedono spiegazioni in privato.

4. Discorso Ecclesiale (18,1-35)


L'accento si sposta dal Regno alla chiesa. Si identificano alcune importanti caratteristiche dello
stile di vita delle comunità cristiane di tutti i tempi. Mt parla della comunione fraterna, del
perdono senza limiti, del rispetto assoluto dei piccoli e della necessità di evitare gli scandali,
della preoccupazione pastorale di andare in cerca della pecorella smarrita, della preghiera in
comune. Il discorso ecclesiale ha la funzione di presentare una comunità, che guidata da Pietro
ha il suo punto di riferimento in Cristo.

5. Discorso Escatologico (24,1-25,46)


Cioè sulle realtà ultime. Mt presenta Gesù come colui che è venuto ma anche colui che
ritornerà a portare a pienezza il progetto del Padre. Nell'attesa di questo suo ritorno a cui farà
seguito «il giudizio finale», i credenti devono vigilare (cf. la parabole delle dieci vergini) e far
fruttificare i loro talenti.

- - L’ANNUNCIO DELLA ISTITUZIONE DELLA CHIESA è posto al centro del vangelo subito dopo la
confessione di Pietro Mt 16,13-20

Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice
che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elia, altri
Geremia o qualcuno dei profeti». Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon
Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di
Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli.
E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi
non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla
terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli». Allora
ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 55


- L’INCONTRO TRA IL RISORTO E I SUOI DISCEPOLI IN GALILEA (Mt 28,16-20)

Il Vangelo si chiude con un sguardo al futuro, il «mandato missionario» del Risorto che appare in tutta
la sua autorità («Mi è stato dato ogni potere in cielo ed in terra») e invita gli undici apostoli a predicare
l’evangelo e a battezzare per fare di tutte le nazioni dei «discepoli».

STRUTTURA VANGELO DI MATTEO


I Gli inizi della vita di Gesù (1,1-4,16)
A. L’infanzia 1,1-2,23
B. Trittico Sinottico 3,1-4,16
- Predicazione di Giovanni Battista
- Battesimo di Gesù
- Tentazioni di Gesù nel deserto (ampia)

II L’annuncio in Galilea del regno dei cieli e l’invito alla conversione (4,17-16,20)
A. Attività in parole e opere da parte di Gesù e dei dodici (4,17-11,1)
1. L’attività di Gesù 4,17-9,35
( DISCORSO DELLA MONTAGNA 5,1-7,29 + DIECI MIRACOLI 8,1-9,7)
2. L’attività dei dodici 9,36-11,1
(DISCORSO APOSTOLICO o MISSIONARIO 10,1-11,1)

B. Prese di posizione di fronte a Gesù: questione dell’identità e rifiuto (11,2-16,20)


1. Dalla domanda del Battista al rifiuto nella sinagoga di Nazareth 11,2-13,58
(DISCORSO IN PARABOLE 13,1-52)
2. La reazione di fronte alle opere potenti di Gesù 14,1-16,20

III Il cammino verso Gerusalemme e il compimento del destino del Figlio dell’Uomo: passione e
risurrezione (6,21-28,20)

A. I tre annunci della passione risurrezione e le istruzioni ai discepoli (6,21-20,34)


(DISCORSO ECCLESIALE 18,1-35)
B. L’attività pubblica di Gesù a Gerusalemme 21,1-25,46
(DISCORSO ESCATOLOGICO 24,1-25,46)
C. Passione, morte e resurrezione 26,1-28,20

Cf. Tremolada P., Vangelo secondo Matteo, in Assaggi Biblici, pp. 154-164.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 56


VANGELO DI LUCA

 Tremolada P., Vangelo secondo Luca, Assaggi Biblici, pp. 177-188

Autore: - La tradizione antica lo identifica con Luca, che non apparteneva al gruppo dei discepoli.
Originario della città di Antiochia accoglie da Paolo l’evangelo di Gesù (Ireneo). Nelle lettere di
Paolo è menzionato tre volte (Fm 24; Col 4,14; 2Tim 4,11): da queste citazioni veniamo a sapere
che era un medico, uomo di grande cultura, persona molto attiva all’interno della comunità
cristiana.
- E’ l’autore del terzo vangelo e degli Atti degli Apostoli (cf. Lc 1,1 con At 1,1).

Destinatari: scrive a cristiani di origine pagana ellenistica

Data: tra il 67 e il 70

Contenuto sintetico : Luca può essere definito il teologo della storia della salvezza. Egli vede dispiegarsi
nella storia il piano di Dio per la salvezza degli uomini (tempo d’Israele, tempo di Gesù, tempo della Chiesa).
Questo disegno divino, iniziato con il popolo di Israele, si compie in Gesù e si prolunga nella vita della
Chiesa, per raggiungere ogni uomo. La novità di Luca, sta nella forza con la quale Gesù annuncia l’amore
misericordioso di Dio, per i peccatori, i poveri, gli ultimi. L’annuncio del Regno che Gesù porta è l’annuncio
di un’immensa tenerezza, che sorpassa ogni esperienza di amore che gli uomini possono ricevere e donare.
Lc mette in risalto i tratti che presentano Gesù come esempio di mitezza, di misericordia, di abnegazione e
premura per tutti. La salvezza è questo Amore che si offre discretamente e che accoglie giusti e peccatori,
poveri e sofferenti. La signoria di Dio coincide con questa misericordia di Dio senza confini che abbraccia
tutti.

- LE NOVITÀ PIÙ RILEVANTI (RISPETTO AL VANGELO DI MARCO)

- Vangeli dell’Infanzia (Lc 1-2)


- Grande importanza data al Viaggio di Gesù verso Gerusalemme (Lc 9,51-46): in questa parte
abbiamo episodi e detti della vita di Gesù che non hanno paralleli con gli altri vangeli (Cf.
Tremolada, op. cit).
- Apparizioni del risorto ai discepoli di Emmaus e a tutti i discepoli – Ascensione (Lc 24).

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 57


STRUTTURA VANGELO DI LUCA
PROLOGO (1,1-4)
I GLI INIZI DELLA VITA DI GESÙ(1,5-4,13)
I racconti dell’infanzia 1,5-2,52
Trittico sinottico 3,1-4,13
- Predicazione di Giovanni Battista
- Battesimo di Gesù
- Tentazioni di Gesù nel deserto

II IL MINISTERO DI GESÙ IN GALILEA (4,14-9,50)


A. L’esordio del ministero a Nazareth e a Cafarnao 4,14-44
B. I primi atti del ministero: 5,1-6,11
- la scelta dei discepoli,
- la guarigione del lebbroso,
- le controversie con i farisei e gli scribi
C. La predicazione del Messia 6,12-49
D. L’accoglienza accordata al ministero del Messia 7,1-8,3
E. La Parola di Dio predicata e accolta 8,4-21
F. “Chi è costui?”: la crescente rivelazione del potere di Gesù
e l’interrogativo sulla sua identità 8,22-9,50

III IL VIAGGIO VERSO GERUSALEMME (9,51-19,46)


A. Inizio del viaggio 9,51-10,42
B. Parte didattico parenetica 11,1-13,21
A’ In cammino verso Gerusalemme 13,22-35
B’ Parte didattico-parenetica 14,1-17,10
A’’ In cammino verso Gerusalemme 17,11-19
B’’ Parte didattico parenetica 17,20-18,30
A’’’ Salita a Gerusalemme e ingresso nel tempio 18,31-19,46

IV MINISTERO DI GESÙ IN GIUDEA (19,47-24,53)


A. Il ministero di Gesù nel tempio di Gerusalemme 19,47-22,38
B. Passione e morte del Messia 22,1-23,56
C. Risurrezione e ascensione del Messia 24,1-53

Cf. Tremolada P., Vangelo secondo Luca, in Assaggi Biblici, pp. 177-188.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 58


5. IL MESSAGGIO DI GESÙ: IL REGNO DI DIO

A. IL REGNO DI DIO – LE ESIGENZE DEL REGNO DI DIO

 Cf F. Ardusso, Il regno di Dio e le esigenze del regno di Dio, in: Gesù Cristo, Figlio del Dio
vivente, capitoli 5-6.

→ Il Regno di Dio come nucleo centrale della predicazione di Gesù


Il “Regno di Dio” è il nucleo centrale della predicazione di Gesù. Non sarebbero stati gli evangelisti ad
avergli attribuito questa predicazione, ma sarebbe stato proprio il Gesù storico ad aver fatto convergere
tutta la sua predicazione attorno al tema del Regno di Dio. Il “criterio della molteplice attestazione”13 ci
orienta a considerare il dato come autentico: l’espressione compare in tutte le fonti (Mc, fonte Q, fonti
proprie Mt e Lc, Gv) e ricorre in diverse formule letterarie come parabole, miracoli, controversie. La stessa
conclusione si impone anche applicando il criterio della discontinuità: il tema del “Regno di Dio” non era
centrale nel Giudaismo: l’espressione è scarsamente attestata, anche se il tema non è ignorato, occupa
comunque uno spazio limitato. Così pure nella Chiesa primitiva l’espressione tende a scomparire, lasciando
il posto al tema della salvezza in Gesù.

→ Origine del tema


Gesù non si inventa l’idea del “Regno di Dio”, egli la assume dalla tradizione anticotestamentaria e giudaica
ma gli conferisce un nuovo significato facendola diventare l’argomento centrale della sua predicazione.
Qual era, allora, il significato precedente e qual è quello nuovo rivelato da Gesù?
- Nell’Antico Testamento l’espressione “Regno di Dio” indica quasi sempre “la signoria di Dio”, la sua
sovranità che si manifesta concretamente nella storia del suo popolo, Israele. Il “Regno di Dio” non è un
territorio e nemmeno un’epoca su cui Dio regna; è piuttosto la realtà dinamica della manifestazione
potente e gloriosa di Dio. Israele è cosciente che Dio è presente nella storia e opera con potenza, non come
un sovrano assoluto e dispotico, ma come un re giusto, che esercita il suo potere soccorrendo i bisognosi, i
poveri, i deboli. Il Salmo 72 annuncia il Messia di Dio, come un Re ideale:

“Giudicherà con giustizia il tuo popolo e i tuoi poveri con equità... Farà giustizia ai poveri del popolo,
salverà i figli dei miseri, schiaccerà l’oppressore... Libererà l’uomo povero che supplica e il misero al
quale manca aiuto. Avrà pietà dell’oppresso e del povero, salverà la vita dei miseri “ (Sal 72,1-4.12-13).

Il regno di Dio nell’AT era quindi sinonimo di giustizia, di speranza, di salvezza e di pace.

- Nel Giudaismo contemporaneo a Gesù i Giudei vedevano “il Regno di Dio”, non tanto come una realtà
presente nella loro storia, ma piuttosto come una realtà da attendere. Essi avevano la consapevolezza di
essere un popolo piccolo, sottomesso al potere politico romano. Tra loro regnava ancora l’ingiustizia,
l’emarginazione, ci si domandava, come si potesse dire, che Dio si era manifestato come il salvatore, come
il re giusto, solidale con i più poveri. Si pensava che Il Regno di Dio sarebbe giunto in futuro, perché Dio è
fedele a se stesso e realizza quello che ha promesso. Dunque i Giudei attendevano l’avvento del Regno di
Dio, ma, a seconda dei gruppi politico-religiosi, questa attesa assumeva prospettive diverse: per i Farisei il

13 Cf. Capitolo Autenticità storica del vangeli.


R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 59
Regno di Dio sarebbe venuto, quando Israele avesse praticato in modo perfetto la legge di Dio; per gli Zeloti
il Regno di Dio si sarebbe manifestato nella sovranità religioso-politica di Israele, ottenuta anche con la
lotta armata e con la cacciata dei romani; per gli Apocalittici il Regno di Dio sarebbe coinciso con la fine del
mondo e con la venuta dei cieli nuovi e della terra nuova di cui si scrutavano con cura i segni premonitori.

→ La novità della nozione di “Regno di Dio” per Gesù


Come si inserisce Gesù su questo tema del Regno di Dio? Prima di tutto dobbiamo costatare una certa
continuità che mostra Gesù come figlio del suo tempo (criterio di continuità).
Gesù si rifà alla concezione biblico-giudaica del “Regno di Dio”, cioè parla della signoria di Dio come
presenza potente di Dio nella storia, in ordine alla salvezza di tutti, soprattutto dei più deboli.
Rispetto alle attese del suo tempo, nella predicazione di Gesù possiamo intravedere una certa somiglianza
con la visione apocalittica. Nei vangeli sinottici infatti si trovano dei passi in cui Gesù annuncia la sovranità
di Dio nel futuro escatologico, cioè alla fine dei tempi. Alla vigilia della sua morte, durante l’Ultima cena,
Gesù dichiara solennemente: “In verità vi dico che non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo
berrò nuovo nel Regno di Dio” (Mc 14,25). Gesù dunque condivide con il Giudaismo una visione escatologica
del regno: il regno di Dio si realizzerà alla fine dei tempi, quando avrà luogo la sua vittoria su tutte le
potenze del male, allora ci sarà la riconciliazione perfetta tra Dio e gli uomini.
Ma è importante cogliere come Gesù parli del “Regno di Dio” in maniera assolutamente nuova e originale
(criterio di discontinuità) affermando che il Regno di Dio “si è fatto vicino”, è già presente:

- Marco pone all’inizio dell’attività pubblica di Gesù in Galilea questo annuncio programmatico: “Il
tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino (letteralmente “si è avvicinato”): convertitevi e credete al
vangelo” (Mc 1, 15);
- Agli inviati di Giovanni Battista che volevano sapere se egli fosse “colui che doveva venire”, Gesù
risponde: “I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi odono, i
morti risorgono, ai poveri è annunciata la buona novella. E beato chiunque non si scandalizzerà di me”
(Lc 7,22.23). Gesù fa comprendere – attraverso le sue opere - di essere Lui, colui che doveva venire, il
re Messia atteso, apportatore di salvezza.
- La tradizione comune di Mt e Lc, all’interno del dibattito con i capi giudei sul significato degli esorcismi
compiuti da Gesù, riporta queste sue parole: “Ma se io scaccio i demoni per virtù dello Spirito di Dio, è
certo giunto fra voi il Regno di Dio” (Mt 12,28; Lc 11,20).
- Nel vangelo di Luca (fonte propria) si dice che Gesù, interrogato dai farisei quando verrà il regno di Dio,
rispose: “Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione e nessuno dirà: Eccolo qui, eccolo là.
Perché il regno di Dio è in mezzo a voi!” (Lc 17,20-21).

Questi passi evangelici, appartenenti a fonti diverse e inserite in forme letterarie diverse (molteplice
attestazione), ci dicono l’originalità del messaggio di Gesù: egli è l’unico giudeo a sostenere che il Regno di
Dio, il nuovo tempo della salvezza di Dio è già presente. Dio regna nella storia! Gesù ha la pretesa di
inaugurare la signoria di Dio definitiva, non più superabile da altri eventi. E’ lui che porta il Regno di Dio!

Un’altra grande novità è che Gesù non solo proclama la presenza qui ed ora del regno di Dio, ma salda
insieme questa attualità della signoria di Dio con la sua persona. Gesù stesso, con quello che fa e dice, si
considera non solo l’ annunciatore del regno di Dio, ma il protagonista e il soggetto attivo di questo evento.
Anche se non fa mai direttamente propaganda di sé o della sua attività, egli tuttavia stabilisce un legame
unico e inscindibile tra la sua persona e il regno di Dio. Attraverso di lui, Dio manifesta il suo amore
potente, la sua misericordia senza limiti, di modo che gli uomini si trovano davanti all’occasione unica e
irripetibile di essere conquistati e attratti dal suo amore che salva.

Inoltre egli annuncia che i destinatari “privilegiati” di questo Regno sono i poveri, gli ultimi.
-Il Regno di Dio è per i poveri, per quanti si affidano a Dio: “Beati i poveri, perché di essi è il Regno di Dio”.
Questa prima beatitudine viene poi specificata e precisata in tutte le altre: “Beati gli afflitti”, cioè quelli che
diventano partecipi del dolore altrui e sanno vivere in Dio la loro sofferenza; Beati i miti, cioè quelli che non
rispondono alla violenza con altra violenza... “Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia”, cioè
R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 60
lottano con tutte le loro forze per la giustizia e per la pace (Mt 5,1-12). A loro Gesù annuncia il possesso
del Regno di Dio: di essi è il regno di Dio”, saranno consolati, erediteranno la terra, saranno saziati ecc... Il
Regno di Dio è per i poveri, non perché questi abbiano dei titoli o delle qualità particolari che li
raccomandino presso Dio, ma perché con Gesù si inaugura la signoria di Dio che è la signoria del re giusto,
che libera e salva quelli che sono nel bisogno.
- Il regno di Dio è per i bambini: “Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché proprio
a costoro appartiene il regno di Dio. In verità vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come un bambino non
entrerà in esso” (Mc 10,14-15). La prima dichiarazione di Gesù sui bambini destinatari del Regno è da
capire nel contesto sociale e culturale del tempo, secondo cui i bambini, assieme agli schiavi e alle donne,
erano considerati privi di diritti a tutti i livelli. I bambini di cui parla Gesù, allora, sono tutte le persone
deboli e indifese, di cui il re giusto non può non prendersi cura. Essi rappresentano anche tutti coloro che
nella comunità umana non possono accampare privilegi. Il Regno di Dio è per tutti coloro che sanno di
poter contare solo su Dio e di poter attendere la salvezza solo da Lui.
- Il regno di Dio è per i peccatori. Per i Giudei “i peccatori” erano esclusi dalla comunione con Dio. Tipici
rappresentanti di questo gruppo sono i pubblicani, cioè quegli ebrei che facevano gli esattori delle tasse
per conto dei romani e che erano da tutti sospettati di disonestà; le prostitute (non c’è bisogno di spiegare
il motivo…), i pagani, cioè tutti coloro che non appartenevano al popolo ebraico e dunque per ragioni
etniche non potevano essere destinatari della salvezza.
Gesù accoglie i pubblicani e i peccatori, sceglie di andare a mensa con loro, si lascia avvicinare dalle
prostitute e annuncia in tono polemico ai capi del popolo: “In verità vi dico: i pubblicani e le prostitute vi
passano avanti (lett. prendono il vostro posto) nel regno di Dio” (Mt 21,31; Lc 18,9-14); Gesù sceglie di
accogliere e guarire alcuni pagani stranieri (la figlia di una siro-fenicia, Mc 7,24-30 e il servo del centurione
romano, Mt 8, 5-13). Annunciando questi particolari destinatari del Regno, mostra un’immagine di Dio e del
suo Regno diversa rispetto a quella che si era sedimentata nella cultura giudaica (discontinuità).
Dio è colui che, per libera e sovrana iniziativa, si fa vicino ai poveri per la loro liberazione e salvezza; si fa
vicino ed accoglie i piccoli per dare ad essi dignità e libertà; perdona i peccatori e riabilita gli esclusi nella
comunione con Dio. Proprio questa particolare cura e attenzione di Gesù per i poveri, i piccoli, i
peccatori, gli stranieri e il suo annuncio, che proprio loro sono i destinatari privilegiati del Regno di Dio,
manifestano la qualità del Regno come dono di grazia e perdono in atto per tutti. Con la scelta privilegiata
dei poveri Gesù mostra che in realtà il Regno di Dio non discrimina nessuno, ma neppure privilegia alcuno!
Il Regno di Dio si afferma in assoluta gratuità e spazza via ogni privilegio e discriminazione, che, invece, fino
ad ora separavano gli uomini in ebrei e pagani, giusti ed empi, grandi e piccoli, uomini e donne, liberi e
schiavi. Dal momento che Dio si è fatto vicino come Padre che libera, accoglie, perdona e dà vita, ogni
uomo, nonostante la sua condizione di miseria, di limite, può essere detto beato, perché è gratuitamente
amato, liberato, salvato. L’uomo è chiamato a cambiare la sua mentalità su Dio e a credere! Proprio questo
messaggio di Gesù sarà causa della sua condanna a morte!

Abbiamo mostrato che la molteplice attestazione di questo messaggio di Gesù sul “Regno di Dio”, in
discontinuità con il mondo giudaico e con la predicazione cristiana, è così originale da riconoscervi
l’autentica predicazione del Gesù storico. Ci resta una ulteriore interrogativo: come può l’uomo giungere ad
accogliere l’annuncio del Regno proclamato da Gesù? Rispondiamo a questa domanda prendendo in esame
le Parabole di Gesù.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 61


B. L’ANNUNCIO DEL REGNO ATTRAVERSO LE PARABOLE

→ PERCHÈ GESU’ PARLAVA IN PARABOLE

Gesù non dà mai una definizione di «Regno di Dio», egli preferisce far percepire il «mistero del Regno»
attraverso il linguaggio parabolico. A conclusione del capitolo sulle parabole Marco annota: «con molte
parabole di questo genere annunziava loro la parola secondo quello che potevano intendere. Senza
parabole non parlava loro, ma in privato, ai suoi discepoli, spiegava ogni cosa» (Mc 4,33). E nel vangelo di
Giovanni, Gesù dice: “queste cose vi ho detto in similitudini (il termine greco 'paroimìas' significa ‘proverbi’,
‘parabole’) viene l'ora quando non vi parlerò più in similitudini, ma apertamente vi parlerò del Padre”(Gv
16,25). Questi testi dicono che Gesù ha preferito parlare in forme allusive che dicono e non dicono, ha
preferito parlare del Padre e del Regno mediante l'avvincente efficacia del linguaggio parabolico.
Certamente questo non era l'unico suo linguaggio, egli ha parlato anche 'apertamente' soprattutto ai
discepoli (Mc 8,31-32), ma i vangeli mostrano che Gesù parlava spesso e volentieri in questo modo. Ci
domandiamo allora perchè Gesù parlava in parabole? Diamo una risposta a questo interrogativo
sviluppando tre punti:

1) LA PARABOLA DESCRIVE DEI COMPORTAMENTI


2) LA PARABOLA HA UNA FUNZIONE DIALOGICO-ARGOMENTATIVA
3) LA PARABOLA HA LO SCOPO DI RIVELARE

 LA PARABOLA DESCRIVE DEI COMPORTAMENTI

Gesù usa le parabole perchè è più preoccupato della prassi piuttosto che della teoria, il linguaggio
parabolico illustra dei comportamenti e non solo delle idee. Al centro c'è l'azione; l'attenzione si fissa sul
modo in cui i fatti avvengono o sul comportamento dei personaggi che entrano in scena. Pensiamo alla
parabola del seminatore, del buon samaritano, del figliol prodigo, del fariseo e pubblicano ecc. Gesù narra
delle storie non solo per tenere desta l'attenzione degli ascoltatori, ma perché dietro di esse c'è la
convinzione che l'azione è significativa. I personaggi delle parabole sono importanti non per le loro belle
idee o per le loro profonde riflessioni teologiche, ma per quello che fanno o non fanno, per il modo in cui si
atteggiano e si comportano con gli altri. Gesù parla spesso in parabole per far capire meglio ai suoi
ascoltatori il comportamento in cui vuole impegnarli o da cui farebbero bene a distogliersi; per far
comprendere il comportamento di Dio e quindi anche il suo, anche se questo comportamento non è mai
descritto direttamente.
In Luca vediamo che la parabola del Buon Samaritano (Lc 10,30-37) insegna a capire chi è il prossimo da
amare. La parabola dell'amico importuno (Lc 11,5-7) insegna a rivolgersi a Dio con fiducia e con
perseveranza: Dio è come un amico che si alza per te nel cuore della notte!
Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani,
perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”, e se quello dall’interno gli
risponde: “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi
per darti i pani”, vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua
invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono (Lc 11,5-7).

Il modo di comportarsi di un padre nei riguardi del figlio deve far capire quello che può essere il modo di
comportarsi di Dio nei riguardi dell'uomo:
"Quale padre se il figlio gli chiede un pane gli darà una pietra? o se gli chiede un pesce gli darà al posto del
pesce una serpe? o se gli chiede un uovo gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete
dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo
chiedono!». " (Lc 11,11-13).

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 62


La parabola della pecora perduta, della dramma perduta e del figlio perduto (Lc 15) insegnano la
misericordia di Dio che va in cerca di chi si allontana da lui.
L'insegnamento delle parabole è dunque molto concreto, semplice, immediato, esse non propongono
verità teoriche o astratte. Tutto è preso dal vivo: il mondo e le persone sono visti con realismo con le loro
reazioni normali, o negative, o positive. I racconti descrivono situazioni, drammi, sanno trascinare il lettore
nell’enigma del cuore umano. Sono parole che sanno trasmettere calore. Racchiudono dunque una grande
forza persuasiva proprio perché raccontano delle esperienze vissute.

 LA PARABOLA HA UNA FUNZIONE DIALOGICO ARGOMENTATIVA: IL MECCANISMO LINGUISTICO DELLA PARABOLA

V. Fusco, in un suo ottimo studio - «Oltre la parabola», Borla 1983 - ha scoperto il meccanismo linguistico
della parabola, e ha messo bene in evidenza che lo specifico della parabola sta nel fatto che essa è un
ottimo strumento di dialogo. Egli arriva a dare una definizione ristretta del genere letterario «parabola»,
studiando il funzionamento dei testi che normalmente chiamiamo «parabole» e in particolare la desume a
partire da una parabola paradigmatica dell’AT: la parabola del profeta Natan a Davide (2 Sam 12,1-7).
Riprendiamo la vicenda di Davide in sintesi, per comprendere il senso della sua definizione.

La parabola del profeta Natan al re Davide (cf. 2Sam 12,1-7)

Il re Davide si era reso colpevole non solo dell'adulterio con Betsabea, ma anche dell'omicidio del marito
di lei, Uria, messo in atto per coprire l’arrivo di un figlio. Con un inganno aveva fatto mettere Uria a
combattere nella prima fila, in battaglia, in modo che rimanesse ucciso. Il tranello aveva funzionato, e
solo pochi complici fidati ne erano al corrente; il re sembrava perfettamente tranquillo e neppure
sfiorato dal rimorso, come se non si rendesse conto della gravità del male commesso. Come farglielo
capire? Dio decide di mandare a lui il profeta Natan. Il profeta chiede udienza al sovrano e comincia a
raccontargli un fatto in cui non si parla assolutamente di adulterio, tanto meno di omicidio, e
soprattutto non si parla affatto di Davide. Il profeta racconta la storia del ricco proprietario e del povero
pastorello e chiede al re giustizia: un ricco prepotente per festeggiare un ospite di passaggio, anziché
prendere uno dei suoi numerosi capi di bestiame, ha depredato un povero portandogli via l'unica
pecora che possedeva e che viveva nella sua casa come una figlia. Con questa parabola il profeta Natan
propone al suo interlocutore un nuovo campo su cui confrontarsi in modo che Davide possa fare
un’opzione che gli permetta di raggiungere un diverso punto di vista. Il racconto è ben costruito e non
può non strappare a Davide una decisa condanna: “Quell'uomo è degno di morte!”. A questo punto
però Natan scopre le carte e lo mette di fronte alla realtà: “Sei tu quell'uomo!” E' come un'improvvisa
doccia fredda o una trappola che scatta quando ormai è troppo tardi per tirarsene indietro. Ecco
espresso chiaramente l’effetto parabola. L’ascoltatore, in questo caso Davide, è stato coinvolto e
portato a dare un giudizio su di sé. Si accorge che la parabola parla di lui!

A partire da questo racconto, Fusco, propone la seguente definizione di parabola:

La Parabola è un racconto fittizio che il parabolista utilizza in funzione di una strategia dialogico-
argomentativa che opera in due momenti:
- Prima il parabolista sollecita chi ascolta a dare una certa valutazione del fatto raccontato (parabola), in
base alla logica interna del racconto (nel nostro caso Davide dà un giudizio:”Quell’uomo è degno di
morte!”).
- Poi, in forza di un’analogia di struttura, egli trasferisce questa valutazione alla vita del suo interlocutore
(Natan dirà a Davide: Sei tu quell’uomo!).

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 63


Analizziamo i vari elementi della definizione:

a) La parabola è un racconto fittizio


- La parabola è un RACCONTO: con questo termine non si intende qualsiasi frase, né una semplice somma di
frasi, perché ci sia un racconto occorre un'azione, un intreccio, una o più sequenze. Racconto è la
descrizione di un avvenimento, di una situazione che poi si modifica, c'è uno svolgimento, una vicenda da
capire.
- FITTIZIO: il racconto è normalmente creato lì per lì, utilizzato per un certo scopo; potrebbe anche essere un
caso realmente accaduto, ma utilizzato non in quanto tale, ma solo in quanto provvisto di una logica
interna. Questo carattere “fittizio” non esclude l'utilizzazione di altri elementi di vario genere. Il parabolista
riferisce situazioni prese dall'esperienza umana e riporta dati che si riferiscono a una precisa situazione
socio-culturale, inoltre utilizza immagini prese dall'AT ( l'immagine del pastore; del gregge; del padre di
famiglia; del re ecc...).

b) Utilizzato in funzione di una strategia dialogico argomentativa


La parabola però non è solo un racconto fittizio qualsiasi, non è un racconto costruito per il puro gusto di
narrare, come può essere una fiaba o un romanzo, non è neppure simile ai midrashim o ai racconti
chassidici che hanno lo scopo di influenzare il lettore. La sua caratteristica consiste nel fatto che la parabola
è un racconto modellato su un altro, è un racconto costruito avendo di mira una particolare finalità, è un
racconto di tipo 'direzionale’, costruito per suscitare un certo effetto (come nel caso della parabola del
profeta Natan a Davide). Lo scopo della parabola è condurre l’ ascoltatore ad un nuovo convincimento.
Il racconto da solo non è parabola; può funzionare come parabola solo all'interno di un processo dialogico,
di un rapporto tra chi parla e chi ascolta. Il suo scopo è dunque quello di suscitare un effetto in colui che
l'ascolta. Non basta dunque, per comprendere una parabola, esaminare solo il racconto, ma occorre
studiare il rapporto tra il racconto e la realtà cui fa riferimento, altrimenti non si comprende il racconto in
quanto parabolico.
Il parabolista dunque costruisce un racconto e mette in scena una vicenda per trasferire i suoi ascoltatori in
un mondo fittizio, ma quel trasferimento è provvisorio: a un certo punto gli ascoltatori verranno ritrasferiti
dal fittizio nel reale, dovranno trovarsi faccia a faccia con una realtà ben determinata, che il parabolista
aveva in mente fin dall'inizio, ed in funzione della quale aveva costruito il racconto.
Il problema essenziale è allora: perché questo passaggio attraverso il fittizio? Questo percorso curvo,
questo allontanarsi dalla situazione reale, questo volgere le spalle, non affrontandola subito direttamente,
se poi ad un certo punto ci si dovrà ritrasferire in essa? Evidentemente perché da quel trasferimento nel
fittizio si ottiene qualcosa che altrimenti non si otterrebbe. Che cosa precisamente? Si tratta di un
procedimento di tipo argomentativo, cui conviene ricorrere soprattutto quando la persona da convincere è
parte in causa e c'è da temere che, contestata direttamente, non riconoscerebbe tanto volentieri la verità
(usando meccanismi di difesa!). Perciò la si invita a pronunciarsi su un caso, a prima vita assai distante.
Questo procedimento parabolico, questo mascheramento è molto efficace.
Si può dunque concludere che «l'effetto parabola» consiste nel far emettere, da chi ascolta la vicenda
fittizia, una certa valutazione, un 'giudizio', che il parabolista poi trasferisce alla situazione reale
dell’interlocutore stesso, che si trova così giudicato dalle sue stesse parole14.

LE PARABOLE DI GESÙ

Questa funzione argomentativa che caratterizza anche le parabole dell’AT (Gdc 9,7-21; 2Re 14,9; Is 5,1-6) e
quelle della tradizione rabbinica, si ritrova nelle parabole di Gesù. Il caso più evidente, che potrebbe essere
preso come paradigmatico, per mettere in luce la funzione logico-argomentativa delle parabole di Gesù, è

14 Nelle parabole raccontate nei vangeli, la dimensione dialogica può essere più o meno accentuata.
R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 64
quella della parabola dei due debitori (Lc 7,41-42), proposta da Gesù a Simone il Fariseo, nel passo della
peccatrice perdonata in Lc 7,36-50.

La peccatrice perdonata (Lc 7,36-50)


36 37
Uno dei farisei lo invitò a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. Ed ecco, una donna,
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una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, portò un vaso di profumo; stando dietro,
presso i piedi di lui, piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li
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cospargeva di profumo. Vedendo questo, il fariseo che l’aveva invitato disse tra sé: «Se costui fosse un profeta,
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saprebbe chi è, e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!». Gesù allora gli disse: «Simone, ho da
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dirti qualcosa». Ed egli rispose: «Di’ pure, maestro». «Un creditore aveva due debitori: uno gli doveva cinquecento
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denari, l’altro cinquanta. Non avendo essi di che restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi di loro dunque lo
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amerà di più?». Simone rispose: «Suppongo sia colui al quale ha condonato di più». Gli disse Gesù: «Hai giudicato
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bene». E, volgendosi verso la donna, disse a Simone: «Vedi questa donna? Sono entrato in casa tua e tu non mi hai
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dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi
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hai dato un bacio; lei invece, da quando sono entrato, non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non hai unto con olio il
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mio capo; lei invece mi ha cosparso i piedi di profumo. Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati,
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perché ha molto amato. Invece colui al quale si perdona poco, ama poco». Poi disse a lei: «I tuoi peccati sono
49 50
perdonati». Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: «Chi è costui che perdona anche i peccati?». Ma egli
disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!».

Il racconto parabolico è collocato dentro la storia della peccatrice che capita nel bel mezzo di un pranzo in
casa di un fariseo, per esprimere a Gesù il proprio affetto e ricevere da lui il perdono dei peccati. Il fariseo è
urtato nel vedere Gesù così permissivo nei riguardi della peccatrice. Evidentemente non è disposto ad
accettare una spiegazione. Ci sarebbe certo la possibilità di mostrargli il suo torto con argomenti contrari,
ma invece di intavolare una discussione, Gesù racconta una parabola. Questa parabola è introdotta per
condurre il suo ospite, da un certo modo di considerare il comportamento della peccatrice, a un altro modo
di vedere, che gli permetterà di capire l'atteggiamento di Gesù.
La storia parla di due debitori: uno che deve cinquanta denari, l'altro cinquecento. La situazione di questi
debitori, l'uno rispetto all'altro, non è senza somiglianza, con l'idea che il fariseo si fa della situazione della
peccatrice. Certamente la sua giustizia non gli impedisce di sapersi in debito verso Dio, ma di poco in
confronto al debito di questa donna. L'analogia delle situazioni non è evidente, tuttavia è importante che il
fariseo non lo noti immediatamente: bisogna prima condurlo a coinvolgersi.
Il piccolo debitore della parabola parte avvantaggiato rispetto a quello che deve cinquecento denari: una
forte somma di cui non potrà sdebitarsi senza fatica. Ma allora accade il fatto inatteso: il creditore rimette i
due debiti. Di colpo la situazione si capovolge: il debitore più sfavorito di colpo diviene il più avvantaggiato,
quello che doveva meno, meno riceve.
Gesù invita Simone a pronunziarsi su questo caso: «Chi di loro lo amerà di più?»
Una volta avuta la risposta desiderata: 'Suppongo sia colui al quale ha condonato di più’ e la lode di Gesù:
'Hai giudicato bene!', subentra un secondo momento: la valutazione ottenuta viene trasferita ad un'altra
realtà, finora non menzionata, alla quale mirava fin dall'inizio il parabolista ed in funzione della quale aveva
costruito il racconto fittizio.
L'interlocutore di Gesù si accorgerà da solo, che il suo giudizio precedente, dato a riguardo di Gesù e della
donna, è stato negativo! La donna ha avuto questo atteggiamento affettuoso e molto riconoscente nei
confronti di Gesù perché si è sentita da Lui non giudicata, ma amata e perdonata (ecco il condono del
grande debito!!). Questa parabola può essere considerata come esemplare per quanto concerne l'uso delle
parabole come mezzo di dialogo.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 65


OTTIMO MEZZO DI DIALOGO

Gesù non usa le parabole solo perché sono un buon metodo pedagogico o didattico e neppure fa
riferimento ad esse solo quando si trova in forte polemica con i suoi ascoltatori, ma piuttosto perché esse si
rivelano un ottimo mezzo di dialogo.
Egli aveva davanti a sé interlocutori che vedevano le cose in modo diverso da lui. Non si accontenta allora di
esporre il proprio punto di vista; lo confronta, nella parabola stessa col punto di vista degli interlocutori. La
parabola riflette in tal modo una situazione di dialogo.
Con questo non si vuole dire però che la parabola si usa, come afferma J. Jeremias (citato da Dupont), come
arma da combattimento quando ci si trova in una situazione controversa. Non pochi autori hanno letto le
parabole come discorsi che Gesù avrebbe pronunciato contro gli avversari. Dire che la parabola è mezzo
dialogico è affermare qualcosa di diverso, essa non intende né distruggere gli avversari, né solo comunicare
un'informazione agli ascoltatori; chi racconta cerca il loro consenso, vuole rispondere alle loro difficoltà e
vuole condurli a comprendere in modo nuovo la situazione. La parabola diviene così lo strumento per
condurre il dialogo ed evitare gli insabbiamenti della contraversia.
La parabola non si propone solo di far capire all'ascoltatore che un punto di vista diverso dal suo è
sostenibile, ma anche tende a portare chi ascolta a fare un'opzione che non è solo intellettuale. Certo il
terreno della parabola non è ancora quello della realtà, ma la strada percorsa sul terreno parabolico ha già
provocato il cambiamento di ottica, che farà vedere la realtà in modo nuovo.

 LA PARABOLA HA LO SCOPO DI RIVELARE

Scrive B. Maggioni nella sua Introduzione alle Parabole evangeliche15:

«Ma se si insiste esclusivamente, o quasi, sul carattere dialogico e argomentativo della parabola,
si corre il rischio di dimenticare la sua forza di rivelazione. Nel suo parlare in parabole Gesù non
assume semplicemente la figura del sapiente, ma quella del rivelatore. Sapiente perché si riferisce
all'esperienza dell'uomo per aprire un cammino verso Dio. Rivelatore perché parla di un Dio che
non deduce dall'esperienza dell'uomo, bensì da una conoscenza propria, immediata”…».
«Gesù ha raccontato parabole non soltanto perché, come tutti gli uomini geniali, amava i paragoni
e neppure perché, da buon maestro, voleva che il suo messaggio fosse chiaro ed accessibile. Ha
parlato in parabole perché a proposito di Dio e del suo mistero non è possibile diversamente. Dio
è al di sopra dei nostri pensieri e delle nostre parole: per parlare di lui dobbiamo utilizzare le
esperienze che abbiamo a disposizione. Così per aiutarci a comprendere qualcosa dell'amore di
Dio e del suo perdono, Gesù prende spunto da un'esperienza che tutti sono in grado di
comprendere: ’Un padre aveva due figli…’ (cf. Parabola del figliol prodigo) »…
«Il parlare attraverso le parabole nasce soprattutto da un'esigenza teologica, cioè dal fatto che
non si può discorrere direttamente del Regno di Dio, ma solo parabolicamente mediante paragoni
tratti dalla vita. Per parlare di Dio non si può fare altro che partire dalla nostra esperienza».
«Si tratta di un linguaggio inadeguato, perché desunto dal vissuto quotidiano, eppure pretende di
esprimere qualcosa di ulteriore e di più profondo. Nello stesso tempo è un linguaggio aperto,
capace certo non di esprimere il regno, ma di alludervi: perché se è vero che il Regno non si
identifica con la nostra storia, rimane altrettanto vero che ha una intrinseca relazione con essa. E’
un linguaggio che costringe a pensare: non definisce, non è un traguardo riposante, ma allude,
provoca, invita ad andare oltre l'ovvio, rende pensosi. La parabola è un racconto che lascia intatto
il mistero del regno, mostrandone però con forza, l'impatto con l'esistenza dell'uomo; fa pensare,
inquieta e interroga».
«Gesù nelle parabole parla del comportamento di Dio, collegandolo al suo comportamento. La
parabola del pastore che cerca la pecorella smarrita, parla del comportamento di Dio (Mt 18,12-

15 B. MAGGIONI, Le Parabole evangeliche, Introduzione, Vita e Pensiero, p.11ss.


R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 66
13; Lc 15,4-7), ma anche di quello di Gesù. La parabola è rivolta ai benpensanti che gli
rimproverano le sue frequentazioni poco raccomandabili.
Così la parabola del figliol prodigo (Lc15,11-32) e quella degli operai dell’undicesima ora (Mt 20,1-
15), pagati allo stesso modo, rivelano la bontà del padre e del padrone, che può essere
riconosciuta solo se si accetta che Dio ama gli ultimi e non solo i primi, come Gesù stesso fa. La
parabola del seminatore (Mc 4,3-8) che parla dell’insuccesso del seme e poi alla fine del suo
successo strepitoso fa capire qualcosa del mistero di Dio, ma anche del mistero di Gesù».

«La parabola non è solo dialogo, ma anche una forma particolare di annuncio. In rapporto a
quest'ultimo la parabola ha la funzione di spianare la via rimuovendo pregiudizi e ostacoli, e
insieme di suggerire il 'punto di vista' da adottare, o il diverso piano in cui collocarsi, per poter
intuire che la novità evangelica, così sconcertante, ha una sua logica interna, una propria
coerenza, persino una sua 'ovvietà’.
Nella parabola l'annuncio non è mai semplicemente supposto per parlare d'altro, ma è sempre -
direttamente o indirettamente - proclamato. Anche quando una parabola si sofferma su un
comportamento concreto, non è mai soltanto per mostrare che esso discende come logica
conseguenza del vangelo, ma per sottolineare che è una trascrizione visibile, esperienziale, del
vangelo stesso. Anche in questo caso la parabola non è solo morale, bensì anche teologica:
rivelatoria, oltre che argomentativa. La conclusione è che lo spazio della parabola è il luogo in cui
la novità dell'evento cristologico e l'esperienza dell'uomo si incontrano. L'evento cristologico è
libero, gratuito e indeducibile. Non lo si ricava dall'esperienza dell'uomo; esso piuttosto la tocca e
qui si fa conoscere. La parabola è a servizio di questa manifestazione: il suo scopo è di aiutare
l'ascoltatore a cogliere con un colpo d'occhio la novità e la continuità della rivelazione di Dio..»

BIBLIOGRAFIA
DUPONT J, Il metodo parabolico di Gesù (Paideia 1978).
FUSCO V., Parabola/Parabole, Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, 1988, pp.1081-1097).
FUSCO V., Oltre la parabola, Borla 1983
LEONARDI G, Le Parabole evangeliche nell'ermeneutica moderna, Credere Oggi, 2-1993, n. 74.
MAGGIONI B, Le parabole evangeliche, Vita e pensiero (1993), pp. 7-17.

