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Bozzolo - La Teologia Sacramentaria Dopo Rahner

Questo documento riassume il dibattito teologico sulla sacramentaria dopo Rahner. Discute come i discepoli di Rahner abbiano perso di vista i principi cristologici ed ecclesiologici, frammentando la sacramentaria. L'autore suggerisce che i liturgisti possano ricostruire la sacramentaria partendo da tali principi fondanti.

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Bozzolo - La Teologia Sacramentaria Dopo Rahner

Questo documento riassume il dibattito teologico sulla sacramentaria dopo Rahner. Discute come i discepoli di Rahner abbiano perso di vista i principi cristologici ed ecclesiologici, frammentando la sacramentaria. L'autore suggerisce che i liturgisti possano ricostruire la sacramentaria partendo da tali principi fondanti.

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ANDREA BOZZOLO

LA TEOLOGIA SACRAMENTARIA
DOPO RAHNER
11dibattito e i problemi

Prefazione
di Giuseppe Colom bo

LAS - ROMA
A tnia mamma

© 1999 by LAS - Librería Ateneo Salesiano


Piazza dell’Ateneo Salesiano, 1 ■00139 ROMA
ISBN 88-213-0415-9

Elaborazione elcttronica: LAS □ Stampa: Tip. «Don Bosco» - Via Prenestina, 468 - Roma - Maggio
PREFAZIONE

I. - A percorso ultimato, la provocazione suggerisce di trasferire la que-


stione dai teologi sistematici ai liturgisti. La questioned quella della teología
sacramentaría. II percorso é quello tracciato dalla vicenda storica della ricer-
ca sulla teología sacramentaría, da K. Rahner - grosso modo dagli anní Ses-
santa - a oggi. La provocazione é insieme un atto di sconforto e di speranza.
Lo sconforto é prodotto dallo stato «caótico» cui i teologi sistematici
hanno ridotto la sacramentaría. Sotto un’apparente sintonía lingüistica, essa
é in realtá frantumata senza possibilitá non solo d’intesa, ma di confronto.
Inutile chiedersi qual é la sacramentaría oggi dominante o quali sonó le sa­
cramentarle oggi concorrenti. Ciascuno produce la propria, senza curarsi di
confrontarsi con le altre. D’altro lato le differenze non sono di semplice det-
taglio, ma investono Tintero implanto teologico. La sacramentaría é infatti
diventata presuntuosamente, ma senza fondamento, la «fondamentale». La
vicenda é particolarmente triste perché si é consumata nello spazio di una
sola generazione.
Era iniziata nel modo píü promettente. Dopo secoli di stasi, durante i
quali «la preoccupazione dei teologi quando si occupavano dei sacramenti
erano limítate ad aspetti sia storico-apologetici sia canonici o casuistici»,1
O. Casel prima e K. Rahner poi avevano acceso un faro che ha costituito il
nuovo aw io per la teología sacramentaría. Effettivamente da allora si parte
da li.
Per l’esattezza si parte da Rahner (non senza qualche ingiustizia verso
Casel). E luí che ha raccolto una marea di discepoli, tuttí indistintamente
anche se variamente rahneriani. Nella sua scia la teología sacramentaría ha
fatto la svolta epocale ripudiando la nozione medievale di «segno» («segno
efficace della grazia») per assumere quella di «símbolo» («símbolo reale»).
Da li doveva partiré il rinnovamento: dall’aristotelismo al moderno/post­
moderno.
É noto che in Rahner il «símbolo reale» era ben contestualizzato nel rife-
rimento alia Chiesa: era infatti finalizzato alia autorealizzazione della Chiesa.

1 R. ÁUBERT, La th éo lo g ie catholique au m ilieu du XXCsiécle, Tournai 1954, 35.


6 'Prefazione

Derivato dalla tradizione teologica che da sempre legava i sacramenti alia


Chiesa, ma non approfondito nel suo senso specifico e inteso tendenzial-
mente come pura esigenza apologética, il riferimento alia Chiesa nelPim-
pianto della sacramentaría poté apparire un elemento di debolezza dal quale
liberarsi disinvoltamente, specie nella stagione in cui al sensu s E cclesiae della
tradizione teologica si é preferita la sociología della Chiesa delle moderne
scienze delPuomo.
In questo modo devono aver ragionato i discepoli piü o meno aweduti di
Rahner; nessuno dei quali possedendo né la taglia né la formazione teologica
del Maestro, si trovarono ad agiré come «apprendisti stregoni». Incapaci di
dominare il tutto, si smarrirono dietro il frammento. Si buttarono cosi sul
«símbolo reale» che, destoricizzato, fu trattato come fosse l’assoluto. Coe-
rentemente apparve in primo piano il suo dinamismo antropologico, che ha
indicato nelPuomo, distraendolo dalla Chiesa, il «luogo» del sacramento.
Fatalmente, «situato» nell’uomo, l’uomo, nella sua natura e/o nella sua sto-
ria, divenne il determinante del sacramento, superando da un lato (guada-
gno positivo) l’insignificanza antropologica del sacramento, concausa gene­
ralmente riconosciuta della crisi della teología sacramentaría, e quindi inge-
nerando l’illusione di averne trovato la chiave per la soluzione; ma d’altro la­
to (prezzo esorbitante) obliterando, contestualmente al riferimento ecclesio-
logico, la derivazione cristologica. É quanto l’analisi mette impietosamente
in risalto sotto le incongruenze e i nominalismi degli accordi tra gli pseudo
teologi sacramentari, giunti al limite di ridiirre la teología sacramentaría a
nulla piü di un’awentura lingüistica.

II. - Non é un piccolo mérito l’essere riusciti, nel «caos» degli esiti attua-
li, a trovare il bandolo per ricostruire lucidamente la vicenda, identificando-
ne il principio, rintracciandone il percorso, segnalandone le deviazioni, ma
con comprensione e senza chiusure pregiudiziali e quindi valorizzandone le
acquisizioni. Se oggi non disponiamo ancora di una teología sacramentaría
persuasiva e consensúale, possediamo almeno una guida per muoversi senza
smarrirci nella giungla della produzione della (pseudo) teología sacramenta­
ría contemporánea.
La diligente rivisitazione storica delle varíe aree maggiormente impegnate
nella ricerca é owiamente pregiudiziale, oltre che per raccogliere le impre-
scindibili informazioni e quindi smontare la presunzione del ricercatore soli­
tario e pionieristico, nella fattispecie anche per prendere coscienza dell’as-
soluta indifferenza al confronto, come se il problema fosse solo regionale in-
vece che generate. Coerentemente la presa di contatto e la presentazione cri­
tica delle opere piü significative; inoltre l’individuazione degli orientamenti
prevalenti e della loro matrice teologica che hanno mostrato la radicalitá del­
le deviazioni e correlativamente l’insufficienza di qualsiasi correzione parzia-
le, con la conseguente necessitá di ritornare al punto di partenza, cioé alie
Prefazione 1

ragioni della crisi della teologia sacramentaria, ma senza perdere di vista che
si potrà risolvere solo con principi teologici, che inglobano sempre i principi
antropologici, perché non c’è teologia senza antropologia, che non può esse­
re, in ultima analisi, se non la libertà dell’uomo; ma senza confondersi né
identificarsi né sostituirsi ad essi, e quindi mantenendosene distinti.
Per l ’autore questa incontestabile prospettiva metodologica non è soltan­
to postulatoria; ma si accompagna con la proposta fatta emergere, anche dal
«caos» dell’attuale teologia sacramentaria, dei due principi teologici irrinun­
ciabili: la «derivazione» cristologica e il riferimento ecclesiologico. Trasmessi
dalla Tradizione ininterrottamente, anche quando, per la difficoltà di com­
prenderne il senso, la Tradizione poteva sembrare puramente ripetitiva e
meccanica, i due principi determinano il punto di partenza della teologia sa­
cramentaria: sono soltanto «principi», quindi da sviluppare e da approfon­
dire, ma irrinunciabili e insostituibili. Di più; sono principi fecondi: né l’uno
né l ’altro bloccano sul passato; sono entrambi dinamici, aperti al futuro; co­
me i sacramenti che, nonostante le crisi, sono da essere anche per gli uomini
del futuro e di sempre.

III. - È la chiara consapevolezza che all’origine dei sacramenti devono es­


sere in ogni caso i due principi, cristologico ed ecclesiologico, a suggerire la
provocazione di trasferire ai liturgisti, sottraendola ai teologi sistematici, la
questione della liturgia sacramentaria. Aderendo alla celebrazione cristiana
più che alla speculazione, sembrano meno esposti a farsi catturare dalla
«cultura» fino a perdere di vista «il mistero», cioè il principio cristologico-
ecclesiologico e conseguentemente a «secolarizzare» i sacramenti.
D’altro lato, se in completa fedeltà alla vicenda storica, e scavando in
profondità, si fa partire il nuovo corso della teologia sacramentaria non solo
da Rahner, ma anche da Casel, la polarizzazione nell’ambito liturgico non è
impropria, ma assolutamente propria.
Naturalmente se i liturgisti devono alimentare una speranza che i siste­
matici hanno spento, hanno da essere di fattura originale e pregiudizialmen­
te non succubi e ripetitivi dei sistematici; fallirebbero se concepissero la loro
disciplina semplicemente applicativa della sistematica: ne assumerebbero gli
errori invece di correggerli.
Ovviamente questa prospettiva non è da intendere come un invito all’iso­
lazionismo e all’anarchia delle discipline teologiche. Al contrario, l’unità in­
trinseca del discorso teologico postula la corresponsabilità delle diverse di­
scipline e conseguentemente l’esigenza di procedere, ovviamente ciascuna
secondo i propri principi, ma non nell’ignoranza rispettiva, bensì nello
scambio d’informazione più completo e più puntuale, perché ogni discipli­
na, oltre a portare il proprio contributo alla completezza e integrità del di­
scorso teologico, possa svolgere anche la sua funzione di vigilanza critica sul­
le altre discipline. È infatti insostenibile che possa essere affermato da una
8 Prefazione

disciplina teologica ciò che può essere negato da un’altra. Salvo il caso che
errino entrambe.
D’altro lato, se l’impegno per l’unità del discorso teologico emerge scar­
samente nella teologia contemporanea, non può evidentemente ritenersi una
nota di prosperità, ma piuttosto di miseria da cancellare il più presto possi­
bile per il bene sia della teologia in generale sia delle discipline particolari.
In ogni caso, per quanto attiene la teologia sacramentaria, richiamo che la
mia era soltanto una provocazione, purtroppo non suggerita dal pessimismo.

G iuseppe C olombo
SOMMARIO

Introduzione......................................................................................................... 11

Parte prima: IL DIBATTITO

1. AREA TEDESCA...................................................................... ;.................. 19


1.1. Prospettiva ecclesiologica: Schulte........................................................... 22
1.2. Prospettiva antropologica........................................................................ 27
1.3. Prospettiva comunicativa........................................................................ 56
1.4. Sguardo d’insieme sull’area tedesca.................... :.................................. 66

2. AREA FRANCESE....................................................................................... 71
2.1. C henu...................................................................................................... 75
2.2. Didier....................................................................................................... 78
2.3. Chauvet................................................................................................... 82
2.4. Il dibattito aperto da Chauvet................................................................. 109
2.5. Sguardo d’insieme sull’area francese.............. ......................................... 114

3. ALTRE AREE............................................................................................... 117


3.1 .Area italiana............................................................................................ 117
3.2. Area spagnola.......................................................................................... 125
3.3. Area anglo-nordamericana....................................................................... 129

4. BILANCIO.................................................................... .............................. 135

Parte seconda: I PROBLEMI

5. SACRAMENTO E SACRAMENTALITÀ............................................ . 145


5 .1 .1 m od elli.......................................................... ....................................... 147
5.2.1problem i................................................................................................ 169

6. SACRAMENTO E SIMBOLO.................................................................... 175


6.1. La motivazione culturale......................................................................... 176
6.2. La motivazione pastorale......................................................................... 178
10 Sommario

6.3.1precedenti: Casel e Rahner.................................................................... 181


6.4. Il presupposto: antropologia del sim bolo................................................. 183
6.5. Dal simbolo al sacramento....................................................................... 185
6.6. Il simbolo, variabile vaga......................................................................... 191
7. SACRAMENTO E RITO.............................................................................. 195
7.1. La teologia secolarista e il rapporto rito-carità........................................ 196
7.2. La teologia liturgica e il rapporto rito-m istero............................... ......... 202
7.3. Chauvet e il rapporto rito-fede................................................................. 206
7.4. Problemi e prospettive............................................................................. 213
CONCLUSIONE................................................................................................. 221

Bibliografia............................................................................................................ 231

Indice..................................................................................................................... 243
INTRODUZIONE

Tra le discipline teologiche che hanno conosciuto in questo secolo un


maggiore rinnovamento, si può senza dubbio collocare la teologia sacramen­
taria, che ha abbandonato l ’impostazione consensualmente giudicata razio­
nalistica e oggettivistica del De sacram entis in g en ere per ritrovare la dimen­
sione storico-salvifica del suo oggetto. Si è trattato di una trasformazione
profonda, che non ha comportato soltanto la rielaborazione di singole temà­
tiche e l’apertura di nuove prospettive, ma ha richiesto, più radicalmente,
una rivisitazione dell’intero impianto sistematico, per recepire le acquisizioni
gradualmente emerse dal rinnovamento biblico, patristico e liturgico. Nel
periodo postconciliare, in particolare, alle motivazioni già operanti a soste­
gno di un profondo ripensamento del tema del sacramento, si sono aggiunte
le sollecitazioni provenienti dell’attuazione della riforma liturgica e dalla
comparsa di situazioni pastorali inedite, che hanno provocato la sacramenta­
ria ad una profonda rielaborazione delle proprie tesi.
L’esito di questo rinnovamento, tutt’altro che pacifico e lineare, pare aver
prodotto complessivamente un consenso diffuso su alcune acquisizioni, che
sono entrate a costituire il patrimonio corrente della teologia sacramentaria
attuale. Così, ad esempio, si ritiene un indubbio vantaggio il superamento di
una concezione «individualistica» del sacramento come «mezzo di grazia», a
favore di una riscoperta della destinazione «ecclesiale» e del contenuto «m i­
sterico» della celebrazione. Allo stesso modo possono vantare un ampio ac­
cordo l ’apprezzamento della dimensione «pratica» del sacramento come
punto di partenza della riflessione teologica; la conseguente attenzione al
«rito» come componente «intrinseca» della verità del sacramento; il passag­
gio dal regime del «segno» a quello del «simbolo» come elemento decisivo
per la nuova teologia sacramentaria, e il superamento di una nozione «regio-,
naie» di sacramentalità in favore di una rilettura sacramentale di tutta l’esi­
stenza cristiana e magari della realtà tout court.
A fronte di queste acquisizioni, immediatamente apprezzate come perti­
nenti e ampiamente divulgate dalla letteratura secondaria, i bilanci più accu­
rati della produzione recente non mancano, però, di mettere in evidenza che
il dibattito, da cui sono sorte le formule sintetiche entrate a costituire la
12 Introduzione

nuova koiné, si rivela assai variegato,1 complesso2 e talora confuso. La quan­


tità e la varietà della produzione, infatti, non è necessariamente sintomo di
un alto livello della ricerca e la diffusione delle tesi non basta a garantirne la
solidità. Per questo, accanto a bilanci molto positivi, quando non entusiasti­
ci, del lavoro compiuto negli ultimi trent’anni, si trovano valutazioni anche
severe che denunciano una fecondità soltanto apparente,3 una certa appros­
simazione concettuale e Pelusione di domande determinanti. L’esito sarebbe
una «sclerotizzazione» della riflessione, determinata dall’«euforia» delle
nuove acquisizioni non sufficientemente approfondite e decantate,4 con la
conseguenza di un uso spesso puramente allusivo del linguaggio teologico,
per raccogliere sotto'la cifra del sacramentale o del simbolico, imprudente­
mente omologati, le realtà più eterogenee.
. La teologia non può certo andar fiera di questa situazione, su cui grava il
sospetto, anzi la denuncia, di approssimazione e inconsistenza teoretica.
D’altra parte nessuno può presumere di proporre trasformazioni risolutive,
senza risalire all’origine storica e logica del presente stato di confusione, che
rende difficile il consenso anche solo circa i problemi da discutere. Per que­
sto abbiamo ritenuto utile, se non doveroso, procedere alla ricerca di cui in
questo saggio presentiamo i risultati.
Si tratta di una ricerca impostata in due. momenti: il primo, di carattere
analitico e ricostruttivo, propone una rassegna ragionata degli orientamenti
recenti della sacramentaria; il secondo, di tipo sintetico e critico, discute i
nodi teoretici principali che emergono dall’accostamento e dalla compara­
zione delle posizioni più significative. Entrambi i momenti, nella;loro speci­
ficità, intendono convergere verso l’unico obiettivo di favorire un’istruzione
più rigorosa della problematica sacramentaria: obiettivo che, nello stato at­
tuale della disciplina, riteniamo imprescindibile e pregiudiziale per qualsiasi
nuovo sviluppo.

1 È il rilievo di fondo che induce D. Power, R. Duffy e K. Irwin ad assumere come unico
criterio possibile per ordinare la letteratura sacramentaria recente quello metodologico. Cfr.
D. POWER - R. Duffy - K. Irwin , Current T heology. Sacram entai T heology: A R eview o fh it e -
rature, «Theological Studies» 55 (1994) 657-705]
2 Indizio sintomatico, per quanto solo materialmente, di questa complessità è il numero e
la varietà di temi raccolti sotto la voce «Sacramenti in genere» in M. ZlTNIK, Sacramenta. Bi-
bliographia Internattonalis, Gregoriana, Roma 1992, dove compaiono, a fianco di temi tradi­
zionali, categorie e riferimenti del tutto nuovi, di provenienza antropologica, sociologica, psi­
cologica e linguistica.
} Particolarmente significativo il giudizio di Henri Bourgeois, curatore del B ulletin d e
th éo lo gie sacram entaire della prestigiosa rivista «Recherches de Science Religieuse»: «La teo­
logia sacramentaria non si trova oggi in un periodo di grande fecondità, sia nel protestantesi­
mo e nell’ortodossia sia nel cattolicesimo. Questa situazione è talora mascherata dall’abbon­
danza di testi pastorali, liturgici o spirituali, ma ciò non impedisce che la riflessione di ordine
teologico non sia attualmente di gran valore» [H. BOURGEOIS, Positt'ons du sa cra m en tel au-
jo u r d ’hui, «Recherches de Science Religieuse» 75 (1987) 175-202,180].
4 Ibid.
Introduzione 13

Costruito secondo questa logica, il lavoro analizza nella prima parte gli
autori e le opere più importanti del dibattito recente, mirando a metterne in
evidenza l’originalità, quando esista, e il radicamento in orientamenti e filoni
più ampi, nel tentativo di sottrarre la discussione alla dispersione di acco­
stamenti che si ignorano a vicenda. L’arco di tempo oggetto dell’indagine è
delimitato agli ultimi trentanni. Si tratta, innanzi tutto, del periodo in cui
vengono recepite, discusse e magari oltrepassate le indicazioni del Concilio
Vaticano II sulla liturgia e in genere sul rapporto Chiesa-sacramenti. In se­
condo luogo, sono gli anni in cui la teologia sacramentaria, esclusa in parte
l’area francese, si impossessa dell’eredità rahneriana, assumendo il simbolo
reale e la successione «Cristo Ursakrament - la Chiesa G rundsakrament - i
sette sacramenti» come principio di interpretazione della dottrina conciliare
e come fondamento del proprio rinnovamento. Poiché in questo dato ci
sembra di poter riconoscere l’elemento più caratteristico della letteratura
esaminata, abbiamo assunto, fin dal titolo, il «dopo Rahner» come cifra non
soltanto cronologica, ma, più profondamente, interpretativa per guidare la
nostra esposizione. Ci sembra che il materiale raccolto giustifichi questa
scelta, che non vuole ravvisare in Rahner l ’«autorità» indiscussa da cui far
dipendere la teologia dei sacramenti, ma semplicemente segnala le sue tesi
come il «riferimento» oggettivo più consistente per comprendere gli sviluppi
recenti.
La letteratura recensita, da cui abbiamo escluso gli studi relativi a singoli
sacramenti, le opere finalizzate allo sviluppo del dialogo ecumenico e quelle
che esprimono istanze troppo specifiche (teologia della liberazione, teologia
femminista e simili), viene presentata per aree linguistiche, allo scopo di me­
glio individuare l’eventuale originalità del percorso e le diverse motivazioni
che hanno indirizzato la teologia sacramentaria in direzioni comuni.
Le aree linguistiche più ricche sono quella tedesca e quella francese. La
prima, fortemente segnata dalla teologia di Rahner, ha inteso svilupparne il
pensiero, ma in modi sorprendentemente diversi:5 dalla fedeltà alla colloca­
zione ecclesiologica (Schulte) allo spostamento antropologico (Schneider e
Vorgrimler), privilegiando il riferimento alla natura e alla storicità (Ratzinger
e Kasper) o alla cultura/società e storia (Schupp e Schaeffler). La riflessione
sembra aver portato l ’ispirazione iniziale più verso l’esaurimento che verso
la fecondità, come segnala sintomaticamente il progressivo spegnersi della
produzione, che anche nelle espressioni più recenti (Lies) non sa attuare un
vero rinnovamento. Di diverso indirizzo sono la linea comunicativa di Ga-
noczy e quella di Hunermann, che però sono rimaste allo stadio di abbozzo.
L’area francese risalta per una sua autonoma ispirazione, attinta più alle
opere di Bouyer e Schillebeeckx che a quelle di Rahner. Qui appare più vi­

5 Cfr. M. SEILS, Sak ram enteniheotogiè, «Verkundigung und Forschung» 39 (1994) 24-44,
28 .
14 Introduzione

stoso il contributo delle discipline liturgiche e delle scienze umane, ai cui ri­
sultati viene accordato vasto credito, anche in ordine alla soluzione di gravi
problematiche pastorali. La parabola della teologia sacramentaria francese
può essere individuata nel passaggio dalla prospettiva ontologica di Chenu a
quella postmoderna di Chauvet. Dietro un linguaggio immutato (dal segno
al simbolo, dalla causalità all’efficacia simbolica) si trovano posizioni diver­
genti e irriducibilmente alternative. Nel mezzo un percorso oscillante (Di­
dier) e segnato da una molteplicità di sviluppi collaterali in direzione della
semiotica, linguistica, psicanalisi, ritologia, sociologia.
I contributi in lingua inglese, spagnola e italiana non si distinguono per
originalità, ma riflettono l’evoluzione generale, ripetendone gli esiti in forma
meno controllata. Di un certo rilievo la discussione sui rapporti tra liturgia e
teologia in Italia, dove dietro tentativi ancora parziali appare la consistenza
di un problema meritevole di più attenta considerazione.
La seconda parte della ricerca cerca di far emergere dal confronto critico
tra le posizioni i punti che paiono bisognosi di approfondimento e le catego­
rie che devono essere discusse per favorire una vera comprensione della sin­
golarità del sacramento cristiano. Tra queste si segnala soprattutto la que­
stione della «sacramentalità» diffusa; ovvero il problema dell’estensione del­
la nozione di sacramento oltre i confini tradizionali del settenario. Giustifi­
cata in vista di un superamento dell’estrinsecismo dei sacramenti rispetto al­
la globalità dell’esistenza cristiana, la tesi si è gradualmente «arricchita» di
sviluppi che ne rendono dubbia la validità e che sollevano perplessità sulla
consistenza della nozione di sacramento sottostante. Solo un franco nomi­
nalismo, infatti, può fare sintesi tra l’impostazione ontologica ed ecclesiolo­
gica di Rahner (il sacramento come simbolo reale della Grazia, che si realiz­
za in maniera culmine nella Chiesa) e quella fenomenologica e antropologica
di Schillebeeckx (il sacramento forma della religione in quanto luogo del­
l’incontro tra Dio e l ’uomo); tra la sacramentalità della rivelazione di cui
parlano i rahneriani (Vorgrimler) e la sacramentalità della fede di cui parla
Chauvet.
Strettamente connessa alla precedente è la questione relativa all’introdu­
zione del «simbolo» come categoria chiave della sacramentaria, introduzione
che spesso ha ottenuto l’unico risultato di trasformare una problema com­
plesso (quello del sacramento) in un problema «confuso» (quello del sim­
bolo). Una volta recepite le motivazioni culturali e pastorali che ne hanno
fatto la fortuna, bisogna riconoscere che il simbolo è stato utilizzato in teo­
logia come «variabile vaga», piegata a servire vari modelli sacramentali, che
troppo poco si sono confrontati con la questione radicale, ossia come la pro­
spettiva simbolica possa dire non solo il «senso antropologico», ma anche
l’«origine cristologica» del sacramento.
Più pertinente è l’accostamento al sacramento che valorizza la nozione di
«rito», ma la discussione deve segnalare un’impostazione metodologicamen­
Introduzione 15

te carente, che si attarda in pseudo-problemi, o che non riesce sufficiente-


mente a mostrare il sacramento cristiano nella singolarità che gli è propria.
Da qui dipendono per un lato il permanere, sotto mentite spoglie, delle am­
biguità della teologia della secolarizzazione, e per l’altro l’insufficienza di un
appello generico e nominale, proprio di molta teologia liturgica, alla presen­
za rituale del «mistero».
In conclusione ribadiamo che il contributo del presente saggio non è la
«soluzione» dei problemi della sacramentaria, ma piuttosto la loro «ricogni­
zione» e «discussione». Non pretendiamo pertanto di offrire un modello
teorico per pensare i sacramenti né lo sviluppo di tesi innovative. Ci pare,
tuttavia, che la ricerca svolta non risulti puramente previa all’elaborazione
sistematica, perché questa non può che emergere dalla discussione dei pro­
blemi, nel confronto critico tra le varie posizioni e nella valutazione delle lo­
ro ragioni. In questo contesto, pertanto, non abbiamo rinunciato a prendere
posizione di fronte ai modelli discussi e a suggerire, dove possibile, principi
ed elementi che riteniamo capaci di orientare la teologia del sacramento cri­
stiano verso più fruttuosi sviluppi.
Parte Prima
IL DIBATTITO
1. AREA TEDESCA

La ricerca teologica circa l’identità del sacramento cristiano ha trovato


nell’area tedesca particolare sviluppo, soprattutto negli anni Settanta, espri­
mendosi in un certo numero di pubblicazioni dedicate al tema dei sacramen­
ti in genere. Lo sostiene, tra gli altri, M. Seils quando dice, con espressione
_ icastica, che «il concetto di “teoria dei sacramenti” ha preso cittadinanza
{hat sich ein geb iirget)»,1 ovvero è divenuto di uso corrente. L’espressione è
felice perché allude non soltanto alla comparsa di studi e articoli dedicati al­
la teologia sacramentaria generale, il che non sarebbe una novità, ma al farsi
largo nella cittadella teologica della nozione di sacramento, pronta a prende­
re dimora e a fare capolino in ogni tema. Tant’è che sotto il titolo Sakramen-
ten leh re non si studiano più solo i sacramenti, ma « l’ambito generale della
dimensione sacramentale del cristianesimo»: oggetto certamente più esteso,
seppur forse più vago.
Seils manifesta un certo stupore per la «proliferazione» del tema, perché
il rinnovamento degli studi biblici e la nuova radicazione scritturistica della
teologia non sembrerebbe consentire un simile ampliamento della proble­
matica.2 Lo stupore, però, si stempera grazie alla considerazione che, in se­
guito al Concilio Vaticano II, la sacramentaria ha trovato una nuova «ispira­
zione» e ha conosciuto un profondo «mutamento», e questo sembra giustifi­
care in maniera più che plausibile la nuova «allargata» attenzione per il sa­
cramentale. La trasformazione è riconducibile sostanzialmente alla teologia
della «Chiesa-sacramento», che ha segnato il tramonto definitivo dell’impo­
stazione manualistica, incapace di mostrare la convenienza dei «segni effica­
ci della grazia» al mistero della Rivelazione.
Dalla ricostruzione di Seils emerge che a determinare la nuova stagione
della sacramentaria tedesca ha contribuito, dunque, più che il rinnovamento
biblico, la teologia riconducibile alle posizioni di Otto Semmelroth e, so­
prattutto, di Karl Rahner. Il ricorso preferenziale a Rahner da parte della
teologia tedesca, d’altronde, non sorprende, tanto più che in questo caso

1 M. SEILS, Sakram ententheologie, «Verkiindigung und Forschung» 39 (1994) 24-44,26.


2 Seils allude alla sobrietà della Scrittura sul tema dei sacramenti, tanto che, soprattutto in
ambito protestante, non manca chi ritenga impossibile una teologia sacramentaria generale.
20 Parte prim a: II dibattito

sembra avvalersi della legittimazione autorevole proveniente dai testi conci­


liari.3 E risaputo, infatti, che la «sacramentalità» della Chiesa è stata recepita
nella Lumen G entium proprio sotto l’influsso della teologia rahneriana,4 an­
che se la formulazione conciliare della tesi si presenta più sfumata,5 e soprat­
tutto priva del riferimento ai sacramenti come «autocompimento» della
Chiesa.6
La teologia tedesca, in ogni caso, si è sentita autorizzata ad assumere in
blocco la riflessione di Rahner come nuovo modello di «sacramentaria post­
conciliare», senza più impegnarsi a discuterne a fondo le tesi,7 sufficiente-
mente garantite dall’accoglienza e dal credito guadagnato al Concilio. Ne è
prova da un lato la diffusione delle tesi rahneriane nella letteratura di carat­
tere spirituale e pastorale, dove, secondo la recensione di A. Schilson, la tesi
della Chiesa G rundsakrament costituisce il «denominatore comune»,8 e dal­
l’altro l ’unanime accoglienza del pensiero rahneriano come indiscusso punto
di partenza per i nuovi sviluppi del discorso sistematico. Fatta eccezione per
Ganoczy, così afferma ancora Seils, «le tesi fondamentali di Semmelroth e
Rahner sono inizialmente accolte da tutte le sacramentarie cattoliche».9
La «diffusione», però, sembra inversamente proporzionale all’effettiva
«univocità» del pensiero, se è vero che «questa nuova acquisizione fonda-
mentale» è stata sorprendentemente «differenziata subito in maniera diver­
sissima»,10 alimentando il sospetto che il ricorso all’autorità del maestro sia
soltanto nominale e che l ’unità dell’ispirazione sia sorpassata dall’eterogenei­
tà irriducibile degli sviluppi.
L’influsso rahneriano ha, comunque, favorito nell’area tedesca un profilo
e un intento più esplicitamente sistematico della ricerca sui sacramenti, pro­
ponendo un vero ripensamento teologico della sacramentaria, sensibile alle

3 S. UBBIALI, Eucarestia e sacramentalità. P er una teologia d e l sacram ento, «La Scuola Cat­
tolica» 110 (1982) 540-576,563.
4 Y. CONGAR, Un p op olo m essianico (tr. it.), Queriniana, Brescia 1976,21, n. 5.
5 «V eluti sacram entum » (Lumen G entium 1,1).
6 La caratterizzazione dell’ecclesiologia conciliare come ecclesiologia della Chiesa-sacra­
mento viene, però, messa in discussione da G. Colombo, attraverso un riscontro con i testi
conciliari e il confronto con gli autori (soprattutto Y. Congar e L. Boff) che hanno sostenuto
questa interpretazione. L’analisi critica mostrerebbe piuttosto che la nozione in esame è en­
trata nei testi conciliari «non soltanto con qualche difficoltà [...], ma sopra tutto in modo
piuttosto tangenziale e fondamentalmente per superare il “giuridicismò” nel modo di com­
prendere la Chiesa» [G. COLOMBO, Il «P opolo d i Dio» e il «m istero» della Chiesa n ell'ecclesio ­
logia post-conciliare, «Teologia» 10 (1985) 97-169,130], L’enfasi posta sulla Chiesa-sacramen-
to esprimerebbe pertanto più il post-Concilio che il Concilio.
7 È già la denuncia presente in W.A. VAN R oo , R eflection s on K arl R ahner’s «K irche und
Sacram ente», «Gregorianum» 44 (1963) 465-500,499.
8 A. SCHILSON, Sym bolwirklichkeit und Sakrament. Ein L iteraturbericht, «Liturgisches
Jahrbuch» 40 (1990) 26-52,38.
9 M. S eils , a.c., 28.
10 Ibid.
1. Area tedesca 21

problematiche pastorali, ma non immediatamente funzionale alla loro solu­


zione. L’interesse dei teologi tedeschi è parso più attratto dalla possibilità di
una nuova teoria che stimolato dall’urgenza della prassi e dalle trasforma­
zioni liturgiche e rituali. La pubblicazione dei nuovi O rdines, ad esempio, è
rimasta piuttosto estranea all’elaborazione di una nuova figura fondamentale
di sacramento, e così, più in generale, il contributo delle discipline liturgiche
non sembra aver inciso in maniera significativa nel dibattito sistematico.11
Sotto questo profilo la differenza rispetto all’area francese o spagnola risulta
senz’altro appariscente, anche per la più marcata separazione delle due com­
petenze specifiche del liturgista e del teologo sistematico, che invece altrove
tende ad assottigliarsi, fin quasi a sparire.12
Per organizzare logicamente l ’esposizione del dibattito tedesco ci si può
riferire alle indicazioni fornite da Arno Schilson in una serie di contributi
dedicati alla rassegna delle correnti e delle posizioni più significative della
sacramentaria tedesca contemporanea, in particolare a un articolo del
1 9 7 9 , 1 3 ripreso nel breve saggio Das Sakrament als S ym bol.14 Le correnti più
significative si sono mosse,. secondo Schilson, nella direzione di un appro­
fondimento dell’identità simbolica del sacramento, procedendo fondamen­
talmente su tre fronti: il sacramento come simbolo all’interno del dinamismo
antropologico di apertura al senso dell’esistenza; il sacramento come «prassi
della speranza», cioè come simbolo alFinterno delle dinamiche sociali e cul­
turali; il sacramento come simbolo comunicativo nella vita della Chiesa. Al
primo orientamento appartengono Ratzinger e Kasper, al secondo Schupp e
Schaeffler, al terzo Ganoczy e Hunermann.
Prescindendo per ora da una caratterizzazione più precisa dei tre orien­
tamenti, si può subito rilevare come essi corrispondano da un lato agli inter­
rogativi di fondo presenti nell’ampio e spesso confuso dibattito culturale sul
simbolo, dall’altro ai tre momenti successivi della vicenda teologica degli ul­
timi trent’anni. Sul primo versante gli interrogativi a cui i tre modelli di sa­
cramentaria hanno cercato di rispondere riguardano il rapporto del simbolo
rispettivamente con la «natura» dell’uomo, considerato nella storicità della

11 Seils considera un’eccezione il tentativo di Vorgrimler di articolare la sua sacramentaria


più sul versante liturgico che su quello antropologico (a.c. 28).
12 La differenza risulta in maniera significativa dal confronto tra i due manuali di liturgia:
AA.VV., G ottesdienst d er K ircbe. Handbuch d er L iturgiewissenschaft, Pustet, Regensburg
1984ss. e D. BOROBIO (ed.), La celebración en la Iglesia,'Sigueme, Salamanca 1985ss.
13 K atholische Sak ram ententheologie a u f neuen W egen? B em erkungen zu einigett Neuer-
sch ein u n gen , «Herder-Korrespondenz» 33 (1979) 571-576.
14 II titolo del saggio è quanto mai indicativo, perché indica l’elemento unificante che, per
riferimento all’impostazione rahneriana, caratterizza la nuova teologia del sacramento: la ca­
tegoria di «simbolo». Il contributo si trova in D . ZADRA - A . SCHILSON, S ym bol u n d Sakra­
m ent,, in C bristlicber Glaube in m oderner G esellschaft (= Enzyldopadische Bibliothek 28),
Herder, Freiburg - Basel - Wien 1982, 122-150. Cfr. anche, dello stesso autore, Sym bolwirk-
lichk eit u n d Sakrament. Ein Literaturbericht, «Liturgisches Jahrbuch» 40 (1990) 26-52.
22 Parte prim a: I l dibattito

sua condizione corporea e del suo divenire esistenziale; con la «società/cul-


tura» deH’uomo, considerato nella sua prassi sociale e nella sua storia con­
creta; con il «linguaggio» divenuto nella postmodernità il nuovo luogo degli
interrogativi antropologici. Sul secondo versante sembra riprodursi nella sa­
cramentaria la successione dei tre momenti «personalista-esistenzialistico»,
«prassico-politico» e «comunicativo» che hanno segnato più in generale la
vicenda teologica generale del periodo.
Per quanto ogni schema rischi di sacrificare la precisione alla chiarezza,
quello che abbiamo delineato, e che si chiarirà nell’accostamento delle sin­
gole posizioni, si può forse prestare senza eccessive forzature a costituire
l’intelaiatura della nostra esposizione.
Va peraltro precisato che i tre filoni sopra nominati convergono più glo­
balmente nel ricercare l’intelligenza del sacramento a partire dalla problema­
tica antropologica, e che questo segna già un significativo spostamento ri­
spetto al ceppo rahneriano, formalmente impegnato a offrire una teologia
dei sacramenti in prospettiva ecclesiologica. Questo intendimento sembra
essersi mantenuto soltanto nell’opera di Schulte, che pertanto premetteremo
all’esposizione dei filoni antropologici. Una posizione a sé stante dovrebbe
essere riconosciuta anche ai saggi di Schneider e Vorgrimler, che più esplici­
tamente si richiamano all’eredità rahneriana e che in certo senso esprimono
in maniera sintomatica l’elaborazione dell’intuizione rahneriana nel «dopo
Rahner». Nel periodo più recente merita di essere richiamato anche il tenta­
tivo di Lies, che seppure con autonoma ispirazione può essere fatto conflui­
re in una visione comunicativa del sacramento. Escludiamo, invece, dalla no­
stra presentazione i testi di Auer15 e Nocke:16 il primo perché rappresenta
un’impostazione superata, il secondo per il carattere approssimativo delle
tesi.

1.1. Prospettiva ecclesiologica: Schulte

E noto che la teologia sacramentaria nella fase immediatamente prece­


dente al Concilio era stata caratterizzata dalla preoccupazione di superare la
tendenziale irrelatezza tra il discorso cristologico e quello sacramentario, ri­
trovando la loro unità intorno alla nozione di «Chiesa-sacramento», già pre­
sente nella teologia tedesca fin dal periodo del romanticismo.17 Nella prima
fase postconciliare tale progetto, attribuibile, con le dovute distinzioni, so­

15J. AUER, A llgem eine S ak ram entenlehre u n d das M ysterium d er E ucharistie, Pustet, Re-
gensburg 1971.
16 F.-J. NOCKE, W ort u nd G este. Zum Verstàndnis d er Sakramente, Kòsel, Miinchen 1985.
17 M . DENEKEN, Les rom antiques allem ands, p rom oteu rs d e la n otion d'E glise sa crem en t du
salut?, «Revue des Sciences Religieuses» 67/2 (1993) 55-74; ID., Sacram entalité d e l ’E glise et
th éo lo gie rom antique, «Revue des Sciences Religieuses» 67/3 (1993) 41-57.
1. Area tedesca 23

prattutto a Semmelroth e Rahner, trova continuazione e svolgimento esem­


plare nel corso di dogmatica M ysterium salutis, di cui fa parte il saggio di
Schulte che intendiamo esaminare.18
Come l’autore stesso si premura di sottolineare, il testo va letto all’inter­
no della cornice d’insieme dell’opera, tenendo presente che il piano d’impo­
stazione scelto «si stacca volutamente da una esposizione chiusa e compatta
della teologia sacramentale dogmatica»,19 preferendo piuttosto inserire il
problema sacramentario all’interno del quadro più ampio dell’«ecclesiolo-
gia». Con questo spostamento ci si ripromette il duplice guadagno di con­
trobilanciare, almeno in parte, lo spazio eccessivo dato dalla teologia al di­
scorso sui sacramenti,20 e soprattutto di favorire una migliore articolazione
della sacramentaria all’interno della riflessione sui dati della fede. Se questo
obiettivo conviene con l’impianto generale di M ysterium salutis, esso ripro­
duce però in particolare la posizione di Semmelroth, formulata nel capitolo
intitolato II n u ovo pop olo d i Dio co m e sacram ento della salvezza,21 precisa-
mente nella seconda sezione La Chiesa co m e sacram ento d i salvezza.22 Questa
è, dunque, la sorgente prossima da cui Schulte attinge ispirazione, conce­
pendo il suo saggio in diretta dipendenza e continuità con la proposta eccle­
siologica di Semmelroth. In base a queste premesse, il testo in esame rinun­
cia comprensibilmente ad una trattazione «esaustiva», prefìggendosi più che
altro l ’elaborazione di spunti e di materiali destinati a convergere in una sin­
tesi più ampia, che appunto «formalmente» non deve essere sacramentaria,
ma «ecclesiologica» (o forse meglio «ecclesiologico-sacramentale»). Di fatto,
però, Schulte finisce con il rinunciare alla trattazione «sistematica» tout
court, indugiando su singole digressioni e rinviando troppo facilmente que­
stioni importanti ad altri capitoli dell’opera. Per questo, anziché offrire un
resoconto analitico della proposta dell’autore, ci limitiamo ad alcune consi­
derazioni in margine ai passaggi più significativi della sua esposizione.
Trattando di alcune «questioni preliminari», Schulte mostra innanzi tutto
una preziosa consapevolezza dei rischi connessi all’uso spregiudicato della
categoria di sacramento. Scrive infatti: «Non si può sfuggire all’impressione
che le affermazioni concernenti la Chiesa come sacramento fontale vengano
acquisite e caldeggiate, più di quanto sia ragionevole e oggettivamente per­
messo, da un concetto di sacramento prefissato, dato quasi per ovvio e pre­
supposto, e quindi non più sufficientemente controllato, quale in questi anni

18 R. SCHULTE, Die Einzelsakramente als A usgliederung des W urzelsakraments, in M yste­


rium salutis, IV/2, Benziger, Einsiedeln 1972,46-155; tr. it.: I sin goli sacram enti co m e articola­
zione d e l sacram ento radicale, in M ysterium salutis, V ili, Queriniana, Brescia 1975,50-192. Le
citazioni faranno riferimento alla traduzione italiana.
19 R. S chulte , o.c., 50.
20 Cfr. Introduzione, in M ysterium salutis, VII, 18.
21 M ysterium salutis, VII, 347-437.
22 O.r., 377-437.
24 Parte prim a: Il dibattito

si è sbrigativamente incominciato ad applicare, con una certa restrizione, ai


(singoli) sacramenti».23 Schulte non precisa in che cosa consista questa no­
zione «prefissata», ma il richiamo sembra rivolto contro la definizione di sa­
cramento che assume come dato centrale (e unico!) la relazione tra la «gra­
zia invisibile» e una «realtà visibile» che la esprime e la comunica. Solo ridu­
cendo il «sacramento» a queste caratteristiche «generalissime», infatti, è
possibile la sua immediata applicazione a Gesù Cristo e alla Chiesa, che so­
no appunto, a livelli diversi, mediazioni «visibili» dell’«invisibile» grazia di
Dio. L’assunzione acritica di questa nozione «vaga» di sacramento è, a giu­
dizio di Schulte, assai diffusa: egli la imputa addirittura alla «maggior parte
dei tentativi sinora prodotti di concepire la Chiesa come sacramento fontale
o basilare».24
Dopo la denuncia, l’autore passa logicamente a sostenere la necessità di
un «ripensamento» della nozione sacramentale, sollevando il legittimo dub­
bio che la comprensione dei sette sacramenti possa essere affidata «esclusi­
vamente» alla loro relazione con la Chiesa.25 Il «ripensamento» si presenta
come un’opera complessa, che se da un lato può beneficiare del rinnova­
mento dell’indagine biblica, dall’altro si scontra con le difficoltà «intrinse­
che» del tema, aggravate dalla «distanza culturale» dell’uomo contempora­
neo dall’universo simbolico dei sacramenti.
Per ovviare a questa preclusione pregiudiziale Schulte ritiene necessario,
introducendosi nella pars construens, offrire un primo abbozzo «descrittivo»
della realtà sacramentale, da cui appaia la «vicinanza» dell’«oggetto» della
ricerca: «nei sacramenti, si tratta d’un evento interpersonale, ecclesiale, com­
piuto impiegando, a mo’ di segno, cose, simboli, gesti e parole, in cui il sen­
timento interiore dei cointeressati si manifesta in modo così palese, che i
mezzi usati fanno agire efficacemente anche sul piano interpersonale e vitale
la risoluzione della volontà (e del cuore) in essi venuta ad esprimersi».26 La
difficoltà del linguaggio, aggravata dai limiti della traduzione, tradisce anche
nell’originale tedesco un certo imbarazzo del pensiero. Schulte cerca di rag­
giungere il suo intento «propedeutico» servendosi della categoria di «evento
interpersonale», ma non riesce a precisare con sufficiente chiarezza i termini
del discorso. L’ambiguità appare già nella designazione piuttosto problema­
tica della realtà personale coinvolta nel sacramento «indifferentemente» co­
me «risoluzione della volontà» e come «sentimento interiore», ma soprattut­
to nella difficoltà di articolare questa dimensione «interiore» della persona