C. SPIEGAZIONE DI ALCUNE PARABOLE

Proseguiamo presentando la lettura esegetica di queste parabole:

 Le Parabole del seme: Mc 4,1-34

 Il samaritano: Lc 10,25-37

 Le parabole della misericordia: Luca 15,11-32


- La pecora perduta e ritrovata
- La moneta perduta e ritrovata
- Il padre misericordioso e i due figli (oppure: Il figlio prodigo)

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 67


LE PARABOLE DEL SEME Mc 4,1-34

A. INTRODUZIONE NARRATIVA vv. 1-2


[1]Cominciò di nuovo cominciò a insegnare lungo il mare. Si riunì intorno a lui una folla enorme, tanto che egli, salito
su una barca, si mise a sedere, stando in mare, mentre la folla era a terra lungo la riva. [2]Insegnava loro molte cose
con parabole e diceva loro nel suo insegnamento:

B. PARABOLA DEL SEMINATORE vv. 3-9


[3]« Ascoltate. Ecco, il seminatore uscì a seminare.
[4]Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono.
[5]Un'altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c'era molta terra, e subito germogliò perché il terreno non era
profondo, [6]ma quando il sole, fu bruciata e, non avendo radice, seccò.
[7]Un'altra parte cadde tra i rovi e i rovi crebbero, la soffocarono e non diede frutto.
[8]Altre parti caddero sul terreno buono, e diedero frutto; spuntarono, crebbero, e resero il trenta, il sessanta, il
cento per uno».
[9]E diceva: «Chi ha orecchi per ascoltare, ascolti!».

C. DIALOGO TRA I DISCEPOLI E GESÙ VV. 10-25


[10]Quando poi furono da soli, quelli che erano intorno a lui insieme ai Dodici lo interrogavano sulle parabole. Ed egli diceva loro:
[11]«A voi è stato dato il mistero del regno di Dio; per quelli che sono fuori invece tutto viene esposto in parabole, [12]affinchè:
guardino sì, ma non vedano, ascoltino sì, ma non comprendano, perché non si convertano e venga loro perdonato».

Gesù spiega la parabola del seminatore


[13]E disse loro: «Non capite questa parabola, e come potrete comprendere tutte le parabole?
[14]Il seminatore semina la parola. [15]Quelli lungo la strada sono coloro nei quali viene seminata la parola, ma
quando l'ascoltano, subito viene satana, e porta via la Parola seminata in loro. [16]Quelli seminati sul terreno sassoso
sono coloro che, quando ascoltano la Parola, subito l'accolgono con gioia, [17]ma non hanno radice in se stessi, sono
incostanti e quindi, al sopraggiungere di qualche tribolazione o persecuzione a causa della Parola, subito vengono
meno. [18]Altri sono quelli seminati tra i rovi: questi sono coloro che hanno ascoltato la Parola, [19]ma
sopraggiungono le preoccupazioni del mondo e la seduzione della ricchezza e tutte le altre passioni, soffocano la
parola e questa rimane senza frutto.[20]Altri ancora sono quelli seminati sul terreno buono: sono coloro che ascoltano
la Parola, l'accolgono e portano frutto: il trenta, il sessanta, il cento per uno».

Detti della lampada e della misura


[21]Diceva loro: «Viene forse la lampada per essere messa sotto il moggio o sotto il letto? O non invece per essere messa sul
candelabro? [22]Non vi è infatti nulla di segreto che non debba essere manifestato e nulla di nascosto che non debba essere messo
in luce. [23]Se uno ha orecchi per ascoltare, ascolti!».
[24]Diceva loro: «Fate attenzione a quello che ascoltate: Con la stessa misura con la quale misurate, sarà misurato a voi; anzi vi sarà
dato di più. [25]Perché a chi ha, sarà dato; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha».

B' PARABOLA DEL SEME CHE SPUNTA DA SOLO [26]Diceva: «Così è il regno di Dio: come unuomo che getta il seme sul terreno;
[27]dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. [28]Il terreno produce
spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga. [29] e quando il frutto è maturo, subito
egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».

LA PARABOLA DEL GRANELLO DI SENAPE [30]Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola
possiamo descriverlo? [31]E’ come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di
tutti semi che sono sul terreno; [32]ma quando viene seminato cresce e diviene più grande di tutte le piante dell’orto
e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».

A' CONCLUSIONE NARRATIVA


[33]Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere.
[34]Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli, spiegava ogni cosa.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 68


A . Introduzione narrativa (vv. 1-2)
Marco in questa introduzione narrativa sottolinea ripetutamente l'insegnamento di Gesù alle folle, lungo il
mare di Galilea. La folla che già negli episodi precedenti si raccoglieva intorno a lui (2,1.13; 3,7ss) questa
volta è più numerosa che mai (oclos pleistos) e si accalca a tal punto da costringerlo ad insegnare dalla
barca. Gesù parlando alla folla che sta a terra, semina in loro la Parola, così come il seminatore della
parabola getta il seme. Il verbo insegnare (didaskein) è ripetuto due volte: “cominciò ad insegnare” (v.1a)
e “insegnava loro molte cose con parabole” (v. 2b), e una volta troviamo il sostantivo “insegnamento”
(didachè). Gesù è seduto: è la posizione del Maestro. Per l'evangelista “l'insegnare” è una funzione
riservata a Gesù, una sola volta questo verbo è riferito ai discepoli (6,30). Le parole ‘insegnare’ (didaskein) e
‘insegnamento’ (didachè) non sono termini incolori come il semplice 'dire', ‘parlare', ma per loro natura
sottolineano in maniera speciale lo sforzo vivo del “comunicare”; vedremo infatti come Gesù è maestro di
vita e vuole raggiungere il cuore della gente. Fusco16 afferma che non c'è in tutti i vangeli, una scena in cui
l'aspetto “magisteriale” di Gesù sia così sottolineato e non c'è dubbio che l’evangelista vuole descrivere un
momento culminante del suo ministero, infatti questo è uno dei rari testi dove Marco riferisce il contenuto
del suo insegnamento (cf. Mc 13).

B. La parabola del seminatore (vv. 3-9): la fase della semina


La parabola del seminatore si apre e si chiude con l'imperativo dell'ascolto: ‘Ascoltate!’(4,3) (akoùete) - 'Chi
ha orecchi per ascoltare, ascolti!' (os èkei ota akoùein akoueto) (4,9) .
- “Ascoltate” (v. 3): è un invito all'attenzione e alla riflessione per comprendere le cose che stanno per
essere dette (Mc 7,14). Nel linguaggio biblico, 'ascoltare' è più del semplice sentire, e anche più del
comprendere, implica un coinvolgimento totale della persona: ascoltare è insieme ascoltare, capire e
obbedire. (cf. Bar 2,31; Is 50,4; Dt 29,3; Ger 5,21; 6,10; Ez 12,2). L’imperativo evoca al singolare l’ ”Ascolta,
Israele!” che i profeti, a nome di Dio, rivolgevano al popolo (Dt 5,1; 6,3.4; 9,1).
- “Chi ha orecchi per ascoltare ascolti!” (v. 9): la frase di stile semitico invita ad un ascolto attento, a tenere
l'orecchio proteso per udire tutto distintamente senza perdere una parola, e suggerisce la profondità, ma
anche la misteriosità, di ciò che viene detto, non si può capire a prima vista. Qui “orecchio” sta per
intelligenza: la parabola è qualcosa da decifrare e richiede l'attenzione della mente e del cuore. Gesù
chiede un ascolto intelligente, un ascolto che giunga a domandarsi cosa c'è dietro a queste parole, cosa mi
riguarda, come mi tocca. Disposizione che però non tutti hanno! Questa espressione avverte che si può
dare anche l'eventualità di un non capire.

Diamo uno sguardo complessivo alla parabola del seminatore (vv. 3-9). Si racconta la storia di una semina,
si presentano immagini prese dalla vita agricola per descrivere l'azione della Parola di Gesù. La maggior
parte degli esegeti mette in guardia dal leggere la parabola a partire dalla spiegazione allegorica, che parla
dei diversi tipi di terreno, data nei versetti successivi (vv. 13-19); in questo modo la si legge come la
parabola che parla dei vari tipi di terreno mentre in realtà essa parla più del seme che del terreno. La figura
del seminatore che getta il seme su diversi tipi di terreno fa comprendere che si tratta di un unica semina,
di un solo campo; lo stesso seminatore getta lo stesso seme, compie gli stessi gesti e il seme raggiunge
quattro luoghi diversi. Anche se si rimane colpiti dall’insolita generosità, al limite dello spreco di questo
seminatore, il centro dell'attenzione non pare essere il seminatore: egli compare soltanto nel versetto
iniziale (v. 3), poi non se ne parla più, e di lui non si dice più nulla; non c'è nessun riferimento alle sue
reazioni, alla sua fatica, alle sue speranze, alle sue delusioni e neppure alla sua gioia per il raccolto
abbondante. L’andamento del racconto sembra mettere in primo piano la sorte del seme. Il soggetto di
tutte le frasi a parte quella iniziale è il seme: “un'altra parte cadde… un’ altra parte cadde... altre parti
caddero…” (o men epesen; allo epesen; alla epesen vv. 4.5.7.8). Tutti i verbi sono riferiti al seme: cadere,
germogliare, bruciare, seccare, soffocare, dare frutto, spuntare, crescere, rendere (vv. 4. 5. 6.7.8.9).
La parabola vuole porre la sua attenzione sulle diverse sorti del seme, presentando gli esiti di questa
semina: viene descritta la sorte del seme in quattro quadri progressivi, tre negativi e uno positivo.

16 V. FUSCO, Parabola e Regno, op. cit, p 152ss.


R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 69
Qual è la prima impressione che il lettore ha nel leggerla? Non è forse che la maggior parte del seme è
sprecato? Su quattro terreni sui quali cade il seme, ben tre non danno frutto!
I primi tre quadri negativi: i primi semi (v. 4) non riescono neppure ad attecchire, cadono lungo la strada,
vengono mangiati dagli uccelli, la loro sorte si consuma in un attimo. Il secondo gruppo di semi (vv. 5-6)
riesce invece ad attecchire, ma a causa dello strato sassoso, della poca terra, l'esile germoglio si secca
subito sotto i raggi infuocati del sole. Il terzo gruppo di semi (v. 7) raggiunge una stadio più avanzato, ha
tutte le possibilità di sviluppare bene le sue radici, rimane però soffocato dalle spine. Nel termine
'soffocare' (sumpnigo) c'è un senso di lotta, la piantina è piena di vitalità ma viene sopraffatta. Questa volta
si era andati abbastanza vicino al risultato, ma il seme non arriva a buon fine, dice il testo 'non diede frutto'
(kai karpon ouk edoken). I primi tre quadri sono la storia di un ripetuto fallimento, che siano gli uccelli a
portarlo via, o il sole a farlo seccare, perché la terra è troppo scarsa e la radice manca, o i rovi a soffocarlo,
una volta germogliato, sta di fatto che ogni volta e con una sorta di crescendo nella delusione, lo scopo del
seminatore viene frustrato: quella semente è persa, irrecuperabile, quel terreno non produce niente. Ma
dopo aver esaminato l'insuccesso lo sguardo cade dove c'è il successo.
Il quarto quadro positivo: l'ultimo gruppo di semi (v. 8) riesce a percorrere senza intoppi tutto l'arco della
crescita fino alla maturazione dei frutti: si dice che “altre parti” del seme caduto sulla terra riescono a dare
frutto (edidou karpon - imperf.) e a rendere il trenta, il sessanta, il cento per uno. In questo gruppo viene
descritto un triplice successo del seme, anche qui in progressione crescente. Colpisce l'abbondanza del
raccolto molto alta, fuori misura per il terreno in Palestina. L'ascoltatore non può non restarne stupito:
come è possibile un raccolto così abbondante? La riuscita finale è sorprendente e impensabile (elemento di
inverosimiglianza per il tempo di allora!). Il contrasto con gli altri quadri è evidente. Il parabolista con delle
contrapposizioni abbastanza sottili fa capire l'importanza di questo quarto quadro. Qui la parabola che fino
a questo punto era in linea con l’ esperienza di tutti, si rompe: viene spezzata l'immagine della natura con i
suoi decorsi regolari e viene presentato questo successo incredibile. Ora si comprende perchè il contadino
semina con fiducia, non ha paura di perdere parte del seme, non pretende che il seme cresca sempre e
dovunque, egli ha la certezza che c’è il terreno buono ed esso dà frutto. Notiamo comunque che nella
stessa semina e nello stesso tempo coesistono successo e insuccesso.

Quale giudizio sono invitati a dare gli uditori, la folla e i discepoli a riguardo di questa parabola? Cosa
significa questo contrasto tra l’insuccesso del seme (le prime tre fasi) e il successo incredibile nell’ultima
fase del raccolto? Qui entra in causa chi ascolta! Occorre riflettere e pensare! Questo successo contrastato
del seme aiuta a comprendere cosa sta accadendo durante la predicazione di Gesù. Gli ascoltatori di Gesù
restano sempre più perplessi di fronte alle crescenti difficoltà e reazioni violente che la predicazione del
Maestro sta incontrando. Gesù vuol far capire che la Parola da lui annunciata incontra rifiuti e ostacoli tali
da farla sembrare debole e impotente, ma il successo non le sarà mai impedito. Gesù ha la certezza che già
ora, la sua Parola seminata nel cuore umano, darà frutto abbondante! Egli dimostra piena fiducia nella
“efficacia” della Parola di Dio che annuncia! (Cf. Is 55,10ss). Non basta avere fiducia nella “verità” di
questa Parola, occorre anche aver fiducia della sua “efficacia”!

La parabola è partita da un contadino e sulla vicenda del suo raccolto ma, per andare oltre: essa vuole far
comprendere a chi ascolta quali sono le dinamiche del crescere del Regno di Dio. Non è nonostante i
fallimenti, l’apparente inerzia e la piccolezza, che la Parola e dunque il Regno di Dio si sviluppano, ma
proprio attraverso queste condizioni. Questo è l'atteggiamento che Gesù ha, di fronte al fallimento:
continua a fidarsi come farà persino sulla croce, mettendosi nelle mani del Padre. La semina di Gesù non è
diversa da quella del contadino: dona la Parola a tutti con una sovrabbondanza tale che sembra spreco, ma
questo non è sperpero o inefficace debolezza, bensì gratuità e amore incondizionato, generosità
disinteressata e traboccante, amore che non calcola e non costringe. Si può ancora dire che questi diversi
tipi di terreno si trovano tutti dentro il cuore umano; il seme, che è Parola di Gesù, ha la forza di vincere le
resistenze… Gesù ha fiducia dell’uomo!

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 70


C. Dialogo tra Gesù e i discepoli in privato ( vv. 10-12)

Nel colloquio privato Gesù è interrogato dai dodici, insieme ad altri discepoli, sul perché egli parli in
parabole; essi dunque mostrano di non aver capito il senso della parabola del seminatore. Sottolineiamo
come primo aspetto positivo questo dialogare tra Gesù e i discepoli. I dodici non sempre avranno il coraggio
di interrogarlo. La crisi più grave della loro fede incomincerà quando, non comprendendo, avranno timore a
fargli domande (9,32). Gesù fa capire loro il perché davanti alle sue parabole la gente si divida e dà loro le
ragioni che possono portare alla fede o all’incredulità. Le sue parole suonano molto enigmatiche e
suscitano una certa perplessità. Forse Gesù dichiara che il Regno è destinato solo ai discepoli e parla in
parabole per impedire che altri capiscano e si convertano? Intuiamo che una tale risposta non ha senso.
Alla fine della sezione Marco dice che Gesù comunicava le parabole a tutti “secondo quanto erano in grado
di ascoltare” (vv. 33-34). Vuole farsi capire e non il contrario!

Gesù fa intendere che è possibile avere nei suoi riguardi due diversi atteggiamenti: si può essere come - i
discepoli e quelli che si uniscono a loro [“voi”] - aperti ad incontrarlo e interrogarlo, anche se non capiscono
tutto e hanno tanti dubbi, oppure come “quelli di fuori” che invece con diverse sfumature si chiudono, se
ne vanno e possono giungere a giudicarlo, respingerlo, accusarlo. L’uomo, fa intendere Gesù, può passare
da un atteggiamento all’altro, da una chiusura a un’apertura, ma anche viceversa, da un’apertura ad una
chiusura.
- L’adesione di coloro che si avvicinano a lui, come i discepoli, non è solo frutto di una loro apertura
personale, ma soprattutto è dono di Dio, è grazia «a voi è stato dato il mistero del regno». Gesù vuole
ricordare ai discepoli che gli sono vicini, che il dono della fede viene dall’ ”alto”, non è una semplice
conquista dell’uomo e occorre stare sempre con Lui per non perdere ciò che hanno ricevuto.
- Chi sta lontano da Lui, “quelli di fuori” che non si lasciano coinvolgere, interrogare, ascoltano
superficialmente e se ne vanno, purtroppo non possono giungere a capire. Per loro “tutto accade in
parabole” cioè, non solo le parabole, ma tutta la vicenda di Gesù resta incomprensibile. La mancata
comprensione non è da attribuire assolutamente al carattere enigmatico delle parabole di Gesù, ma alla
loro incapacità di aprirsi all’ascolto e quindi di ricevere il dono. Il mistero del Regno può essere colto
unicamente decidendosi per esso. Una seconda ragione che motiva l’incredulità si trova scritta in un passo
del profeta Isaia: «affinchè: guardino sì, ma non vedano, ascoltino sì, ma non comprendano, perché non si
convertano e venga loro perdonato». Questo testo è scioccante, ma non vuole assolutamente introdurre
l’idea di una sorte di predestinazione, di arbitrarietà divina come se l’incredulità dipendesse da Dio. Gesù
vuole dire che l’incredulità non è un fatto inedito, non ci si deve meravigliare dell’incredulità, già ne parlava
il profeta Isaia. Se la Parola di Dio suscita risposte contraddittorie, ciò fa parte della natura della Parola
stessa, che non costringe, non riduce lo spazio della libertà, chiede il consenso, ma è anche pronta a
incontrare resistenza e rifiuto. La ‘debolezza’ della Parola di Dio, che è per molti motivo di scandalo, è
invece il segno della sua verità. Proprio perché è debole, è di Dio, se fosse convincente per tutti o se si
imponesse con la forza, ci sarebbe il sospetto che non sia di Dio.
E’ importante capire che Gesù non sta dividendo le persone in due gruppi o categorie: quelli che credono
e quelli che non credono. Ma sta dicendo che si possono vivere atteggiamenti di fede e di incredulità, a
motivo della responsabilità dell’uomo, e perché la parola di Dio non si impone mai a nessuno. Quando più
avanti, dopo la seconda moltiplicazione dei pani Gesù rimprovererà i suoi discepoli che si lamentano di non
avere pane, con tutta una fitta serie di domande “… Avete il cuore indurito… avete occhi e non vedete…
avete orecchie e non udite…” (8,17ss.), è come se dicesse loro, che ora ragionano come “quelli di fuori”.
L’espressione «quelli di fuori» è dunque da intendere teologicamente. Anche il credente può passare
dall’altra parte e perdere il dono!

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 71


D. La spiegazione della parabola del seminatore al gruppo dei discepoli: i diversi tipi di terreno (vv. 14-
20)

La spiegazione della parabola del seminatore rivolta da Gesù ai discepoli in privato, è utile per far capire
meglio la distinzione precedentemente fatta tra “il gruppo di coloro che stanno vicino a lui” e “quelli di
fuori”. L'attenzione ora si sposta dal 'seme' ai terreni' per mettere in evidenza il diverso atteggiamento degli
uomini nell'ascolto della Parola. La spiegazione mette ora al centro la responsabilità dell’uomo. La parabola
si è trasformata in allegoria, ciascun tratto della Parabola riceve il suo corrispondente: in particolare
vediamo che il seme è la Parola di Gesù e i quattro terreni non tratteggiano quattro classi di uditori, ma
rappresentano i differenti atteggiamenti che ogni individuo può assumere di fronte al messaggio di Gesù.
Ogni ascoltatore può ricevere il messaggio in uno dei quattro modi che stanno per essere descritti. Non
esistono quindi, individui predestinati. Il messaggio viene offerto a tutti; se c’è un tempo in cui non si
produce frutto, è perché in qualche modo l’uomo pone resistenze o non lo accoglie. E’ anche possibile
passare da un tipo di terreno all’altro, cioè si può progredire o regredire nel modo di ascoltare la parola di
Gesù. Ed ecco la spiegazione della parabola dal punto di vista dei terreni.

- Al primo tipo di ascoltatori (v. 15) appartengono quegli uomini nei quali la Parola seminata “lungo la
strada” resta del tutto inerte, non penetra nel cuore, non riesce nemmeno a mettere radici. La Parola
sparisce non lasciando traccia. Il loro ascolto è momentaneo, non è accompagnato da una seria riflessione.
Il testo dice sbrigativamente che è Satana a portare via da loro la Parola.
- Al secondo tipo di uditori (vv. 16-17), che ricevono il seme su un «terreno sassoso», appartengono gli
ascoltatori entusiasti, che in fretta gioiscono e altrettanto in fretta si abbattono. Sono uomini che
comprendono e si entusiasmano, ma non si impegnano seriamente nel seguire Gesù. Al sopraggiungere
della tribolazione e della persecuzione, vengono meno, la loro fede subito vacilla. Il testo greco dice “si
scandalizzano (skandalizontai)”.La parola scandalizzarsi significa ‘retrocedere dalla fede’. La “tribolazione”
(thlipsis) è un termine che allude alle persecuzioni o alle prove subite a motivo della Parola di Gesù, ma
anche più essere riferito semplicemente alla fatica che le dure esigenze del Vangelo comportano.
- Il terzo tipo di ascoltatori (vv. 18-19) che ricevono il seme tra «i rovi» è delineato con tratti marcati. Gli
interessi eccessivi, o le passioni smodate, si insinuano in questi uomini con nascosta prepotenza,
sconvolgendoli alla radice. A soffocare la Parola non sono le passioni eccezionali, ma quelle comuni,
quotidiane: le preoccupazioni del mondo, gli affari, l'attrattiva del denaro, le smodate ambizioni di ogni
genere. Il verbo “sopraggiungono” va meglio tradotto con 'penetrano dentro' (eisporeuomai): si suggerisce
con grande efficacia che queste passioni modificano l'essere dell'uomo. Il cuore distratto e appesantito
diventa del tutto incapace di avvertire ciò che vale. Nel loro animo e nella loro vita la Parola soffoca perché
è priva di spazio e manca di aria (cf. Mc 10, 17-22 il rifiuto dell’ uomo ricco).
- Del quarto tipo di ascoltatori (v. 20) si dice semplicemente che sono il «terreno buono» nel quale non ci
sono ostacoli per la crescita del seme. Si descrive invece che cosa fanno: ascoltano, accolgono e portano
frutto. L'itinerario della Parola in loro si completa. Il verbo “ascoltare” all’indicativo presente suggerisce
durata e costanza. Lo stesso avviene per i verbi “accogliere e portare frutto”. Non c’è un prima e un dopo
tra queste azioni, ma una sorta di circolarità: più si ascolta più si accoglie e più si porta frutto. Ogni
individuo può essere terra buona, quando il messaggio è custodito nella profondità del cuore.

I discepoli stessi prima di dare frutto, accogliendo totalmente la parola di Gesù, vivono tutti questi
atteggiamenti negativi passando da un modo di ascoltare ad un altro. Pietro si oppone all’annuncio di
Gesù sulla sua passione-morte-risurrezione, ragiona nella logica dell’avversario di Dio (satana) (8,31-33); e
per paura rinnegherà tre volte Gesù ( 14,66-72 ); i discepoli con le loro ambizioni di prestigio pongono
resistenza alle parole del Maestro (9,34, 10,37) e si lasciano prendere dalle preoccupazioni della vita
(8,16;10,26); saranno loro a scandalizzarsi di lui e ad abbandonarlo quando sarà arrestato (14,26); Giuda
arriverà a tradirlo (14,10).

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 72


C’. I detti della lampada e della misura (vv. 21-25)

Questo insieme di detti che Gesù presenta ai discepoli servono a spiegare ancora il mistero del Regno di Dio
che è poi la sua persona e completano i vv. 11-12 con i quali ci sono molti contatti tematici e verbali:17.
Questi versetti precisano che la finalità ultima del parlare in parabole da parte di Gesù, non è il
nascondimento bensì la piena manifestazione. Come la lampada non si mette sotto il moggio (recipiente
che serviva a misurare il grano) o sotto il letto perché il suo scopo è fare luce, e come non c’è nulla di
nascosto o di segreto che non si possa manifestare, così è la Parola di Gesù. Gesù è venuto per rivelarsi, con
la sua Parola vuole illuminare anche coloro che attualmente non vedono. Importante però per accogliere la
sua rivelazione è “ascoltare”. A chi ha questa capacità di ascoltare sarà dato, ma a chi non l’ha, sarà tolto
anche quello che ha. Chi ora non vede, potrà essere illuminato in futuro, se si apre all’ascolto, viceversa, chi
appartiene al gruppo privilegiato deve stare attento a ciò che ascolta, altrimenti potrebbe anche perdere
ciò che possiede! Termina qui il discorso con i discepoli. Gesù prosegue la predicazione alle folle cercando
di mostrare, attraverso la parabola del seme che cresce da solo e del granello di senapa, come il Regno di
Dio è un processo dinamico, che comporta una crescita molto lenta prima di raggiungere il grandioso
risultato finale.

B’. La parabola del seme cresce da solo (vv 26-29): la fase della crescita

La breve parabola descrive una storia - quella del seme - in tre tempi: la semina, la crescita e la raccolta.
- Il tempo della semina (v. 26) è quello dell'azione del seminatore che interviene da protagonista gettando
il seme nella terra “Così è il regno di Dio: come un uomo che ha getta il seme sul terreno”. Il verbo ‘gettare’,
all’aoristo (ballo) presenta l’azione al passato, come già conclusa.
- Il secondo tempo (vv. 27-28) è quello della crescita del seme nella terra. Il seminatore è passivo, non fa
nulla. Sia che “dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come egli stesso non lo sa”. In
questo tempo che passa egli ignora ciò che sta accadendo. Per il seme, invece, è il tempo importante della
crescita (germina e si allunga). E per la terra è il tempo in cui essa opera - per forza propria (automàte) -
straordinarie trasformazioni: lo stelo, la spiga, il grano nella spiga. Al centro c’è dunque l'incessante lavoro
del seme (la forza del seme) e della terra. La terra fruttifica da sé (automàte) e senza causa visibile. Qui si
allude non solo alla forza della natura, bensì al miracolo di Dio. La terra dà frutti a causa dell'azione
miracolosa di Dio. Così è il Regno: un'azione di Dio incessante e prodigiosa, ma nascosta e autonoma.
- Il terzo tempo (v. 29) è quello del raccolto. Ricompare il seminatore, che però non viene nominato:
"Manda la falce". L'azione del contadino è inquadrata da due altre azioni, di cui egli non è il protagonista:
“quando il frutto è maturo”, e il tempo della " mietitura” è sopraggiunto. Non è il contadino a stabilire il
tempo del raccolto ma è il frutto stesso, che giunto a maturazione, si dona all'uomo. E’ il seme che in realtà
fa tutto: germina, cresce, matura, si offre all'uomo per la raccolta.

Abbiamo rinarrato la parabola, ora ci domandiamo: su quale tempo cade l’attenzione? Sul tempo della
semina, della crescita o del raccolto? Il testo mostra che l'attenzione cade sul tempo intermedio della
crescita del seme: un tempo molto lungo in cui tutto si svolge nel segreto della terra. La narrazione indugia
su questo tempo perché esso appare il più problematico. Infatti, dopo che il seme è caduto nella terra, ci si
domanda spesso: come mai il seme tarda a manifestarsi? Che significato ha questo tempo che tanto si
protrae e in cui tutto pare inerte e non si vede nulla? La parabola a questo punto fa emergere ben altre
domande: perchè il seme della Parola tarda a fruttificare? Perchè il Regno di Dio sembra ritardare? Cosa ci
sta dietro? La risposta è data guardando il tempo del raccolto. Il tempo intermedio della crescita nascosta e
segreta è molto importante: esso è il tempo di impensabili trasformazioni senza il quale il tempo del

17 Notare la terminologia nascosto-rivelato che appartiene al medesimo campo semantico tradizionale di


“mistero” e il quadruplice “affinché (ina)” che riprende le costruzioni finali dei vv. 11-12. Da notare ancora
ai vv. 24-25 i quattro passivi teologici (tra cui “sarà dato”), due volte col pronome “a voi” (hymin), che
richiamano hymin del v. 11 (V. Fusco, Marco e il suo vangelo, op.cit. p. 43).
R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 73
raccolto non si ha. Così si sviluppa e cresce invisibilmente anche il Regno di Dio. Che il Regno non si presenti
subito in modo eclatante e straordinario, non è segno dell’assenza e del silenzio di Dio, bensì della sua
azione profonda e misteriosa. Non delusione, dunque, né turbamento né inutili impazienze, bensì attesa
fiduciosa! Il Regno stesso è già deposto nella storia come un seme che cresce! Non è una realtà da
“forzare”, come facevano gli zeloti al tempo di Gesù, il regno di Dio non è questione di organizzazione
oppure di efficienza, ma semplicemente di accoglienza.

La parabola del granello di senape (vv. 30-31): la fase del raccolto

La parabola del granello di senape dedica maggiore attenzione alla fase finale del raccolto, essa è introdotta
da due interrogativi nello stile del più perfetto parallelismo: A cosa possiamo paragonare il regno di Dio o
con quale parabola possiamo descriverlo? (v. 30). Il narratore formula le due domande alla prima persona
plurale, coinvolgendo se stesso insieme ai suoi ascoltatori. Esse non sono solo un espediente didattico per
suscitare l’attenzione dell’ascoltatore, ma invitano a ricercare un “punto di congiunzione” fra l’esperienza
umana e il regno di Dio. Il Regno di Dio e la vita si incontrano anche se non si identificano.
La similitudine del granello di senape non descrive una realtà statica, ma racconta una mutazione. Il lettore
ha subito l'impressione che la similitudine sia tutta raccolta nel contrasto tra il piccolo seme e il grande
ortaggio, l'umiltà dell'inizio e la grandiosità della fine. L'impressione è corretta, ma non esaustiva. Uno
sguardo rapido alla sequenza dei verbi ci mostra che il protagonista nella narrazione è ancora il seme: è
seminato, cresce, diviene più grande di tutti gli ortaggi, ramifica (vv. 31-32). Tuttavia, non è direttamente la
storia del seme che interessa. Dalle rare descrizioni del granello di senapa che il narratore si concede e dagli
scarsi aggettivi che utilizza: - "è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno" - "è più grande di tutte le
piante dell’orto" - “... e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo...”. E’ evidente la sottolineatura delle due
opposte condizioni che caratterizzano l'inizio e la conclusione della storia del grano di senapa. Il punto
decisivo è il contrasto. E tuttavia i verbi intermedi sono essenziali, perché ricordano che un contrasto tanto
grande è in realtà l'esito di una continuità, non di una rottura: è proprio questo piccolo seme che diventa
un grande albero.
L’immagine conclusiva del grande albero su cui trovano riparo gli uccelli - "fa grandi rami, tanto che gli
uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra” - è ricca di risonanze bibliche (Gdc 9,8-15; Ez 17,22-24;
31,4; Dn 4,10-12.17-23) che alludono a regni potenti che garantiscono sicurezza a uomini e popoli (gli
uccelli). Così nel Regno di Dio portato da Gesù, tutti i popoli trovano accoglienza, riparo, tranquillità e
benessere.
Guardando questo grande albero si comprende la forza del seme! La meraviglia di fronte all'albero deve
trasformarsi nella meraviglia di fronte al seme. Con la parabola Gesù fa comprendere che il Regno, che è
Dio stesso, la sua persona, è come un seme dentro la storia, si presenta in forme umili e modeste, ben
diverse rispetto alle grandiose attese messianiche dei suoi contemporanei, ma questo seme ha un potere e
una forza incredibili! Questo similitudine del granello di senape offre una lezione di fiducia, incoraggia a
non temere un presente che sembra caratterizzato soltanto da precarietà, ma anche avverte: il presente è
decisivo, non importa se piccolo!

A' . Conclusione narrativa


L’evangelista termina l’insegnamento di Gesù sottolineando che: Con molte parabole dello stesso genere
annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi
discepoli, spiegava ogni cosa (vv. 33-34).

Bibliografia
MAGGIONI B., Le parabole evangeliche, Vita e pensiero 1995, p. 22-51.
MATEOS J.- CAMACHO F. Il vangelo di Marco, Cittadella Ed.
MAZZUCCO C., Lettura del vangelo di Marco, Zamorani Ed. pp. 56-70.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 74


LA PARABOLA DEL BUON SAMARITANO Lc 10,25-37

25
Ed ecco, un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per
ereditare la vita eterna?».
26
Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?».
27
Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua
28
forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e
vivrai».
29
Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?».
30
Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli
31
portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un
32
sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in
33
quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne
34
ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua
35
cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede
all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”.
36
Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?».
37
Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui».
Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».

A chi è rivolta la parabola?

La parabola del buon samaritano si trova al c. 10 del vangelo di Luca ed è rivolta da Gesù ad un dottore
della legge (nomikos) che si mette a dialogare con lui. E’ importante dunque rileggerla come parte di questo
dialogo.
Questo scriba, che è uno studioso della Torah e conosce bene le Scritture sante d’Israele si rivolge a Gesù
«per metterlo alla prova» (ekpeirazo). Questo verbo non sembra avere qui una valenza negativa, ma indica
che la sua intenzione è quella di ricercare un confronto dialettico, un dibattito sulla Legge. Non sempre le
questioni religiose sono semplici da capire! Egli riconosce che Gesù è un 'Maestro', lo chiama didaskalos,
lo tratta come un suo pari, con il desiderio di confrontare il proprio sapere con il suo, di misurarsi con la sua
intelligenza. La sua domanda è espressa in maniera molto personale: "Maestro, che cosa devo FARE per
ereditare la vita eterna?" (v. 25). Quest’uomo è un credente nel Dio di Abramo, d’Isacco, di Giacobbe e
questo tipo di domanda ha a che fare sicuramente con l'osservanza della legge. La sua domanda è
formulata alla prima persona singolare: costui non chiede - cosa la Legge insegna - ma, cosa io posso fare
per ereditare la vita eterna? - Luca mette in evidenza la buona coscienza di colui che domanda, il suo
desiderio di vivere una vita autentica seguendo la volontà di Dio.
Gesù, sapendo la competenza del suo interlocutore, non risponde direttamente alla sua domanda ma lo
invita a dare personalmente la risposta: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?» (v. 26). Nasce un
dialogo tra persone che si rispettano profondamente. Lo scriba risponde con slancio, manifestando
competenza, ed esprime così la risposta: Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua
anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso» (v. 27).
Egli cita e fonde insieme un po’ liberamente due testi della Legge, cioè del Pentateuco uno che parla
dell’amore di Dio e uno che parla dell’amore del prossimo. Il primo è preso dal Deuteronomio, dalla
bellissima preghiera giudaica dello - Shemà Israel! - che recita così: Ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio,
il Signore è un solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le tue forze
R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 75
(Dt 6,5). Il secondo è preso da un passo del Levitico che dice: Non ti vendicherai e non serberai rancore
contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso (Lv 19,18).
Per questo maestro la sintesi di tutta la Legge consiste nell’amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima,
con tutta la forza e con tutta la mente... (quattro volte la parola 'tutto'). Per lui, Dio va amato con un amore
totale, che prende tutte le dimensioni della persona: il cuore che è la sede dei desideri, dei pensieri, delle
decisioni; l’anima che è la propria interiorità, la mente che è la sede dell’intelligenza…; le forze che sono
l’agire morale.
Per questo dottore della Legge dunque, la risposta alla domanda sul che cosa devo FARE per ereditare la
vita eterna è: AMARE DIO E IL PROSSIMO. Intuisce che c’è un rapporto profondo tra amore di Dio e amore
del prossimo: il rapporto con Dio ha un primato assoluto è totalizzante, ma si gioca tutto nel rapporto con il
prossimo. L’amore di Dio è la fonte dal quale poi scaturisce la possibilità di «amare il prossimo come se
stessi». Egli riassume tutta le legge, con l’infinità dei suoi precetti da osservare, all’essenziale. Nel vangelo
di Matteo questa parole che sono la sintesi di tutta la Legge, sono poste sulla bocca di Gesù (Mt 22,37-40).
Questo scriba ha compreso molto bene la Rivelazione di Dio.
Gesù approva la sua risposta: gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai» (v. 28). La risposta di Gesù è
di lode, ma lo invita a mettere in pratica quanto ha detto. Fa questo e vivrai - non solo in futuro -, ma già
a ora puoi fare l’esperienza di una vita benedetta, di una vita in pienezza, se farai il bene al prossimo,
lasciandoti totalmente guidare, illuminare dall’amore di Dio.
A questo punto il dialogo potrebbe essere finito e invece il dottore della legge prosegue ponendo a Gesù
un’altra domanda «E chi è mio prossimo?». All’interno del giudaismo c’erano grandi discussioni sul piano
teorico e teologico sul concetto di prossimo. Il prossimo era identificato con colui che appartiene al popolo
d’Israele, era dunque il proprio connazionale, colui con il quale si aveva legami di razza, di cultura. Potevano
certo diventare «prossimo» anche quegli stranieri, ma solo nella misura in cui diventavano proseliti
Nel libro del Levitico, citato dallo scriba nella sua risposta, il prossimo viene identificato con i membri del
proprio popolo, con gli Israeliti: "Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma
amerai il tuo prossimo come te stesso."(Lv 19,18). Prossimo è uguale a «figli del tuo popolo», è colui con il
quale ci sono vincoli e relazioni positive.
La domanda dello scriba riguarda dunque l’identificazione del «prossimo» da amare. Dove porre i limiti, i
confini, come definire chi è prossimo e chi non lo è? Chi si merita di essere amato? Non si possono aiutare
tutti?
Gesù non risponde direttamente alla domanda, non fa un elenco di categorie di persone per definire chi va
amato, aiutato, ma racconta la parabola che noi chiamiamo del buon Samaritano. Sappiamo che Gesù usa
parlare in parabole quando il suo ascoltatore ha un punto di vista differente dal suo e dunque vuole
mostrargli il problema da un altro punto di vista. La parabola essendo un racconto vivo ed esperienziale ha
lo scopo di coinvolgere l’ascoltatore portandolo a formulare un giudizio - in cui è personalmente coinvolto –
affinchè arrivi da solo ad un altro convincimento.
Incomincia a raccontare: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti,
che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto.(v. 30).
Cerchiamo di cogliere la forza della sua narrazione.

C’è un uomo, si trova in una situazione disastrosa: è incappato nei briganti, è derubato, percosso a sangue,
abbandonato mezzo morto lungo la via, è nella situazione di non potersi aiutare da solo. Di lui si dice
soltanto che è «un uomo»: non gli viene data nessuna qualifica religiosa o etnica, come invece viene data
agli altri personaggi del racconto, il sacerdote e il levita. In questo modo egli diventa il rappresentante di
ogni uomo che soffre, di ogni uomo ferito, che si trova nell'estremo bisogno, solo, violato nella sua libertà,
nei suoi diritti, nella sua dignità di uomo.

Gesù racconta una storia che ha a che fare con l'esperienza vissuta e anche se questa storia è inventata,
non è lontana dall'essere verosimile. La strada che dall'alto di Gerusalemme porta a Gerico, lungo la valle
del Giordano, attraverso un deserto desolato, roccioso, ancora oggi è una strada malfamata, pericolosa,
dove ladri e briganti possono fermare i passanti. E' anche vero che questa strada era percorsa da sacerdoti
e leviti che scendevano e salivano al tempio di Gerusalemme. Quindi la forza della parabola è già data dal

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 76


fatto che viene presentata una situazione reale. L'interlocutore aveva ben presente la strada di Gerico e
aveva certamente sentito dire di fatti analoghi. Dunque la forza del racconto di Gesù sta anche nel fatto che
tutto sembra preso dal vivo, l'ambiente, le persone, sono viste con realismo, con le loro reazioni normali,
negative o positive. Quello che viene raccontato è un dramma e in questo dramma l'interlocutore - ma
anche il lettore - è trascinato.

Vediamo come si comportano i personaggi che si trovano a passare su quella medesima strada in cui si
trova l’uomo ferito.

Il sacerdote è il primo che per caso si trova a passare in quella medesima strada. Il testo dice: Per caso, un
sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre (v. 31).Vorrei sottolineare
questa parola "per caso" (sugkuria): a volte proprio per caso ci si trova coinvolti in situazioni drammatiche e
urgenti, mentre si è presi da mille impegni…. Il sacerdote «vede» il ferito ma «passa oltre». In greco il verbo
'passare oltre' è antiparelthen che è costruito con due preposizione: anti che significa "oltre" e para che
vuol dire 'al largo'. Il sacerdote non solo passa 'oltre', ma gira dall'altra parte deludendo le speranze che il
ferito aveva riposte in lui.

Passa poi un levita un funzionario del tempio, il testo dice: Anche un levita giunto in quel luogo lo vide e
passò oltre (v. 32). Ancora questa sottolineatura del «vedere». Anche lui vede la situazione dell’uomo
sofferente. A differenza del sacerdote che gira al largo, il levita giunge sul posto, probabilmente è curioso,
ma appena si rende conto della gravità della situazione, si allontana proseguendo il suo cammino.

Qual è la ragione di un simile comportamento? Perché questi due personaggi non si fermano, non prestano
soccorso? Insensibilità? Forse hanno fretta a motivo dei loro impegni o paura perché si rendono conto che
la strada è pericolosa. Molti commentari riferiscono che essi non si fermano per questioni di purità rituale.
Sappiamo che sacerdoti e leviti svolgevano le loro funzioni nel Tempio di Gerusalemme. I sacerdoti avevano
come regola di non contaminarsi con il sangue, non potevano toccare un ferito o un cadavere. Ma questa
interpretazione non sembra essere convincente, perché questi due personaggi stanno scendendo e non
andando a Gerusalemme, dunque hanno già compiuto il culto. Sono uomini di Dio, hanno appena officiato
nel tempio santo, ma, quel culto, purtroppo rimane sterile, non genera misericordia e compassione. Ma
come si può separare il culto e la vita, il culto e la giustizia, il culto e la misericordia? Il loro cuore è chiuso,
essi scindono il comandamento indivisibile dell’amore verso Dio e verso il prossimo. Hanno la parola di
Dio sulla bocca ma non nel cuore! Il profeta Isaia aveva già denunciato il rischio di separare culto e vita.
Ascoltiamo le sue parole rivolte non solo ai capi religiosi d’Israele, ma anche al popolo: Is 1,13-17

Smettete di presentare offerte inutili; l’incenso per me è un abominio,


i noviluni, i sabati e le assemblee sacre: non posso sopportare delitto e solennità…
Anche se moltiplicaste le preghiere, io non ascolterei:
le vostre mani grondano sangue.
Lavatevi, purificatevi, allontanate dai miei occhi il male delle vostre azioni.
Cessate di fare il male,
imparate a fare il bene, cercate la giustizia,
soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano,
difendete la causa della vedova».
«Su, venite e discutiamo – dice il Signore.
Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto,
diventeranno bianchi come neve.
Se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana.