23 R. S chulte, o.c., 53.


24 Ibid., n. 9.
25 «Resta infatti ancora da vedere se l ’essenza (sotto un certo aspetto comune) dei (sette)
sacramenti, ossia la loro “sacramentalità", riesca a spiegarsi completamente allo sguardo,
quando si concepiscano come estrinsecazione vitale della Chiesa soltanto» (o.c., 55).
26 O.c., 64.
1. Area tedesca 25

con l ’«espressione simbolica», che, a quanto sembra, le permette di «agire


efficacemente». Al di là delle osservazioni sulla formula, che vuole essere
solo descrittiva e pertanto non va sopravvalutata, merita di essere segnalato
come emblematico l’orientamento a pensare l’«interiore» come «già realizza­
to» a monte deU’«esteriore», e al limite «senza» di esso, per poi cercare di
collegare i due «mondi» in un tertium quid di natura sacramentale.
A partire da questo primo e «debole» accostamento, prende poi avvio
una riflessione su certe modalità del comportamento umano che costituisco­
no come un preliminare per la comprensione del sacramento. Vengono così
introdotti vari temi, tra cui il corpo come simbolo, il linguaggio e le varie
modalità attraverso cui l’uomo si esprime, i dinamismi della vita comunita­
ria, i momenti decisivi dell’esperienza umana e altri spunti tematici che co­
stituiranno il repertorio tipico deU’orientamento antropologico e che qui
vengono solo «accennati», senza aver particolare sviluppo e soprattutto sen­
za concorrere poi di fatto all’elaborazione effettiva della nozione di sacra-
mentalità. ,
Essa, infatti, superate queste considerazioni antropologiche preliminari,
procede per altra via, ovvero attraverso l’introduzione della categoria biblica
di m ysterion, che nelle intenzioni dell’autore deve risultare «determinante»
per riqualificare la nozione di sacramento, sottraendola alla già lamentata
genericità. Il m ysterion designa la storia della salvezza, «la storia preparata in
Dio creatore di tutto, dapprima tenuta ancora nascosta, ma poi nella pienez­
za dei tempi portata a compimento in Gesù Cristo».27 Essa si realizza nel
coinvolgimento di tutto il creato e giunge al suo culmine nella vicenda di
Gesù, dove il «mistero» trova la sua pienezza e la sua definitiva efficacia. La
visibilizzazione della permanenza salvifica del m ysterion è la Chiesa, corpo
di Cristo, mistero realizzato, seppur non ancora nella condizione gloriosa
definitiva: «la Chiesa è il m ysterion di Dio concretizzatosi i n un evento stori­
co».28 Su questa base biblica, e non più sulla nozione «vaga» e «astratta» di
sacramento, trova finalmente la propria legittimazione l’attribuzione alla
Chiesa della categoria sacramentale, perché la Chiesa, in dipendenza da Cri­
sto, come suo corpo, ha la possibilità e il compito di rivelare e realizzare l ’a­
zione salvifica di Dio, e quindi di esserne «il» sacramento.
Appare qui il collegamento della posizione di Schulte con le tesi rahne-
riane, sia sul versante «metodologico» che su quello «contenutistico». Sotto
il profilo «metodologico» Schulte ha in comune con Rahner la pretesa di de­
rivare l ’attribuzione della sacramentalità alla Chiesa non per «estensione»
della nozione di sacramento vigente in sacramentaria, ma per «riqualifica­
zione» della nozione a partire dàlia sua attribuzione a Gesù Cristo.29 Sotto il

27 O.c., 91.
28 O.c, 93.
29 Cfr. K. RAHNER, Chiesa e sacram enti, Morcelliana, Brescia 1965,25.
26 Parte prim a: Il dibattito

profilo «contenutistico» la continuità consiste nella tesi della Chiesa come


«visibilizzazione» permanente dell’efficacia salvifica dell’azione di Cristo,
come «concretizzazione» mondana della grazia escatologica.30 Bisogna però
riconoscere che manca in Schulte il rigore con cui Rahner formula le sue tesi
e l’impegno dell’approfondimento sistematico.
Il testo in esame si accontenta semplicemente di raccogliere in sintesi i ri­
sultati dell’esegesi e della teologia biblica del m ysterion, ma non produce un
reale tentativo di riflessione teologica. Per questo non realizza alcun guada­
gno rispetto alla riflessione rahneriana, ma piuttosto ne riproduce i limiti.
Tra questi, in particolare, l’«astrattezza» della considerazione della Chiesa,
tendenzialmente «personificata» attraverso la nozione biblica di «corpo di
Cristo» e quella teologica di «sacramento». Ciò che manca in Schulte, come
in Rahner, è da un lato una «fenomenologia» e un’«ermeneutica» dell’iden­
tità ecclesiale, quale appare dalla «globalità» dei testi del Nuovo Testamen­
to, e non solo dalle formule «teologiche» tipiche degli scritti paolini; dall’al­
tro il riferimento all’«esperienza» storica e concreta della Chiesa. Solo a que­
ste due condizioni il discorso teologico raggiunge il suo scopo ed evita il ri­
schio di ridursi a una «deduzione» di tesi formali da singole affermazioni
della Scrittura.
Il difetto «formalistico» del procedimento di Schulte trova ulteriore e più
grave conferma quando il saggio, dopo alcune indicazioni su una teologia
della creazione e della storia, affronta conclusivamente le questioni più di­
rettamente connesse con l’identità dei sacramenti. Sintomatica è la trattazio­
ne dell’«istituzione», già risolta da Rahner nella questione della «fondazio­
ne» della Chiesa, e ricondotta da Schulte addirittura all’«origine» del m yste­
rion dalla volontà salvifica del Padre: «guardando all'ev en to sacramentale
nella sua attuazione concreta, la questione dell’istituzione dei sacramenti vie­
ne a coincidere con quella dell’Autore dello stesso m ysterion. [...] È indub­
biamente in primo luogo Dio Padre che va indicato come /'origine per anto­
nomasia [...] ed altresì come l’unico e concreto Autore del m ysterion ».31 Ap­
pare del tutto evidente la preterizione del riferimento alla storia concreta di
Gesù e della Chiesa, unico punto di riferimento pertinente per la soluzione
della questione dell’istituzione. Se infatti il problema non può essere trattato
positivisticamente, nella ricerca di singole parole istitutive del settenario,
non può nemmeno «prescindere» dai «fatti», interpretati nella fede, per ri­
fugiarsi direttamente nella considerazione dell’«iniziativa divina», come se
questa fosse conoscibile per «altra» e più immediata fonte.
La stessa carenza di attenzione effettiva alla storia è all’origine della deru­
bricazione della questione del settenario e della rapida riconduzione di tutti
i sacramenti alla realizzazione dell’unico mysterion., «semplicemente» in si­

30Ibid.
31R. S c h u lt e , o . c ., 168.
1. Area tedesca 27

tuazioni antropologiche diverse.32 L’affermazione circa P«indivisibilità» del


mistero salvifico presente nei diversi sacramenti risulta pertinente, ma la sua
formulazione risulta astratta e generica, perché prescinde radicalmente sia
dalla considerazione del «dinamismo antropologico» che entra a costituire
l’identità del singolo sacramento, sia dalla «celebrazione ecclesiale» che co­
stituisce la forma concreta dell’evento sacramentale. Sarebbe stato piuttosto
necessario elaborare una vera motivazione teologica dell’asserzione, mo­
strando il nesso che permette di parlare in situazioni antropologiche e cele­
brative «diverse» del compiersi dell’«unico» mistero salvifico pasquale. Si
sarebbe così potuto cogliere il legame di tutti i sacramenti all’Eucarestia, che
invece nel testo non sembra distinguersi come sacramento «principale», ed
esplicitare i motivi per cui ad un «unico» m ysterion non corrisponda anche
un «unico» sacram entum .
Complessivamente il tentativo di Schulte non sembra andare oltre l’affer­
mazione della necessità di precisare l’attribuzione della sacramentalità alla
Chiesa nel senso di un’esplicitazione della sua «dipendenza» dalla sacramen­
talità di Cristo, e di proporre un rinnovamento della nozione di sacramento
alla luce del «mistero» salvifico. L’effettiva realizzazione del progetto, però,
rimane lacunosa perché trascura sistematicamente la considerazione della
«fattualità» celebrativa del sacramento, in nessun modo «deducibile» da una
previa conoscenza del contenuto salvifico del sacramento stesso.

1.2. Prospettiva antropologica

Se la prospettiva «ecclesiologica» sembrava doversi imporre come novità


«determinante» per il rinnovamento postconciliare della teologia sacramen­
taria, bisogna riconoscere che le cose sono andate «diversamente». L’enfasi
posta sulla Chiesa-sacramento non si è tradotta nell’area tedesca in un moti­
vo ispiratore capace di orientare la riflessione sacramentaria, che ha scelto
piuttosto di privilegiare la considerazione diretta del rapporto dei sacramen­
ti con l ’«antropologia».
Lo spostamento di attenzione dipende solo in parte da motivi teoretici,
come la critica consapevole dei limiti connessi alla sacramentalità della Chie­
sa.33 Più radicalmente sembra essere in gioco un cambiamento di problema­
tica, «imposto» dall’acuta e dolorosa percezione dell’estraneità del mondo
sacramentale, come in genere del riferimento ecclesiale, all’uomo contempo­
raneo.34 Se pertanto la sacramentaria «ecclesiologica» è nata dalla necessità

32 Cfr. o.c., 170s.


33 W . KASPER, W ort und Sakrament, in ID., Glaube und G eschichte, Griinewald, Mainz
1970,285-310, in particolare 294s.
34 Così ad esempio si esprime Ratzinger: «da una parte la nostra epoca è stata denominata
il secolo della Chiesa; la si potrebbe chiamare quindi con altrettanta ragione il secolo del mo-
28 Parte prim a: Il dibattito

di integrare meglio sul piano sistematico il rapporto dei sacramenti con l’in­
tera vita ecclesiale,35 il nuovo problema, che si affaccia drammaticamente, è
quello di mostrare la rilevanza del momento sacramentale all’uomo che ten­
denzialmente «diffida» della Chiesa e dei suoi riti. La necessità apologetica
di rispondere a questa nuova provocazione culturale, certo non nuova, ma
quasi improvvisamente percepita in tutta la sua urgenza, favorisce la tenden­
za ad incontrare l’interlocutore non sul «terreno minato» dell’appartenenza
ecclesiale, ma su quello apparentemente più «pacifico» della rilevanza an­
tropologica dei comportamenti simbolici.
Peraltro percorrere questa strada non significa necessariamente abban­
donare l’ispirazione rahneriana, che anzi è approdata alla nozione di Chiesa-
sacramento proprio a partire da una teologia del simbolo.36 Per questo, la­
sciando semplicemente sullo sfondo la questione ecclesiologica, si è preferito
continuare diversamente il progetto di Rahner, ricollegandosi alla sua rifles­
sione sul corpo come U rsym bol e assecondando la «svolta antropologica»
del suo pensiero.

1.2.1. «Sacram ento/sim bolo» e «natura/corpo»

Un primo filone della sacramentaria antropologica postrahneriana è rap­


presentato, secondo la già citata ricostruzione di Schilson, dal contributo di
Ratzinger e Kasper, avvicinati nell’interpretazione dei sacramenti in riferi­
mento all’esperienza esistenziale «corporea» dell’uomo. I loro contributi,
che hanno molti aspetti in comune, segnano un inatteso ritorno, seppur in
termini nuovi, della ispirazione antropologica di Schillebeeckx, che per pri­
mo, ma non da solo,37 aveva cercato di comprendere la dinamica sacramen­
tale a partire da una filosofia della religione e da un’incipiente fenomenolo­
gia del comportamento umano.
Il rapporto con Schillebeeckx, comunque, non deve essere sopravvaluta­
to, perché l ’ispirazione di fondo, pur nella distinzione anche esplicita delle

vimento liturgico e sacramentale. [...] Ciò non costituisce tuttavia che una faccia della realtà.
Infatti il secolo del movimento liturgico e del rinnovamento della teologia sacramentaria sta
sperimentando nello stesso tempo una crisi della dimensione sacramentale, un’estraneità di
fronte alla realtà del sacramento tale quale, con questa asprezza ed esasperazione, non era an­
cora dato di vedere all’interno del cristianesimo» [Il fon d a m en to sacram entale della esistenza
cristiana (tr. it.), Queriniana, Brescia 1971,7s.].
35 K. RAHNER, Chiesa e sacram enti (tr. it.), Morcelliana, Brescia 1965,9-10.
36 K. RAHNER, o.c., 35-41, con riferimento a Id., Sulla teologia d e l sim b olo (tr. it.), in Saggi
su i sacram enti e sulla escatologia, Paoline, Roma 1965,51-107.
37 Al tentativo di Schillebeeckx bisogna affiancare quello di Louis Bouyer (Le rite et
l ’hom m e, Cerf, Paris 1962). Bouyer propriamente sviluppa il discorso aprendo la teologia sa­
cramentaria alle scienze umane, in particolare alla storia comparata delle religioni e alla psi­
cologia del profondo.
1. Area tedesca 29

tesi, proviene da Rahner. Rahneriano è infatti radicalmente il discorso sim­


bolico, sia nel suo recupero all’attenzione teologica, sia nella sua qualifica­
zione in riferimento al corpo umano. Mentre però in Rahner il simbolo cor­
poreo era compreso a partire da una prospettiva «ontologica» di più ampio
respiro, che considerava la qualità simbolica di «tutto» il reale, in Ratzin-
ger/Kasper il simbolo corporeo è il dato che si afferma direttamente alla «fe­
nomenologia» dell’esistenza umana. La differenza non è marginale, sia per­
ché suppone una diversità di metodo, sia perché giunge a una diversa carat­
terizzazione della qualità simbolica. Si ha così lo spostamento dal simbolo
come espressione di una «tensione dinamica» delP«ente» nel processo della
sua realizzazione (Rahner) al simbolo come espressione del «rapporto» tra
«biologico» e «spirituale», e tra il «creaturale» e il «trascendente» (Ratzinger
e Kasper).

1.2.1.1. Ratzinger

Il testo di Ratzinger38 prende le mosse dalla considerazione della para­


dossale estraneità del mondo sacramentale alla comprensione dei credenti
proprio in un’epoca segnata dalla riscoperta teologica della liturgia. All’ori­
gine di questo paradosso opera, secondo l’autore, un «difetto antropologi­
co» introdottosi nella cultura del nostro secolo e divenuto atteggiamento di
fondo. Si tratta della mentalità tecnica e funzionalistica, che fa intendere «il
mondo [...] come materia e la materia come materiale», con la conseguenza
che «non rimane più spazio alcuno per quella trasparenza simbolica della
realtà verso l ’eterno, sulla quale si poggia il principio sacramentale».39 La
critica risulta immediatamente convincente, anche perché echeggia una de­
nuncia diffusa. Eppure una considerazione più attenta può cogliere forse il
limite di una certa sommarietà. Occorrerebbe infatti approfondire meglio le
ragioni dell’inefficacia del rinnovamento liturgico in atto, per valutare se
l’insignificanza del comportamento simbolico per il credente debba essere
così «univocamente» imputata alle deficienze «culturali» dell’uomo con­
temporaneo, che come tutti i «mali epocali» si prestano a diagnosi semplifi­
catrici, o non sia anche, almeno in parte, ascrivibile alle modalità «restaura­
tive» in cui tale rinnovamento si è attuato.40

38 J. RATZINGER, Die sakramentale Begriinduttg christlicher Existenz, Kyrios-Verlag, Frei-


sing 1966; tr. it.: Il fon d a m en to sacram entale della esistenza cristiana, Queriniana, Brescia
1971. Le citazioni faranno riferimento alla traduzione italiana. '
39 O.c., 8.
40 Per modalità «restaurative» si intende il prevalere della ricerca di un «ritorno» a for­
mule celebrative del passato, rispetto allo sforzo di prendere in considerazione le dinamiche
antropologiche e simboliche della «contemporaneità». Scrive al riguardo un autore: «[la ri­
forma liturgica] ha prodotto i suoi risultati migliori esattamente sotto il profilo della restaura­
zione della integrità del rito tradizionale; non ha prodotto invece molto dal punto di vista del-
30 Parte prim a: II dibattito

Alla radice della sensibilità tecnicistica, comunque, Ratzinger pone l’in­


flusso filosofico del pensiero idealistico, in particolare dell’«io creativo» di
Fichte, e del riduzionismo materialistico marxista, senza però trascurare la
parte di responsabilità della metafisica cristiana, incapace di riconoscere il
costituirsi storico della libertà personale. La correzione di questa carenza
che preclude l’intelligenza del momento sacramentale richiede una riscoper­
ta antropologica della «corporeità» e della «storicità», nel loro significato
«simbolico». Al conseguimento di questo risultato è orientato il percorso
dell’autore, che peraltro non ritiene per questo di dover abbandonare la for­
malità del discorso sacramentario. La domanda sul sacramento e la doman­
da sull’esistenza umana, infatti, «si compenetrano [...] così intimamente che
può bastare l’analisi della questione sul sacramento, per sentire annunciarsi
sempre in essa anche la questione sull’esistenza umana e pervenire quindi al­
la risposta ad ambedue le questioni».41
La nozione di sacramento viene derivata, in prima approssimazione, dalla
storia delle religioni. Una considerazione della storia dell’umanità permette
di rilevare che esistono dei sacramenti originari (U rsakramente) o sacramenti
della creazione (Schòpfungssak ram ente) che emergono costantemente «ai
punti nodali dell’esistenza umana e lasciano così riconoscere un’immagine
dell’essere dell’uomo e del modo del suo rapporto con Dio».42 I momenti
cardine a cui Ratzinger fa riferimento sono la nascita e la morte, il pasto e la
comunione sessuale, realtà che derivano in primo luogo dalla natura biologi­
ca dell’uomo, ma che non esauriscono a questo livello la loro portata. In es­
se, infatti, l’uomo sperimenta «lo strapotere di una potenza che egli non può
invocare o costringere, e la quale lo circonda e lo porta anteriormente già al­
le sue decisioni».43 Così, ad esempio, nello sperimentare il mangiare come
banchetto, l’uomo trascende il puro livello nutritivo, per accedere all’espe­
rienza della preziosità della terra che gli dona i suoi frutti e della comunione
con gli altri uomini, fino a percepire quella compenetrazione di biologico e
spirituale che contrassegna la sua natura. Proprio in questo compimento spi­
rituale del biologico consiste «la creazione originaria della dimensione sa­
cramentale».44
Il procedimento seguito dall’autore merita alcune considerazioni. Il ten­
tativo di una rapida fenomenologia della densità simbolica di alcuni momen­
ti fondamentali dell’esistenza umana deve essere apprezzato nell’intenzione
di far valere la transignificazione del corporeo come la U rgestaltung del se-

l’aggiornamento delle forme del rito rispetto al mutamento civile e culturale» (G . ANGELINI,
La celebrazion e eucaristica: approccio teologico-pratico, in Eucaristia e rito, Edizioni del Semi­
nario, Bergamo 1982,159-176,160).
41 O.c., 12.
42 O.c., 14.
43 O.c., 15.
44 O.c., 17.
1. Area tedesca 31

mantico. Effettivamente la comprensione del sacramento non può prescin­


dere dalla rilevanza simbolica del corpo, perché è attraverso la mediazione
corporea che il soggetto giunge a coscienza di sé e alla disposizione della
propria libertà.45 Ma la modalità in cui l’intento è perseguito risulta in parte
carente, non tanto a motivo della brevità del discorso, quanto piuttosto per
il metodo assunto di descrivere «dall’esterno» il costituirsi della pregnanza
semantica del corporeo presso la coscienza. Il carattere non solo biologico
del mangiare non viene raggiunto attraverso la fenomenologia dell’assun­
zione del cibo,46 ma attraverso una risignificazione che, per quanto pertinen­
te, sopraggiunge in maniera «estrinseca» e sembra conosciuta per altra via
rispetto all’esperienza del mangiare stesso. Per questo il risultato dell’analisi
è soltanto «affermato», ma non veramente «mostrato».47 Di conseguenza an­
che l’asserzione che nei punti nodali della vita vi è un’apertura al trascen­
dente sotto forma di un’esperienza dello «strapotere di una potenza» supe­
riore è asserzione sostanzialmente nominale, che corrisponde in maniera
molto generica alle evidenze della coscienza. Per cogliere il nesso tra bio­
logico e spirituale in tutta la sua fecondità, e dare quindi effettiva attuazio­
ne all’istanza pertinente di Ratzinger, occorrerebbe riconoscere l’impossi­
bilità di parlare dei due poli al di fuori del loro rapporto reciproco ed ela­
borare una fenomenologia del corpo come corpo proprio,48 come possibili­

45 «L a coscienza non inizia da sé, ma è preceduta da un’esperienza che essa non pone e
che anteriormente alla sua affermazione le rivela la sua identità. La forma, nella quale questa
rivelazione si produce, è quella del sentire o dell’“essere affetti”, cioè dell’essere determinati
come un sé dall’altro da sé» (A. BERTULETTI, II corpo e l’intelligenza della fe d e , in A A .W .,
«L’io e il corpo», Glossa, Milano 1997,9-29,24).
46 Per un tentativo più accurato di svolgere un’analisi fenomenologica del mangiare cfr. S.
COLOMBO, M angiare da cristiani, in Aa .W ., Il m angiare d i Dio con noi, Edizioni del Semina­
rio, Bergamo 1980,41-80, in particolare 44-53.
47 L’uomo «sperimenta nella mensa la trasparenza del sensibile per lo spirituale, speri­
menta quella compenetrazione di bios e spirito che contrassegna la sua natura più propria.
Egli sperimenta che le cose sono più che cose: che esse sono segni il cui significato trascende
la loro forza sensibile immediata. E se nella mensa sperimenta la fondazione della sua esisten­
za allora egli sa che le cose gli danno più di quanto esse hanno o sono. La mensa diventa al­
lora per lui segno del divino e dell’eterno che sostiene lui, le cose e gli altri uomini e che è
quindi il fondamento più autentico della sua esistenza» (J. RATZINGER, o.c., 18). Dal discorso
di Ratzinger non appare chiaro in che senso, e a quali condizioni l’uomo sperimenti nella
mensa la fondazione della sua esistenza, e prima ancora in che cosa consista questo «speri­
mentare»: se sia un’emozione immediata o la recezione consapevole di un significato «sacro»
del mangiare presente nell 'ethos sociale o altro ancora. Di qui la debolezza dell’affermazione
sulla mensa come «segno del divino».
48 «Il problema del corpo è il problema dell’io, del “corpo proprio”. Il corpo è la dimen­
sione di passività della coscienza. [...] Il vero paradosso è che la coscienza non solo non è
possibile senza la passività che la precede, ma essa si afferma nella sua intenzionalità assoluta
solo “realizzando” il senso di cui questa passività è portatrice. “Transignificato” nell’atto del­
la coscienza che se ne appropria, esso è la condizione immanente del suo realismo. In questa
“transignificazione”, che è la matrice del simbolico, consiste il nucleo teoretico di una feno­
menologia del corpo» (A. BERTULETTI, o.c., 23).
32 P arte prim a: Il dibattito

tà reale del soggetto che attende dalla sua libertà di essere destinata e deter­
minata.49
Oltre all’appartenenza dell’uomo alla natura, Ratzinger prende in consi­
derazione l’appartenenza dell’uomo alla storia, da cui dipende l ’esistenza di
altri due «punti nodali sacramentali»: l ’esperienza originaria della colpa e
l ’esistenza dell’ufficio di sacerdoti e re. Anche in questi due elementi storici
dell’esperienza umana è racchiuso evidentemente un riferimento al divino,
che però viene dall’autore ancora una volta soltanto affermato: «i servizi de­
cisivi nella comunità rimandano a loro volta al fondamento stesso dell’uma­
no, non si esauriscono nella loro funzione sociale, ma sono espressione della
trasparenza dell’umano al divino e nello stesso tempo della consapevolezza
che la comunione umana solo allora è assicurata solidamente, quando non
poggia soltanto su di se stessa, ma in colui che è più grande di essa».50 Con
la considerazione delle situazioni esistenziali decisive sul piano biologico e
su quello storico si raggiunge il quadro completo della «sacramentalità» na­
turale.
Sii questo sfondo antropologico non è difficile per Ratzinger collocare il
settenario dei sacramenti cristiani, che ormai devono essere soltanto caratte­
rizzati nella loro specificità, ma appaiono già ampiamente assicurati nella lo­
ro «rilevanza» antropologica grazie alla «corrispondenza» con i momenti
forti dell’esistenza. I sacramenti cristiani non significano soltanto un inseri­
mento nel mondo penetrato dalla presenza di Dio, che si rende presente at­
traverso le realtà create, ma più specificamente significano « l’inserimento
nella storia originata da Cristo». Quest’aggiunta della dimensione storica
rappresenta «la novità specificamente cristiana dell’idea sacramentale, novi­
tà che soltanto conferisce al simbolo naturale la sua obbligatorietà e la sua
pretesa concreta, lo purifica dalle sue ambiguità e lo trasforma in garanzia si­
cura per la vicinanza dell’unico vero Dio».51 La significazione del divino
propria dei sacramenti naturali viene dunque allo stesso tempo assunta e
corretta nei sacramenti cristiani, che non rinviano a una trascendenza gene­
rica, bensì a quella rivelatasi nella storia di Gesù.
In questo modo i sacramenti corrispondono da un lato alla Rivelazione
storica cristiana, dall’altra alla condizione dell’uomo, impastata di storicità.
Se l ’uomo è un essere compenetrato di storia che giunge a pienezza soltanto
attraverso la mediazione di simboli temporali, i sacramenti gli offrono in ma­
niera pienamente adeguata alla sua natura la possibilità di un rapporto stori­

49 Cfr. G. ANGELINI, Corpo proprio e form a m ora le, in A a .V v ., «L’io e il corp o», Glossa,
Milano 1997,205-237, soprattutto 207. Qui mostrerebbe la sua pertinenza il tema dei rito, «il
gesto simbolico in cui si esprime la verità dell’esperienza umana come tale, la verità dell’agire,
il quale non è riducibile all’agire strumentale» (A. BERTULETTI, o.c., 25), proprio perché il
corporeo non è riducibile al biologico.
50 J . Ratzinger, o.c., 21.
51 O.c., 28s.
1. Area tedesca 33

co con Cristo, inserendolo nella storia originata da Lui. Per questo si può
parlare a pieno titolo di un «fondamento sacramentale dell’esistenza cristia­
na», in cui i simboli/sacramenti antropologici sono stati resi da Cristo sim­
boli/sacramenti cristiani, che introducono l’uomo nella relazione salvifica
con il Dio di Gesù.
La prospettiva di Ratzinger confrontata con la posizione di Rahner sul
simbolo reale segna, all’interno di una relativa continuità, un sensibile cam­
biamento di accento. In Rahner, infatti, la considerazione del corpo come
simbolo antropologico è l’esito di un’argomentazione ontologica che, rico­
noscendo il carattere simbolico di ogni ente, giunge alla qualificazione sim­
bolica anche del corpo. Ratzinger, invece, pur avendo sullo sfondo la pro­
blematica antropologica rahneriana, istituisce la simbolicità del corpo diret­
tamente in riferimento ai risultati della ricerca storico-religiosa, aprendo in
questo modo la nozione di simbolo a un’immediata identificazione con il sa­
cramento naturale che in Rahner pare assente.
Su questa via, se appare preziosa la connotazione originariamente antro­
pologica del simbolo, che non può essere dedotto ontologicamente dalla co­
noscenza della struttura degli enti, perché costituisce l’esperienza originaria
articolata dall’ontologia, risulta però pericoloso un uso meno controllato
della nozione sacramentale. Il sacramento della creazione è infatti solo gene­
ricamente caratterizzato da Ratzinger per riferimento ai «momenti» forti
dell’esistenza, percepiti nella loro relazione con lo spirituale e il trascenden­
te, senza produrre una chiarificazione di ciò che «formalmente» conferisce a
questi «punti nodali» carattere sacramentale. Non sembra infatti plausibile
che la natura sacramentale di questi momenti sia attribuibile ad una sempli­
ce e inesprimibile esperienza soggettiva di apertura al senso misterioso della
vita, perché l’accesso al senso si compie sempre solo attraverso mediazioni
linguistiche e gestuali, attraverso riti, a cui più precisamente ci si può riferire
per connotare a questo livello «naturale» la «sacramentalità».

I.2.I.2. K asper

La riflessione di Kasper52 si pone in obiettiva continuità con quella di Rat­


zinger. È il giudizio di Schilson,53 che precisa inoltre che l’interpretazione
antropologica del simbolo sacramentale viene da Kasper «approfondita» e
«precisata» in senso cristologico. Effettivamente il testo in esame ha più am­
pio sviluppo di quello di Ratzinger e si'prefigge un obiettivo più alto: non
soltanto introdurre a una rinnovata comprensione del sacramento, mostran­

52 W . KASPER, W ort und Sakrament, in ID., Glaube und G eschichte, Griinewald, Mainz
1970,285-310.
53 A. SCHILSON, K atholische Sakram ententheologie a u f neuen W egen? B em erkungen zu et-
n igen N euerscheinungen, «Herder-Korrespondenz» 33 (1979)571-576,573.
34 Parte prim a: Il dibattito

done la convenienza con la natura storica dell’uomo, ma più radicalmente


favorire la reimpostazione del rapporto tra le due realtà che alimentano la vi­
ta della Chiesa: «parola e sacramenti».
Sollecita a muoversi in questa direzione innanzi tutto il rinnovamento
conciliare, che non a caso si è attuato prevalentemente sul versante biblico e
liturgico, ma anche il nuovo clima ecumenico, che ha superato finalmente la
contrapposizione tra Cattolicesimo, Chiesa dei sacramenti, e Riforma, Chie­
sa della parola. In assenza di un vero ripensamento teologico della questio­
ne, però, sia la riforma conciliare che il cammino ecumenico rischiano di ri­
manere acquisizioni fragili,54 tanto più che proprio nei confronti della parola
e dei sacramenti si è espressa in maniera più acuta la crisi della riflessione e
della pratica cristiana. Nei confronti dei sacramenti a motivo della cultura
tecnicista e funzionalista, nei confronti della parola per le incertezze sui con­
tenuti e l ’interpretazione della fede suscitate da un certo uso del metodo sto­
rico-critico nell’esegesi. Il compito più urgente per la teologia postconciliare
è, dunque, elaborare una comprensione «congiunta» della parola e del sa­
cramento cristiano.
L ’elemento fondamentale del programma è espresso dall’istanza della
«congiunzione». Essa deve da un lato onorare a livello teologico la ritrovata
unità biblico-liturgica e il convergente orientamento ecumenico, dall’altro
superare un difetto ricorrente della teologia, cioè la tendenza a pensare il
ruolo ecclesiale della parola a partire da una nozione prefissata e isolata di
sacramento. Da questo difetto di metodo provengono, infatti, molteplici
aporie, che, a seconda della preferenza per uno dei due termini, portano a
comprendere l’efficacia della parola in termini di una sacramentalità «dimi­
nuita»55 o al contrario l ’efficacia del sacramento come una semplice «appen­
dice» dell’evento di parola.
Tra i tentativi recenti della teologia dogmatica di dare soluzione a questo
ordine di problemi, Kasper prende in considerazione l ’orientamento, dive­
nuto prevalente negli ultimi decenni, che cerca di superare la frattura tra i
due poli ritrovando la loro unità nella comune appartenenza ecclesiologica.
Parola e sacramenti non devono essere contrapposti perché sono entrambi
forme concrete della vita ecclesiale, che trovano la loro intelligibilità qualora
si pensi anche la Chiesa in termini sacramentali (Chiesa come Ursakrament).
In questo modo però «la domanda circa il settenario e circa il rapporto tra
parola e sacramento viene invasa dalla realtà della Chiesa, che solo in manie­

54 Kasper ricorda in particolare le ambiguità sottese alla formula «parola e sacramento»


che, se oggi viene rivendicata come espressione della fede cattolica, è nata in realtà in ambito
luterano, precisamente per esprimere la teologia della sola fid e s e del solu s Christus. Sotto
un’apparente convergenza essa può dunque nascondere posizioni assai distanti e anche con­
trapposte (W. K asper, o . c ., 293).
55 Kasper si riferisce in particolare allo scritto di Rahner W ort un d E ucharistie, in Schrif-
ten zur T beologie, IV, 313-355.
1. Area tedesca 35

ra diversa in ciascuno di essi si attualizza e concretizza».56 La critica a questa


prospettiva teologica, attribuita a Schillebeeckx, Semmelroth e in particolare
a Rahner, merita di essere riportata, sia per il suo interesse intrinseco, sia
perché giustifica lo spostamento antropologico della sacramentaria dell’au­
tore.
I rilievi mossi alla teologia della Chiesa-sacramento, intesa nel senso rah-
neriano, sono fondamentalmente due. In primo luogo, la Chiesa «non si
fonda in se stessa»; essa è solo comprensibile in un duplice autosuperamen­
to, ovvero nella sua relazione a Cristo, a cui è subordinata* e nella relazione
all’uomo e al mondo, al cui servizio è ordinata. «Parola e sacramento perciò
non sono solo e non sono innanzi tutto le forme in cui la Chiesa si realizza,
ma modi in cui essa “diviene”, da Dio e per gli uomini».57 La Chiesa non ha
in suo potere la parola e i sacramenti: essa vi sta «sotto», come serva e am-
ministratrice, trovando in queste realtà una norma e un principio a cui atte­
nersi.
In secondo luogo, la prospettiva rahneriana porta a una ipostatizzazione
quasi mitologica della Chiesa, che fa perdere il senso della concretezza e in­
duce a una comprensione idealizzante. La Chiesa diventa così un soggetto
astratto, di cui si parla in una sorta di entusiasmo ecclesiologico che perde il
contatto con la realtà. Non è questo l’orientamento del Vaticano II, che ha
invitato piuttosto a riscoprire concretamente la Chiesa come il Popolo di
Dio pellegrinante, sempre bisognoso di riforma e conversione, edificato dal­
la parola e dai sacramenti. Proprio in questo suo compiersi storico, nell’ob­
bedienza al Signore e nel servizio della carità, e non celebrando se stessa, la
Chiesa realizza la sua missione di essere segno per il mondo.
Con queste puntuali annotazioni, Kasper non propone il «rifiuto» della
dottrina della Chiesa-sacramento, ma la sua riconduzione nell’ambito di
un’ecclesiologia più concreta è realistica di quella di Rahner. Se pertanto
l’articolazione rahneriana del rapporto parola-sacramento si rivela insuffi­
ciente, occorre percorrere un’altra via, ripensando il problema alla radice e
incontrando così la tematica cristologica e quella antropologica, che nell’ec­
clesiologia in questione risultavano sottodeterminate. La proposta dell’auto­
re è di considerare in che modo Gesù abbia inverato con la sua vita la no­
zione di Parola di Dio e di Segno salvifico, per poi mostrare come la confi­
gurazione cristologica di Parola e Sacramento, continuata dalla Chiesa, sia il
compimento di una struttura antropologica fondamentale. Per riferimento al
nostro tema, dunque, il sacramento cristiano risulta radicato nella natura
(storica) dell’uomo.
La trattazione cristologica mette in evidenza che la coppia «parola e sa­
cramento» deve essere riferita alla persona di Gesù, per designare non solo

56 W. Kasper, o . c . , 293.
57 O.c., 294.
36 Parte prim a: Il dibattito

ciò che egli ha «detto» e «fatto», ma più radicalmente il mistero «globale»


della sua Persona. Gesù è la Parola e il Segno di Dio principalmente con la
sua vita di obbedienza al Padre, che rimane per tutti gli uomini come «segno
duraturo che provoca alla decisione e all’obbedienza della fede».58 Questa
fondazione cristologica, che si riferisce alla globalità di una situazione esi­
stenziale decisa nell’obbedienza, ha anche conseguenze per una comprensio­
ne più profonda del sacramentale. In questa prospettiva infatti « l’uomo Ge­
sù di Nazareth e al suo seguito la situazione antropologica nel suo insième,
nella misura in cui viene accolta nell’obbedienza e nella dedizione, diventa
segno di Dio nel mondo».59 Viene così superata la contrapposizione tra sa­
cro e profano, perché tutta la vita umana, assunta nella fede, diventa testi­
monianza della Signoria di Dio.
Questo apre il discorso cristologico alla fondazione antropologica, anche
perché Gesù è vero uomo, e parola e segno appartengono originariamente
alla struttura umana. Non è necessario seguire analiticamente lo sviluppo an­
tropologico del discorso di Kasper, che ripete in parte quello di Ratzinger,
ritrovando nel «corpo», non più dualisticamente contrapposto allo spirito, il
simbolo originario, e nelle «situazioni decisive» dell’esistenza umana il rife­
rimento a una trascendenza ancora indeterminata. C’è però in Kasper un’at­
tenzione alla mediazione del linguaggio che gli permette di fondare antro­
pologicamente la «congiunzione» di parola e simbolo/sacramento. Il ruolo
fondamentale del linguaggio appare quando l ’analisi passa dalla considera­
zione astratta della condizione umana in sé all’esame della situazione storica
e sociologica in cui ogni uomo si trova a vivere. A questo livello è facile rile­
vare che l’uomo è membro di una comunità non soltanto per la sua apparte­
nenza biologica, ma anche, e più ancora, per la sua appartenenza linguistica,
grazie a cui partecipa ad un certo universo di valori e di interpretazioni del
reale. Poiché il linguaggio non è soltanto, né prima di tutto, strumento in­
formativo, ma piuttosto mediazione storica che interpreta il reale e provoca
alla decisione, la caratteristica fondamentale della parola consiste nel suo
ruolo di Situationsbestim m ung, ovvero di fattore che «determina» la situa­
zione umana. Senza linguaggio,'infatti, non c’è «situazione», ma solo presen­
za inerte; la parola invece, interpretando il reale, lo rende capace di provoca­
re l’uomo e di chiamarlo alla decisione. Poiché la parola non è riducibile a
un dato fenomenico strumentale, ma si radica nel profondo dell’esperienza
antropologica,,e d’altro canto il reale senza linguaggio è «muto», Kasper può
concludere che «parola e situazione si coappartengono essenzialmente».60
Ritrovata l’unità antropologica originaria di parola e di situazione antro­
pologica, intesa come unità di parola e simbolo sacramentale, è facile per

58 O.c., 297.
59 O.c, 297s.
60 0.c.,3 01 s.
1. Area tedesca 37

Kasper chiudere il cerchio della sua riflessione affermando che la qualifica­


zione cristologica del sacramento attua e realizza in maniera nuova una
struttura essenziale della natura umana. Gesù, Parola e Segno escatologico
di Dio, assume la struttura umana di parola e simbolo aprendola a una tra­
scendenza non più generica, ma trinitariamente qualificata. Nel sacramento
cristiano, in forza della parola di Gesù e del suo ruolo di Situationsbestim -
m ung, «la situazione umana non rinvia più solo indistintamente a una tra­
scendenza vuota, incerta e impersonale, ma rimanda concretamente all’amo­
re di Dio. [...] Il sacramento assume le situazioni originarie (Ursituationen)
umane e le rende attraverso la parola situazioni di salvezza, tempi e segni
della grazia di Dio per gli uomini».61
Il contributo di Kasper appare sotto vari aspetti significativo. Merita pri­
ma di tutto apprezzamento l’obiettivo della sua ricerca, ovvero il supera­
mento della tradizionale frattura tra teologia della parola e teologia sacra­
mentaria, e la sua critica verso i modelli che intendono risolvere la frattura
«riducendo» i due poli in questione a «forme di vita» della Chiesa-sacra­
mento. Bisogna poi riconoscere che il discorso antropologico dell’autore, vi­
cino sotto vari aspetti alla proposta di Ratzinger, risulta però più accurato.
Questo vale soprattutto per il modo in cui si attribuisce la qualifica di sa­
cramento «naturale» ai momenti forti dell’esistenza umana. Scrive, infatti,
Kasper che «il segno sacramentale consiste in una situazione originaria uma­
na e sociale rappresentata simbolicamente attraverso una celebrazione co­
munitaria».62 Appare così, a differenza che in Ratzinger, l’esplicito riferi­
mento alla rappresentazione rituale come elemento costitutivo nella perce­
zione della pregnanza simbolica della situazione esistenziale. Lo spunto, pur
non ricevendo ancora sufficiente considerazione e non producendo un effet­
tivo progresso del discorso, istituisce però più pertinentemente la qualità di
«sacramento naturale» del simbolismo antropologico non semplicemente in
relazione ad un momento forte dell’esistenza, ma più precisamente in rela­
zione alla sua rappresentazione comunitaria.63
Anche al testo di Kasper, però, si possono muovere alcuni addebiti criti­
ci, in particolare circa la rapidità con cui si utilizzano in riferimento a Gesù
le categoria di «parola» e di «segno». Kasper, infatti, si limita a recepire l’u­
so scritturisti co di questi termini, o altri simili, per designare l’evento cri­
stologico, senza tentare un’elaborazione teologica del significato che queste

61 O.c. ,302.
62 O.c., 299.
63 Sembra infatti da escludere che l’accesso al senso possa prescindere dalla mediazione
delle molteplici rappresentazioni del reale offerte all’individuo dal suo gruppo di appartenen­
za per affermarsi immediatamente in riferimento al corpo astrattamente inteso. Il richiamo al
corpo trova invece la sua esatta configurazione nel rinvio al momento passivo del costituirsi
della coscienza e dunque alle molteplici mediazioni storiche che concorrono all’istituirsi del
senso presso il soggetto.
38 Parte prim a: Il dibattito

categorie possono avere in riferimento alla storia di Gesù. La carenza è tanto


più avvertita in quanto la seconda parte del discorso è dedicata proprio alla
comprensione antropologica del linguaggio e delle situazioni simboliche del­
l’esistenza, e fornisce degli spunti, seppur iniziali, che avrebbero potuto gio­
vare alla comprensione del discorso cristologico. Eludere la domanda sui
«motivi» che giustificano l’attribuzione alla storia di Gesù della qualifica di
Parola definitiva e di Segno escatologico di Dio induce alla sovrapposizione
troppo rapida del binomio «parola-sacramento» a realtà diverse come Gesù
(Parola e Segno di Dio), la situazione umana (momento esistenziale deter­
minato dalla parola) e il sacramento cristiano (situazione antropologica de­
terminata dalla parola di Gesù annunciata dalla Chiesa), senza esplicitare le
differenze e i rapporti. In questo modo Kasper rischia di ripetere l’uso am­
biguo dei termini, che ha puntualmente criticato nella teologia della Chiesa
Ursakrament.
Alla radice del problema vi è Pirrelatezza tra fondazione cristologica e
fondazione antropologica, che sono soltanto accostate e sommate, ma non
chiariscono in che modo Gesù assuma nella sua storia umana il binomio pa­
rola-situazione simbolica e lo realizzi in maniera da farne la Rivelazione de­
finitiva del volto di Dio. Per questo anche la qualificazione del sacramento
cristiano come situazione umana decisiva trasformata e determinata dalla
Parola di Gesù, annunciata dalla Chiesa, risulta soltanto descrittiva, e non
immune da qualche ambiguità.

\2 2 . «Sacram ento/sim bolo» e «cultura/società»

A giudizio di Schilson64 la linea Ratzinger-Kasper non giunge a dare una


risposta pienamente soddisfacente alle domande fondamentali sul sacramen­
to a motivo di una carente considerazione del versante «sociale e concreto»
del simbolo cristiano. Effettivamente il riferimento alla società, piuttosto
marginale nel testo di Ratzinger, non riceve particolare attenzione neppure
nell’esposizione di Kasper, anche se quest’ultimo, raccogliendo la suggestio­
ne di Metz, afferma che «la relazione al mondo e alla vita umana concreta è
costitutiva per [il binomio] parola e sacramento».65 Manca però sostanzial­
mente in questi due autori l’interesse a mostrare l’apporto «sociale» del sa­
cramento e la volontà di istituire un particolare rapporto tra simbolo cristia­
no e «cultura».
In consonanza, o forse in obbedienza, alla «svolta pratico-politica» della
teologia post-rahneriana, l ’attenzione al risvolto sociale e culturale della pra­

64 A. SCHILSON, K atholische S ak ram ententbeologie a u fn eu en W egen? B em erk ungen zu ri­


ti igen N euerscheinungen, «Herder-Korrespondenz» 33 (1979) 571-576,573.
65 W. K asper, o . c ., 309.
1. Area tedesca 39

tica sacramentale passa, invece, in primo piano nell’opera di F. Schupp e R.