Il culto è sempre relazione con Dio e con gli altri! E’ nella carità vissuta, nel rapporto con gli altri, - e
soprattutto con gli ultimi - che si rivela l’autenticità del culto e cioè se davvero il culto è il luogo dove ci si
apre a ricevere l’amore incondizionato di Dio, amandolo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 77


forza, con tutta la mente. Il culto non è il luogo dove dare qualcosa a Dio, ma è il luogo dove si riceve da
Dio, la capacità di amare gli altri come lui li ama.

Il terzo personaggio che passa è un Samaritano e come sappiamo i samaritani non avevano buoni rapporti
con i giudei, non si frequentavano. Questo samaritano, era in viaggio, come le persone precedenti, ma a
differenza degli altri due quando vede il ferito, non lo evita ma gli va vicino, si ferma. La narrazione rallenta,
dilatandosi, perchè questa è la scena più importante, dunque va considerata senza fretta.
Rileggiamo attentamente il v. 33 e notiamo soprattutto i verbi: Invece un Samaritano, che era in viaggio
passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione . E poi al v. 34 troviamo un altro verbo importante: gli si
fece vicino (proserchomai): abbiamo qui tre verbi molto significativi - «vide», «ne ebbe compassione», «gli
si fece vicino» - questi sono i tre verbi classici del Dio dell’Esodo, che si è rivelato in questo modo al suo
popolo. Comprendiamo che il samaritano ha uno sguardo diverso… guarda l’uomo con il cuore e gli occhi
di Dio. Al centro di questi verbi c’è la compassione. Prima di descrivere i gesti del samaritano l’evangelista
Luca mette in evidenza la compassione e solo dopo elenca in un crescendo che toglie il fiato, una quantità
di azioni benevole rivolte all’uomo ferito.
Fermiamoci prima di tutto su questo verbo: ne ebbe compassione perché è importantissimo: il verbo
greco (splagchizomai) evoca le viscere della madre (sostantivo: splancna), cioè l’amore incondizionato,
gratuito, coraggioso e benevolo che una madre prova per il frutto del suo grembo e si può rendere meglio
in questo modo: fremette dal profondo del cuore. Questo verbo esprime dunque ciò che non si vede di
questo samaritano: un forte sentimento affettivo, gratuito, incondizionato, simile ad un profondo e
appassionato coinvolgimento materno.
Anche Dio - dice Isaia – nutre per il suo popolo un appassionato amore materno: «Si dimentica forse una
donna del suo bambino, così da non commuoversi per il Figlio del suo seno? Anche se ci fosse una donna che
si dimenticasse, io invece non di dimenticherò mai» (Is 49,15).
Luca adopera questo verbo «avere compassione» solo riferendolo a Gesù o al Padre.
Gesù è descritto dall’evangelista con questo atteggiamento della compassione quando vede una madre
vedova portare alla tomba il suo unico figlio: «vedendo la donna Gesù fu preso da grande compassione» (Lc
7,13). Questo forte sentimento lo troviamo attribuito al Padre (che rappresenta Dio/Gesù), nella parabola
del figlio prodigo: quando il figlio era ancora lontano, il padre lo vede e commosso gli corre incontro, lo
bacia e l’abbraccia, perchè è tornato a casa sano e salvo (Lc 15,1). Gli altri evangelisti mettono in evidenza
la «compassione» di Gesù quando si trova davanti alle folle che lo seguono e non hanno da mangiare.
Questi sentimenti di compassione di Gesù o del Padre, sono sempre seguiti da gesti di gratuità
straordinaria, che rivelano un amore senza limiti: Gesù risuscita il figlio unico della vedova; moltiplica i pani
per sfamare la folla sfinita; il Padre della parabola riaccoglie il figlio peccatore dandogli l’anello al dito, i
sandali ai piedi, il vestito più bello, preparando per lui un grande banchetto. La «compassione» è dunque
l’amore divino, un amore sconfinato che si riversa gratuitamente sull’uomo per guarirlo, perdonarlo,
accoglierlo.

E’ proprio da questa tenerezza, da questo amore divino sovrabbondante che scaturiscono dal Samaritano i
gesti del farsi prossimo, gesti concreti di misericordia: gli fascia le ferite versandovi olio e vino - lo porta in
un albergo - si prende cura di lui - e oltre a questo, il giorno seguente, affida all’albergatore la cura del
ferito, paga due denari e promette di ritornare a saldare i conti.
Questo samaritano - per questo uomo bisognoso, con il quale non c’è alcuna affinità religiosa, spezza i
CONFINI, li infrange, li supera nel suo farsi prossimo. Per lui perde il suo TEMPO, modifica i suoi PROGETTI,
perde DENARO (è sottolineato molto l’aspetto dell’offrire denaro), e ancora COINVOLGE ALTRI nella sua
opera (l’albergatore) e SI IMPEGNA per lui ANCHE PER IL FUTURO (dice che ritornerà). Non chiede nulla in
cambio. Tutta questa straripante gratuita carità è generata dalla compassione divina che custodisce nel
segreto del cuore.

Rispetto al niente del sacerdote e del levita qui abbiamo «il troppo» del samaritano. E' un'esagerazione
diremmo noi! Nella parabola raccontata da Gesù c’è un’inverosimiglianza cioè qualcosa che non quadra con
la nostra esperienza immediata, questo «troppo» ci mette a disagio, nel senso che c’è «un’ eccedenza», c’è

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 78


un «di più», «c’è un bene esagerato» rispetto a quello che noi normalmente faremmo in una situazione
simile. Proprio questo bene sorprendente, questa carità ineffabile, che fa paura, ma anche stupisce e
affascina, rivela il modo di amare e di agire di Dio e del suo Figlio, il Signore Gesù. L’uomo, con le sue mille
povertà, debolezze, miserie, incoerenze, chiusure, ferite, peccati è il destinatario di questa misericordia
gratuita e sovrabbondante del Signore.

Luca fa capire che questo samaritano porta dentro di sé una misericordia e un tenerezza divina, sconfinata.
Egli ama Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze, con tutta le mente e proprio per questo
soccorre il ferito con le azioni molteplici del suo servizio. Soccorre l’uomo nel suo bisogno non per
«dovere», non «per pietà», ma perché è mosso dall’ amore gratuito e misericordioso di Dio, che gli fa
sentire come propria la condizione dell'altro, la vita dell'altro. Egli coglie del ferito un «fratello», una
persona da amare, che possiede per lui un’altissima dignità. Non offre solo aiuto, beni, servizi, ma dona
relazione, condivisione, amore, affetto, dedizione.
Il suo amore verso il ferito, verso chi in questo momento è ultimo, bisognoso è certamente fatto di gesti
concreti, ma non si riduce al «dare». La «compassione» è quel sentimento che rivela come egli stabilisce
prima di tutto con la persona che soccorre, UN LEGAME UMANO. C’È IL RICONOSCIMENTO DI UNA FRATERNITÀ E DI
UNA RECIPROCITÀ. Possiamo dire che il suo modo di guardare il ferito, è più importante di quello che fa per
lui!
Il Samaritano, come dicono i Padri È FIGURA DI CRISTO. Il bene che l’uomo può fare deve essere affidato nelle
sue mani, dunque alla potenza di Dio. Davanti alle folle affamate Gesù chiede ai suoi discepoli di donare il
poco che hanno, i cinque pani e due pesci… il resto lo fa Lui. E’ lui la sorgente dell’ amore e del servizio.

La parabola sembrerebbe terminata, ma Gesù continua il dialogo con il dottore della legge ponendo una
domanda: "Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti? (v.
36). La domanda sul prossimo formulata dal dottore della legge all’inizio del dialogo è invertita. Per Gesù il
termine prossimo non deve essere identificato in una categoria oggettiva di persone. La questione non è:
«Chi si merita di essere amato da me? ma piuttosto: «Di chi io sono prossimo?» Il dottore della legge deve
diventare lui, prossimo. Non deve determinare gli altri come prossimo, non deve identificare le persone a
lui vicine, distinguendole da quelle lontane, anche se avrebbe qualche motivo culturale o religioso per farlo.
Lui è chiamato ad essere soggetto attivo di misericordia!
Il dottore della legge comprende e risponde correttamente: "Chi ha avuto compassione di lui " (v. 37). Gesù
risponde: "Va' e anche tu fa così". Invita lo scriba a mettersi in cammino per diventare capace di vedere
nell’altro un amico da amare.

Bibliografia

MAGGIONI B., Il samaritano, in: Le parabole evangeliche, Vita e pensiero 1995, p. 174-179.
DOGLIO C., La parabola del buon samaritano, Parole di Vita, 4 (2010), p. 9-17.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 79


LE TRE PARABOLE DELLA MISERICORDIA Lc 15,1-32

1 2
Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano
3
dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola:

La pecora perduta
4
«Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di
5 6
quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa,
chiama gli amici e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si
7
era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per
novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.

La moneta perduta
8
Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca
9
accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice:
10
“Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. Così, io vi dico, vi è gioia davanti
agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».

Il padre misericordiosoi (Il figlio prodigo)


11 12
Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di
13
patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane,
raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo
14
dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a
15
trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò
16
nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma
17
nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in
18
abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il
19
Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi
20
salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo
21
baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere
22
chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo
23
indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo
24
e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato
ritrovato”. E cominciarono a far festa.
25
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze;
26 27
chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e
28
tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non
29
voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti
anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i
30
miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute,
31
per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è
32
mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita,
era perduto ed è stato ritrovato”».

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 80


Il Padre misericordioso (Il figliol prodigo) Lc 15,11-31

IL CONTESTO

Luca racconta al capitolo 15 tre parabole pronunciate da Gesù: la parabola della pecora perduta
(vv.4-7), della moneta perduta (vv.8-10), del Padre misericordioso (vv.11-32). L’introduzione narrativa (vv.1-
3) mostra che esse sono indirizzate agli scribi e farisei che mormorano scandalizzati sulla sua riprovevole
familiarità con i pubblicani e i peccatori. Gesù rivela loro la novità del suo comportamento, e di quello di
Dio, proprio nei confronti di coloro che si allontanano dalla casa del Padre.

Le tre parabole si articolano su elementi comuni e sono strettamente legate l’una all’altra. Le prime
due sono parabole gemelle, l’ultima è più sviluppata e la si comprende meglio se letta alla luce delle altre
due che la precedono.

Caratteristiche comuni alle tre parabole

– I protagonisti sono diversi, ma ciascuno di loro subisce la perdita di un bene: un pastore perde una
pecora, una donna perde una moneta, un padre perde un figlio.

– Ciò che si perde o colui che si perde si allontana da qualcosa o da qualcuno: la pecora smarrita si
allontana dal pastore e dalle altre novantanove pecore; la moneta si allontana dalla donna e dal gruzzolo
delle altre nove monete; il figlio minore si allontana dal Padre, ma anche dal fratello maggiore.

– Di tutti i personaggi protagonisti viene messa in evidenza una ricerca ostinata, perseverante che
però avviene in maniera differente: il pastore intraprendere un faticoso cammino per ritrovare la pecora
perduta e la donna mette a soqquadro tutta la casa per ritrovare la moneta. La loro ricerca passa attraverso
azioni esterne. Il padre invece non esprime la sua ricerca del figlio con un atteggiamento esteriore (come
cercarlo se non sa dove sia andato?), ma interiore: l’ansia e l’attesa del ritorno del figlio è vivamente
descritta.

– Di tutti e tre i personaggi si sottolinea il ritrovamento di ciò che si era smarrito o di colui che si era
perduto. E’ curioso che si parli di ‘ritrovamento’ anche nella terza parabola (vv. 5.9) sebbene non sia stato il
padre a ritrovare il figlio! La ricerca che il padre fa del figlio, è dunque presente, come dicevamo prima,
nella sua trepidante attesa.

– Al ritrovamento della pecora, del pastore, del figlio, fa seguito una intensa gioia che mette in
evidenza la preziosità dell’oggetto o del soggetto ritrovato. La gioia viene condivisa con amici e vicine, nelle
prime due parabole. Nella terza, la gioia diviene ancora più grande e si esprime in un grande banchetto, una
grande festa alla quale tutti sono invitati.

– La dimensione dialogico-argomentativa è presente esplicitamente nelle domande retoriche delle


prime due parabole: «chi di voi…? (v. 4), «quale donna…?» (v. 8) e nella terza emerge nelle domande e nel
dialogo tra il padre e il figlio maggiore (vv. 24-32). Chi ascolta è chiamato a coinvolgersi!

La terza parabola più vasta e complessa è il vertice del dialogo che porta a conclusione il
ragionamento espresso nelle altre due. Se si può gioire per il ritrovamento di una pecora o di una moneta e
si partecipa agli amici questa gioia, come non si può a maggior ragione gioire e fare festa per il
ritrovamento di un figlio?

Se ci immedesimiamo nella situazione ci rendiamo conto, di avere anche noi atteggiamenti simili
quando perdiamo qualche cosa che ci è caro. Ricerchiamo con ansia…, la nostra attenzione si concentra
R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 81
talmente tanto su ciò che abbiamo perduto che non si vede altro! E come si gioisce quando la ricerca ha
buon esito! Ma… se si perde un figlio: che ansia, che dramma…! Al ritrovamento la gioia non potrà che
essere grandissima, e anche noi faremmo festa!! Tutto sembra così ovvio, logico… Sembra… A quanto pare
questa ovvietà non è così scontata, non solo per gli scribi e farisei, come ora vedremo, ma forse anche per
noi. Proviamo a rileggere con uno sguardo più attento e con un cuore più aperto, quanto Gesù racconta. Ci
soffermiamo a commentare l’introduzione narrativa (vv. 1-3) e la parabola del padre misericordioso (vv. 11-
32).

L’INTRODUZIONE NARRATIVA (VV. 1-3)

Gesù accoglie i peccatori e mangia con loro; ciò suscita critiche e mormorazioni. Questo è senza
dubbio uno dei punti di costante tensione fra Gesù e le autorità religiose giudaiche. La tradizione sinottica è
unanime nel ricordare che Gesù sedeva a mensa e mangiava con i peccatori, accettandone l'ospitalità (Mc
2,15; Mt 9,10; Lc 5,29). Era una prassi abituale, tanto che veniva accusato di essere «un mangione e un
beone, amico di pubblicani e di peccatori» (Lc 7,34). Sedere alla stessa mensa era ritenuto un segno, forse il
più profondo, di comunione. E' un gesto di palese rottura con le leggi della comunità giudaica che vietavano
severamente la comunanza di mensa con tali persone, ad eccezione di coloro che avessero dimostrato di
essere pentiti. Per descrivere la disapprovazione che Gesù incontra da parte di farisei e scribi, Luca usa il
verbo «mormorare»18 che indica non solo la disapprovazione scandalizzata di chi si imbatte in una prassi
contraria agli usi codificati, ma anche la tendenza istintiva, che queste persone molto religiose hanno, di
criticare, giudicare, vedere difetti negli altri. La loro religiosità è fredda, le loro mormorazioni e giudizi sono
sferzanti… sono incapaci di perdonare. Gesù si pone diversamente di fronte ai peccatori (a chi si perde),
mostrando attraverso le parabole, che il suo diverso atteggiamento, nasce da una diversa concezione di
Dio. Nella parabola del Padre misericordioso in particolare, l’immagine straordinaria del Padre che ama e
riaccoglie sia il figlio peccatore, che il figlio che si ritiene giusto, rinvia a Dio stesso. Lo scontro, quindi, non è
a livello morale, ma teologico. La parabola ha lo scopo di rivelare il mistero di Dio e nello stesso tempo fa
capire, alle persone a cui è rivolta, che il modo di guardare il fratello che sbaglia, dipende dalla conoscenza
che si ha di Dio.

LA PARABOLA: IL PADRE MISERICORDIOSO (IL FIGLIOL PRODIGO) (VV. 11-31)

È un racconto di rara bellezza letteraria e di ancor più rara densità teologica. Può essere divisa in
due scene: 1): la degradazione del figlio minore e l’incontro con il padre (vv. 11-24); 2): la contestazione del
figlio maggiore e l’incontro con il padre (vv. 25-32). Chi è il protagonista della parabola? Il titolo tradizionale
«Parabola del figliol prodigo» con cui viene definito il racconto, non rispecchia il contenuto, perché punta
l’attenzione solo sul figlio minore. Ognuno dei tre personaggi sembra possedere qualche titolo per aspirare
al ruolo di protagonista, ma se osserviamo bene, il figlio minore si trova solo nella prima scena, il maggiore
è al centro della scena successiva, solo il padre appare in scena sia con il primo figlio, che con il secondo,
dunque, il personaggio principale non è il figlio minore, ma il padre. Infatti il termine 'padre' compare ben
dodici volte. Da qualsiasi angolatura la si guardi, ci si accorge che al centro c’è la figura del padre: lui davanti
ai suoi figli e i due figli davanti a lui. Egli è la figura che dà unità all'intera narrazione. Le due vicende –
quella del figlio minore e quella del figlio maggiore – si scontrano con l'originalità della sua paternità (B.
Maggioni). Dunque il titolo dovrebbe essere “la parabola del Padre misericordioso”.

18
Il verbo ‘mormorare’ ricorre tre volte nel vangelo e sempre a proposito di scribi e farisei che criticano il
comportamento di Gesù nei confronti dei peccatori: la prima volta quando accetta l'invito del pubblicano Levi e
banchetta con i pubblicani (5,30), la seconda nel nostro passo (15,2), e la terza quando va a casa di Zaccheo (19,7).

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 82


I scena: la degradazione del figlio minore e l’incontro con il padre (v. 11-24)

Tutto incomincia con la richiesta del figlio minore: “Padre dammi la parte di patrimonio che mi
spetta” (12a). Gli ascoltatori della parabola sapevano bene che per ‘necessità’ un figlio poteva chiedere,
anche prima della morte del padre, la sua parte di eredità. Molti ascoltatori sicuramente avevano
sperimentato il dramma di quel padre che vedeva il figlio partire. Ma nella parabola si racconta qualcosa di
ancora più doloroso: il figlio minore non parte, perché ha bisogno di lavoro, il padre infatti è ricco, ha campi
e braccianti. Chiedere l’eredità prima della morte del padre, in questo caso pare assurdo, offensivo nei
confronti del genitore. Qual è la motivazione della sua richiesta? Non è espressa: forse desidera una vita
indipendente? Stare in casa gli pesa come una schiavitù? Vuole sperimentare l’ebbrezza della libertà?
Oppure, il padre è svalutato, è uno nei confronti del quale far valere solo i propri diritti? C’è una immagine
di lui distorta. Questo giovane è probabilmente animato da ricerca di autonomia e successo e forse vede
volentieri anche il prendere la distanza dal fratello maggiore sempre ligio al dovere. Il padre acconsente alla
sua richiesta e fa la divisione dei beni – secondo le leggi allora correnti al figlio minore spettava un terzo dei
beni, al figlio maggiore il doppio – e lo lascia partire.

Se vogliamo interrogare la parabola anche dal punto di vista psicologico possiamo porci la domanda
su come il padre avrebbe potuto comportarsi davanti a questa richiesta del figlio. Avrebbe potuto sentirsi
un genitore fallito perché il figlio se ne vuole andare calpestando i suoi valori e tradendo il suo amore.
Avrebbe potuto dire: “Ho sbagliato tutto, mio figlio non è come me lo aspettavo, non sono stato capace di
educare”. Avrebbe potuto arrivare a compromessi: “stai qui, ti concedo tutto quello che vuoi... mettiamoci
d’accordo a tutti i costi”. Avrebbe potuto ricattarlo o minacciarlo: “se tu te ne vai, non tornare più!”,
oppure, usare i principi e i valori come uncini con cui trattenere il figlio: “se te ne vai, non mi vuoi bene e
muoio!”. O ancora, esercitare il suo potere a fin di bene: ricorrere alla violenza imponendo al figlio la sua
volontà: “Tu fai quello che dico io. Tu non parti!”. Reagisce così il padre della parabola: si lamenta, si
deprime, si sente in colpa? Usa i valori come catene per sottomettere il figlio? No! Come si comporta
davanti alla richiesta del figlio? Lo lascia andare! Il Padre non lo rincorre, non lo costringe a rimanere con
dei ricatti affettivi. Il suo cuore sanguina, si lascia ferire, ma lo lascia libero di andarsene.

La vicenda del figlio minore è raccontata secondo lo schema di un cammino prima di


allontanamento e poi di ritorno. Avviene la partenza da casa (vv. 13-14). L’evangelista fa capire, che il
progetto di questo giovane è aperto al duplice esito: successo\insuccesso, ma velocemente presenta l’esito
negativo del viaggio. Nella regione lontana il giovane inizia una vita disordinata, fa un uso dissennato della
sua libertà e della sua eredità. In poco tempo avviene un capovolgimento (vv. 13-14): il patrimonio ricevuto
(ousia) è sperperato, disperso (dieskorpisen) e speso (dapanesantos panta). Le ragioni del fallimento sono
individuate nel 'vivere in modo dissoluto (asotos). Il termine ha una connotazione negativa, ma non va
esagerato dal punto di vista morale,19 oltre ad essere eccessivamente ‘prodigo’, è in gioco anche l'avversa
fortuna. Al rendere più grave la situazione è una carestia particolarmente prolungata (limos ischura). Il
giovane comincia a mancare anche del necessario. Per assicurarsi la sopravvivenza si mette a servizio di un
proprietario che gli dà lavoro come guardiano dei porci. Assumere tale incarico equivale dunque, per il
nostro personaggio ad avere ormai compromesso la sua identità culturale e religiosa poiché i porci erano
considerati animali impuri. Non gli venivano date neppure le carrube dei porci. Egli passa dalla ricchezza alla
miseria, dalla agiatezza alla fame, riducendosi a vivere in schiavitù sotto un pagano.

Dentro questa situazione disperante nasce l’intuizione di ritornare nella casa paterna. Il cammino di
ritorno ha inizio con una riflessione: «Allora ritornò in sé e disse: quanti salariati di mio padre hanno pane in
abbondanza e io qui muoio di fame» (v. 17). Poi, ad alta voce come in un monologo, il giovane espone la

19La vulgata traduce asotos con luxuriose, forse anche alla luce dell’accenno alle prostitute, che verrà fatto
dal fratello maggiore (v. 30), il termine di per sé non esclude tale significato, ma non lo esige
necessariamente; può significare anche ‘prodigalmente.
R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 83
sua riflessione: Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non
sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati” (vv. 18-19).

Come comprendere queste sue parole? Si può pensarle come una decisione che proviene dal cuore
ed esprime un vero pentimento? Ma siamo sicuri che sia così? Guardiamo con più attenzione il testo.

Il ragazzo fa subito un confronto tra ciò che aveva e ciò che è, prende coscienza della sua nuova
situazione rispetto a quella di prima. È da evidenziare nella sua riflessione, il contrasto che egli mette in
luce, tra i salariati di suo padre e lui: da una parte la casa paterna, luogo di sicurezza e ricchezza di beni,
dall’altra la sua condizione attuale disperante. Questo movimento di interiorità, basato sul confronto tra la
casa del padre (notiamo: non dice ‘la mia casa’) e il suo stato d’indigenza, lo porta ad escogitare una via di
uscita. Egli pensa di aver perso la sua condizione di figliolanza, la divisione dei beni, già stata fatta, non gli
consente più di avere diritti filiali, ma spera che non gli sia preclusa quella di salariato. Perché allora non
tornare a casa –come servo – se là c’è lavoro e pane per tutti?

Stiamo attenti a come si muove il suo ragionamento. L'aspetto affettivo della relazione con il padre,
i suoi sentimenti verso di lui e quelli del padre nei suoi confronti sono completamente ignorati. È questo
giovane pentito della sua vita? Riconosce il suo errore nei confronti del padre? È da collocare qui la sua
conversione? No! La sua decisione di tornare non va interpretata come segno di conversione, ma è il
ragionamento di un uomo prostrato dalla fame, abbattuto, troppo stanco per cercare in altre direzioni, per
cui si aggrappa alla prima soluzione che gli passa per la mente. Il figlio minore è persuaso di dover
convincere il padre a riaccoglierlo: per questo formula la domanda del perdono dichiarandosi disposto a
lavorare come un servo. Certo comprende che la casa del padre non era una prigione, ma egli prepara la
confessione solo dopo aver deciso di ritornare come salariato. La sua figura rimane avvolta da una irrisolta
ambiguità.

Simile al cammino del figlio minore è quello del peccatore che dopo aver sperimentato nella sua
vita il fallimento, l’umiliazione, la degradazione, la perdita della sua dignità per il male commesso, torna a
Dio spinto dal senso di colpa e dal bisogno. Nell’esperienza della colpa, la spinta è data dal disagio e dal
malessere piuttosto che dall’amore e dalla gratitudine, manca ancora la consapevolezza di avere rifiutato
l’amore di Dio. A questo livello non c’è ancora il pentimento, anche se il senso di colpa incomincia a far
prendere le distanze con il male commesso! Il senso di colpa nasce dal sentire che l’atteggiamento negativo
che si è assunto, ha intaccato la stima di sé, l’amor proprio. Poiché non si può vivere senza la stima di sé,
occorre fare un passo indietro. La persona però è ancora prigioniera di un circolo vizioso, è autocentrata. E’
assente lo coscienza di avere tradito la relazione con il Padre.

Il figlio minore fa dunque ritorno alla casa paterna animato da questi sentimenti e propositi. Il
padre che all'inizio era stato presentato come il personaggio più importante, ritorna in scena: "quando era
ancora lontano, il padre lo vide e ebbe compassione, gli corse incontro…" (vv . 20-24). Il ritmo è assai rapido.
C'è simultaneità tra il vedere il figlio, il provare compassione e il corrergli incontro. Il padre si mosse a
compassione (eiden..kai esplagchnisthè): è il verbo della tenerezza di Dio che evoca l’atteggiamento
materno (cfr. Lc 10,33 buon samaritano; cfr. Is 49,15; 1Re 3,26; Ger 31,20; Sal 103,134)! Con questo
sentimento il padre corre verso il figlio, accorcia le distanze, lo abbraccia, lo bacia, esprime l’affetto, libera i
sentimenti. Non c’è nessun rimprovero, solo molta commozione e una gioia incontenibile. E’ in azione il
codice materno che accoglie, abbraccia, consola, ama in modo incondizionato. Con i gesti gli dice quanto gli
sia mancato, non fa domande al figlio, non gli chiede garanzie, gli dà fiducia e basta! La scena è carica di
emozione.

Quando il figlio gli chiede perdono, incominciando il discorso con le parole “Padre, ho peccato verso
il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio” (v. 18), il padre non gli lascia
neppure terminare la frase, lo interrompe, non vuole neanche sentire le parole con le quali egli nega la sua
identità di figlio e dà ordine ai servi in modo concitato di portargli il vestito più bello, l'anello al dito, i

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 84


sandali ai piedi. Inoltre gli prepara un grande banchetto con il vitello più grasso. La veste più bella, l'anello
al dito, i sandali, il banchetto eccezionale sono segni per dirgli, non solo che gli restituisce la dignità di figlio,
bensì che lo è sempre stato.

La ragione di questo comportamento è espressa da queste sue parole “...perché questo mio figlio
era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (v. 24). Questa gioia, che esplode per il solo
fatto che il figlio è ancora in vita, è segno di un AMORE autentico, disinteressato che gioisce per il bene del
figlio, non per l'utilità pratica o la gratificazione affettiva che il padre può ricavare. Le persone si amano per
quello che sono e non per quello che danno! L’amore del padre è sovrabbondante, disinteressato e
incondizionato!

Come avviene e chi causa il ritrovamento? Chi ricostruisce la relazione? È l’iniziativa del figlio
oppure quella del padre? Certamente è solo l’iniziativa del padre (come quella del pastore che ritrova la
pecora e della donna che ritrova la moneta, nelle parabole gemelle!). Il figlio infatti torna come servo! E’ il
padre che ritrova il figlio e con il suo amore lo attrae di nuovo a sé e gli ridona la dignità filiale. E’ in questo
momento che il figlio minore scopre fino a che punto giunge per lui l’amore e il perdono del Padre! Con
questo perdono incondizionato, il Padre non nega l’errore passato del figlio, ma gli offre di nuovo una
fiducia senza limiti.

Qui si rivela qual è il comportamento di Dio e di Gesù nei confronti di noi peccatori. È il perdono
incondizionato di Dio/Gesù che rende possibile il cambiamento di vita, il pentimento, la conversione, il
riconoscimento dei nostri errori e non viceversa! Il peccatore può ritrovare la consapevolezza di essere
figlio, in questa esperienza di una grazia donata gratis, oltre misura. Non è l’ umiliazione dell’uomo a
causare il perdono di Dio, ma al contrario è l’amore di Dio che precede e causa la sua conversione. È
l’attenzione e la cura di Dio per il peccatore, che provoca il suo cambiamento. Questo avviene anche a
livello sacramentale: il sacramento della riconciliazione o penitenza è il luogo dove opera l’amore
sovrabbondante di Dio. Il suo perdono precede la confessione della colpa, ecco, perché si possono
confessare i peccati con lacrime di gioia!

Questa scena si conclude con: “...e cominciarono a fare festa” (v. 24b): è certamente un lieto fine,
ma questa conclusione è provvisoria, perché se una tensione si è risolta, ora se ne apre un'altra: la
contestazione del figlio maggiore.

II scena: La contestazione del figlio maggiore (vv. 25-32)

Nella seconda scena il racconto continua introducendo la figura del figlio maggiore sempre rimasto
in casa. In tal modo il parabolista raffigura abilmente in lui, il punto di vista dei ‘mormoratori’ (gli scribi e i
farisei) che contestano Gesù.

Il primogenito, tornando dal lavoro duro dei campi apprende dai servi la notizia del ritorno del
fratello e di quanto il padre ha fatto in suo onore ed ha una reazione opposta a quella del genitore. Anziché
godere della gioia del padre, questi ne prova irritazione: esattamente come gli scribi e i farisei che
mormorano contro l’atteggiamento di Gesù nei confronti dei peccatori. Il figlio maggiore non riesce a
vedere il fratello con gli occhi del padre. Mentre quest’ultimo è stato mosso a compassione
(esplagchnisthè), al ritorno del figlio, il fratello ‘si indigna’, letteralmente troviamo il verbo ‘fu mosso
dall'ira’ (orgisthè). Questi si risente nei confronti del padre e non vuole entrare. La festa che avrebbe
dovuto riunire tutta la famiglia è proprio ciò che divide. Il padre non si adira con lui, ma esce, gli va
incontro, lo prega chiamandolo «figlio mio», ha parole di affetto anche per lui, ascolta le sue ragioni, lascia
sfogare la sua rabbia. Ma egli risponde: «Ecco io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo
comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici» (v. 29). La gioiosa accoglienza
che il padre ha riservato al fratello minore suscita in lui l’amara sensazione che la sua fatica sia stata del

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 85


tutto sprecata. Se il peccatore è trattato in quel modo, a che serve essere giusti? Su questo dialogo il
parabolista indugia, forse per ricordare che talvolta la conversione di chi si ritiene giusto è più difficile di
quella del peccatore.

Con amarezza e ironia il primogenito sottolinea il danno fatto al padre dal figlio minore: quasi a dire
“ma non capisci neppure i tuoi stessi interessi!”: "Ma ora che è tornato questo tuo figlio il quale ha divorato
le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso." (v. 39). La sua lingua è un’arma
tagliente! Notiamo le parole «questo tuo figlio», la parola «fratello» non esce dalle sue labbra, come pure è
assente la parola «padre». Alla sua vita laboriosa e parsimoniosa tutta dedita all’incremento del patrimonio
egli oppone quella spensierata e godereccia del minore che invece quel patrimonio se lo ha divorato
(kataphagon) con le prostitute. Sottolinea l'assurdità del comportamento del padre di imbandire quel lauto
banchetto festoso proprio per uno che non si era certo privato del mangiare del bere e del divertirsi. Il figlio
maggiore, che non sa nulla della vicenda drammatica del minore – rifiuta il dialogo – fa della sua collera
l’unico decodificatore dell’esperienza e l’unica chiave di accesso alla realtà, che viene deformata. La rabbia
stravolge i fatti e li altera!

Il vero motivo della irritazione è quello che il padre ha dato all'altro. L'amore del padre verso il
minore è considerato una ingiustizia nei suoi confronti, egli sente che qualche cosa è stato tolto a lui,
perché imposta tutta la relazione con il padre nei termini di una «prestazione da dare» e di una
«ricompensa da ricevere» (v. 29). Per il figlio maggiore ognuno va amato nella misura in cui ha saputo
meritarlo. Egli incarna una mentalità molto diffusa, dominata dal «senso del dovere» e dal «do ut des». La
gratuità del padre è per lui un trauma, è come avere la sensazione che all’improvviso tutto crolli, che
un’intera vita di obbedienza e di lavoro sia stata completamente vana. L’altro che non ha fatto nulla è
amato ugualmente! Sono a confronto due logiche differenti: la logica della «giustizia» che vuole un
compenso corrispondente alla prestazione e la logica dell’«amore» che sa andare oltre questo criterio e
vuole la salvezza del figlio amato in un eccesso di misericordia.

Quale immagine del Padre (Dio) ha questo figlio maggiore? Ha anche lui, come il figlio minore una
immagine distorta! Si può abitare nella casa del Padre e ignorarlo con i fatti. Si può parlare di Dio ma non
incontrarlo e non farne alcuna esperienza profonda e vivificante (P.Tremolada). I due fratelli nella loro
diversità sono molto simili perché partono ambedue da una immagina sfigurata del Padre.

Ma il padre ama anche il figlio fedele –da sempre in casa e tuttavia così lontano da lui – cerca di
fargli comprendere tre cose: non solo non gli è stato tolto nulla di ciò che gli spetta, ma che con lui
condivide tutto («ciò che è mio è tuo»); che ha potuto sempre godere della tranquilla sicurezza di stare con
lui («tu sei sempre con me»); e che il figlio ritornato non è un estraneo, ma un fratello («tuo fratello»). Il
padre vorrebbe riunire i due fratelli, unendoli a sé e fra loro. Anzi, vorrebbe che entrambi scoprissero la
gioia della sua paternità e della loro fraternità. Le due cose sono strettamente legate. Se non si riconosce
l’altro come «fratello» non si conosce neppure il «Padre».

Il peccatore non è forse simile anche al figlio maggiore? Possiamo trovare in lui del tratti simili?
Quando si fa fatica a perdonare? Quando il rancore nei confronti del fratello, che si esprime spesso in una
ruminazione interiore, occupa la mente, l’immaginazione, il pensiero, provocando un accrescimento
dell’astio… L’altro è visto in una luce tutta negativa, che non gli si lascia scuse o attenuanti…
Quale immagine si ha di Dio in quel momento? E di se stessi? Se non si lascia entrare nel cuore l’amore e il
perdono gratuito e incondizionato di Dio che permette di vedere peccati, errori e omissioni commessi, e di
prendere contatto con la parte più debole, fragile e oscura di sè, si è incapaci di donare, perdono,
benevolenza, tenerezza al fratello che sbaglia.

Il finale è rivolto al figlio contestatore, ma nello stesso tempo anche all’uditorio che mormora
sull’atteggiamento di Gesù con i peccatori: “bisognava fare festa e rallegrarsi perché questo tuo fratello era
morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato" (v. 31).

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L’amore del padre, che restituisce la vita a questo figlio, il vederlo di nuovo a casa è più grande di
qualsiasi altra cosa, del risentimento per l’offesa subita, del disappunto per il capitare sperperato,
dell’imbarazzo per la condotta morale da lui tenuta, dei contraccolpi sulla buona fama della
famiglia. Far festa per il figlio che è tornato in vita è per il padre una necessità, è un moto
spontaneo e travolgente del cuore. (P. Tremolada)

Con queste parole il Padre vuole interpellare il figlio maggiore nella speranza che capisca, ritiri la
sua contestazione ed entri a condividere la gioia con il fratello e con lui. Questa domanda è rivolta agli
ascoltatori, gli scribi, i farisei, ed anche al lettore affinché, tutti, possano allargare lo spazio del loro cuore.

CONCLUSIONE

Se la figura del Padre come abbiamo detto è quella centrale, dobbiamo concludere, dicendo ancora
qualcosa su di lui. Riprendo qualche passo della lettera pastorale del Card. C. M. Martini, Ritorno al padre di
tutti.
Il padre della parabola… raccoglie in sé i caratteri più originali del Dio della fede
ebraica: è umile, perché rispetta le decisioni del figlio anche a costo del proprio dolore. Il
Dio d’Israele ama così il suo popolo e ne rispetta le scelte fino a "contrarsi" per far spazio
alla libertà della sua creatura amata. L’umiltà divina si congiunge alla sofferenza d’amore
di questo padre: anche il Dio della promessa non resta mai indifferente di fronte ai
comportamenti del suo popolo e soffre per la sua infedeltà. Il suo amore non è solo
espresso dalla parola hesed, che dice l’amore forte, tenace, fedele nelle prove, ma pure
dal termine rachamim, che dice l’amore materno, viscerale verso i propri figli (Is 49,14-
16)…
Questo Padre umile, compassionevole, capace di sofferenza d’amore, è anche
ricco di speranza e largo nel perdono: egli attende alla finestra il ritorno del figlio e non
esita ad andare incontro a tutti e due i figli, per accoglierli nella festa del suo amore. Un
Padre che esce da sé, si proietta verso la sua creatura, si fa pellegrino e mendicante di
amore…, partecipa alla storia dei suoi figli con una passione che è tanto rispettosa,
quanto autentica e profonda, è un Padre che rende liberi e vuole far partecipare tutti
della festa.
La scoperta… di Dio come Padre avviene… per il cristiano in Gesù Cristo: solo lui
lo rivela in pienezza...
Gesù … fa partecipe l’uomo della sua stessa condizione filiale: perciò gli mette
sulla bocca il Padre nostro, la preghiera dei figli, e gli dona il suo Spirito che in lui grida la
parola che più di ogni altra esprime l’amore filiale: "Abbà, Padre!" (Rm 8,15 e Gal 4,6). La
percezione che il cristiano ha del mistero del Padre non è esprimibile a parole, ma
affonda nella percezione che ne ha Gesù Cristo Figlio, ed è affidata alla grazia dello
Spirito Santo. Questo mistero del Padre va dunque al di là di ogni pensiero e concetto,
non è contenibile in parole, è sempre ‘oltre’… Tale scoperta, porta a pensare e sentire
Dio non solo come altissimo dominatore e Signore, ma insieme come accogliente,
benevolo, attento a ogni più piccolo mio passo, accessibile, provvidente, perdonante. La
menzione Padre non toglie infatti il senso degli altri nomi come Dio e Signore con tutto
ciò che essi significano di potenza creatrice, di fondamento primo e fine ultimo di tutto;
piuttosto dà a tali attributi la connotazione di benevolenza, premura, perdono,
perseveranza nell’amore …

Da questa stupenda parabola traspare dunque il mistero della paternità straordinaria di Dio che è
caratterizzata da un amore totale ed appassionato per l’umanità intera, guardata con una tenerezza infinita
e con immensa benevolenza. Questa misericordia è l’unica capace di cambiare il cuore orgoglioso

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dell’uomo, di conquistarlo, affascinarlo, rendendolo capace di essere a sua volta misericordioso (P.
Tremolada).

Bibliografia

FUSCO V. Narrazione e dialogo nella parabola detta del figlio prodigo (Lc 15,11-32), in: Galli G.
Interpretazione e invenzione. La parabola del Figlio Prodigo tra interpretazioni scientifiche e invenzioni
artistiche, 1987, 17-67.
CUCCI G., , P come perdono., Cittadella, 2011. (aspetti pscicologici)
MAGGIONI B., Le parabole della misericordia, in: Le parabole evangeliche, Vita e pensiero 1995, p. 214-226.
Martini C.M., Lettera pastorale 1988-1999, Centro Ambrosiano.
ROTA SCALABRINI P., ZATTONI M., GILLINI G., La trappola del padre buono, Paoline 1999 (lettura esegetica e
pedagogica).
TREMOLADA P., Credo in Dio Padre di infinita misericordia (Lc 15,11-32), in: In ascolto di Dio Padre,
Strumento per i gruppi di ascolto, in dialogo,

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 88


6. L’ANNUNCIO DEL REGNO ATTRAVERSO LE OPERE

A. I MIRACOLI

 Cf. Ardusso c. 7 pp. 94-106

Gesù non ha trasmesso il suo messaggio sul Regno solo a parole ma anche la sua attività, la sua prassi. Si
tocca qui con mano quanto profondamente il Cristianesimo differisca dalle ideologie, dalle filosofie e anche
dalle altre religioni. I creatori di ideologie, i pensatori della filosofia, i fondatori di religioni non entrano a far
parte costitutiva del loro messaggio. Di essi si prendono in considerazione le idee, le teorie, i principi. Nel
cristianesimo, invece, la persona di Gesù e le sue azioni svelano pienamente il significato del suo messaggio.
E’ importante dunque conoscere non solo il messaggio predicato da Gesù, ma anche ciò che Lui è stato
nella sua vita, quello che ha fatto, il suo comportamento, la sua prassi.
I Vangeli ci presentano un Gesù che si interessa in maniera particolare dei poveri e dei peccatori: li cerca,
parla e mangia con loro...; un Gesù che si distacca da certe osservanze della Legge rigidamente interpretate
dal Giudaismo ufficiale (purità rituale, riposo sabbatico,...); ci presentano un Gesù che si concede alla folla,
che non si risparmia nel predicare, dialogare, ma che anche sa ritirarsi solitario in preghiera... Ma la prassi
più significativa di Gesù raccontata nei Vangeli è quella miracolosa: i Vangeli ci presentano un Gesù
taumaturgo che guarisce i malati, scaccia i demoni, dà il pane alla folla affamata e libera i discepoli dalla
paura, in mezzo alla tempesta del lago. L’attività di Gesù, insomma, si contraddistingue per una serie di fatti
prodigiosi inseparabili dalla sua missione. Nel vangelo di Marco, per esempio, i racconti di miracoli
occupano la metà del libro e senza di essi questo vangelo risulterebbe incomprensibile, oltre a perdere
tutta la sua consistenza.
Cerchiamo, allora, di analizzare da vicino l’attività taumaturgica di Gesù, cercando di capire non solo il suo
nucleo storico, ma anche il suo significato teologico.

1. La testimonianza evangelica sui miracoli

I vangeli riportano circa una trentina di miracoli, ma oltre a questi racconti espliciti riportano anche dei
sommari dell’attività di Gesù, in cui si fa riferimento a numerosi miracoli da Lui compiuti. Ci sono miracoli
di, guarigioni, esorcismi, miracoli sulla natura e miracoli di risurrezione. Nei vangeli sinottici Gesù compie i
miracoli durante la sua attività in Galilea (unica eccezione la guarigione del cieco di Gerico in Samaria). Il
vangelo di Giovanni invece, racconta solo sette miracoli, nella prima parte del libro (cc. 1-12) collocandoli
in Giudea, e solo uno in Galiea (Gv 21 La pesca miracolosa). Nel vangelo di Marco e di Matteo abbiamo
delle concentrazioni di racconti di miracoli: una serie di 10 miracoli in Matteo ai cc. 8-9 e una serie in
Marco ai cc. 4-5: ciò fa supporre che dovevano circolare nelle comunità cristiane delle raccolte di racconti
di miracoli. Ogni evangelista, poi, ha presentato i miracoli di Gesù secondo la sua prospettiva teologica:
Marco vede nei miracoli una manifestazione della potenza di Gesù e della venuta del regno di Dio; per
Matteo i miracoli di Gesù mostrano che Gesù è il Messia d’Israele e sono un appello a credere il Lui; in Luca
i miracoli sono segni di salvezza, ma anche della infinita misericordia di Gesù; in Giovanni i miracoli sono
“segni”- che anticipano la gloria, che il Logos fatto carne, rivelerà nella sua morte e risurrezione. Gli
evangelisti, nell’attestarci un’attività taumaturgica di Gesù, l’hanno anche interpretata, rielaborando del
materiale della tradizione in funzione del loro intento teologico. Tutto ciò porta a porci il problema
R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 89
dell’attendibilità storica di questa testimonianza: quanto i miracoli raccontati dai vangeli corrispondono a
fatti veramente accaduti?

2. La storicità dei miracoli evangelici

La verifica storica sui miracoli incontra più difficoltà ad affermarsi rispetto a quella sulle parabole, per un
motivo molto semplice: il miracolo, a differenza delle parabole, è un evento soggetto a pregiudizio. Spesso
il miracolo è respinto in base ad un argomento, talora implicito, di questo tipo: il miracolo non è possibile!
Dunque non sono fatti storici quelli raccontati nei vangeli, ma pure leggende! Di fatto, - ed è corretto
affermarlo! - il miracolo è un evento che non corrisponde alle leggi della natura e quindi è proprio tale
perché, nel tempo in cui accade, non è spiegabile scientificamente. Ma si può escludere dalla realtà storica
ciò che scientificamente non è spiegabile? L’amore è una realtà che tutti sperimentiamo, è un evento
reale, ma non può essere spiegato scientificamente! L’attendibilità storica ai miracoli di Gesù si potrà
riconoscere, solo se si è disposti a uscire dalla pregiudiziale illuministica-razionalistica che riconduce a verità
solo ciò che è compatibile con le leggi della natura verificate scientificamente. Solo fuori da questo
pregiudizio il lavoro della critica storica sui miracoli evangelici potrà essere accolto come valido.
La critica storica ha applicato anche ai miracoli di Gesù i criteri di storicità che ben conosciamo. Vediamo a
quali conclusioni è arrivata.

→ Criterio di molteplice attestazione o testimonianza


L’attività taumaturgica di Gesù risulta ampiamente attestata da tutte le fonti evangeliche e da varie forme
letterarie.
Le fonti evangeliche: la fonte di Mc, la fonte Q comune a Mt e Lc, la fonte originale di Lc (infatti Luca ha ben
7 racconti di miracolo solo suoi), la fonte di Giovanni che presenta 5 miracoli solo suoi.
Varie forme letterarie: 30 racconti di miracoli circa, ma poi anche diversi ‘sommari’ e inoltre tre ‘sentenze’
di Gesù in cui egli stesso fa riferimento alla sua attività taumaturgica (Mt 11,3-6; 11,20-24; 12,28 e paralleli
lucani). A proposito di questi detti di Gesù è stato mostrato che sono sicuramente pre-pasquali, cioè non
derivanti dalla comunità primitiva.

→ Criterio di discontinuità o differenza


I miracoli di Gesù, così come sono raccontati dai vangeli, hanno dei tratti caratteristici che li distinguono
nettamente da una parte dall’ambiente giudaico ed ellenistico contemporaneo a Gesù e dall’altra dagli
interessi tipici della comunità cristiana.
- L’ambiente ellenistico ci ha tramandato il ricordo di miracoli avvenuti presso il tempio di Esculapio in
Epidauro nel Peloponneso, in cui si trovano testimonianze che ricordano il verificarsi di miracoli non di rado
stravaganti, fantasiosi, talora burleschi (es. una donna incinta da cinque anni che partorisce nel tempio).
L’antichità ellenistica conobbe pure un celebre taumaturgo, Apollonio di Tiana, un filosofo neopitagorico
che girò mezzo mondo ai tempi dell’imperatore Traiano. Un secolo dopo Filostrato raccontò la vita
avventurosa di questo Apollonio in un libro dal sapore romanzesco in cui si narrano diversi miracoli
compiuti dal protagonista, tra cui anche la risurrezione di una ragazza, la liberazione di Efeso dalla peste; la
scoperta di un tesoro nascosto.
- Anche l’ambiente giudaico ha conservato delle tradizioni che raccontano miracoli operati da pii rabbini
(piogge miracolose, guarigioni, moltiplicazioni del cibo, ecc..), ma sono decisamente rare.
Senza voler negare a priori la storicità di questi miracoli tramandatici dalla tradizione giudaica ed ellenistica,
dobbiamo osservare che in questi casi si tratta di fatti difficilmente controllabili, attestati da una
documentazione storica piuttosto tardiva, dal sapore spesso leggendario. Inoltre siamo molto distanti dalla
testimonianza evangelica.
- I miracoli di Gesù si discostano anche da quelli operati dalla chiesa delle origini. Gli apostoli operano
miracoli sempre e soltanto in nome di Gesù: Pietro guarisce uno storpio con queste parole “Nel nome di
Gesù Cristo il Nazareno, cammina! (At 3,6) e Paolo ugualmente guarisce un paralitico con queste parole
“Enea, Gesù Cristo ti guarisce!” (At 9,34).

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 90


- Gesù a differenza della tradizione ellenistica, compie i miracoli con estrema sobrietà e semplicità: non
accondiscende a richieste di prodigi spettacolari, non ricorre a formule magiche, a complicate
manipolazioni, a rituali esoterici. Non sfrutta la credulità del popolo. Molto spesso il miracolo è operato
dalla forza della sua parola: al lebbroso che lo supplica dice: “Io lo voglio guarisci!” (Mc 1,41) e al paralitico:
“Io ti ordino: prendi il tuo lettuccio e va’ a casa tua (Mc 2,11). Accompagna raramente la sua parola a
qualche sobrio gesto simbolico. Ad esempio guarisce il cieco nato spalmandogli gli occhi di fango, impastato
con la sua saliva, e mandandolo a lavarsi presso la piscina di Siloe (Gv 9), rivelando così che il suo miracolo è
un gesto creatore. Se i rabbini compivano i miracoli in nome di Jahwè, i sacerdoti ellenisti nel nome delle
loro divinità, la chiesa apostolica nel nome di Signore risorto, Gesù li compie in nome proprio e
testimoniando un atteggiamento assolutamente originale, compie i miracoli per instaurare un rapporto
personale tra sé e il destinatario del miracolo; egli lega il suo gesto alla sua persona: il miracolo non è fine a
se stesso, ma deve condurre alla relazione di fede con Lui.

→ Criterio di continuità o coerenza

I miracoli sono coerenti con la forte «attesa messianica» che caratterizzava quei tempi e con
l’insegnamento fondamentale di Gesù sulla venuta del «Regno di Dio». I miracoli di Gesù sono in sintonia
con l’epoca in cui lui visse, in quanto rispecchiano la forte attesa messianica. A partire dai suoi miracoli, la
gente riconosce realizzate le attese di liberazione e identifica Gesù con il Messia che doveva venire. Gesù,
però, non dimostra di accondiscendere totalmente a questo riconoscimento, perché vede in esso un grosso
fraintendimento, quello di essere considerato un Messia politico. Significativo da questo punto di vista è la
reazione folla-Gesù, dopo la moltiplicazione dei pani, così come racconta l’evangelista Giovanni: “Allora la
gente, visto il segno che aveva compiuto, cominciò a dire: “Questi è davvero il profeta che deve venire nel
mondo!”. Ma Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sulla
montagna tutto solo” (Gv 6,14-15).
Ma soprattutto i miracoli sono del tutto coerenti con l’insegnamento fondamentale di Gesù della venuta
del regno. Gesù fa i miracoli per manifestare la presenza già operante del Regno di Dio, una presenza che
cambia radicalmente la situazione umana di sofferenza, di peccato e di morte. I miracoli sono segno che il
Dio è vicino all’uomo: “Se io scaccio i demoni per virtù dello Spirito di Dio, è certo giunto tra voi il regno di
Dio” (Mt 12,28).

→ Tutto quanto è stato sin qui detto permette di concludere che la tradizione evangelica che attribuisce a
Gesù dei miracoli riposa su basi molto solide, almeno nella sua globalità.

3. Il significato dei miracoli compiuti da Gesù

Dopo aver chiarito, attraverso la critica storica che i vangeli ci testimoniano autenticamente un’attività
taumaturgica di Gesù, vediamo ora di approfondire il senso di questa suo operare. Perchè Gesù ha
compiuto miracoli? Come si inserisce questa sua attività nell’orizzonte della sua persona e missione?
Riprendiamo alcuni dati evangelici già emersi nelle analisi precedenti costruendo una sintesi interpretativa.

→ I miracoli sono segni dell’avvento del Regno di Dio


Gli evangelisti nel parlare dei miracoli utilizzano soprattutto due terminologie: a volte parlano di
“dynameis”, cioè azioni potenti, da cui poi la traduzione “prodigi”. Questa terminologia mette in evidenza il
carattere straordinario dei miracoli, il loro aspetto sorprendente e inatteso. Altre volte, però gli evangelisti
parlano dei miracoli come di “semeia”, cioè “segni”, sottolineando il carattere simbolico cioè teologico dei
miracoli, aspetto più importante, ma purtroppo meno considerato. Un “segno” (semeion) è qualcosa di
visibile che rimanda a qualcos’altro che non è visibile, a una realtà nascosta. Qual è la realtà nascosta di cui
i miracoli sono segno? E’ il regno di Dio e, in ultima analisi, l’identità misteriosa di Gesù stesso che li
compie. I miracoli manifestano la potenza divina in atto e dunque che Dio è presente nella persona stessa

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 91


di Gesù. Essi conducono nel grande segreto di Gesù, fanno intravedere la verità della sua persona e
rivelano il cuore buono di Dio.

Terminologia:
dynameis = «prodigi» «azioni potenti» – termine usato dai vangeli sinottici
sêmeia = «segni» – termine usato nel vangelo di Giovanni = sono anticipazioni della
«Gloria» del Logos.
erga «opere» usato solo dal vangelo di Giovanni per indicare che i miracoli sono «opera»
sia di Gesù che del Padre.

Per l’evangelista Giovanni, inoltre, i miracoli costituiscono la testimonianza del Padre in favore del suo
Figlio, di colui che è più grande di Giona e Salomone (Mt 12,41-42), più grande di Mosè ed Elia (mc 9,2-10),
più grande di qualsiasi profeta dell’AT. Hanno la funzione di garantire Gesù come l’ ”Inviato di Dio”, a pieno
titolo, “Figlio” del Padre, uguale al Padre. Il Padre infatti ama il suo figlio e gli ha messo tutto nelle mani (Gv
3,35). Dice Gesù nel Quarto Vangelo: “Le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse che io
sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato (Gv 5,36-37).

→ I miracoli sono segni dell’Amore (agape) di Dio per l’uomo


Guardando l’insieme dei miracoli di Gesù dobbiamo notare che essi non sono semplicemente accomunati
dal fatto di essere eventi straordinari, imprevedibili, ma anche dall’essere tutti gesti positivi, azioni che
vengono incontro alle varie situazioni di miseria umana: malattia, sofferenza, presenza disturbante del
male, situazioni di emarginazione fino a toccare anche la morte.
Gesù ha operato molti miracoli a favore delle persone più deboli, eppure non ha guarito tutti i malati,
risuscitato tutti i morti, liberato tutti gli indemoniati. Perchè? I miracoli sono un “segno” di quanto Dio,
attraverso Gesù, è capace di operare nel cuore dell’uomo.
Sappiamo come il dolore umano non tocca solo la dimensione fisica dell’uomo - il suo corpo -, ma minaccia
soprattutto, il suo mondo interiore fino a togliergli il desiderio di vivere. Ogni forma di sofferenza sia
psichica che fisica, come anche la morte stessa, può essere vissuta dall’uomo come un evento disperante,
che angoscia e spegne il desiderio di vivere20.
Quando Gesù compie un miracolo non guarisce solo dei corpi, ma risana il cuore dell’uomo. I miracoli non
sono dati a tutti, perché sono un ”segno” di quanto Dio è capace di operare, nel cuore di ogni uomo che
soffre. L’evangelo che Gesù porta include anche questa promessa: la malattia e la morte possono essere
vissute in Lui, senza averne paura. Il desiderio di Gesù è esattamente questo: che ogni persona possa vivere
anche l’esperienza della malattia, dentro la sovranità di Dio, nella potenza buona di Dio che rivela la sua
paternità e vicinanza. La guarigione, il prodigio che riguarda quel singolo soggetto, diventa segno di una
realtà che riguarda tutti i malati di ogni tempo. Ogni uomo che soffre può contare sulla potenza buona di
Dio che libera dall’angoscia della morte e dalla paura. Dirà S. Paolo: Dov’è o morte la tua vittoria? Dov’è o
morte il tuo pungiglione? (1 Co 15,55). Si può essere malati, essere prossimi alla morte e non sentirsi
disperati! Gesù offre agli uomini per grazia, la possibilità di vivere le malattie e la morte senza angoscia.
Viene offerta la possibilità di un’esperienza della malattia e della morte redenta.
Per questo motivo Gesù non ha mai incentivato quello che si chiama atteggiamento miracolistico,
l’atteggiamento cioè di chi cerca i miracoli per se stessi, coltivando illusioni inutili, fanatismi o atteggiamenti
di ingenua credulità: egli ha compiuto i miracoli, per aiutare le persone a “credere” nella bontà di Dio e a
Lui come inauguratore di questo Regno di salvezza per tutti.
I miracoli sono dunque segni dell’Amore (agape) di Dio per l’uomo: infatti Gesù spesso prende l’iniziativa
di operare un miracolo dove incontra la sofferenza dell’uomo: es. moltiplicazione dei pani (Mc 6,30-44);

20 Si apre un tema molto ampio e delicato che riguarda il senso cristiano della malattia, o meglio il modo cristiano di
vivere la malattia. Come non cadere prigionieri di quel senso di smarrimento? Come vincere la paura quando siamo
malati? Ce la faremo a vincere quel senso di solitudine a cui gli altri a volte ci condannano, perché hanno paura loro
per primi della nostra malattia, non sanno bene cosa dirci, cosa fare… Tutto sembra difficilissimo! Come si riesce a
vivere tutto questo senza precipitare nell’angoscia?

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 92


risurrezione del figlio della vedova di Nain (Lc 7,11-1 ); guarigione dell’uomo dalla mano paralizzata (Mc
3,1-8); altre volte accoglie le suppliche di chi lo invoca: del lebbroso (Mc 1,40-45), di Giairo e dell’emoroisa
(Mc 5,21-43), del centurione pagano (Mt 8,5-13), di Marta e Maria (Gv 11).

→ I miracoli sono anche rivelazione dell’amore trinitario: sono opera di Gesù e del Padre e avvengono in
forza dello Spirito (vangelo di Gv). Essi diventano veramente significativi solo nell’orizzonte della
risurrezione di Gesù, il grande e definitivo evento di salvezza che raggiunge tutti gli uomini in pienezza. I
miracoli annunciano e anticipano l’azione dello Spirito che il Risorto vuole donare ad ogni uomo.

→ I miracoli suppongono la fede, e suscitano la fede in Gesù


I vangeli ci testimoniano un rapporto molto stretto tra i miracoli e la fede. Ci sono diversi episodi che ci
mostrano come Gesù in più occasioni non abbia potuto o voluto compiere dei miracoli. Non potè operare
nessun miracolo a Nazareth, paese in cui ha vissuto, a causa della mancanza di fede dei suoi concittadini
(Mc 6,5-6); rifiuta il “segno” spettacolare richiesto dai farisei per “dimostrare” la sua divinità (Mc 8,11-13);
non acconsentirà alle grida di coloro che gli gridano di scendere dalla croce per salvare se stesso: “Ha
salvato altri, non può salvare se stesso! Il Cristo il Re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e
crediamo” (Mc 15,31-33); “Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto!” (Lc 23,35).
Non ci saranno mai miracoli per chi li domanda come prova per credere. I miracoli non hanno questa
capacità di dimostrazione ineludibile della potenza di Dio. Se chi li vede è ancorato al suo pregiudizio
negativo, non riuscirà mai a dedurre dal miracolo il mistero divino di chi lo compie. Proprio in quanto
“segni”, i miracoli richiedono una disponibilità ad essere interpretati secondo il significato di chi li pone. Chi
li vede è chiamato a lasciarsi interpellare dal fatto, per cercare il mistero profondo di Colui che lo ha
generato. Se questo mistero è già messo in discussione prima ancora di assistere al miracolo, nessun
miracolo potrà mai essere riconosciuto.
E’ la fede, anche se iniziale, anche se imperfetta, anche se segnata dal dubbio, che potrà essere in grado di
vedere quanto Dio, in Gesù è capace di operare per il bene dell’uomo! Anche davanti alla debole fede
dell’uomo Dio interviene a salvare. Quando i discepoli di Gesù impauriti per lo scoppio della tempesta sul
lago gli grideranno “Signore, Signore, salvaci!” Egli risponderà loro: “Perché avete paura, gente di poca
fede?”. E l’evangelista riferisce: “ Poi si alzò, minaccio i venti e il mare e si ci fu grande bonaccia. Tutti, pieni
di stupore, dicevano: Chi è mai costui, che perfino i venti e il mare gli obbediscono?” (Mc 8,23-27).
Anche la “poca fede” è sufficiente!! Questa è la “fede” che esige Gesù prima di compiere il miracolo: una
fede iniziale, la semplice disponibilità a riconoscere il mistero divino che si manifesta, la disponibilità a
credere.
Se questa fede c’è, allora il miracolo raggiunge la sua efficacia, che non consiste semplicemente nella
guarigione o nell’effetto fisico che lascia, ma nella percezione del mistero di Dio che si rivela.
Per i vangeli in realtà si può parlare di miracolo, non semplicemente quando si è di fronte a un fatto
straordinario, non spiegabile con le leggi della natura, ma quando questo fatto posto da Gesù rende
consapevole il miracolato di avere incontrato in Lui, il mistero santo di Dio e la sua salvezza. Il vero miracolo
avviene quando la disponibilità iniziale nei confronti di Gesù, nei confronti della sua Rivelazione del vero
volto di Dio, diventa fede certa in Lui, come il Salvatore.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 93


B) CHI È GESÙ DI NAZARET

 studiare F. Ardusso, capitolo 8: Chi è Gesù di Nazaret? pp. 107-120.

 Gesù è il MESSIA
è il FIGLIO DI DIO

A. GESÙ ACCAMPÒ DELLE PRETESE STRAORDINARIE NEL PROPORRE IL SUO MESSAGGIO A NOME DI DIO:
- l’autorità della «Parola» di Gesù
- la coscienza di Gesù

B. GESÙ MANIFESTÒ TRAMITE IL SUO AGIRE, LA STRAORDINARIA COSCIENZA DI ESSERE IL SALVATORE INVIATO DA DIO

- Gesù siede a mensa con i peccatori


- Gesù compie miracoli
- Gesù agisce anche di sabato
- Gesù chiede agli uomini di decidersi per Dio
- Gesù è superiore a tutto e a tutti (personaggi, istituzioni ecc…)

C. GESÙ EBBE CON IL PADRE UNA RELAZIONE FILIALE UNICA ED INCOMPARABILE


- Abba

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 94


7. IL MISTERO PASQUALE: CROCE E RISURREZIONE

Rimandiamo lo studente al testo integrale di Ardusso: cc.9 (pp. 138-142).10.11 (143-169) che qui
riprendiamo sinteticamente.

A. CROCE E RISURREZIONE

 Il significato della morte in croce di Gesù

La scandalosa morte di Gesù in croce presa nella sua realistica brutalità non può non sconcertare. Quella
morte va interpretata, perché non è il fatto di morire sulla croce in quanto tale che è decisivo. Decisiva è
l'interpretazione che Gesù ha dato della sua morte: essa è l'atto di chi, avendo amato i suoi, li amò sino alla
fine. «Nessuno - disse Gesù -ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici » (Gv 15,13).
La verità di Dio rappresentata da Gesù sulla croce è «quella di una potenza che coincide con l'efficacia
dell'amore e può essere rappresentata unicamente nella forma della dedizione incondizionata: mai nella
forma del dominio interessato all'affermazione di sé».
Ha scritto P. A. Sequeri:

« La morte accettata da Gesù di Nazaret può così apparire come la conferma della sua volontà di
contestare ogni pretesa "verità di Dio" che non corrisponda alla forma della dedizione incondizionata nei
confronti dell'uomo... la singolarità di Gesù, l'unico che abbia creduto che la dedizione incondizionata è
la verità ultima e definitiva di Dio, sta proprio in questa pretesa di identificare la verità di Dio con la
verità dell'amore che accetta di essere equivocato come impotenza pur di non trasformarsi in dominio.
E ciò d'altro canto può accadere soltanto se si crede che l'amore è la verità di Dio ».

Se però Gesù non fosse risorto, la sua sarebbe stata la nobile pretesa e la terribile illusione di un idealista
smentito dalla storia.

 Se Cristo non fosse risorto...

La risurrezione apre un nuovo capitolo nella comprensione di Gesù. Non si tratta di un capitolo totalmente
nuovo nel senso che gli elementi necessari per l'identificazione di Gesù erano già in qualche modo presenti
nel suo annuncio, nella sua azione, nella sua relazione singolarissima col Padre.
Con la risurrezione si opera il passaggio dalla «cristologia indiretta» o implicita alla «cristologia esplicita». La
Chiesa primitiva considerò la risurrezione di Gesù come la conferma divina della sua missione. Poiché Dio
stesso era intervenuto risuscitandolo dai morti, Gesù diventa il contenuto, il centro e la norma della fede
della Chiesa e del suo annuncio. Qui avviene il passaggio dal Gesù predicante il regno di Dio al Cristo
predicato dagli apostoli […]. L'intervento di Dio che risuscita Gesù dai morti dimostra che l'unicità e la
singolarità della persona di Gesù di Nazaret e della sua vicenda terrena sono state elevate a un significato
nuovo e universale.

La risurrezione di Gesù è pertanto il punto di partenza di ogni professione di fede cristologica. Senza risur-
rezione, non c'è fede in Cristo. Se Gesù di Nazaret non fosse risorto, il cristianesimo non sarebbe mai nato.
La fede e la speranza dei cristiani sarebbero campate in aria, sospese nel vuoto. Il cristianesimo e la Chiesa
hanno origine da questo annuncio inaudito: Dio ha risuscitato Gesù dalla morte! Tutto, nel cristianesimo,
sta o cade con la verità di questo annuncio.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 95


Nel 56 d.C., scrivendo alla comunità di Corinto, Paolo le ricordava quanto aveva predicato con insistenza
intorno alla morte e alla risurrezione di Cristo qualche anno prima, verso il 50, e concludeva: «Ma se Cristo
non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede» (1Cor 15,14).
Proviamo a fare l'ipotesi che le nostre informazioni su Gesù finiscano con la notizia della sua morte e che
sulla terra non sia mai risuonato l'annuncio della sua risurrezione. Oggi Gesù sarebbe ancora ricordato,
come si ricordano Socrate, Confucio, Buddha, gli «uomini normativi», di cui parla K. Jaspers. Probabilmente
si citerebbero ancora alcune parole di Gesù, come le beatitudini e il precetto dell'amore. Per molti, però
[…], la morte infamante di Gesù continuerebbe a gettare un'ombra di sospetto sulla sua persona e sul suo
messaggio. Gesù che muore fra due ladroni, condannato da tutte le forme di potere costituito, non è stato
forse sconfessato e abbandonato da Dio, nel cui nome pretendeva di parlare e di agire? [….].
Senza la risurrezione avremmo pochissimi documenti su Gesù. Tutti gli scritti di una certa importanza che ci
parlano di lui (vangeli, Atti degli apostoli, lettere, Apocalisse) partono, infatti, dalla convinzione che Gesù è
risorto da morte e continua a vivere in mezzo ai suoi. Senza la risurrezione non avremmo neppure i vangeli,
ci dicono gli studiosi del Nuovo Testamento. Tutto il materiale narrativo dei nostri vangeli è infatti
«impregnato della figura del Cristo glorioso che vi si delinea sempre come in filigrana» (R. Penna).
E stata la risurrezione di Gesù, percepita come intervento di Dio in suo favore, e come approvazione del suo
operato e della sua sconcertante «prassi messianica», a rendere impellente il desiderio di sapere più da
vicino chi fosse questo Gesù di Nazaret in favore del quale Dio era intervenuto in maniera così originale e
convincente.
Se la « causa di Gesù » potrà continuare dopo la sua morte violenta, è perché si era convinti che con la
croce non tutto era finito, ma che anzi « pure nella morte, Dio gli si era mantenuto fedele, così che ora egli
viveva per sempre nel regno di Dio e la sua "causa", passando attraverso la morte, si era pienamente
realizzata in maniera insospettatamente nuova ».
Se Gesù non fosse risorto, egli sarebbe solo un uomo in più assassinato dall'ingiustizia umana. La sua
«causa» e la sua stessa persona sarebbero definitivamente perdute, «e nessun artificio ermeneutico
potrebbe risvegliarla a nuova vita» (W. Kasper). E’ facile allora comprendere come la prima parola della
comunità cristiana, anteriore di oltre trent'anni ai nostri vangeli, sia andata all’essenziale incentrandosi
proprio sul Cristo risorto:

« Questo Gesù - dice Pietro a nome di tutti i discepoli - Dio l'ha risuscitato, e noi tutti ne siamo
testimoni » (At 2,3 8).

Alle parole di Pietro fa eco la testimonianza unanime di tutti quanti gli scritti del Nuovo Testamento, i quali
hanno come centro di interesse vitale la vicenda del Cristo che muore e risorge per noi.
E’ quindi un madornale errore storico affermare che la cristologia e che l'interesse per la persona di Cristo
avrebbero a poco a poco sostituito, nel cristianesimo primitivo, il discorso sulla prassi messianica di Gesù.
Così pure sono fuori strada tutti coloro che separano il messaggio e la prassi di Gesù dalla sua persona. Il
messaggio e la prassi di Gesù di Nazaret vanno ricordati e narrati per le future generazioni proprio perché la
persona di Gesù ha trionfato sulla morte.

« Non è mai esistito - scrive C. M. Martini - un cristianesimo primitivo che abbia affermato come primo
messaggio: - amiamoci gli uni gli altri - siamo fratelli - Dio è Padre di tutti - ecc. Dal messaggio "Gesù è
veramente risorto" derivano tutti gli altri».

 Le negazioni della risurrezione di Gesù

La risurrezione di Gesù è un fatto storico e un mistero. Essa si sottrae alle nostre esperienze abituali e ai
concetti coi quali siamo familiarizzati. Ciò spiega perché, ad esempio, nella religiosità popolare vengano
maggiormente accentuate la passione e la morte di Gesù a scapito della sua risurrezione. La passione si
presta a rappresentazioni e a drammatizzazioni: i vangeli offrono il racconto di esperienze con le quali ogni
persona, presto o tardi, deve fare i conti durante la sua vita. La risurrezione, invece, non si presta a esser
rappresentata, è priva di agganci con l'esperienza quotidiana, anzi è qualcosa di assolutamente unico e
inedito, una specie di nuova creazione. Gli stessi scritti del Nuovo Testamento non descrivono mai la
R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 96
risurrezione di Gesù, come farà invece nel II secolo il vangelo apocrifo di Pietro. Essi usano diversi linguaggi
per indicare che la risurrezione è un dato che sfugge alle nostre esperienze e ai nostri concetti abituali.
Anche oggi non è facile parlare della risurrezione di Gesù. Forse sta qui una delle ragioni per le quali il
messaggio della risurrezione incontrò, sin dagli inizi del cristianesimo, incomprensioni e resistenze. I Vangeli
e gli Atti degli apostoli ci informano sulla «incredulità e durezza di cuore» da parte dei discepoli di Gesù
tanto da meritare duri rimproveri da parte del Risorto (Mc 16,14; Mt 28,17; Lc 24,25).
Quando Paolo portò il messaggio del Cristo risorto all'intellighentia di Atene, incontrò rifiuto e derisione (At
17,32).

Il grande periodo delle negazioni della risurrezione di Cristo ebbe però inizio nel secolo XVIII e continua
anche oggi sotto forme « ermeneuticamente » molto elaborate. Per eliminare dalla storia la risurrezione di
Cristo vennero proposte numerose teorie, alcune delle quali sono oggi menzionate come parti di una
fantasia inficiata di preconcetti, senza alcuna plausibilità scientifica. Ne ricorderemo alcune.

La teoria della frode o dell'inganno (S. Reimarus) sostiene che i racconti evangelici sulla risurrezione sarebbero un
inganno, una falsificazione volutamente perseguita dai discepoli, i quali, delusi dalla morte di Gesù e frustrati nelle
loro speranze, ne avrebbero rubato il cadavere, mettendo poi in circolazione la falsa notizia della sua risurrezione,
appellandosi al sepolcro vuoto.

- La teoria della sottrazione, che si presenta con diverse varianti, afferma che tutto ebbe inizio dal fatto che i discepoli
non trovarono più nel sepolcro il cadavere di Gesù. L'inspiegabile scomparsa del cadavere (che secondo costoro
andrebbe spiegata come trafugamento da parte degli ebrei, o come trasferimento in un altro luogo da parte di
Giuseppe di Arimatea, o ancora come sparizione in una voragine a causa di un terremoto) avrebbe fatto sorgere nei
discepoli l'idea della risurrezione.

- La teoria della morte apparente (G. Paulus) sostiene che Gesù non era morto quando venne rinchiuso nel sepolcro,
ma si trovava in stato di catalessi. Grazie alla tonificante frescura del sepolcro e alle cure di qualche discepolo fedele,
Gesù si sarebbe ripreso, presentandosi poi ai suoi discepoli ora come ortolano, ora come pellegrino, inducendoli in tal
modo a credere che fosse risorto.

- Per la teoria dell'evoluzione, dopo la tragica fine di Gesù i discepoli si sarebbero a poco a poco ripresi dallo shock,
avrebbero riscoperto la validità del suo messaggio in un clima di entusiasmo religioso, giungendo ad affermare la
risurrezione del Maestro in base alle promesse dell'Antico Testamento e sotto l'influsso di altre religioni, in particolare
di quelle misteriche, con le loro credenze negli dei che muoiono e risorgono.

- Infine, secondo la teoria delle visioni (D. F. Strauss), la risurrezione di Gesù sarebbe il frutto di visioni soggettive e del
pensiero mitico.

Anche ai nostri giorni l'accettazione della risurrezione di Gesù incontra resistenze e provoca dei tentativi più
o meno ingegnosi di spiegazione. Chi ha una visione secolarista della storia vede nella risurrezione il
simbolo di un nuovo mondo e l'espressione del bisogno di un rinnovamento radicale.
Anche alcuni teologi protestanti del nostro secolo hanno svalutato la risurrezione di Gesù in quanto
avvenimento reale. Per R. Bultmann, ad esempio, il miracolo di Pasqua non è la risurrezione di Cristo, ma la
fede dei discepoli che proclamano che la croce è feconda di salvezza. Per W. Marxsen dire che «Cristo è
risorto» significa che non tutto è finito con la morte: la «causa di Gesù» continua!

 La risurrezione nel Nuovo Testamento

Le testimonianze del Nuovo Testamento sulla risurrezione sono numerose, diverse, non sempre
armonizzabili. C'è però, e questo è essenziale, una concordanza di fondo nell'affermare che Gesù, dopo la
morte, ha mostrato di essere ancora vivo nella pienezza della sua realtà glorificata ed è stato annunciato
come risorto dai morti. La risurrezione in se stessa non viene mai descritta. Nessuno afferma di aver visto il
Cristo all'atto di risorgere dal sepolcro.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 97


Le molteplici testimonianze del Nuovo Testamento sulla risurrezione di Cristo vengono solitamente
suddivise in tre gruppi: a) professioni di fede e inni; b) kerygma o predicazione missionaria; c) narrazioni
evangeliche.

a) Professioni di fede e inni. Le professioni di fede (la cui formulazione più antica dovette essere: «Dio ha
risuscitato Gesù dai morti ») sono anteriori agli scritti del Nuovo Testamento che le contengono. Si tratta di
pubbliche professioni di fede, abbastanza fisse nella forma, proclamate soprattutto nella liturgia o davanti
ai tribunali.
Ad esempio, la frase « Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone » (Lc 24,3 4) è probabilmente
un'antica acclamazione liturgica. La professione di fede o «credo » più antica sulla risurrezione la si trova in
1Cor 15,3-5: «Vi ho trasmesso dunque anzitutto quello che anch'io ho ricevuto: Che cioè Cristo morì per i
nostri peccati secondo le scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e apparve a
Cefa e quindi ai Dodici... ».

Paolo riporta questo testo nella lettera scritta ai Corinti nel 56, riferendosi a quanto aveva loro annunciato
negli anni 50-51. Paolo cita il «credo » utilizzando espressioni tecniche in uso presso i rabbini per trasmettere le
tradizioni. Questo testo ci rimanda agli anni in cui Paolo a sua volta ricevette per la prima volta il vangelo della
risurrezione: probabilmente verso il 40-42 ad Antiochia, oppure verso la metà degli anni 30 a Damasco. In ogni
caso, questa professione di fede ci riporta una data assai vicina all'avvenimento della risurrezione […]21.

Un altro genere di testimonianze molto antiche sulla risurrezione sono gli inni, di derivazione liturgica.
Ecco il testo di uno dei più celebri:

«Gesù Cristo, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio;
ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini. Apparso in forma
umana, umiliò se stesso facendosi obbediente sino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l'ha
esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; Perché nel nome di Gesù Ogni
ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a
gloria di Dio Padre» (Fil 2,6-11).

Gli inni non parlano direttamente della risurrezione di Gesù, ma proclamano che Gesù è il Signore
glorificato da Dio dopo i giorni della sua umiliazione. L'attenzione si rivolge non tanto all'avvenimento della
risurrezione, quanto al fatto che Gesù risorto è vivente e Signore […]22.

b) Kerigma o predicazione missionaria. Essa costituisce la trama di fondo di molti scritti del Nuovo
Testamento e soprattutto dei vangeli. Qui ritroviamo l'affermazione centrale delle confessioni di fede,
però in forma leggermente più sviluppata. Il kerygma giustifica e fonda storicamente le confessioni di fede
e quanto celebrano gli inni. Senza ancoraggio alla storia, Gesù e la sua risurrezione correrebbero il rischio di
trasformarsi in un mito fuori del tempo e dello spazio. Il kerygma mette in evidenza che la fede cristiana
non è né una sapienza, né un'etica, ma un'adesione a Gesù, che è vissuto in mezzo agli uomini, è morto ed
è stato risuscitato.

Eccone un esempio:

21Altre antiche confessioni di fede si trovano in: At 2 e 3,15; 5,21; 10,40; 1Ts 4,14; 1,10; Rm 8,34; 10,9.
22Un altro inno si trova in 1Tm 3,16. Ci sono alcuni passi simili agli inni, non nella forma, ma nel modo di parlare di
Cristo risorto: Ef 4,7-10; Rrn 10,5-8; 1Pt 3,18-22; 4,6. Altri testi su Cristo risorto utilizzano il tema della «vita», tipico
degli inni: Rm 6,9; 14,9; 2Cor 13,4; Eb 7,8-25; Lc 24,5; Ap 1,18; 2,18.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 98


« Voi conoscete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, incominciando dalla Galilea dopo il battesimo
predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret, il quale passò
beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui. E noi
siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei giudei e in Gerusalemme. Essi lo
uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato il terzo giorno e volle che apparisse non a
tutto il Popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la
sua risurrezione dai morti. E ci ha ordinato di annunciare al popolo e di attestare che egli è il giudice dei
vivi e dei morti costituito da Dio. Tutti i profeti gli rendono questa testimonianza: chiunque crede in lui
ottiene la remissione dei peccati per mezzo del suo nome» (At 10,37-43)23.

c) Le narrazioni evangeliche.

« La risurrezione di Gesù Cristo è un fatto che ha dapprima suscitato discorsi entusiasti e professioni di
fede. Poi è passato nel genere narrativo, senza cessare di essere riflessione teologica» (H. Schlier). I racconti
evangelici intendono anch'essi annunciare Cristo risorto, ma lo fanno per mezzo di narrazioni piuttosto
ampie e distese. Incontriamo due tipi di racconti: gli uni riguardano la scoperta del sepolcro vuoto, gli altri
trattano delle manifestazioni del Risorto.

Racconti sulla scoperta del sepolcro vuoto.

Tutti e quattro i vangeli parlano dell'esperienza avuta da alcune donne presso il sepolcro di Gesù il mattino di Pasqua
[…]24. Certamente i racconti contengono un dato storico, il fatto cioè che la tomba è stata trovata vuota. In
favore della storicità vi sono due argomenti principali: innanzitutto i quattro vangeli concordano
nell'attestare la scoperta del sepolcro vuoto, anche se divergono nei particolari; inoltre i primi testimoni del
sepolcro vuoto sono le donne. Ora, secondo la tradizione rabbinica, le donne non erano testimoni
qualificati. Il fatto che i vangeli diano importanza alla testimonianza delle donne è un particolare che va
controcorrente rispetto alla mentalità di allora. La cosa non si spiega in modo plausibile se non
ammettendo che alla base c'è un fatto storico.
Ciò su cui questi racconti vogliono richiamare l'attenzione non è tanto il sepolcro vuoto quanto l'annuncio
della risurrezione che ne consegue. Il fatto del sepolcro vuoto non è in se stesso la prova della risurrezione.

« Il fatto stesso che la tomba sia stata trovata vuota non prova nulla: è una domanda che attende la
risposta... Domanda cui la vera risposta verrà da Dio nelle "apparizioni" di Gesù: vedendo il Risorto, gli
apostoli sapranno finalmente perché la tomba era aperta» (E. Charpentier).

«Il sepolcro vuoto non costituisce... alcuna prova per la fede, certo però ne è un segno... Per la Chiesa
primitiva davvero importanti non furono le narrazioni del sepolcro vuoto, quanto piuttosto le
testimonianze di fede sulle apparizioni del Risorto » (W. Kasper).

Le prime testimonianze della risurrezione si richiamano infatti alle apparizioni, e non al sepolcro vuoto:
1Cor 15,3-5.

I racconti delle apparizioni.

I vangeli presentano le manifestazioni di Cristo risorto come vere « apparizioni » e non come « visioni ». Un
esempio di « visione » del Risorto è l'esperienza di Paolo sulla via di Damasco. Questa esperienza di Paolo è

23 Altri esempi di predicazione missionaria si trovano in At 2,14-39; 3,13-26; 4,10-12; 5,30-32; 13,17-41.
24 Ciò che a prima vista colpisce sono le divergenze nei particolari. Tutti e quattro i vangeli parlano dell'esperienza
avuta da alcune donne presso il sepolcro di Gesù il mattino di Pasqua. Marco e Luca ricordano tre donne, Matteo due,
Giovanni una. Diverso è il motivo della visita al sepolcro: per Marco e Luca vi è l'intenzione di ungere il cadavere, per
Matteo vi è il desiderio di fare visita alla tomba. Secondo Marco. le donne non raccontano a nessuno quanto hanno
visto, mentre, secondo Matteo, esse corrono a dare l'annuncio ai discepoli. Matteo e Marco parlano di un angelo
apparso alle donne, Luca parla di due, come pure Giovanni. A differenza dei sinottici, in Giovanni l'angelo non
annuncia alle donne la risurrezione.
R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 99
molto diversa dalle apparizioni raccontate dai vangeli. In queste il Cristo si inserisce in maniera concreta
nell'esperienza quotidiana degli apostoli, mangia con loro, invita Tommaso a mettere la mano nel suo
costato ecc.

Anche i racconti di apparizione presentano divergenze […]25. Queste però, non devono far perdere di vista
che le «diverse narrazioni concordano nell'affermare che Gesù, dopo la morte, è apparso a certi discepoli,
ha dimostrato di essere ancora vivo ed è stato annunciato come risorto dai morti. Questo è il centro e il
fulcro attorno ai quali ruotano tutte queste tradizioni».
Evidentemente non era intenzione degli evangelisti stendere una cronaca precisa dello svolgimento dei
fatti26. Tra le varie apparizioni di Gesù, quelle rivolte agli undici discepoli sono le più importanti. La nostra
fede riposa sulla testimonianza di questi primi testimoni ufficiali (1Cor 15,1-11).

I racconti di Luca e Giovanni sulle apparizioni agli Undici hanno dei tratti comuni riconducibili a un procedi-
mento a tre tappe:
- Gesù prende l'iniziativa di manifestarsi;
- i discepoli, vincendo le esitazioni, riconoscono Gesù (sia Luca che Giovanni, ma soprattutto Luca, insistono
sulla realtà corporea del Cristo risorto, sul fatto che il Risorto non è un fantasma o uno spirito);
- il Cristo li invia in missione.

Il racconto di Matteo (28,16-20) presenta Gesù come Signore della gloria. Qui non c'è spazio per le scene di
riconoscimento, e il dubbio vi appare in forma sfumata (28,17). Cristo risorto è il Signore della storia,
esaltato e glorificato, costituito Signore e giudice del mondo intero. I discepoli, certi della presenza del
Risorto in mezzo a loro (« Sono con voi ogni giorno... »), devono intraprendere un'infaticabile e universale
attività missionaria.

Oltre alle apparizioni agli Undici raccontate dai quattro evangelisti, Luca e Giovanni riferiscono altre due
manifestazioni di Gesù, rispettivamente ai discepoli di Emmaus (Lc 24,13-25) e a Maria di Magdala (Gv
20,11-18). In questi racconti si mette in risalto la gioia dei discepoli e degli amici nell'incontrare di nuovo il
Maestro, anche se egli si trova ora in una nuova situazione. I due racconti di Luca e Giovanni hanno, inoltre,
un valore esemplare per i credenti di ogni tempo. Luca fa gravitare il suo racconto sul riconoscimento di
Cristo che ha luogo dopo un lungo cammino. E un riconoscimento che avviene grazie al cuore ardente, al
contatto con le Scritture e al gesto dello “spezzare il pane”. Giovanni vuol far intendere che la Maria di
Magdala è incapace di riconoscere il Maestro perché se lo immagina secondo le modalità della sua
precedente vita terrena e non si accorge che il Cristo, pur restando il medesimo di prima, si trova ora in una
forma trasfigurata di esistenza. Tuttavia, anche qui l'amore ardente permette di approdare al
riconoscimento e all'incontro. Ma il Risorto non lo si può trattenere tutto per sé. Bisogna correre ad
annunciarlo agli altri. «Il cristiano conosce Gesù nella misura in cui porta nel mondo la sua testimonianza ».
(J.Guillet).