Schaeffler. Schilson, difatti, accosta i due autori, presentando la loro produ­
zione in successione logica, oltre che cronologica, con quella sopra esposta e
qualificando il loro pensiero sotto l’insegna riassuntiva: «i sacramenti come
prassi della speranza». L’accostamento di Schupp e Schaeffler, però, richie­
de di essere precisato, perché, come Schilson stesso avverte,66 i loro percorsi
argomentativi sono diversi e convergono soltanto nel risultato di intendere il
sacramento in termini di prassi «utile» alla società, al suo cambiamento e al­
la sua «emancipazione». La convergenza, dunque, è piuttosto generica, e
forse solo apparente, perché non si realizza sul piano del contenuto ^«iden ­
tità» del sacramento), ma solo, e parzialmente, sul piano dell’intenzione (la
sua «funzione» sociale). Quanto all’identità del sacramento, infatti, le conce­
zioni di Schupp e di Schaeffler appaiono molto distanti, al punto di essere
quasi alternative. A dividere le posizioni è soprattutto la questione della na­
tura cultuale dei sacramenti, che Schupp vuole dissolvere a favore della col-
locazione del sacramento nell’ambito «materiale» del lavoro, mentre Schaef­
fler la vuole difendere nella sua potenzialità «figurativa».. L’avvicinamento
tra i due autori, dunque, risulta soltanto funzionale a mostrare la predilezio­
ne del riferimento alla società e alla cultura per esprimere la portata del sim­
bolo cristiano. In quanto tale, e con prudenza, la accogliamo per la nostra
esposizione. Rinunciamo, invece, al suggerimento di interpretare il pensiero
di Schupp e Schaeffler assumendo come categoria-chiave la «prassi della
speranza», perché suppone un riferimento privilegiato all’opera di Bloch,
che non trova nella produzione dei due autori riscontro consistente.

1.2.2.1. Schupp

Il testo di Schupp67 risulta chiaramente influenzato, come già il titolo dà a


vedere, dalla Scuola di Francoforte, che negli anni ’70 costituiva, anche in
teologia, un punto di riferimento da molti accreditato. Sotto questo profilo il
saggio è fortemente «datato», nel senso lato per cui è opera che riproduce
strettamente i tratti di un certo periodo storico, quello dell’egemonia cultu­
rale marxista, e nel senso stretto per cui esprime una posizione francamente
superata. Il «superamento» è avvenuto in ambito teologico, perché la teolo­
gia non ritiene più la «teoria critica della società» un partner affidabile, ma
anche più ampiamente a livello culturale, perché la stessa scuola di Franco­
forte ha riconosciuto i limiti della propria impostazione, procedendo nella
sua fase più recente (il «secondo» Habermas) a una vigorosa svolta verso il

66 A. S chilson , o .c . ,574.
67 F. SCHUPP, G laube - K ultur - Symbol. Versucb ein er kritischen T heorie sakram entaler
Praxis, Patmos, Dusseldorf 1974.
40 Parte prim a: Il dibattito

linguaggio e la comunicazione.68 L’opera di Schupp mantiene, comunque,


un interesse storico, per il suo carattere in certo senso emblematico69 nei
confronti di tutta una produzione più vasta, in buona misura divulgativa, ma
non solo, che ha inteso i sacramenti alla luce della teologia politica e/o della
teologia della liberazione.70 L’ispirazione marxista non è, però, l’unica risor­
sa dell’autore, che attinge anche all’idealismo tedesco, inteso, sulla scorta di
Adorno, nella sua forma rigorosamente «dialettica». In particolare Schupp
predilige la proposta filosofica di Schelling, che meglio di altri avrebbe rico­
nosciuto il ruolo della «materia» nello sviluppo della vita dell’uomo e della
società.
L’intento di Schupp è quello di salvare i simboli cristiani dall’insignifi-
canza e dal tramonto a cui sono condannati dalle profondissime trasforma­
zioni in atto nella società. Questo è possibile solo se i simboli cristiani asse­
condano anche oggi, come hanno fatto durante tutto il corso della storia,71
10 sviluppo culturale e seguono l ’evoluzione dell’uomo moderno, non per
appiattirsi sulla prassi sociale dominante, ma per poter continuare ad eserci­
tare, anche nella società della tecnica e del lavoro, il loro ruolo critico. In
questo consiste il loro contributo al processo deU’«illuminismo», ovvero al
processo di illuminazione e di emancipazione della società da tutte le forme
di sfruttamento e di oppressione che la condizionano.
La capacità emancipatrice dei sacramenti consiste nella risorsa critica che
essi contengono in forza della loro duplice natura di «prassi» e di «prassi
materiale». La «materia», intesa evidentemente nel senso fisico e non metafi­
sico, è infatti componente essenziale del sacramento, grazie a cui esso mostra
11 suo riferimento privilegiato all’immanenza mondana. Il posto centrale del­
la materia nella prassi sacramentale corrisponde, d’altra parte, al ruolo inso­
stituibile che essa occupa all’interno del processo di sviluppo del singolo e
della società. La materia, infatti, deve essere concepita, contro tutte le forme
di spiritualismo della tradizione, non negativamente, come «mancanza di es­
sere», ma positivamente, come «luogo» della trasformazione sociale, in
quanto luogo della prassi, più precisamente del lavoro.

68 Cfr. J. HABERMAS, T heorie d es kom m unikativen H andelns, Suhrkamp, Frankfurt a.M.


1981.
69 G. COLOMBO, P er il trattato sull'Eucaristia (I), «Teologia» 13 (1988) 95-130, 111.
70 Ad es. F. Taborda considera l’opera di Schupp di «fondamentale importanza» per il
tema del simbolo sacramentale (ID., Sacram entos, pràxis e festa. Para una teologia latino­
am ericana d os sacram entos, Vozes, Petrópolis 1987; tr. it.: Sacram enti, prassi e festa . P er una
teologia latinoam ericana d ei sacram enti, Cittadella, Assisi 1989, p. 69 n. 4). Cfr. anche L.
BOFF, M im ma sacramentalia. Os sacram entos d e Vida e a Vida d os sacram entos. Ensaio d e teo ­
logia narrativa, Vozes, Petrópolis 1975.
71 La ricostruzione storica dell’evoluzione dei simboli cristiani offerta nella prima parte
del saggio si conclude con l’affermazione che manca qualsiasi unità di sviluppo sia nella teoria
che nella prassi dei sacramenti (F. SCHUPP, o.c., 201).
1. Area tedesca 41

Per questo «la primaria autodeterminazione dell’uomo nel suo sforzo


emancipativo deve essere guadagnata n ell’idea del lavoro, e non nell’ambito
della liberazione dal lavoro».72 Lo scopo da perseguire non è l’abolizione del
lavoro in quanto tale, ma la liberazione dal lavoro come «oggettivazione del­
la violenza» e della costrizione sociale. Qui i sacramenti, proprio in forza del
loro carattere di rappresentazione di un certo comportamento materiale e
comunitario, possono dispiegare la loro efficacia. Questo, però, richiede una
svolta decisiva nei confronti della tradizione. Finora, infatti, ! sacramenti so­
no stati più separati che congiunti con il mondo del lavoro, e questo non a
caso, ma per una precisa scelta, dovuta non alla fedeltà al messaggio cristia­
no,73 bensì ai condizionamenti culturali. A partire soprattutto dall’epoca co­
stantiniana i simboli cristiani sono stati isolati in un ambito ritenuto «alto» e
«nobile», quello del culto, ispirato alla concezione tipica del mondo greco­
romano della superiorità deìYotium sul negotium . In questa posizione, però,
i sacramenti non possono interagire dialetticamente con la prassi emancipa­
trice, perché risultano semplicemente «estranianti» dal mondo e «immuniz­
zati» nel loro potenziale critico.74
Recuperando invece i simboli cristiani alla prassi materialistica, essi pos­
sono svolgere la loro funzione, che è allo stesso tempo rappresentativa e pro­
vocatrice. Così riassume Schupp la sua concezione sacramentale: «I simboli
e le azioni simboliche centrali cristiane sono mediazioni e segni anticipatori
di vita “vera” e “santa”, che così allo stesso tempo hanno la funzione critica
di mostrare nella vita storica concreta .ciò che è non vero e non santo. Essi
operano provocando nell’uomo, grazie alla loro azione raffigurativa, una
conversione e una trasformazione. Essi stessi sono così segni pratici come
segni di una prassi esigita, di cui mediano la condizione».75 Se il testo forse
non raggiunge, come spesso capita nell’opera di Schupp, la necessaria chia-,
rezza, si può comunque intendere che il sacramento, propriamente, opera
non comunicando la salvezza, ma offrendo un’anticipazione simbolica di
una prassi materialistica emancipatrice. La «verità» del sacramento, perciò,
non è nel presente della sua realizzazione, ma nel futuro della iprassi a cui
chiama76 e che può venire solo dalla decisione di chi, sotto la provocazione

12 O.c., 209. , ;
73 È chiaro infatti per Schupp che «nell’annuncio di Gesù non è stato proclamato un
nuovo culto» {o.c., 252) e che proprio la croce si oppone alla subordinazione della prassi etica
e sociale al mondo cultuale (cfr. o.c., 243).
74 Mantenuto nel «luogo» del culto il sacramento concorre piuttosto a perpetuare le strut­
ture sociali oppressive, favorendo la confermazione dello statu quo, rappresentata dalla fissità
della liturgia (cfr. o.c., 267).
75 O.c., 7s.
76 Nei sacramenti «il materialismo e la prassi sono mediati non come fatto, ma nel postu­
lato di una prassi materialistica trasformatrice come non priva di senso e di speranza» (o.c.,
217).
42 P arte prim a: Il dibattito

del simbolo cristiano, si apre prassicamente alla speranza di un mondo


emancipato e si oppone a ogni forma di oppressione sociale.
Va però precisato che la raffigurazione anticipatrice non è indicazione
positiva di «un» modello di società riconciliata, ma soltanto indicazione con­
testatrice della società oppressiva. Questo in coerenza con la logica dialetti­
ca, che non giunge mai a un superamento teorico della prassi, e quindi al­
l ’indicazione di forme universali di libertà da perseguire, ma rimanda al­
l ’azione come luogo in cui la verità della libertà «praticamente» si compie.
Per lo stesso motivo non si può neppure garantire che i simboli cristiani
eserciteranno effettivamente la loro funzione liberatrice: «il loro potenziale
non è già una garanzia; è un potenziale, proprio questo e solo questo».77
Il potenziale dei simboli sacramentali consiste nel loro riferimento alla
croce, da intendere evidentemente non come sacrificio che proviene dal­
l’obbedienza, ma come conseguenza dell’annuncio della liberazione, della
protesta contro tutto ciò che si oppone alla vera vita. La fede nella risurre­
zione è così la speranza che il dolore non sia l’ultima parola e che la fram­
mentarietà della vita acquisti senso nel farsi carico del dolore degli altri.
Una valutazione accurata della proposta di Schupp richiederebbe una di­
scussione approfondita di tutto l’orientamento della teologia politica, di cui
l ’opera in esame ripropone vistosamente le linee e riproduce i limiti. In par­
ticolare deve essere ripetuta la critica, divenuta un dato acquisito, circa la ri­
duzione della prassi cristiana al prassismo sociale. L’assolutizzazione del ri­
mando all’agire, privo di criteri veritativi, estenua, infatti, radicalmente sia la
qualità dell’evento salvifico che il vero profilo della prassi. La verità cristolo­
gica viene subordinata alla prassi storica, perdendo il suo profilo di evento
escatologico della salvezza, per ridursi a postulato ed appello per un’azione
sociale di difesa dei più deboli. La prassi emancipatrice, a sua volta, non ha
altro riferimento che l’efficacia immediata e materialmente verificabile, sen­
za poter emergere nella sua qualità specifica, per cui essa è autodetermina­
zione del soggetto e, in quanto tale, vero atto della libertà.
Per quanto riguarda più strettamente l ’ambito della sacramentaria, deve
essere considerata in. particolare la proposta di una dislocazione dei sacra­
menti al di fuori del momento cultuale. Anche questa tesi sostanzialmente
non è originale, ma converge, seppur muovendo da motivazioni in parte di­
verse, con l’orientamento diffuso di diffidenza per il momento rituale e ce­
lebrativo emerso a partire dalla teologia della secolarizzazione.78 Ciò che
spinge Schupp a un rifiuto irremovibile del comportamento cultuale è la tesi
che «il linguaggio della fede è primariamente solo la prassi storica»,79 e la
convinzione che tra la prassi emancipatrice e la prassi cultuale ci sia un’irri­

77 O.c. ,285. ■
78 Cfr. ad es. L. MALDONADO, Secolarizzazione della liturgia (tr. it.), Paoline, Roma 1972.
o.c., 244.
79 F . S c h u p p ,
1. Area tedesca 43

mediabile alternativa. Opera qui il pregiudizio che il momento rituale, peral­


tro da Schupp non investigato, ma globalmente assunto nel suo senso nega­
tivo già pregiudicato, sia assimilabile alla sua forma degenerata, ovvero al ri­
tualismo fissistico e conservatore. Se la denuncia del rischio di una degene­
razione ritualistica è evidentemente plausibile, non si può però prescindere
dalla prassi liturgica in nome della prassi storica, se non misconoscendo il
significato del rito, che non è la sacralizzazione o la conservazione di un cer­
to ordine sociale,80 ma esattamente l’enfatizzazione della performatività del
simbolico81 che Schupp rivendica alla prassi sociale.
Viene così in primo piano la concezione del simbolo propria di Schupp,
che, secondo la definizione offerta nel glossario del saggio, è «una mediazio­
ne anticipata della differenza esistente nella storia e nella società tra una
realtà esperienziale frammentaria e una pienezza di senso realutopica».82 Il
limite fondamentale di Schupp è non mostrare come nel simbolo cristiano la
pienezza di senso non sia semplicemente rinviata ad un futuro ancora incer­
to e «indeciso», ma sia offerta alla prassi del credente come verità escatolo­
gica realizzata una volta per tutte nell’evento cristologico. Il sacramento,
proprio in forza del suo riferimento all’avvento definitivo della Verità di Dio
nella storia, può così giustificare la piena dedizione del cristiano alla libera­
zione, non solo politica, dei fratelli e fondare in maniera ultimativa e non
astratta il legame su cui si basa ogni società.

1 2 2 2 . S chaeffler

Richard Schaeffler propriamente non è un teologo, ma un filosofo della


religione. La sua opera, però, costituisce un punto di riferimento significati­
vo, perché mirando ad un recupero del culto come momento irrinunciabile
dell’esperienza antropologica, elabora alcune categorie di notevole interesse
per la sacramentaria. L’orientamento generale della sua ricerca, quale appa­
re dal suo contributo Verso un con cetto filo so fico di religione, è un tentativo
di unire l’istanza trascendentale di Rahner con la metodologia fenomenolo­
gica di Husserl, al fine di interpretare il fenomeno religioso «in base alla sua
stessa autocomprensione».83 Schaeffler intende proseguire il tentativo di
Rahner di una fondazione trascendentale della religione, senza però cadere
nella sua disattenzione per il dato fenomenologico, che lo induce a non di­

80 «Il “culto” cristallizza e simbolizza gli interessi e i valori dominanti della “cultura”»
(o.c., 14).
81 Cfr. P. SEQUERI, Il Dio affidabile. Saggio di teologia fondam entale, Queriniana, Brescia
1996,484-486.
82 F. S chupp , o.c., 314.
83 R. SCHAEFFLER, Verso un con cetto filo so fico d i religion e (tr. it.), in W. KERN - H.J.
POTTMEYER - M. SECKLER, Corso d i teologia fondam entale, I, Queriniana, Brescia 1990, 61-
79,73.
44 Parte prim a: I l dibattito

stinguere adeguatamente la diversa qualità e il diverso riferimento religioso


degli atti umani.84 L’unico criterio offerto da Rahner in tal senso è il grado di
«tematizzazione» dell’apertura al trascendente, ma tale criterio intellettuali­
stico, seguito fino in fondo, porta alPimplausibile conclusione che la rifles­
sione filosofica costituisca un atto religioso privilegiato rispetto a ogni forma
di preghiera e di celebrazione cultuale. Occorre, dunque, integrare la pro­
spettiva rahneriana con la base fenomenologica di cui è carente, e riconosce­
re in particolare il ruolo del culto come momento fondamentale per l’emer­
genza della coscienza religiosa e del rapporto con Dio.85
L ’obiettiva pertinenza del contributo di Schaeffler per l’impostazione
della questione sacramentaria e il suo «sconfinamento» in questioni teologi­
che di primo piano giustificano dunque la sua inclusione nella nostra rasse­
gna. Tanto più che la ricerca di Schaeffler, a differenza di quella di Schupp,
sembra aperta a nuovi sviluppi. I testi più significativi per il nostro tema so­
no soprattutto due: un contributo86 pubblicato insieme a un saggio di Hù-
nermann nella collana Q uaestiones disputatele negli anni ’70 e un breve arti­
colo recente sul rapporto tra culto e cultura.87
Nelle sue opere Schaeffler sviluppa fondamentalmente l ’idea che il culto
non deve essere considerato un momento secondario e derivato dell’espe-
rienza antropologica a cui si chiede di giustificare pregiudizialmente la pro­
pria legittimità rispetto a criteri estrinseci elaborati da una teoria filosofica o
teologica indifferente, o magari ostile, al mondo cultuale. La domanda sul
culto, piuttosto, deve essere formulata all’interno di una ricerca che voglia
evidenziare l’originalità di questa esperienza religiosa e mostrare come essa
realizzi, in maniera specifica e insostituibile, le dimensioni trascendentali
dell’agire umano. E evidente in questa impostazione del discorso la netta
contrapposizione di Schaeffler alla teologia della secolarizzazione, in parti­
colare alle correnti che propongono l’inverarsi della religione nell’abbando­
no del momento celebrativo-rituale. La contrapposizione con le tesi della se­
colarizzazione non avviene, però, sul piano dell’istanza di una verifica dell’e­

84 «Poiché in ogni atto umano viene coespressa anche la meta alla quale questo atto deve
la sua capacità, di riferirsi ad oggetti, tutti gli atti umani si riferiscono anche a Dio, e perciò
sono religiosi. Ma, in tal modo, rimane aperta la questione del criterio che rende possibile de­
finire la struttura propria e il riferimento oggettivo specifico degli atti religiosi rispetto alla to­
talità di tutti gli atti umani e alla loro religiosità implicita» (o.c., 72).
85 Questo rapido cenno alla critica di Schaeffler nei confronti di Rahner dovrà essere ri­
preso nella discussione globale degli orientamenti sacramentari che si sono mossi nel solco
rahneriano. Sembra in particolare che proprio la mancata elaborazione di una fenomenologia
del sacramento come è vissuto nella Chiesa abbia permesso e favorito l’«allargamento» ad li­
bitum della nozione di sacramentalità.
86 R. SCHAEFFLER, K ultisch es Handeln. D ie Frage nacb P roben sein er B ew dhrung u n d nacb
K riterien sein er L egitim ation, in R. SCHAEFFLER - P. HONERMANN, Ankunft G ottes u n d Han­
deln des M enschen. T hesen U berKult u n d Sakrament, Herder, Freiburg i.B. 1977, 9-50.
87 R. SCHAEFFLER, K ultur und Kult, «Liturgisches Jahrbuch» 41 (1991) 73-87.
1. Area tedesca 45

sperienza cultuale, che è evidentemente irrinunciabile e che egli assume pie­


namente, ma sulle modalità in cui tale istanza trova attuazione: solo all’inter­
no di un’antropologia del culto si possono elaborare i criteri per distinguere
tra ritualità e ritualismo, tra l’autentica esperienza cultuale e la sua degene­
razione.
In K ultisches H andeln le caratteristiche dell’azione cultuale sono precisa­
te attraverso il rapporto di particolare mediazione che si viene a instaurare
nel culto tra un agire «archetipo» dell’eroe o del dio (U rbildhandlung) e un
agire che lo ripresenta «figurativamente» (kbbildhandlung,). «Un’azione-ar­
chetipo, a cui tutte le parole e i riti rimandano, offre il contenuto a ciò che
nel culto viene detto e fatto. L’azione-immagine da parte sua media a ciò che
è già avvenuto una parusia nuova e quindi capace di rinnovare sia il mondo
che la comunità cultuale».88 È in gioco pertanto nella celebrazione una par­
ticolare modalità di accesso all’originario, che si realizza non per una simila­
rità materiale tra l’azione cultuale e l’azione mitica, ma per la relazione sim­
bolica che le unisce. Ciò che permette al culto di essere mediazione dell’ori­
ginario è la sua totale relatività o, come preferisce dire l’autore, la sua «tra­
sparenza»: le parole e le azioni del rito convergono nel riferirsi a una realtà
trascendente e mentre la designano in relazione a un evento passato, ne me­
diano l’efficacia presente. Per questo, precisa Schaeffler, «per il culto l’azio­
ne-im m agine che avviene ha maggiore importanza che la figura-immagine
che rimane».89 II culto apre all’originario non in base a una forma permanen­
te che può essere considerata in se stessa o nelle sue materializzazioni (ad es.
le raffigurazioni del divino), ma in forza del suo esercizio. Nell’ambito cul­
tuale non è in primo piano il rimando «teorico» a un insieme di verità co­
nosciute e credute, ma il rimando «pratico» a un evento che si rende presen­
te quando la comunità «agisce» celebrando. L’«atto» del celebrare, pertan­
to, è l’unico punto di partenza pertinente per la comprensione del mondo
cultuale.
Schaeffler mette poi in evidenza che nella struttura fondamentale che
pone in rapporto Urbild e A bbild «è implicata tutta un’interpretazione della
realtà, che vuole rendere intelligibile il divino, la realtà mondana e il ruolo
dell’uomo nella loro reciproca differenza e correlazione».90 Il culto, infatti,
favorisce una retta comprensione dell’uomo, del divino e del mondo oppo­
nendosi rispettivamente al rischio dell’«empietà» (tentazione di cattura ma­
gica di Dio o assolutizzazione idolatrica dell’uomo), della «mistificazione»
(ritualismo o totale deritualizzazione) e dell’«impurità» (contrapposizione
frontale di ordine mondano e ordine religioso che rende impensabile la pa­
rusia di Dio nel mondo). Il momento celebrativo manifesta così pienamente

88 R. SCHAEFFLER, K ultisches Handeln, o.c., 16.


89 O .c. ,1 5.
90 O.c., 16.
46 P arte prim a: I l dibattito

il suo ruolo di costituzione originaria dell’universo semantico dell’uomo. In


questo consiste la sua originalità, irriducibile al momento riflessivo della teo­
rizzazione filosofica e teologica. Da questo dipende la sua legittimità e l’ela­
borazione dei criteri per la sua verifica.
Dopo la considerazione del culto nel suo funzionamento trascendentale,
viene poi preso particolarmente in esame il culto cristiano, in cui le leggi
fondamentali della cultualità trovano la loro piena e originale realizzazione.
Nel culto cristiano, infatti, si ha la trascrizione della problematica antropolo­
gica nel riconoscimento del ruolo dell’uomo per la parusia di Dio nel mon­
do, senza però cedere a una giustizia che viene dalle opere; della problema­
tica teologica nel riferimento all’agire di Gesù che toglie al momento cul­
tuale ogni mistificazione; e infine della problematica cosmologica nel rifiuto
di una frattura tra sacro e profano, pur nel rispetto della loro distinzione. Al­
la luce di queste considerazioni, Schaeffler giunge alla conclusione che non
solo il culto non deve essere considerato in maniera subordinata rispetto alla
critica filosofica, ma anzi che esso permette di superare proprio quelle apo­
rie in cui cade ogni visione della realtà che esclude la dimensione celebrativa
e rituale.
La tesi è ribadita e approfondita nell’articolo intitolato significativamente
Cultura e culto. In esso Schaeffler tratteggia il ruolo rinnovato che il culto
può e deve avere nella società attuale nei confronti della religione e della cul­
tura. Posto che le condizioni per Io sviluppo culturale di una società sono
l ’apertura al futuro dei suoi membri, un’adeguata comprensione del reale
unita ad una corrispondente capacità di produrre comportamenti e figure
simboliche, e infine il superamento di una soggettività ripiegata su di sé,91
l ’articolo intende mostrare come il culto, cristiano, e in particolare la pratica
sacramentale, contribuisca in maniera determinante a creare queste tre con­
dizioni, prima di tutto all’interno della Chiesa, ma con beneficio anche per
la società.
Se, infatti, una delle principali difficoltà che affliggono oggi la cultura se­
colarizzata è la diffidenza verso il proprio passato, percepito come un condi­
zionamento opprimente, le celebrazioni sacramentali, attingendo alla pre­
senza innovatrice della morte e risurrezione del Signore, dicono alla Chiesa,
e indirettamente alla società, che il riferimento al passato non è mortifica­
zione della libertà, ma principio di rinnovamento. Allo stesso modo di fron­
te al disorientamento socioculturale, l ’agire cultuale manifesta che l ’identità
non si realizza innanzi tutto attraverso ragionamenti astratti ma nel riferi­
mento ad azioni simboliche e rappresentative come sono quelle sacramenta­
li. Come la Chiesa si scopre sacramento di salvezza nella celebrazione dei sa­
cramenti, così la società può riguadagnare il proprio profilo nella considera­
zione dei comportamenti simbolici che hanno accompagnato il proprio svi­

91 R. SCHAEFFLER, K ultur u n d K u lt, «Liturgisches Jahrbuch» 41 (1991) 73-87,78.


1. Area tedesca Al

luppo storico. Infine, in alternativa alla concezione soggettivistica e idealisti­


ca della cultura come oggettivazione dello spirito umano, la prassi cultuale
può proporre il superamento del soggetto come origine del senso e il riferi­
mento allo Spirito come origine nascosta della vita individuale e sociale,
principio trascendente di identità e di rinnovamento.
L ’aspetto più interessante della riflessione di Schaeffler è il tentativo di
comprendere l’identità dei sacramenti cristiani, quale emerge dalla coscienza
di fede che ne ha la Chiesa che li celebra, sullo sfondo delle problematiche
culturali presenti nella società contemporanea. Il risultato più significativo
di questo sforzo è quello di evitare la «deriva mistica» in cui talora rischia di
cadere la teologia risolvendo immediatamente l’esplicitazione del dato di fe­
de nella ripetizione di categorie tradizionali, la cui elaborazione viene sup­
posta e quindi disattesa. Se è certo che la portata dei sacramenti non si può
risolvere nel contributo che essi danno alla cultura e alla società, è però an­
che vero che parlare di «santificazione», «divinizzazione», «grazia» senza ri­
ferimento all’esperienza antropologica, sociale ed individuale, significa ri­
durre la comprensione effettiva di queste categorie teologiche ad un livello
estrinseco e nominale.
Significativa è anche l’attenzione per la qualità pratica del momento cul-
tuale-sacramentale, riconosciuta nella sua irriducibilità a un momento appli­
cativo di conoscenze teoriche e fatta valere nel suo ruolo originario di costi­
tuzione di un universo simbolico, rispetto a cui la teoria opera in maniera
derivata. Pienamente legittima è dunque la rivendicazione che il culto può
essere «compreso» solo in quanto «celebrato».
Si può forse muovere a Schaeffler l ’appunto di non dare effettivamente
spazio sufficiente all’indagine fenomenologica, riconducendo troppo imme­
diatamente l’esperienza cultuale alle leggi trascendentali che ne regolano il
funzionamento. Così pure occorrerebbe mostrare, ma questo è compito del
teologo, perché e in che modo, cioè attraverso quali inveramenti e quali cor­
rezioni, il sacramento cristiano costituisca l’escatologica realizzazione della
cultualità umana e il principio originante della cultura, senza potersi ridurre
a una forma religiosa tra le tante, seppur la migliore.
L ’accostamento della posizione di Schaeffler a quella di Schupp aiuta a
cogliere, al di là della diversità delle soluzioni proposte, una continuità nella
problematica affrontata. I due autori, infatti, cercano di svolgere la questio­
ne della «funzione» del simbolo cristiano, superando la tendenza a conside­
rarlo soltanto nel suo riferimento ecclesiale, cioè nella sua funzione ad intra,
per cogliere la sua capacità di offrire un contributo anche ad extra, ovvero alla
Società e alla cultura secolari e, ormai, secolariste. A questo livello la funzione
del sacramento cristiano viene identificata nella sua capacità di generare cul­
tura ed emancipazione, cioè di condurre gli uomini alla libertà che essi cer­
cano soltanto, e dunque invano, nella riforma «illuministica» della società.
La categoria che in questa considerazione del sacramento passa in primo
48 Parte prim a: Il dibattito

piano è quella della «prassi»: in Schupp perché la prassi, et quidem la prassi


materialistica, è l ’unico modo per giungere alla riconciliazione sociale e alla
libertà, in Schaeffler perché il riconoscimento della qualità pratica del culto
è determinante, innanzi tutto, per la comprensione della sua identità. In en­
trambi, comunque, il rilievo del momento pratico del simbolo cristiano ha il
compito di superare le aporie o le insufficienze della teoria.
L’attenzione alla qualità pratica del sacramento, ovvero alla sua qualità
formale di «azione», favorisce il passaggio determinante da una sacramenta­
ria della «storicità» a una sacramentaria della «storia». L’azione, infatti, ri­
chiede di essere compresa non soltanto in riferimento al soggetto che la
compie, considerato ancora astrattamente come soggetto «in divenire», ma
anche in riferimento alle circostanze fattuali in cui essa si compie, circostan­
ze che in quanto appartengono alla storia non possono essere ricondotte nel-
l ’a p riori della storicità. La svolta, da collocare più ampiamente sullo sfondo
del passaggio dall’ispirazione di Rahner a quella di Metz, ha un’indubbia
pertinenza nel mettere in evidenza che le condizioni storiche non rappresen­
tano semplicemente il palcoscenico diverso in cui la vita dell’uomo e della
società ha la sua rappresentazione sempre uguale, ma costituiscono piuttosto
il «materiale» grazie a cui e rispetto a cui singoli e società prendono posizio­
ne, edificandosi in vera o falsa libertà. Poiché i sacramenti sono azioni, e
azioni sociali del «popolo di Dio», partecipano, seppur in maniera singolare,
della qualità storica di tutte le azioni simboliche dell’umanità. Mettere tra
parentesi la storia, la cultura e la forma sociale di un’epoca, significa dunque
porre un ostacolo alla loro comprensione.
Se questa è l’istanza positiva, fatta valere, per la verità in maniera non co­
sì consapevole e formalizzata, dal filone sopra esaminato, bisogna però rico­
noscere che la sua esecuzione risulta, almeno in Schupp, largamente carente.
I sacramenti, infatti, nel loro riferimento alla storia, finiscono con il dissol­
versi in essa, smarrendo la loro singolarità per divenire poco più che l ’emer­
genza simbolica della coscienza critica di un’epoca. Poiché il difetto non è
attribuibile alla volontà legittima di riconoscere il ruolo della storia/società/
cultura, esso deve essere ricercato nella comprensione di queste realtà pro­
posta da Schupp. La carenza può essere sinteticamente designata come di­
fetto di considerazione della qualità che rende l’azione «prassi del soggetto»:
essa è riconoscibile come tale solo se si mette in luce che la libertà, deciden­
do a riguardo della fattualità storica in cui opera, decide di se stessa. Ciò che
il sacramento dà appunto efficacemente a vedere.

1.2.3. «Sacram ento/sim bolo» co m e «nozione-chiave» d el trattato

Tra le varie espressioni di teologia sacramentaria che, più o meno, diret­


tamente, hanno tratto ispirazione dalla proposta di Rahner, bisogna recensi­
re anche la produzione di due teologi che hanno inteso dare alla prospettiva
1. Area tedesca 49

rahneriana, mai approdata ad una trattazione completa sui sacramenti, una


«fedele» esecuzione sistematica. Si tratta di Th. Schneider92 e di H. Vor-
grimler,93 entrambi autori di un trattato di sacramentaria articolato in due
momenti: il primo dedicato ai sacramenti in genere, il secondo ai sacramenti
in specie.
Le due opere segnano la ricomparsa della figura del «trattato sistemati­
co» sui sacramenti e sotto questo profilo costituiscono, per l’area tedesca,
ma non solo, una novità.94 La forma del trattato era stata, infatti, abbando­
nata95 quando la teologia, dovendo rinunciare alla ripetitività dell’esposizio­
ne manualistica, si era accorta di non essere in grado di fornire una nuova si­
stemazione solida e affidabile, ma solo dei materiali e degli spunti da elabo­
rare. Troppo poco per la stesura di un trattato che intende esprimere, e dun­
que suppone, la sintesi. Quando la sintesi non c’è, il trattato, se non vuole
nascere già superato, fatalmente scompare; se ricompare è perché pensa che
la sintesi sia stata ritrovata o quanto meno che sia vicina e possa essere trat­
teggiata nelle sue linee fondamentali. Questo «ritrovamento» di un’unità
teologica della materia deve essere la convinzione dei due autori, che di fatto
eleggono l ’elaborazione rahneriana come sintesi «compiuta» e la divulgano
come tale.
Che questo sia stato il convincimento di Rahner è, quanto meno, discuti­
bile. Rahner, infatti, ha presentato le sue tesi su Chiesa e sacramenti sotto la
forma di quaestio disputata, ben consapevole di avanzare una proposta biso­
gnosa di approfondimento e discussione, e dichiarandosi disponibile a rive­
derla e anche a ritirarla.96 Sulla sua scia la forma della sistematizzazione del
discorso sacramentario è stata volutamente respinta, come già visto, anche
da Schulte, non soltanto nel convincimento della necessità di ulteriori inda­
gini, ma anche per il timore di riprodurre gli errori del manuale e di non
aprirsi sufficientemente alla nuova proposta di pensare i sacramenti a partire
dall’ecclesiologia. La corrispondenza del discorso di Schneider/Vorgrimler
con il pensiero di Rahner deve, dunque, fin dall’inizio essere problematizza­

92 T h . SCHNEIDER, Z eichen d er Nahe Gottes. Grundrìfi d er Sakram ententheologie, Griine-


wald, Mainz 1979; tr. it.: Segni della vicinanza d i Dio. C om pendio d i teologia d ei saram enti,
Queriniana, Brescia 1983. Le citazioni faranno riferimento all’edizione italiana.
93 H. VORGRIMLER, Sakram ententheologie, Patmos, Dusseldorf 1987; tr. it.: T eologia d ei
sacram enti, Queriniana, Brescia 1992. Le citazioni faranno riferimento all’edizione italiana.
94 Fatta eccezione per il testo di Auer (J. AUER, A llgem eine Sakram entenlehre u nd das My-
sterium d er Eucharistie, Pustet, Regensburg 1971), che però non sembra fornire una sintesi
nuova, per ritrovare la figura del trattato di sacramentaria bisogna risalire fino ai manuali
preconciliari; in Germania: M. SCHMAUS, K atholische Dogmatik. Die L ehre von den Sakra-
m enten, Hueber, Miinchen 61964.
95 Sul dibattito degli anni ’60-’70 circa la possibilità e l’opportunità di una teologia gene­
rale dei sacramenti cfr. C. ROCCHETTA, Sacramentaria fondam entale. Dal «m ysterion» al «sa-
cram entum », Dehoniane, Bologna 1989, llss.
96 K. RAHNER, Chiesa e sacramenti. Prefazione, Morcelliana, Brescia 1965.
50 Parte prim a: Il dibattito

ta, quanto meno al livello delle modalità con cui le tesi teologiche vengono
proposte.
Forse a rassicurare i due teologi circa l ’affidabilità della «sintesi» derivata
dai «materiali» di Rahner, e quindi circa la possibilità della sua trascrizione
in termini di trattato, ha concorso la straordinaria e rapida diffusione della
prospettiva rahneriana, o delle sue variazioni, nella letteratura pratica e in
quella divulgativa. Il generale consenso prodottosi sulle posizioni del mae­
stro ha certamente contribuito a rendere plausibile il progetto di un manua­
le di sacramentaria «rahneriana». Più facile comprendere il fenomeno nel
caso di Schneider che, scrivendo negli anni 70, partecipa dell’entusiasmo
teologico per le tesi di Rahner; più difficile nel caso di Vorgrimler, che scrive
alla fine degli anni ’80, quando il consenso pare ormai frantumato sotto il
peso delle voci alternative, e soprattutto dell’eterogeneità degli sviluppi a cui
il pensiero del maestro è stato sottoposto. Sicché sembra necessario riferirsi
alla vicenda personale97 dell’autore per comprendere la sua «fedeltà» nel
pensare i sacramenti «secondo Rahner», anche quando il resto della teologia
li pensa ormai «oltre» lui.

1.2.3.1 .S ch n eid er

Il testo di Schneider premette alla considerazione dei singoli sacramenti


un capitolo dedicato ai Dati fon d a m en ta li della teologia sacram entaria co n ­
tem poranea. La teologia «contemporanea» a cui ci si riferisce è, come detto,
quella di Rahner, che, collocata in apertura del saggio, può e deve offrire la
prospettiva globale in cui collocare l’analisi del settenario. Poiché in questo
primo capitolo viene tratteggiata la visione complessiva dell’universo sacra­
mentale, è principalmente al suo interno che va cercato il pensiero dell’au­
tore.
La successione dei quattro paragrafi, di cui il capitolo è costituito, è già
molto significativa: si tratta della B ase antropologica, della Struttura cristolo­
gica d e i sacram enti, dei sacramenti come A ttuazioni ecclesio lo g ich e fonda-
m entali, e infine delle C om ponenti d e l co n cetto cristiano d i sacram ento. L’ele­
mento di novità principale, come appare chiaramente dalla struttura del te­
sto, è l’ampliamento dello schema Cristo/Chiesa/sacramenti con l’introdu­
zione, in apertura logica della sequenza, della base antropologica, che viene
a costituire il fondamento effettivo di tutto il dinamismo sacramentale. Se
possono esistere i sacramenti, questo dipende «originariamente» dalla strut­
tura che informa l’esistenza dell’uomo: « lo sp ecifico m od o d ’essere d ell’uom o,
con la sua attuazione spirituale, libera e trascendente, nella sua corporeità -

97 Come è noto, Herbert Vorgrimler è stato allievo, amico e stretto collaboratore di K.


Rahner. Cfr. H. VORGRIMLER, C om prendere K arl R ahner (tr. it.), Morcelliana, Brescia 1987.
1. Area tedesca 51

storicità - tessuto di rapporti interumani, è il fon da m en to originario e specifico


d i ciò ch e intendiam o p er “sacramento'”, è il presupposto di fo n d o ch e accom ­
pagna l’essere um ano e sta pu re alla base d i quella specifica attuazione ch e è il
servizio litu rgico».98
Con queste affermazioni Schneider pensa di esplicitare, in rapporto ai sa­
cramenti, la teologia del simbolo reale, soprattutto nel suo riferimento al
corpo. Egli ritiene, infatti, che il fondamento della dimensione sacramentale
debba essere cercato nella costituzione simbolica dell’uomo, cioè nel singo­
lare intreccio di interiorità ed esteriorità, di visibile ed invisibile che lo carat­
terizza. Anima e corpo non devono essere pensati come due realtà autonome
e contrapposte, ma come un’unica realtà simbolica, costituita di due poli in
relazione dinamica. Caratteristica di questa relazione è che lo spirito, mani­
festandosi nel corpo, si realizza in esso e attraverso di esso. Alla corporeità,
pertanto, spetta il titolo di «segno realizzante»,99 soprattutto quando essa è
consapevolmente assunta come mezzo di comunicazione nel linguaggio ver­
bale e gestuale. Questo avviene, secondo l’intuizione di Ratzinger, in modo
particolare nei momenti nodali dell’esistenza, in cui l’uomo, realizzandosi
spiritualmente nel suo corpo, si apre alla presenza di Dio che lo trascende.
La base sacramentale antropologica è, dunque, costituita dal dinamismo
di autorealizzazione dell’uomo nella sua corporeità, su cui si innesta l’aper­
tura alla trascendenza. Il primo aspetto è definito da Schneider dimensione
«formale» della sacramentalità, il secondo dimensione «contenutistica»:
«L ’aspetto formale di una realtà “sacramentale” in senso lato significa che
una realtà esteriore esprime una realtà interiore, la quale però si realizza in
questa esteriorità. Dal punto di vista del contenuto, invece, un’esistenza
umana così concepita diventa il luogo dell’incontro con Dio».100 Il sacramen­
to pertanto «formalmente» consiste nella relazione simbolica tra dimensione
interiore/spirituale e dimensione esteriore/corporea dell’uomo.
Il passaggio dal piano originario antropologico a quello cristologico viene
poi svolto in analogia alla relazione esistente tra rivelazione naturale e rivela­
zione storico-salvifica: «nella stessa misura in cui Dio si rende presente e in­
timo nella corporeità, storicità e interpersonalità dell’uomo, si condensa pu­
re la “sacramentalità”. [...] Con l’avvento di Dio, con il suo "entrare-in-gio-
co” s’identifica pure la realtà del sacramentale, in quanto la storia stessa di­
venta il segno del Dio vivente».101 Ciò si compie in maniera piena in Gesù,
che pertanto costituisce il sacramento primordiale, e in maniera derivata nel­
la Chiesa, presenza permanente dell’efficace grazia di Dio.
L’ultimo paragrafo, dedicato alla riflessione tematica sul concetto di sa­

98 T. S c h n e id e r, o . c ., 19.
99 T. S chneider, o.c., 15.
100 O.c., 20.
101 O.c., 22.
52 Parte prim a: I l dibattito

cramento, non fa altro che rileggere, alla luce degli sviluppi precedenti, la
nozione catechistica, che definisce il sacramento in base alla presenza di tre
elementi: segno esteriore, grazia interiore, istituzione ad opera di Gesù Cri­
sto. Sotto questo profilo, si mantiene in Schneider la tendenza, già criticata
nel pensiero di Rahner, a considerare la nozione di sacramento come un da­
to in se stesso «chiaro», che non ha bisogno di precisazioni, ma piuttosto di
«collegamenti». Quei «collegamenti» antropologici, cristologici e ecclesiolo­
gici a cui sono rispettivamente dedicate le prime tre parti del capitolo, ma
che, in assenza di una discussione approfondita e diretta sull’identità del sa­
cramento, non arrivano a produrre il superamento delle categorie tradizio­
nali, unanimemente ritenute riduttive.
Rispetto alla posizione di Rahner, il saggio di Schneider impone due con­
siderazioni. La prima riguarda la diversa prospettiva con cui i due autori si
riferiscono alla sequenza Cristo-sacramento/Chiesa-sacramento/sette sacra­
menti. Rahner arriva a parlare di Cristo come sacramento soltanto per evita­
re le ambiguità presenti nella formula della Chiesa Ursakrament, formula a
sua volta elaborata per sottrarre i sacramenti a una considerazione giuridisti­
ca e positivistica, riconducendoli alla loro vera collocazione «vitale» all’inter­
no della Chiesa. In Rahner dunque, salvo errore, lo schema ha valore sem­
plicemente «funzionale», dipende cioè da un contesto di pensiero al cui in­
terno vuole far emergere alcune istanze teologiche. In Schneider, invece, la
sequenza acquista ruolo «strutturale», divenendo il punto di partenza indi­
scusso del discorso sistematico, senza più attenzione per il contesto in cui
essa era stata elaborata e, dunque, per i limiti entro cui voleva/doveva valere.
La seconda osservazione riguarda l ’«ampliamento» antropologico dello
schema, in quanto conduce a una fondazione antropologica della sacramen­
taria, che rispetto a Rahner rappresenta una novità. Certo non una novità
«assoluta», perché essa in qualche misura converge con la valorizzazione del
corpo come simbolo reale e, più prossimamente, con la «svolta antropologi­
ca» della teologia; ma pur sempre una «novità». Qualora, infatti, si consideri
la produzione di Rahner nel suo insieme, e in particolare la formulazione
delle tesi sacramentarie nel G rundkurs d es G laubens,102 opera tarda e in cer­
to senso riassuntiva del pensiero dell’autore, si può constatare l ’assenza di
un collegamento diretto, meno ancora di una derivazione, tra teologia sacra­
mentaria e antropologia. Nel C orso fon d a m en ta le della fe d e , difatti, il discor­
so sui sacramenti non segue l ’antropologia teologica, ma la trattazione sulla
Chiesa, di cui costituisce come una continuazione, nel senso di precisare in
termini sacramentali l’esperienza cristiana ecclesiale.103

102 K . RAHNER, Grundkurs d es G laubens. E infiihrung in d en B eg riff d es C hristentum s,


Herder, Freiburg 1976.
103 Come scrive un autore, «nell’economia del “Grundkurs” i sacramenti sono soltanto
un’appendice della chiesa - o più precisamente una caratterizzazione della vita cristiana - , al
1. Area tedesca 53

L’operazione di Schneider pare dunque ardita, o forse meglio «temera­


ria», nella sua pretesa di costituire nella riflessione di Rahner una sintesi che
Rahner non ha voluto affermare. La temerarietà appare soprattutto nel ten­
tativo di collegare la T heologie des Symbols, riletta esclusivamente in chiave
antropologica, con le tesi di K irche und Sakramente, presentate in una siste­
maticità «forzata» (la sequenza Cristo/Chiesa/sacramenti). Certamente tra i
due testi rahneriani esiste un collegamento. È Rahner stesso che esplicita­
mente lo richiama, quando intende mostrare che l’essenza della causalità dei
sacramenti può essere risolta nella loro derivazione ecclesiologica.104 Ma ap­
punto la teologia del simbolo viene qui invocata non per presentare il fon­
damento antropologico del sacramento, bensì la sua consistenza ecclesiale: i
sacramenti sono segni efficaci della Grazia in quanto appartengono alla
Chiesa che «nella sua percepibilità storica è proprio l’intimo simbolo della
grazia di Dio escatologicamente vittoriosa».105 È in questa prospettiva, e non
in quella di Schneider, che la teologia del simbolo fonda la tesi rahneriana
relativa all’efficacia sacramentale: «il segno produce la grazia in quanto la
grazia produce il sacramento co m e segno dell’evento di grazia».106 Secondo
Rahner, dunque, il sacramento «formalmente» consiste nella relazione sim­
bolica tra la «grazia di Dio» e la sua «visibilizzazione ecclesiale». Il che sem­
bra essere tutt’altro che la relazione simbolica tra «spirito» e «corpo» su cui
Schneider intende poggiare.
Insieme alla temerarietà, la tesi di Schneider mostra così la sua debolezza
di fronte alla pretesa di giustificarsi sul pensiero di Rahner, che in realtà è un
altro.