 Il linguaggio delle testimonianze bibliche sulla risurrezione

Per esprimere l'avvenimento della risurrezione di Cristo abbiamo incontrato nei testi due tipi di linguaggio:
il linguaggio della «risurrezione» (e quello simile della «vita») e il linguaggio dell'« esaltazione ».

25 E’ difficile determinare il numero delle apparizioni (si confronti 1Cor 15,5-7 coi racconti evangelici). Sui luoghi delle
apparizioni abbiamo due tradizioni: la tradizione della Galilea (Mc 16,7 e Mt 28,7.16-20, ma anche Gv 21,1-23) e quella
di Gerusalemme (Lc 24,13-43 e Gv 20,19-20. 24-29).

26 Nelle loro narrazioni ci sono riferimenti di tempo e di spazio artificiali, che obbediscono a criteri letterari e teologici,
e non alle severe leggi della storiografia moderna. Matteo è affascinato dalla Galilea, Luca dalla città di Gerusalemme.
Si tratta di un fascino storico-geografico, ma soprattutto teologico.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 100


- Il linguaggio della risurrezione è presente nelle confessioni di fede, nel kerygma e nelle narrazioni
evangeliche (specialmente in Luca e Giovanni). Questo tipo di linguaggio sottolinea il fatto della risurrezione
servendosi di uno schema temporale: l'essere prima morto e l'essere dopo ritornato alla vita. Questo
schema, basato sull'asse «prima-dopo», esprime qualcosa di essenziale: il Risorto (dopo) è lo stesso Gesù di
Nazaret (prima), col quale i discepoli avevano vissuto prima che fosse condannato a morte. Il Risorto è il
Crocifisso.
Questo tipo di linguaggio, da solo, ha dei limiti: non esprime sufficientemente la novità di vita nella quale è
entrato il Risorto. E un linguaggio che potrebbe insinuare che la risurrezione di Cristo sia una semplice
rianimazione, simile alla risurrezione di Lazzaro, del figlio della vedova di Naim o della figlia di Giairo.
Oppure potrebbe lasciar credere che Gesù «vive » nel senso che il suo messaggio e la sua opera
sopravvivono in qualche modo. Ma la fede in Cristo risorto vuole dire altre cose: Cristo non sopravvive solo
nel ricordo, né egli è semplicemente ritornato al nostro tipo di vita per poi morire di nuovo. Gli scritti del
Nuovo Testamento cercano di scongiurare una erronea interpretazione della risurrezione di Cristo espressa
col linguaggio « morte-vita », « prima-dopo » qualificando la nuova vita di Gesù come «vita eterna» (Ap
1,18; Eb 7,24-25) e dichiarando che, «risuscitato dai morti il Cristo non muore più » (Rm 6,9). Si dice inoltre
che il Cristo risorto ha inaugurato un mondo nuovo in quanto è la primizia di coloro che sono morti» (1Cor
15,20-23), il «primogenito tra i morti» (Col 1,18).

- Per esprimere il significato profondo e la novità della risurrezione di Cristo, il Nuovo Testamento dispone
di un altro linguaggio che adopera come parole-chiave quelle di «esaltazione, ascensione, glorificazione » (e
usa verbi tipici come «innalzare, salire, essere assunto, essere condotto in alto »). Questo linguaggio, che
per comodità chiameremo il linguaggio dell'esaltazione, si trova comunemente negli inni, ma è presente
anche nelle confessioni di fede, nel kerygma e nei vangeli (specialmente in Matteo).
Qui lo schema non è più temporale («prima-dopo»), ma spaziale: dal basso all'alto, dalla condizione di
umiliazione-abbassamento a quella di esaltazione-glorificazione alla destra di Dio. L'insistenza cade qui sulla
novità della condizione di Cristo risorto che ora è divenuto Signore dell'universo. Nello stesso tempo, si
lascia intravedere che quanto è successo al Cristo non riguarda solo la sua persona ma tutti gli uomini, e
coinvolge il destino del mondo e della storia.

B. IL SIGNIFICATO DELLA RISURREZIONE DI CRISTO

Premessa: la risurrezione di Cristo è un avvenimento storico?

Abbiamo a lungo ascoltato le testimonianze del Nuovo Testamento, le quali, con linguaggi diversi, parlano
della risurrezione di Cristo. Prima di interrogarci sul significato della risurrezione dobbiamo rispondere a
una domanda preliminare e ineludibile: la risurrezione di Cristo è un avvenimento storico, realmente
accaduto? E’ una domanda di capitale importanza poiché - come dice Paolo - «se Cristo non è risuscitato,
allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede » (1Cor 15,14). Il problema della storicità
della risurrezione è delicato, perché la risurrezione di Gesù non è solo un fatto straordinario, ma è anche un
mistero di salvezza. E il mistero è qualcosa che va al di là della storia e dei suoi metodi di ricerca. Secondo il
Nuovo Testamento, Gesù risorto non muore più. Egli vive per sempre nella gloria del Padre, è esaltato in
cielo, è il Signore della storia, contemporaneo a tutti gli uomini e a tutti i tempi. Usando termini difficili, si
dice che la risurrezione di Cristo è un avvenimento escatologico, l'avvenimento escatologico per eccellenza.
E difficile esprimere con parole umane la realtà del mistero. Eppure bisogna tentare di farlo perché la
nostra fede non è una fede muta. E neppure bisogna rifugiarsi in una fede che abbia paura di fare i conti
con la storia, intendendo la fede come puro « rischio » senza alcun fondamento e garanzia.
La testimonianza del Nuovo Testamento afferma chiaramente che:
- la risurrezione di Cristo è un fatto reale, riguardante il Cristo stesso, e non soltanto la nostra fede in lui;
- il Cristo risorto è lo stesso Gesù storico, sebbene in una condizione assolutamente nuova […].

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 101


Quando ci si interroga sulla storicità della risurrezione di Cristo, molte ambiguità derivano dal non chiarito
significato dell'aggettivo «storico». Per evitare tale ambiguità sarebbe opportuno servirsi di due aggettivi
diversi: « storico » e « reale ». Storico è ciò che si realizza nel tempo e può essere descritto e analizzato coi
metodi di indagine storica, stabilendo delle relazioni di causa ed effetto di tipo empirico. Storico è ciò che
trova analogie all'interno della storia stessa.
C'è però tutta una serie di realtà che è difficile toccare, vedere o scandagliare servendosi dei metodi storici.
Pensiamo, ad esempio, all'amore fra due persone. «L'amore tra due creature è qualcosa di molto "reale"
che fa parte della loro storia. Ma è "storico" visibile, misurabile? Certo, ci sono segni "storici" di questo
amore, tracce visibili, il loro abbracciarsi, il vivere insieme... Ma queste tracce storiche sono, in sé, ambigue.
Bisogna interpretarle rifacendosi alla "realtà" invisibile».
Ecco allora l'opportunità di distinguere fra « storico » e «reale ». « Se riserviamo la parola "storico" alla
conoscenza, alla certezza che possiamo ottenere di questo o di quel fatto, attraverso i metodi storici,
diremo che tutto ciò che è storico è certamente accaduto, ma non tutto ciò che è accaduto è
necessariamente storico. Tutto ciò che è accaduto, in una parola il "reale", ha maggior estensione dello
"storico" » (E. Pousset).
Le testimonianze del Nuovo Testamento vogliono dire che la risurrezione di Gesù è un fatto reale, un
avvenimento carico di significato, che tuttavia va al di là di ciò che è « storico » nel senso spiegato sopra. La
risurrezione di Gesù, infatti, non si spiega col gioco delle cause empiriche. Essa è il frutto della straordinaria
potenza di Dio. La risurrezione non ha analogie con le nostre esperienze, è qualcosa di assolutamente nuovo
come la creazione. La risurrezione di Cristo ha lasciato però delle tracce, mediante le quali entra nella
storia. Si tratta delle apparizioni, della profonda trasformazione dei discepoli, della nascita della comunità
cristiana.
Tutte le testimonianze sulla risurrezione di Cristo in nostro possesso sono attestazioni di un fatto (gli
apostoli si presentano come testimoni, Paolo si appella a testimoni ancora viventi delle apparizioni). Non
sono interpretazioni di un'esperienza soggettiva, giunta lentamente a maturazione, in qualche anima
appassionata e amante. Anche se ammettiamo che l'amore di Pietro e degli altri discepoli per il loro
Maestro avesse superato la tragedia della morte scandalosa di Gesù sulla croce approdando all'annuncio
della risurrezione, resterebbe sempre da spiegare come mai tale convinzione si è potuta formare nei
discepoli. Dal nulla non può nascere qualcosa.

Lo stesso Machovec, un marxista ateo che si è interrogato con sincerità sulla figura di Gesù, non si
nasconde la complessità storica e psicologica del problema quando si domanda: « Come mai i seguaci
di Gesù... furono capaci di superare la terribile delusione, lo "scandalo della croce", approdando anzi a
un'offensiva vittoriosa? Come mai un profeta, le cui predizioni non si erano avverate, è potuto
diventare il punto di partenza della più grande religione del mondo? ».

A chi nega la risurrezione rifiutando come «non storiche» le testimonianze del Nuovo Testamento spetta di
provare, storicamente e psicologicamente, come sia stato possibile che dopo la morte di Gesù sia potuto
risuonare l'annuncio della sua risurrezione. Tra la conclusione infamante della vita di Gesù e la nascita del
cristianesimo c'è un vuoto da colmare. Un sentimento dovette essere comune fra i discepoli all'indomani
della crocifissione di Gesù: «Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele! » (Lc 24,2 1). Delusi e frustrati, i
discepoli tornarono alle loro case e ripresero il lavoro che un giorno avevano abbandonato per seguire il
Maestro. Ma ben presto i discepoli dispersi tornarono a riunirsi, si formò una comunità dinamica e co-
raggiosa.
Bisogna spiegare in modo plausibile questo straordinario dinamismo del cristianesimo delle origini. E per
spiegarlo bisogna risolvere l'enigma della morte di Gesù, avvertita non solo come insuccesso personale, ma
come una catastrofe pubblica della sua opera e come sconfessione divina del suo programma.
Anche se non avessimo alcuna testimonianza sulla risurrezione, dovremmo supporre che tra la morte di
Gesù e la nascita del cristianesimo dev'essere intervenuto un avvenimento capace di trasfigurare la storia
tragica della sua fine sulla croce. Dev'essere intervenuto qualcosa capace di far sì che il « fallimento » della
croce non solo non costituisse un ostacolo alla propaganda della nuova fede, ma diventasse addirittura un
elemento basilare di questa fede e del suo annuncio. L'esperienza di questo avvenimento dovette, inoltre,
essere intensa e chiara in modo da non lasciar adito a dubbi. Da un punto di vista psicologico si richiede
R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 102
un'esperienza la cui intensità positiva sia stata almeno tanto grande quanto lo era stata l'esperienza negati-
va della passione e della morte di Gesù. Come sarebbe stato possibile, diversamente, rivalutare la morte di
un condannato e trasfigurarla al punto che questa morte non fosse più segno di maledizione da parte di
Dio, ma strumento di salvezza? Perché allora dovremmo essere scettici di fronte all'attestazione unanime
della risurrezione di Cristo presente nelle più antiche confessioni di fede (1Cor 15), nella primitiva
predicazione degli apostoli (Atti), nella catechesi (vangeli) e nella prima riflessione teologica (Paolo e
Giovanni)?
«Lanciare il ponte che colleghi la morte di Gesù con la nascita del cristianesimo è impresa ben più ardua di
quanto vogliano far credere tutti i "critici" uniti. Tutti, infatti, si arenano al momento di gettare la passerella
tra l'oscuro Gesù della storia e lo sfolgorante Cristo della fede ».
La negazione della risurrezione di Cristo non nasce forse spesso da una serie di pregiudizi? Non è spesso il
frutto di decisioni soggettive in base alle quali si stabilisce aprioristicamente ciò che è possibile e ciò che è
impossibile, e poi, in base a questi criteri soggettivi, si passa a valutare le testimonianze storiche?

La risurrezione di Cristo è un avvenimento carico di significato

1. Il significato più evidente che gli apostoli percepirono nella risurrezione fu la risposta divina all'ingiustizia
umana che aveva condannato Gesù. «Voi l'avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l'avete ucciso -
dichiara Pietro nel giorno della Pentecoste -. Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della
morte » (At 2,23; cfr. At 3,14ss; 4,10; 5,30ss ecc.).
La risurrezione è così rivelazione di Dio che sta dalla parte del debole e di chi fa della sua vita un totale dono
d'amore agli altri. Con la risurrezione, Dio riabilita pubblicamente Gesù e la sua opera: «Il maestro di falsità
si rivela maestro dotato di pieni poteri e dell'autorità di insegnare la via. Il profeta di menzogne, profeta
veritiero. Il bestemmiatore di Dio, santo di Dio. Il seduttore, giudice finale del popolo».
Nasce allora l'interesse per la storia di Gesù di Nazaret, per la sua passione (la prima sezione dei vangeli che
venne messa per iscritto fu la storia della passione), per tutto ciò che egli disse e fece durante la sua vita
terrena. Se Dio, risuscitando Gesù da morte, lo approva in tutto, occorre sapere di più su di lui. Sarà questo
interesse a far sì che il messaggio e l'attività di Gesù vengano raccolti e narrati nei vangeli. Tutte le
testimonianze su Gesù saranno filtrate attraverso l'avvenimento della risurrezione. Essa infatti, conferisce
profondità di significato e validità perenne al parlare, all'agire, al vivere e al morire del Gesù storico. La
risurrezione spiega il mutamento di prospettiva che si avverte confrontando la predicazione di Gesù e
quella della Chiesa apostolica. Con la risurrezione, «colui che chiamava alla fede si è fatto contenuto della
fede. Dio si è identificato per sempre con colui che si identificava con Dio... Torna così a risuonare il
messaggio del regno di Dio che viene, ma in una forma nuova: con la sua morte e con la sua nuova vita
Gesù è entrato nel messaggio e ora ne forma il nucleo centrale... Anziché di un generico "annunciare il
regno di Dio", si parlerà oramai, sempre più incisivamente, di un "annunciare Cristo" ».

2. La risurrezione di Cristo è azione sovrana della potenza di Dio, il quale «dà vita ai morti e chiama all'esi-
stenza le cose che ancora non esistono » (Rm 4, 1 -17). Per parlare della risurrezione di Cristo, il Nuovo
Testamento usa spesso verbi attivi dei quali Dio è soggetto (Dio ha risuscitato Gesù»). Talvolta si usano
verbi al passivo, ma anche in questo caso l'agente è Dio («Gesù è stato risuscitato»). Più che di risurrezione
bisognerebbe parlare di risuscitazione o di risuscitamento. Questo linguaggio non nega la divinità di Cristo.
Semplicemente ne mette in risalto l'umanità, poiché è proprio questa umanità del Cristo che è oggetto di
«risuscitamento» da parte di Dio Padre. Come soggetto attivo di risurrezione, Gesù è testimoniato dagli
scritti più tardivi del Nuovo Testamento, e specialmente dal vangelo di Giovanni (cfr. Gv 10, 18).

3. Con la risurrezione, Gesù è «costituito Figlio di Dio con potenza» (Rm 1,3-4). Altri testi dicono che Cristo
risorto «sta alla destra del Padre» (Rm 8,34. Cfr. Eb 1,3; 12,2 ecc.). Queste espressioni indicano che Gesù è
entrato in una nuova situazione. Egli, trasfigurato dallo Spirito, è associato alla potenza e alla gloria di Dio.
Tutto ciò, evidentemente, riguarda l'umanità di Cristo che diventa totalmente trasparente all'azione dello
Spirito e può rispondere al Padre con tutto il suo essere umano trasfigurato.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 103


Il Cristo risorto viene anche a trovarsi in una nuova situazione di rapporti col mondo, con la Chiesa e con i
suoi discepoli. Qui sta il significato profondo della risurrezione corporale. « Risurrezione corporea significa
che l'intera persona del Signore si trova definitivamente presso Dio. Ma significa anche che il Risorto
mantiene il suo riferimento al mondo e a noi... Il carattere corporeo della risurrezione non significa quindi
altro se non che Gesù, con la sua intera persona, ora si trova definitivamente presso Dio e in mezzo a noi in
modo nuovo».
C'è un titolo dato a Gesù che esprime questa sua nuova situazione. E’ il titolo di « Signore ». Esso indica sia
l'uguaglianza con Dio, sia il dinamismo di salvezza che si sprigiona dal Risorto. Egli, «innalzato alla destra di
Dio, dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo.... lo ha effuso » (At 2,32). D'ora in poi lo Spirito sarà
chiamato « Spirito di Cristo». Donando lo Spirito, il Cristo diventa salvatore nel senso più profondo della
parola. Egli può rendersi presente a tutti gli uomini con la sua forza salvifica. Non ci sono più barriere che
possano ostacolare il suo cammino. L'incarnazione giunge al suo culmine perché l'umanità di Cristo è dotata
della potenza salvifica di Dio stesso. Ed è anche la creazione intiera che, anticipatamente, raggiunge, in
Cristo risorto, la sua meta: «Con la risurrezione ed elevazione di Gesù un "frammento del mondo è giunto
definitivamente a Dio e da Dio è stato definitivamente accolto». In questo senso alcuni teologi parlano della
risurrezione di Cristo come «prolessi» (anticipazione) del compimento finale del disegno di Dio.

4. La risurrezione di Cristo riguarda innanzitutto lui. Ma riguarda anche noi e tutta la vicenda umana. Ciò
che è avvenuto in Cristo risorto è per noi un segno anticipatore. Nel Risorto intravediamo la meta del
nostro cammino. E chi intravede la meta finale è in grado di leggere anche il significato della vicenda
umana, personale, collettiva, storica. Nel Risorto «contempliamo... una vita di uomo riuscita, quale Dio
l'aveva sognata per noi, il mattino della Genesi: un uomo che esiste nella trasparenza totale con se stesso,
che esiste totalmente aperto verso Dio e verso gli altri, senza limitazioni, in comunione con tutti gli esseri e
con l'intiero universo, poiché il suo corpo spiritualizzato non è più limitazione ma mezzo di comunicazione
con tutti, perché è assorbito nella gloria di Dio».
Innanzitutto la morte e la sofferenza umana cessano di essere un assurdo, pur continuando a essere un
mistero. Quell'assurdo così acutamente avvertito, tra gli altri, da C. Pavese che nel suo diario annota: « Ma
la grande, la tremenda verità è questa: soffrire non serve a niente ». E più avanti: «Nulla può consolare
della morte». Pavese ha però intravisto qualcosa degli orizzonti della fede, anche se il suo sguardo è solcato
dal dubbio: «Forse è tutto qui: in questo tremito del "se fosse vero". Se davvero fosse vero... ». Il Cristo
risorto ci assicura che è vero. E ce lo attestano innumerevoli persone che hanno camminato e continuano a
camminare nella luce della risurrezione.

Teilhard de Chardin era così penetrato dal senso della risurrezione da desiderare di morire il giorno di
Pasqua. Il suo desiderio sarà esaudito il giorno di Pasqua del 1955. Il pastore luterano D. Bonhoeffer,
impiccato dai nazisti il 9 aprile 1945 all'età di 39 anni, si congedò dai compagni di prigionia con queste
parole: «Questa è la fine». Poi prontamente soggiunse: «Per me è l'inizio della vita».

Anche i pagani compresero presto che la risurrezione di Cristo era per i cristiani motivo di speranza
incrollabile nelle situazioni più disperate. Gli Atti dei martiri di Lione riferiscono che i persecutori pagani
bruciarono i corpi dei martiri e gettarono le ceneri nel Rodano con questa motivazione: «Non dobbiamo
lasciare ai cristiani la speranza della risurrezione. A causa di questa credenza, essi introducono tra noi una
nuova religione straniera, disprezzano i supplizi e sono pronti ad affrontare gioiosamente la morte ».

5. La risurrezione fonda la speranza del credente. Attendiamo da Cristo il compimento e la pienezza di


quanto vediamo anticipato nella sua risurrezione gloriosa. La speranza non è attesa passiva. E’ impegno
attivo per trasformare tutto ciò che è opaco rispetto al futuro mondo della risurrezione. «Colui che spera si
rende segno attivo della speranza nella vita».
La risurrezione di Cristo dischiude possibilità inedite e orizzonti sconfinati di speranza. Lo riconosce anche
un non cristiano, che però nutre molta simpatia per Gesù: « Cristo è venuto per aprire una breccia a tutti i
nostri limiti... Ciascuno dei miei atti liberatori e creatori implica il postulato della risurrezione. E’ più di ogni
altro l'atto rivoluzionario» (R. Garaudy).

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 104


Credere in Cristo risorto implica non solo l'accettazione di un f atto del passato (Cristo è risorto!) e di un
avvenimento futuro (anche noi risorgeremo!). La risurrezione concerne il presente. Con la risurrezione è
entrata nel mondo la forza stessa di Dio che f a nascere la vita dalla morte. Il Risorto cammina con noi,
lungo le strade del mondo, per infrangere tutte le barriere che impediscono la vita e soffocano la speranza.

« La risurrezione è l'espressione permanente dell'impegno irrevocabile di Dio con noi... Pertanto,


credere nella risurrezione non è credere a una cosa, ... ma credere a Qualcuno che opera in noi e per noi
con potere immenso, capace di far uscire la vita dalla morte, di far diventare nuovo quello che è vecchio,
orientandoci verso un futuro di dimensioni smisurate» (C. Mesters).

Un magnifico testo di Paolo esprime la grande speranza che il credente vede scaturire dalla risurrezione di
Cristo:

«Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per
tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. Chi
condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi?
Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la
nudità, il pericolo, la spada?... Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci
ha amati» (Rm 8,31-35.37).

Un altro testo, proveniente dall'ultimo libro del Nuovo Testamento, mette sulla bocca del Risorto queste
parole:

«Non temere! Io sono il Primo e l'Ultimo e il Vivente. Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere
sopra la morte e sopra gli inferi» (Ap 1,17-18).

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 105


III PARTE

APPROFONDIMENTI

8. LA BIBBIA o SACRA SCRITTURA


9. ISPRIRAZIONE – VERITA’
10. INTERPRETAZIONE
11. LA SACRA SCRITTURA NELLA VITA DELLA
CHIESA

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 106


8. LA BIBBIA O SACRA SCRITTURA

A. IL LIBRO DELLA BIBBIA


B. IL LIBRO DELLA BIBBIA SIGNIFICATO DEI TERMINI
C. LE LINGUE DELLA BIBBIA
D. LA BIBBIA DEGLI EBREI – LA BIBBIA DEI CRISTIANI CATTOLICI – LA BIBBIA DEI CRISTIANI PROTESTANTI
E. LA BIBBIA EBRAICA O TANAK
F. LA BIBBIA GRECA (LXX O CANONE ALESSANDRINO)
G. LA BIBBIA DELLA CHIESA CRISTIANA CATTOLICA E IL SUO MESSAGGIO

A. IL LIBRO DELLA BIBBIA

La Bibbia è il libro più diffuso e più tradotto nel mondo. E' anche uno dei libri più antichi che si conosca. E'
senza dubbio il libro che ha lasciato le tracce più significative nel cammino dell'umanità. Arte, letteratura,
musica, vita e costumi dei popoli si sono ispirati alla Bibbia, da essa sono stati plasmati e hanno tratto
nutrimento.

La Sacra Scrittura è un libro sacro per un numero indescrivibile di persone, che da tanti secoli, hanno
ispirato ad essa la loro vita, nutrendo la loro fede e edificando le loro comunità. la Bibbia è il documento
centrale della religione ebraica (Tanak) e di quella cristiana (AT+NT); ma anche il mondo islamico ne ha
stima.
Per tutti i cristiani è Parola di Dio (cf. Dei Verbum). C'è da chiedersi allora quale sia il segreto della Bibbia,
da che cosa essa tragga la capacità di segnare così profondamente la storia del mondo e delle persone.
Una prima immediata risposta è che essa è la Parola che Dio ha fatto risuonare nel tempo, nelle parole dei
profeti, di Gesù e degli apostoli, e porta con sé un messaggio straordinario: la rivelazione che Dio ha fatto
di sé all'umanità e il disegno di amore che egli va costruendo e attuando nella storia.
Essa presenta il mistero della di Dio, e contemporaneamente quello dell’”uomo”, non in modo astratto e
teorico, ma mediante narrazioni da cui emergono le domande fondamentali: perché c’è il male, la
violenza, la sofferenza, i disastri ambientali, la morte? Dio che volto ha? Come si concilia la bontà di Dio
con l’immenso dolore del mondo? Essa affronta le domande esistenziali che assillano e inquietano ogni
uomo e che richiedono una risposta per poter vivere.

A motivo delle domande profonde che suscita, la Bibbia ha molto da dire anche al non credente che c’è
dentro ogni uomo. Essa è una grande opera letteraria, un testo classico, letterario e storico che parla a
tutti e sprigiona “scintille di senso” a chi si dispone all’ascolto di ciò che narra.
La Bibbia è per l’uomo: per chi porta in sé domande e dubbi, speranze e certezze; è per chi non smette mai
di cercare con tenacia e passione il senso profondo della vita.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 107


B. IL SIGNIFICATO DEI TERMINI

La parola Bibbia viene dalla parola greca biblos, che vuol dire libro, o meglio, libretto. Usata come titolo al
plurale «Biblia», significa I libri/libretti, così chiamata perché è composta di molti libri di vario genere,
scritti in tempi diversi da molti autori.

I titoli Antico Testamento o Primo Testamento (erronea la voce «Vecchio Testamento») e Nuovo
Testamento sono stati introdotti dopo che la Bibbia fu completata. Il termine Testamento traduce la
parola ebraica Berit, tradotta in greco con Diatheke e in latino con Testamentum che significa Alleanza-
Patto.

→ Nell’Antico Testamento si fa riferimento all’Alleanza, al patto di amicizia che Dio ha stipulato con Noè
(cf. Gen 6,18; 9,8-17), con Abramo (cf. Gen 15,18; 17,1-9), con il popolo d’Israele al Sinai (cf. Es 24,3-8).
Israele rompe più volte l'alleanza, ma Dio la rinnova continuamente lungo la sua storia, fino a promettere
attraverso la bocca del profeta Geremia un tempo in cui sancirà un' «alleanza nuova» che non potrà mai
venir meno perché sarà scritta nel cuore:

Questa sarà l'alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia
legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo (Ger 31,33).

→ Nel Nuovo Testamento si fa riferimento a questa nuova e definitiva Alleanza che si compie in Gesù.
Attraverso di lui, la sua vita, morte e risurrezione l’uomo ridiventa capace di scoprire in modo
luminosissimo la paternità di Dio e riceve la forza di rispondergli con cuore filiale.

Tutti i libri che formano l’AT sono stati scritti prima della nascita di Cristo (dal X sec aC. al 50 aC.) quelli del
NT dopo la nascita di Cristo (dal 50 dC. al 110 dC.).

C. LE LINGUE DELLA BIBBIA

Le lingue in cui è stata scritta la Bibbia sono tre: ebraico, aramaico, greco.
L’Antico Testamento è stato scritto quasi tutto in ebraico ad eccezione di alcune parti molto limitate
scritte in aramaico: Daniele 2,4-7,28 e di Esdra 4,8-6,18; 7,12-26. In greco abbiamo i libri di Tobia,
Giuditta, 1-2 Maccabei, Baruc, Siracide, Sapienza.

La lingua ebraica è una lingua semitica consonantica che si scrive da destra a sinistra. È costituita solo da
22 consonanti: il lettore che conosceva la lingua, vedendo le consonanti pronunciava le parole leggendole
con le vocali. Solo molto più tardi i masoreti – secolo IX d.C. – vocalizzarono il testo biblico aggiungendo
le vocali (sistema di lineette e puntini posti sotto le consonanti), per evitare errori nella lettura. Gli ebrei
della diaspora, non conoscendo bene l’ebraico, avrebbero potuto fare delle letture scorrette. Il testo
dell’AT ebraico vocalizzato si chiama testo masoretico.

Il Nuovo Testamento è scritto nel greco della koinè, lingua popolare diffusa anche in Oriente dalle
conquiste di Alessandro Magno. L’aramaico è la lingua semitica che gradualmente sostituì l’ebraico tra il
700 e il 300 a.C.: è la lingua parlata da Gesù e dagli Apostoli. L’ebraico resta la lingua del culto.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 108


IL TESTO IN EBRAICO: GENESI 1, 1SS

IL TESTO IN GRECO: IL PADRE NOSTRO

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 109


D. LA TANÂK DEGLI EBREI – LA BIBBIA DEI CRISTIANI CATTOLICI – LA BIBBIA DEI CRISTIANI
PROTESTANTI

LA BIBBIA NON È UGUALE PER TUTTI

EBREI – TaNâK CHIESA CRISTIANA CHIESE CRISTIANE


CATTOLICA PROTESTANTI
Canone ebraico Riprende il canone Riprendono il canone
ebraico e parte della ebraico per l’AT.
LXX o canone
alessandrino
39 libri in ebraico- 39 libri in ebraico- 39 libri in ebraico-
aramaico aramaico aramaico

Torah = Pentateuco Pentateuco Pentateuco


Antico N Nebiim = Profeti Libri storici Libri storici
anteteriori + Libri profetici
Testamento Profeti posteriori Libri profetici Libri sapienziali
Ketubim = Scritti Libri sapienziali
+
7 libri in greco (LXX)
---------- Tobia-Giuditta- --------
1-2Maccabei–Baruc-
Qoelet- Sapienza

39 46 39

EBREI CHIESA CR. CATTOLICA CHIESE CR. PROTESTANTI


27 libri in greco 27 libri in greco
Vangeli Vangeli
Atti degli Apostoli Atti degli Apostoli
Lettere di Paolo Lettere di Paolo
Lettere cattoliche Lettere cattoliche
Nuovo Giacomo Giacomo
Testamento 1-2Pietro 1-2Pietro
1-2-3Giovanni 1-2-3Giovanni
Giuda Giuda

Apocalisse Apocalisse

*** 27 27

LIBRI
39 73 66
TOTALE

- Gli Ebrei considerano sacri e ispirati solo i testi più antichi dell’Antico Testamento scritti in ebraico. Non
riconoscono i 7 libri scritti in greco: Tobia – Giuditta - 1-2 Maccabei – Baruc – Siracide - Sapienza.
- La Bibbia dei cristiani-cattolici ha 73 libri, quella delle chiese cristiane-protestanti ne ha 66, quella degli
ebrei ne ha solo 39. La Bibbia dei cristiani-cattolici riconosce oltre all’AT ebraico altri 7 libri presi dalla
Bibbia della LXX.
- I cristiani-protestanti seguono per l’AT la Bibbia degli Ebrei, ma per il NT seguono l’elenco della Chiesa
cattolica.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 110


E. LA BIBBIA EBRAICA O TANÂK

1. TORAH o LEGGE
 Comprende il Pentateuco (i primi cinque libri della Bibbia):
Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio.

2. NEBI’IM o PROFETI
 Comprende I profeti anteriori (corrispondono a quelli che la Bibbia greca chiama libri storici ):
Giosuè; Giudici; 1-2 Samuele; 1-2 Re.
 I profeti posteriori: Isaia, Geremia, Ezechiele (Daniele è posto tra gli Scritti perché è un
apocalittico) e I 12 profeti minori : Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc,
Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia.

3. KETUBIM o SCRITTI
Comprendono per la maggior parte I libri sapienziali: Salmi, Giobbe, Proverbi; i cinque megillot o rotoli:
Cantico Rut, Lamentazioni, Qoelet, Ester; i libri di Daniele, Esdra, Neemia, 1-2 Cronache.

Per un ebreo non esiste la parola "Bibbia" né, com'è ovvio la parola “Antico Testamento”, ma
semplicemente la “TaNaK”. Questa parola è una sigla, composta dalla prima lettera delle tre parole:
Toràh, Nebiìm, Ketubìm, con l'aggiunta di una doppia "a". Dunque TaNaK è termine che designa la bibbia
ebraica.

- La Toràh (Legge)
Genesi (Bereshit=In principio); Esodo (Shemot= Questi sono i nomi), Levitico (Wa-jqra’=E [JHWH] chiamò
Mosè), Numeri (Ba-midbar=Nel deserto), Deuteronomio (Devarim=Queste sono le parole). E’ ciò che i
cristiani-cattolici chiamiamo il Pentateuco. Il libro della Toràh può essere tradotto da più termini: "Legge",
ma anche "ammaestramento", "istruzione". Nella Toràh l'ebreo trova tutto ciò che è chiamato a essere: la
sua identità religiosa (di popolo di JHWH), storica (di popolo con una terra propria), sociale (di comunità di
fratelli). La Toràh è pertanto la carta d'identità e la carta costituzionale dell'ebreo religioso. Rimanervi
fedeli è per lui ragione di vita o di morte. Per un ebreo la Toràh è la rivelazione definitiva di Dio, è Parola di
Dio. Non c'è per lui Parola più alta e quindi autoritativa della Toràh.

I Nebiìm sono i "profeti", coloro che hanno attuato le promesse di Dio:


- Profeti anteriori: Giosuè, Giudici, Samuele (1 e 2 uniti), Re (1 e 2 uniti). Per i cristiani-cattolici questi testi
sono classificati nei testi storici.
- Profeti posteriori: Isaia, Geremia, Ezechiele, I dodici profeti minori (Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona,
Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia). Per i cristiani-cattolici questi testi sono
classificati come libri profetici

I Ketubìm, cioè gli "Scritti" comprendono testi poetici, sapienziali, storici, apocalittici, ecc: Salmi (o Inni),
Giobbe, Proverbi, Rut, Cantico dei cantici, Qoèlet, Lamentazioni, Ester, Daniele, Esdra-Neemia (uniti),
Cronache (1 e 2 uniti).

Dalle tre collezioni gli ebrei escludono sette libri che invece sono presenti nella Bibbia cristiana (detti
«deuterocanonici»: Tobia, Giuditta, 1 e 2 Maccabei, Sapienza, Siracide, Baruc (+ parti di Ester e Daniele).
La tradizione ebraica, risalente al primo secolo d.C., non ritiene di poterli annoverare nella Tanàk perché
non sono antichi. Questi testi sono invece riconosciuti dalla Chiesa cattolica perché presenti nella versione
greca dell'Antico Testamento detta dei Settanta (LXX), sorta in ambiente ebraico ellenistico, ad Alessandria
d' Egitto, a partire dal terzo secolo aC. e perché sia Gesù che gli apostoli leggevano questi testi.
R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 111
F. LA BIBBIA GRECA (LXX – O CANONE ALESSANDRINO)

Edizione antica dell’Antico Testamento ( in uso al tempo di Gesù)

Presenta la traduzione in greco del testo ebraico dell’AT più un’altra serie di testi scritti in greco. E’ molto
più ampio del canone ebraico. L’articolazione dei libri segue criteri meno teologici e più letterario-formali;
presenta un ordine diverso dal canone ebraico e dal canone della Bibbia cattolica. La Chiesa cattolica ne
riconosce 7 nel suo canone (vedi nomi sottolineati).

 Pentateuco che equivale alla Torah


 Libri storici: Giosuè, Giudici, Rut, 1-4 Re, 1-2 Cronache, 1 Esdra, 2 Esdra (=Esdra e Neemia), Ester (con
integrazioni), Giuditta; Tobia, 1-2-3-4 Maccabei.
 Libri sapienziali : Salmi, Proverbi, Qoelet, Cantico, Giobbe, Sapienza di Salomone, Siracide, Odi di
Salomone
 Profeti maggiori: Isaia, Geremia, Ezechiele, Daniele (con aggiunte)
 I dodici profeti minori: Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo,
Zaccaria, Malachia
 Lettera di Geremia e di Baruc

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 112


G. LA BIBBIA DELLA CHIESA CRISTIANA CATTOLICA
MESSAGGIO TEOLOGICO

I libri dell’ANTICO TESTAMENTO (AT):

 PENTATEUCO: Genesi (Gen), Esodo (Es), Levitico (Lv), Numeri (Nm),


Deuteronomio (Dt).

 LIBRI STORICI: Giosuè (Gs), Giudici (Gdc), Rut (Rt), 1 e 2 Samuele (Sam), 1 e 2
Re, (Re), 1 e 2 Cronache (Cr), Esdra (Esd), Neemia (Ne), Tobia (Tb), Giuditta
(Gdt), Ester (Est), 1 e 2 Maccabei (Mac).

 LIBRI POETICI E SAPIENZIALI: Giobbe (Gb), Salmi (Sal), Proverbi (Pr), Qoèlet
(Qo), Cantico dei Cantici (Ct), Sapienza (Sap), Siracide (Sir)

 LIBRI PROFETICI:
o maggiori: Isaia (Is), Geremia (Ger), Lamentazioni (Lam), Baruc (Bar),
Ezechiele (Ez), Daniele (Dn).
o minori: Osea (Os), Gioele (Gl), Amos (Am), Abdia (Abd), Giona (Gn),
Michea (Mi), Naum (Na), Abacuc (Ab), Sofonia (Sof), Aggeo (Ag),
Zaccaria (Zc), Malachia (Mi)

I libri del NUOVO TESTAMENTO (NT)

 VANGELI: Matteo (Mt); Marco (Mc); Luca (Lc); Giovanni (Gv)

 ATTI DEGLI APOSTOLI (At)

 LETTERE DI PAOLO: Romani (Rm), 1 e 2 Corinti (Cor), Galati (Gal), Efesini (Ef),
Filippesi (Fl), Colossesi (Col), 1 e 2 Tessalonicesi (Ts), 1 e 2 Timoteo (Tm),
Tito (Tt), Filemone (Fm), Ebrei (Eb)

 LETTERE CATTOLICHE: Giacomo (Gc), 1 e 2 Pietro (Pt), 1,2,3 Giovanni (Gv),


Giuda (Gd)

 APOCALISSE (Ap)

Questo insieme di libri costituisce il CANONE BIBLICO della Chiesa cattolica, solennemente definito come
sacro e ispirato dal Concilio di Trento (1546).
Il termine «canone» deriva dal greco kanon che a sua volta deriva dal sumero; il significato originario di
questa parola era 'canna', tale termine veniva usato per indicare il bastone o la sbarra usata da muratori e
carpentieri per le misurazioni. Nell'uso cristiano, verso il II-III secolo d.C. assume il significato di «norma»,
«regola» e viene usato in riferimento alla «verità rivelata» o alla «regola della fede». Nel IV secolo il
termine passa a significare l'elenco normativo dei libri ispirati; poichè le Sacre Scritture contengono la
«regola della fede» furono anch'esse chiamate «canone». Un libro canonico è un libro che è stato
riconosciuto come appartenente alla lista dei libri che la chiesa considera ispirati e quindi normativi per i
credenti.
R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 113
Presentiamo brevemente il «messaggio teologico» dei libri più importanti dell’Antico e del Nuovo
Testamento.

1. IL MESSAGGIO DELL’ANTICO TESTAMENTO (O PRIMO TESTAMENTO)

1. Il PENTATEUCO comprende cinque libri (pente in greco significa cinque, teuchos significa libro) che, pur
non essendo i più antichi, costituiscono il fondamento dell’identità del popolo di Israele: Genesi, Esodo,
Levitico, Numeri, Deuteronomio. Presentano, dopo il racconto delle origini del mondo e dell’umanità, la
storia di Israele dall’epoca dei Patriarchi fino all’esperienza dell’Esodo compiuta: il libro del Deuteronomio
finisce con la morte di Mosè sul Monte Nebo dal quale si vede la valle del Giordano e tutta la Terra
promessa.

* La GENESI è suddivisa in due grossi parti: i capitoli 1-11 presentano il racconto delle origini dell’universo e
dell’uomo e i capitoli 12-50 raccontano l’inizio della storia della salvezza.

I- Il racconto delle Origini del mondo e dell’uomo/umanità (capitoli 1-11)

- I primi due capitoli della Genesi (Gen 1-2) narrano attraverso un «linguaggio simbolico e mitico» e
secondo le categorie della cosmologia antica, la creazione dell’universo e dell’uomo/umanità (Adam).
Vengono presentati due racconti di creazione, il primo appartiene alla tradizione Sacerdotale (Gen 1,1-2,4)
ed è del sec. V aC.); il secondo racconto della creazione appartiene alla tradizione Jahvista (Gen 2,4b-25) ed
è più antico, sec. X.

Il primo racconto di creazione (Gen 1,1-2,4) è un inno a Dio che crea ogni cosa con la forza della sua Paola,
Dio parla, comanda e tutto esiste. La creazione è presentata come l'azione ordinatrice e separatrice di Dio
che domina il caos primordiale rappresentato dalla "terra informe e deserta" e dalle "tenebre che
ricoprivano l'abisso". Il cosmo in tutte le sue componenti obbedisce alla parola di Dio che lo costituisce in
essere. Ogni opera è collocata all'interno di sei giorni e il settimo Dio si riposa. Dio inizia a creare le cose più
semplici e poi via via quelle più complesse. L'ultimo a essere creato è l'uomo culmine e coronamento della
creazione. Ritornano lungo l'intero capitolo sempre le medesime espressioni, quasi come una litania ("E Dio
disse…", "Dio disse che era cosa buona", " Fu sera fu mattina, primo giorno; … secondo giorno… terzo
giorno…ecc.). L'intenzione dell'autore sacerdotale è quella di richiamare l'attenzione sulla bontà e bellezza
del creato e sulla infinita grandezza del creatore.

Il secondo racconto di creazione (Gen 2,4b-25) è espresso in modo diverso. L'interesse della narrazione si
dirige solo sull'uomo, tutto il resto interessa solo in quanto è l'ambiente dell'uomo. Abbiamo qui
l'immagine di Dio che forma l'uomo dalla polvere del suolo e soffia nelle narici un alito di vita. Dà forma
all’uomo come il vasaio dà forma ad un vaso e poi crea la donna dalla costola dell’uomo. L'uomo è posto in
un giardino pieno di alberi, riceve il permesso di mangiare di tutti frutti eccetto quello dall'albero della
conoscenza del bene e del male (divieto). Il testo narrativo è fortemente «simbolico», ma il significato
teologico è elevatissimo: l’uomo e la donna sono chiamati ad una relazione specialissima con Dio, a loro è
affidato il mondo, non devono però usurpare il posto di Dio (credersi onnipotenti!). Questo è il senso del
divieto di non mangiare il frutto! Non sono loro all’origine di tutto! E’ Dio solo che istituisce l’ordine del
bene e del male.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 114


I racconti di creazione sono in conflitto con la scienza?

Il racconto biblico con questi due racconti di creazione molto antichi non entra in conflitto con la scienza:
siamo su due piani differenti. E’ possibile accettare le posizioni scientifiche che appartengono alla nostra
cultura e nello stesso tempo accogliere l’insegnamento biblico sulla «creazione». Scienza e fede
appartengono a due ordini di conoscenza diversa.

→ I racconti biblici presentano le origini del mondo nel quadro delle concezioni cosmologiche del tempo e
usano un linguaggio mitico per rispondere alle domande del «Perché?», per riflettere sulla causa prima:
Perché il mondo esiste? Qual è la sua origine? Ha una finalità? Rientra in un progetto? Ha un autore? Perché è
stato creato l’uomo? Da dove viene il male?
La domanda che si pone la Bibbia, la teologia, la fede è dunque una domanda sulla «finalità»: ci si interroga
sulla «causa prima, trascendente, sul suo autore», sul «senso» si tutto ciò che esiste.

→ La scienza invece si interroga invece sul «come», sulla cause seconde. Come è avvenuto il processo
evolutivo? Come si possono spiegare certi fenomeni? Quali modelli cosmologici si possono pensare? Quali
cause li hanno prodotti? La scienza propone le sue ipotesi e se anche indaga sull’ «inizio» (big-bang; l’istante
zero; la particella di Dio ecc…), questo inizio è sempre un «inizio relativo» perché non può andare al di là del
tempo fisicamente riconoscibile.

- Dal capitolo tre al capitolo undici del libro della Genesi (Gen 3-11) vengono presentati in successivi quadri
narrativi il peccato dell’uomo che devasta la creazione buona di Dio.
L’uomo rifiuta la comunione con Dio (l’uomo si ritiene onnipotente): (Gen 3); questa rottura del rapporto
con Dio si vede nel fatto che «il fratello (Caino) uccide il fratello (Abele)» (Gen 4); «la violenza» come un
«diluvio» devasta la creazione di Dio (Gen 6-9); e la corruzione segna la prima umanità (Gen 11: episodio
«torre di Babele»).
L’uomo spezza l’armonia con la creazione e causa l’ingresso della violenza nelle relazioni umane. Il racconto
genesiaco intende affermare che il peccato e il male sconvolgono la storia umana solo a motivo della
responsabilità dell’uomo! Il male non distrugge però il progetto di Dio perchè Dio non abbandona l’uomo: il
racconto simbolico di Noè, uomo di Dio, che sopravvive al diluvio grazie all’«arca», e attraverso il quale la
vita ricomincia, diventa segno di quella salvezza futura che si compirà nel Signore Gesù.

Il genere letterario del racconto delle origini (Cf. Dei Verbum)

Questo racconto delle «origini» (Gen 1-11) va letto come «eziologia metastorica» in quanto si racconta con un
linguaggio simbolico ciò che è fondativo della storia di sempre. L’uomo di ieri, come l’uomo di oggi è chiamato a
vivere tre relazioni fondamentali che sono per lui costitutive: la piena comunione con Dio, la comunione con gli
altri e il rispetto del creato.

II- L’inizio della storia della salvezza (capitoli 12-50)

I capitoli 12-50 iniziano quella « storia della salvezza» (Cf. Schemi Dei Verbum) che comincia con Abramo
e culmina nel Signore Gesù. Dio si rivela e parla ad Abramo per formarsi un popolo a cui legarsi con un
rapporto di alleanza offrendogli la sua «benedizione», che è il suo aiuto incondizionato e la sua
benevolenza senza limiti. L’«elezione» di Abramo e del popolo che uscirà dalle sue viscere, non è fine a se
stessa, ma è in vista di una benedizione universale che non esclude nessuno. Il dialogo con Dio, che era
stato interrotto ricomincia. Abramo, il capostipite del futuro popolo ebraico, è il primo a reintrodurre nel
mondo l’obbedienza della fede. Lo stesso faranno i suoi figli: Isacco, Giacobbe (dal quale nascono gli
antenati delle dodici tribù che formeranno il futuro popolo di Israele cf. Gen 12-36) e Giuseppe penultimo
figlio di Giacobbe, la cui vicenda viene narrata negli ultimi capitoli della Genesi (Gen 37-50).

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 115


* Nel libro dell'ESODO (Es) è raccontato «l’evento fondatore» che farà d’Israele il «popolo di Dio». Questo
libro tratta dell’ «uscita» d’Israele dalla «schiavitù» e dall’oppressione dell’Egitto, per entrare in una nuova
situazione di «libertà» che lo condurrà alla terra promessa, il cui ingresso verrà raccontato nel libro di
Giosuè e Giudici. - Si divide in tre parti: I- Es 1-15 la liberazione dalla schiavitù egiziana; II- Es 16-18: il
cammino d’Israele nel deserto; III - Es 19-40 l’«alleanza» con Dio.

I- La prima sezione del racconto esodico (Es 1-15) è quella dell'uscita (in greco: èxodos) degli Ebrei
dall'Egitto, dove erano caduti in schiavitù. A liberarli è Mosè, sostenuto dalla forza di Dio, che si rivela a lui
con il nome di JHWH27. Abbiamo qui nella narrazione il confronto-scontro tra la potenza del Dio degli
ebrei e la potenza del faraone. Due potenze paradossali, asimmetriche. La «potenza del Dio d’Israele» è
quella della sua parola inerme, sollecitata dalla compassione per chi soffre, mentre «la potenza del
faraone» è quella delle armi organizzate in esercito. La storia dell’esodo è la storia della discesa in campo
di un Dio “straordinario” che prende le difese degli oppressi, liberandoli e stabilendo con loro un patto
particolare o alleanza. La «schiavitù» è simbolo a livello teologico, del peccato e del male che annientano
la libertà dell’uomo.

Es 3,7-8 Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei
suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell'Egitto e per farlo
uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele...».

Il Dio d’Israele trionfa non perché dispone di più forza, ordine e potenza ma perché Lui è «altro» dalla
forza, dall’ordine e dalla potenza; è «compassione» e «misericordia», è «relazione d’amore»
gratuitamente offerta a chi versa nel bisogno e nella sofferenza. La meta è la «terra promessa»,
geograficamente e la terra di Canaan (futura Palestina), ma a livello teologico, questa «terra» è il luogo
della piena comunione con Dio, dove l’uomo è liberato da ogni tipo di schiavitù e di male.

II- La seconda parte del racconto è la narrazione del cammino d’Israele nel deserto (Es 16-18), luogo
terribile e di morte, luogo-simbolo dove il popolo sperimenta la premura di Dio che lo guida, lo sfama e lo
protegge. Le pagine del racconto del dono della «manna», delle «quaglie», dell’«acqua», sono da leggere
come il segno della straordinaria gratuità divina di cui Israele è chiamato a prendere coscienza, fidandosi
di Dio totalmente.

III- La terza parte del racconto tratta dell’«alleanza» (Es 19-40): Mosè conduce il popolo liberato al monte
Sinai; qui JHWH si rivela in una grandiosa teofania e dona a tutto il popolo, la sua Legge, le «dieci Parole»
o «Comandamenti» che dicono la volontà di Dio di istituire «l’Amore» nella storia. Attraverso il rito
dell'Alleanza, Dio diviene "il Dio d'Israele" e questi "il popolo di JHWH". Da questo momento in poi Israele
è chiamato a vivere secondo la logica dell’Alleanza, comportandosi con ogni altro – lo straniero, l’orfano,
la vedova – allo stesso modo con cui Dio si è comportato con Lui, con amore gratuito e disinteressato.
L’infedeltà del popolo che più volte tradirà l’alleanza, non fermerà mai l’amore gratuito e incondizionato di
Dio. Alla luce dell’evento fondatore dell’Esodo, Israele leggerà sempre il suo passato, vivrà il suo presente
e guarderà al suo futuro.
L'esodo, esperienza fondamentale sulla quale fu edificato il popolo di Israele, non è solo un fatto avvenuto
una volta per tutte, ma possiede un valore paradigmatico in quanto rivela le linee essenziali dell'azione
salvifica del Dio d'Israele: egli è colui che fa uscire dalla «schiavitù» del peccato per condurre alla libertà
della «grazia», dalla «morte» alla «vita».
L’elezione d’Israele a «popolo» di Dio è finalizzata alla benedizione di tutti i popoli e nazioni della terra. La
«benedizione» per la Bibbia consiste nel vivere in armonia il rapporto con gli «altri», con il «mondo» ma soprattutto
nel vivere un rapporto d’intimità e di comunione con «Dio» che porterà ad una vittoria definitiva sul male. Il

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JHWH (Dio) si pronuncia Jahwè, ma gli ebrei leggono «Adonai» che significa «Signore» perché, per rispetto, il nome
sacro di Dio non si può pronunciare.
R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 116
profetismo approfondirà questo ruolo universale d’Israele, scelto come «benedizione» per tutti i popoli della terra e
come «luce delle nazioni» (Is 42,4). Il Nuovo Testamento proclamerà che il Messia, il Signore Gesù, porterà la
benedizione a tutte le genti. L’elezione d’Israele non è dunque escludente ma rivelativa, rappresentativa ed
esemplare.

* Il Levitico si occupa di leggi sui sacrifici e di altre norme morali e penali.


* Nel libro dei Numeri si parla del censimento degli Ebrei nel deserto e delle prime esplorazioni in terra di
Canaan.
* Il Deuteronomio ricapitola e rilegge le vicende dell’Esodo e del cammino nel deserto ed è centrato su
tre grandi discorsi tenuti da Mosè alla fine dei 40 anni di soggiorno degli ebrei nel deserto.

2. I LIBRI STORICI sono i libri che vanno da Giosuè fino ai Maccabei e raccontano la storia di Israele
dall’entrata del popolo nella terra di Canaan (la terra promessa da Dio ad Abramo), alla storia monarchica
di Israele, che finisce tragicamente con l’esilio e con le varie dominazioni straniere. In pratica copre un
arco di tempo di circa dodici secoli.
→ Giosuè, Giudici, Rut, I e II Libro di Samuele, I e II Libro dei Re, I e II Libro delle Cronache, Esdra, Neemia,
Tobia, Giuditta, Ester, I e II Libro dei Maccabei.

I libri di Giosuè, Giudici e 1 e 2 Samuele, 1 e 2 Re sono detti "storia deuteronomista", perché ispirati alla
teologia del Deuteronomio; 1 e 2 Cronache, Esdra e Neemia sono invece chiamati "opera del cronista" e
sono legati alla lettura della storia tipica degli ambienti sacerdotali.

* Il libro di Giosuè e di Giudici in modo diverso trattano della conquista della terra promessa avvenuta a
volte attraverso infiltrazioni pacifiche a volte con lotte armate. La lettura di questi testi che appartengono
al genere letterario «epico» hanno ricevuto un ampliamento ed una drammatizzazione e devono essere
compresi teologicamente. In questa fase Israele pensa che Dio sia solo il «suo Dio» e quindi vede i suoi
nemici come nemici di Dio. Solo più avanti, durante l'esperienza dura dell'esilio, arriverà ad una
conoscenza più autentica di Dio. Il popolo capirà che la sua "elezione" non è un privilegio da conservare,
ma un dono da partecipare agli altri, poiché tutte le nazioni sono chiamate ad essere "popolo di Dio".
Scoprirà che Dio non è solamente il "suo" Dio, ma è il Dio di tutti e vuole la salvezza di tutte le nazioni e
che la terra promessa è un dono da condividere con altri, come già il libro dei Giudici faceva intravedere.
Israele è chiamato ad abitare la terra, non con la logica del possesso, ma con lo spirito della riconoscenza
(cf Dt 8,12-16). Nel Nuovo Testamento il Signore Gesù farà comprendere, in maniera luminosissima,
cosa vuol dire essere «popolo di Dio». Il popolo di Dio è il popolo che vive come il Figlio di Dio, - non
schiacciando e facendo violenza agli altri - ma donando la sua vita per gli altri. Questa tappa della
conquista mostra come nel cammino di fede può nascere un tempo in cui si è aggressivi ed intransigenti e
molte volte in buona fede. Pensiamo alla Chiesa, al tempo delle crociate, dove appunto come qui, in nome
di Dio si combattevano i nemici del popolo di Dio!!! E’ utile leggere questi testi perché ci si possa
accorgere se si vive in questa tappa aggressiva della conquista.

* 1 e 2 Samuele, 1 e 2 Re descrivono l’epoca della monarchia e le vicende dei Re d’Israele. Dopo


l'insediamento in Canaan e la divisione del territorio alle 12 tribù, Israele sente la necessità di scegliersi un
re che crei un'unità politica, economica e religiosa. Samuele l'ultimo dei Giudici, capo carismatico e
profeta, permette la nascita della monarchia purchè i re siano fedeli all’alleanza e regnino con giustizia,
sottomessi al potere di Dio. Si susseguiranno tre re: Saul, Davide e Salomone.

- SAUL (1030-1010 a.C.) riporta alcune vittorie, ma presto entra in conflitto con il profeta Samuele perchè
trasgredisce gli ordini del Signore. Dopo una vita di successi militari muore sconfitto dai Filistei. La vicenda
di Saul che finisce tragicamente, sta a dimostrare che il regno d'Israele non si può reggere sull' ingiustizia,
sulla scaltrezza politica e militare, ma solo sull'obbedienza al Signore.

- Dopo di lui regna DAVIDE (1010-970): il regno si consolida e giunge alla massima espansione. Dal punto di
vista religioso Davide nonostante i suoi errori e peccati di cui si pentirà amaramente, resta fedele a Dio e
R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 117
all’Alleanza. Egli è rappresentato dall'autore deuteronomista come re modello, il re secondo il cuore di
Dio. E' il rappresentante di Dio presso il popolo, è l'uomo della fede, è il modello a cui il popolo può
riferirsi. La sua elezione è per una responsabilità ed un servizio. Egli anticipa nella sua persona alcuni tratti
di quella regalità che verrà esercitata un giorno in pienezza dal Messia, il Signore Gesù, il vero ed unico Re
d'Israele.

- Dopo Davide sale al trono suo figlio SALOMONE (970-931). Dotato di una grande sapienza e dell'arte di
governare, approfitta della pace per conservare il Regno di Davide suo padre. Il paese passa da una
federazione di tribù, ad uno stato di tipo imperiale. Cambia il sistema di vita da agricolo pastorale, ad
urbano, si sviluppa il commercio con l'Egitto e l'Assiria, grandi ricchezze affluiscono a Gerusalemme, dove
Salomone costruisce un tempio magnifico che diventa il centro del culto. Ma nel suo regno ci sono anche
delle ombre, egli permette l'idolatria ed i culti di altre divinità con il rischio del sincretismo. Introduce il
lavoro forzato che crea un'insoddisfazione generale nella popolazione.
Sotto suo figlio ROBOAMO scoppia la rivolta, la situazione si aggrava anche per cause politiche esterne ed il
regno si divide in due. Nel 931 le tribù del Nord si separano da quelle del Sud. E' lo SCISMA. Il regno unito è
durato circa 80 anni. Da questo momento incominciano due storie separate, con due monarchie separate:
il Nord (Regno d’Israele: con capitale Samaria) e il Sud (Regno di Giuda: con capitale Gerusalemme), che
saranno sempre in lotta ed in conflitto tra di loro. Il Regno di Israele perde l’indipendenza per primo per
mano degli Assiri verso l’VIII sec. a. C. gli abitanti vengono deportati. Il Regno di Giuda protrae la propria
vita per circa un altro secolo, per poi cadere sotto l’impero Babilonese (Nabucodonosor): Gerusalemme è
devastata, il tempio distrutto, gli abitanti portati in esilio.

L’esilio durerà 48 anni fino a quando Ciro re di Persia permetterà agli ebrei di tornare in patria. I profeti
canteranno il RITORNO alla terra come un secondo Esodo. Dio, dice il Deutero-Isaia, ha scelto un “pagano”
per liberare Israele, tra lo stupore e l’incredulità di tutti: il suo modo di fare salvezza è sempre paradossale
e nuovo. Il ritorno d’Israele alla terra sarà il segno di una nuova conversione.

4. LIBRI SAPIENZIALI, nascono dall'incontro che Israele fa con la sapienza medio-orientale delle grandi culture
in mezzo alle quali ha vissuto in tempo di esilio: da una parte l'Egitto e dall'altra la sapienza Assiro-
Babilonese e più tardi, la sapienza greca.
Israele vivendo a contatto con questi popoli, trova una letteratura sapienziale una riflessione filosofica e
scientifica molto più evoluta della sua, che dava quindi spazio alle riflessioni sull'esperienza della vita, che
ricercava un modo equilibrato di vivere, che analizzava l'esistenza quotidiana in tutti i suoi aspetti di gioia
e di dolore.
Israele dunque assimila questa sapienza internazionale imprimendo ad essa una sua propria originalità:
nasce così una letteratura che è simile nel linguaggio e nelle formulazioni, a quella dei popoli vicini, ma che
si presenta originale perchè in questa letteratura Israele trasfonde la sua religione e la sua fede. In questa
testi sapienziali Israele riflette, alla luce della fede, sui grandi temi esistenziali: si interroga sul male e sul
dolore (Giobbe), sul senso della vita, sulla morte e sulla felicità (Qohelet), sull’amore (Cantico dei Cantici),
sulla sapienza (Sapienza) ecc…

I libri SAPIENZIALI sono l'opera dei SAGGI e molto probabilmente questi libri erano dei manuali usati nella
scuola per educare i giovani a possedere la sapienza. Sembra infatti provato che i saggi dirigevano delle
scuole e che nelle loro mani era la "cultura" del popolo. Essi erano infatti persone molto colte: sapevano
scrivere, conoscevano le lingue straniere e di conseguenza, potevano accedere a tutta la letteratura del
loro ambiente, dalla Mesopotamia fino all'Egitto. Il saggio non solo cercava di insegnare ai propri discepoli
l'arte di vivere, ma era alla ricerca della vera sapienza attraverso un'attenzione costante alla parola di Dio,
che era già fissata in quel tempo nei testi biblici più antichi.

I testi della letteratura sapienziale sono: Giobbe, Salmi, Proverbi, Qoelet (o Ecclesiaste), Cantico dei
Cantici, Sapienza, Siracide (o Ecclesiastico).

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 118


Tra questi ricordiamo:

* Il libro di Giobbe: Giobbe è un giusto che è duramente provato. Nel dialogo con tre suoi amici, che sono
portatori di una teologia rigida e vecchia, Giobbe sostiene che la sofferenza del giusto costituisce una
profonda ingiustizia: egli si ribella, si lamenta, lancia a Dio la sua sfida. I suoi amici al contrario lo
considerano un peccatore giustamente punito. A Giobbe non resta che appellarsi a Dio e chiede a lui
conto, urlando il suo dolore fino quasi ad insultarlo. Dio interviene rivelandosi a Giobbe e mostrandosi suo
amico, dalla sua parte, mentre biasima l’insensatezza degli amici. Giobbe ne esce consolato e
profondamente trasformato: «Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto»
(Gb 41,5).

* Il libro dei Salmi. Il nome ebraico del libro, Sefer tehillim = libro delle lodi dà un’indicazione relativa al
contenuto: i salmi sono fondamentalmente lodi e questo è vero per qualunque tipo di salmo, anche quello
più drammatico. Ogni salmo tende alla lode. I salmi non sono delle narrazioni, delle riflessioni, ma sono
delle preghiere; essi mettono a contatto chi legge, con l’esperienza che l’uomo fa di Dio nel suo intimo.
Sono una raccolta dei cantici e delle preghiere che Israele ha elevato al suo Dio lungo tutta la sua storia. La
raccolta esprime l'intera gamma dei sentimenti di un popolo verso il suo Dio. Vi si trovano: gli inni di lode a
Dio per le sue opere grandiose, la creazione e la salvezza (cf. Sal 8; 19; 29; 113-118; 136; 138); canti di
ringraziamento sia del singolo sia della comunità per il pericolo scampato (cf. Sal 18; 30; 34...); suppliche
individuali (cf. Sal 3; 5; 6; 7; 22...) e collettive (cf. Sal 74; 80...) ed anche le confessioni dei peccati e le
richieste di perdono (cf. Sal 32; 51...).

* Il Cantico dei Cantici (Sir hassirim) che è stato definito “Il gioiello della Bibbia”, “Il cantico per
eccellenza”, “Il cantico sublime” è una vera e propria celebrazione dell'amore di coppia, di un uomo e di
una donna, dello sposo e della sposa.
Qui si canta la bellezza, lo stupore, l'intensità, la passione, la gioia, la tenerezza dell'incontro dell'amata e
dell'amato. Viene descritto il cammino dell'amore della sposa verso il suo sposo e dello sposo verso la sua
sposa in tutte le sue dimensioni. E’ una vera e propria esaltazione della grande avventura dell’amore che
noi continuiamo sempre ad avere davanti ai nostri occhi nel suo splendore, ma purtroppo anche nei suoi
limiti. L’ amore della coppia del cantico conosce desiderio, ricerca, sorpresa, unione, gaudio ma anche
attesa, nascondimento, assenza, lacrime, dolore… per poi di nuovo sperimentare ancora più
intensamente desiderio e ricerca, unione e gaudio… in una circolarità che non ha mai fine… Non siamo
davanti a un amore idealizzato, prigioniero di una visione solo romantica ed emozionale, ma all’amore
reale, vissuto nella sua quotidianità. L’amore umano degli sposi del Cantico diventa simbolo dell’amore
appassionato di Dio per Israele, per la sua Chiesa e per l’intera umanità.

3. I LIBRI PROFETICI raccontano le parole e le vicende dei profeti che Dio suscita per parlare attraverso di
loro al popolo. Nelle nostre Bibbie i libri dei profeti sono ordinati sulla base della loro importanza ed
estensione.
- Abbiamo prima i cosiddetti quattro grandi profeti: Isaia, Geremia, Ezechiele e Daniele.
Dopo il libro del profeta Geremia fa seguito il libro delle Lamentazioni, attribuito a questo profeta, e poi il
libro che porta il nome di un suo discepolo: Baruc.
- Poi i dodici cosiddetti profeti minori: Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia,
Aggeo, Zaccaria, Malachia.
- Approfondiamo brevemente la figura del «Profeta».

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 119


* CHI È IL PROFETA?

Profeta è la traduzione della parola greca prophete che deriva dal verbo prophemi che è composto da pro
che è una preposizione che vuol dire "prima", "davanti" e phemi che vuol dire "parlare". Dunque secondo
l'etimologia del nome il «profeta» è colui che parla «prima» degli altri, cioè che dice in anticipo ciò che
accadrà e ancora, è colui che parla «davanti» agli altri, cioè colui che apertamente, pubblicamente
proclama davanti agli uomini la presenza di Dio dentro la storia, presenza che ad altri non è visibile. Il
profeta non è dunque prima di tutto uno che predice il futuro, ma è uno che sa leggere il presente, sa
cogliere il mistero di Dio negli eventi e nella storia e sa mettere gli uomini del suo tempo davanti a questa
verità.
I Profeti sono quegli uomini di Dio che hanno predicato durante i momenti più critici della vita d’Israele
(monarchia, esilio). Spesso hanno denunciato la cattiva condotta dei re e hanno richiamato il popolo a
vivere nella giustizia e nella pace. Sono uomini di speranza che credono nell’ intervento salvifico di Dio
nella storia. Se si volesse definire il profeta come uomo di fede, si dovrebbe dire che egli è innanzi tutto
uno che parla. Credere, essere in relazione con Dio è per lui ascoltare la Parola di Dio e parlare. Egli si
definisce come messaggero, come colui che riceve una parola e la trasmette fedelmente. La Parola di Dio
percepita attraverso una comunicazione interiore, si radica nella vita del profeta entra a far parte della sua
vita, dei suoi pensieri, dei suoi sentimenti, si interiorizza, per poi essere donata a tutti. E’ Dio che fa di
alcuni uomini i suoi portavoce, per cui, ascoltare il Profeta è normativo quanto ascoltare Dio. Dio si fa
presente nascostamente nelle parole povere e deboli dell' «uomo di Dio». Nulla è più debole della parola.
La parola è vento che vibra, è di durata istantanea. La parola è debole perché è pronunciata da un uomo
che è fragile e si rivolge a cuori umani, spesso stanchi o torbidi od ostinati. Il ministero della parola è un
ministero poverissimo, ma è appunto in questa povertà e debolezza che si manifesta la forza e la potenza
di Dio.
I profeti sono uomini dalle MOLTE RELAZIONI: parlano ai re, ai capi, agli anziani, ai sacerdoti, ai giudici, alla
gente del popolo; sono uomini pieni di umanità, le loro relazioni sono cariche di amicizia, basta pensare a
Elia ed Eliseo, alla loro vicinanza e amicizia con la vedova di Sarepta (1Re 17) o con la Sunamita (2 Re 4),
all'amicizia di Isaia con il re Ezechia e con Acaz.
Il profeta partecipa alla vita politica, sociale, culturale del suo popolo, ma senza lasciarsi mai accecare da
tutto ciò che di mondano e di falso ci può essere in questa realtà. Essi non sono e non vogliono essere dei
politici in senso stretto, né si fanno portavoce di partiti o di interessi di gruppo, ma sono testimoni della
venuta di Jahwè e del suo Regno in Israele. La parole e la presenza del profeta è sempre "critica": una
parola di denuncia rivolta spesso ai grandi proprietari, alle classi dirigenti, ma che non è fine a se stessa,
perché essi sono uomini pieni di speranza ed indicano sempre una via nuova da percorrere. Tutti i profeti
sono delle presenze scomode, come è scomodo Dio nel mondo. Essi sono persone rifiutate, ostacolate,
isolate fino al punto di essere minacciate, come Geremia, di morte. Sono persone che assumono il male
d'Israele e ne portano le conseguenze. Nelle loro persone si anticipa il mistero della Croce vissuto dal Figlio
di Dio.

* I quattro profeti maggiori:

- Il libro di Isaia è diviso in tre parti chiamate rispettivamente: Proto-Isaia (Is 1-39), Deutero-Isaia (Is 44-
55), Trito-Isaia (Is 56-66). La prima parte contiene, oltre alla vocazione del profeta, visioni, poemi, oracoli.
La seconda conosciuta anche come «Libro della consolazione», culmina nei quattro canti del Servo
sofferente del Signore, relativi a un misterioso personaggio che libera il popolo attraverso la sua
sofferenza; la terza parte celebra la gloria futura di Gerusalemme.

- Il libro di Geremia parla delle vicende personali del profeta, uomo mite, chiamato da Dio ancora giovane
ed inesperto ad aiutare il popolo e i re a vivere l’esperienza drammatica che condurrà all’esilio. Egli che

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 120


parla a nome di Dio scuotendo il popolo dal suo torpore, sarà perseguitato, accusato di pessimismo
religioso e disfattismo politico. Da qui la sua forte crisi religiosa e profetica descritta nelle bellissime
“confessioni”. La sua vita, più volte in pericolo si conclude in Egitto, dove è condotto contro la sua volontà.
Il suo messaggio di speranza è l’annuncio di un’ “alleanza” nuova” scritta da Dio nei cuori. Proprio questa
alleanza sarà inaugurata dal Signore Gesù.

- Il libro di Ezechiele presenta molte visioni e gesti simbolici del sacerdote e profeta Ezechiele. Deportato
in Babilonia con la prima ondata di esiliati, inizia a predicare la penitenza ma preannuncia oracoli contro
Gerusalemme prima della sua distruzione, e contro popoli stranieri. Alimenta la speranza del popolo
esiliato e delinea il piano di ricostruzione della futura nazione.

- Il libro di Daniele contiene visioni di tipo apocalittico sullo sviluppo della storia e sulla fine dei tempi. Il
suo scopo è dare coraggio e speranza ai giudei al tempo della persecuzione di Antioco Epifane IV.

2. IL MESSAGGIO DEL NUOVO TESTAMENTO

Il NT, così come lo troviamo nelle edizioni e traduzioni correnti, è costituito da 27 scritti, che compaiono
secondo il seguente ordine

1. I VANGELI: Matteo (Mt), Marco (Mc), Luca (Lc), Giovanni (Gv)

I Vangeli (da euanghelion, “buona notizia”) non sono una biografia di Gesù ma una profonda lettura
teologica del mistero di Gesù di Nazareth riconosciuto come il Cristo e il Figlio di Dio. I primi tre vangeli
(Mt, Mc, Lc) sono detti Sinottici per la loro forte analogia e somiglianza. I testi dei tre vangeli si possono
leggere e confrontare tra di loro, stampandoli su tre colonne parallele (sinossi). Il termine “sinottici”
deriva da sun-hopsis e significa “lettura con unico colpo d’occhio”.

 Il vangelo di Marco
Il vangelo di Marco è il primo vangelo ad essere stato scritto (dopo il 65 d.C). Mc scrive per una comunità
proveniente dal paganesimo ed usa quindi un linguaggio essenziale, semplice, povero di citazioni
veterotestamentarie. Alcuni esegeti dicono che il suo linguaggio molto vivace e popolare sembra
riprodurre la predicazione orale di Pietro. Il titolo della sua opera “Inizio dell’evangelo di Gesù Cristo Figlio
di Dio” (1,1) annuncia al lettore che lo scopo del suo vangelo è condurlo alla scoperta dell’identità di Gesù
come il “Cristo”, il “Figlio di Dio”. Il lettore è invitato a percorrere un lungo cammino, quello appunto
della lettura intera del testo di Marco, per capire il senso profondo di questa confessione di fede. Essa
verrà progressivamente svelata, prima, nella confessione di fede di Pietro a Cesarea di Filippo: “Tu sei il
Cristo” (Mc 8,29) poi nella confessione di fede del centurione pagano sotto la croce: “Quest’uomo era
veramente il Figlio di Dio” (15,39). L’identità di Gesù si può comprendere pienamente solo sotto la croce!

 Il vangelo di Matteo
Questo vangelo che viene attribuito dalla tradizione a Matteo è stato scritto per comunità che
provenivano dall’ebraismo. Per questo l’autore cita frequentemente l’AT ed usa espressioni che sono
chiare solo a chi ha familiarità con l’ambiente giudaico. Matteo mette in luce la maestosità della persona
di Gesù che viene a compiere le attese messianiche dell’AT. Grande importanza è attribuita
all’insegnamento di Gesù, (presentato come il nuovo Mosè), che si sviluppa in cinque lunghi discorsi: il
discorso della montagna (c. 5-7), il discorso missionario (c. 10), il discorso in parabole (c. 13), il discorso
ecclesiale (c. 18), il discorso escatologico (c. 24-25). Tra i sinottici, Matteo è quello che più spesso parla del
Padre. La perfezione cristiana consiste nell’imitare la vita del Padre avendo come modello Gesù di
R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 121
Nazaret. Nell’amore del Padre che Gesù rivela si ha il compimento della Legge e dei Profeti. Mt dà grande
importanza al costituirsi della chiesa (ecclesìa): essa è una comunità di fratelli; una comunità purificata
dalla tentazione del peccato di grandezza, di prestigio umano; è una comunità che pone alla base del suo
esistere un atteggiamento di umiltà; è una comunità che va alla ricerca anche di uno solo che si è smarrito;
una comunità che non lascia nulla di intentato per guadagnare il fratello; una comunità che nella preghiera
e nella prassi del perdono si rivela come imitatrice del comportamento del Padre.

 Il vangelo di Luca
Luca può essere definito il teologo della storia della salvezza. Egli vede dispiegarsi nella storia il piano di
Dio per la salvezza degli uomini. Questo disegno divino, iniziato con il popolo di Israele, si compie in Gesù e
si prolunga nella vita della Chiesa, per raggiungere ogni uomo. La novità di Luca, sta nella forza con la
quale Gesù annuncia l’amore misericordioso di Dio, per i peccatori, i poveri, gli ultimi. L’annuncio del
Regno che Gesù porta è l’annuncio di un’immensa tenerezza, che sorpassa ogni esperienza di amore che
gli uomini possono ricevere e donare. Lc mette in risalto i tratti che presentano Gesù come esempio di
mitezza, di misericordia, di abnegazione e premura per tutti. La salvezza è questo Amore che si offre
discretamente e che accoglie giusti e peccatori, poveri e sofferenti. La signoria di Dio coincide con questa
misericordia di Dio senza confini che abbraccia tutti.

 Il vangelo di Giovanni
Il vangelo di Gv presenta delle grosse differenze rispetto ai vangeli Sinottici. Fin dall’antichità è stato
considerato il vangelo più contemplativo e spirituale. Il tema fondamentale del vangelo è Gesù come
rivelatore del Padre. Per Giovanni Gesù è il narratore di Dio. Lo scopo principale della missione del Verbo
incarnato è quello di raccontare e far conoscere Dio. Già dal Prologo (Gv 1,1-18) emerge la profondità
della sua riflessione sul mistero del Verbo incarnato che l’evangelista sviluppa progressivamente quasi
imitando il volo circolare dell' aquila. Mentre per i sinottici il tema fondamentale è costituito dalla
proclamazione e instaurazione del Regno di Dio, per Gv tutto si concentra sulla figura di Gesù, Verbo
incarnato che è il rivelatore dell’amore salvifico del Padre, il testimone fedele, la guida sicura verso il
Padre. La rivelazione sgorga quindi come una sorgente da questa intimità, da questa relazione Padre-
Figlio.

2. ATTI DEGLI APOSTOLI

Il libro degli Atti degli Apostoli è stato scritto da Luca, che è autore anche del terzo Vangelo. Inizia con
l’evento dell’Ascensione di Gesù al cielo e con la discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli a Pentecoste (At
2) e si sviluppa con la narrazione delle vicende legate alla diffusione dell’annuncio evangelico prima agli
ebrei e poi a pagani, attraverso la missione di Pietro e poi di Paolo. Il libro mostrerà come la Chiesa guidata
dal Cristo Risorto attraverso il suo Spirito e mediante il gruppo apostolico si espanderà da Gerusalemme
fino a raggiungere gli estremi confini della terra.
Il quadro generale del libro degli Atti degli Apostoli non è difficile da identificare. Vi si narra l’attuazione
del comando del Cristo risorto che troviamo in At 1,8: « Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di
voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e in Samaria e fino agli estremi confini della
terra» Con una simile dichiarazione il Cristo risorto intende dire che i suoi discepoli potranno essere suoi
testimoni, che cioè verranno posti nella condizione di operare con una potenza e una sapienza
straordinarie, grazie alle quali si manifesterà agli uomini in tutta la sua efficacia la realtà della salvezza,
scaturita dalla risurrezione del Signore crocifisso.
Come farà la salvezza a rivelarsi in tutta la sua verità e a raggiungere l’intera umanità? Quali strade
percorrerà la grazia di Dio per arrivare ai cuori di uomini così diversi e così distanti? Il libro degli Atti degli
Apostoli fornisce una risposta proprio a queste domande e mostra come la via della salvezza si apre nel
mondo grazie alla testimonianza apostolica.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 122


L’annuncio della Parola, il compimento di segni potenti, l’offerta della vita in un servizio generoso e
appassionato del prossimo sino al dono di se stessi, la comunione fraterna che sorge dall’adesione al
vangelo della grazia, rendono visibile ed efficace la redenzione e la santificazione dell’umanità compiuta
dal Figlio di Dio. Dalla testimonianza degli apostoli e degli altri credenti sorgeranno, infatti, le comunità
cristiane che, radicate nei vari territori, diverranno il luogo della vita cristiana. In esse ogni credente potrà
fare esperienza dell’incontro con il Signore Risorto. Si comincia da Gerusalemme, dove prende vita la
prima comunità cristiana, si prosegue in Samaria, quindi in Giudea, per poi raggiungere oltre i confini di
Israele, le “nazioni” che compongono l’intera umanità. Quando la Parola di Dio giungerà a Roma, cuore
dell’impero e centro del mondo allora conosciuto, il racconto di Atti si concluderà.

3. LETTERE DI PAOLO:

San Paolo è una delle figure più affascinanti di tutta la storia cristiana. Uomo di forte personalità,
conquistato da Gesù Cristo e divenuto apostolo delle genti, ha lasciato un’impronta indelebile nella storia
della chiesa. Le sue lettere fanno parte a pieno titolo del Nuovo Testamento e sono dunque testi ispirati
dallo Spirito Santo, che permettono di conoscere la sua persona, ma soprattutto la sua fede. Si tratta di
lettere inviate, per lo più, alle comunità cristiane da lui fondate nel corso dei suoi viaggi apostolici e dalle
quali traspare una visione appassionata e profondissima del mistero di Cristo, per certi versi insuperabile.
Quanto Paolo scrive del vangelo di Cristo e di Cristo stesso va considerato un tesoro prezioso, a cui
attingere costantemente per la crescita della fede. Paolo è consapevole che conoscere Cristo, accogliere il
frutto della sua morte e risurrezione consentirà ad ogni uomo di gustare la bellezza della sua vita attuale,
nella prospettiva della pienezza futura. Vi è dunque qualcosa di veramente consolante da sapere e che
l’apostolo non può permettersi di tacere: nella morte e resurrezione di Gesù, Dio ha redento il mondo.
Una vita nuova è stata già inaugurata in Cristo ed è ora offerta ad ognuno che crede in lui. A lui si deve,
sostanzialmente, la diffusione del vangelo oltre i confini del territorio di Israele, in Asia minore e
nell’attuale Europa.
La figura di San Paolo e i suoi scritti rappresentano un bene inestimabile del patrimonio spirituale della
chiesa.

Le lettere di Paolo sono così suddivise:


- Le lettere maggiori sono indirizzate a Chiese specifiche: ai Romani, I e II ai Corinzi, ai Galati, agli Efesini,
ai Filippesi, ai Colossesi, I e II ai Tessalonicesi.
- Le lettere «pastorali», rivolte cioè a pastori di Chiese: I e II a Timoteo, a Tito,
- C’è inoltre una lettera inviata a una persona particolare a Filemone.
- La Lettera agli Ebrei non è di Paolo anche se appartiene alla letteratura paolina.

4. LE LETTERE CATTOLICHE

Sono lettere scritte da alcuni apostoli (Giacomo, Pietro, Giuda e Giovanni) e sono dette “cattoliche”,
perché, a differenza di quelle paoline, non sono indirizzate a una comunità specifica ma alla chiesa tutta
(la parola greca catholikós significa «universale»): Giacomo, I e II di Pietro, I, II e III di Giovanni, Giuda.

5. L’APOCALISSE

Il termine greco apocalypsis è il sostantivo derivato dal verbo apocalypto, composto dalla preposizione
àpo (che esprime l'idea di rimozione e allontanamento) e dalla radice verbale calypto (= coprire,
nascondere): etimologicamente, quindi, significa "azione del togliere ciò che copre o nasconde", cioè
"scoprire, svelare". Apocalisse significa dunque "rivelazione".

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 123


E’ uno scritto giovanneo tutto centrato sulla rivelazione di Cristo Risorto che guida la storia verso il suo
compimento finale, vincendo il male con il bene. All' Apocalisse non interessa tanto "la fine del mondo"
ma rivelare "il fine" della storia. Gli “ultimi tempi” hanno già avuto inizio con la risurrezione di Cristo e
si protrarranno fino alla sua gloriosa parusia, la sua seconda venuta. L'ultima parola del libro ci fa
vedere questo attraverso l'invocazione: «Vieni Signore Gesù!». Gesù Cristo è dunque “il Fine”, il criterio
ultimo, la realtà definitiva, misura di ogni altra realtà.
E’ un libro che fa parte della letteratura apocalittica e si avvale di un denso simbolismo (cromatico,
teriomorfo, numerico, antropologico) che occorre conoscere e decodificare senza il quale questo libro
resta incomprensibile. Guai a farne una lettura fondamentalista come quella offerta dalle sette!! (Cf.
schemi Dei Verbum).

Bibliografia
- Di Sante C., La parola che parla. Chiavi di lettura per la Bibbia, Pazzini 2004.
- Di Sante C., Bibbia la grande storia, Cittadella Ed. 2006.
- Maggioni B., La Bibbia, Messaggio di Dio agli uomini, Tau editrice 2005.
- Maggioni B., Attraverso la Bibbia. Un cammino di iniziazione, Cittadella 2003.
- Stefani P., La Bibbia, Ed. il Mulino 2004, collana Farsi un’idea.
- Tremolada P., Avevano un cuore solo e un’anima sola. La prima comunità cristiana (At 1-6), in dialogo
2007.
- Tremolada P., San Paolo, servo di Cristo e apostolo delle genti, in: Per me vivere è Cristo, in dialogo 2003.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 124


9. L’ ISPIRAZIONE E LA VERITÀ DELLA SACRA SCRITTURA
(DV. c. III)

A. L’ISPIRAZIONE DELLA SACRA SCRITTURA

→ la Bibbia è ispirata da Dio


→ come può un testo scritto da uomini essere Paola di Dio?

La Bibbia è indubbiamente uno dei più grandi capolavori dell’umanità sia per il suo valore letterario, sia
per la profondità del suo messaggio. Per i cristiani la Bibbia è però qualcosa di più: è PAROLA DI DIO.
Quando nella celebrazione Eucaristica viene letto un brano dell’AT alla fine della lettura sentiamo
annunciare: «Parola di Dio». Quando si legge il Vangelo si annuncia al termine «Parola del Signore». I
cristiani ritengono la Bibbia un testo «ispirato», opera scritta totalmente da un numero considerevole di
uomini, ma anche totalmente e pienamente opera di Dio.

Definiamo con il termine ISPIRAZIONE quella singolare azione dello Spirito di Dio o Spirito Santo in forza del
quale la Rivelazione di Dio personale, storica, salvifica, unitaria si è fatta parola umana e ha assunto la
forma di un testo scritto: la Bibbia.

La Dei Verbum al n. 11 fa due affermazioni importanti che dobbiamo attentamente considerare:


- la Sacra Scrittura è un libro scritto sotto l’ispirazione dello Spirito Santo e quindi ha Dio come autore
- gli autori sono veri autori.

DV 11a Le verità divinamente rivelate, che sono contenute ed espresse nei libri della sacra Scrittura, furono scritte
per ispirazione dello Spirito Santo. La santa madre Chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i
libri sia dell’ Antico che del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché scritti per ispirazione dello Spirito Santo
(cfr. Gv 20,31; 2 Tm 3,16) hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa.

1. LA SACRA SCRITTURA È UN LIBRO SCRITTO SOTTO L’ISPIRAZIONE DELLO SPIRITO SANTO

Quando la Chiesa parla di ispirazione delle Scritture intende affermare che la Bibbia è stata ispirata dallo
Spirito Santo, per cui, si può dire che ha Dio per autore. Questo vuol dire che la presenza di tali scritti nella
chiesa è una presenza dello Spirito. Questa «Parola» letta, compresa, interpretata e accolta con fede
permette di conoscere il «mistero di Dio». Le Scritture provengono, da un'azione misteriosa dello Spirito
che ha mosso e diretto tutti coloro che hanno ricevuto il carisma di scrivere e di trasmettere in linguaggio
umano la parola eterna e salvifica di Dio. Questo è un dato di fede.