1.2.3.2. V orgrimler

Un giudizio analogo sembra valere anche per il trattato di Vorgrimler, in


cui la dilatazione delle categorie sacramentali viene svolta con uguale, se non
maggiore, disinvoltura. Posto infatti il principio indiscusso che Gesù Cristo
costituisce il sacramento primordiale e la necessità di riconoscere il dato bi­
blico della «creazione in Cristo», è «logico» trarre la conclusione che anche
la creazione merita a pieno titolo l’appellativo di «sacramento». Sicché la se­
quenza sacramentale, da Schneider già estesa antropologicamente, viene ora
«arricchita» anche cosmologicamente, assumendo una nuova fisionomia:

di là della quale, resta solo l’escatologia a concludere il discorso teologico, che ovviamente
aveva già trattato l’antropologia. In conclusione - salvo errore - manca in Rahner l’idea di
cercare nell’antropologia la chiave della sacramentaria» [G. COLOMBO, T eologia sacram enta­
ria e teologia fon dam entale, «Teologia» 19 (1994) 238-262,250],
104 K. RAHNER, Chiesa e sacram enti, Morcelliana, Brescia 1965,35ss.
105 O.c., 40.
106 Ibid.
54 P arte prim a: Il dibattito

creazione/Cristo/Chiesa/sacramenti. «Tutto», infatti, «può diventare così


trasparente nei confronti di Dio, da indicare la,sua reale.presenza»:107 non
solo l’uomo, ma anche il lavoro, le opere d’arte, la natura, purché se ne sap­
pia cogliere «nel profondo» la sacramentalità. In questo modo la nozione di
«sacramento» diventa finalmente il concetto «fondamentale» della teologia,
perché permette di esprimere tutti i suoi contenuti riconducendoli ad un’u­
nica categoria. Ovunque si parli del rapporto tra Dio e l ’uomo, se ne può,
anzi se ne deve, parlare in termini sacramentali.
Senza entrare per ora nel merito della questione, bisogna ribadire la di­
stanza dalla posizione di Rahner e la vicinanza con altre espressioni di «rah-
nerismo» che erano già arrivate a formulare queste conclusioni. A mo’ di
esempio si possono ricordare un articolo di Pou y Rius,108 in cui trova già
posto l’estensione «cosmologica» del sacramento, e la piccola sacramentaria
di Boff, con la tesi che «tutto è sacramento o può diventarlo. Dipende dal­
l ’uomo e dal suo modo di guardare».109 In questa prospettiva ai sacramenti
in senso stretto non rimane altro compito che quello di aiutare a «scoprire»
una sacramentalità diffusa in tutte le esperienze della vita. La celebrazione
sacramentale non porta con sé alcuna eccedenza rispetto al quotidiano, ma
si pone con esso in scalare continuità, mantenendo semplicemente un ruolo
che si potrebbe definire «propedeutico». Nel sacramento, cioè, si hanno sol­
tanto le condizioni ottimali per l’intelligenza/accoglienza del simbolismo
salvifico di cui ogni esperienza vitale è ricolma. «Nelle azioni simboliche sa­
cramentali - ma non solo in esse - lo Spirito di Dio opera l ’“apertura” delle
barriere, che gli uomini erigono contro la presenza di Dio. Egli attualizza e
intensifica ciò che “è già”» .110
A partire da queste premesse, non stupisce la difficoltà di Vorgrimler, ma
anche di Schneider,111 a giustificare il settenario sacramentale. In particolare
secondo Vorgrimler «non c’è nessun motivo per ritenere il numero settena­
rio come cogente». Pertanto l ’estensione del settenario a comprendere altre
celebrazioni di struttura sacramentale è impedito «non propriamente per la
cosa in sé ma solo per il perdurare della tradizione degli atti istitutivi [...]
come garanzie per la sicurezza dell’effetto».112 La problematicità di queste
tesi, che svolte logicamente mettono l’universo sacramentale a totale dispo­
sizione deU’iniziativa ecclesiale, non ha bisogno di essere sottolineata.

107 H. VORGRIMLER, T eologia d ei sacram enti, Queriniana, Brescia 1992,19.


108 R. POU Y RIUS, La presen cia d e Cristo en los sacram entos, «Phase» 6 (1966) 177-200.
109 L. BOFF, M inima sacramentalia. Os sacram entos d e Vida e a Vida dos sacram entos, Vo-
zes, Petrópolis 1975; tr. it.: I sacram enti della vita, Boria, Roma s.d., 26.
110 H. V orgrimler, o . c . , 100.
111 «Se è certo che lo sviluppo storico ha portato a questo numero, non è per nulla age­
vole addurre argomentazioni di tipo razionale che costringano a riconoscere che l ’evoluzione
doveva essere questa e non un’altra» (T. SCHNEIDER, o.c., 45).
112 H. V o r g r i m l e r , o . c . , I04s.
1. Area tedesca 55

Ciò che sorprende piuttosto in Vorgrimler è la «convivenza» di queste af­


fermazioni con un tentativo di elaborare la sua sacramentaria riconoscendo,
lodevolmente, la qualità «liturgica» dell’azione sacramentale.113 Per quanto il
tema non abbia nel saggio effettivo sviluppo e sia semplicemente affiancato
agli altri elementi della riflessione,114 la considerazione delle tesi conciliari
sulla liturgia, spesso assente nelle sintesi sacramentarie tedesche, avrebbe
potuto offrire spunti per elaborare la prospettiva simbolica in un’altra, più
pertinente, direzione.
Il bilancio globale degli autori che abbiamo finora recensito deve conclu­
dere che nella forma personalistica di Ratzinger/Kasper, in quella prassica di
Schupp/Schaeffler o nella «sistematizzazione» di Schneider/Vorgrimler, la
proposta sacramentaria di Rahner è stata globalmente spostata sul versante
dell’«antropologia». Il fatto richiede un’interpretazione più ampia di quella
che finora abbiamo potuto offrire nella nostra ricostruzione, e come tale la
rimandiamo alla seconda parte del lavoro. Per intanto ci sembra di poter di­
re che il risultato, comunque lo si giudichi, non sembra consistere in un ap­
profondimento della nozione di sacramento.
Pur con le debite distinzioni, manca, infatti, negli autori dell'indirizzo an­
tropologico una seria considerazione del dato biblico e un confronto ponde­
rato con i dati della tradizione. Se queste sono le fonti della Rivelazione, dal
cui ascolto critico la teologia dipende, la carenza purtroppo è grave. Né ba­
sta a colmarla la lodevole attenzione prestata al dato antropologico/sociolo­
gico e alla filosofia.
Questo non significa che manchino nei singoli autori passati in rassegna
spunti meritevoli di considerazione e di sviluppo. La stessa problematica an­
tropologica è evidentemente una dimensione irrinunciabile e costitutiva di
qualsiasi teologia del sacramento. Probabilmente, però, la sua attuazione ri­
chiede di seguire un percorso diverso, più attento a evitare appiattimenti
concettuali (ad es. tra sacramento e simbolo) e immediate trascrizioni in am­
bito teologico di sollecitazioni culturali.
Se si prescinde dalla letteratura divulgativa, dove il simbolismo antropo-
logico-sacramentale è tanto incontrollato quanto dilagante, una conferma
della debolezza dell’orientamento sul piano sistematico sembra provenire
dalla sua estinzione. Fatta eccezione per Vorgrimler, di cui si è già richiama­
ta la singolarità biografica, lo sviluppo teoretico della sacramentaria «antro­
pologica» rahneriana è racchiuso nell’ambito temporale degli anni 70, dopo
cui non ha portato altri frutti, né sembra destinato prossimamente a portarli.

113 M. Seils qualifica il saggio di Vorgrimler proprio come tentativo di elaborare la linea
di Semmelroth e Rahner attraverso uno sviluppo liturgico, piuttosto che antropologico [M.
SEILS, S ak ram ententheologie, «Verkundigung und Forschung» 39 (1994) 24-44,28].
114 Giudizio analogo in S. UBBIALI, Il sacram ento e l ’istituzione divina: I l dibattito teologi­
co sulla verità d e l sacram ento, «Rivista Liturgica» 81 (1994) 118-150,130s.
56 Parte prim a: Il dibattito

1.3. Prospettiva comunicativa

La proposta di un’interpretazione dei sacramenti in prospettiva comuni­


cativa non stupisce. Essa, infatti, si inserisce in una tendenza più ampia della
teologia,115 e ancor prima della cultura, a ritrovare nella comunicazione l ’ele­
mento capace di favorire una nuova impostazione, e forse una nuova unità,
del sapere.
L ’approdo al tema della comunicazione consegue prossimamente alla
«svolta linguistica»,116 che portando in primo piano il linguaggio, sottratto
finalmente alla sua tradizionale sottodeterminazione, impone la necessità di
ricomprendere radicalmente la problematica antropologica. Più remotamen­
te consegue al «crollo della metafisica», che, dopo la pretesa sintesi offerta
dal sistema hegeliano, si è rapidamente sbriciolata sotto il peso delle smenti­
te che la storia effettiva ha imposto alla storia «teorica» dell’idealismo.117 Il
passaggio dal tema del linguaggio, che, nella diversa elaborazione della filo­
sofia ermeneutica e della filosofia analitica, ha comunque segnato la fine del­
la tradizione speculativa, al tema della comunicazione è avvenuto sotto la
spinta di due fenomeni di rilievo: da un lato l ’affermarsi all’interno della fi­
losofia, soprattutto di ispirazione marxista, dell’attenzione privilegiata per la
«prassi»,118 dall’altro la tendenza della filosofia, programmaticamente rinun­
ciataria nei confronti dell’universalizzazione e della sintesi,119 a risolversi nel­
le «scienze umane», passando dalla razionalità veritativa alla razionalità
«procedurale».120
La svolta comunicativa della filosofia, se ancora se ne può parlare come
di una disciplina a sé stante, ha trovato finora la sua massima espressione
nell’opera di Habermas.121 Il filosofo tedesco, infatti, dopo una prima fase
della sua attività più direttamente riconducibile alla teoria «classica» della
scuola francofortese, ha abbandonato gli esiti disfattisti della «teoria critica
della società», per proporre proprio attraverso una «teoria dell’agire comu­
nicativo» un nuovo modello e un nuovo programma di emancipazione della
società.

115 E. ARENS (ed.), H abermas e la teologia (tr. it.), Queriniana, Brescia 1992, e la biblio­
grafia ivi segnalata.
116 Esemplarmente: J . L . AUSTIN, H ow to Do T hings w ith W ords, Oxford University Press,
Oxford 1962. •»
117J . HABERMAS, N achm etaphysisches Denken. P hilosophische Aufsàtze, Suhrkamp,
Frankfurt a. M. 1988.
118II riferimento è in modo particolare alla Scuola di Francoforte e alla «prassi della spe­
ranza» di Bloch.
119J.-F. LYOTARD, La con dition p ostm od ern e, Minuit, Paris 1979; R . RORTY, C ontingency,
Irony an d Solidarity, Cambridge University Press, Cambridge 1989.
120 J . H a b e r m a s , o.c.
121J . HABERMAS, T heorie d es kom m unikativen H andelns, Suhrkamp, Frankfurt a.M.
1981.
1. Area tedesca 57

Sulla scorta del dibattito filosofico, anche la teologia si è aperta alla svol­
ta, in dipendenza più o meno diretta dalle tesi di Habermas,122 riprometten­
dosi dalla nuova ispirazione un duplice guadagno: innanzi tutto il rinnova­
mento delle proprie categorie formali, che risentono del gravame della tradi­
zione metafisica, e in secondo luogo il riavvicinamento con la cultura, dive­
nuta ormai la cultura comunicativa della postmodernità.
Sotto questo profilo una sacramentaria elaborata in termini comunicativi
risulta la «logica» continuazione della sacramentaria antropologica. Se la
nuova antropologia si deve elaborare nell’ambito della comunicazione, la
teologia che vuole aprirsi all’antropologia contemporanea per rendere cultu­
ralmente accettabile e accessibile il sacramento non può che avere lo stesso
approdo. La continuità però è solo nell’obiettivo, perché la prospettiva co­
municativa si presenta con la pretesa di offrire una nuova elaborazione delle
strutture del pensiero. NeH’orientamento comunicativo, dunque, il sacra­
mento mostra la propria identità e legittimazione all’interno di una ricom­
prensione «globale» del rapporto Dio-uomo.
È l’intuizione di Hunermann e di Ganoczy, che, se non giungono all’ela­
borazione di un progetto compiuto, individuano però la nuova collocazione
che la trattazione del sacramento dovrebbe avere. Più distante è la posizione
di Lies, che, seppur riconducibile alla prospettiva della comunicazione e del-
l ’«incontro», elabora però il suo progetto con autonoma ispirazione.123

1.3.1 .H unerm ann

Il testo di Hunermann124 è la seconda parte della Quaestio disputata a cui


ci siamo già riferiti per presentare la posizione di R. Schaeffler. Le due parti
dell’opera, evidentemente, suppongono tra gli autori una certa continuità di
pensiero, che effettivamente esiste, soprattutto per il comune riferimento al
carattere pratico dell’azione sacramentale e alla sua portata «figurativa» nel­
la costituzione dell’universo di senso. Mentre però Schaeffler elabora il suo
discorso in funzione della chiarificazione del sacramento in quanto «atto di

122 H. PEUKERT, W issenschaftstheorie - H andlungstheorìe: Fundamentale T heologie. Ana-


lysen zu Ansatz u n d Status th eologisch er T heoriebildung, Patmos, Dusseldorf 1976; C. THEO-
BALD, M aurice B lon del und das Problem der M odernitàt. Beitrag zu ein er epistem ologischen
Standortbestìm ?nung z eitgenóssischer F undam entaltheologie, Knecht, Frankfurt a.M. 1988.
123 Un tentativo recente di elaborare in termini comunicativi la teologia sacramentaria è
quello proposto da H.O. MEUFFELS, Kom m unikative Sakram ententheologie, Herder, Frei-
burg-Basel-Wien 1995. Per una valutazione dell’opera cfr. A. SCHILSON, Sakram ententheolo­
g ie zw ischen B estandsaufnahm e und Spurensuche, «Liturgisches Jahrbuch» 47 (1997) 99-113,
109ss.
124 P. HONERMANN, Sakrament - Figur des Lebens, in R. SCHAEFFLER - P. HUNERMANN,
Ankunft G ottes u n d H andeln d es M enschen. T hesen ilber Kult und Sakrament, Herder, Frei­
burg i.B. 1977,51-87.
58 P arte prim a: Il dibattito

culto», Hunermann interpreta piuttosto l ’azione sacramentale come «atto di


comunicazione».
La tesi dell’autore è che i sacramenti appartengono a una specifica cate­
goria di azioni comunicative, caratterizzate dalla capacità di svolgere una
funzione «fondativa» all’interno della vita comunitaria. Egli perciò articola
la sua esposizione in due sezioni, volte rispettivamente a chiarire l ’identità di
questa forma di comunicazione e ad applicare i risultati dell’indagine al caso
particolare dei sacramenti.
L’analisi dei rapporti sociali mostra con chiarezza che «tra le varie azioni
comunicative ve ne sono alcune che per un determinato gruppo sono costi­
tutive», al punto che senza di esse «il gruppo non ci sarebbe».125 La loro ca-
,ratteristica fondamentale consiste nella capacità di offrire ai soci una «figura
di vita comune». Questo non significa soltanto che in tali atti diventa visibile
e riconoscibile l’universo di valori e credenze che orienta la vita del gruppo,
ma ben di più che in essi è la stessa «origine» del gruppo a mostrarsi e a
rendersi presente e operante. La comunicazione simbolica, infatti, è possi­
bile soltanto in forza di un elemento che i partecipanti riconoscono di avere
in comune e che ritengono di altra natura rispetto a loro, tanto da conside­
rarlo il punto di riferimento del codice comunicativo grazie a cui essi forma­
no un gruppo. Nelle azioni «figurative» questo elemento, solitamente pre­
sente ma sullo sfondo, passa invece in primo piano rinnovando l ’identità del
gruppo e la coesione dei suoi membri.
L’autore espone il suo pensiero servendosi dell’esempio di un congresso
di partito e mostrando come questo evento comunicativo rafforzi l ’identità
degli iscritti più di quanto farebbe una elaborazione teorica delle loro idee
politiche. Poiché il testo privilegia il discorso esemplificativo alla formula­
zione sistematica, non è possibile darne una sintesi adeguata, se non ripor­
tando le sei tesi attraverso cui l’autore caratterizza una Figur d es L ebens, per
poi accostare più analiticamente la problematica in una di esse. Un’azione
comunicativa offre una «figura di vita» quando è il luogo in cui: si stabilisce
la struttura del rapporto sociale dei membri; il gruppo acquisisce una confi­
gurazione pubblica; si apre un nuovo accostamento ai problemi e una nuova
relazione al mondo; si costituisce una figura temporale che pone in un nuo­
vo rapporto passato e futuro; si realizza un’efficacia «generativa» che rispon­
de a regole diverse da quelle della produzione tecnica; si attua, infine, nell’u­
nica forma possibile, la mediazione dell’identità umana.
In particolare, parlando dell’azione comunicativa come gen era tives Ge-
sch eh en (quinta tesi), Hunermann intende differenziare la «prassi della co­
municazione» dalla «prassi produttiva», perché mentre la seconda risponde
a una logica esecutiva, la prima è riconducibile alla logica dell’evento, ovve­
ro della libertà. Questo significa che, a differenza della produzione, la comu­

125 O.c., 55.


1. Area tedesca 59

nicazione non può in alcun modo essere predeterminata e prevista in base a


delle regole universali, che ne fissino lo sviluppo: la «verità» della comunica­
zione si compie solo attraverso la «libertà» dei partecipanti. L’idea si chiari­
sce attraverso l’accostamento dell’azione comunicativa a ciò che si verifica
nel «discorso»: come ogni discorso non è riducibile a un insieme di parole
collegate in obbedienza alle regole grammaticali, ma deve essere riconosciu­
to nel suo carattere essenzialmente innovativo del codice, così l’azione co­
municativa è aperta alla novità che proviene dal riferimento all’«origine» del
gruppo. In forza di questa apertura all’inedito, l’«azione/figura di vita» ge­
nera una nuova comprensione del reale, delle relazioni, della temporalità che
non sono più accostate nella forma di un risultato della pianificazione stru­
mentale del soggetto, ma si presentano all’uomo come una possibilità da de­
cidere.
Così caratterizzata la nozione di Figur des Lebens, Hunermann passa ad
applicarla per analogia alle celebrazioni sacramentali, nella consapevolezza
che esse realizzano la dinamica comunicativa non soltanto sul piano fenoti-
pico della modalità esteriore (gesti e parole rituali), ma anche su quello del
contenuto (rapporto tra Dio e uomo).
Come nella prima parte, Hunermann procede per via esemplificativa, ri­
percorrendo una ad una, in riferimento ai sacramenti, le sei tesi fondamen­
tali sulla comunicazione. Sintetizzando per quanto possibile il pensiero del­
l ’autore, si può dire che nei sacramenti viene resa visibile la struttura eccle­
siale, una speciale configurazione di rapporti, fondata non sulla reciproca
scelta dei membri, ma sull’azione di Dio, e tale da comprendere anche i de­
funti e le generazioni future. Questa configurazione acquista proprio nel rito
una fisionomia pubblica, che colloca la comunità cristiana in una specifica
relazione con gli altri gruppi e con la società: basti pensare al ruolo decisivo
che ha avuto la celebrazione della frazione del pane nella comunità primitiva
aU’interno del processo di differenziazione dalla comunità ebraica.
I sacramenti offrono, poi, una particolare figura di relazione con il mon­
do, di cui affermano sia la provvisorietà che l’effettiva appartenenza all’eco­
nomia salvifica, e mediano una specifica semantizzazione della temporalità.
Essi, infatti, permettono di aprirsi al futuro come a un tempo che è sotto il
segno della promessa di Dio, e pertanto non è riducibile né a un puro pro­
dotto della programmazione umana né a un destino cieco che incombe ine­
luttabile, e liberano il rapporto dell’uomo con il proprio passato dal peso
opprimente della colpa, che può essere riletta alla luce della riconciliazione.
Nel sacramento pertanto il presente, aperto al futuro e riconciliato con il
passato, può veramente offrirsi all’uomo come tempo in cui investire in pie­
no la propria libertà.
Più delicato è il discorso sul sacramento come evento generativo, in cui
l’autore si sforza di riferire al sacramento l’efficacia antropologica dell’azio­
ne comunicativa, senza ridurlo a un evento basato sulle possibilità dell’uo­
60 Parte prim a: Il dibattito

mo. La tesi di Hunermann è che la celebrazione sacramentale «costituisce»


la comunità cristiana perché la ripresentazione dell’evento di Gesù, che av­
viene nella forma antropologica di un’azione comunicativa, è animata dallo
Spirito e proposta alla fede. Si tratta, però, di semplice affermazione, che
non mette in luce come il riferimento della «comunicazione sacramentale»
all’azione dello Spirito e alla risposta di fede, indubbiamente pertinente,
debba essere «pensato» in termini «comunicativi». Sicché proprio dove la
teoria dovrebbe conseguire il proprio risultato, manifesta piuttosto una ca­
renza di elaborazione teologica.
Globalmente la riflessione di Hunermann intende far cogliere la qualità
specifica del sacramento sullo sfondo delle azioni simboliche-comunicative
che costituiscono l’identità dei gruppi e orientano l’esistenza. Nei sacramen­
ti, infatti, è presente ed è offerta alla fede del credente una certa interpreta­
zione del reale,126 secondo un dinamismo che opera «universalmente» nella
struttura della comunicazione umana, ma che trae la propria «singolarità»
dal richiamarsi all’evento di Gesù. Ciò che viene alla luce nelle tesi dell’au­
tore, che peraltro non raggiungono la formalità del discorso teoretico com­
piuto, ma rimangono ad un livello di elaborazione germinale,127 è la portata
del simbolico per il costituirsi del senso. Nell’evento della comunicazione il
senso si afferma come irriducibile alla pura oggettività o alla pura soggettivi­
tà, perché il ruolo evocativo e ripresentativo del simbolo si compie soltanto
attraverso la partecipazione dei soggetti a cui si rivolge (l’«atto di comunica­
zione»). Ecco perché Hunermann, pertinentemente, mette a tema non dei
simboli «naturali», considerati in maniera indipendente dal loro concreto
«funzionamento», ma delle azioni comunitarie, in cui risulta evidente il ruo­
lo della «libertà» dei membri per l’emergere dell’«universo simbolico» che li
costituisce come gruppo. L’aspetto più significativo della sua ricerca è per­
tanto la proposta di collocare lo studio del sacramento nel contesto del pe­
culiare rapporto tra «verità» e «libertà» che si realizza nella comunicazione
simbolica.
La debolezza, invece, consiste nella semplice trascrizione della problema­
tica comunicativa, che peraltro avrebbe bisogno di più robusto approfondi­
mento, in ambito teologico, senza che appaia perché in Gesù e, correlativa­
mente, nelle azioni comunicative sacramentali che da lui dipendono, avven­
ga la «comunicazione» escatologica di Dio all’uomo.128

126 Cfr. anche P. HUNERMANN, D ie sakram entale Struktur d er Wirklichkeit. A uf d em W eg


zu ein em ern eu erten Sakram entenverstandnis, «Herder-Korrespondenz» 36 (1982) 340-345.
127 La qualificazione del discorso come evento generativo, ad esempio, è pertinente ma
non sufficientemente mostrata. La tesi ha invece, notoriamente, effettivo sviluppo teorico in
P . Ricoeur: cfr. A . BERTULETTI, Teoria etica e on tologia erm en eu tica n e l p en siero d i P. R icoeur
(I), «Teologia» 18 (1993) 283-318, soprattutto 298-301.
128 Merita di essere richiamata la dipendenza del teologo della liberazione F. Taborda,
almeno nella prima fase del suo pensiero, dalla riflessione di Hunermann, che è stato anche
1. Area tedesca 61

1.3.2. G anoczy .

Ganoczy129 avanza la sua proposta di rileggere la teologia sacramentaria


in prospettiva comunicativa con l’intento di avviare il dibattito sui sacramen­
ti in una nuova direzione. L’esigenza nasce non soltanto dalla consapevolez­
za del compito di ricerca che spetta alla teologia, ma più immediatamente
dalla constatazione degli esiti insoddisfacenti a cui sono approdati i tentativi
recenti di rinnovare la comprensione dell’universo sacramentale. Il rilievo
critico è rivolto, in particolare, all’elaborazione rahneriana che, nella sua ten­
denza ad estendere la nozione di sacramento, ha di fatto generato «più con­
fusione che intelligenza»130 del problema.
L’autore presenta il proprio progetto con la consapevolezza che si tratta
soltanto di un’«ipotesi di lavoro», ma anche con la persuasione che esso può
trovare almeno in parte la propria legittimazione nell’orientamento che
emerge dai testi conciliari. Il Concilio, infatti, ha trattato la problematica sa­
cramentale non soltanto alla luce della teologia misterica, ma anche dei risul­
tati offerti dalle scienze dell’uomo e della comunicazione.131 Anzi, più glo­
balmente, si è servito di categorie comunicative per esprimere non solo la
realtà sacramentale, ma anche la realtà della Chiesa, e in genere tutto quello
che riguarda il rapporto tra Dio e uomo.
In base a queste premesse è possibile, ed anzi raccomandabile, che la teo­
logia utilizzi gli apporti delle scienze comunicative, sia sul piano dei conte­
nuti che del metodo, con l’unica condizione che tali contributi non siano
chiusi all’elaborazione di un discorso ontologico sulla persona umana. Di
fatto la teologia si è già mossa in questa direzione e ha scelto di privilegiare
un metodo induttivo, che non consideri immediatamente l’uomo come sog­
getto della salvezza cristiana, ma lo accosti a partire dalla struttura antropo-
logica indagata dalle scienze umane, incontrandolo nella sua situazione con­
creta, nella sue possibilità esistenziali, nelle sue condizioni sociali e culturali.
Tutto questo però non deve far dimenticare l’esigenza di confrontarsi, in un
secondo momento, con le esigenze di un’«etica sacramentale» e di una «dot­
trina della grazia», che al discorso ontologico non possono rinunciare.
Il guadagno principale che la teologia può trarre dall’accoglienza delle
scienze umane e dall’utilizzo di un metodo induttivo è, secondo Ganoczy, il

sua guida nella preparazione della tesi di laurea. Nella prefazione della sua sacramentaria,
Taborda riconosce di aver in particolare assunto da Hunermann l’ispirazione per trattare i
sacramenti utilizzando la categoria di “festa” [F. TABORDA, Sacramenti, prassi e festa (tr. it.),
Cittadella, Assisi 1989,5].
129 A. GANOCZY, Einfiìhrung in d ie katholische Sakram entenlehre, Wissenschaftliche
Buchgesellschaft, Darmstadt 21984.
130 O.C., 107.
131 Ganoczy si riferisce alla correlazione tra linguaggio e azione, al concetto di «acinosa
participatio», all’adozione delle lingue nazionali per favorire la comunicazione rituale.
62 ? a rte prim a: II dibattito

recupero della «concretezza» del suo díscorso. Eglí esemplífica il suo pen-
siero in riferimento ai tre ambiti dell’antropologia, della cristologia e dell'ec-
desiologia. Nel primo ámbito riconosce il valore della prospettiva personali­
sta di Schillebeeckx che ha saputo valorizzare le categorie di incontro e rela-
zione, ma denuncia la carenza di considerazione delle circostanze storiche in
cui l’uomo si sviluppa come «animal interaktivum». Per parlare veramente
dell’uomo nella prospettiva delT«íncontro» bisogna riferirsi al particolare si­
stema comunicativo in cui egli si trova ad esistere e in cui concretamente
realizza la propria apertura agli altri, alPinterno di un códice lingüístico e ge*
stuale che gli permette di esprimere la propria creativitä. In assenza di que-
sta considerazione, anche l’applicazione delle categorie antropologiche al-
l’ambito sacramentarlo che Schillebeeckx ha tentato risulta debole; perché
astratta e precipitosa. Nell’ambito della cristologia la concretezza dell’acco-
stamento comunicativo puö favorire una comprensione piü ricca dell’azione
salvifíca di Gesü, valorizzando altre categorie e modalitä di mediazione che
non siano solo quella di Cristo-sacramento. Nell’ecclesiologia, infine, ci si
puö giovare delle scienze comunicative per distinguere le varié situazioni e le
diverse modalitä pratiche attraverso cui la Chiesa manifesta la propria mini-
sterialitä, senza ricondurre tutta la míssione ecclesiale sotto Túnica e ridutti-
va insegna della sacramentaba,
All’interno di questo quadro piü attento alia singolarita storica dell’espe-
rienza cristiana, i sacramenti vengono definiti da Ganoczy come «sistemi di
comunicazione verbale e non verbale, attraverso cui gli uomini, chiamati alia
fede in Cristo, entrano nel movimento di scambio delle varíe comunita con­
crete, vi prendono parte e in questo modo, sorretti dalTautocomunicazione
di Dio in Cristo e nel suo Spirito, procedono sulla via del divenire se stes‫״‬
si» .132 La definizione mette in evidenza che il sacramento realizza la dinámi­
ca comunicativa a un duplice livello: quello della relazione tra il credente e
la comunita che celebra i sacramenti e quello del rapporto tra il credente e
Dio che si comunica a Lui. La tesi dell’autore é che i due livelli devono esse-
re compresi unitariamente perché l’analisi della modalitä comunicativa della
celebrazione (Ü signum) puö favorire l ’intelligenza del r a p p o r t o c o m u n ic a ti­
vo tra Dio e uomo (la res). II rísultato dell’operazione, pero, é p iu tto s to mo­
desto, soprattutto per quanto riguarda il profilo «teologico» delPidentita del
sacramento.
La parte che piü si giova delPaccostamento comunicativo é l’analisi degli
elementi che entrano a costituire la ’complessa identita di una c e le b r a z io n e
sacraméntale. Senza scendere nei dettagli, basti dire che Ganoczy e v id e n z ia
in particolare la correlacione di códice verbale e non verbale, la n e c e s s ita
che il sistema comunicativo rispetti la continuita, ma anche la novita dei lin -
guaggi, la compresenza nel sacramento di una comunicazione «analoga»
1. Area tedesca 63

(owero centrata sulla dimensione affettiva del gesto e del símbolo) e di una
comunicazione «digitale» (di carattere logico-argomentativo), il carattere
dialogico del rito e !’eficacia della parola sacraméntale. Tra gli aspetti con­
siderad merita forse particolare attenzione l’accostamento del «linguaggio
sacraméntale» al «linguaggio delle parabole»: in entrambi i casi, infatti, ope­
ra una singolare capacita di comunicazione che dipende dall’allusivitá evoca-
tiva del discorso. Chi partecipa alia celebrazione del sacramento, come colui
che ascolta la parabola, puó comprendere il significato soltanto attraverso
un coinvolgimento della propria liberta personale, chiamata a reagire attra­
verso un processo di ricerca e di interpretázione. Lo spunto, che qui rimane
a livello embrionale, meriterebbe di essere sviluppato, valorizzando sia le
acquisizioni teoriche relative alia singolare portata veritatíva del racconto
parabólico,133 sia álla connessione tra interpretázione del· testo e identitá del
soggetto.134
. Meno convincente, invece, é Tanalisi comunicativa applicata alia reí del
sacramento, perché essa si riduce all’affermazione che la grazia sacraméntale
consiste nella comunicazione di Dio all’uomo, senza mostrare adeguatamen-
te il rapporto esistente tra 1’evento salvifico celebrato e le modalitá «comu-
nicative» della sua celebrazione. Un tentativo di precisare questa correlazio-
ne si trova nelle ultime pagine del saggio di Ganoczy, che descrivono il dina­
mismo sacraméntale attraverso l’applicazione dello schema triadico «mittén-
te-destinatario-mezzo» rispettivamente al rapporto tra Dio e il soggetto del
sacramento e al rapporto tra il ministro e il soggetto del sacramento. Sareb-
be pero superfluo seguire a questo livello il discorso dell’autore, che non rie-
sce a fornire un’elaborazione teologica del modello che recepisce dalle scien-
ze della comunicazione. Vale cosi per Ganoczy, come in parte per Hüner-
mann, il giudizio di precipitosa trascrizione in ámbito teologico dei risultati
delle scienze umane.135 Rimane comunque valido il loro richiamo a com-

133 Occorre riferirsi al díbattito relativo alia «teología narrativa». Per quanto riguarda la
parabola, oltre agli studi di P. Ricoeur, si puo considerare l’elaborazione teologica del proble­
ma in E. JÜNGEL, Dio, mistero del mondo (tr. it.), Queriniana, Brescia 1982, 367-389. Scrive
tra l’altro lautore: «Si giunge ad un evento in cui l’argomento del discorso, il discorso che
tratta questo argomento e le persone interpellate vengono rappresentate come unitá ín sé dif-
ferenziata. Nella parabola il linguaggio si acuisce tanto che ció di cui si parla diviene concreto
ne|linguaggio stesso, e proprio cosí determina in modo nuovo gli interpellati nélla loro pro­
pria esistenza. ,Mella parabola awiene qualcosa, e precisamente in modo tale che, allora, av-
viene qualcosa anche per mezzo della parabola. [...] Fondamentalmente tutte le forme verbal!
della fede partecipano alia struttura verbale della parábola» (o.c., 382).
134 P. RiCOEUR, S oi-m ém e com m e un autre, Seuil, París 1991. In particolare bisognerebbe
mostrare la peculiaritá del sacramento, in cui ?apertura all’originario trascendente non awie-
ne soltanto attraverso il discorso, ma attraverso la scelta pratica provocata e richiesta dal rito.
135 Giudizio analogo in S, UBBIALI, La riflessiane teologica sui sacramenti in época moder­
na e contemporánea, in Celebrare il mistero di Cristo. I. La celebrazione: introduzione alia litur­
gia cristiana, C.L.V. · Edizioni Liturgiche, Roma 1993,303-336,334.
64 Parte prim a; I l dibattito

prendere il sacramento a partire dalla concretezza del suo «funzionamento»


comunicativo.

1.3.3. Lies

Il testo di Lies136 è caratterizzato da un preciso intento sistematico, a cui


corrisponde una rigorosa distribuzione della materia e una presentazione
degli argomenti di tono piuttosto didattico. L’opera pretende di essere in
qualche misura innovativa e si propone come una «prospettiva personale»
volta a recuperare all’attenzione della sacramentaria alcuni aspetti di fonda-
mentale importanza che rischiano di essere trascurati o addirittura dimenti­
cati nelle trattazioni recenti.137 In particolare preme all’autore mettere in evi­
denza che i sacramenti possono essere compresi soltanto come momento
dell'«incontro» tra il Dio-Trinità e l’uomo chiamato alla comunione trinitaria.
La nozione di «incontro» è, pertanto, la categoria fondamentale che
l’autore utilizza per la sua esposizione, riportando così di fatto in primo pia­
no un concetto che aveva già trovato applicazione nell’ambito sacramentario
ad opera di Schillebeeckx. Il riferimento al tentativo del teologo olandese è
però sorprendentemente assente nel testo di Lies. Il confronto, eluso dal­
l’autore, mostra comunque una certa diversità di impostazione, quanto me­
no perché in Schillebeeckx la categoria di incontro si presta a unificare non
solo il discorso sacramentale ma anche, e prima, quello cristologico, mentre
in Lies essa è utilizzata, forse in maniera più rigida e astratta,138 per il solo
ambito sacramentale.
La prospettiva fondamentale del saggio è riconducibile all’ispirazione
personalista. A partire dalle domande decisive che l’uomo si pone circa il
senso e il destino della sua esistenza, il discorso si orienta nel senso di rico­
noscere che l ’«identità» umana si realizza soltanto aH’interno della «relazio­
ne». Il rapporto con gli altri non soffoca la libertà, ma ne permette lo svilup­
po: grazie al rapporto con l’altro, l’uomo può veramente diventare se stesso,
realizzarsi come «persona». La categoria relazionale di «incontro» introduce
così la seconda nozione chiave della teologia di Lies, che è appunto il con­
cetto di «persona»; «persona è quella libertà che può trovare spazio in un’al­
tra libertà o può concedere spazio in sé a un’altra libertà, senza con ciò di­
struggere o distruggersi».139 In base a queste premesse, in controtendenza ri­
spetto alPorientamento culturale dominante, Lies afferma la necessità di non

136 L. LlES, S akram ententheologie. Eine p erson a le Sicht, Styria, Graz 1990.
137 Cfr. L. LlES, T rinitatsvergessenk eit gegen w à rtiger S ak ram ententheologie?, «Zeitschrift
fiir katholische Theologie» 105 (1983) 290-314; 415-429.
138 Cfr. H. BOURGEOIS, B ulletin d e th éo lo gie sacram entaire, «Recherches de Science Reli­
gieuse» 78 (1990) 591-624, 602.
139 L. LlES, Sak ram ententheologie, o . c . , 42.
1: Area tedesca 65

centrare l’antropologia sul corpo, ma sulla «personalità»: è la personalità


dell’uomo, infatti, che permette l’incontro delle libertà e quell’incontro par­
ticolare che sono i sacramenti. La corporeità, certamente, deve essere rico­
nosciuta nel suo ruolo fondamentale, ma senza farla diventare il cardine del
discorso antropologico e sacramentale. L’uomo è corpo, ma ciò che lo carat­
terizza è essere «L eib in P erson».lw
Se l ’«incontro» con gli altri rende l’uomo «persona», esso non è però ca­
pace di offrire la salvezza radicale della, libertà, che si trova soltanto nell’in­
contro con Dio, comunione di Persone. Lies introduce in questo modo la
considerazione di uno dei temi che maggiormente caratterizzano il suo sag­
gio e a cui egli riconduce la trattazione dei singoli argomenti sacramentari: il
tema del volto «trinitario» di Dio.141 La Trinità viene presentata soprattutto
come l’espressione massima del dinamismo che esiste tra «relazione inter­
personale» e «identità personale»: alla forma più alta di «incontro» corri­
sponde la realizzazione più alta di «identità». Per questo la Trinità è «YUr-
sy m b o l di ogni incontro»142 e la pericoresi trinitaria il modello di ogni rela­
zione. ‘
A ll’uomo la comunione personale con la Trinità è offerta precisamente
nei sacramenti, in forza del mistero dell’incarnazione in cui Dio ha assunto
la mediazione della materia e della storia per partecipare all’uomo la propria
vita. I sacramenti, pertanto, si realizzano nella forma della «pericoresi» tra
Dio e l ’uomo, e per questo costituiscono per il credente l’«incontro» som­
mamente «personalizzante». Se questo si realizza in tutti i sacramenti, trova
però il suo vertice e la sua fonte nell’Eucarestia, che non deve essere vista
come un sacramento tra gli altri, ma, secondo la tradizione, come il sacra­
mento fondamentale da cui gli altri dipendono e di cui, addirittura, secondo
Lies, riproducono la struttura. Se pertanto l’analisi dell’Eucarestia rivela la
presenza di quattro momenti (anamnesi, epiclesi, koinonia e prosfora), tale
struttura deve guidare la comprensione di tutte le celebrazioni sacramentali.
Non solo, ma poiché nell’Eucarestia giunge a piena visibilità l’identità del­
l’uomo, anche la considerazione dei «sacramenti della creazione» deve ispi­
rarsi alla struttura eucaristica, che pertanto rappresenta la chiave di lettura
di ogni «incontro» con Dio.
L ’esposizione della proposta di Lies potrebbe attardarsi nella considera­
zione dei singoli sviluppi del suo pensiero, ma questo non offrirebbe sostan­
zialmente altri elementi, perché, all’interno del quadro di insieme che abbia­
mo cercato di delineare, i vari argomenti hanno una presentazione piuttosto

140 O.c., 56.


141 La critica riconosce a Lies di aver sviluppato molte implicazioni del pensiero trinitario
e simbolico di Rahner. Cfr. D.N. POWER - R.A. DlIRFY - K.W. IRWIN, Current T heology. Sa­
cram en tai T h eology: A R eview ofL itera ture, «Theological Studies»55 (1994) 657-705,666.
142 L. LlES, o . c ., 367.
66 Parte prim a: Il dibattito

tradizionale. Il merito principale di Lies è il richiamo all’origine trinitaria del


dinamismo sacramentale e la reazione alla tendenza a interpretare i sacra­
menti in chiave esclusivamente, o quasi, antropologica. Lascia però perplessi
il tentativo di ricondurre l ’incontro sacramentale immediatamente alla dot­
trina trinitaria della pericoresi, perché lo schema che guida il pensiero del­
l’autore sembra trascurare la vicenda umana di Gesù, che viene compresa
deduttivamente «a partire» dalla dottrina trinitaria. Probabilmente, invece,
sia la teologia trinitaria che la teologia sacramentale «dipendono» dall’inter­
pretazione teologica delPesperienza storica di Gesù e della «relazione» che
egli ha instaurato con i suoi discepoli, fino a consegnare loro il sacramento
del suo sacrificio. In assenza di questa considerazione, la teologia presente
rischia di ripetere il difetto di deduttivismo unanimemente contestato al ma­
nuale.
Più in generale non giova all’autore la totale assenza di dibattito con le
posizioni recenti e la mancanza di un confronto con gli sviluppi attuali della
teologia del simbolo. Di conseguenza il versante antropologico della sua
proposta è quello che mostra in maniera più evidente una certa debolezza e
un certo ritardo rispetto agli sviluppi che l ’antropologia cristiana ha prodot­
to rispetto alle posizioni classiche del personalismo. Consapevoli di questo
ribadiamo la collocazione «problematica» e atipica di Lies nella prospettiva
della comunicazione.
L’orientamento comunicativo, globalmente considerato, si presenta piut­
tosto «acerbo». Manca, infatti, almeno finora, lo sforzo di una seria imposta­
zione metodologica del problema, sicché le proposte di Ganoczy e Huner-
mann rimangono allo stadio di «spunti» che gli stessi autori, salvo errore,
non hanno più rielaborato. Nella loro condizione «embrionale», però, tali
spunti, soprattutto quelli di Hunermann, possono suggerire una direzione in
cui la teologia sacramentaria, magari con più consapevolezza metodologica,
può fare dei significativi passi avanti nel suo sforzo di non ridurre la com­
prensione del sacramento alla sua «concettualizzazione». In particolare la
prospettiva comunicativa può aiutare a cogliere l’appartenenza intrinseca
della dimensione comunitaria alla struttura del sacramento, spesso ancora
interpretato essenzialmente in relazione all’individuo, e secondariamente,
per estensione, in relazione alla comunità. L’azione «comunicativa» in cui la
Chiesa realizza la celebrazione del sacramento deve e può essere fatto valere,
non solo nominalmente, come il luogo originario dell’«incontro» sacramen­
tale con Dio.