Lo Spirito che nel cristianesimo è la seconda persona della Trinità, è la potenza di Dio in azione, è Dio che si comunica
all’uomo.
- È mediante lo Spirito di Dio che avviene il miracolo della creazione: “Lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque” (Gn 1,2);
"Dalla parola del Signore furono fatti i cieli, dal soffio della sua bocca ogni loro schiera" (Sal 33,6).
- È attraverso il suo Spirito che l’uomo diviene un essere vivente: “Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del
suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente” (Gn 2,7). L’uomo partecipa di ciò che
è divino.
R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 125
- Lo Spirito attua e guida tutta la storia d'Israele: attraverso lo Spirito, Dio si rivela ai patriarchi, Abramo, Isacco,
Giacobbe... Attraverso lo Spirito parla ai profeti, ai saggi, ai sapienti e fa comprendere il significato di questa storia di
salvezza.
- Per mezzo dello Spirito, la Parola di Dio rivelata ad Israele incomincia ad essere messa per iscritto nei libri dell’AT.
- Per opera dello Spirito Santo il Verbo di Dio si fa carne in Gesù.
- Per opera dello stesso Spirito l’evangelo di Gesù diventa Parola di salvezza predicata, celebrata, testimoniata dalla
Chiesa a tutte le genti.
- Per mezzo dello Spirito gli apostoli ed evangelisti ed altri autori mettono per iscritto i testi del NT.
- Per mezzo dello Spirito che la Chiesa apostolica legge come sacri e ispirati il libri dell’AT e del NT.

La Chiesa, per «fede apostolica», ritiene sacri e canonici tutti interi i libri sia dell’ Antico che del Nuovo
Testamento, con tutte le loro parti28… Questa dichiarazione dell’ispirazione della intera Bibbia, presentata
nel documento della DV, non è nuova, è già stata proclamata ufficialmente nel Concilio di Trento (1546). Va
ricordato però che non sono queste proclamazioni ufficiali a convertire questi libri in «Paola di Dio», al
contrario, la Chiesa dichiara con autorità ciò che questi libri sono da sempre. I libri della Sacra Scrittura sono
Parola di Dio dal momento in cui sono stati scritti e come tali sono stati considerati fin dal tempo della
chiesa apostolica. Questa verità appartiene alla fede.

Notiamo come l’attività dello Spirito Santo, non si limita alla fase compositiva del libri biblici, ma giunge
fino alla sua consegna nelle mani della Chiesa, riconoscendola destinataria e al tempo stesso custode e
interprete. Se l’ispirazione è il fondamento della canonicità dei libri biblici, la loro individuazione spetta
alla chiesa alla quale Dio affida tali scritti, rivelandole che sono ispirati e conferendole l’autorità di
definire il catalogo dei libri normativi per la fede. (cf. P.L. Ferrari, La Dei Verbum, p.102)

Le Scritture sono state scritte da uomini, eppure in esse parla Dio, sono scritte in un linguaggio umano
eppure sono «Parola di Dio». Si può dunque affermare che Dio è l’autore», ma non nel senso di autore
“letterario”, non è certamente lui che redige i libri, bensì gli autori umani.

 Gli autori dell’AT - Gesù – gli autori del NT

Nell’AT non troviamo l’affermazione esplicita dell’ispirazione di questi testi, ma gli autori di questi scritti
hanno coscienza, anche se in modo diverso, di essere guidati da Dio.

- Nei libri Profetici i profeti hanno coscienza che c'è una parola potente che è Dio a suscitare in loro al
punto che essi devono «parlare» proclamare i loro oracoli e poi metterli per iscritto. Emerge con chiarezza
la consapevolezza che i profeti hanno di essere 'uomini di Dio'. Essi sanno di essere stati chiamati da Dio e
di essere stati costituiti ‘profeti’ per proferire le parole di Dio (Ger 1,5-10; Is 6; Ez 2,9-3,3). Questa coscienza
di dire una parola che viene dall'alto è evidente nelle formule profetiche che ricorrono frequentemente nei
loro testi:

- "dice il Signore": Is 3,16; 7,7; 8,5; 10,24; 29,13.


- "così mi ha parlato il Signore": Is 31,4; Ger 2,1.
- "oracolo del Signore": Is 23,25.
- "ascoltate la Parola del Signore": Is 28,14.

28 E' importante capire bene quel "con tutte le loro parti". Non possiamo tagliare via dalla Bibbia o ignorare
passi scomodi, o difficili, se facessimo così avanzeremmo ben poco dell'Antico Testamento. Ogni passo e testo
della Scrittura sia dell'AT che del NT rivela e annuncia sempre qualcosa del progetto di Dio che si è andato
attuando nella storia. Nessun testo può essere eliminato, in quanto, se letto alla luce di tutta la Rivelazione e in
particolare alla luce dell'evento Cristo, rivela una sua «verità» che è salvezza per l’uomo. Ricordiamoci che la
Bibbia descrive l’irrompere di Dio in una storia sconvolta dal dramma del peccato, del male, un male che
l’uomo tende a giustificare a volte anche in nome di Dio.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 126


- Nei libri Sapienziali dell'AT vediamo invece un movimento diverso. Nei saggi lo Spirito non irrompe
dall'alto come nel caso dei profeti, ma agisce dal basso, accompagna, guida, eleva lo studio, la ricerca, la
riflessione di chi va indagando alla luce della fede, sulla storia d'Israele o sui grossi problemi della vita
umana. L'ispirazione di questi autori è più nascosta, misteriosa, il loro lavoro così rigorosamente umano è
stato illuminato e sostenuto dallo Spirito, al punto che le loro riflessioni, il frutto del loro lavoro, viene
consegnato a Israele e poi alla chiesa come ‘Parola di Dio’. Qohelet non presenta mai la sua parola come
fanno i profeti, non dice mai che le sue parole sono «Parola di Dio», ma afferma che i suoi scritti sono
frutto della sua ricerca, della sua riflessione, della sua preghiera. Qo 7,25: "Mi sono affaticato di nuovo a
conoscere e indagare e cercare la sapienza e il perché delle cose...". Il frutto di queste sue meditazioni,
riflessioni è Parola di Dio.

- I libri storici mostrano un altro esempio di questo movimento dello Spirito. Gli autori di questi libri sono
dei narratori che interpretano i fatti della storia d'Israele alla luce della fede. Il loro lavoro consiste nel
raccogliere materiale antico, consultare archivi di corte, elaborare poemi e tradizioni antiche. Non
presentano il risultato della loro faticosa ricerca come Parola di Dio, eppure partecipano anche loro del
carisma profetico. Attraverso le loro opere è possibile entrare nel mistero di salvezza che Dio ha operato
nella storia.

Dunque lo Spirito ha agito in modo diverso sugli autori biblici, a volte in modo irruento e potente a volte in
modo misterioso e nascosto. E' quest'azione di Dio che costituisce i libri sacri in Parola di Dio.

- Gesù stesso considera le Scritture dell’AT come libri sacri. Con l’espressione solenne «sta scritto»
proclama la «Parola di Dio» dell’AT alla quale lui stesso rimane fedele (cf. Mt 4,4-7.10). Per Gesù la Parola
dell’AT è «Parola di Dio» che l’uomo non può annullare: vedi l’episodio sul divorzio (Mt 19,4-5) dove Gesù
cita Gen 2,24 per far comprendere che il matrimonio, per chi è credente, è un evento carico di mistero,
grazie al quale si viene a creare una comunione totale tra due persone destinate ad essere una carne sola
nell’amore. Il matrimonio è una realtà “santa” che trova le sue radici nel mistero di Dio. Chi crede in lui è
chiamato a dare la testimonianza che l’amore «fedele» è possibile.

Ed egli rispose: «Non avete letto che il Creatore da principio li fece maschio e femmina e disse: Per questo
l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne? Così non sono
più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto. (Mt 19,4-5).

Gesù conferisce anche alla sua Parola un’autorità divina: «Avete inteso che fu detto… ma io vi dico»
(Discorso della Montagna cf. Mt 5-7). Riconosce l’autorità dell’AT, ma lo corregge o meglio lo interpreta in
modo nuovo.

Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici
e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il
suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano,
quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli,
che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il
Padre vostro celeste. (Mt 5,43-48).

Gesù non usa le formule profetiche «Così parla Dio»; ma afferma: «In verità, in verità (gr: Amèn Amèn ), io
vi dico». Egli ha coscienza di essere molto di più di un profeta, di valere più del tempio, della legge (cf. Mt
12,6; 5,21-48), più di tutti i grandi valori del patrimonio religioso d'Israele. Il cielo e la terra passeranno, ma
le sue parole non passeranno (cf. Mt 24,35). Non dice solo ‘le parole di Dio’, ma egli si presenta come la
rivelazione suprema e definitiva di Dio (cf. Eb 1,1-2). In lui stesso, dice l’evangelista Giovanni, la Parola di
Dio è diventata carne (cf. Gv 1,14). La prima comunità cristiana lo riconoscerà come il "Signore" (Kyrios);

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 127


questo stesso termine è usato nella Bibbia greca della LXX per indicare Dio stesso. Gesù sarà confessato
come l'unico nome che salva (cf. At 4,12) e la sua parola sarà ritenuta sacra come quella di JHWH.

- Gli Autori del Nuovo Testamento manifestano direttamente o indirettamente la coscienza di annunciare
una parola che viene dall'alto. Gli evangelisti stendono per iscritto la predicazione degli apostoli che Gesù
ha scelto e ha inviato dopo la sua risurrezione. Il dono dello Spirito Santo agisce in tutti loro con forza e
potenza, come testimonia il libro degli Atti degli Apostoli.
Soprattutto Paolo è convinto che la Parola che predica, e poi metterà per iscritto nelle Epistole, è Parola di
Dio, che viene dallo Spirito del Signore Gesù, il crocifisso risorto e non parola umana:

1Cor 2,3-5
Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione; e la mia parola e il mio
messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e
della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di
Dio.

1Ts 2,13
Proprio per questo anche noi ringraziamo Dio continuamente, perché, avendo ricevuto da noi la
parola divina della predicazione, l'avete accolta non quale parola di uomini, ma, come è veramente,
quale parola di Dio, che opera in voi che credete.

Nasce presto nella chiesa delle origini la consapevolezza che gli scritti apostolici sono posti sullo stesso
piano di quelli dell'Antico Testamento: sono Scrittura Sacra, Parola di Dio. Non ci sono libri più ispirati o
meno ispirati. L’AT permette di comprendere il NT e il NT getta una luce intensa sull’AT perché mostra
come quella «storia della salvezza» si è compiuta nel Signore Gesù.

Nel NT troviamo due citazioni che attestano solennemente l’ ispirazione di tutta la Sacra Scrittura. Queste
due citazioni sono riportate dalla stessa DV:

2Tim 3,16: “Tutta la Scrittura è ispirata da Dio e anche utile per insegnare, convincere e correggere e
educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona”.

2Pt 1, 20-21: “Sappiate anzitutto questo: nessuna Scrittura profetica va soggetta a privata
spiegazione, poiché non da volontà umana è venuta una profezia, ma mossi da Spirito Santo
parlarono alcuni uomini da parte di Dio.”
La Bibbia per i cristiani non è un libro come tutti gli altri, perché ha un’origine divina. Chi ha scritto la Bibbia
è stato mosso da un’azione misteriosa dello Spirito Santo, al punto che si può dire che quella Parola, scritta
da uomini, è Parola di Dio.

2. GLI AUTORI SONO VERI AUTORI

DV 11b Per la composizione dei libri sacri, Dio scelse e si servì di uomini nel possesso delle loro facoltà e capacità,
affinché, agendo egli in essi e per loro mezzo, scrivessero come veri autori, tutte e soltanto quelle cose che egli voleva
fossero scritte.

La DV parla degli autori umani sottolineando il fatto che essi sono «veri autori» e che Dio si servì di loro nel
pieno possesso delle loro facoltà e capacità. Dunque non dobbiamo pensare che gli autori biblici siano stati
strumenti passivi nelle mani di Dio. L'ispirazione non va intesa come un «raptus estatico» per cui l'agiografo
avrebbe scritto meccanicamente ciò che Dio gli dettava, ma al contrario, lo Spirito ha agito in profondità
nell’autore sacro, rispettandone la sua personalità e le sue qualità. Lo Spirito non soffoca, non mortifica e
non distrugge mai l'umano, ma lo eleva affinché l'umano possa esprimere il divino. Le Scritture sono un
dono straordinario di Dio, ma da non intendere nella linea di un’azione che prescinde dalle leggi umane e
R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 128
dalla collaborazione degli uomini. Possiamo dunque pensare che gli scrittori biblici furono molto coinvolti
nella stesura della loro opera letteraria, essi hanno sentito la necessità interiore di mettere per iscritto la
straordinaria esperienza di Dio, maturata dentro il popolo dell’Alleanza. Come un poeta scrive la sua
poesia mosso da un’ispirazione, cioè da una forte intuizione interiore che coinvolge i suoi sentimenti più
profondi, ma anche la sua intelligenza, il suo talento artistico, la sua sensibilità, così deve essere avvenuto
per gli autori biblici. La loro ispirazione scaturisce dalla «fede» vissuta dentro il popolo eletto a cui
appartengono. Dio li ha scelti, ha agito in loro e attraverso di loro. Certo essi lavorarono molto e in modo
differente per scrivere la loro «opera letteraria», raccogliendo fonti, testimonianze ed elaborando il tutto
rimanendo fedeli alla rivelazione di Dio. Gli autori biblici sono veri artisti del linguaggio: fanno uso di generi
letterari, di formule tradizionali, di immagini, di simboli poetici, sono dunque veri autori dei loro libri.
Ognuno ha scritto con il suo stile, il suo talento letterario e artistico, ognuno si è espresso con il suo
linguaggio, con la cultura del suo tempo, che era diversa a secondo del tipo di scuola o di tradizione
letteraria alla quale ciascuno apparteneva, come diverso è stato pure il modo con il quale Dio li ha ispirati.
Questo significa che la loro «opera letteraria» dovrà essere adeguatamente letta e interpretata (cf.
ermeneutica biblica ) per cogliere in essa l’autentica «Parola di Dio».

I dati delle scienze bibliche odierne, che hanno applicato alla Bibbia uno studio storico critico, hanno mostrato che i
libri sacri, soprattutto quelli dell’AT, sono andati formandosi a poco a poco, con l'apporto di moltissime persone.
Intorno al Pentateuco, si è lavorato da Mosè in poi per ben 700 anni, l'autore deuteronomista che ha scritto i libri che
vanno da Deuteronomio a 1-2 Re, come l'autore cronista che ha scritto 1-2 Cronache, Esdra e Neemia, utilizzano fonti
antiche, tradizioni storiche preesistenti, opera di altri autori. Gli attuali libri profetici, prima della loro fissazione nel
canone biblico, continuarono ad essere completati, commentati e ampliati a più riprese dai discepoli dei profeti.
Anche il materiale evangelico, che forma la base dei vangeli, ha subito attraverso la predicazione della chiesa
primitiva un complicato processo di elaborazione prima di essere utilizzato dagli evangelisti. Dunque i libri biblici sono
il risultato dell'apporto di numerosi autori spesso rimasti anonimi, ma che hanno fatto sentire il loro influsso sui libri
sacri.
Ci si chiede allora se il carisma dell'ispirazione sia proprio dell'ultimo autore o redattore del libro o se anche tutti gli
altri autori se pur anonimi e lontani abbiano partecipato a questo carisma dell'ispirazione. Dobbiamo rispondere, con
N. Lohfink, che sarebbe una visione molto povera dell'ispirazione pensare che lo Spirito Santo non sia stato presente
nei momenti più creativi del formarsi dell'opera e lo sia stato solo nella tappa finale. E' più esatto pensare che lo
Spirito Santo, che ha operato nel momento costitutivo della Rivelazione, ha continuato ad agire, in tutti quegli autori
che hanno dato il loro contributo al formarsi dei libri biblici. Occorre stare attenti a non considerare l'ispirazione come
un carisma isolato: gli autori sacri fanno parte del popolo di Dio, il loro carisma nasce ed è il frutto dell'agire di Dio in
questo popolo. Dunque l'ispirazione degli autori è il punto terminale di tutto un movimento di grazia che Dio ha
suscitato nel suo popolo. Gli agiografi sorgono da una comunità e la loro opera è destinata alla comunità.

3. LA REALTÀ DIVINO-UMANA DELLA SACRA SCRITTURA: ANALOGIA CON IL MISTERO DELL’INCARNAZIONE

Affermare che la Bibbia è «Parola di Dio», vuol dire che le Sacre Scritture sono un libro di fede, esse non
solo contengono la Rivelazione di Dio, una verità su Dio, ma hanno anche «la forza» e «la potenza» di
comunicare questa rivelazione, questa salvezza, questa verità. La «Parola di Dio» è potenza divina – dice S.
Paolo – per la salvezza di chiunque crede (Rom 1,16).
La realtà DIVINO-UMANA delle Scritture va colta alla luce del mistero del Signore Gesù: le Scritture si
comprendono in analogia con il mistero dell’Incarnazione. Come c’è una “discesa” del Verbo, Parola
eterna, nella “carne”, cioè nella concreta umanità, del Signore Gesù Cristo (Gv 1,1), così c’è un
“abbassamento” (cf. Fil 2,5-6) della Parola di Dio, nelle parole scritte che compongono i sacri testi. Come si
deve riconoscere il Figlio di Dio, in Gesù, uomo tra gli uomini, così si è chiamati a riconoscere la Parola di
Dio, nella Scrittura umana, nella molteplicità dei libri, nella diversità delle forme espressive e dei contenuti.
Dio assume il linguaggio umano, per rivelare in modo comprensibile al nostro essere uomini, il mistero
profondo e inesauribile della sua persona.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 129


Afferma la Dei Verbum:

DV 13 "Le parole di Dio infatti, espresse con lingue umane si sono fatte simili al parlare dell'uomo, come
già il Verbo dell'eterno Padre, avendo assunto le debolezze della umana natura, si fece simile all'uomo".
La Parola di Dio però, non va dimenticato, incarnandosi nel linguaggio umano, assume questo linguaggio
nella sua totalità e concretezza, come il Figlio di Dio assume totalmente la nostra umanità.

Le Scritture dunque sono per i credenti un testo ispirato. L’ “ispirazione” – come abbiamo visto -, è
un’azione dello Spirito santo che non solo ha agito negli autori, facendo esistere il testo sacro, ma continua
ad animarle con il suo soffio. Così, tra l’agiografo che ha fissato il testo sotto la mozione dello Spirito e il
lettore che accosta il testo animato dallo stesso Spirito, si stabilisce una misteriosa comunione, che supera
la distanza del tempo. La Dei Verbum afferma:

DV 12 «Le Scritture devono essere interpretate nello stesso Spirito dal quale sono state ispirate» .

B. LA VERITA’ DELLA SACRA SCRITTURA (DV- Cap. III)

→ La Bibbia può contenere errori?


→ In che senso tutto ciò che è scritto nella Bibbia è «vero»?

Dopo aver affrontato il tema dell’Ispirazione ed aver visto la particolarità della Sacra Scrittura che ha Dio
come autore, ma contemporaneamente ha anche autori umani che collaborano con lui, ci domandiamo se
sia possibile trovare errori nella Bibbia:
- La Bibbia può sbagliare?
- Oppure girando la domanda al positivo: in che senso tutto quello che è scritto nella Bibbia è «vero»? La
Bibbia dice la «verità» su Dio?
Tocchiamo qui il tema della «VERITA’» del testo biblico, affrontato nella Dei Verbum al n. 11b.

Ad una lettura attenta troviamo errori e contraddizioni presenti nella Bibbia:


- Nella Genesi i racconti della creazione sembrano essere in contraddizione con le moderne teorie
scientifiche dell’universo («evoluzionismo» Darwin).
- Nel libro di Giosuè si afferma che questo condottiero ordinò al sole di fermarsi e il sole si fermò (Gs
10,12-13) (!!).
- Ci sono comportamenti e costumi sociali nell’Antico Testamento che oggi noi valutiamo come
immorali (poligamia, schiavitù, pena di morte, guerre e stermini di popolazioni).
- Ci sono errori dal punto di vista storico: la storiografia moderna ha evidenziato inesattezza di nomi,
di date, di luoghi in alcuni testi antichi dell’Antico Testamento.

Errori o discordanze sono stati scoperti soprattutto in epoca moderna con la nascita delle «scienze», ma
alcuni di essi erano già stati notati dagli antichi.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 130


Trattare questo tema è importante perché anche oggi si pubblicano libri di autori che, ignari di come vada
colta la «verità» del testo biblico, asseriscono che scienza e fede non possono assolutamente andare
d’accordo e che la Bibbia è un testo violento in quanto non esiste un Dio più violento di quello ebraico e di
quello cristiano. Prima di affrontare la questione presentiamo un breve excursus storico per vedere come il
tema della «verità» della Sacra Scrittura è stato affrontato dal secolo I al secolo XX.

BREVE STORIA DEL PROBLEMA

1. PERIODO DOGMATICO (SEC. I-XVI)

Il periodo dogmatico che va da I al XVI secolo è caratterizzato da una fiducia semplice e spontanea nella
verità della Bibbia nonostante i molti attacchi fatti dai pagani che mettevano in luce errori e contraddizioni
(es. Celso, Porfirio). I grandi Padri della Chiesa rispondevano a queste accuse in questo modo:
S. Giustino “Sono convinto che non vi può essere contraddizione tra le varie parti della Scrittura; quando mi
sembrasse il contrario, piuttosto confesserò la mia incapacità di comprendere” (Dialogo contro Trifone, 65).
Origene: “Noi sappiamo che la Scrittura non è stata redatta per raccontarci le storie antiche, ma per nostra
istruzione salvifica; così comprendiamo che ciò che abbiamo letto è sempre attuale” (Omelie sull’Esodo
2,1).
S. Agostino si trova a dover risolvere la questione delle discordanze evangeliche. Egli insiste che bisogna
tener presente l’intenzione dell’autore e si deve sempre badare al suo modo di parlare (Sul consenso degli
Evangelisti, 29). A coloro, poi, che vogliono cercare nella Scrittura presunti insegnamenti sulla composizione
del mondo, risponde che lo Spirito Santo non ha voluto insegnare queste cose, che non servono alla
salvezza degli uomini (Sulla Genesi alla lettera 2,9).
Ma forse la frase più significativa e curiosa è quella presente negli Atti della disputa con Felice Manicheo:
“Non si legge nel Vangelo che il Signore abbia detto....Vi mando il Paraclito che vi insegnerà come
camminano il sole e la luna. Voleva fare dei cristiani, non dei matematici” (De act. c. Fel. Man., 1,10).
S. Tommaso afferma: “Tutto ciò che è nella Scrittura è vero” (Quodlibet 12, q.17, a.1); egli si riallaccia
esplicitamente a S. Agostino nel dire che è materia di ispirazione solo la verità necessaria alla salvezza: “Lo
Spirito Santo, attraverso gli autori ispirati, ha voluto comunicarci solo le verità necessarie alla nostra
salvezza” (De Ver., q.12, a.2).

2. PERIODO APOLOGETICO (SEC. XVII-XIX):


EPOCA MODERNA - NASCITA DELLA SCIENZA: CRISI DEL CONCETTO DELLA «VERITÀ» BIBLICA

Nell’epoca moderna che va dal XVII al XIX secolo la dottrina della «verità» della Bibbia, fino ad allora
posseduta pacificamente, divenne causa di gravi conflitti con il nascere della «scienza». Tutto ebbe inizio
con il caso Galilei.

Galileo Galilei (1564-1642), matematico, astronomo, scienziato e filosofo della natura, grazie a nuove
conoscenze astronomiche ottenute con il cannocchiale, da lui inventato, riuscì a sostenere la validità del
sistema universale copernicano che già un secolo prima era stato ipotizzato con poco successo.
Copernico (1473-1543) era arrivato a concepire un nuovo sistema universale con al centro, non più la terra,
ma il sole (sistema eliocentrico). La sua teoria, che fu presentata solo come ipotesi, e non fu mai seguita,
trovò negli studi di Galileo una clamorosa conferma a livello scientifico.

Ai sapienti del ‘600 si presentavano dunque due teorie astronomiche: la tolemaica con il suo sistema
geocentrico in cui la terra costituiva il centro di tutto l’universo (Tolomeo II sec. d.C.), che era condivisa da
secoli e la copernicana, con il sistema eliocentrico appoggiata dagli studi Galileo che era nuova, di difficile
comprensione e contrastava con tutte le evidenze. Nonostante le prove di Galileo, la teoria lasciava
R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 131
interrogativi irrisolti; solo poche persone di genio la compresero e anche nella Chiesa ci furono alcuni
teologi a favore di Galileo. Ma purtroppo la maggioranza dei dotti del tempo non la approvarono.
Dobbiamo tenere presente che nel ‘600 non c’erano le nostre conoscenze scientifiche e il nostro retroterra
culturale. Superare il geocentrismo era possibile solo a pochi.

La dottrina astronomica eliocentrica che fino ad allora non aveva interessato la teologia, con Galileo
cominciò a diventare motivo di grandi discussioni anche in campo teologico quando ci si accorse che essa
smentiva un’affermazione della Bibbia, mettendo così in discussione il principio assodato della Sacra
Scrittura come libro «ispirato» esente da errori. L’affermazione in questione è contenuta nel libro di
Giosuè, nel capitolo in cui si racconta la vittoria del popolo di Israele sugli Amorrei nei pressi della città di
Gabaon:

“Quando il Signore consegnò gli Amorrei in mano agli Israeliti, Giosuè parlò al Signore e
disse alla presenza d’ Israele: “Fermati, sole, su Gabaon, luna, sulla valle di Aialon!”. Si
fermò il sole e la luna rimase immobile, finché il popolo non si vendicò dei suoi nemici”
(Gs 10,12-13).

In questo passo, l’autore di questo testo si esprime secondo la concezione geocentrica di Tolomeo (la terra
è al centro e il sole gli ruota attorno). La concezione eliocentrica affermata da Galileo veniva perciò a
contraddire non solo tutte le opinioni dei dotti di quel tempo, ma anche il testo biblico ispirato. La grande
maggioranza degli uomini di scienza si oppose a Galileo e così fecero di conseguenza anche i teologi, che
avvertirono nel nuovo sistema dell’universo, un grave pericolo per la fede della Chiesa, perché esso si
mostrava in contraddizione con le affermazioni della Scrittura e quindi minava alla radice il principio della
«verità» della Bibbia. Lo stesso Galileo si rese ben conto del conflitto, ma la ferma convinzione della bontà
delle sue scoperte, come pure della verità biblica (era credente!) lo portò a cercare una possibile
conciliazione.

- In una lettera al benedettino don Castelli, egli scrisse che l’obiettivo della Scrittura è quello di insegnare
cose che “essendo necessarie per la loro salvezza e superando ogni umano discorso, non potevano per altra
scienza nè per altro mezzo farcisi credibili, che per bocca dell’ istesso Spirito santo”.

- E a Cristina di Lorena richiamava - con le parole del card. Baronio - il principio che lo Spirito Santo nella
Scrittura ci vuole insegnare “non come va il cielo, ma come si va al cielo”.

Egli era arrivato a convincersi che la sua teoria scientifica non negava la «verità» biblica fondata
sull’ispirazione, perché la «verità» ispirata riguarda solo le cose necessarie alla salvezza (del resto, non
avevano detto già qualcosa di simile S. Agostino e S. Tommaso?). Ma non riuscì a convincere la maggioranza
dei teologi che sollecitarono il Magistero ad intervenire con autorità. Galileo e il suo nuovo sistema furono
condannati dall’Inquisizione romana nel 1616.

Come mai la via suggerita da Galileo per risolvere il conflitto non fu accolta, mentre noi oggi sappiamo che
aveva ragione, e il Papa Giovanni Paolo II lo ha voluto pubblicamente riabilitare?

La difficoltà dei teologi di allora ad ammettere un possibile errore nella Bibbia era dovuta alla loro
particolare impostazione della dottrina dell’inerranza (nella Bibbia non ci possono essere errori!). Essi non
hanno capito che accettando le scoperte scientifiche di Galileo, non si metteva in discussione la «verità»
della Bibbia, ma solo un certo modo di intendere questa «verità». E questo particolare modo di intendere la
verità della Bibbia dipendeva ancora una volta dalla concezione intellettualistica della Rivelazione e dal
modello dell’ispirazione di quel tempo.

La Rivelazione, in quel momento storico, era concepita come una «somma di verità» che Dio aveva rivelato
agli uomini per il loro bene e che, per particolare intervento dello Spirito Santo, aveva fatto sì che si

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 132


tramandassero a tutte le generazioni attraverso la Bibbia e la tradizione della Chiesa. In quest’ottica la
Bibbia appariva come il contenitore di tutte queste verità rivelate da Dio. Dio avrebbe ispirato agli agiografi
delle «conoscenze vere» che loro, poi avrebbero messo per iscritto secondo le loro capacità, sotto la sua
assistenza, perché non commettessero errori. La Bibbia, dunque, conteneva le conoscenze vere che Dio ha
trasmesso agli agiografi e che ha garantito che scrivessero senza errore.
La verità della Bibbia era per loro «la verità di ogni singola affermazione», parola per parola, in quanto
ognuna di esse era una conoscenza certa ispirata da Dio. Di conseguenza, chiunque metteva in discussione
una affermazione del testo biblico, metteva in discussione la «verità» stessa della Bibbia! In questo schema
di pensiero Galileo non poteva che essere condannato come eretico!

Questa impostazione teologica della «inerranza della sacra Scrittura» fu corretta con il Concilio Vaticano II
nel documento della Dei Verbum. La DV quindi segna un nuovo inizio anche nella concezione della
«Verità» della Sacra Scrittura e apre una nuova stagione teologica sul tema.

3. PERIODO ERMENEUTICO (SEC. XX) - CONCILIO VATICANO II – DV 11

Nel secolo XX i nuovi studi biblici, teologici, filosofici, letterari portano a nuove acquisizioni che si rivelano
fondamentali anche per il nostro problema.

- Gli studi teologici approfondiscono il concetto di Rivelazione come la comunicazione di Dio nella storia. La
Rivelazione non è una somma di verità astoriche, ma la comunicazione progressiva di Dio nella storia
compiutasi nella persona di Gesù Cristo. La «verità della Bibbia» non è data dalla somma delle sue
affermazioni, non va cercata in ogni singola frase, parola per parola, ma è piuttosto «l’immagine vera di
Dio che si è manifestata nella storia e che emerge dal testo sacro debitamente interpretato come «opera
letteraria e teologica».

- Gli studi biblici mettono in evidenza come la Bibbia sia un’opera letteraria scritta da autori umani, la sua
«verità» è quella tipica di ogni opera letteraria, la si scopre interpretando i testi. Inoltre è chiaro che gli
autori biblici non potevano avere le concezioni scientifiche che abbiamo noi oggi! Dio parla attraverso il
linguaggio umano il quale è condizionato dai limiti culturali del tempo in cui sono stati scritti. Dio rispetta i
modi del parlare e del comprendere umano propri dell’uomo antico. La verità della Bibbia riguarda il
«mistero di Dio», non le scienze… Non c’è opposizione tra scienza e fede.

Tutti questi apporti permettono di entrare in una nuova fase della teologia, chiamata “fase ermeneutica”.
Al posto di difendere tout-court la verità della Bibbia (approccio apologetico) ci si sforza di capire in che
senso essa è vera (approccio ermeneutico). Questo nuovo atteggiamento permette di superare le difficoltà
in cui si era trovata “l’apologetica” e di riaffermare in maniera nuova «la Verità» della Bibbia, senza porla in
antitesi con la scienza.

La Dei Verbum assume questa nuova visione del problema, indicando una nuova strada.

Dv 11b Poiché dunque tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo,
bisogna ritenere, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la
verità che Dio, per la nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle sacre Scritture. Pertanto «ogni Scrittura
divinamente ispirata è anche utile per insegnare, per convincere, per correggere, per educare alla giustizia, affinché
l'uomo di Dio sia perfetto, addestrato ad ogni opera buona».

La Verità della Scrittura è una «Verità … in ordine alla nostra salvezza»: La Bibbia fa emergere una Verità
teologica: la Verità del volto di Dio; Dio ha ispirato gli autori sacri i quali presentano il mistero di Dio che si
rivela progressivamente. Solo in Gesù la rivelazione giunge alla sua pienezza. La verità della Bibbia è

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 133


dunque il mistero di Gesù Cristo, preparato nella storia salvifica del popolo di Israele e prolungato nella
storia della Chiesa.
Dunque nella Sacra Scrittura ci possono essere errori dal punto di vista astronomico, geografico,
inesattezze dal punto di vista storico, perché la cultura dell’uomo antico non è uguale a quella dell’uomo di
oggi. L’uomo antico non possedeva le conoscenze scientifiche che noi abbiamo, né gli strumenti per
redigere una esatta cosmologia, storiografia o geografia. La «verità» riguarda il mistero di Dio!

Riguardo al tema della «violenza» nella Bibbia occorre dire che la «verità» della Bibbia è Gesù Cristo, e
dunque è Lui che rivela il vero volto Dio. Si dovranno allora leggere i passi dell’ AT in cui Dio appare con un
volto violento interpretando adeguatamente questo linguaggio religioso e andando al di là dei rivestimenti
letterari dovute alle particolari concezioni dell’uomo antico. Ad esempio: per l’uomo antico non esistono le
cause seconde, per cui ogni fenomeno della natura, sia esso positivo o negativo, è attribuito alla divinità. E’
facile anche proiettare su Dio atteggiamenti aggressivi, propri dell’uomo. La Bibbia mette in guardia dagli
errori in cui può cadere l’uomo religioso.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 134


10. L’INTERPRETAZIONE DELLA SACRA SCRITTURA
(DV - Cap. III)

→ Qual è il significato della parola «Ermeneutica» e del termine «Esegesi»?


→ Come si interpreta la Bibbia?

Dopo aver parlato del tema dell’ispirazione e della verità nella Sacra Scrittura, la DV affronta il tema
dell’interpretazione. Chiariamo prima di tutto i termini «ermeneutuca» ed «esegesi».

ERMENEUTICA deriva dal greco hermeneuein che significa «interpretazione», «spiegazione». Con questo
termine si fa rifermento a principi, teorie e metodologie che gli studiosi moderni usano per interpretare i
testi antichi.

ESEGESI è una parola di origine greca composta dalla preposizione “ex” che vuol dire “fuori” e il verbo
“hegeomai” che significa “condurre”. L’esegesi, allora, è lo studio del testo teso a “tirar fuori” la sua
«verità» profonda, il suo messaggio. Il lavoro di spiegazione dei singoli testi della Bibbia si chiama
«esegesi».

La Bibbia, come abbiamo visto, comprende un numero considerevole di libri, scritti in lingue diverse e in
un’epoca molto lontana, più di 2000 anni fa; si è andata formando con l’apporto di molti uomini che hanno
scritto come veri autori, con il loro stile e il loro talento letterario artistico. La distanza che esiste tra noi e
loro esige tutto un lavoro di interpretazione. Questo è un problema comune a tutti i testi di letteratura che
il passato ci ha lasciato: come capire testi scritti tanto tempo fa in un ambiente e cultura molto diversi dal
nostro?

La Bibbia pone un’ulteriore problema di interpretazione: essa, infatti, non è solo un insieme di libri scritti da
autori molto lontani da noi nel tempo e nello spazio, essa è Rivelazione di Dio, è la Parola che Dio ha voluto
comunicare all’umanità. Interpretare la Bibbia, allora, non vuol dire solo capire «l’opera letteraria» scritta
dagli autori umani, ma la Parola di Dio che, attraverso quei testi, si manifesta. E questa è una particolarità
della Bibbia, non condivisa da alcun altro libro.

La questione dell’interpretazione della Bibbia è importante perchè la Bibbia per i credenti costituisce la
norma della loro fede. Non deve capitare che - il lettore -, invece di “tirar fuori” dal testo la «verità», “porti
dentro” nel testo la propria «pre-comprensione», «ideologia», le proprie attese e visioni corrompendo così
l’autentico messaggio (Cf. Ardusso, I molti volti di Gesù di Nazaret, in, Gesù Cristo Figlio del Dio vivente, pp.
19-41). Sappiamo che l’interpretazione non è mai un evento completamente oggettivo, perché chi legge
coglie il messaggio secondo quello che lui è, dunque è presente anche un aspetto soggettivo intrinseco
all’interpretazione stessa. Se chi interpreta “ci mette del suo” come posso essere sicuro che
quell’interpretazione sia autentica, che quella persona - o io stesso - abbia capito veramente cosa volesse
comunicare l’autore? La domanda è seria! Tocchiamo qui il problema dell’autenticità dell’interpretazione.

Chi può garantire una corretta lettura del testo sacro? Per comprendere adeguatamente i testi di
letteratura antica e moderna ci sono interpreti che hanno autorevolezza rispetto ad altri - sono i critici
letterari - le loro interpretazioni diventano punto di riferimento per tutti. Esistono degli interpreti
autorevoli della Bibbia: chi sono? Risponderemo tra poco a questa domanda.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 135


Prima di vedere cosa dice la DV sull’interpretazione della Sacra Scrittura, proviamo a fare una panoramica
sul passato, mettendo in evidenza la storia dell’ermeneutica biblica.

A. BREVE STORIA DELL’ERMENEUTICA BIBLICA

→ Come è stata interpretata la Bibbia nel corso dei secoli?

SCHEMA

1. EPOCA PATRISTICA (I-VIII sec.)

Nell’epoca patristica si privilegia una esegesi spirituale allegorica e simbolica (Origene; s. Agostino).

2. EPOCA MEDIEVALE (IX-XVsec.)

In epoca Medievale si privilegia una esegesi dogmatica per dare fondamento sicuro alla dottrina della fede:
la Bibbia è usata per dimostrare posizioni filosofiche e teologiche.

3. EPOCA MODERNA (XVI-XIX sec.):

L’EPOCA MODERNA è influenzata da due eventi importanti:

- Scisma protestante: Lutero (“sola Scriptura”): basta lo Spirito per interpretare la Scrittura; la chiesa non
può pretendere questa autorità.

- Sviluppo delle scienze; del razionalismo; nascita dello studio scientifico della Bibbia
La chiesa si oppone all’esegesi scientifica perché in quel tempo era influenzata dal «razionalismo» che
negava a priori ogni evento soprannaturale distruggendo il testo sacro

conseguenze
La Bibbia viene limitata al clero, che la spiega ai fedeli, e sottratta al popolo di Dio, per timore di letture
scorrette.

4. EPOCA CONTEMPORANEA (dal XX sec.)

- Interventi del magistero che promuovono lo studio scientifico della BIBBIA


liberandolo dal presupposto razionalista:
Provvidentissimus Deus (Leone XIII) → Divino Afflante Spiritu (Pio XII) → DEI VERBUM (Conc. Vaticano II)


Conseguenze positive:
- Sì allo studio scientifico della Bibbia come «opera letteraria»
- Fioritura dello studio scientifico della Bibbia in ambito cattolico
- Bibbia riconsegnata al popolo di Dio

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 136


1. E 2. EPOCA PATRISTICA E EPOCA MEDIEVALE

In epoca patristica e medievale l’interpretazione della Bibbia non pone problemi, mentre in epoca moderna
e contemporanea succedono eventi che scatenato tutta una serie di difficoltà. Su queste due ultime epoche
(la terza e la quarta) verterà la nostra riflessione.

3. EPOCA MODERNA (XVI-XIX SEC)

L’epoca moderna è influenzata da due eventi importanti:

1) Il primo è dato dallo scisma protestante e dalla polemica che si sviluppa tra protestanti e cattolici
proprio sul terreno della Bibbia. Il principio fondamentale per Lutero era quello della “Sola Scriptura”.
Secondo lui, ogni credente che si accosta alla Bibbia con umiltà e preghiera, è in grado di interpretare
autenticamente la Sacra Scrittura. Egli va contro la pretesa della chiesa di vincolare a sé l’autentica
interpretazione della Bibbia, vigilando su letture inadeguate o erronee. Lutero dimenticava che lo Spirito
non ha scritto la Bibbia da solo, ma con la comunità credente; se la Scrittura dunque è nata dalla comunità
credente, dalla chiesa, così deve avvenire similmente anche la sua l’interpretazione. Questa polemica
protestante ebbe delle conseguenze in campo cattolico: la chiesa cattolica per evitare il pericolo di letture
scorrette, di inquinamenti biblici, e anche per l’apparire di movimenti ereticali che poggiavano le loro
rivendicazioni solo sulla Scrittura, iniziò un processo di cautela e restrizione. La Bibbia fu limitata al clero
che la leggeva in latino e la interpretava con l’apporto della tradizione della chiesa, e solo con questa
mediazione fu data alla gente.

2) Il secondo evento è quello dello sviluppo delle scienze e del razionalismo. Anche questa evoluzione
della cultura occidentale ebbe dei risvolti sulla lettura e interpretazione della Bibbia.
A partire dal XVII sec. incominciarono ad essere applicati allo studio dei testi antichi i metodi della critica
letteraria e storica, si scoprono i «generi letterari», si studiano la genesi e la formazione dei testi antichi
per verificare ed eventualmente correggere la interpretazione di molte opere letterarie. Anche la Bibbia, in
quanto libro antico di indubbio pregio e valore, fu sottoposta a questo tipo di studio scientifico, ma questi
studi sorti fuori dall’ ambito ecclesiale furono influenzati dal razionalismo, una corrente di pensiero che
metteva in dubbio i fondamenti e i valori della stessa fede cristiana. I razionalisti applicavano alla Bibbia
uno studio storico-critico, ma partivano dal presupposto che ciò che è soprannaturale non ha valore. Essi
arrivarono così a distruggere il valore del testo sacro. Alcuni di loro giunsero ad affermare che la
trasfigurazione di Gesù è da intendere come un effetto controluce; che la risurrezione di Gesù non è reale;
che l’ascensione è un’illusione dei discepoli ecc..
Dunque questa esegesi che usava «nuovi metodi», ma distruggeva i testi sacri, fu bloccata dalla Chiesa
perché era una grave minaccia alle verità rivelate. La Chiesa si oppose ai nuovi metodi e continuò a
contrapporre ad essi l’esegesi tradizionale, spirituale (padri) e dogmatica (medioevo).