1.4. Sguardo d’insieme sull’area tedesca

Uno sguardo complessivo sulla teologia sacramentaria in area tedesca


non può che mettere in evidenza due dati: la «concentrazione» del dibattito
1. Area tedesca 67

intorno alla formulazione dei problemi offerta dalla teologia di Rahner e la


sua progressiva «estenuazione».
Il primo dato trova conferma nella totale scomparsa dalla discussione
teologica delle tesi di Casel, il cui pensiero viene giustamente considerato
uno dei massimi fattori di rinnovamento della teologia sacramentaria di que­
sto secolo.143 Poiché la fecondità delle intuizioni caseliane, una volta purifi­
cate dagli elementi spuri, sembra un dato unanimemente ammesso e sancito
anche dall’accoglienza nei testi conciliari,144 la scomparsa improvvisa delle
sue tesi proprio nell’area tedesca non sembra trovare spiegazione. Il fatto ri­
sulta ancora più sorprendente se si considera che Casel «non solo aveva
proposto prima di Rahner la definizione di “simbolo reale”, ma sopra tutto
aveva praticato in modo tendenzialmente radicale la riduzione della teologia
a teologia sacramentaria».145 Si può fare soltanto l’ipotesi che sia stato deter­
minante il peso dell’awersione per Casel nutrita da Rahner,146 riconoscendo
che i teologi successivi, anche sotto questo aspetto, si sono messi alla sua
scuola.
Sorte in parte analoga è toccata alla ricerca di Schillebeeckx,147 ma con
due varianti: la prima è che a scavalcare la sacramentaria personalistica ha
contribuito Schillebeeckx stesso, in seguito alla svolta pratica del suo pensie­
ro, in cui la problematica dei sacramenti non ha più goduto dell’attenzione
di prima; la seconda differenza è che di Schillebeeckx è caduta soltanto la
formalizzazione della ricerca, ma è invece risorta l’ispirazione antropologica.
Propriamente è risorta, come ampiamente documentato, coniugandosi con
la «svolta antropologica» rahneriana e quindi indossando una nuova veste.
Anche in questa vicenda c’è qualcosa di sorprendente, perché la predisposi­
zione dello schema rahneriano ad ospitare il contributo di una ricerca antro­

143 C.E. O ’N e i l l , I sacram enti, in R. VANDER GUTT - H. VORGRIMLER (edd.), Bilancio


della teologia delX X seco lo, III (tr. it.), Città Nuova, Roma 1972,263-313; E. RUFFINI, Sacra­
m entaria, in G. BARBAGLIO - S. DlANICH (edd.), Nuovo Dizionario d i T eologia, Paoline, Alba
1977,1353-1375.
144 A. SCHILSON, T h eologie als Sakram ententheologie. Die M ysterientheologie Odo Casels,
Grunewald, Mainz 1982, 29; M.C. MATURA, Liturgie, Werk des Heils. D ie K onstitution iiber
d ie L iturgie u n d d ie M ysterientheologie, «Liturgie und Mònchtum» 36 (1965) 7-11; B. NEUN-
HEUSER, O do C asel a 25 ann i dalla sua m orte, «Rivista Liturgica» 60 (1973) 228-235.
145 G. COLOMBO, T eologia sacramentaria e teologia fondam entale, «Teologia» 19 (1994)
238-262,246.
146 Rahner rimproverava alla teologia di Casel una tendenza all’«irrazionalismo» e un’as-
solutizzazione della testimonianza dei Padri che poteva condurre all’immobilismo teologico.
Tale giudizio si trova in un M emorandum , inedito e anonimo, dal titolo T heologische und phi-
losop h isch e Z eitfragen im katholischen deutschen Raum, il cui autore è appunto Rahner. Cfr.
A. SCHILSON, T h eologie als Sakram ententheologie, o.c., 115.
147 G. COLOMBO, D ove va la teologia sacramentaria?, «La Scuola Cattolica» 102 (1974)
673-717, in particolare 687; S. UBBIALI, Eucarestia e sacramentalità. P er una teologia d el sa­
cram en to, «La Scuola Cattolica» 110 (1982) 540-576, in particolare 562.
68 Parte prim a: Il dibattito

pologica di tipo fenomenologico pare piuttosto limitata:148 una teologia sa­


cramentaria «coerentemente» impostata sulla teologia del simbolo dovrebbe
orientare più verso l ’ontologia che verso l’antropologia.149
Il secondo dato, ovvero l’estenuazione del dibattito, è documentato dal
confronto tra la varietà di voci che si esprime negli anni ’60-’70 e la povertà
del periodo successivo (fondamentalmente Vorgrimler e la linea comunicati­
va). In riferimento a questa evoluzione c’è da precisare che, se la diminuzio­
ne quantitativa delle opere non coincide necessariamente con il calo della
qualità della riflessione, essa è però almeno sintomo di una difficoltà e forse
del bisogno di rivedere le premesse della ricerca.
Porre una relazione di stretta dipendenza tra i due dati, sostenendo che il
secondo è conseguenza del primo, sarebbe forse semplicistico e quindi in­
giusto. Più congrua probabilmente è l ’affermazione che la tendenza a ridur­
re la teologia dei sacramenti a una teologia della sacramentalità non ha indi­
rizzato la discussione in una direzione molto produttiva.150 In ogni caso l’e­
secuzione del progetto, con le dovute distinzioni tra la sua origine in Rahner
e la sua trasformazione nei discepoli, non pare abbia conseguito gli auspicati
risultati di rinnovamento. Se l’intenzione, infatti, era favorire l ’unità del di­
scorso teologico e il superamento della comprensione riduzionistica del sa­
cramento, la realizzazione non è del tutto soddisfacente. Per un lato l ’unità
effettivamente è stata raggiunta (esemplarmente in Schneider), ma soltanto a
prezzo di una «trasformazione» delle tesi rahneriane, che rappresenta quan­
to menò una «forzatura»; per l’altro il riduzionismo sacramentale in senso
giuridico e positivistico è stato realmente estirpato, ma ha lasciato il posto a
un tendenziale riduzionismo antropologico. Questa almeno è la denuncia di
Seils, secondo cui al processo di «sacramentalizzazione» del cristianesimo è
collegato l’appiattimento orizzontalistico del sacramento.151
Sotto il profilo diacronico, la ricostruzione analitica del dibattito confer­

148 «Il procedimento di Rahner è differente da quello riproposto da Schillebeeckx. Di fat­


ti, mentre quest’ultimo si muove nell’orizzonte di una fenomenologia dell’azione, Rahner si
muove neU’orizzonte di un’“ontologia della differenza”» (S. UBBIALI, a.c., 563).
149 «È infatti evidente che se la nozione di sacramento viene riportata, da un lato, alla no­
zione più generale di essere/ente e, dall’altro, viene risolta, sia pure in un certo senso solo
tendenzialmente, in quella di Chiesa, l ’antropologia cessa di essere il locu s proprio della sa­
cramentaria» (G. C olombo , a.c., 687).
150 Se questo giudizio non è isolato [cfr. H. BOURGEOIS, P ositions du sa cra m en tel aujour-
d ’hui, «Recherches de Science Religieuse» 75 (1987) 175-202; G. COLOMBO, T eologia sacra­
m entaria e teologia fon dam en tale, «Teologia» 19 (1994) 238-262], non mancano però inter­
pretazioni diverse, che evidenziano i grandi progressi della teologia sacramentaria, soprattut­
to negli ultimi decenni [A. SCHILSON, Sim bolwirklichkeit un d Sakrament. Ein L iteraturbe-
richt, «Liturgisches Jahrbuch» 40 (1990) 26-52, soprattutto 26; E.R. TURA, Ancora sulla teo lo ­
gia d e i sacram enti, «Studia Patavina» 43 (1996) 535-551, secondo cui, in riferimento all’al­
largamento del termine «sacramento», «se si parla di crisi nella teologia dei sacramenti si trat­
ta di una crisi d elle troppe luci, per cui è difficile tener conto adeguatamente di tutte» (541)].
151 M. SEILS, Sak ram ententheologie, «Verkilndigung und Forschung» 39 (1994) 24-44,31.
1. Area tedesca 69

ma sostanzialmente la presentazione di Schilson, a cui ci siamo riferiti in


apertura del capitolo per suddividere la sacramentaria post-rahneriana tede­
sca in tre fasi. Scorporando la posizione ecclesiologica di Schulte, che di fat­
to non ha séguito nel dibattito, la successione dei tre momenti può essere
esemplarmente individuata nella posizione di Ratzinger/Kasper, in quella di
Schupp (e Schaeffler) e in quella di Hunermann e Ganoczy. Tre linee che
corrispondono a tre momenti successivi della ricerca teologica: il momento
«personalistico-esistenzialistico», il momento «pratico-politico» e il momen­
to «comunicativo». Più facile e assodato nella ricostruzione della critica è il
passaggio dal primo momento al secondo, grazie anche alla discussione tra
Rahner e Metz che ha sancito lo spostamento. Più difficile caratterizzare co­
me a sé stante il terzo, perché coincide con l’attualità, con tutte le sue incer­
tezze e con l’imprevedibilità dei suoi sviluppi. ,
Non sembra necessario approfondire il nesso tra l’evoluzione della sacra­
mentaria tedesca e lo sviluppo parallelo della teologia nella sua globalità. Più
utile invece è focalizzare la trasformazione dell’interrogativo che guida la ri­
cerca sacramentale nei tre momenti. Nel primo esso verte innanzi tutto sul-
l ’«identità» del simbolo sacramentale quale appare dalla sua appartenenza
radicale alla «natura» dell’uomo; nel secondo sul «ruolo» del simbolo sa­
cramentale quale appare dalla sua efficacia nella «società/cultura»; nel terzo
sul «funzionamento» del simbolo sacramentale quale appare dalla sua quali­
tà di «atto comunitario di comunicazione». Tutti e tre gli interrogativi, evi­
dentemente, sono pertinenti, purché, e questo è forse il limite del dibattito
avvenuto, non si concepiscano come alternativi l’uno all’altro, poiché, una
volta superato il «pregiudizio» che contrappone una ricerca «essenzialistica»
sull’identità a una ricerca «storicistica» sulla funzionalità, essi possono/devo-
no convergere in un chiarimento reciproco.
Alla diversità della «problematica» non consegue comunque, negli autori
considerati, una diversità di «linguaggio»: sempre e ovunque si parla di
«simbolo», sia che si tratti di trovare 1’U rsymbol sacramentale nel corpo
umano (Ratzinger/Kasper), sia che lo si ritrovi nella prassi materialistica
(Schupp) o piuttosto nella Trinità (Lies). Solo la contestualizzazione delle af­
fermazioni può salvare dall’ambiguità, scoraggiando le sintesi troppo preci­
pitose e imponendo la necessità di un chiarimento «teoretico» sul simbolo,
senza di cui il discorso sacramentale rischia la degenerazione nominalistica.
Poiché la sacramentaria tedesca ha assunto questa categoria da Rahner, il
confronto con la sua posizione, in ogni caso, si impone. E sulla base di quan­
to abbiamo analiticamente mostrato, il risultato del confronto è che la sacra­
mentaria simbolica dopo Rahner è andata «oltre» Rahner, nel senso di un’e­
stremizzazione152 e di una diversificazione. La prima consiste nella risoluzio­

152 G. COLOMBO, T eologia sacramentaria e teologia fondam entale, «Teologia» 19 (1994)


238-262,246.
70 Parte prim a: II dibattito

ne della teologia in teologia sacramentaria, che in Rahner aveva le premesse


ma non lo svolgimento; la seconda nel passaggio dalla comprensione dei sa­
cramenti a partire dall’«ecclesiologia» alla comprensione dei sacramenti a
partire dall’«antropologia». Resta da vedere se i due fenomeni, come sembra
plausibile, siano collegati e in che modo.
Un’ultima osservazione generale riguarda la scarsa presenza, nella lettera­
tura tedesca, del tema del rito. Semplicemente dilagante in altre aree lingui­
stiche, ad esempio in Francia, questa categoria non ha trovato finora in Ger­
mania particolare sviluppo, probabilmente per la minore incidenza del di­
battito liturgico. L’assenza stupisce, perché è nota la parentela del «rito» con
il «simbolo», ma ancor prima perché la qualità celebrativa del sacramento
sembra il primo dato da considerare per la sua interpretazione, non soltanto
perché il più evidente, ma anche perché «originario». Probabilmente pro­
prio l’approfondimento dell’appartenenza della «modalità» rituale alla «na­
tura» del sacramento offrirebbe elementi significativi per precisare e rettifi­
care la «sacramentalizzazione» della teologia avutasi nell’area tedesca.
2. AREA FRANCESE

Il dibattito sacramentario nell’area francese pare fortemente segnato dalla


necessità di far fronte a una grave crisi pastorale. E quanto emerge chiara­
mente da un articolo di P.M. Gy, che, tracciando il quadro problematico
della sacramentaria francese agli inizi degli anni ’70, afferma: «I problemi di
pastorale sacramentale sono attualmente così acuti in Francia che la teologia
dei sacramenti, più ancora forse che altri rami della teologia, si trova obbli­
gata a lavorare in tempo reale».1
Tali problemi consistono, sostanzialmente, in una disaffezione per la pra­
tica religiosa che sembra dipendere non da difficoltà momentanee, ma da
trasformazioni socio-culturali profonde, tali da determinare una configura­
zione completamente nuova dell’interrogativo teologico sul sacramento:
molte questioni teologiche che fino a poco tempo prima potevano sembrare
«astratte e pacifiche», assumono ormai « l’aggressività dell’innovazione pa­
storale».2
La situazione si presenta tanto più problematica, in quanto non sembra
che per ipotizzare delle soluzioni sia sufficiente rifarsi agli apporti della Ri­
forma liturgica ancora in fase di elaborazione. Se, infatti, la preoccupazione
conciliare riguardava direttamente le modalità rituali e celebrative, l’interro­
gativo nel frattempo si è fatto più profondo e radicale: «Non ci si domanda
più: “come celebrare i sacramenti?” ma “perché ci sono dei sacramenti?”».3
Cercando di precisare gli elementi che sono all’origine della nuova situa­
zione, Gy si riferisce in modo particolare alle trasformazioni avvenute in am­
bito antropologico e in ambito ecclesiologico.
Sul primo versante egli colloca esemplarmente i cambiamenti nel modo
di vivere la malattia, di sperimentare la coscienza del peccato o di concepire
la famiglia e considera il loro impatto sulla comprensione del sacramento
corrispondente. L’unzione degli infermi, ad esempio, viene inevitabilmente
a mutare almeno in parte il suo senso a seconda che sia celebrata, come in

1 P.M. GY, P roblèm es d e th eo lo gie sacram entaire, «La Maison-Dieu» 110 (1972) 124-142,
129.
2 Ibid.
3 R. DIDIER, Les sa crem ents d e la foi. La Pàque dans ses signes, Centurion, Paris 1975,10.
72 Parte prim a: Il dibattito

un passato non lontano, in un contesto in cui la malattia conduceva quasi fa­


talmente alla morte e questa era considerata un atto sociale, o nella cultura
attuale in cui la malattia viene spesso curata, ma la morte è diventata un ta­
bù, di cui il malato possibilmente non deve neppure avvertire ravvicinarsi.
Sul versante ecclesiologico la novità viene soprattutto da una diversa col-
locazione della Chiesa in rapporto al mondo, frutto di una più ricca coscien­
za dell’identità e della missione ecclesiale, ma anche di un’evoluzione in sen­
so post-cristiano della società. L’ormai impossibile identificazione tra appar­
tenenza sociale e appartenenza ecclesiale suscita, infatti, problematiche sa­
cramentarie di rilievo, obbligando a ripensare il rapporto fede-sacramenti
(soprattutto in rapporto alla prassi battesimale) e a confrontarsi con maggio­
re attenzione con l’evoluzione storica della prassi celebrativa, soprattutto per
i sacramenti del matrimonio e della riconciliazione.
Di fronte a un contesto culturale ed ecclesiale così mutato, il consenso
della teologia sulla necessità di affrontare alla radice il ripensamento dei sa­
cramenti, senza limitarsi a qualche approfondimento settoriale, è unanime.
Lo stesso orientamento viene confermato, verso la fine degli anni ’80, da un
giudizio di H. Bourgeois, secondo cui «la sacramentaria è diventata il luogo
di un discorso nuovo e propriamente “fondamentale”».4 Ciò che da più par­
ti, infatti, viene invocato è una nuova riflessione sul sacramento, che corri­
sponda in qualche modo all’ormai superato De sacram entis in g e n e r e , ma sia
concepita «dal punto di vista di una teologia “fondamentale”».5
Come Bourgeois stesso riconosce, l ’attributo «fondamentale» «richiede
forse più chiarimenti di quanto apporti in chiarezza», ma viene inteso nel
senso di uno sforzo di determinare «ciò che è “fondamentalmente” costitu­
tivo del sacramento cristiano preso in quanto tale, ciò che è in causa nella
nozione e nella pratica dei sacramenti quando si vuole andare “al fondo”
delle cose e delle questioni».6
All’unanimità degli intenti che, stando a questi dati, guida la sacramenta­
ria francese, corrisponde anche, almeno grosso m odo, la convergenza dell’i­
spirazione. Si può, infatti, parlare di un orientamento «antropologico» che
cerca di comprendere l ’identità del sacramento cristiano a partire non tanto
dalla sua identità ecclesiale, quanto piuttosto dal tessuto universale della re­
ligiosità, e più precisamente dal rito: se il rito è elemento antropologico uni­
versale, il sacramento è il rito del cristiano.
Rispetto ai due ambiti di problemi segnalati dall’articolo di Gy, la ricerca
si orienta principalmente, se non quasi esclusivamente, sul rapporto sacra­
menti-antropologia. In questo modo il riferimento ecclesiologico, che pure

4 H. BOURGEOIS, A vant-propos, «Recherches de Science Religieuse» 75 (1987) 163-170,


164.
5 Ibi, 165.
b Ibid.
2. Area fra n cese 73

dovrebbe segnalarsi come immediatamente pertinente per l’intelligenza del


sacramento e come tale era stato avanzato dalla teologia di Rahner, risulta di
fatto disatteso. : .
E in realtà l’influsso di Rahner nel dibattito francese risulta meno visibile,
benché non assente. Più direttamente operano le suggestioni della teologia
di Bouyer e di Schillebeeckx, che avevano aperto la pista per la comprensio­
ne antropologica del sacramento. Bouyer, in particolare, viene designato
come l’antesignano dell’attenzione al rito7 quale elemento di profondo inte­
resse per la teologia sacramentaria. Tanto che Bourgeois, nel primo numero
del suo Bulletin de Théologie sacramentaire, fa risalire alla sua ispirazione gli
sviluppi che hanno condotto al costituirsi della nuova teologia sacramentaria
francese.
La ricostruzione di Bourgeois è particolarmente utile per restituire il
quadro del dibattito ed è anche emblematica, perché caratterizza il percorso
della riflessione immediatamente nei termini di una «articolazione tra la teo­
logia sacramentaria e l’antropologia contemporanea».8
La prima tappa, a partire dai primi anni ’60, vedrebbe il costituirsi del
nesso tra sacramentaria e antropologia particolarmente intorno alla rivista
«La Maison-Dieu», attraverso un’integrazione nel dibattito liturgico dei ri­
sultati delle scienze umane. Tra di esse la sociologia dell’assemblea o dell’ap­
partenenza religiosa, l’antropologia del simbolo e del rito, la semiotica, la
storia e la psicanalisi. Tale evoluzione trova conferma, d’altronde, anche nel
bilancio decennale della produzione della rivista fatto , nel 1974 da Dye e
Hameline, intitolato non a caso Changement de problématique? Il cambia­
mento, anche se viene precisato che non si tratta di una novità assoluta, con­
sisterebbe proprio nell’apertura alle sciènze umane. Esso si giustifica per la
necessità di una più profonda intelligenza del rito che richiede necessaria­
mente «una fase di osservazione, di. analisi e di sistematizzazione in cui le
scienze sociali e le scienze dell’uomo intervengono a pieno diritto».10 Questa
apertura è accompagnata certo dalla consapevolezza che esistono seri pro­
blemi relativamente ai fini e ai mezzi introdotti, ma sembra sufficiente la
volontà di non perdere il punto di vista specificamente teologico, che anzi
attraverso il contatto con le scienze umane guadagnerà una maggiore vigi­
lanza critica verso le proprie condizioni di funzionamentp.
La seconda tappa, negli anni ’70, vedrebbe l'apparire di primi tentativi di
sintesi, soprattutto ad opera dello psicologo belga A. Vergote e del teologo
di Lione R. Didier. Quest’ultimo, in particolare, avrebbe il merito di assu­

7 Cfr. L. BOUYER, Le rite et l'hom m e, Cerf, Paris 1962.


8 H . BOURGEOIS, B ulletin d e T héologie sacram entaire, «Recherches de Science Religieuse»
72 (1984) 291-318,293 (corsivo nostro).
9 D . D Y E - J.- Y . HAMELINE, C hangem ent d e problém atique. R éflexions sur dix a n n ées d e la
«M aison-D ieu», «La Maison-Dieu» 120 (1974) 7-19.
10 A c., 16.
74 Parte prim a: Il dibattito

mere «un punto di vista decisamente antropologico, considerando il sacra­


mento sulla base della ritualità e del simbolo»,11 benché il suo saggio manchi
ancora di un’analisi più ampia e «meno filosofica» dell’esperienza simbolica.
Decisiva risulta infine nella ricostruzione di Bourgeois l’opera di Chau­
vet, che coronerebbe tutto lo sforzo precedente, dando compimento agli
sforzi della sacramentaria francese postconciliare. E in effetti l ’opera di
Chauvet viene salutata da più parti come felice sintesi delle ricerche prece­
denti e come realizzazione del rinnovamento a lungo perseguito.12 Essa, in­
fatti, presenta tutti i caratteri tipici del dibattito precedente: l ’intento inno­
vatore, la prospettiva fondamentale, la lettura antropologica, il rilievo dato al
rito, l’apertura alle scienze umane. Tutto questo raccolto intorno alla nozio­
ne di simbolo,13 che costituisce allo stesso tempo un ponte con la riflessione
precedente e il suo superamento, in direzione di una sua radicalizzazione.
Effettivamente dopo la comparsa delle opere di Chauvet la teologia fran­
cese del sacramento pare impegnata a discuterne le tesi, riconoscendo in lui
l ’interlocutore più rappresentativo del momento, ovvero l’esponente di una
teologia sacramentale postmoderna. E quest’ultima caratteristica, però, che
se da un lato qualifica la rappresentatività di Chauvet, dall’altro lo differen­
zia profondamente dalla riflessione sacramentaria dei primi anni ’70, e più a
monte ancora dalla prospettiva di Schillebeeckx, a cui in radice l’orienta­
mento antropologico viene ricondotto. In questo senso l’approdo recente
della sacramentaria «antropologica» francese sembra indeducibile dalle sue
premesse storiche, anzi perfino contraddittorio con esse. Se il riferimento a
S. Tommaso era all’origine dell’interesse antropologico di Schillebeeckx e
del programma di un’antropologia sacramentale lanciato da Chenu, la sua
elaborazione attualmente più compiuta ne ha in buona misura ribaltato la
formulazione. Non più una comprensione simbolica del sacramento grazie
all’ontologia tomista, ma una comprensione simbolica del sacramento in al­
ternativa ad essa.

11 H . BOURGEOIS, B ulletin d e T héologie sacram entaire, «Recherches de Science Religieu­


se» 72 (1984) 291-318,293.
12 Scrive, ad esempio, un autore: «Sembra che oggi nessun altro teologo abbia rinnovato
.così profondamente l’approccio globale al sacramento quanto il giovane professore dell’In-
stitut Catholique di Parigi» [A . HAQUIN, Vers u n e n o u velle th éo lo gie fon d a m en ta le d es sacre-
m ents: d e E. Schillebeeckx à L.-M. Chauvet, «Questions Liturgiques» 75 (1994) 28-40,34s.].
13 Senza anticipare giudizi e valutazioni, occorre però notare la facilità con cui il simbolo
si offre, anzi si raccomanda, all’utilizzo teologico, promettendo, grazie alla sua fortuna all’in­
terno delle scienze umane, non pochi vantaggi. Innanzi tutto l’opportunità per la teologia di
recuperare spazi di dialogo con la cultura contemporanea, superando l’isolamento e il ritardo
bruscamente avvertiti nel passaggio conciliare. Poi, e qui sta forse il suo fascino maggiore, la
possibilità di assicurare al sacramento quella rilevanza antropologica che la sua collocazione
ecclesiologica non sembrava poter garantire, anzi sembrava piuttosto ostacolare. Derivata-
mente la possibilità di elaborare quelle risposte pastorali di cui la prassi cristiana in una socie­
tà post-cristiana ha bisogno.
2. Area fra n cese 75

Ciò che rimane comune è l’appello al simbolo per comprendere il sacra- -


mento; ciò che cambia è la nozione di simbolo, o forse, più precisamente, il
modello culturale in riferimento a cui il simbolo è compreso: l’ontologia to­
mista da una parte, la critica heideggeriana all’ontoteologia dall’altra. Non
sembra in ogni caso che motore dell’evoluzione sia stato l’approfondimento
della nozione di sacramento, tanto da poter formulare l’ipotesi che tale no­
zione sia stata soltanto piegata a seguire la trasformazione culturale imposta
dalla postmodernità.
Intendiamo verificare questa ipotesi riferendoci ai momenti sintomatici
del dibattito, che ci sembra di poter ritrovare nella proposta di una antro­
pologia sacramentale avanzata da Chenu, nel primo oscillante tentativo di
realizzazione da parte di Didier e nell’opera, impostasi come termine obbli­
gatorio di confronto, di Chauvet. L’analisi della recezione critica della sua
proposta completerà la nostra esposizione della teologia sacramentaria fon­
damentale francese.

2.1. Chenu

La proposta di Chenu è contenuta in un articolo comparso su «La Mai­


son-Dieu» sotto il titolo Pour un e an thropologie sacram entelle.14 Si tratta,
come avverte una nota della rivista, della trascrizione di una conversazione
che offre più delle suggestioni che una trattazione sacramentaria e si presen­
ta senza pretesa di riferimenti puntuali e di elaborazione formale. Di fatto
questo contributo di Chenu, nonostante il carattere incompiuto, si è impo­
sto in seguito più volte all’attenzione dei teologi e dei liturgisti francesi,15 che
vi hanno trovato in qualche modo l’indicazione di un programma da realiz­
zare, anche se eventualmente per altre vie rispetto a quelle indicate dall’au­
tore.
Il programma in questione è l’elaborazione di un’«antropologia sacra­
mentale», che mostri come uomo e sacramento siano reciprocamente coes­
senziali. Non si tratta semplicemente di cogliere i nessi della tematica sacra­
mentaria con l ’antropologia, come se si potesse considerare il sacramento a
monte rispetto alla questione antropologica, ma di riconoscere che l’univer­
so sacramentale è totalmente caratterizzato antropologicamente, perché Dio
vi si comunica in modo umano. Come si esprime Chenu: «i due termini

14 «La Maison-Dieu» 119 (1974) 85-100.


15 Ancora nel cinquantesimo anniversario della rivista il contributo di Chenu viene ricor­
dato tra i testi che «non solo hanno avuto al loro tempo una notevole influenza, ma conserva­
no per noi un’importanza fondamentale» [P.-M. GY, Q tielques articles anciens d e La Maison-
Dieu à relire, «La Maison-Dieu» 200 (1994) 9-12,11]. L’apprezzamento per Chenu è formu­
lato anche da Chauvet, che pure presenta una posizione assai distante. Cfr. L.-M. CHAUVET,
La th éo lo gie sacram entaire est-elle an-esthésique?, «La Maison-Dieu» 188 (1991) 7-39,8.
76 Parte prim a: Il dibattito

“antropologia” e “sacramentale” sono indissociabili l ’uno dall’altro, non sol­


tanto sul piano dei metodi [...] ma costitutivamente».16
Il merito di aver posto le basi per una tale comprensione antropologica
del sacramento viene attribuito alla sacramentaria di S. Tommaso. Egli, in­
fatti, correggendo la tendenza caratteristica di tutti i teologi suoi contempo­
ranei a concepire i sacramenti principalmente in termini medicinali, ha sapu­
to attribuire valore determinante a un principio positivo che, seppur da tutti
condiviso, non era di fatto operante nelle sintesi sacramentarie: il principio
secondo cui «Dio provvede a ogni realtà secondo il suo modo di essere». È
dunque una legge generale dell’economia salvifica che giustifica il sacramen­
to e permette di riconoscerne la plausibilità antropologica: Dio si rende pre­
sente attraverso ciò che egli stesso ha creato e comunica la sua vita attraverso
realtà sensibili, attraverso la materia che, nella sua fisicità, costituisce la «pri­
ma componente essenziale del sacramento».17
Riferendosi a questo orientamento tomista, Chenu riconosce che è pro­
prio dalla diversa concezione che si ha della materia, e in particolare del cor­
po, che dipende la possibilità o meno di realizzare il programma di un’antro­
pologia sacramentale. La sua tesi è che solo il passaggio dalla logica del «se­
gno» alla logica del «simbolo» può permettere una valorizzazione della «ma­
teria» e conseguentemente una comprensione antropologicamente corretta
del sacramento.
La tesi viene illustrata nel confronto con le teorie che hanno meglio
espresso i due diversi orientamenti.
L ’espressione più tipica del primo filone viene rintracciata facilmente
nella sacramentaria di ispirazione agostiniana, centrata appunto sulla logica
del signum e della res. Tali categorie, più o meno consapevolmente, favori­
scono un disprezzo della materia e una sua riduzione a strumento di signifi­
cazione sostanzialmente estraneo alla realtà intenzionata. Alla materia in
quanto tale non viene attribuito di fatto alcun valore intrinseco, secondo la
tipica tendenza del platonismo agostiniano a identificare la verità con ciò
che è interiore, raggiungibile solo attraverso un processo di spoliazione da
ciò che è caduco e, appunto, materiale. ■
Al secondo orientamento, invece,- appartiene il ben diverso platonismo
dei padri greci, che, riconducendo tutto il creato a una metafisica dell’Uno,
pongono nella materia un positivo riferimento a Dio. Nella loro interpreta­
zione, tutto il cosmo deriva da Dio per un processo di emanazione, da non
intendere qui nel senso alternativo alla creazione che il termine ha acquisito
in seguito. Nei vari gradi dell’essere è presente, in forza della loro origine
dall’Uno, una tensione ascensionale grazie a cui ogni livello creaturale tende
verso quelli successivi, senza peraltro venir meno alla sua autonomia. Anzi è

16 M.-D. CHENU, P our u n e an th ropologie sacram entelle, a.c., 87.


17 A.c., 92.
2. Area fra n cese 11

proprio questa apertura alle forme superiori che costituisce la ricchezza di


ogni grado: «ogni essere ha la sua densità propria solo in quanto è aperto al
di sopra, in un dinamismo di “partecipazione”» .18
In questa prospettiva il mondo sensibile non è contrapposto a quello spi­
rituale, ma ne è la manifestazione, non estrinseca e passeggera, ma intrinseca
ed essenziale. Ne è appunto il «simbolo».
Su questa linea si colloca, pur con diversa ispirazione, l’antropologia di S.
Tommaso. Essa, infatti, attribuisce all’uomo, grazie alla sua collocazione pri­
vilegiata al punto di congiunzione tra materia e spirito, la capacità di ricapi­
tolare in sé tutto il cosmo. Questo dinamismo di ricapitolazione permette al­
l ’uomo di umanizzare la materia e in tal modo anche di «divinizzarla». Su
queste premesse Tommaso può mettere in piena luce, contro ogni tentazio­
ne spiritualista, l’importanza del corpo umano. L’uomo è tanto più «presso
il suo spirito», quanto maggiormente possiede la propria materia, ovvero, in
altro linguaggio, l’uomo non diventa soggetto cosciente se non attraverso la
mediazione del proprio corpo. Coerentemente, in ambito sacramentale,
quando Tommaso si trova nella necessità di giustificare il settenario, non ha
bisogno di riferirsi a motivazioni estrinseche (sette peccati, dunque sette ri­
medi), ma può riferirsi positivamente alle fasi storiche della vita umana. In
questo modo il sacramento si offre all’uomo come pienamente conveniente
alla sua vicenda storica, alla sua condizione corporea: «Là dove l’uomo si
umanizza c’è bisogno di un rito [...]. A ogni cardine di umanizzazione c’è un
sacramento, che è là per divinizzare».19
In questa prospettiva, alla coppia signum -res, tendenzialmente orientata a
una spiritualità dell’interiorizzazione e a un’antropologia disincarnata, può
subentrare la coppia simbolo-mistero, capace di rendere ragione della quali­
tà radicalmente antropologica del sacramento. Per comprendere il sacra­
mento non bisogna evadere dal corporeo, ma coglierne la capacità epifanica.
In tal modo la spiegazione causale del sacramento, che anche S. Tommaso
ha saputo solo correggere, senza però saperla abbandonare, può essere sosti­
tuita da una spiegazione simbolica, per la quale Chenu fa riferimento alla ri­
flessione di Rahner. Il simbolo è infatti una manifestazione che, mentre
esprime la realtà intenzionata, la realizza secondo una logica di analogia tra
ordine materiale e spirituale, di cui nessuna causalità può rendere ragione.
Il guadagno nel passaggio dal segno al simbolo è, dunque, per Chenu la
«radicazione antropologica» del sacramento: il simbolo permette il recupero
dell’intuizione tomista del valore della materia e del corpo e in questo modo
supera l ’isolamento della teologia sacramentaria rispetto al problema antro­
pologico. Il sacramento, infatti, «compie» l’uomo, lo realizza. E questo pro­
prio manifestando il senso del dinamismo ascensionale iscritto nella sua cor­

18 A c., 93.
19 A c., 89.
78 Parte prim a: I l dibattito

poreità attraverso un rito corrispondente al momento della sua storia indivi­


duale.
La proposta di Chenu non poteva che trovare calorosa accoglienza, hon
soltanto per la pertinenza del riferimento antropologico del sacramento, ma
anche per la congiuntura culturale fortemente orientata alla riscoperta del
corporeo e della storia. In particolare l ’apertura convinta alle scienze umane,
motivata dal loro ruolo indubitabile nell’analisi e nell’interpretazione dell’or­
dine storico-sensibile, doveva suscitare vasto consenso in un dibattito litur­
gico e sacramentario che proprio in quella direzione stava già da tempo cer­
cando spunti di rinnovamento.
Se Chenu riconosceva alle scienze umane il ruolo non solo di strumento
annesso, ma di «componente essenziale della riflessione»20 teologica, da ri­
spettare pienamente nella sua autonomia di ricerca, l ’ingresso effettivo del­
l ’antropologia culturale nella teologia doveva risultare più problematico di
quanto un iniziale ottimismo potesse prevedere. Proprio i risultati delle
scienze umane, infatti, dovevano contribuire non poco a sollevare obiezioni
e sospetti verso l ’antropologia di Tommaso, di cui Chenu aveva offerto una
rilettura «coraggiosa» e «particolarmente penetrante».21
Già lo stesso numero de «La Maison-Dieu» che ospitava l ’intervento di
Chenu doveva mostrare i rischi di una comprensione unilateralmente antro­
pologica della sacramentaria, proponendo sintomaticamente in un dialogo
interdisciplinare la riduzione del settenario sacramentale a un «quaternario»
corrispondente alle quattro stagioni decisive della vita umana.22 Primo sin­
tomo dell’equivocità potenzialmente presente in un ricorso affrettato al sim­
bolo come immediato rimedio ai problemi del sacramento.

2.2. Didier

La posizione di Didier è sintomatica di una fase ancora piuttosto «acer­


ba» e oscillante del dibattito sacramentario incentrato sulla questione antro­
pologica.
All’interno della produzione dell’autore, l’opera a cui riferirsi per trovare
riassunto il suo pensiero è Les sacrem en ts d e la f o i P II saggio ha certamente
il merito di essere il primo tentativo di una sintesi sacramentaria aperta ad
accogliere le acquisizioni recenti dell’antropologia culturale, e come tale fu
accolto con un certo interesse. Esso però lascia intravedere abbastanza fa­
cilmente l ’incapacità di tradurre l’intuizione di fondo, ovvero il nesso rito-

20 A c., 87.
21 G. COLOMBO, P e r ii trattato su ll’Eucarestia (I), «Teologia» 13 (1988) 95-130,116.
22 P roblèm es sacram entaires. D ialogue interdisciplinaire, «L a Maison-Dieu» 119 (1974) 51-
73.
23 R. DlDIER, Les sacrem ents d e la fo i. La Pàque dans ses signes, Centurion, Paris 1975.
2. Area fra n cese 79

sacramento, in un vero principio unificante che offra un’articolazione sicura


al discorso. Più che sull’esposizione dei contenuti, che non offrirebbero
molti motivi di interesse, concentriamo dunque l’attenzione sul procedimen­
to seguito, perché soprattutto da questo punto di vista Didier esprime la si­
tuazione del dibattito a lui contemporaneo.
Intento dell’autore è mostrare allo stesso tempo il «radicamento nel­
l’umano» del sacramento e la sua originalità cristiana, dovuta al suo caratte­
re specifico di memoriale del mistero pasquale. Il conseguimento di questo
ambizioso obiettivo è affidato a un percorso teologico che accosta il sistema
sacramentale a partire dalla sua caratteristica «più fondamentale e più im­
mediatamente evidente»:24 la ritualità.
Il sacramento, infatti, è innanzi tutto un rito e in quanto tale si inserisce
nel variegato tessuto della religiosità umana e più in genere ,della cultura,
presentando così immediatamente le credenziali di momento rilevante del­
l’esperienza antropologica e liberandosi dal sospetto di estraneità sollevato
nei suoi confronti dall’uomo contemporaneo. Allo stesso tempo, però, il rito
ha una storia: esso emerge grazie a un riferimento intrinseco a un passato
fondatore che permette di mostrarne la peculiarità. Per questo la considera­
zione rituale del sacramento non assorbe il suo contenuto cristologico in una
semplice rilevanza esistenziale, ma consente di conservarne la qualificazione
cristiana di memoriale salvifico.
Considerato nella sua «struttura» il rito risulta «un agire sociale specifico,
programmato, ripetitivo e simbolico, grazie a cui si opera l’identificazione
dell’individuo nel suo gruppo sociale e di questo gruppo nella società glo­
bale».25 Da questo punto di vista esso mostra la sua insostituibile efficacia al­
l ’interno del processo di costituzione del singolo soggetto e della comunità e
si presta a guidare la comprensione del sacramento.
Didier, pertanto, procede immediatamente all’utilizzo teologico della ca­
tegoria rituale, assumendo la definizione offerta dalle scienze umane e appli­
candola direttamente al sacramento. Ne risulta che la caratteristica dell’agire
sociale «specifico» viene verificata dal sacramento nella diversità dei ruoli
dei ministri ordinati e dei fedeli, la «programmazione» consiste nella forma
cerimoniale, e così di seguito viene proseguito il parallelismo. Questo proce­
dimento, però, oltre a correre il rischio di una certa estenuazione della por­
tata effettiva della. questione antropologica connessa al rito, risulta anche
metodologicamente piuttosto incauto. La nozione di rito offerta come esito
della ricerca delle scienze umane viene, infatti, assunta come il punto di par­
tenza del discorso teologico, senza almeno tentare una verifica critica della
sua convenienza con il dato della fede e quindi della plausibilità del suo uti­
lizzo sacramentario.

24 O.c., 21.
25 O.c., 22.
80 Parte prim a: Il dibattito

È questo il limite fondamentale della proposta di Didier, perché in tal


modo lo sbilanciamento sotteso a un’interpretazione unilateralmente socio­
logica della ritualità viene surrettiziamente introdotto nella riflessione teolo­
gica, condizionando lo sviluppo del pensiero. Non pare, infatti, scontato che
il rito debba essere esclusivamente caratterizzato per il suo ruolo di media­
zione indispensabile dell’identificazione di un soggetto nella società. Se que­
sta caratteristica viene normalmente ritenuta indiscutibile, ciò non significa
che essa sia l ’elemento determinante. Occorrerebbe quanto meno precisare
in che modo l ’identificazione sociale dell’individuo è resa possibile dal rito e
più a monte ancora che cosa si intenda per «identificazione». Dietro questo
• termine, infatti, possono presentarsi varie interpretazioni della soggettività,
più o meno aperte a riconoscerne il carattere libero e irriducibile al risultato
di influssi culturali e contingenze storiche. Il nodo da sciogliere riguarda, ul­
timamente, gli elementi operanti nella costituzione dell’identità personale e
la possibilità del rito di essere effettiva mediazione del senso, in forza della
sua originale capacità di mostrarne l’origine.
Se la carenza di elaborazione delle categorie, come già anticipato in aper­
tura, non riguarda solo questo punto ma più in generale tutto il rapporto tra
i dati delle scienze umane e la riflessione teologica dell’autore, essa si segnala
qui come indizio sintomatico di un modo di procedere che pone oggettiva­
mente un vizio in radice per tutto il seguito del discorso. Significativamente,
infatti, quando Didier intende affrontare il problema del rapporto tra fede e
sacramento, la sua nozione di rito si mostra insufficiente a giustificare il loro
nesso intrinseco. Nonostante la consapevolezza che la fede non può essere
considerata «una disposizione anteriore al rito» e l ’effettivo sforzo di supe­
rare il dualismo, egli non riesce di fatto a produrre altra motivazione che
quella ecclesiologica: il rito «ha il su o proprio, effetto » che riguarda in parti­
colare «la vita nella chiesa».26 Il rito è interno alla fede solo perché la fede ha
bisogno della mediazione ecclesiale. Il riferimento cristologico, senza di cui
il sacramento non potrebbe essere mediazione della fede «in Gesù», non
trova espressione. Ed effettivamente non può trovarla, se non a condizione
che la nozione di rito sia ripensata, per mostrarne il riferimento intrinseco al
costituirsi originario del rapporto dell’uomo con la verità.
Tra gli elementi caratterizzanti l ’agire rituale, Didier sottolinea soprattut­
to la simbolicità, riportando al riguardo le tre concezioni che hanno corso
nel dibattito: il simbolo come «insieme delle significazioni che circolano in
una cultura e attraverso le quali la società e l’individuo si identificano», il
simbolo come «struttura intenzionale che consiste in un rapporto del senso
al senso, del senso secondo al senso primo» (Ricoeur) e infine il simbolo
come «corrispondenza analogica tra elementi diversi di più strutture» (strut­
turalismo).

26 O.c., 113.
2. Area fra n cese 81

Pur nella consapevolezza del carattere eterogeneo, e in certa misura irri­


ducibilmente alternativo, di queste tre nozioni, Didier pensa di poterle ap­
plicare indistintamente al rito per metterne in risalto appunto la qualità sim­
bolica. Ancora una volta non mancano negli sviluppi del pensiero singoli
elementi degni di attenzione, ma la loro frammentarietà ne impedisce un
reale utilizzo. Senza seguire pertanto l’esposizione dell’autore, ci limitiamo a
cogliere un punto che dovrebbe risultare qualificante, perché connesso al ri­
ferimento «storico» dell’agire rituale.
Si tratta dell’interrogativo circa la capacità del simbolo di rendere ragione
del sacramento: il sacramento cristiano deve la sua specificità al simbolo o
c’è un «altro» elemento che fa subire al simbolo una decisiva trasformazio­
ne? Significativamente la domanda viene collocata nel paragrafo dedicato al­
l’applicazione sacramentaria della definizione del simbolo di Ricoeur. La ri­
sposta, infatti, viene cercata attraverso un parallelo con la problematica lin­
guistica, in particolare con gli sviluppi del dibattito sulla demitologizzazione.
Come il linguaggio mitico, così il simbolismo naturale non trova nella Rive­
lazione storica una smentita che lo renda insignificante, ma una correzione
che lo sottrae all’ambiguità.
La capacità di «transignificazione» del linguaggio biblico, infatti, non si
attua attraverso l’apertura del credente a una indefinita pluralità di sensi, ma
attraverso il riconoscimento di una relazione instaurata da Dio. In tal modo
il linguaggio cristiano, che rimane pur sempre linguaggio mondano con la
sua coerenza interna, si apre a una significazione non genericamente evoca­
tiva, ma riferita a un evento storico: chiamare Dio «Padre» non è affidarsi al­
le possibilità connotative del termine, ma rispondere a una chiamata, accon­
sentire all’azione con cui Egli si costituisce nella sua paternità verso di noi.
Allo stesso modo nel sacramento non è in primo piano il simbolismo na­
turale dell’acqua o del banchetto religioso. Esso è piuttosto «infranto»
{brisé) e rinnovato. Ciò che diventa determinante è l’azione storica di Gesù,
che ha caricato il simbolo di una nuova referenza: «il corpo e il sangue di
Cristo sono cibo e bevanda simbolici, ma in virtù di un atto d i Cristo che li
dona come tali, invitando a perpetuare questo atto in m em oriale».21 Sul carat­
tere simbolico del pane e del vino si innesta, così, una nuova ed originale re­
ferenza storica, chiamata da Didier «indice» (index).'
Mentre nel simbolo o nella metafora si instaura una relazione di rappre­
sentazione, nell’indice si realizza una relazione di anamnesi. Se la prima si
fonda sulla similarità (banchetto-comunione), la seconda si basa sulla conti­
guità tipica della metonimia, cioè della figura linguistica in cui si nomina una
parte per il tutto o la causa per l’effetto. Evidentemente nel sacramento si
tratta di una contiguità del tutto particolare, perché attraverso l’indice (pane

27 O.c., 58.
82 Parte prim a: Il dibattito

e vino eucaristici) viene intenzionato l ’originario: Gesù Cristo e il mistero


pasquale riattualizzato.
Nell’elaborazione di questa dimensione «indiziale» della ritualità va rico­
nosciuto a Didier lo sforzo di non appiattire il sacramento sul «rito», ma di
mantenerne l’indeducibile originalità che può essere affermata solo a partire
dal «rito di Gesù». La modalità non risulta, però, del tutto chiara e convin­
cente, perché il carattere di anamnesi proprio dell’indice viene immediata­
mente collegato all’agire di Gesù e dunque alla singolarità dell’evento cri­
stiano. Non si vede perché tale caratteristica non possa, anzi non debba, es­
sere propria del rito tou t court. Il rito, infatti, proprio per le caratteristiche
strutturali descritte dall’autore, non può mai avere un significato generica­
mente naturale, ma acquista senso soltanto all’interno di una tradizione isti­
tuita, e dunque storicamente caratterizzata.
Il mancato ripensamento teologico della nozione di rito, Ghe avrebbe ri­
chiesto quanto meno un confronto con la prospettiva biblica, fa sì che l ’ele­
mento specifico del sacramento cristiano compreso in riferimento al rito fi­
nisca con l ’apparire più un fattore estrinseco che un compimento singolare.

2.3. Chauvet

Il dibattito antropologico-sacramentario «culmina», secondo la critica,


nell’opera di L.-M. Chauvet, professore all’Institut Catholique di Parigi. La
sua produzione, infatti, raccogliendo l’eredità di varie ricerche antropologi­
che e filosofiche compiute negli anni precedenti, si è imposta all’attenzione
comune, non solo all’interno dell’area francofona, ma anche nel dibattito in­
ternazionale, suscitando numerose reazioni e prese di posizione.
Rispetto ai testi di Chenu e di Didier finora considerati, la produzione di
Chauvet si distingue non solo per ampiezza ed elaborazione, ma anche per la
portata degli obiettivi perseguiti. Il suo progetto, infatti, non mira soltanto a
una nuova comprensione del sacramento, ma a una nuova comprensione
della fede, e conseguentemente a una nuova figura di teologia. L ’interesse
direttamente sacramentario non è comunque escluso. Esso piuttosto è af­
frontato in una maniera diversa, ritenuta più consona agli orientamenti cul­
turali della postmodernità.
Il pensiero di Chauvet si trova .espresso principalmente in due saggi: Du
sytnbolique au sym b ole28 e S ym bole et sacrem ent.29 Poiché il primo viene rie­
laborato in maniera più ampia e articolata nel secondo,30 ci pare di poterne

28 Du sym boliq u e au sym bole. Essai sur les sacrem en ts, Cerf, Paris 1979.
29 S ym bole et sacrem ent. Une relectu re sa cra m en telle d e l ’ex istence ch rétien n e, Cerf, Paris
1987; tr. it.: Sim bolo e sacram ento. Una rilettura sacram entale dell'esistenza cristiana, Elle Di
Ci, Leumann (Torino) 1990. Le citazioni si riferiranno all’edizione italiana.
30 Così tende a presentarlo la critica, ad es. D. BOROBIO, El m od elo sim b òlico d e la sacra-
2. Area fra n cese 83

senz’altro prescindere e fermare la nostra attenzione sull’opera maggiore, di


cui recentemente Chauvet ha prodotto anche una versione più divulgativa.31
Come già accennato, Symbole et sacrement non intende essere un rifaci­
mento del De sacramentis in genere e questo non soltanto per la diversità
delle risposte che il cammino della riflessione teologica imporrebbe rispetto
all’impostazione manualistica, ma per un radicale cambiamento della do­
manda circa l ’identità del sacramento. Esso non viene accostato, infatti, co­
me una realtà a sé stante, dotata di autonoma sussistenza e di propri principi
di intelligibilità, grazie a cui si differenzia dalle altre componenti della vita
cristiana. Questa era l’impostazione tradizionale, che, oltre a numerosi altri
svantaggi, ha avuto anche il limite di condurre all’insignificanza e all’isola­
mento dei sette sacramenti rispetto all’esistenza del credente. I sacramenti,
invece, possono essere compresi soltanto se inseriti nella sacramentalità che
caratterizza tutta l’esistenza cristiana e la costituisce tale.
Ciò che il saggio intende offrire, dunque, non è prima di tutto una teolo­
gia del sacramento, ma «una teologia del “sacramentale”, cioè una teologia
che permetta una rilettura sacramentale, parziale dal suo punto di vista, ma
globale quanto alPestensione, dell’insieme dell’esistenza cristiana»?2 Non si
tratta, dunque, direttamente di un’opera di sacramentaria, ma di un saggio
di teologia fondamentale: «una teologia fondamentale della sacramentalità» ,33
Questo non significa che l’attenzione specifica al sacramento sia assente o
estenuata. Al contrario, almeno nelle intenzioni, il percorso di Chauvet deve
far risaltare i sacramenti in tutta la loro portata. Essi, infatti, rappresentano
la «figura» eminente della vita cristiana, perché fanno simultaneamente ve­
dere e vivere ciò che ne è l ’elemento costitutivo: la sacramentalità. Se in pas­
sato il sacramento veniva distinto da ciò che non aveva tratti sacramentali,
ora esso viene fatto emergere nella sua qualità rappresentativa dell’universo
simbolico cristiano.
Parlare dei sacramenti non è dunque fare un discorso su una realtà ester­
na all’uomo, ma parlare di lui: comprendere i sacramenti è comprendere se
stessi in quanto credenti, anzi riconoscere se stessi come già sempre «com­
presi» come soggetti in ciò che si cerca di «com-prendere».
La teologia di Chauvet assume così programmaticamente la prospettiva
ermeneutica come principio ispiratore della riflessione, mettendosi intenzio­
nalmente in alternativa a ogni forma di pensiero che pensi di poter rendere
ragione della realtà, riconoscendo in essa un fondamento che possa essere
raggiunto oggettivamente e universalmente: «Noi rinunciamo, per principio,
a pretendere di risalire all’origine e a rendere ragione delle cose».34

m en tologia, «Phase» 32 (1992) 229-246.


31 Les sacrem ents. P arole d e Dieu au risque du corp, Éditions Ouvrières, Paris 1993.
32 L.-M. CHAUVET, Sim bolo e sacram ento, o.c., 5.
33 Ibid.
34 O.c., 113.
84 Parte prim a: I l dibattito

Questa rinuncia costituisce di fatto un secondo tratto di novità che carat­


terizza la teologia di Chauvet; la domanda a cui la riflessione teologica deve
dare risposta non è più: «Perché i sacramenti?», ma: «Cosa significa per la
fede il fatto che essa sia intessuta di sacramenti?».35 Su questo punto la novi­
tà nei confronti della sacramentaria tradizionale diventa vero capovolgimen­
to, che coinvolge non soltanto una diversa dislocazione della sacramentalità
e quindi della riflessione teologica su di essa, ma una diversa figura di ragio­
ne teologica.
Chauvet è consapevole della posta in gioco in questa operazione di ribal­
tamento non solo del sacramento nel sacramentale, ma anche della questio­
ne veritativa nella descrizione interpretativa, e si dichiara convinto dell’in­
trinseco nesso tra i due problemi. «La rilettura globale [dell’esistenza cristia­
na] a partire dal punto di vista, parziale, della sacramentalità richiede un ro­
vesciamento dell’approccio classico. Questo rovesciamento tocca ultima­
mente i presupposti non criticati della m etafisica e del suo profilo sempre-
già onto-teologico».36 Non si può fare una teologia fondamentale della sa­
cramentalità se non abbandonando l ’eredità ontoteologica della teologia tra­
dizionale e contrapponendole un accostamento diverso alla realtà, più ri­
spettoso delPalterità, dell’assenza, della corporeità, del linguaggio: un acco­
stamento non più «metafisico», ma «simbolico». Si tratta dunque di sostitui­
re le opzioni filosofiche della teologia tradizionale con opzioni filosofiche
nuove, capaci di dare espressione alla realtà sacramentale.
Senza entrare per ora nel merito della questione, bisogna però subito no­
tare che delle due novità fondamentali dell’opera, il passaggio dal sacramen­
to al sacramentale e la nuova figura postmoderna di ragione teologica, in
realtà solo la seconda è un’effettiva innovazione. La prima, infatti, aveva già
trovato ampio spazio nella letteratura precedente, a dire il vero con accen­
tuazioni diverse, talora ispirate a un recupero delle prospettive patristiche di
fronte all’irrigidimento della definizione scolastica di sacramentum, altre vol­
te rifacendosi, almeno nominalmente, alla proposta di Rahner.
In ogni caso nessun autore aveva precedentemente ritenuto necessario
abbandonare la metafisica per poter pensare la sacramentalità. Chauvet ri­
tiene di doverlo fare e ritiene che proprio questo sia in ultima analisi
l ’elemento che qualifica la sua proposta e ne determina la portata di teologia
fondamentale. .

2.3.1.11 piano d e ll’opera'

Una immediata conferma del fatto che l ’elemento determinante della


proposta di Chauvet nasca più da uno spostamento filosofico che da una di­

35 Ibid.
36 O.c., 6.
2. Area fra n cese 85

versa intelligenza del sacramento viene dalla struttura stessa del saggio. Esso
risulta diviso in quattro parti che riguardano rispettivamente il passaggio
«dal metafisico al simbolico», «i sacramenti nella trama simbolica della fede
ecclesiale», « l’atto di simbolizzazione dell’identità cristiana» e le connessioni
tra «sacramentaria e cristologia trinitaria». L’intento fondamentale risulta
già evidente dai titoli, che non si riferiscono direttamente alle questioni tipi­
che della sacramentaria generale, ma alla possibilità e alle categorie necessa­
rie per poter parlare della sacramentalità della fede.
Esse vengono elaborate nella prima parte, in cui appunto si giustifica
l’accesso a un pensiero simbolico e l’abbandono di un pensiero metafisico.
Si tratta di pagine ampiamente caratterizzate dalla recezione delle tesi di
Heidegger sull’ontoteologia e dall’influsso delle scienze umane, soprattutto
la sociologia e la psicanalisi. Queste pagine, però, nel pensiero di Chauvet
non hanno solo carattere di critica fondamentale che apre la possibilità di un
nuovo discorso teologico, ma già direttamente valore sacramentario, perché
mettono in opera concetti e nozioni che si rivelano indispensabili per parlare
della sacramentalità. Il filo conduttore di questo primo momento giunge
gradualmente a precisarsi, con qualche consapevole enfatizzazione, come il
passaggio dal regime del «segno» a quello del «simbolo». Mentre il primo
regime si caratterizza per la logica, del mercato e del valore, in cui domina il
concetto e il linguaggio strumentale che assolutizzano la dimensione della
presenza, il secondo si costituisce come ordine del non-valore, della gratuità
e della grazia, che riconosce il ruolo originario del linguaggio nella costitu­
zione dell’uomo e lascia spazio all’assenza e alla differenza.
La prima parte si conclude sulla descrizione dell’ordine simbolico, men­
tre la seconda mette a tema l ’ordine simbolico cristiano, ovvero la struttura
dell’identità cristiana che risulta determinata dal rapporto inscindibile tra
Scrittura, Sacramenti ed Etica. Qui appare il guadagno del pensiero simboli­
co, che, a differenza del pensiero metafisico, sa rispettare i rapporti che
danno origine a questa struttura, mantenendoli in una tensione che non li
gerarchizza, ma appunto li articola reciprocamente.
Posta la struttura dell’ordine simbolico cristiano e colta la logica che ne
guida il funzionamento, viene precisato nella terza parte il ruolo specifico
del sacramento all’interno dell’ordine sacramentale: il sacramento è soltanto
una mediazione, ma una mediazione necessaria. Non però della salvezza,
bensì dell’identità cristiana: come senza simboli non si diventa uomini, così
senza sacramenti non si diventa cristiani. Qui trovano collocazione le que­
stioni classiche dell’efficacia e dell’istituzione, con soluzioni prevedibilmente
in buona parte alternative a quelle tradizionali.
L’ultima parte intende formulare, sempre a partire dal simbolico, una
cristologia trinitaria che indichi quale Dio «ad-viene» attraverso i sacramenti
nella corporeità del credente.
Chauvet ritiene di poter giustificare questa struttura dell’opera facendo
86 Parte prim a: Il dibattito

riferimento a due assi portanti che guiderebbero l ’esposizione: l’asse del lin­
guaggio e del simbolico da una parte e quello del lo gos della croce dall’al­
tra.37 Si tratta, più semplicemente, del principio antropologico e di quello
cristologico.
Il primo, secondo una tendenza dominante della sensibilità attuale, viene
caratterizzato a partire dal corpo. Se infatti il simbolico è il regime dell’ac­
cesso al senso, il simbolo antropologico per eccellenza, o più enfaticamente
l’«arcisimbolo», è il corpo, da intendere non solo nel senso stretto del corpo
fisico, ma anche in quello più ampio di corpo culturale (la tradizione, il lin­
guaggio) e cosmico.
Il secondo si qualifica come lo gos della croce, secondo la tendenza della
teologia recente ad assumere l ’evento della croce come chiave di compren­
sione e di presentazione di tutta la cristologia. Non sembra si possa esclude­
re, però, in questa accentuazione della croce nel pensiero di Chauvet la sua
obiettiva convenienza con il discorso heideggeriano sulla «meontologia». Se
infatti egli precisa che «il Dio crocifisso non è l’Essere cancellato»,38 ricono­
sce che in entrambi i casi è in gioco uno stesso atteggiamento «grazioso» di
consenso a una perdita e a uno spossessamento.
Dei due assi, in realtà, sembra largamente prevalente il primo.39 Sebbene
Chauvet precisi, infatti, che essi non sono estranei l ’uno all’altro, quello che
fa da chiave di lettura non è quello staurologico, bensì quello antropologico.
In ogni caso, i sacramenti, situandosi all’incrocio dell’uno e dell’altro, do­
vrebbero avere la capacità di collegarli simbolicamente, nel rispetto della lo­
ro radicale differenza.
L’esposizione del pensiero sacramentario dell’autore dovrà verificare l’ef­
fettiva riuscita di questa articolazione, segnalando l’eventuale difetto di ela­
borazione cristologica che la distribuzione delle parti e l ’impostazione me­
todologica sembra segnalare.
Questa prima presentazione di insieme della struttura dell’opera risulta
necessaria per permettere una esposizione sintetica del saggio di Chauvet.
L’opera infatti non sfugge sempre a un certo carattere enciclopedico,40 che
se da un lato la arricchisce di molti sviluppi interessanti, dall’altro la fa di­
sperdere in analisi secondarie, che non giovano alla linearità dell’esposizio­
ne, e forse del pensiero.

37 Cfr. o.c., 7.
38 O .c.,54.
39 Cfr. A. CAPRIOLI, I l sacram ento tra conoscenza sim bolica e rivelazione, «La Scuola Cat­
tolica» 117 (1989) 452-464,454.
40 Cfr. Y. LABBÉ, R éception s th éologiq u es d e la «postm odernité», «Revue de Sciences Phi-
losophiques et Theologiques» 72 (1988) 397-462,402 e 405.
2. Area fra n cese 87

2.3.2. Dal m etafisico a l sim bolico


2.3.2.1. O ltrepassare la m etafisica

La prima parte del saggio è dedicata a delineare la necessità e le modalità


del passaggio dal metafisico al simbolico, condizione necessaria per un nuo­
vo accostamento alla sacramentalità. La domanda che dà l’avvio alla ricerca
è di carattere teologico e riguarda i motivi che hanno indotto la teologia tra­
dizionale a utilizzare come categoria privilegiata per parlare del rapporto sa­
cramentale con Dio la «causalità», nozione che non sembra adatta ad espri­
mere un incontro di «grazia». Chauvet ritrova questi motivi fondamental­
mente nei «presupposti impensati» che sono operanti nella teologia scolasti­
ca, immediatamente ricondotta e assimilata sotto questo profilo al pensiero
metafisico della tradizione occidentale.
Il pensiero metafisico, infatti, di cui è espressione emblematica il Filebo
di Platone, adotta uno schema interpretativo di tipo produzionista, in cui
anche il rapporto tra soggetti viene pensato secondo il modello causale ope­
rante nella fabbricazione di oggetti materiali. Alla radice di questo riduzioni­
smo vi sarebbe la diffidenza intellettualistica verso il divenire e la sua inde­
terminatezza, non riconducibile alla chiarezza del concetto. La pretesa meta­
fisica di dominare la realtà con il pensiero, assoggettando il reale alla delimi­
tazione concettuale, porterebbe inevitabilmente a una chiusura verso ciò che
è incompiuto, che si sottrae alla logica della definizione, che è continuo «ad-
venire», come la libertà del soggetto.
Più radicalmente opererebbe in questa forma di ragione, secondo la de­
nuncia di Heidegger, la dimenticanza della differenza ontologica, che con­
duce all’identificazione dell’Essere con la proprietà comune a tutti gli enti e
alla confusione tra ontologico e ontico. Ne deriva una forma di pensiero che
può essere descritta come «rappresentativa», perché si rappresenta l ’Essere
annullandone di fatto l ’alterità; «fondativa», perché pone l’Essere come cau­
sa prim a e ultim a ratio di ogni ente, fino a produrre il concetto metafisico di
Dio come causa sui\ e «dualista», perché introduce una dicotomia cosmolo­
gica tra sensibile e intelligibile, che diventa poi dualismo logico tra Essere e
linguaggio e tra soggetto e oggetto.
Chauvet è convinto che questa eredità ontoteologica abbia esercitato un
influsso decisivo sulla teologia cristiana: «il Dio cristiano è stato assimilato al
Sommo Bene, all’Uno senza principio, al Motore primo, all’en s suprem um ,
alla Causa ultima, in una parola, come dice Heidegger, a quel “valore supre­
mo” che è “il più ente di ogni ente”».41 È questa logica del valore, del fon­
damento, del «Medesimo» che ha impedito alla teologia di pensare la logica
di «grazia», di «non-valore» operante nei sacramenti e di uscire in questo

41 O.c., 29.
88 Parte prim a: Il dibattito

modo dalla rappresentazione causale del rapporto sacramentale con Dio.


Per questo se si vuole pensare la grazia, e quindi la sacramentalità, occorre
oltrepassare la metafisica.42
Presiede a questo passaggio la filosofia di Heidegger, affiancata però, in
una sorprendente convergenza di intenti, dalla psicanalisi (Lacan). Heideg­
ger ha da offrire alla teologia proprio «un discorso della grazia»:43 accogliere
la sua filosofia significa iniziare a pensare l ’Essere non più come fondamen­
to, ma come puro dono, e concepire il rapporto dell’uomo all’Essere non
più come dominio del concetto sulla realtà, ma come disapprop'riazione, ma­
tura vicinanza all’assenza, abbandono (G elassenheit). La psicanalisi permette
all’interrogazione filosofica di ritrovare il suo luogo nel corpo dell’uomo,
mostrando come esso sia la mediazione ineludibile di ogni accesso al reale e
sottraendola in questo modo alla tentazione di accedere a evidenze imme­
diate.
Esito dell’oltrepassamento della metafisica è l’apertura all’ordine simbo­
lico di cui, senza seguire nel dettaglio la laboriosa esposizione di Chauvet,
cerchiamo sinteticamente di delineare i tratti essenziali.

2.3.2.2. L’ord in e sim bolico

L’ordine simbolico «designa il sistema di rapporti tra i diversi elementi e


i diversi livelli (economico, sociale, politico, ideologico - etica, filosofia, reli­
gione...) di una cultura; sistema che forma un tutto coerente tale da permet­
tere al gruppo sociale e agli individui di orientarsi nello spazio, di ritrovarsi
nel tempo, di situarsi nel mondo in maniera significante».44 Questa defini­
zione di Chauvet ci permette, meglio di altre considerazioni e sviluppi setto­
riali, di intendere la sua alternativa al pensiero metafisico. Occorre, innanzi
tutto, notare in questa definizione che quando si parla del simbolico ci si ri­
ferisce non ad un singolo elemento, definibile appunto come «simbolo», ma
a un ordine di rapporti che costituiscono un sistema. Il simbolo, nella sua
concezione, non è infatti una particolare realtà, un «elemento» tra gli altri:
esso è piuttosto un «rapporto» tra elementi. Per questo non lo si può com­
prendere fino a quando si mantiene, più o meno consapevolmente, una con­
cezione monadica della realtà, presumendo, di poter conoscere tanto meglio
un oggetto quanto più lo si delimita e lo si distanzia dagli altri oggetti (de­
finizione).
Il simbolo dice invece la necessità di accostarsi alla realtà a partire dal si­
stema di rapporti da cui essa è costituita e di mantenere come determinante

42 «Noi crediamo che il pensiero della grazia - perché è di questo che ultimamente si trat­
ta nei sacramenti - richieda un altro itinerario di pensiero» [o.c., 34).
43 O.c., 45.
44 O.c., 61.
2. Area fra n cese 89

la collocazione di ogni singolo elemento all’interno di questo sistema. L’or­


dine simbolico, infatti, non costituisce un insieme di rapporti qualunque, ma
una struttura, cioè una rete di rapporti tale che la trasformazione di uno im­
plica la trasformazione dell’insieme. Solo la struttura, perciò, permette l ’esi­
stenza e la intelligibilità delle parti che lo costituiscono. Tale legame di ten­
sione dinamica tra elementi diversi convergenti in un’unità di senso è il mo­
tivo per cui, secondo l’etimologia della parola, si parla di «sim-bolo». Il ca­
rattere strutturale di questi rapporti, poi, fa sì che si preferisca l’espressione
«ordine» simbolico.
I rapporti che costituiscono l’universo simbolico sono sostenuti da una
legge di coerenza che permette all’individuo di orientarsi nella realtà, di co­
gliere, grazie alle relazioni tra i vari livelli, un senso unitario nell’esistenza. Il
soggetto, in questa prospettiva, non crea il senso della realtà né lo attinge in
maniera immediata, quasi fosse offerto come un dato empirico. Il senso del
reale si presenta invece sempre al soggetto solo attraverso la mediazione del­
l’ordine simbolico circolante nella sua cultura.45 In questo modo il singolo
può costituirsi, può ad-venire, attraverso l’instaurazione di legami sensati, e
si può realizzare lo scambio sociale. In altre parole il simbolo è « l’operatore
di un patto sociale di riconoscimento reciproco e, perciò, un mediatore di iden-
tità».4&
Ciò che costituisce la più radicale novità di questa impostazione è che il
simbolo attua la sua funzione insostituibile nella costituzione dell’identità
personale e sociale grazie alla sottomissione dell’ordine teorico all’ordine
pratico. Ciò che fonda la stessa possibilità del pensiero è un’esperienza pra­
tica che lo precede, quella appunto dell’appartenenza a una rete di rapporti
che trovano la loro collocazione più originaria nell’ambito del corporeo e
non del «mentale». Solo accettando la mediazione corporea il soggetto entra
nel simbolico, ovvero nel regime del senso, che invece gli sfugge necessaria­
mente, qualora il livello teorico venga assolutizzato e affermato come l’origi­
ne del senso.
Si intravede già il parallelismo che permetterà a Chauvet di parlare dei
sacramenti come della mediazione corporea dell’identità cristiana, media­
zione non unica, ma portatrice di un apporto originale e insostituibile per la
sua peculiare collocazione nell’ordine simbolico cristiano.
Poiché, secondo l’indicazione programmatica del titolo del saggio, è il
simbolo a costituire la chiave di lettura del sacramento è necessario insistere
sulla chiarificazione dell’ordine simbolico, precisando in primo luogo la sua
differenza rispetto alla logica del segno, e poi raccogliendo le attese che
l ’autore affida all’introduzione di questo nuovo modello, attese che costituì-
r

45 «N on c ’è rea le um ano, p er quanto interiore o intim o, ch e nella m ediazione d e l linguaggio


e d e l quasi-linguaggio ch e g li dà corpo esprim endolo» (o.c. ,65).
46 O.c., 80.
90 Parte prim a: Il dibattito

scono altrettante giustificazioni per un ribaltamento radicale della teologia


in genere, e della sacramentaria in specie.

2.3.2.3. S egno e sim bolo

Attuando una distinzione netta tra segno e simbolo, Chauvet è consape­


vole di operare una forzatura, poiché «segno e simbolo sono sempre mesco­
lati nel concreto»47 e non è possibile darne una distinzione adeguata. Questa
enfatizzazione della differenza ha però un valore euristico, che permette di
portare in primo piano là diversa logica che è operante nei due casi.
Alla logica del segno appartiene la considerazione di una realtà come ap­
partenente a un certo ordine differente da un altro, a cui per qualche moti­
vo, naturale o convenzionale, essa rimanda. Prevale in questo caso l ’identifi­
cazione separata dei due ordini e il loro successivo collegamento, grazie ap­
punto al fatto che un elemento del primo è segno di un elemento del secondo.
Il simbolo, invece, secondo il suggerimento di E. Ortigues, non rinvia a
un ordine diverso da sé, ma ha la funzione di introdurci in un ordine di cui
anch’esso fa parte e che si presenta come ordine significante. Esso ci presen­
ta innanzi tutto un insieme di rapporti, un ordine di senso a cui rinvia mo­
strandosene parte simbolica: «un sim bolo fa em erg ere tu tto l ’ord in e sim b olico
a cu i appartiene» :48 In questo modo il simbolo si sottrae, a differenza del se­
gno, alla logica del mercato e del valore. Esso non conta per ciò che è, per
l’uso che se ne può fare, ma per lo scambio che permette tra i soggetti, per la
gratuita presentazione di senso che effettua. Se un francese ascolta inaspetta­
tamente in una terra lontana una parola nella sua lingua madre, egli non la
coglie prima di tutto per il suo valore d’uso corrente in patria, cioè per il suo
carattere di significante linguistico (logica del segno), ma per la sua capacità
evocativa di un sistema di affetti, di conoscenze, di identificazione persona­
le, che vengono immediatamente richiamati nella loro interdipendenza strut­
turale (logica del simbolo). Risulta qui evidente che considerare uno stesso
elemento, nel caso una parola, come segno o come simbolo significa far
emergere due diverse possibilità in esso presenti, richiamarsi a due polarità
che non si escludono, ma appartengono a logiche profondamente diverse.
Se il simbolo ha questa capacità evocativa dell’ordine del senso è perché
in esso opera un riferimento a un Terzo assente, che la logica duale signum -
res non prevede. Il simbolo, infatti, raccoglie gli elementi in un sistema di
rapporti coerenti grazie a un riferimento a qualcosa di ulteriore che tutti co­
loro che accettano l’ordine simbolico riconoscono come tale. I rapporti sim­
bolici non si tengono vicendevolmente se non presentandosi sotto un prin­

47 O.c., 80.
48 O.c., 82.
2. Area fra n cese 91

cipio che è all’origine dell’ordine simbolico e la cui accettazione costituisce


la condizione per il riconoscimento reciproco. Chauvet, sempre sulla scorta
di Ortigues, ritiene che il simbolo presenti questo riferimento all’origine del
senso fondamentalmente in maniera «negativa»: il simbolo risulta «testimo­
ne del posto vacante»,49 esso cioè rinvia all’originario mostrandone la distan­
za e preservandone la radicale alterità. L’origine, il Terzo termine, si rende
presente sempre simbolicamente, ovvero si rende presente attraverso la sua
assenza, non vuota, ma colma dei simboli che ne testimoniano l’alterità irri­
ducibile.
Si potrebbe osservare che tale connotazione, probabilmente, non rende
del tutto ragione della singolare efficacia del simbolo e sembra cedere ad
un’assolutizzazione della alterità: il primato della presenza imputato alla tra­
dizione metafisica rischia semplicemente di capovolgersi in un primato del­
l’assenza. In questo caso si perderebbe il vero guadagno del simbolico, ovve­
ro la capacità di articolare il dato immediato e il senso, mantenendone la dif­
ferenza, ma senza radicalizzarla. A questo dovrebbero condurre anche le af­
fermazioni di Chauvet che sostengono l’effettiva capacità del simbolo di
concernere «quanto c ’è d i più reale d i n o i stessi e d el nostro m on d o» ?0 supe­
rando la tradizionale tendenza a ritenerlo un semplice ornamento comunica­
tivo, che però non coinvolge l’immutabile corpo della verità. Nella prospet­
tiva di Chauvet risulta, invece, chiaro che non è più possibile pensare l’ordi­
ne del simbolo come derivato da quello del segno, ma occorre riconoscere la
sua anteriorità, il suo carattere istitutivo del senso del reale.
Ancora una volta è facile anticipare la critica di Chauvet alla teologia che
ha visto nel sacramento un segno, fondamentalmente estrinseco, di una gra­
zia appartenente a un ordine spirituale in sé compiuto. Ben più confacente
alla logica della grazia risulterà una visione simbolica del sacramento che
grazie al suo potere evocativo, dovuto alla sua testimonianza dell’originario
cristologico, permetterà il costituirsi dell’identità cristiana del soggetto cre­
dente all’interno della società-Chiesa.

2.3.21.4. Il ruolo d el sim bolo

Il ruolo che viene affidato al simbolo da Chauvet è decisamente rilevante:


esso risulta la nuova categoria in grado di favorire una radicale trasforma­
zione a diversi livelli.
In primo luogo, sul piano «epistemologico» il simbolo permette di supe­
rare Passolutizzazione della ragione rappresentativa, mantenendo la com­
plessità dei rapporti che costituiscono la struttura del senso. Al primato del­

49 O.c., 84.
50 O.c. ,88.
92 Parte prim a: I l dibattito

la definizione e del positivo si sostituisce l ’attenzione alla descrizione che


non procede per alternative, ma rispetta il negativo (ciò che una cosa non è)
e la differenza, proponendo una chiarezza diversa da quella del concetto.
Questo elemento diventerà decisivo nella presentazione dell’ordine simboli­
co cristiano, perché consentirà di ricomporre in unità i tre livelli della Scrit­
tura, dei Sacramenti e dell’Etica, che nella teologia tradizionale risultano
tendenzialmente irrelati. Il momento sacramentale, in particolare, troverà la
sua intelligibilità non nella distinzione dagli altri momenti, ma nel rapporto,
nella tensione con essi.51 In questo senso il simbolo restituisce maggiormente
la complessità del reale, rimandando continuamente all’esperienza pratica
dei rapporti che costituiscono l’ordine simbolico. Su questa via se il rischio
della ragione definitoria era la semplificazione, il rischio della ragione sim­
bolica potrebbe essere la fragilità che non raggiunge alcuna chiarezza.
Sul piano «antropologico» l ’introduzione del pensiero simbolico consen­
te, secondo Chauvet, delle acquisizioni di notevole importanza, come il su­
peramento di una concezione strumentale del linguaggio, la restituzione del
valore del momento sociale dell’esperienza, il riconoscimento del ruolo del
desiderio e dell’inconscio, e soprattutto la valorizzazione del corpo, a lungo
impedita dall’assolutizzazione del teorico.
Il linguaggio, tradizionalmente inteso come uno strumento per dar voce a
significati indipendenti da esso, trova finalmente il riconoscimento che la
sua funzione originaria non è quella informativa, ma quella interpellante.
L’uomo è preceduto dalla parola perché «il linguaggio è la m ediazione in cu i
il so g getto s i costru isce costru en d o il reale co m e “m on d o”»}2 Su questo punto
Chauvet associa alla riflessione heideggeriana sulla parola come interpella-
zione dell’esistenza umana da parte dell’Essere il contributo della linguistica
(Benvéniste) e della psicanalisi (Lacan).
La prima permette di pensare in maniera diversa la differenza, associan­
dola non tanto allo schema mentale della distanza-lontananza, in cui il diver­
so risulta un ostacolo alla verità immediata, ma riconducendola alla catego­
ria di alterità. L’alterità, in cui differenza e similitudine sono articolate, si of­
fre come luogo della comunicazione: «essere altro» non ha più una connota­
zione negativa, ma è la condizione per poter comunicare nello spazio della
reciprocità. In questa luce diventa pensabile anche la comunicazione sacra­
mentale tra Dio e l ’uomo nello spazio della loro radicale differenza.
La psicanalisi consente di motivare lo schema iniziatico che è in gioco
neH’identificazione del soggetto nel linguaggio, e quindi anche in quel parti­
colare linguaggio rituale di cui è intessuto il sacramento. Questo schema

51 «I sacramenti sono solo un elem en to tra g li altri all’interno della configurazione episte-
mica particolare della fede; come tale, questo elemento funge cristianamente solo come rinvio
agli altri con i quali forma un sistema» (o.c., 113).
52 O.c., 62.
2. Arca fra n cese 93

mostra come l ’uomo giunge alla vita, ovvero alla sua identità, attraverso la
morte, ovvero attraverso la rinuncia alle proprie rappresentazioni immediate
per accettare la legge del distanziamento. Solo rinunciando a essere tutto e
ad avere tutto, il soggetto diventa qualcuno. «La verità del soggetto dipende
dal suo consentimento psichico alla perdita (manque) che lo costituisce e che si
apre in lui attraverso il linguaggio».511
In tal modo il linguaggio si afferma come luogo dell’iniziazione dell’uo­
mo al senso, in cui il soggetto si costituisce all’interno dello scambio sociale,
attraverso il consentimento all’irriducibile alterità, di cui il significante lin­
guistico è espressione. Il simbolo fa passare in secondo piano il linguaggio-
strumento, e pone in piena luce il linguaggio-mediazione, aprendo così la
strada a una teologia del sacramento come mediazione eminente della genesi
del credente. Poiché «il soggetto è contemporaneo alla mediazione e non an­
teriore a essa o dissociabile da essa»,54 sarà possibile pensare il nesso intrin­
seco tra fede e sacramenti,55 uscendo da ogni ipotesi alternativa suscitata da
una loro concezione strumentale.
Tralasciando altri elementi antropologici favoriti dal simbolo, richiamia­
mo ancora quello che Chauvet ritiene primordiale, ovvero il corpo. Il corpo
infatti è la «mediazione arci-simbolica ineludibile di ogni identificazione
soggettiva».56 Anche in questo caso si tratta di superare una concezione stru­
mentale, per aprirsi alla logica della mediazione. Il corpo non deve più esse­
re pensato come uno strumento posseduto da un io interiore precostituito,
ma come luogo originario dell’articolazione del senso, in cui l’ordine simbo­
lico affonda le sue radici. Tutte le mediazioni primarie dell’identificazione
personale, infatti, sono schemi corporali: lo schema dell’altezza, della pro­
fondità, della differenza destra-sinistra, avanti-dietro, prima-poi. È nella e
con la mediazione del mio corpo che io sono io, senza alcun interstizio tra
me e il mio corpo.57 Ma non solo. Il mio corpo è parlante, cioè mediazione
della mia identità, solo perché già parlato. Esso, legato fin dall’origine agli
altri, è già abitato da un sistema di valori proprio del gruppo di appartenen­
za che costituisce il corpo sociale, ed è in relazione con la tradizione storica
(corpo ancestrale) e cori l’universo (corpo cosmico). Esso, dunque, unisce
simbolicamente e articola tutte le dimensioni dell’ordine del senso. Per que­
sto nulla è reale al di fuori di questa mediazione. E anche la fede, il rapporto
con Dio, «ad-viene» solo in quanto «prende corpo»: grazie alle mediazioni
della Scrittura, dell’etica e, in modo particolare, dei sacramenti, che sono
appunto «parole de Dieu au risque du corp».

53 0 .c., 69.
54 O.c., 78.
55 «La fede ci appare così come "sacramentale” p er costituzione e non soltanto per deriva­
zione» (o.c., 109).
56 O.c., 79.
57 Cfr. o.c., 105.
94 Parte prim a: I l dibattito

Sul piano «ontologico», come già richiamato in precedenza, il simbolo ha


il ruolo di operare l ’oltrepassamento dell’ontoteologia, ristabilendo la diffe­
renza ontologica, rinunciando alle pretese fondative e mantenendo la com­
plessità dei rapporti, senza assolutizzare la definizione. Esso libera perciò la
teologia da un’eredità che l ’ha pesantemente condizionata, aprendole nuove
possibilità. In questo modo la ricerca teologica, recuperando un lungo isola­
mento e un grave ritardo, può trovare nuova collocazione nel dibattito con­
temporaneo, grazie al rinnovamento delle sue strutture formali. Allo stesso
tempo, essa può anche dotarsi di una nuova configurazione, guidata dal
principio della sacramentalità della fede, che impone di ripensare «tu tto il
campo teologico - dalla creazione fino all’escatologia, dalla teologia trinita­
ria fino all’etica, dalla cristologia all’ecclesiologia...»,58 sempre nel rispetto
del sistema simbolico dei rapporti costitutivi dell’identità cristiana.
Sul piano «teologico», dunque, i benefici offerti dal modello simbolico
sono molti. Può nascere il sospetto che siano anche troppi o troppo rapida­
mente giudicati tali. E certo comunque che, per quanto riguarda la sacra­
mentaria, il guadagno maggiore è la possibilità di uscire dal regime della
causalità. Se la prima parte del saggio si era aperta con la problematizzazio­
ne della sacramentaria causalistica tradizionale, essa si chiude annunciando
la possibilità di un’impostazione teologica diversa. Nel solco intralinguistico
della comunicazione operativa della parola, e sembrerebbe solo in esso, di­
venta pensabile la realtà extra-linguistica della grazia sacramentale: un nuo­
vo rapporto di collocazione, un lavoro simbolico di «ricever-si», che il segui­
to del saggio intende chiarire

2.3.3. L’ord in e sim b olico cristiano: la sacram entalità


2.3.3.1. La strutturazione sacram entale della fe d e

La seconda parte del saggio è dedicata a delineare i tratti dell’ordine sim­


bolico cristiano. Non si tratta, secondo il modello teologico di Chauvet, di
rendere ragione della realtà della fede, ma di mostrarne semplicemente l ’i­
dentità, descrivendone la struttura sacramentale. Questo è possibile grazie
all’introduzione del pensiero simbolico, che permette di non isolare gli ele­
menti della struttura di rapporti che definisce l ’ordine cristiano e di non ge-
rarchizzarli, ma di riconoscere la loro tensione costitutiva. Tale procedimen­
to, coerente con l ’impostazione della prima parte, permette a Chauvet di
raggiungere il duplice obiettivo di dare alla sua teologia un profilo fonda-
mentale e di superare l ’isolamento del discorso dei sacramenti rispetto alla
trama simbolica della vita cristiana.

58 O.c., 113.
2. Area fra n cese 95

La posizione della struttura dell’identità cristiana avviene attraverso un’a­


nalisi dei testi scritturistici che descrivono il processo di costituzione della
fede, tra i quali viene privilegiato il racconto di Emmaus.
Come per i discepoli di Emmaus, l ’accesso alla fede pasquale richiede a
ogni cristiano che «ci si sbarazzi del desiderio di vedere-toccare-trovare per ac­
cettare di ascoltare una parola [...] riconosciuta come parola di Dio».59 Dopo
la Pasqua, infatti, siamo nel tempo della Chiesa, in cui il Signore non è più
visibile: solo chi rinuncia a voler avere esperienza immediata del suo corpo
di carne lo può trovare nel suo «corpo di parola», ovvero nella ripresa che la
Chiesa fa del suo messaggio. Occorre accettare che la tomba sia vuota e ri­
nunciare a incontrare il Signore secondo le proprie aspettative, per imparare
a incontrarlo «secondo le Scritture», che capovolgono le nostre attese. «Il
corpo del Cristo risorto può essere riconosciuto solo a partire dal suo corpo
scritturale, a sua volta ricostituito e articolato per mezzo del suo corpo ec­
clesiale».60
Gesù Risorto è, pertanto, l ’Assente che si rende presente ai discepoli at­
traverso il suo «sacramento» che è la Chiesa, ma la sua presenza sacramen­
tale nella Parola diventa riconoscibile solo quando l’ascolto delle Scritture
sfocia nella ripetizione dei suoi gesti rituali. Se il credente non vede più il Si­
gnore, la Parola lo invita però a ritrovarlo nei gesti simbolici fatti dalla Chie­
sa nel suo nome, soprattutto nella frazione del pane. Il vuoto della sua pre­
senza diventa lo spazio in cui si collocano con il loro dinamismo simbolico i
riti ecclesiali.
Questo riconoscimento fa sì che l’apertura alla fede si realizzi immedia­
tamente nella forma di una missione: si incontra il Risorto rendendo testimo­
nianza che egli è presente nelle azioni rituali compiute nel suo nome. Il dono
della Parola viene accolto soltanto quando si assume l’atteggiamento di con-
tro-dono dell’annuncio e della fraternità ecclesiale suscitati e resi possibili
dalla mediazione sacramentale.
In questa rapida delineazione della strutturazione della fede sono in gio­
co vari elementi. Innanzi tutto vi è la caratterizzazione della fede come risul­
tante di un processo in cui intervengono tre poli in reciproco riferimento: il
polo scritturistico, quello sacramentario e quello etico. Il soggetto, infatti,
viene costituito come credente soltanto quando la parola viene accolta nella
testimonianza etica attraverso la mediazione del sacramento. Il riconosci­
mento del Risorto richiede, però, che questi tre elementi siano colti nella lo­
ro intrinseca relazione, senza cedere alla tentazione «necrotica» di isolarli
per attribuire a uno di essi in maniera esclusiva la presenza del Signore. Una
tale frattura, infatti, comporterebbe la riduzione della fede rispettivamente a
un sapere religioso, cioè un sistema chiuso che assolutizza la Parola; a un

59 O.c., 116.
60 O .c., 120.
96 Parte prim a: Il dibattito

«immaginario» sacramentale, cioè un sistema magico-ritualistico, e infine a


una sorta di moralismo farisaico. In tutti e tre i casi il «Vivente» verrebbe ri­
dotto a un «corpo morto» o a un «oggetto disponibile», che può essere as­
servito alle nostre ideologie e ai nostri desideri.
E proprio per evitare questo esito, che compromette l’autenticità della fe­
de, che occorre riconoscere la sua identità simbolica, frutto di una relazione
dinamica e coerente tra Scrittura, Sacramenti ed Etica. Questo riconosci­
mento simbolico, però, non può essere immediato, ma richiede un processo
di abilitazione che consiste fondamentalmente nel divenire capaci di accon­
sentire alla dialettica di presenza-assenza del Risorto61 e alla sua mediazione
ecclesiale.