4. EPOCA CONTEMPORANEA (XX SEC. IN POI)

In epoca contemporanea XX sec. le cose cambiano. La Chiesa comprende che tali sconvolgenti risultati a
cui giungevano gli studi dei razionalisti sulla Bibbia, non erano dovuti al metodo scientifico in sè, all’uso dei
nuovi metodi interpretativi, ma al vizio di fondo che eliminava ogni riferimento al soprannaturale! I
razionalisti non consideravano la Bibbia come «Parola di Dio», come libro «ispirato», dunque per loro Dio
non era l’autore di tali scritti. Ci si accorse che non era l’uso dei - metodi scientifici d’interpretazione – a
impedire un’autentica interpretazione del testo, ma la negazione della fede.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 137


Dopo questa chiarezza, la chiesa incomincia a incoraggiare gli esegeti a studiare la Bibbia dal punto di vista
«letterario», ma senza negare il soprannaturale, perché la Bibbia non è solo «parola di uomini», ma anche
«Parola di Dio».
Incominciano ad uscire interventi del magistero che invitano gli esegeti cattolici a studiare la Bibbia anche
come opera letteraria, applicando i metodi della critica letteraria e storica: la Provvidentissimus Deus
(Leone XIII), la Divino Afflante Spiritu (Pio XII) e infine la DEI VERBUM (Conc. Vaticano II).
Fioriscono ovunque studi biblici. Il documento della Dei Verbum traccia le linee per una corretta
interpretazione dalla Sacra Scrittura e invita tutto il popolo di Dio a leggere e conoscere il testo sacro.
Nessuno ormai, se vuole leggere la Sacra Scrittura con la chiesa e nella chiesa, può prescindere da questo
documento. Dopo la Dei Verbum, esce un altro documento della Pontificia Commissione Biblica:
L’interpretazione della Bibbia nella chiesa del 1993 con una prefazione di J.Ratzinger che riprende la DV,
ma approfondisce e sviluppa alla luce dei nuovi metodi letterari e teologici il tema della ermeneutica
biblica.

B. ITINERARIO ERMENEUTICO DELLA BIBBIA PROPOSTO DALLA DEI VERBUM . 12

→ Come si deve leggere la Bibbia ?

La DV, al n.12, ci presenta quello che è l’itinerario ermeneutico indispensabile per interpretare
correttamente la Scrittura. Questo itinerario si può riassumere in due punti che vanno tenuti saldamente
uniti: 1) capire quello che il testo vuole dire (= il senso letterale delle Scritture). 2) incontrare e accogliere la
rivelazione di Dio (= il senso spirituale delle Scritture).
Questi due criteri valgono prima di tutto per gli esegeti ai quali la chiesa affida il compito di studiare e
interpretare le Scritture, ma i risultati del loro lavoro è destinato a tutto il popolo di Dio.

DV 12a. Poiché Dio nella sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana, l'interprete della sacra
Scrittura, per capire bene ciò che egli ha voluto comunicarci, deve ricercare con attenzione
- che cosa gli agiografi abbiano veramente voluto dire
- e a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole.
Per ricavare l'intenzione degli agiografi, si deve tener conto fra l'altro anche dei generi letterari. La verità infatti viene
diversamente proposta ed espressa in testi in vario modo storici, o profetici, o poetici, o anche in altri generi di
espressione. È necessario dunque che l'interprete ricerchi il senso che l'agiografo in determinate circostanze, secondo
la condizione del suo tempo e della sua cultura, per mezzo dei generi letterari allora in uso, intendeva esprimere ed ha
di fatto espresso.

1. LA RICERCA DEL SENSO LETTERALE DELLE SCRITTURE (=CAPIRE QUELLO CHE IL TESTO VUOLE DIRE)

Dio parla nella Sacra Scrittura attraverso l’autore umano, dunque il primo passo che bisogna fare è capire il
messaggio dell’autore, per poi cogliere la Parola di Dio espressa in quella parola umana. L’autore ispirato
parla della sua esperienza di fede nel Dio di Abramo, di Isacco di Giacobbe, di quell’esperienza unica di Dio
che lui e il suo popolo Israele hanno fatto; questa sua esperienza è però condizionata dalla sua storia, dalla
sua cultura.
Con molta insistenza la DV dice che per comprendere esattamente il senso che l’autore sacro ha voluto
dare al suo testo bisogna dunque studiare il genere letterario usato dall’autore, bisogna conoscere il
contesto culturale in cui scrive, la sua mentalità, le tecniche letterarie in uso.
Per capire un testo così distante nel tempo bisogna gettare un ponte tra il testo e l’autore: andare a
scoprire il più possibile il mondo dell’autore, il suo orizzonte culturale.
R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 138
La Dei Verbum dice di no ad una lettura fondamentalista della Sacra Scrittura, che prende tutto alla lettera e non si
rende conto dei diversi modi di esprimersi presenti nella Bibbia. Questa è una lettura ingenua, non rispettosa
dell’uomo, che corrompe e deforma il vero messaggio biblico, perché non tiene conto del genere letterario dei testi e
rifiuta ogni sforzo di comprensione. Una tale lettura viene portata avanti per esempio dai testimoni di Geova. Questa
lettura è erronea, è «un suicidio del pensiero», anche se le persone che la propongono sono animate da una sincera
ricerca religiosa e sono degne di rispetto.

Il lavoro d’interpretazione è stato affidato dalla chiesa agli esegeti. Essi dunque hanno studiato la Scrittura
applicando quel metodo storico-critico, che inizialmente aveva incontrato delle difficoltà da parte della
Chiesa, ma poi è stato riconosciuto come valido e poi integrato da ulteriori nuovi metodi letterari.

Il metodo storico-critico che si avvale di diverse tappe (la critica testuale, la critica filologica, la critica
letteraria, la critica storica ecc… (vedi schema più avanti), ha lo scopo di rendere accessibile al lettore
moderno il significato dei testi biblici spesso difficile da cogliere. I risultati di questi studi non sono per
pochi iniziati, ma sono per tutto il popolo di Dio. Tante opere divulgative sono state pubblicate per
condurre i credenti a comprendere e leggere il testo biblico.

Esempio: conoscere il genere letterario dei testi biblici

E’ importante conoscere per esempio i generi letterari presenti nei testi biblici. Noi conosciamo i generi
letterari usati nella nostro cultura e li sappiamo distinguere: sappiamo capire subito la differenza che esiste
tra un romanzo, un libro di storia, un libro di favole, un libro di poesie. Se ho due libri che parlano di uno
stesso avvenimento, ma uno è un romanzo e l'altro è un'opera storica è logico che non darò la stessa
misura di credibilità alle due narrazioni. La Bibbia è formata da tanti libri che appartengono a diversi tipi di
letteratura e usa diversi generi letterari, alcuni dei quali non sono più in uso nella nostra cultura.

* Il genere letterario di Genesi 1-11: Eziologia metastorica

I capitoli di Gen 1-11 (racconti di creazione; Adamo ed Eva; racconto del diluvio ecc…), non sono storici in
senso proprio, sono un’eziologia metastorica29 che usa il linguaggio mitico per rispondere ai grandi perchè
dell’uomo, ai grandi problemi dell’esistenza: chi ha creato tutto ciò che esiste? Perchè esiste la creazione?
Perché c’è il male? Il male deriva da Dio oppure no? Perché il male distrugge il rapporto tra uomo e uomo?
Perché il male distrugge la creazione di Dio? Qual è rapporto tra Dio e l’uomo? Il racconto biblico ispirato
vuole rispondere a queste domande, che anche l’uomo moderno si pone, e lo fa usando il linguaggio del
mito30. Il mito secondo M. Eliade è «un racconto popolare che esprime simbolicamente ciò che la filosofia
e la teologia definiscono dialetticamente». Dire che il racconto è “metastorico” non significa dire ‘astorico’
o ‘al di là della storia’, o dire che è “falso”, “irreale”, ma significa che è fondativo della storia di sempre. Qui
viene rivelato qualcosa che vale anche per l’uomo di oggi e di ogni tempo.

* Genere letterario didattico-sapienziale

La letteratura sapienziale contiene testi che mirano a far comprendere il mistero della vita umana nei suoi
aspetti essenziali. Sono toccati i temi della vita, della morte, della sofferenza, dell’ amore, dell’ educazione.
E’ una grande riflessione sull’esperienza umana fatta alla luce della fede. L’insegnamento è proposto
attraverso proverbi (mashal), enigmi, parabole, allegorie. ma può anche svilupparsi sotto forma di racconto
(libro di Giona o di Giobbe).

29
Il termine «eziologia» deriva dal greco aitia = causa e logos = discorso, indagine; è usato per indicare la
ricerca di una spiegazione di qualche particolare fenomeno.
30 Le immagini che l’autore biblico usa sono prese dai miti antichi ma questi miti sono purificati, e spogliati

dei loro aspetti politeistici per esprimere la fede nel Dio d’Israele.
R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 139
Es.) Il libro di Giona è un racconto didattico, una specie di “parabola” e non un testo storico. Sapendo
questo non abbiamo più difficoltà a leggere l'episodio di Giona che rimane tre giorni e tre notti nel ventre
del pesce, o quello degli animali di Ninive che si vestono di sacco e digiunano... In una parabola tutto è
possibile! Il libro ha un messaggio teologico importante per Israele: il popolo eletto deve uscire da una
concezione troppo ristretta della salvezza, da un particolarismo che esclude gli altri, per aprirsi
all'universalismo. Il Dio d'Israele è il Dio che vuole la salvezza «di tutti» anche della pagana città di Ninive e
soprattutto è un Dio misericordioso.

Es) Il libro di Giobbe che tratta del problema del dolore innocente appartiene al genere letterario didattico.
Giobbe non è un personaggio storico, ma rappresenta “ogni uomo sofferente”.

* Genere letterario storico

I libri che nella nostra bibbia sono classificati come testi storici, non sono tutti storici alla stessa maniera:
- Abbiamo testi che si rifanno a tradizioni di famiglia tramandate oralmente e poi elaborate teologicamente
(storie del Patriarchi Gen 12-50).
- Altri presentano una storia epica: es) Esodo (il miracolo del mare Rosso). I fatti sono realmente accaduti,
ma affermare la storicità non vuol dire che tutto quanto è scritto in questo libro è da considerare come
“cronaca” di quanto è avvenuto in passato. L’evento storico è trasmesso con i colori vivi tipici di un
racconto epico dove il fatto è celebrato è raccontato poeticamente. All’autore interessa trasmettere il
significato teologico dell’evento e non certo farne una descrizione cronachistica: Dio che è sempre dalla
parte dei poveri e degli oppressi è un Dio all’opera per salvare e liberare!
- Abbiamo però anche testi di storia vera e propria dove i fatti sono documentati, come la storia della
monarchia descritta in 1-2 Re e 1-2 Cronache. Gli autori hanno utilizzato archivi del tempo (1 Re 5,15-16;
7,13-51) e archivi regali, simili agli annali assiri (1Re 20; 22,1-38; 2 Re 3,4-27; 9,1-10,27).

* Genere letterario poetico: comprende in primo luogo i Salmi che sono un libro di preghiere, presentano
inni, azioni di grazie e di supplica. Sono brani lirici anche il libro delle Lamentazioni, il Cantico dei Cantici;
altri brani poetici sono inseriti nei libri storici e profetici. Questi scritti seguono le leggi della poetica
ebraica.

* Genere letterario profetico: abbiamo qui il contributo enorme dei profeti. Essi scrivono i loro “oracoli”
introdotti dalle parole “Così parla Yahvè”, “Oracolo di Yahvè”. Richiamano il popolo d’Israele alla fedeltà a
YAHWÈ. Sono convinti che la loro parola viene da Dio stesso. Alternano oracoli di salvezza e di minaccia,
denunciano le ingiustizie, si mettono dalla parte dei poveri.

* Genere letterario vangelo


Anche i vangeli sono un particolare genere letterario, essi sono dei documenti storici, ma non sono una
storia di Gesù intesa in senso moderno, non sono una biografia. Sono testi teologici cioè la fissazione di
quella che è la predicazione della chiesa primitiva riguardo a Gesù. Sono l'annuncio che Gesù è il Cristo, il
Figlio di Dio e non la cronaca registrata di quanto Gesù ha detto e fatto (Cf. Storicità del vangeli).

* Il genere letterario apocalittico è ricco di visioni misteriose, usa un complesso e raffinato sistema di
simboli che esigono di essere decodificati. Troviamo questo genere letterario nel libro di Daniele, Isaia
Zaccaria, Gioele e nell’Apocalisse. Questa letteratura nasce per dare speranza ad un popolo che vive nella
persecuzione, annuncia che Dio è il Signore della storia e avrà vittoria su ogni tipo di male.
Nell’Apocalisse c'è un complesso simbolismo che deve essere decodificato:
- il simbolismo degli sconvolgimenti cosmici (il sole che diventa nero, la luna che diventa sangue, le stelle
che cadono, i terremoti ecc...) che esprimono la presenza immediata di Dio nella storia. L'intervento di Dio
si fa sentire come una potenza che trasforma. La violenza con la quale si descrivono questi sconvolgimenti è
indicatrice della trasformazione radicale che Dio compirà nella storia.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 140


- Il simbolismo cromatico, dei colori: ogni colore ha un significato: il bianco indica la trascendenza, il rosso è
simbolo di violenza, il nero di negatività ecc...
- Il simbolismo teriomorfo, degli animali: gli animali esprimono una forza negativa o positiva, che si immette
nella storia, che fa pressione sugli uomini, ma che è sempre sotto il dominio di Dio.
- Il simbolismo aritmetico: i numeri non hanno solo valore quantitativo ma anche un valore qualitativo, il
sette indica pienezza, totalità, perfezione, tre e mezzo indica parzialità ecc...
Senza una conoscenza del significato di questi simboli l'Apocalisse è incomprensibile.

Abbiamo fatto solo degli esempi di generi letterari, ma se ne potrebbero fare molti altri. Quanto abbiamo
detto è sufficiente per capire l'importanza che un tale studio ha per la comprensione della Scrittura.
Abbiamo capito, a partire dal documento della DV che la Bibbia va letta a livello letterario, ma anche questo
passo, pur importante, non è ancora sufficiente. Ecco allora la seconda precisazione della DV: occorre
cogliere il senso spirituale della Bibbia perché essa è PAROLA di DIO.

2. LA RICERCA DEL SENSO SPIRITUALE DELLE SCRITTURE ( INCONTRARE E ACCOGLIERE LA RIVELAZIONE DI DIO)

Poichè la Bibbia ha Dio come autore, è Parola di Dio. Essa è opera dello Spirito e dunque per prima cosa
bisogna leggere la Bibbia in comunione con lo Spirito Santo che l’ha prodotta. Leggiamo ancora il passo
della DV:

12 b “Però, dovendo la Sacra Scrittura essere letta e interpretata con lo stesso Spirito con cui fu scritta, per scoprire
con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e all’unità di tutta la
Scrittura, tenendo debito conto della viva tradizione di tutta la Chiesa e dell’analogia della fede”.

I Padri della Chiesa avevano capito molto bene questo principio quando facevano una lettura spirituale
della Bibbia. Cito qualche frase dei Padri che mostra questa loro convinzione:

- Origene: “Chi legge le Scritture deve essere pieno dello Spirito perché solo così può
comprenderle”.
Gregorio Magno: “E’ solo lo Spirito che apre la mente di chi legge le Scritture e lo dispone
all’obbedienza della Parola”.
Agostino: “Se Cristo è la porta, lo Spirito Santo è il portinaio, perché come aveva detto Gesù, egli ci
introduce alla verità tutta intera.”

La lettura della Bibbia fatta nello Spirito è la lettura di fede e presuppone un uomo credente che vive nella
chiesa, in comunione con lo Spirito Santo, dono del Signore Risorto e si lascia da lui guidare. La lettura
credente è quella fatta in un clima di preghiera, di meditazione. E’ quella lettura in cui si fa tacere se stessi
per porsi in ascolto dello Spirito, che rende attuali quelle parole scritte più di 2000 anni fa. Il credente farà
l’esperienza di scoprire come attraverso questa Parola, Dio gli parla!

Il testo della DV enuncia poi altri tre criteri importanti per ricercare il senso spirituale della Scrittura:

1) Si coglie il messaggio divino del testo biblico se si tiene conto del contenuto e dell’unità della Scrittura.
La Bibbia ha tanti autori umani, ma un unico autore divino, lo Spirito. La Bibbia non è una biblioteca di libri
dove ogni libro è indipendente l’uno dall’altro, ma sono un’unità, un solo e unico libro. Chi interpreta la
sacra Scrittura deve ricercare la Parola di Dio, non semplicemente a partire da quel dato testo, ma deve
collocando nel contesto più ampio che è l’intero canone della Bibbia.
In poche parole io posso essere aiutato a comprendere la Parola di Dio attraverso il ricorso ad altra parola
di Dio. La Bibbia spiega la Bibbia: un brano può essere illuminato nel suo senso attraverso il confronto con
un altro brano. Devo diffidare di interpretazioni bibliche che propongono un messaggio contraddittorio
rispetto al quadro generale offerto dalla Scrittura.
R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 141
La Bibbia è un’unità anche in un altro senso: ogni libro è svelamento del progetto salvifico di Dio che si è
compiuto in Gesù Cristo. Il mistero di Cristo è il centro intorno al quale si può comprendere tutto il
progetto di Dio che si è andato attuando nella storia del popolo d’Israele: è il punto di riferimento verso il
quale converge tutta la storia dell’AT e dal quale procede la storia neotestamentaria. Egli diventa così il
criterio assoluto e incondizionato per l’interpretazione della Rivelazione, e cioè per l’interpretazione della
verità profonda di ogni pagina biblica.

2) Un secondo criterio per interpretare correttamente il messaggio divino è la considerazione della viva
tradizione della Chiesa. La Scrittura è nata nella Chiesa, è stata consegnata alla Chiesa, è normatrice della
Chiesa, ma nello stesso tempo è custodita e interpretata dalla Chiesa. Lo Spirito con cui la sacra Scrittura è
stata scritta è lo stesso Spirito che anima tutta la vita della Chiesa.
Tener conto della Tradizione, vuol dire far attenzione a come la Chiesa, dal suo nascere fino ad oggi, ha
capito, vissuto e interpretato la Scrittura. La viva tradizione della Chiesa è trasmessa dagli scritti dei Padri,
dalla liturgia, dalla vita dei credenti e dei santi, dalla riflessione teologica e soprattutto dalla predicazione
del Magistero che nella Chiesa ha ricevuto un carisma di autorità. La Tradizione deve fornire all’esegeta
quell’orizzonte di senso entro il quale egli può approfondire la comprensione della Parola di Dio.

3) Terzo criterio citato dalla DV è l’analogia della fede. La Rivelazione è unica, è la manifestazione che Dio
fa di se stesso e del suo mistero di salvezza; proprio perché questa Rivelazione è contenuta nella Scrittura,
ma anche nella Tradizione che è la viva fede della Chiesa che si esprime nella predicazione, nella liturgia,
nella vita di comunione e di carità, il senso della Scrittura non può non essere in armonia con l’espressione
viva di questa fede attestata dalla Tradizione. Non può essere autentica quell’interpretazione biblica che si
discosta dalle affermazioni di fede su cui poggia la vita della Chiesa intera.
Ecco perché, per esempio, è inaccettabile una interpretazione dei racconti evangelici della risurrezione
come quella dei razionalisti, secondo cui la risurrezione di Gesù non sarebbe da intendere nel senso di una
nuova vita ultraterrena, ma piuttosto nel senso di un ritorno alla vita, dopo una morte apparente, una
specie di risveglio dal coma. Questa interpretazione nega una affermazione di fede che sta alla base di tutta
la vita della Chiesa fin dai suoi inizi!

La DV dunque afferma che l’interpretazione della Bibbia è autentica solo se rispetta la duplice natura
della parola biblica, che è divino-umana. Essa deve svilupparsi CONTEMPORANEAMENTE in due movimenti: il
primo movimento è quello della ricerca del «senso letterale» del testo, la comprensione dell’opera, della
narrazione, l’entrare nell’esperienza che il testo racconta, raggiungendo il messaggio che l’autore vuole
comunicare. La prima domanda deve essere cosa il testo dice «in sé». Il secondo movimento è quello che
ricerca, dentro il senso letterale, il senso spirituale, che emerge dal testo leggendolo nella Chiesa e con la
chiesa, mossi dalla forza interiore dello Spirito Santo. La domanda che deve essere posta è cosa Dio vuole
dire «a me».
Il metodo della «Lectio divina» della Sacra Scrittura che comprende tre tappe: studio, meditazione,
contemplazione - praticato nella vita monastica fin dai primi tempi – è stato ultimamente riscoperto nella
Chiesa di oggi da molti laici, attraverso itinerari e gruppi biblici, grazie all’impulso nato da questo itinerario
proposto dalla Dei Verbum.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 142


IN SINTESI

L’INTERPRETAZIONE DELLA BIBBIA È AUTENTICA SOLO SE RISPETTA LA DUPLICE NATURA DELLA


PAROLA BIBLICA CHE È DIVINO-UMANA.

occorre tenere uniti questi due aspetti

1. La Bibbia in quanto è parola 2. La Bibbia in quanto è Parola di


dell’uomo deve essere Dio domanda di essere accolta
compresa come testo letterario: con fede:
↓ ↓
- Occorre scoprire il messaggio - Occorre capire il messaggio
dato dall’agiografo (autore comunicato da Dio: la Rivelazione
sacro)
- Capire il «senso letterale» dei - Scoprire il «senso spirituale»
libri biblici
- Lettura di fede (guidata dallo
- Studio del testo attraverso Spirito Santo) nella Chiesa e con
sussidi e spiegazioni. la Chiesa.
- Preghiera – dialogo d’amicizia
con Dio

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 143


Scheda di Approfondimento – Il lavoro degli esegeti

TAPPE FONDAMENTALI DELL'ERMENEUTICA SCIENTIFICA MODERNA

A) IL METODO STORICO-CRITICO
Si applica ai testi antichi - studia prevalentemente la genesi del testo (aspetto diacronico) e la sua
formazione. Usa criteri scientifici. Oggetto di studio sono:

1) LA CRITICA TESTUALE: permette la ricostruzione del testo originale


E' il fondamento e la premessa di ogni lavoro ermeneutico in quanto ha lo scopo di ricostruire sulla base di una
documentazione esistente, il testo originale di ciascun scritto contenuto nella Bibbia. Per “testo originale” intendiamo
la forma testuale che fu accolta per prima dalle diverse comunità. Questa scienza inizia a svilupparsi nel XVII secolo. Di
31
nessun testo biblico si è conservato l'originale in quanto i libri biblici scritti su papiro e pergamena si deteriorarono
molto presto, a noi sono giunti un infinito numero di trascrizioni del testo chiamati testimoni del testo. Abbiamo circa
2000 codici manoscritti (completi o parziali) dell'AT e oltre 5000 testimoni (completi o parziali) del NT. Testimoni
particolari sono le versioni antiche, la cui importanza per la critica testuale deriva dal fatto che furono compiute su
manoscritti non molto distanti dagli originali. La critica testuale è la scienza che studia questi testimoni del testo e le
loro varianti, allo scopo di ricostruire il testo originale, correggendo quegli errori che si sono introdotti in essi nel corso
della trasmissione manoscritta.

2) LA CRITICA FILOLOGICA O LINGUISTICA: permette una corretta traduzione


Il metodo storico critico sottomette il testo ad una analisi linguistica (morfologia e sintassi) e semantica. Questa fase
richiede una precisa conoscenza delle lingue antiche presenti nella Bibbia (ebraico, aramaico, greco), ma anche delle
altre lingue del vicino Oriente, della cultura e della storia del popolo ebraico. Studia le possibilità di senso che i
vocaboli e le frasi racchiudono. La scelta tra i diversi sensi possibili viene fatta dopo aver avvicinato il testo da
prospettive differenti. Questo lavoro sfocia nella traduzione e nella comprensione del testo.

3) LA CRITICA LETTERARIA: studia la formazione del testo


La critica letteraria si rivolge al testo fissato dalla critica testuale e attraverso uno studio diacronico ripercorre la
formazione e la genesi del testo, spiegandone l’origine e il processo di formazione attraverso il tempo: si studiano le
fonti utilizzate dall'autore per la sua opera, si ricercano le forme e i generi letterari, si studia l’apporto teologico
dell’ultimo redattore. Si articola in questo modo:

a) critica delle FONTI /TRADIZIONI (Traditionsgeschichte)


b) critica delle FORME (Formgescichte)
o critica del Genere Letterario
c) critica della REDAZIONE (Redaktionsgechichte)

4) LA CRITICA STORICA: determina il valore storico degli scritti sacri


Ha il compito di ricercare la corrispondenza tra gli eventi che un testo racconta e i fatti storici. Deve determinare il
valore degli scritti sacri come documenti storici, ricostruisce degli eventi della vita d'Israele, verifica la storicità dei
vangeli ecc... Necessita dell'ausilio dell'archeologia, della storia e della geografia.

B) I NUOVI METODI DI ANALISI LETTERARIA

Questi nuovi metodi si interessano al testo nella sua forma finale e lo studiano a livello sincronico. Oggetto
di studio sono:
1) L’ ANALISI RETORICA: il testo viene analizzato attraverso i criteri della retorica classica
2) L’ ANALISI NARRATIVA: il testo viene analizzato con criteri di lettura narrativi
3) L’ ANALISI SEMIOTICA: il testo viene analizzato cercando le strutture profonde in esse contenute e ignorate anche
dagli autori.

31
La carta fu inventata dai Cinesi nel I sec. dC. e diffusa dagli arabi nell’VIII sec dC. Dal XII-XIII sec. i manoscritti di carta
cominciarono a diffondersi sostituendo quelli di pergamena.
R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 144
C. I SOGGETTI IMPEGNATI NELL’ERMENEUTICA

→ Chi sono le persone che in modo autorevole aiutano i credenti


a leggere «correttamente» la Sacra Scrittura?

DV 12 “E’ compito, però, degli esegeti contribuire alla più profonda intelligenza ed esposizione del senso della sacra
Scrittura, secondo queste regole, affinché con studi in qualche modo preparatori, si maturi il giudizio della Chiesa.
Infatti tutto quello che riguarda il modo di interpretare la Scrittura è sottoposto in ultima istanza al giudizio della
Chiesa, la quale adempie il divino mandato e il ministero di conservare e interpretare la parola di Dio

1. GLI ESEGETI

Gli esegeti, cioè degli studiosi che hanno raggiunto con i loro studi un’alta competenza nell’utilizzo dei
metodi e delle tecniche ermeneutiche, hanno il compito di studiare la Sacra Scrittura, secondo i criteri
indicati dalla Chiesa (Papa, Vescovi). In ogni caso le conclusioni a cui arrivano con i loro studi devono essere
sottoposte al “giudizio della Chiesa” che “adempie per divino mandato il ministero di conservare e
interpretare la Parola di Dio”.

2. IL MAGISTERO

Il magistero della Chiesa (Papa-Vescovi) ha il compito autorevole di interpretare la Sacra Scrittura


accogliendo il lavoro degli esegeti e di vigilare sulla corretta interpretazione.
La Chiesa è l’autentica interprete della Bibbia, perché esercita questa autorità nel nome di Gesù Cristo. Il
ruolo del magistero era già stato spiegato nella Dei Verbum:

DV 10“La funzione di interpretare autenticamente la Parola di Dio, scritta o trasmessa, è stata affidata però solo al
magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo. Questo Magistero, però, non è al di
sopra della Parola di Dio ma al suo servizio...”.

3. IL POPOLO DI DIO

I risultati degli studi biblici, non sono riservati a pochi privilegiati, sono messi al servizio di tutto il popolo di
Dio (sussidi, commentari, testi divulgativi ecc…) perché la Paola di Dio possa essere da tutti conosciuta,
amata, accolta. Il largo uso della Scrittura non è riservato soltanto al clero, ai religiosi, a coloro che
svolgono un ministero della Parola (sacerdoti, diaconi, catechisti), ma a tutti i credenti indistintamente.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 145


11. LA SACRA SCRITTURA NELLA VITA DELLA CHIESA (DV-
Cap. VI)

Il concilio proclama che la Scrittura deve tornare ad essere riferimento fondamentale nella vita della
Chiesa: la teologia, liturgia, la predicazione, la catechesi, devono attingere abbondantemente a questo
nutrimento.
La Dei Verbum inizia questo capitolo della Sacra Scrittura nella vita della chiesa (n. 21) con tre affermazioni
importanti:

1) Le divine Scritture, dice sono degne della stessa venerazione che la Chiesa attribuisce al Corpo di
Cristo. Bellissimo questo comparare il corpo delle Scritture e il Corpo di Cristo! Le Sacre Scritture dunque
vanno accostate con lo stesso atteggiamento di fede e di adorazione che si ha nei confronti dell’Eucaristia
perché in esse è presente il mistero di Dio che si rivela agli uomini.

«La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non
mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa, sia della Parola di
Dio, che del Corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli». DV 21

Qualunque cristiano, ma anche lo studioso che si avvicina alle Scritture con competenza, utilizzando i
raffinati strumenti che la scienza letteraria gli mette a disposizione (cf. ermeneutica biblica), deve avere
questo profondo atteggiamento di fede. Il concilio non poteva esprimere meglio la grandissima
considerazione verso la Parola di Dio e queste affermazioni hanno avuto una grande valore per il dialogo
ecumenico.

2) E ancora la Dei Verbum, dice, che insieme alla tradizione, la Chiesa ha sempre considerato le divine
Scritture come la regola suprema della propria fede. (n. 21)

3) Si afferma che nel libro delle Scritture è all’opera una potenza di salvezza reale e misteriosa
che è capace di condurre, ognuno che le si affida, ad una forma nuova di esistenza.

«Nella Parola di Dio è insita tanta efficacia e potenza, da essere sostegno e vigore
della Chiesa, e per i figli della Chiesa la forza della loro fede, il nutrimento dell’anima, la sorgente pura e
perenne della vita spirituale». (DV 21).

Questo significa che le Scritture hanno una “dimensione sacramentale”, hanno cioè la forza, se comprese e
accolte con fede, di trasformare il cuore dell’uomo. Chi legge la Scrittura nella potenza dello Spirito e la
comprende con l’intelligenza che viene dall’alto, sente che un mistero di bene visita il cuore e lo risana. Le
Scritture, infatti, non dicono semplicemente, ma fanno, realizzano, attuano. Esse sono insieme verità e
forza. Non si accontentano di ammaestrare, ma operano e rendono capaci di operare. Questa convinzione
sgorga dal fatto che le Scritture sono un testo ispirato e che lo Spirito Santo non solo ha agito negli autori,
facendo esistere il testo sacro, ma continua ad animarle con il suo soffio.

Per questo la DV asserisce che la teologia, liturgia, la predicazione, la catechesi, devono attingere
abbondantemente a questo nutrimento. Bellissime sono queste esortazioni che non hanno bisogno di
commenti:

E’ necessario che i fedeli abbiano largo accesso alla Sacra Scrittura…


Che si facciano traduzioni appropriate e corrette nelle varie lingue…
R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 146
… è necessario che tutti i chierici, principalmente i sacerdoti e quanti, come i diaconi o i catechisti,
attendono legittimamente al ministero della parola, conservino un contatto continuo con le Scritture
mediante una lettura spirituale assidua e uno studio accurato, affinché non diventi «un vano predicatore
della parola di Dio all'esterno colui che non l'ascolta dentro di sé»…
Parimenti il santo Concilio esorta con ardore e insistenza tutti i fedeli, soprattutto i religiosi, ad
apprendere « la sublime scienza di Gesù Cristo » (Fil 3,8) con la frequente lettura delle divine Scritture. «
L'ignoranza delle Scritture, infatti, è ignoranza di Cristo»…
Si ricordino però che la lettura della sacra Scrittura dev'essere accompagnata dalla preghiera, affinché si
stabilisca il dialogo tra Dio e l'uomo; poiché «quando preghiamo, parliamo con lui; lui ascoltiamo,
quando leggiamo gli oracoli divini ». (DV 25).

La Parola di Dio ritorna ad essere il nutrimento principale di tutto il Popolo di Dio. Questo invito del concilio
non è stato disatteso! Grazie all’impulso nato dal Concilio e in particolare da quanto proposto dalla Dei
Verbum, la chiesa ha riscoperto il metodo della «Lectio divina», che era stato praticato nella vita monastica
fin dai primi tempi. Dunque la tradizione viva della Chiesa aiuta a riscoprire il tesoro delle Scritture Sacre.
La Lectio divina che si articola in tre tappe: la lectio, la meditatio, la oratio o contemplatio è un modo
particolare di accostare e di leggere la Sacra Scrittura come «Parola di Dio» e ha uno scopo fondamentale:
far giungere il credente ad un incontro contemplativo con il Dio vivente, che in quella sua Parola si rende
sacramentalmente presente, parlando alla sua vita e sollecitandolo alla conversione e alla comunione con
il suo mistero d’amore. Questo percorso a tappe non va inteso in senso rigido ma dinamico: mentre si legge
e si studia il testo biblico, si medita; mentre si medita, si prega; mentre si prega si contempla, per
incontrare Dio che si rende presente nella sua Parola32.

LA LECTIO DIVINA

1. LA LECTIO

La prima fase della lectio è la lettura-studio del testo sacro. Si accosta il testo con intelligenza e con amore,
con serietà perché sappiamo che esso custodisce l’oggettività della rivelazione di Dio, che attraverso il
passo biblico vuole raggiungere e interpellare il lettore. Si accosta il testo nutrendo un profondo rispetto
del suo livello letterale,- come la DV ci ha indicato - che per essere compreso va analizzato, studiato, capito,
aiutati anche dai molteplici strumenti oggi a disposizione.

C’è un’attenzione da prestare al ritmo del racconto nel suo articolarsi in movimenti, pause, dialoghi, silenzi. Riguardo
ai personaggi occorre soffermarsi sulle loro parole e sulle loro azioni domandarsi: che cosa dicono? Perché lo dicono?
Che cosa fanno? Perché lo fanno? Quale esperienza di fede o di incredulità trasmettono? Quali sentimenti emergono
dalle loro parole o dalle loro azioni? E poi ancora: a quali altri testi della Scrittura mi rimanda l’episodio che sto
leggendo? Più si è pazienti nell’interrogare il testo con molte domande, più il testo risponderà aprendo il suo prezioso
scrigno.

2. LA MEDITATIO

La seconda fase è la meditatio. Meditare significa scendere nella profondità del passo biblico e creare una
circolarità tra la Parola di Dio scoperta nella sua bellezza e la mia vita. Nella meditazione avviene quella che
noi normalmente chiamiamo la – attualizzazione del testo – l’incontro tra il mondo del testo e il nostro
mondo, tra l’esperienza vissuta nel testo e la nostra esperienza attuale, tra la rivelazione di Dio di cui il
testo parla e la rivelazione di Dio destinata a noi oggi. Il testo biblico è come uno specchio che mi permette

32
Per approfondire questo argomento rimando ad un testo prezioso: Arcidiocesi di Milano, La parola di Cristo abiti tra
voi nella sua ricchezza. Testo guida per i Gruppi di Ascolto della Parola. [La parte teologica e stata scritto dal biblista P.
Tremolada].

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 147


di riconoscere con maggiore verità quello che io sono, quello che Dio desidera per me. Lo scopo primo della
meditatio è condurmi una conoscenza più profonda e intima di Cristo come il mio Signore, il Signore della
mia vita, nel senso forte di fare l’esperienza viva della comunione con lui, del sentire l’attrazione della sua
bellezza, il fascino della sua Parola, la forza del suo perdono, la consolazione della sua presenza.
Le domande che la meditatio pone al testo biblico possono essere espresse in questi termini: come questo
passo mi rivela il volto di Cristo? Che cosa questo testo comunica alla mia vita? - A che cosa mi esorta? In
che cosa mi consola? Come la discerne? - A quale conversione, a quali decisioni mi sollecita?

3. L’ORATIO E LA CONTEMPLATIO

L’ ultima tappa della Lectio Divina sono l’oratio e la contemplatio. La lettura meditata della Sacra Scrittura
apre la mente e il cuore e conduce alla preghiera, dono che viene dall’alto. Quest’ultima tappa è già attiva
nel momento in cui il testo è accostato per ricercarne la comprensione. La preghiera di fatto abbraccia
l’intero itinerario della Lectio Divina perché precede la lettura, l’accompagna e la segue. Senza questo
profondo atteggiamento di preghiera il testo non potrebbe dischiudere il suo senso. Non si prega e non si
contempla dopo aver compreso, ma si comprende pregando e contemplando la Parola che Dio offre al
nostro ascolto e alla nostra vita. Un ascolto autentico della Parola di Dio, vissuto nella fede e
nell’obbedienza è già preghiera. La preghiera culmina nella contemplatio che una elevazione spirituale, in
un abbandono totale alla “grazia” scaturita dall’ascolto meditativo della Sacra Scrittura. E’ un’esperienza
che si colloca al di là delle parole. Ma non è un’esperienza riservata solo ai mistici o a qualche eccezionale
momento nella vita del credente. E’ l’esperienza che può vivere ogni battezzato quando si incontra con il
Dio vivente, quando percepisce la sua presenza nella propria vita. La contemplazione è semplicemente un
incontro! E’ un’esperienza di Dio che nutre il cammino della fede e si fa dentro l’ordinarietà della vita. Dove
si coltiva la fedeltà all’ascolto della Parola e alla preghiera, Dio si fa vicino, il cuore arde. La ricerca di Dio
che la Lectio divina ha messo in moto, giunge al suo compimento. Per questo la Dei Verbun esorta cin
queste parole:

DV 25 «Si ricordino però che la lettura delle sacre Scritture deve essere accompagnata dalla preghiera, affinché possa
svolgersi il dialogo tra Dio e l'uomo »

Terminiamo lasciando la parola ad un monaco contemplativo, Andrè Louf, in: Lo Spirito prega in noi, Ed
Qiqajon 1995, pp.47ss.

«Il cuore dell’uomo è stato fatto per accogliere la Parola e la Parola gli si adatta naturalmente. La Parola deve essere
seminata nel cuore. La parola purifica il cuore facilmente appesantito, insensato e tardo a credere, ottenebrato. L’una
è stata fatta per l’altro. Possono riconoscersi, di colpo e in modo totalmente imprevisto, grazie all’unico Spirito che li
pervade. Un autentico ponte è allora gettato tra il nostro cuore e la Parola. Tra lo Spirito che sonnecchiava nel
profondo del cuore e lo Spirito che agisce nella Parola si stabilisce un dialogo fecondo e vivificante. Rigenerato da
queste seme incorruttibile (1Pt 1,23), il cuore rinasce dalla Parola. “L’uomo nascosto nel profondo del cuore” si
risveglia in noi (1Pt 3,4). La Parola penetra nel più profondo del cuore come una spada acuta a doppio taglio che
penetra tra l’animo e lo Spirito, fra le giuntura e le midolla (Eb 4,14) e suscita una vita nuova. La Parola mette il nostro
cuore a nudo e il nostro cuore liberato può finalmente mettersi all’ascolto del Dio vivente, del Verbo fatto carne.
Parola e cuore si specchiano l’uno nell’altro e diventano sempre più simili. Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni
parola che esce dalla bocca di Dio (Mt 4,4). Soltanto nel nostro cuore la parola si fa vivente e accede al pieno sviluppo.
Bisogna però applicarsi alla parola con un desiderio immenso. Dobbiamo raccogliere la Parola come la manna nel
deserto, senza scrollare le spalle dicendo «Man hu’ ?» «che cos’è?». Se ascoltata superficialmente la Parola è di poca
utilità, bisogna prestarle tutta l’attenzione, raccoglierla con avidità e lasciarla dilatare nel nostro cuore. Ogni credente
riceve la Parola di cui ha bisogno e nella misura in cui può accoglierla e assimilarla. La meditazione della Parola di Dio e
il silenzio sono inseparabilmente legati. Con la parola il cuore si pacifica e trova quiete in un profondo, insondabile
silenzio.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 148


Si finisce con l’abitare nella Parola come se fosse la propria dimora (Gv 8,31), allo stesso modo in cui la Parola dimora
e abita in noi (Col 3,16). La Parola di Dio e il cuore dell’uomo sono, l’una nell’altro, a casa propria. Più la Parola risuona,
più il cuore resta sveglio. E più il cuore è vigile, e attento all’ascolto della Parola, più profondamente penetra nel
mistero dello Spirito. Più il cuore è nutrito dalla Parola di Dio, più la Parola diventa chiara, più si fa limpida e svela i
suoi tesori a colui che l’ascolta. Questo confronto interiore tra la Parola e il cuore è chiamata dagli antichi
“meditazione”. La meditazione è ‘cullare nel cuore la Parola, è lasciarla dondolare dall’onda dello Spirito. È
prenderla, ripeterla lentamente nello spazio interiore e nel silenzio del cuore. La parola del Cristo risorto abita così nel
nostro cuore, in tutta la sua abbondanza (Col 3,16) e ci rende templi dello Spirito Santo (1Cor 6,19) ».

Conclusione

Il documento della DEI VERBUM che abbiamo ripreso nella Prima e nella terza Parte di questo corso ci ha
mostrato la centralità che la Parola della Scrittura deve avere per tutti i cristiani e dice anche il modo con il
quale i credenti devono avvicinarsi al testo sacro: lettura frequente, studio accurato… preghiera. E’
sicuramente vero che le Scritture non esauriscono tutta la Parola di Dio, ma le Sacre Scritture sono
un’attestazione privilegiata dell’evento rivelatore, della Parola di Dio pronunciata nella storia, che si è
compiuta nella vicenda del Signore Gesù, e nella Chiesa da lui generata. L’ignoranza delle Scritture, è
ignoranza di Cristo.

La costituzione dogmatica delle divina Rivelazione ha già dato i suoi frutti:

- ha permesso di riscoprire la forza e bellezza della Parola di Dio nella vita della Chiesa, e di cogliere
in modo nuovo la potenza della Rivelazione Divina avvenuta nella storia d’Israele, che si è compiuta
nel Signore Gesù.
- ha dato impulso e vigore agli studi biblici che in questi cinquant’anni si sono moltiplicati
- ha rimesso la Bibbia nelle mani dei credenti, che è divenuta luogo di dialogo anche con i non
credenti
- ha fatto sorgere una molteplicità di gruppi impegnati nell’ascolto della Parola (gruppi di ascolto,
scuole bibliche, itinerari di lettura biblica)
- ha influito sulla riforma liturgica e sugli studi teologici,
- ha aperto la strada al dialogo ecumenico,
- ha dato vita a una molteplicità di documenti che mirano ad approfondire e sviluppare
ulteriormente questi temi: L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (1993) e Il popolo ebraico e le
sue sacre Scritture nella Bibbia (2001) documenti della Pontificia Commissione Biblica; la Verbum
Domini di Benedetto XVI (2010).

BIBLIOGRAFIA

P. TREMOLADA, Introduzione alla Sacra Scrittura, ISSRM 2005-09.


P.TREMOLADA, La parola di Cristo abiti tra voi nella sua ricchezza. Testo guida per i Gruppi di Ascolto della
Parola, (Ed. in dialogo 2010)
L. FALLICA, Lectio monastica: la forma classica della Lectio divina, Credere Oggi, 156 (2006), Messaggero
Padova, pp. 59-70.
F. LAMBIASI, Breve introduzione alla Sacra Scrittura, Piemme, 1986.
P.L. FERRARI, La Dei Verbum, Queriniana, 2005.
B. MAGGIONI, «Impara a conoscere il volto di Dio nelle parole di Dio» Commento alla Dei Verbum, EMP, 2001.
B. SESBOUÈ, Credere, Invito alla fede cattolica per le donne e gli uomini del XXI secolo, Queriniana, 2000.

R. Pellegrini – Introduzione alla Teologia e Questioni di Teologia Fondamentale p. 149

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