2.3.3.2. Il p o sto vacan te e la Chiesa sacram ento

La dialettica di assenza e presenza del Signore ruota intorno al nodo della


sua visibilità. Egli, infatti, è presente, ma non visibile, e questa nuova moda­
lità di presenza richiede di essere riconosciuta attraverso un lavoro di «perla-
borazione» del proprio desiderio. È necessario da parte del soggetto un su­
peramento delle pretese di dominio, di sicurezza immediata, di possesso del­
la fisicità delle cose analogo a quello richiesto nel passaggio dalla logica del
segno a quella del simbolo. Come solo la morte al proprio immaginario im­
mediato permette l ’accesso al senso, così solo la morte alla propria pretesa di
catturare in maniera rassicurante la presenza del Signore permette l ’accesso
alla fede.
Chauvet parla a questo riguardo di «consentimento a una perdita»62 o
anche di «rinuncia all’inserimento diretto, gnostico, su Gesù Cristo»63 e ca­
ratterizza questo processo prevalentemente come un capovolgimento psichi­
co, sempre insidiato dal potere inconscio dell’immaginario che si accanisce
nel negare l’assenza e Palterità per far valere le pretese del desiderio. La non
visibilità del Signore non è però assoluta, perché è mediata dalla visibilità
della Chiesa. Per questo se la fede è da un lato consentimento a una man­
canza, è anche dall’altro consentimento alla Chiesa in cui il Signore si lascia
incontrare.
Qui si coglie il nodo della struttura sacramentale della fede: l ’ordine cri­
stiano è tutto «sacramentale» perché tutto segnato da questa «mediazione
ecclesiale» della presenza del Risorto. La Chiesa è la presenza simbolica del
Signore e pertanto ne è il «sacramento fondamentale». Come lo scambio so­
ciale è la condizione dell’ad-venire del soggetto all’interno dell’ordine del

61 «Cristo Gesù è assente in quanto “il medesimo”; è presente ormai soltanto come “l ’Al­
tro”» (ibid.).
62 O.c., 121.
63 O.c., 122.
2. Area fra n cese 97

senso grazie all’efficacia del simbolo-parola, così la Chiesa permette il costi­


tuirsi simbolico-sacramentale dell’identità del credente grazie all’efficacia
della sua triplice mediazione «scritturaria» (sic!), sacramentaria ed etica.
Va notato come in questo punto nodale del discorso di Chauvet compaia,
con un ruolo decisivo, la tesi, tutt’altro che nuova, della Chiesa sacramento:
se si può parlare di sacramentalità della fede è in dipendenza dalla sacra­
mentalità fondamentale della Chiesa, a sua volta derivata dalla sacramentali­
tà originaria di Cristo.64
Si deve riconoscere in queste affermazioni la comparsa dell’influsso di
Rahner, che troverà più avanti completamento nell’assunzione della conce­
zione dei sacramenti come autorealizzazioni della Chiesa sacramento.65 La
presenza delle tesi rahneriane giunge però, in questo snodo decisivo del di­
scorso, piuttosto «inattesa», e questo per almeno due motivi. Innanzi tutto
perché non sembra che Rahner possa sottrarsi radicalmente alle critiche
mosse verso la tradizione metafisica, rispetto a cui invece la proposta di
Chauvet vuole essere rigorosamente alternativa. In secondo luogo, per la to­
tale disattenzione del saggio alla proposta rahneriana di un recupero del
simbolo per la teologia sacramentaria, proposta che dovrebbe imporsi come
ovvio termine di confronto per ogni teologia simbolica dei sacramenti.
La modalità dell’introduzione della tesi della Chiesa sacramento lascia
così pensare che essa, più che direttamente da Rahner, sia in realtà assunta
dalla k oin é rahneriana postconciliare, come un dato pacifico e quindi imme­
diatamente disponibile per la teologia, senza previa discussione. Questa im­
mediata disponibilità, però, non sembra coincidere automaticamente con il
rigore e la chiarezza. E in effetti nelle affermazioni di Chauvet circa la Chie­
sa sacramento non si riesce a trovare una determinazione precisa della capa­
cità rappresentativa, o forse meglio ri-presentativa, del Risorto propria della
comunità ecclesiale.
Chauvet attribuisce forse troppo alla Chiesa quando rilegge l’episodio di
Emmaus prevalentemente nei termini della mediazione ecclesiale della visi­
bilità del Risorto,66 disattendendo la radicale incapacità della comunità dei
discepoli a procurare il mostrarsi del Signore. Il registro dell’assenza, dell’al-
terità, dell’invisibilità non va radicalizzato67 fino a parlare di un vuoto abita­
to dalla Chiesa, perché dai testi «matriciali» della strutturazione della fede

64 Va peraltro notato che il rapporto tra Cristo sacramento originario e Chiesa sacramen­
to fondamentale non è in alcun modo oggetto di analisi. La sacramentalità di Gesù Cristo
compare solo come titolo nello schema che intende riassumere graficamente la concezione
dell’autore (o.c., 122).
65 O.c., 220s.
66 «Dietro i lineamenti del Risorto che fa, sulla strada di Emmaus, l’ermeneutica delle
S critture in funzione del suo personale destino messianico, come non riconoscere la Chiesa e
il suo kerigma pasquale?» (ibid.).
67 Ad es. in affermazioni come questa: «È proprio nel rispetto della sua radicale assenza o
alterità che il Risorto può simbolicamente essere riconosciuto» (o.c., 126, corsivo nostro).
98 Parte prim a: II dibattito

emerge con chiarezza che chi si fa vedere è proprio Lui e l’iniziativa, per i
discepoli del tutto inattesa, è esclusivamente sua.
D’altro lato le attribuisce forse troppo poco quando sostiene che la Chie­
sa «radicalizza la vacanza del posto di Dio»68 e che essa «è fedele alle proprie
particolari caratteristiche solo quando in certo senso le dimentica per aprirsi
al Regno, più grande di lei, che cresce nel mondo».69
L’articolazione del nesso cristologico-ecclesiologico costituisce indubbia­
mente un nodo complesso e delicato, ma, poiché su di esso si fonda la sacra­
mentalità dell’esistenza credente che Chauvet ha scelto come tema diretto
del suo discorso, l ’esigenza di una maggiore chiarezza non avrebbe dovuto
essere disattesa. D’altra parte, la difficoltà a mostrare il nesso dell’azione ec­
clesiale con il suo principio cristologico sembra trascrivere nell’ordine cri­
stiano la problematica enfatizzazione del ruolo «negativo» del simbolo che
all’interno dello scambio sociale sa mostrare l ’origine del senso solo come il
«Terzo Assente». Sotto questo profilo l ’ordine simbolico cristiano ripetereb­
be semplicemente il dinamismo di ogni scambio simbolico sociale, senza che
la differenza escatologica del mostrarsi della verità cristologica corregga le
modalità di designazione del trascendente.
E in effetti alla carenza di elaborazione cristologica sembra supplire il ri­
ferimento antropologico. Se le modalità della dipendenza cristologica della
sacramentalità fondamentale della Chiesa, quale si realizza nella connessione
simbolica di Scrittura/Sacramento/Etica, rimane non investigata, Chauvet
riconosce invece facilmente la dipendenza dell’ordine simbolico cristiano da
un modello trascendentale, che ne giustifica la pertinenza antropologica. Si
tratta del dinamismo umano più fondamentale: conoscenza/riconoscenza/
prassi. Di essa la struttura cristiana costituisce in ultima analisi la ripresa, di
cui però, di là dalle dichiarazioni di intenti, si fatica a riconoscere la radicale
novità, indeducibile da qualsiasi trascendentale.

2.3.3.3.7 rapporti Scrittura/Sacramento e Sacramento/Etica e il fu n z ion am en to


della struttura

In assenza di un’elaborazione effettiva della nozione di sacramentalità,


l ’approfondimento del rapporto tra i sacramenti e gli altri elementi della
trama sacramentale cristiana non riesce a comporre i numerosi, talora sugge­
stivi, spunti teorici in un quadro sobrio e rigoroso.
La sacramentalità della Scrittura si risolve, se comprendiamo bene la
«lunga deviazione» di Chauvet al riguardo, da un lato nella sua ecclesialità e
dall’altro nella sua qualità di Presenza di Dio. La Scrittura è sacramentale,
prima di tutto, perché costitutivamente ecclesiale, a motivo della sua dipen­

68 O.c., 125.
69 O.c., 128,
2. Area fra n cese 99

denza dalla pratica liturgica della comunità e della sua destinazione ad essa,
come al proprio luogo originario. Solo nella celebrazione, infatti, la Scrittura
può svelarsi sacramentalmente per ciò che è, in piena coerenza con le teorie
semio-linguistiche del testo e con il principio secondo cui il lettore, più pre­
cisamente il corpo sociale lettore, è essenziale al testo.
In secondo luogo, ma anche qui va notata la difficoltà ad articolare tra lo­
ro i due riferimenti, la Scrittura è sacramentale perché nella sua qualità di
lettera custodisce l ’alterità irriducibile della Parola. Questo naturalmente
solo qualora ci si sappia accostare alle Scritture non come a un idolo che ri­
produce il nostro volto, ma come a un’icona che, secondo le acute analisi di
Marion, preserva e rivela l’alterità del divino. Lo statuto iconico di scarto
permette alla lettera della Scrittura di far valere la sua resistenza a lasciarsi
piegare dalla pretesa di dominio del soggetto. «Essa è parola al presente solo
come lettera tesa tra il passato che racconta e il futuro che annuncia. Proprio
per questo resiste a ogni appropriazione gnostica di una presenza piena».70
La comunità, e all’interno di essa il singolo credente, è invitata così dalla sa­
cramentalità della lettera a mettersi in movimento, a riconoscere l’alterità
della Parola e a lasciarle spazio nella propria storia, nel proprio corpo. Si
tratta cioè di passare dalla tavola delle Scritture a quella del Sacramento, poi­
ché è proprio attraverso di esso che la Parola prende corpo: «la lettera-sacra­
mento si precipita in corpo-sacramento nelle mediazioni espressive dei riti».71
Il rapporto Scrittura-Sacramenti viene così riletto alla luce della sacra­
mentalità della Parola, forse ripetendo il movimento che aveva portato nella
prima parte del saggio a leggere l’efficacia del simbolo a partire dal perfor­
mativo linguistico. Chauvet sostiene che per essere rigorosi non si dovrebbe
neppure parlare di Parola e Sacramento, ma di «liturgia della Parola nella
modalità di Scritture e di liturgia della Parola nella modalità di pane e vino»?2
perché il Sacramento non aggiunge nulla di diverso alla Parola,73 bensì le
permette di «inscriversi» nella corporeità e così realizzarsi come vera comu­
nicazione di Dio all’uomo. Poiché il corpo è Parcisimbolo antropologico,
nulla entra a costituire l ’identità del soggetto se non attraverso di esso. Per­
tanto anche la presenza del Risorto nella Parola, custodita dalla corporeità
della lettera-sacramento, non è accolta dall’uomo fino a quando non viene
«in-scritta» nel suo corpo,-che diventa così anch’esso sacramento e media­
zione della fede.
Perché questa «in-scrizione» sia reale, occorre però che essa sia verificata

70 O.c., 153.
71 O.c., 154.
72 O.c., 155.
73 «Sarà sem p re nella m odalità della com unicazione effettuata dalla parola che dobbiamo
intendere la comunicazione di Dio nel sacramento» {o.c., 155); «l’itinerario teologico fin qui
proposto condanna recisamente come falsa pista qualsiasi riflessione che veda nei sacramenti
un “più” o una “altra cosa” rispetto alle Scritture» (221).
100 Parte prim a: Il dibattito

nella vita. Il momento sacramentale, infatti, è e deve essere in connessione


simbolica con il momento morale. Il rapporto Scrittura/Sacramento si apre
pertanto dall’interno al rapporto Sacramento/Etica, che non sopraggiunge
per derivazione, ma costituisce la verifica del processo effettivo di struttura­
zione della fede. *
Il rapporto tra rituale ed etico si presenta piuttosto complesso perché se­
gnato non solo dallo statuto storico-profetico del culto giudaico e dalla sua
valenza critica nei confronti di un ritualismo alienante, ma anche dalla «lace­
razione» escatologica introdotta dalla Risurrezione di Gesù. In forza del pri­
mo principio il rito era già diventato la figura simbolica della congiunzione
tra amore di Dio e amore del prossimo, in forza del secondo esso perde ra­
dicalmente il suo potere di giustificazione del credente, seguendo la sorte
toccata alle altre opere della legge. «Il culto primo dei cristiani», infatti, «è
quello dell’accoglienza [della] grazia di Dio nella loro vita quotidiana attraver­
so la fede e la carità teologali» .74
Il rapporto del Sacramento con l ’Etica è dunque duplice. Da un lato esso
viene dall’Etica e ne rappresenta una visibilizzazione rituale (rito come «ri­
velatore simbolico»), dall’altro esso rimanda all’Etica come mediazione del
prendere corpo della Parola (rito come «operatore simbolico»). Se il secon­
do aspetto richiama la dipendenza dell’Etica dall’accoglienza della Parola, il
primo richiede alla memoria rituale di verificarsi in memoria esistenziale,
ovvero come culto reso a Dio in una vita di carità.
Il discorso di Chauvet circa il culto cristiano come dimensione che non
solo informa l’Etica, ma ne è anche verificata mostra un’ovvia plausibilità.
Più difficile ci risulta invece seguire l’autore nelle affermazioni circa l ’imme­
diata accoglienza del Risorto nell’esperienza quotidiana, che ci sembrano tra
l ’altro in contrasto con l ’insuperabilità della mediazione sacramentale per
l ’accoglienza della Parola. Se è vero che i due rimandi «Etica/Sacramento» e
«Sacramento/Etica» non devono essere contrapposti, ma articolati, è però
anche vero che essi non sono sullo stesso piano.
La difficoltà può essere precisata osservando la qualificazione del rito
nelle pagine dedicate al suo rapporto con l’etico, qualificazione oscillante tra
una affermazione della portata teologica del rito e una sua riduzione a mo­
mento pedagogico e morale.75
Da un lato, si intende sostenere la valenza teologica del rito, perché la fe­
de cristiana non annulla il sacro, ma lo capovolge qualificandolo sul piano
teologale. Ciò che qualifica irriducibilmente il sistema simbolico cristiano e
al suo interno il rapporto tra manifestazioni sacre e impegno morale non è
una differenza etica, ma metaetica.76

74 O.c., 176.
75 Cfr. A. BERTULETTI, Il sacro e la fe d e , «La Scuola Cattolica» 123 (1995) 665-688, 687s.,
n. 47.
76 Cfr. L.-M. C hauvet , o.c., 182
2. Area fra n cese 101

Dall’altro, tale valenza teologica viene livellata di nuovo sull’etico affer­


mando che i sacramenti sono costituiti dal «rimando della memoria rituale
alla memoria esistenziale»77 e che la liturgia è la «grande pedagogia in cu i im ­
pariam o a d a ccon sen tire a questa presenza della mancanza di Dio ch e ci ch iede
di dargli corp o in qu esto m ondo, compiendo così il sacramento in “liturgia
del prossimo”, e la memoria rituale di Gesù Cristo in memoria esistenzia­
le».78
Ancora una volta alla radice dell’oscillazione ci sembra di ritrovare la ra-
dicalizzazione dell’assenza di Dio, che in questo caso troverebbe nel rito
massima espressione e che verrebbe colmata dal rimando alla presenza di
Dio nel fratello da amare, recuperando in tal senso gli orientamenti della
teologia della secolarizzazione e della teologia politica. Se la struttura del­
l ’ordine simbolico cristiano consiste nel sistema di rapporti sopra delineato
tra Scrittura, Sacramenti e Etica, il suo funzionamento si realizza secondo un
«processo eucaristico» che assegna rispettivamente ai tre elementi il ruolo di
«dono», «recezione» e «contro-dono».
Senza indugiare oltre sull’analisi del dinamismo descritto da Chauvet, ba­
sti qui fermare l ’attenzione sulla qualifica del momento sacramentale come
momento di recezione. Questa connotazione mette bene in evidenza la di­
pendenza del sacramento dalla Parola e l’esigenza di completamento nel­
l ’impegno morale. L’identità del sacramento viene così compresa totalmente
come mediazione, passaggio, cioè in un modo che supera radicalmente ogni
forma di isolamento del momento rituale rispetto all’insieme della vita cri­
stiana. Inoltre «se il sacramento è un semplice punto di passaggio, è però un
punto di passaggio obbligato».79 Senza di esso la strutturazione dell’identità
cristiana non è possibile.80 Per chiarire questa necessità dell’elemento sacra­
mentario, all’interno del sistema simbolico tutto sacramentale, la terza parte
del saggio cerca di precisarne teologicamente la specificità.

2.3 A. I sacram enti, atti d i simbolizzazione rituale


2.3.4.1. M ediazione an tropologicam ente insuperabile

La terza parte del saggio intende finalmente mettere in luce l’originalità


del Sacramento all’interno dell’ordine simbolico cristiano. La riflessione pre­
cedente ha già escluso che tale specificità debba essere cercata in qualcosa di
aggiuntivo, che risulterebbe assente nel momento scritturistico e in quello

77 O.c., 181.
78 O.c., 183.
190 .c., 196.
80 Cfr. anche L.-M. CHAUVET, La structuration d e la f o i dans les célébrations sacram entel-
les, «La Maison-Dieu» 174 (1988) 75-95.
102 Parte prim a: Il dibattito

etico. Il che equivale a sostenere il superamento, già patrocinato da Rahner,


della nozione di opus operatum come concetto che permette la distinzione
tra il sacramento e altri eventi di grazia.
Se l ’originalità del sacramento non può essere ritrovata sul versante di
una sua efficacia esclusiva, anche perché tale procedimento risponderebbe
ancora alla tentazione metafisica della chiarezza definitoria, occorre muover­
si sulla linea della modalità particolare in cui la sacramentalità della fede
viene espressa nel Sacramento.81 Su questa via Chauvet accoglie la tesi rah­
neriana dell’impegno radicale della Chiesa nelle celebrazioni che costituisco­
no il settenario, ma ritiene di doverla rendere meno «astratta». La radicalità
dell’impegno ecclesiale che costituisce l ’originalità del sacramento consiste,
concretamente, nella modalità rituale della celebrazione: la Chiesa si impe­
gna «al suo massimo livello» perché si impegna «attraverso un rito». Sarà
dunque l’analisi del comportamento rituale a permettere di far risaltare la
specifica funzione del sacramento nel processo di strutturazione della fede.
Chauvet avverte il rischio di una possibile sostituzione della teologia sacra­
mentaria con un’antropologia rituale, ma pensa di poterlo evitare, perché la
pertinenza della mediazione rituale può essere provata teologicamente al­
l ’interno della coerenza della fede cristiana.82 '
Le pagine dedicate al rito sono generalmente considerate dalla critica tra
le migliori del saggio, per la vastità deH’informazione e l’equilibrio delle tesi.
Certamente sono tra le più lineari e costituiscono una buona sintesi fenome­
nologica su uno dei temi più discussi non solo nell’ambito liturgico-sacra-
mentario, ma anche generalmente antropologico.
La legge fondamentale del rito è la sua essenza pragmatica. Esso non ap­
partiene all’ordine della «-logia» (ordine cognitivo, proprio della teologia),
ma all’ordine della «-urgia» (ordine pratico, proprio della liturgia). Se il pri­
mo si caratterizza per la prevalenza del dire e del livello dei significati, il se­
condo si distingue per la prevalenza del fare e del livello dei significanti. Nel
rito « ciò ch e è rea lm en te d etto è ciò ch e è fa tto » :Si in primo piano non sono i
contenuti, ma l’atto pratico della loro mediazione; non l ’enunciato, ma l ’e­
nunciazione e la sua efficacia performativa. In questo modo il rito evidenzia
la dimensione più originaria di ogni pratica, in quanto mette in gioco, o me­

81 «[L a storia] ci insegna particolarmente che ogni ingresso nella sacramentaria attraverso
la porta troppo stretta della differenza specifica dei sacramenti, della loro validità o del puro
concetto, rischia di finire in una deriva verso un giuridismo stretto, se non in un’arida c a s i ­
stica. Se c’è un tempo, certo necessario, per focalizzare, c’è anche un tempo per “defocaliz­
zare”... Non mi pare, in altri termini, che l’oggetto “sacramento” possa essere ben trattato
teologicamente che a partire dal vasto orizzonte della sacramentalità» [L.-M. CHAUVET, La
th éo lo gie sacram entaire est-elle an-esthésique?, «La Maison-Dieu» 188 (1991) 7-39,35].
82 Su questo tema, cfr. L.-M. CHAUVET, R itualité et th éo lo gie, «Recherches de Science Re­
ligieuse» 78 (1990) 535-564.
83 L.-M. CHAUVET, S ym bole e t sacrem ent, o.c., 224.
2. Area fra n cese 103

glio mette «in scena», l’auto-implicazione costitutiva del linguaggio della fe­
de, ovvero quella caratteristica per cui esso opera non nella trasformazione
tecnica del mondo, ma nella trasformazione di colui che agisce. L’azione ri­
tuale non vale, innanzi tutto, come segno che rimanda a un significato men­
tale, ma come simbolo che implica la presa di posizione del soggetto nei
confronti dell’ordine simbolico evocato.
Intorno a questa caratteristica fondamentale di pratica simbolica, che in­
dividua lo specifico del rito, Chauvet dispone, senza pretesa di esaustività,
quattro componenti tipiche dell’agire rituale: la rottura simbolica, la pro­
grammazione e reiterazione, la sobrietà e la simbolica indiziale.
La rottura simbolica è la caratteristica per cui il rito si colloca in un topos
diverso da quello della quotidianità e della normalità dell’esistenza e permet­
te in questo modo di passare dal regime funzionale della fruibilità delle cose
al regime simbolico del loro senso. Questa eterotopia, che coinvolge tutte le
componenti dell’azione rituale (il luogo, il tempo, gli oggetti, gli agenti, il
linguaggio, i gesti e le posizioni del corpo) richiede sul piano pastorale una
sapiente negoziazione tra le due opposte tendenze alla, sacralizzazione esa­
sperata e alla banalizzazione dissacratrice. La prima, infatti, trasformerebbe
l ’alterità del rito in estraneità, la seconda ne assorbirebbe il potere simboli­
co. Perché il rito possa funzionare è sempre necessaria una giusta distanza
rispetto all’immediato e all’utilitario, una distanza che crea spazio per la gra­
tuità e l’alterità di Dio. Solo la rottura simbolica, infatti, ci spossessa del no­
stro consueto atteggiamento verso le cose, delle nostre consuete idee su Dio,
della nostra sicurezza etica, per aprirci all’esperienza della grazia, la cui alte­
rità traspare grazie all’eterotopia delle sue mediazioni.
Anche la programmazione e reiterazione del rito hanno un profondo si­
gnificato teologico, perché attraverso il loro intrinseco riferirsi a una tradi­
zione ricollegano l ’agire della comunità alla sua storia e alla sua origine. La
celebrazione della cena del Signore, ad esempio, viene ripetuta, e ripetuta al­
lo stesso modo, perché si intende fare ciò che ha fatto Gesù, come l’ha fatto
Lui e perché l ’ha fatto Lui. In tal modo, programmazione e ripetizione sono
una confessione in atto della radicale e insuperabile dipendenza della comu­
nità dal Signore e un’attestazione della sua continuità con la tradizione apo­
stolica. Anche in questo caso non sono esclusi i rischi di deviazioni verso il
fissismo rubricistico o l’improvvisazione naturalistica. Ma l’impossibilità di
risolvere a priori una volta per tutte questo delicato equilibrio conferma l’o-
riginarietà del momento pratico del rito, che nessuna teoria può restituire.84
Il regime di sobrietà in cui il rito viene celebrato è determinante per

84 Appartiene al rigore del discorso sacramentario prendere in conto «la parte di indeci­
sione a cui è votata la liturgia, poiché si tratta di una pratica, e di una pratica simbolica» [L.-
M. CHAUVET, La th éo lo gie sacram entaire est-elle an-esthésique?, «La Maison-Dieu» 188
(199 1)7 -39 ,3 6].
104 Parte prim a: II dibattito

esprimere lo scarto escatologico del «non ancora» del Regno. Per l ’esercizio
del simbolismo eucaristico è sufficiente un poco di pane, che proprio in for­
za della pochezza del segno fa risaltare il riferimento simbolico al banchetto
escatologico. Attraverso questa sobrietà viene anche imposta un’ascesi all’e­
suberanza romantica della soggettività, sempre bisognosa di «esprimersi»: il
credente impara così a mettere se stesso a disposizione del mistero, e non vi­
ceversa.
Il rito, infine, permette la progressiva socializzazione all’interno del grup­
po grazie alla sua capacità di posizionare i soggetti, integrandoli nella comu­
nità e assegnando loro un ruolo differenziato. Allo stesso tempo, tutta la co­
munità viene individuata attraverso i riti che essa celebra e qualificata nella
sua identità.
Grazie a queste caratteristiche il rito si presenta come la «simbolizzazione
dell’uomo totale» che offre alla corporeità la sua espressione più ricca e pro­
fonda. Nell’atto pratico della celebrazione del rito, infatti, il corpo fisico, so­
ciale, ancestrale e cosmico dell’uomo viene colto nel suo riferimento al sacro
e viene dunque riconosciuto nella sua arcisimbolicità più radicale.85 In forza
di questa capacità di mostrare operativamente il nesso dell’arcisimbolo cor­
poreo con il mistero della grazia, il rito risulta una mediazione «antropologi­
camente insuperabile» 86 nel processo di strutturazione dell’identità del cre­
dente.
Con queste affermazioni siamo al cuore del discorso di Chauvet sul tema
strettamente sacramentario: alla domanda circa il senso dell’esistenza di sa­
cramenti nell’ordine simbolico cristiano si può rispondere con la «rilevanza
antropologica» del momento rituale che permette di capire perché la Chie­
sa-sacramento trovi nei sette sacramenti il momento del suo impegno più
«radicale». Così, non senza enfasi, riassume Chauvet: «La sconcertante alte­
rità e santità di questo Dio crocifisso non si confessa mai così bene come nel
suo ritiro, mediante lo Spirito, nella corporeità umana. Precisamente, i riti
sacramentali, come luoghi di grazia del tutto umano - il troppo umano -
della materialità significante dei gesti, posture, oggetti e parole che li costi­
tuiscono sono non solo la figura, ma la figura più eminente di questa proces­
sione dal Dio divino nella sua recessione nel cuore del più umano. E questo in
ragione della loro specifica modalità di espressione, irriducibile ad altro».87
La fede cristiana, dunque, è vera solo quando accetta grazie ai sacramenti
la mediazione decisiva della corporeità per il riconoscimento credente di
Dio. Contro ogni tentazione metafisica e logocentrica i sacramenti permet­
tono e richiedono P«incorporazione della fede». Questo è il loro ruolo, in
questo dinamismo consiste la loro specificità.

85 Cfr. L.-M. CHAUVET, La th éo lo gie sacram entaire est-elle an-esthésique?, art. cit.
86 L.-M. CHAUVET, S ym bole et sacrem ent, o.c., 256.
87 O.c., 256.
2. Area fra n cese 105

2.3.4.2. D ialettica d i istitu en te e istituito

Nella dialettica di «istituente» e «istituito» Chauvet rilegge e riformula le


due problematiche tradizionali dell’istituzione e dell’efficacia dei sacramenti.
La chiave di lettura è esplicitamente linguistica. Come la forza istituente
del linguaggio, cioè la sua capacità di mediare l’ad-venire del soggetto, di­
pende dall’assoggettamento al carattere istituzionale del codice linguistico,
così l ’operatività sacramentale nella strutturazione della fede («l’istituente
sacramentale») dipende dal riconoscimento dell’origine cristologica del sa­
cramento («l’istituito sacramentale»). In entrambi i casi, ciò che permette al­
la mediazione di agire come tale è il riconoscimento della sua origine altra,
irriducibile e precedente rispetto a qualsiasi iniziativa del soggetto indivi­
duale e sociale.
Il linguaggio ha quel ruolo determinante nella costituzione dell’identità
antropologica che la prima parte del saggio ha mostrato, grazie a una legge
che nessuno ha mai potuto decretare come tale, perché è il presupposto ra­
dicale del suo funzionamento come lingua. Allo stesso modo i sacramenti
valgono nella loro potenzialità di momento strutturante della fede in forza
della loro capacità di rimandare a un atto istitutivo originario e anteriore a
qualsiasi iniziativa ecclesiale. Essi in tanto realizzano la loro «efficacia»88 ec­
clesiale, in quanto mostrano che la Chiesa è «istituita da un Altro e non isti­
tuente di se stessa».89 E fanno questo proprio nella loro positività di evento
rituale programmato, legato a una tradizione storica e ultimamente alla deci­
sione di Gesù Cristo. La Chiesa di fronte alla contingenza di un rito deter­
minante per la sua identità, ma sulla cui sostanza essa non ha potere, profes­
sa la sua dipendenza radicale dal Signore. E questo non innanzi tutto «di­
scorsivamente», mediante formule e concetti, ma «praticamente», nell’atto
stesso della celebrazione.
Per questa via Chauvet ritrova il riferimento al «posto vacante» che aveva
già caratterizzato la puntualizzazione del ruolo della Chiesa-sacramento. Se
in genere la Chiesa mostra se stessa presentandosi come testimone del posto
vacante del suo Signore, i sacramenti in modo particolare attestano e preser­
vano l ’incolmabilità di questa vacanza, l’impossibilità di catturare il mistero
di Dio nella rete dei nostri desideri e del nostro immaginario.
Figura esemplare di questa resistenza dell’istituto sacramentale a ogni
tentativo gnostico di appropriarsi del divino è l’eucaristia: «la resistenza di
Cristo a qualsiasi riduzione da parte della nostra “fede” trova nell’eucaristia
la sua espressione radicale» .90 Di essa Chauvet propone un radicale ripensa­

88 II termine va preso con cautela, perché storicamente compromesso con una prospettiva
produzionista.
89 O.c., 261.
90 O.c., 276.
106 Parte prim a: Il dibattito

mento che, in coerenza con la svolta postmetafisica, permetta di compren­


derne l ’identità non più a partire dalla nozione di transustanziazione, ma in
termini e categorie simboliche.91
Il nesso immediato che Chauvet sembra cogliere tra il problema dell’isti­
tuzione e quello della transustanziazione segnala, però, il rischio di uno slit­
tamento del discorso nel senso di una preterizione della storia,92 slittamento
che in modo diverso era già presente nella tesi rahneriana dell’istituzione dei
sacramenti «implicita» nell’istituzione della Chiesa. Non pare, infatti, imme­
diatamente chiaro come la questione dell’istituzione possa semplicemente
tradursi nell’affermazione della «resistenza» dei sacramenti. Se la ricerca sul­
l ’istituzione deve essere sottratta all’interesse positivistico e apologetico del­
l’epoca moderna, essa non può però essere risolta nell’affermazione dell’ec­
cedenza cristologica dei sacramenti se non mostrando, attraverso la lettura
teologica del dato positivo, i motivi per cui tutti e sette i sacramenti (e solo
essi) sono detti «istituiti».
Sull’altro versante, il carattere «istituente» dei sacramenti consiste nella
loro capacità di portare a compimento l’essenza della Chiesa, ovvero la sua
comunione con il Padre per Cristo nello Spirito. Essi possono fare questo
perché sono un evento di grazia, e come tali devono essere pensati.
Questo richiede, innanzi tutto, un diverso modo di concepire l’operativi­
tà sacramentale, superando la contrapposizione tra aspetto manifestativo e
aspetto realizzativo. Questa contrapposizione, infatti, ha dato origine a una
duplice im passe: oggettivistica, propria del modello ontoteologico, che asso-
lutizza il carattere delpefficacia fino a cadere in una sorta di produzionismo
della grazia, e soggettivistica, propria di varie correnti che estenuano il sacra­
mento come semplice visibilizzazione di una grazia già accolta. Sulla scorta
del Vaticano II bisogna invece tentare un’integrazione, che permetta di mo­
strare come il sacramento sia allo stesso tempo «rivelatore» e «operatore».
Questo è possibile solo nella prospettiva dell’ordine simbolico, a partire dal­
la considerazione del performativo linguistico e dell’efficacia simbolica dei

91 La nozione di transustanziazione ha avuto degli indubbi vantaggi, ma è debitrice della


tendenza ontoteologica ad isolare gli elementi del reale, senza mantenerne la connessione e il
rimando reciproco. Nella fattispecie questo significa che la p erfectio dell’Eucarestia viene po­
sta nella consacrazione della materia, minimizzando la sua destinazione umana (il valore an­
tropologico del pane e del vino) e sottacendo il carattere costitutivo della relazione ecclesiale
(il Cristo dell’Eucarestia è il Christus totus, capo e corpo). Per ovviare a questi limiti Chauvet
propone un approccio simbolico al mistero eucaristico, che riconosca Yad-esse (ovvero la re­
lazione) come costitutivo d e ll’esse sacramentale. L’identità dell’Eucarestia è manifestata so­
prattutto dalla frazione del pane, simbolo per eccellenza delì’ad-esse di Cristo che offre la sua
vita per noi e gesto di “frattura” che mostra la necessità di riconoscere il Signore nella sua al­
terità. L’Eucarestia è figura emblematica della «presenza della mancanza di Dio», presenza
«inscritta, ma mai circoscritta» (o.c., 278).
92 Questo avviene nonostante la pretesa da parte dell’autore di correggere la cristologia e
la sacramentaria tomiste, tendenzialmente astoriche (cfr. la quarta parte del saggio).
2. Area fra n cese 107

riti.93 Il linguaggio e il rito, infatti, rendono possibile un diverso posiziona­


mento tra soggetti (aspetto operativo) agendo sulle modalità di rappresenta­
zione del reale (aspetto manifestativo). E questo grazie al comune assogget­
tamento del gruppo all’ordine simbolico circolante e alla dimensione il-
locutoria, cioè autoimplicativa, della loro enunciazione/celebrazione.
Il pensiero simbolico mostra qui tutta la sua fecondità, perché mette a
frutto il superamento della concezione strumentale del linguaggio e permet­
te, quindi, di mostrare come nell’espressione esteriore si effettui la differen­
ziazione interiore che costituisce il soggetto. Esprimere è dunque operare e
viceversa, perché nell’ordine simbolico il più spirituale si realizza nel più
corporale, la strutturazione dell’identità avviene nella mediazione linguistica
e gestuale. I sacramenti, pensati come simboli, sono operatori «in quanto»
rivelatori e rivelatori «in quanto» operatori. Essi danno visibilità a una grazia
già accolta, ma allo stesso tempo mostrano come l’accoglienza della grazia
non sia reale se esclude intenzionalmente la sua espressione ecclesiale e sa­
cramentale.
Emblematico è, al riguardo, il caso del sacramento della riconciliazione.
Se bisogna riconoscere che il peccatore «è perdonato da Dio nel suo movi­
mento interno di pentimento», bisogna però anche affermare che la conver­
sione è «originariamente attraversata di ecclesialità e tesa verso la sacramenta-
lità».94 Il sacramento, pertanto, «opera» il perdono in quanto «rivela» sim­
bolicamente la grazia da cui è nato il pentimento, e lo «rivela» in maniera
veramente «operativa» perché, grazie alla sua modalità rituale, permette il
consenso pieno alla grazia nella sua essenziale mediazione ecclesiale.
A chi obiettasse che se il sacramento non aggiunge nulla di nuovo, esso
risulta inutile, si deve rispondere che bisogna collocarsi su un altro piano e
non concepire più la grazia come «qualcosa da ricevere». Il sacramento, in­
fatti, non può, neppure per una tenue analogia, essere considerato uno stru­
mento, e il suo effetto non è un prodotto finito. La grazia del sacramento
quale emerge da una teologia simbolica è, invece, una trasformazione di iden­
tità, un divenire credenti, un lavoro simbolico di strutturazione del proprio
rapporto con Dio. Insomma non un ricevere qualcosa, ma un «riceversi»95
che, se non è attribuibile in maniera esclusiva e puntuale al momento sacra­
mentale, trova però in esso la massima visibilità e quindi la massima attua­
zione.
Se questo «lavoro simbolico» che è la grazia viene pensato sul modello

93 Chauvet fa convergere in questo esito le analisi linguistiche di Ladrière e quelle ritolo­


giche; di Isambert, che peraltro hanno mostrato di essere tra loro in vivace polemica. Cfr. la
dura critica alla posizione di Ladrière contenuta in F. ISAMBERT, R ite e t effica cité sym bolique,
Cerf, Paris 1979,100-113.
94 L.-M. C hauvet , o.c., 298.
95 O.c., 302.
108 Parte prim a: II dibattito

del performativo linguistico e dell’efficacia sociale dei riti, ciò non significa
ridurre il divino all’antropologico, il trascendente al sociologico. Chauvet af­
ferma esplicitamente che la trasformazione sociale dei rapporti indotta dal
lavoro del rito non è la grazia teologale, il dinamismo antropologico operan­
te in esso non è l’agire di Dio. La grazia rimane rigorosamente irriducibile a
qualsiasi processo antropologico, come anche a qualsiasi tentativo di spiega­
zione da parte della teologia.
Il lavoro simbolico del rito è, però, ciò che alla grazia assomiglia di più. E
quando la teologia ha mostrato questo, non le rimane altro da fare. Poiché
essa non deve rendere ragione, né spiegare, il suo compito si esaurisce nel-
l ’indicare un modello che permette alla grazia di essere pensabile in modo
omogeneo alla sua natura di realtà interpersonale gratuita e «altra».
Chauvet ritiene, pertanto, che la sostituzione del modello causale del
«valore» con il modello simbolico del «non-valore» sia il non piccolo guada­
gno della sua proposta teologica.

2.3.5.1 sacram enti, fig u r e sim b olich e della cancellazione d i Dio

L’ultima parte del saggio, dedicata al rapporto tra sacramentaria e cristo­


logia trinitaria non introduce delle sostanziali novità rispetto al discorso fi­
nora sviluppato. Essa mira fondamentalmente a mostrare la convergenza di
una teologia sacramentale simbolica con una cristologia trinitaria centrata
sull’evento della croce, come evento della cancellazione di Dio. Poiché il suo
interesse è solo indirettamente sacramentario possiamo prescindere da un’e­
sposizione dei contenuti, limitandoci a cogliere qualche elemento più rile­
vante per il nostro tema.
Occorre, anzitutto, notare la connessione molto stretta che Chauvet pone
tra teologia sacramentaria e cristologia. Questo si traduce sul piano critico in
una ulteriore denuncia delle pecche della sacramentaria tomista, conseguenti
a una, cristologia troppo univocamente incentrata sull’unione ipostatica, e
sul piano propositivo in un tentativo di ripensare la cristologia e la teologia
trinitaria a partire dall’evento della croce, cioè in una prospettiva omologa al
pensiero simbolico della cancellazione dell’Essere.
Se il contributo della sacramentaria alla cristologia viene evidenziato in
un dossier liturgico, che documenta la necessità di assumere come punto di
partenza del discorso cristologico il mistero pasquale, più difficile risulta in­
vece ritrovare come la cristologia illumini e sostanzi la teologia dei sacra­
menti. Lo svolgimento della riflessione cristologica, infatti, non fa altro che
convenire con i risultati dell’impostazione antropologica seguita nelle prime
tre parti del saggio. Manca, invece, il chiarimento sulla qualità della dipen­
denza cristologica dei sette sacramenti, ovvero sull’elemento che dovrebbe
mostrarne l ’assoluta originalità alPinterno dell’ordine simbolico cristiano.
2. Area fra n cese 109

Sotto il titolo II p o lo cristologico: i sacramenti, m em oria d el crocifisso risor­


to vengono sviluppate quattro tesi relative a una teologia del Crocifisso che
si ispira a Moltmann e Jungel, ma esse rimangono remote rispetto al tema
sacramentale. Allo stesso modo l’investigazione del polo pneumatologico
della sacramentaria non produce altro guadagno che la necessità di riferirsi
non alla positività della celebrazione come comunicazione dello Spirito, ma
alla corporeità, cioè indistintamente all’antropologico, come luogo in cui
viene inscritta la differenza radicale di Dio.
Torna così la tensione, già denunciata, tra l’affermazione della portata in­
sostituibile del momento sacramentale e la qualificazione soltanto negativa
della sua specificità, attraverso il rimando al corporeo (il corpo, ma anche la
storia, il cosmo, la cultura, e soprattutto i fratelli da amare): ancora una volta
il sacramento vale solo come «passaggio da fare», dalla lettera al corpo, dalla
Scrittura all’Etica. Coerentemente, ma a nostro avviso non senza problemi, il
sacramento visto in prospettiva trinitaria non viene qualificato come luogo
dell’autocomunicazione di Dio, ma come luogo della sua «cancellazione». I
' sacramenti mostrano simbolicamente che Dio è «Colui che “si cancella” me­
diante lo Spirito nell’umanità e che conferisce quindi a quest’ultima la pos­
sibilità di diventare il luogo “sacramentale” in cui egli prende corpo».96
Il progetto di una radicale alternativa all’ontoteologia tradizionale appro­
da così a una «me-ontologia» teologica postmoderna, di cui il pensiero sim­
bolico è la matrice e il sacramento l’espressione simbolica principale.

2.4. Il dibattito aperto da Chauvet

La recezione del testo di Chauvet da parte della critica risulta piuttosto


problematica.97

96 O.c., 366.
, 97 Per le recensioni dell’opera di Chauvet e la discussione delle sue tesi bisogna segnalare
soprattutto G. LAFONT, «Ecclesia Orans» 5 (1988) 231-235; H . D EH ALLEU X, «Ephemerides
Theologicae Lovanienses» 64 (1988) 213-215; Y. LABBÉ, R éceptions théologìques d e la «post­
m o d e r n i » , «Revue de Sciences Philosophiques et Théologiques» 72 (1988) 397-462; A. CA­
PRIOLI, I l sacram ento tra conoscenza sim bolica e rivelazione, «La Scuola Cattolica» 117 (1989)
452-464; A. HAQUIN, Vers u n e n o u velle th éologie des sacrem ents, «Ephemerides Theologicae
Lovanienses» 66 (1990) 355-367; ID ., Vers u ne th éologie fon dam entale des sacrem ents: d e E.
S chillebeeck x à L.-M. Chauvet, «Questions Liturgiques» 75 (1994) 28-40; G. COLOMBO, P er il
trattato su ll’E ucarestia (I), «Teologia» 13 (1988) 95-130, in particolare 120-122; lD „ Presenta­
zione, in G. MOIOLI, Il quarto sacram ento, Glossa, Milano 1996, IX-XLIV, soprattutto XXV-
XXXIV; D . BOROBIO, El m od elo sim bolico d e la sacram entologia, «Phase» 189 (1992) 229-
246; S. UBBIALI, I l sacram ento e l ’istituzione divina. Il dibattito teologico sulla verità d el sacra­
m en to, «Rivista Liturgica» 81 (1994) 118-150, in particolare 136-141; A. GRILLO, R agioni d e l
sim b olo e rifiuto d e l fo n d a m en to nella sacramentaria gen era le d i L.-M. Chauvet. Spunti p er una
critica «in b on a m p a rtem », «Ecclesia Orans» 12 (1995) 173-193.
110 Parte prim a: Il dibattito

Certamente viene riconosciuto quasi unanimemente all’autore il coraggio


di essersi proposto un progetto ambizioso e di vasta portata. Vengono pure
apprezzati lo svolgimento di singoli temi, in modo particolare l ’analisi della
ritualità,98 la vastità di riferimenti culturali messi in gioco,99 lo sforzo di su­
perare il tendenziale isolamento della tematica sacramentaria.100 Così pure,
sotto un profilo più strettamente sacramentario, vi è accordo sulla necessità
di far partire la teologia del sacramento dalla sua celebrazione101 e sulla plau­
sibilità di un suo sviluppo attraverso categorie simboliche.
Ma, reso onore al carattere pionieristico del saggio, le critiche non man­
cano e non riguardano aspetti marginali. Data la complessità dei temi coin­
volti nella discussione e il profilo di teologia fondamentale che l ’opera assu­
me, ci limiteremo quasi esclusivamente alla discussione relativa alla proble­
matica sacramentaria in senso stretto.
A questo riguardo, non senza sorpresa, le critiche più puntuali si trovano
nel contributo di un teologo proveniente dalla Riforma, P. Gisel.102 Esse si
riferiscono direttamente al saggio precedente del 1979, ma, data la sostanzia­
le continuità tra le due opere, mantengono la loro validità. Gisel riconosce,
seppur con qualche riserva, che un’impostazione teologica che assume la
prospettiva dell’ordine simbolico presenta dei significativi vantaggi, quali so­
no la possibilità di ripensare il realismo sacramentale, senza cadere in una
cosificazione magica della grazia, e la valorizzazione della dinamica antropo-
logica intrinseca alla celebrazione del sacramento. Tutto questo con benefi­
cio per il dialogo ecumenico e per il rapporto con la cultura contemporanea.
Ma il percorso scelto da Chauvet per l’elaborazione della sua teologia sim­
bolica risulta più problematico che convincente.
L’interrogativo critico verte in particolare sulla possibilità di procedere
alla caratterizzazione del «simbolo» a partire dal «simbolico», e quindi alla
qualificazione del «sacramento» a partire dal «sacramentale». Non calibrata
su una previa considerazione del sacramento, infatti, la nozione di «sacra­
mentalità» rischia di non poter giustificare se stessa e pertanto di prestarsi a
essere distolta dalla sua significazione, per essere orientata nei sensi più di­
versi.103 Gisel si chiede se, senza una problematizzazione ed elaborazione

98 G. L afont , dt.\ A. C aprioli, a.c.


99 D . BOROBIO, a.c.-, Y . LABBÉ, a.c.
100 A . HAQUIN, Vers m e n ou velle th éo lo gie d es sacrem ents, a.c.
101 A. G rillo , a.c.
102 P. GlSEL, D u sym bolique au sym b ole ou du sym b ole au sym bolique?, «Recherches de
Science Religieuse» 75 (1987) 357-370.
103 Lo stesso rilievo, seppur espresso in termini generali e non direttamente rivolto al pro­
getto di Chauvet, viene così formulato da un altro autore: «Ci si può chiedere se, allargandosi
troppo, il sacramentale non rischi di diventare una generalità astratta e vaga, che designa sem­
plicemente la non-immediatezza di Dio nella fede o ancora la forma simbolica che assume
l’esperienza cristiana». Non si può sottrarre il sacramentale alla sua indeterminatezza «senza
precisare il suo rapporto con ciò che ne costituisce la forma forte e, in ogni caso, l ’elemento
2. Area fra n cese 111

teologica dei concetti di «simbolico» e «sacramentale», «non ci si esponga


non solo a non poter più rendere cónto delle particolarità sacramentali, ma
anche a non poter più distinguere il “gioco” della fede cristiana da quello
della vita umana come tale».104
Di fatto, procedendo su questa linea, Chauvet estende la «sacramentali­
tà» in maniera pressoché illimitata, fino a farla coincidere non solo con l’«ec-
clesiale», ma più genericamente con l ’«antropologico». «Sacramentale» di­
venta così tutto ciò che riguarda la strutturazione dell’identità personale, il
gioco dei rapporti sociali e il processo psichico di lutto e di rinascita che
permette il costituirsi dell’io, senza poter più caratterizzare il «cristiano» nel­
la sua eccedenza rispetto all’«umano». A loro volta anche i sacramenti, iden­
tificati a partire dallo sfondo di una sacramentalità indistinta, non possono
far valere la loro positività, estenuata in radice, ma sono ridotti a momenti ri­
tuali significativi all’interno di un dinamismo antropologico già predefinito
«simbolicamente». Essi, anziché mediare la comunicazione di Dio, rivelano
l ’essere dell’uomo.105
L ’attenzione di Gisel si rivolge poi al rapporto Chiesa-sacramenti. Se
l ’estensione dell’attribuzione del «sacramento» alla Chiesa, con le precisa­
zioni terminologiche successivamente introdotte, era già la proposta di Sem­
melroth e Rahner, la posizione di Chauvet risulta essere, sotto questo profi­
lo, una radicalizzazione della loro posizione, esponendosi a fo rtio ri alle criti­
che che già la «sacramentalità» di Rahner si era attirata.106 Al riguardo, infat­
ti, Gisel fa notare il rischio di attribuire alla Chiesa un ruolo eccessivo, di­
menticando la sua differenza rispetto al principio cristologico e al compi­
mento escatologico. Se è vero che l ’Eucarestia fa la Chiesa e la Chiesa fa
l ’Eucarestia, bisogna rifiutare ogni interpretazione in cui l’asimmetria degli
enunciati venga in qualche modo disattesa. Rischio che non pare del tutto
evitato dalla proposta, già di Rahner e ora, per via diversa, di Chauvet, di in­
tendere i sacramenti come auto-compimento della Chiesa.
Se questa è la critica di Gisel, essa trova eco nella posizione di altri autori
che lamentano non solo lo svuotamento d’identità del sacramento cristia­
no,107 ma anche il rischio di una nuova apologetica, che sottopone la com­
prensione del dato di fede alle leggi culturali del momento.108 Il risultato, se­
condo le lezioni della storia, non può che essere fallimentare: volendo favo­
rire l ’accesso dall’antropologico al sacramentale cristiano, riconducendo il

più determinato, cioè il sacramento propriamente detto» [H. BOURGEOIS, Positions du sacra­
m e n t i au jou rd’hui, «Recherches de Science Religieuse» 75 (1987) 175-202,179].
104 A.c., 361.
105 Y. LABBÉ, a.c., 411.
106 Cfr. W. KASPER, W ort u n d Sakrament, in ID., Glaube und G eschichte, Griinewald,
Mainz 1970,285-310,295.
107 G. C olombo , P resentazione, cit., XXX; A. GRILLO, a.c., 186; G. LAFONT, a.c., 234.
108 Ad es. A. C a p r i o l i , a.c., 464.
ì

112 Parte prim a: Il dibattito

secondo al primo, si finisce solo col mostrare l’impossibilità del passaggio,


perché la differenza tra i due ordini risulta soltanto nominale. L ’«ordine cri­
stiano», privato della sua singolarità, è così condannato inevitabilmente al­
l’insignificanza,109 e la stessa sorte tocca anche alla teologia, ridotta a ripetere
il discorso della psicanalisi, della semiotica e del postheideggerismo.
Ed è su quest’ultimo punto, in particolare, che il progetto di Chauvet,
considerato nel suo profilo di teologia fondamentale, riceve le critiche mag­
giori.110 Il dialogo con la postmodernità è certamente per la teologia un com­
pito irrinunciabile, ma non pare che esso debba risolversi in un’accoglienza
indiscussa degli orientamenti del postmoderno, probabilmente più differen­
ziati tra di loro di quanto appaia dalla prima parte del saggio di Chauvet, e
non immediatamente riconducibili ad esprimere, in una comunanza di in­
tenti un po’ sospetta, il pensiero della fede.
La risposta di Chauvet alle critiche di Gisel è contenuta in un articolo
dedicato ai rapporti tra ritualità e teologia.111 Chauvet, pur dispiacendosi che
Gisel non abbia potuto prendere visione del testo dell’87, riconosce franca­
mente che l ’opzione antropologica di S ym bole et sa crem en t, secondo un
orientamento tipico degli anni ’70, era determinata dal desiderio di reagire a
un modello di teologia troppo chiuso di fronte alle provocazioni delle scien­
ze umane, e che, in questo modo, ci si è forse esposti a qualche rischio. Se i
timori di Gisel riguardavano la decaratterizzazione della singolarità cristiana,
egli intende precisare che ritiene impossibile pensare i sacramenti «come il
semplice compimento dei grandi simboli rituali in cui si esprime il desiderio
dell’uomo di entrare in comunicazione con Dio» ed è convinto che «il rap­
porto dell’antropologico al teologico deve necessariamente essere mediato,
nel cristianesimo, dal cristologico».112
A questa dichiarazione, però, non fa seguito alcuna ritrattazione né sul
metodo, che viene difeso nella sua capacità di mostrare lo spessore antro­
pologico e storico dei sacramenti, né sui contenuti, che non registrano alcu­
na novità. In particolare, viene ribadita l’estensione della categoria di «sa­
cramentale»,113 precisando la sua attribuzione alla Chiesa e, in maniera più
sfumata, al creato, dotato di una «quasi-sacramentalità».
Anche nelle sue espressioni più recenti114 la teologia di Chauvet non pre­

109 C . COLOMBO, Presentazione, cit., XXXI.


110D e H a l l e u x , cit.-, G. L a f o n t , cit.-, Y. L a b b é , a.c.
111 L.-M. CHAUVET, R itualité et th éologie, «Recherches de Science Religieuse» 78 (1990)
535-564.
112 A c., 542.
113 Sostanzialmente su questa posizione anche: P. De CLERCK, La sacram entalité e t les
sep t sacrem ents. N otes en fo r m e d e «sic et non», «Recherches de Science Religieuse» 75 (1987)
211-218.
114 L.-M. CHAUVET, Sacram entaire et ch ristologie, «Questions Liturgiques» 75 (1994) 41-
55.
2. Area fra n cese 113

senta alcuna elaborazione ulteriore del nesso tra cristologia e sacramentaria.


L’unica novità è un ridimensionamento della pretesa di superare il pensiero
teologico della tradizione: nella sua ultima formulazione la teologia di Ghau-
vet «non si pretende “migliore” di quella degli Antichi; essa si pretende sem­
plicemente altra, almeno nel suo procedimento (dém arche)».115 Potrebbe
non essere poco, almeno commisurando queste affermazioni con la pars de-
stru en s di S ym bole e t sacram ent, sia sotto il profilo delle ricostruzioni stori­
che che delle affermazioni teoriche. Rimane però il nodo, evaso, della cri­
stologia. A questo proposito merita forse accoglienza l’appello di Bourgeois
a fare in modo che la sacramentaria si sforzi non solo di illuminare il pensie­
ro cristologico, offrendo il discorso su «Cristo-Ursakrament», ma anche di
ascoltarlo, poiché «il rinnovamento della cristologia non ha ancora avuto un
influsso sufficientemente innovatore nella teologia dei sacramenti».116
Al di là dei giudizi di merito, il progetto di Chauvet presenta, comunque,
un indubbio interesse, non solo come tentativo di collocare la teologia al­
l ’interno della svolta epocale del postmoderno, ma anche come espressione
di un movimento di ricerca più ampio che ha caratterizzato gli studi liturgi-
co-sacramentari in Francia negli ultimi trent’anni. Pur avendo escluso dalla
nostra esposizione un’analisi diretta dei loro contenuti, del resto solo par­
zialmente di natura teologica, non possiamo infatti ignorare gli studi volti ad
approfondire il momento liturgico-sacramentale sotto il profilo psicologi­
co,117 sociologico,118 linguistico119 e ritologico,120 studi di cui Chauvet in qual­
che modo raccoglie il risultato. Da questo punto di vista occorre osservare
che, a differenza dell’ambito italiano, in Francia non si è svolto un vero di­
battito sul rapporto tra la disciplina liturgica e quella dogmatica, ma la rela­
zione tra i due ambiti di studio è stata risolta nel principio generale della ne­
cessità che lo studio sistematico del sacramento prenda avvio dalla compren­
sione della celebrazione.121 Un maggiore approfondimento della problemati­

115 A c ., 55.
116 H. BOURGEOIS, P ositions du sacram entel aujourd’hui, «Recherches de Science Reli­
gieuse» 75 (1987) 175-202,181. .
117 A. VERGOTE, R egard du p sych olo gu e sur le sym bolism e liturgique, «L a Maison-Dieu»
91 (1967) 129-151; ID., Le rite: expression opérante, in A a .W ., Interprétation du langage reli-
gieux, Seuil, Paris 1974,119-215.
118 F. ISAMBERT, R ite e t effica cité sym bolique. Essai d ’anthropologie sociologique, Cerf, Pa­
ris 1979.
119J. LADRIÈRE, L inguaggio e preghiera. La perform atività d e l linguaggio liturgico, «Conci-
lium » (it.) 9/2 (1973) 82-98.
120J.-Y . HAMELINE, A spects du rite, «L a Maison-Dieu» 119 (1974) 101-111; ID., E léments
d ’an th ropologie, d e so cio lo gie historique et d e m usicologie du cu lte chrétien, «Recherches de
Science Religieuse» 78 (1990) 397-424, in cui l’autore ricostruisce l’itinerario della sua ricerca
ritologica.
121 H. D EN IS, L iturgie et sacrem ent, «L a Maison-Dieu» 104 (1970) 7-29; A. HOUSSIAU, La
red éco u v erte d e la litu rgie par la th éo lo gie sacram entaire (1950-1980), «La Maison-Dieu» 149
(1982)27-55.
114 Parte prim a: I l dibattito

ca soggiacente a questa questione avrebbe forse consentito un accostamento


autenticamente teologico al momento celebrativo, di fatto affidato alla com­
petenza quasi esclusiva dell’antropologia.

2.5. Sguardo d’insieme sull’area francese

Uno sguardo complessivo sul dibattito francese circa l ’identità del sacra­
mento cristiano negli anni del Postconcilio deve, in primo luogo, registrare
l’esiguità della ricerca. A fronte di una produzione liturgica e pastorale pro­
porzionalmente abbondante e talora anche ardita, la riflessione sistematica
non può vantare altro che i testi presi in considerazione.122 Se poi si conside­
ra il carattere piuttosto occasionale e incompiuto del contributo di Chenu e
il profilo direttamente «fondamentale» di quello di Chauvet, il bilancio ri­
sulta ancora più magro.
Difficile indicare in maniera univoca le cause di questa situazione, che
non sembra dipendere esclusivamente dal definitivo tramonto della tratta­
zione manualistica De sacram entis in gen ere. Probabilmente intervengono al­
tri fattori: l’incertezza della prassi pastorale, con le numerose domande ad
essa connesse, la diversa attribuzione delle competenze tra disciplina liturgi­
ca e riflessione sistematica, la diffusa diffidenza verso ogni forma di sistema­
tizzazione del pensiero. Più di tutto, però, pare avere un ruolo determinante
la volontà di una teologia del sacramento «radicalmente» nuova, che non
fiorisce nel dialogo con la tradizione, remota e vicina, ma o nella contrappo­
sizione, più o meno vistósa, o nella dimenticanza.123 Unica eccezione è il ri­
corso alla testimonianza dei Padri, che però non viene giudicata e accolta in
maniera concorde,124 tanto da lasciare l ’impressione di qualche forzatura.
La forzatura appare particolarmente evidente a proposito della questione
della sacramentalità, in cui il ricorso alla nozione ampia di sacram entum at­
tribuita ai Padri «in genere», compare spesso come semplice appoggio per
una teoria in realtà elaborata indipendentemente dall’ascolto e dallo studio
storico della questione.125 La distanza dalla prospettiva patristica, d’altronde,
è clamorosamente documentata dalla questione del simbolo, ih cui la conso­
nanza è esclusivamente, o quasi, nominale.

122 Per amore di completezza bisognerebbe forse segnalare anche H. D ENIS, Sacrem ent
so u rce d e vie, Cerf, Paris 1982.
123 Emblematica è la totale assenza nel dibattito francese di un confronto con la teologia
di Casel.
124 Cfr. ad esempio la diversa valutazione della teologia sacramentaria di Agostino da par­
te di Chenu, che la indica come il modello da superare, e di Chauvet, che ne vuole rivalutare
le intuizioni «eucaristiche».
125 Come sembra anche denunciare l’incapacità a giustificare teologicamente il «settena­
rio» sacramentale, nei cui confronti si registra più disagio, che sforzo interpretativo.
2. Area fra n cese 115

Sul simbolo, però, sembra che la letteratura francese trovi, almeno ten­
denzialmente, la propria convergenza.126 Il passaggio dal segno al simbolo è,
infatti, il programma lanciato da Chenu e attuato da Chauvet, dopo che la
letteratura intermedia si era variamente occupata della questione.
L ’analisi delle opere ha però mostrato quanto le posizioni siano distanti
e, al limite, irriducibili. Se per Chenu abbracciare la prospettiva simbolica
significa incontrare la sacramentaria di Tommaso e valorizzarne l’assetto an­
tropologico, per Chauvet è proprio sulla questione antropologica che in de­
finitiva la sacramentaria tomista richiede di essere superata dal pensiero sim­
bolico. Eppure gli elementi in comune tra i due autori non mancano: en­
trambi sostengono il riferimento del simbolo non solo genericamente alla
materia, ma specificamente al corpo, da recuperare nella sua pregnanza an­
tropologica; entrambi vogliono ritrovare un’intelligenza più approfondita
del sacramento a partire dal rito; entrambi, infine, promuovono l’abbando­
no delle categorie causali per esprimere l’operatività sacramentale e mostra­
no la più ampia disponibilità nei confronti delle scienze umane. Ciò che dif­
ferenzia, dunque, la loro posizione non sembra essere direttamente una di­
versa concezione del sacramento, ma un diverso quadro teologico in cui le
stesse questioni sacramentarie vengono dislocate.
Ed effettivamente se Chenu esprime ancora una teologia ontologica, e
dunque sotto questo profilo moderna, Chauvet apre invece la teologia alla
postmodernità, proponendo così una svolta che, senza abuso del termine,
deve essere detta «epocale». Con questa operazione egli colloca la vicenda
del sacramento, o più esattamente del «sacramentale», all’interno di un’evo­
luzione teologica di più ampie proporzioni, i cui sviluppi non sono prevedi­
bili. Se la Francia non è l’unico paese in cui è in corso il dibattito su teologia
e postmodernità, non c’è però da stupirsi che sia all’avanguardia nell’elabo­
razione delle proposte. È, infatti, in Francia che il dibattito sulla postmoder­
nità ha avuto «ufficialmente» inizio, grazie agli studi di Lyotard.127
Senza entrare nell’esame delle questioni connesse a questa vicenda, di cui
il passaggio dal segno al simbolo (o anche dal concetto al simbolo) è soltanto
un elemento, per quanto caratterizzante, bisogna però temere che la teologia
del sacramento ne risulti troppo pesantemente condizionata. Questo soprat­
tutto qualora essa assuma come unica ispirazione quella antropologica, tra­
scurando di approfondire il sacramento nella sua identità di celebrazione
ecclesiale.

126 L ’interesse sacramentario per il simbolo si inserisce in un più vasto movimento della
teologia francese volto ad introdurre questa categoria all’interno della ricerca teologica, anche
se con caratteristiche e ruoli diversi. I tentativi più significativi sono forse: A. DELZANT, La
com m u n ication d e Dieu. Par-delà u tile et inutile. Essai théologique sur l ’ordre sym bolique,
Cerf, Paris 1981; G. LAFON, Le D ieu com m un, Seuil, Paris 1982. Di diverso orientamento: G.
LAFONT, D ieu, le tem ps e t l'étre, Cerf, Paris 1986.
127J.-F. LYOTARD, La con dition postm od ern e, Minuit, Paris 1979.
116 Parte prim a: I l dibattito

Il riferimento ecclesiale, evidentemente, non si raccomanda come ele­


mento autonomo, o peggio ancora estrinseco, rispetto all’antropologico, ma
piuttosto come «testimonianza» che l’identità dell’uomo, e dunque anche
dei suoi riti, trova la sua piena intelligibilità soltanto nella Rivelazione di Ge­
sù Cristo accolta e professata dalla fede della Chiesa. È questo che nella let­
teratura francese esaminata sembra mancare, o comunque essere troppo im­
plicito. O magari soffocato dalla preoccupazione di mostrare apertura verso
le scienze umane, che evidentemente anche in riferimento al sacramento,
come a tutto ciò che è umano, hanno da offrire la loro competenza, ma che
non possono essere assunte, più o meno consapevolmente, come la chiave di
lettura della celebrazione «cristiana», perché essa suppone un’intelligenza di
«fede».
Le preziose analisi circa la ritualità liturgica che la letteratura francese ha
già elaborato richiedono dunque un più attento approfondimento teologico,
che insieme agli Enjeux du rite dans la m od ern ité,128 non disdegni di appro­
fondire le questioni storiche connesse allo studio del sacramento e quella
che si potrebbe chiamare una teologia biblica della ritualità.
In assenza di questi elementi, deve valere il severo giudizio di H. Bour­
geois: «Il se trouve que la théologie sacramentaire n’est pas aujourd’hui dans
une période de grande fécondité. [...] Cette situation est parfois masquée
par l’abbondance des textes pastoraux, liturgiques oil spirituels. Il n’empe-
che que la réflexion d’ordre théologique n’est guère marquante».129

128 Titolo di due numeri monografici di «Recherches de Science Religieuse» 78/3-4


(1990).
129 «La teologia sacramentaria non si trova oggi in un periodo di grande fecondità. [...]
Questa situazione è talora mascherata dall’abbondanza di testi pastorali, liturgici o spirituali,
ma ciò non impedisce che la riflessione di ordine teologico non sia di gran valore» [H.
BOURGEOIS, P ositions du sacram entel aujourd'hui, «Recherches de Science Religieuse» 75
(1987) 175-202,180],
3. ALTRE AREE

3.1. Area italiana


3.1.1. La teolo gia sistem atica

Se l’area italiana è nota più per la vivacità del dibattito liturgico che per
lo sviluppo della ricerca sistematica, un bilancio della riflessione sacramen­
taria degli ultimi trentanni non può che confermare questo giudizio. A pro­
durre questa conclusione orientano vari elementi. In primo luogo l’esiguità
«quantitativa» della produzione, che sul tema della sacramentaria fonda-
mentale non annovera più di due saggi e qualche articolo. In secondo luogo
l’assenza di un’ispirazione in qualche modo unitaria, che permetta di parla­
re, seppur con approssimazione, di una sacramentaria «italiana». Infine la
constatazione del «ritardo» con cui la teologia ha recepito la provocazione
ad un ripensamento radicale della questione sacramentale, in dialogo con il
dibattito internazionale.
Nel tentativo di specificare il contenuto delle affermazioni e precisarne il
significato, occorre anzitutto recensire i due saggi di Marsili1 e di Rocchetta,2
che, in quanto intendono corrispondere alla forma del (rinnovato) trattato
sui sacramenti, costituiscono il luogo «emblematico» in cui cogliere lo svi­
luppo del pensiero. In realtà l’analisi mostra che tra i due testi bisogna ope­
rare una distinzione: il testo di Marsili, infatti, consiste nella pubblicazione
postuma delle sue «dispense» scolastiche e non ha pertanto la pretesa del
saggio. Inoltre, benché la parte relativa al nostro tema si intitoli Punti di teo ­
logia sacram entaria, essa va collocata sullo sfondo indicato dal sottotitolo del
volume: la teo lo gia liturgica d e i sacram enti. In quanto tale rimanda più al
contesto della disciplina liturgica che alla sistematica.
Il testo di Rocchetta,3 invece, intende «programmaticamente» fornire una

1 S. MARSILI, I se g n i d e l m istero d i Cristo. T eologia liturgica d ei sacram enti , Edizioni Li­


turgiche, Roma 1987.
, 2 C. ROCCHETTA, Sacramentaria fondam entale. Dal «m ysterion» al «sacram entum », Deho-
niane, Bologna 1989.
3 Va notato che l ’autore ha dedicato precedentemente al tema sacramentale altri due testi:
L 'uom o e i sacram enti. T em i d i antropologia sacram entale, Teresianum, Roma 1981; e I sacra-

BADIAPRIMAZ. S. ANSELMO
BIBLIOTECA '
118 Parte prim a: Il dibattito

riflessione fondamentale sui sacramenti, per colmare una lacuna evidente e


non ulteriormente tollerabile, e corrisponde pertanto esattamente all’oggetto
della nostra ricerca. Non manca all’autore una chiara consapevolezza delle
difficoltà connesse alla riproposizione di un «trattato» sui sacramenti in ge­
nere, ma egli ritiene che il modo migliore per recepire le istanze critiche nei
confronti dell’astrattezza del manuale non sia l ’esclusione sic et sim pliciter
della sacramentaria generale, ma il suo ripensamento. Per questo «lo sforzo
maggiore» dell’opera consiste «nel cercare di ripensare l’insieme del “De sa-
cramentis in genere” attorno a questo punto di raccordo: dal “mysterion” al
“sacramentum”».4 L’obiettivo è perseguito non tanto attraverso la ricerca di
un’impostazione sistematica «originale», ma attraverso la sintesi dei risultati
più cospicui della riflessione teologica recente. Compaiono così nel volume
le tesi di Schillebeeckx e Rahner, affiancate agli sviluppi della teologia litur­
gica e alle acquisizioni delle scienze umane sul tema del rito, del linguaggio,
del simbolo e della festa. Non ci sembra, però, che il progetto di ripensare
sotto l’insegna del rapporto tra m ysterion e sacram entum temi e motivi che
provengono da fonti diverse, talora sorte in reciproca alternativa, consegua
effettivamente il risultato di una prospettiva unitaria.5
Accanto a queste pubblicazioni, che non esauriscono evidentemente il
campo della ricerca sistematica, occorre prendere in considerazione i con­
tributi apparsi sulle riviste teologiche italiane. Anche in questo caso il botti­
no della ricerca quantitativamente è «magro»: le voci che emergono sono so­
stanzialmente due.
La prima è quella di G. Colombo,6 che già agli inizi degli anni Settanta
solleva dubbi sulla validità dell’impostazione che si stava sempre più affer­
mando nella teologia sacramentaria internazionale. In particolare l ’autore
denuncia una «manipolazione» della nozione di sacramento, imputabile so­
prattutto alla sua disinvolta applicazione alla Chiesa e conseguentemente,
anche se per motivi diversi, a Cristo, all’uomo e al cosmo. I limiti di questo
orientamento si collocano a diversi livelli, ma sono riconducibili sostanzial­
mente a un duplice difetto di metodologia, situabile nel punto di avvio della
ricerca e nella modalità del suo svolgimento. Il punto di avvio è carente per­
ché consiste nell’assunzione «indiscussa» della nozione di sacramento defini­
ta dalla teologia scolastica, senza produrre lo sforzo di una verifica critica
della sua origine storica e del suo significato teologico. Si tratta di una ca-

m en ti della fed e. Saggio d i teologia biblica su i sacram enti quali «m eraviglie della salvezza» n e l
tem p o della chiesa, Dehoniane, Bologna 1982.
4 C. ROCCHETTA, Sacramentaria fon dam en tale, o.c., 23.
5 Giudizio analogo in H. BOURGEOIS, B ulletin d e th éo lo gie sacram entaire, «Recherches de
Science Religieuse» 78 (1990) 591-624, 598. L ’autore, però, mette anche in luce i meriti del­
l ’opera sul piano della sintesi biblica e storica.
6 G. COLOMBO, D ove va la teologia sacram entaria?, «La Scuola Cattolica» 102 (1974) 673-
717.
3. Altre aree 119

renza che propriamente «pregiudica» la ricerca, sottraendole il terreno in


cui l’acquisizione del profilo «teologico» del sacramento dovrebbe logica­
mente collocarsi. Il secondo limite è «coerente» al primo, e consiste nello
svolgimento della problematica sacramentaria in prospettiva «antropologi­
ca», nel caso di Schillebeeckx, o «ontologica», nel caso di Rahner. In en­
trambe le modalità, comunque, la ricerca non può portare a risultati «de­
terminanti» perché né la metodologia storico-psicologica né quella ontologi­
ca coincidono con la ricerca «teologica», e dunque non possono sostituirla.
Positivamente Colombo suggerisce di avviare la sacramentaria in un’altra di­
rezione, che metodologicamente tenga conto del dato storico, sia sul piano
biblico che su quello della tradizione, e riconduca l ’origine dei sacramenti
non alla «Chiesa-sacramento», ma piuttosto all’Eucaristia, e per questa via a
Gesù Cristo che è al «principio» dell’Eucaristia che «fa» la Chiesa. Gli in­
terventi successivi di Colombo7 ribadiscono l’impostazione, traendo ulterio­
re conferma dalla considerazione degli esiti del dibattito sacramentario po-
strahneriano.
La seconda voce, più recente, è quella di Ubbiali8 che propone una ri­
comprensione della problematica sacramentale nella prospettiva della libertà
del soggetto, o più precisamente del suo «atto» libero. Se l ’insegnamento
conciliare ha recuperato la dimensione cristologica, e dunque storico-salvifi­
ca, dei sacramenti e ne ha esplicitato l’identità nell’orizzonte delibazione» li­
turgica, l’autore ritiene che non si possa dare effettivo svolgimento a questa
provocazione se non attraverso una profonda trasformazione della prospet­
tiva teologica. Il cambiamento «fondamentale» consiste nell’abbandonare la
considerazione della verità nella prospettiva della «razionalità» per accedere
a una considerazione della verità nella prospettiva della «temporalità» del­
l’uomo. Solo così, infatti, è possibile superare la permanente tendenza della
sacramentaria a una riflessione «formalistica» che pensa di poter chiarificare
l ’identità del sacramento indipendentemente dal richiamo diretto e imme­
diato alla coscienza e alla decisione dell’uomo. Alla radice di questo difetto
vi è la difficoltà di articolare adeguatamente la dimensione teologica e la di­
mensione antropologica del sacramento, in dipendenza da un’insufficiente
elaborazione del nesso tra Rivelazione e fede.
Di fronte a questa difficoltà e alle aporie che ne conseguono, la ricerca
dell’autore mira alla riscoperta della qualità «teorico-pratica» della fede,

7 I d ., P er il trattato su ll’Eucaristia, «Teologia» 13 (1988) 95-130; 14 (1989) 105-137; ID.,


T eologia sacram entaria e teologia fon dam entale, «Teologia» 19 (1994) 238-262; ID., Presenta­
zione, in G. MOIOLI, Il quarto sacram ento, Glossa, Milano 1996, IX-XLIV.
8 S. UBBIALI, Eucarestia e sacramentalità. P er una teologia d el sacram ento, «La Scuola Cat­
tolica» 110 (1982) 540-576; ID., Liturgia e sacram ento, «Rivista Liturgica» 75 (1988) 297-320;
Id., Il sa cra m en to e l ’istituzione divina. Il dibattito teologico sulla verità d el sacram ento, «Rivi­
sta L iturgica» 81 (1994) 118-150; ID., I l sacram ento cristiano, in A a .V v,, C elebrare il m istero
d i Cristo. II. La celebra zion e d ei sacram enti, C.L.V. - Edizioni Liturgiche, Roma 1996,13-28.
120 Parte prim a: Il dibattito

come «forma originaria dell’attuazione veritativa della coscienza» a cui cor­


risponde la «forma dell’evidenza simbolica» della Rivelazione, nella consa­
pevolezza che solo a questo livello è possibile superare, anche per il tema sa­
cramentario, la contrapposizione tra la verità cristologica che si mostra e la
libertà credente che si attua.9 Senza entrare nella complessa rete di proble­
matiche «fondamentali» implicate nel discorso di Ubbiali, si può precisare
che al sacramento viene riconosciuto un ruolo «intrinseco» alla fede. Più
precisamente il sacramento «presiede» all’«attuazione reale dell’atto di fe­
de», e dunque alla realizzazione della salvezza, in una determinata situazione
antropologica. Se tale situazione rimanda a un compimento dell’uomo, il sa­
cramento lo offre alla fede del credente nella forma «simbolica» (reale) che
richiede il coinvolgimento della sua libertà, ovvero la sua autodeterminazione.
Non mancano in queste posizioni elementi significativi per una nuova fa­
se della ricerca sui sacramenti, ma il quadro d’insieme delle voci «sistemati­
che» sembra confermare il giudizio che vede la sacramentaria italiana «in
cammino» verso la propria caratterizzazione, ma non ancora definita in ter­
mini sufficientemente condivisi. Il ritardo con cui la riflessione si è avviata10
sembra giustificare plausibilmente questo stato di cose, che d’altronde non
caratterizza soltanto l’ambito della ricerca sacramentale.11

3.1.2. La teologia pratica

Più vivace, anche perché radicato in una tradizione più consolidata, si


presenta invece il panorama della produzione liturgica. Il campo della ricer­
ca, evidentemente, è dettato in maniera obbligatoria dalla riforma in atto,

9 «La fede costituisce la forma originaria dell’attuazione veritativa della coscienza, nel
senso che l’evidenza a cui rimanda, seppure non appare subordinata all’attuazione antropo-
logica, giacché si tratta della condizione della possibilità stessa dell’attuazione, nondimeno
non appare separata dell’attuazione antropologica, nella misura in cui questa concorre a de­
terminarla. Detto diversamente, la dinamica della libertà risulta immediatamente implicata
nella manifestazione della verità e questo non separatamente dal fatto che è la verità stessa a
esibirlo come realmente possibile» [Ilsacram ento cristiano, o.c, 24s.).
10 Per sottrarre l’affermazione alla genericità si può considerare che, salvo errore, gli unici
interventi di sacramentaria fondamentale sistematica degli anni Settanta sono l’articolo già ri­
chiamato di G. Colombo e, nei limiti imposti dal tipo di contributo, le voci Sacramentaria e
Sacram enti di E. Ruffini per il N uovo Dizionario d i T eologia, Paoline, Alba 1977 e la voce Sa­
cra m en ti dello stesso autore per il Dizionario T eologico Interdisciplinare, Marietti, Torino
1977. Altri contributi sono piuttosto situati sul versante della valorizzazione della teologia re-
cepta del sacramento: ad es. B. GHERARDINI, Sul co n cetto d i sacram ento ieri e oggi, «Divinitas»
19 (1975) 292-334; P. PARENTE, La sacram entalità nella sua vera prospettiva teologica, «Divini­
tas» 20 (1976) 272-281; F. MARINELLI, S egno e realtà. Studi d i sacram entaria tom ista, «Latera-
num» 43 (1977) 1-305.
11 C fr. G. COLOMBO, La teologia italiana. M ateriali e p rosp ettive (1950-1993), Glossa,
Milano 1995.
3. Altre aree 121

sotto la cui sollecitazione fiorisce una letteratura esuberante sia sul versante
storico che su quello pastorale. Sarebbe superfluo e solo in parte coerente
con il nostro intento seguire analiticamente gli sviluppi di questo dibattito,
che può essere colto nelle sue espressioni più autorevoli seguendo le annate
della R ivista L iturgica.u Appare, invece, più utile limitare l’attenzione a due
elementi che hanno riguardato più direttamente la ricerca sacramentaria,
sollecitandola a riflettere sulla propria identità. Si tratta del dibattito relativo
alla «teologia liturgica» e dell’introduzione in ambito liturgico-sacramenta-
rio dell’apporto delle scienze umane.
Per il primo punto ci si può avvantaggiare della ricostruzione offerta dal­
l ’abate Marsili, che in un contributo sintetico13 ha individuato fondamental­
mente tre concezioni di «teologia liturgica», da attribuire rispettivamente a
Vagaggini (che propriamente appartiene ancora al momento preconciliare),
a Marsili stesso e a Ruffini.
In estrema sintesi, secondo Vagaggini14 la liturgia deve essere inserita al­
l ’interno della dogmatica non soltanto come «luogo teologico» che permette
di documentare e dimostrare le affermazioni del trattato, ma come elemento
che concorre effettivamente alla comprensione della storia salvifica, in quan­
to la dimensione liturgica costituisce una delle leggi generali dell’economia
divina.
Marsili15 ritiene che tale programma, da lui definito «liturgia teologica»,
sia pertinente, ma ancora inadeguato all’elaborazione di una vera «teologia
liturgica». Quest’ultima, infatti, non può consistere soltanto nella valorizza­
zione teologica del dato liturgico, ma ben più profondamente deve realizzar­
si come una figura di teologia che accosta la rivelazione «nella sua natura di
fenomeno sacramentale, nel quale convergono l’avvenimento di salvezza e il
rito liturgico che lo ripresenta».16 Se la teologia biblica «scopre nel sacra-
mento-Cristo la sacramentalità come legge fondante della rivelazione (sal­

12 Una ricostruzione dell’evoluzione della rivista e della variazione delle problematiche af­
frontate viene offerta da M. SODI, Rivista liturgica: m ovim en to, riforma, rinnovam ento liturgi­
co, «Rivista Liturgica» 80 (1993) 599-655.
13 S. MARSILI, T eologia liturgica, in D. SARTORE - A .M . TRIACCA (edd.), Nuovo Dizionario
d i Liturgia, Paoline, Cinisello Balsamo 1984,1508-1525.
14 C. VAGAGGINI, I l sen so teo lo gico della liturgia. Saggio d i liturgia teologica generale,
Paoline, Roma 1957; ID., Liturgia e p en siero teologico recen te, Pontificio Ateneo Anselmiano,
Roma 1961. Vagaggini tiene ferma la distinzione tra la disciplina liturgica e la dogmatica, di­
fendendo il valore della mediazione concettuale e speculativa e criticando l’intuizionismo vi-
talistico di Casel. Per una valutazione delle sue tesi: G . BONACCORSO, Introduzione allo studio
della Liturgia, Messaggero, Padova 1990, 62-64; A. GRILLO, Teologia fon dam en tale e liturgia.
Il rapporto tra im m ediatezza e m ediazione nella riflessione teologica, Messaggero, Padova
1995,41ss.
15 S. MARSILI, La liturgia nella strutturazione della teologia, «Rivista Liturgica» 57 (1971)
153-162; ID., Liturgia e teologia. Proposta teoretica, «Rivista Liturgica» 58 (1972) 455-473; ID.,
T eologia liturgica, cit.
16 S. MARSILI, T eologia liturgica, cit., 1522.

i
122 Parte prim a: Il dibattito

vezza in atto), la teologia liturgica sarà quella che nella celebrazione scoprirà
il continuo attuarsi della stessa rivelazione in quella situazione di sacramen­
talità derivata che è costituita appunto dai sacramenti della chiesa, che sono
la comunicazione/partecipazione al sacramento-Cristo».17 Se comprendiamo
bene il pensiero dell’autore, la caratteristica di una teologia «liturgica» è la
volontà di comprendere il mistero salvifico in maniera «coerente» alla mo­
dalità della sua attuale realizzazione: poiché il mistero della salvezza, secon­
do l’intuizione di Casel, è ora offerto all’uomo nella celebrazione dei sacra­
menti, è «secondo le leggi della sacramentalità» che tale mistero deve essere
conosciuto, anzitutto nell’«esperienza» vissuta nella celebrazione, e poi nella
«riflessione» intellettuale che da essa «dipende». Pertanto, come la celebra­
zione dei sacramenti non costituisce «uno» degli aspetti della fede, ma il luo­
go vivo e originario dell’incontro con Cristo, così la teologia liturgica non
può costituire «uno» dei settori della teologia, ma deve affermarsi come
«teologia prima», ovvero come teologia che ispira ogni altra forma di sapere
riflesso sulla fede, in quanto dipende «direttamente» dall’esperienza sacra­
mentale.18
La terza impostazione, più sobria, è quella di Ruffini,19 che intende la
«teologia liturgica» come l’interpretazione teologica della celebrazione e del­
la ritualità: alla competenza del teologo sistematico spetta la considerazione
del sacramento nel suo aspetto esistenziale, mentre tocca al liturgista met­
terne in evidenza la dimensione di attualizzazione celebrativa del mistero.
Al di là della valutazione delle singole posizioni, emerge però dal dibatti­
to la presenza di una questione che, seppur forse non adeguatamente istruita
nella discussione sulla «teologia liturgica», merita attenta considerazione. Si
tratta del rapporto tra prassi celebrativa e momento riflessivo, o in altri ter­
mini tra «esperienza» sacramentale e «teologia». Le indicazioni che proven­
gono dal dibattito liturgico vanno nella direzione del riconoscimento dell’in­
superabilità del momento celebrativo come luogo «originario» del rapporto

17 O.c., 1521.
18 La posizione di Marsili è approfondita, e forse radicalizzata, da A.M. TRIACCA, Le setis
th éologiq u e d e la liturgie et/ou le sen s liturgique d e la théologie. Esquisse initiale p ou r u n e syn-
thèse, in AA.VV., La liturgie: son sens, son esprit, sa m éthode. L iturgie e t th éologie, Edizioni li­
turgiche, Roma 1982, 321-337; ID., «Liturgia» «locus th eologicu s» o «T heologia» «locu s litur-
gicu s» ? Da un dilem m a verso una sintesi, in G. FARNEDI (ed.), P aschale M ysterium . Studi in
m em oria d ell’abate p rof. Salvatore Marsili, Benedictina, Roma 1986,193-233; ID., P er m a trat­
tazione d e i sacram enti in prospettiva liturgica. A pproccio ad un son daggio d i opinioni, «Rivista
Liturgica» 75 (1988) 340-358; ID., T eologia della liturgia o teologia liturgica? C ontributo d i P.
Salvatore M arsili p e r una chiarificazione, «Rivista Liturgica» 80 (1993) 267-289. In particolare
l’autore sostiene che i sacramenti devono essere studiati in prospettiva liturgica, abbando­
nando l’accostamento speculativo proprio delle varie scuole teologiche in favore dell’acco­
stamento vitale proprio della Chiesa, quale emerge dal deposito dei testi liturgici.
19 E. RUFFINI, T eologia d e i sacram enti e liturgia, in ÀA.Vv., T eologia e liturgia. R apporti
interdisciplinari e m etod ologici, Dehoniane, Bologna 1974,97-116; 175-179.
3. Altre aree 123

salvifico, e dunque come punto di partenza e di riferimento continuo del


procedimento riflessivo. Le ambiguità, però, si introducono quando si vuole
delineare una figura di teologia «liturgica» dei sacramenti che si differenzia
dal procedimento sistematico tradizionale per la sua «diretta» dipendenza
dalP«esperienza» ecclesiale e per il riferimento privilegiato ai testi biblici ed
eucologici. Di fronte alle pretese della «teologia liturgica» di essere «teologia
prima» rispetto a qualsiasi altra espressione riflessiva sulla fede, nasce facil­
mente la domanda se si pensi alla figura di una teologia «mistica» impegnata
nella «contemplazione» del mistero cultuale, ovvero se si intenda mantenere
anche alla «teologia liturgica» il profilo di interrogazione critica sulla fede.
Nel primo caso, evidentemente, si rinuncerebbe alla teologia a favore di una
«metaforizzazione» in termini cultuali di tutta l’esperienza credente, che po­
co gioverebbe sia alla liturgia che alla sua comprensione; nel secondo caso,
più verosimile, non si riesce a vedere quale «priorità» possa vantare una «ri­
flessione» sul «celebrato» rispetto ad altri ambiti della teologia: la «priorità»
- salvo m eliori iudicio - spetta alla «celebrazione» liturgica, non alla «teolo­
gia» liturgica.
Nel suo intento di ridefinire la modalità di fare teologia sacramentaria la
linea di Marsili, che vantava le maggiori pretese, non pare avere avuto effet­
tivo seguito,20 neppure nel senso di imporre una certa configurazione al rap­
porto tra ricerca sistematica e ricerca liturgica. La relazione tra le due disci­
pline non sembra, infatti, essersi stabilita nel senso di una dipendenza della
prima dalla seconda, ma nell’attribuzione alla sistematica del compito di ela­
borare teoreticamente l’identità del sacramento e alla liturgia/teologia litur­
gica il ruolo di studiare le modalità storiche che ne permettono una fruttuo­
sa celebrazione: entrambe in dipendenza dall’atto pratico della celebrazio­
ne.21 Il problema di come assumere teoreticamente la «priorità» dell’atto
celebrativo rimane invece al centro dell’attenzione e manifesta sempre più la
sua portata come questione di teologia fondamentale,22 che richiede il rico­

20 Va notato peraltro che, sottoponendo ad analisi critica lo svolgimento effettivo della


«teologia liturgica» di Marsili, si può forse sollevare il dubbio circa l’effettiva portata rinnova­
trice della sua impostazione. In particolare il testo dedicato ai Punti d i teologia sacramentaria
(in I se g n i d e l m istero d i Cristo, o.c.), pur proponendo degli elementi di novità, accetta larga­
mente l’impostazione tradizionale delle problematiche ed elude totalmente il confronto con i
tentativi contemporanei di rinnovare l’interrogazione sul sacramento.
21 «Se il carattere della manifestazione e della mutazione storica compete essenzialmente
alla liturgia, ne consegue che la spiegazione del suo spessore concreto appartiene allo svolgi­
mento e dunque all 'am bito della teologia pratica. Ma è di essa che la definizione del concetto
di sacramento codifica la “teoria”, la cui conveniente esplorazione compete allo svolgimento
e dunque all 'am bito della teologia teorico-speculativa» (S. UBBIALI, Liturgia e saaam ento, a.c.,
313). Cfr. anche F. BROVELLI, P er uno studio della liturgia, «La Scuola Cattolica» 104 (1976)
567-635.
22 A. GRILLO, T eologia fon d a m en ta le e liturgia. Il rapporto tra immediatezza e m ediazione
nella riflession e teologica , Messaggero, Padova 1995.
124 Parte prim a: Il dibattito

noscimento della dimensione sacramentale «come p rofilo strutturante della


fede e non semplicemente come momento del suo esercizio pratico».23
Se il problema sembra ancora in attesa di una più ampia considerazione
all’interno della riflessione teologica, ha invece trovato più spazio, in pro­
porzione all’accresciuta consapevolezza della fisionomia pratica o pastorale
della disciplina,24 la ricerca liturgica circa il «funzionamento» della celebra­
zione. Su questa linea l’apertura agli apporti delle scienze umane, timida­
mente iniziata negli anni Settanta,25 è divenuta una scelta convinta e matura,
sostenuta soprattutto dall’Istituto di Liturgia Pastorale di Padova.26 Nel vo­
lume che rappresenta il manifesto programmatico dell’Istituto il rapporto
tra scienze umane e teologia/liturgia viene prospettato in questi termini: «la
fenomenologia dell’esperienza religiosa è l’orizzonte entro cui prende signi­
ficato il celebrare e [...] pertanto essa va intesa come la mediazione vera tra
scienze umane e liturgia/teologia, in quanto è in grado di congiungere al suo
interno temi teologici “forti” con le tematiche antropologiche più profonde
senza costrizioni o depauperamenti».27 L’incontro tra scienze umane e teolo­
gia avviene, dunque, attraverso la mediazione della fenomenologia della reli­
gione, che può recepire i risultati delle scienze umane sul comportamento
religioso dell’uomo, purificandole dall’eventuale orientamento positivistico
per farne emergere l’intenzionalità religiosa. Su questo sfondo, che tematizza
il senso trascendentale del celebrare come possibilità e modalità della co­
scienza religiosa, la liturgia, come «scienza dell’azione rituale», sviluppa la
propria «ermeneutica» della celebrazione cristiana per farne emergere i si­
gnificati specifici. Trovano pertanto spazio in questa figura di teologia pasto­
rale gli apporti dell’antropologia culturale, della sociologia, della psicologia
e della semiotica, con la valorizzazione dei temi del linguaggio, del simbolo e
del rito.

23 P. SEQUERI, I l Dio affidabile. Saggio d i teologia fon d a m en ta le, Queriniana, Brescia 1996,
739.
24 Aa.Vv., Una liturgia p e r l ’uom o. La liturgia pastorale e i su o i com piti, Messaggero, Pa­
dova 1986.
25 A. CUVA, L inee d i antropologia liturgica, «Salesianum» 36 (1974) 3-31; J. GEVAERT, La
d im en sion e antropologica d ei riti cristiani, in Aa.Vv., Vede e rito. La d im en sion e rituale n e l­
l ’esperienza d i vita cristiana, Dehoniane, Bologna 1975,45-79.
26 A a .V v ., Una liturgia p e r l'uom o, o.c.; G. BONACCORSO, Introduzione allo studio della li­
turgia, Messaggero, Padova 1990; ID., C elebrare la salvezza. L ineam enti d i liturgia, Messagge­
ro, Padova 1996.
27 A.N. TERRIN, P er un apporto d elle scienze um ane alla fon daz ion e della liturgia pastorale,
in Aa.Vv., Una liturgia p e r l ’uom o, o.c, 132-155, 145. L’autore elabora la sua prospettiva nel
confronto con i tentativi precedenti di Bouyer, Jetter e Chauvet (L inguaggio e sim bolo). La di­
scussione della loro proposta metodologica mette in evidenza il limite di un’oscillazione irri.
solta tra l’ambito teologico e quello antropologico, che finisce con la subordinazione del se­
condo al primo e quindi con l’asservimento delle scienze umane alla teologia. Proprio alla
soluzione di questa im passe metodologica è finalizzata la ricerca di Terrin. Cfr. anche ID,, Lei-
tourgia. D im ensione fen o m en o lo gica e aspetti sem iotici, Morcelliana, Brescia 1988.
3. Altre aree 125

Le questioni sollevate dalla trasformazione del metodo di una disciplina


sono sempre numerose e complesse, e coinvolgono problemi teoretici di va­
sta portata, quale ad esempio il rapporto tra l’universalità del fenomeno reli­
gioso e la singolarità della fede espressa dai riti cristiani. Evidentemente l’in­
troduzione legittima e doverosa delle scienze umane nel dibattito non può
coinvolgere soltanto la ricerca liturgico-pastorale sul sacramento, ma deve
vedere impegnata anche la teologia sistematica, costretta a ripensare il pro­
prio metodo e la propria identità.

3.2. Area spagnola

«A l giorno d’oggi, sulla linea del Concilio Vaticano II, si studia la sacra-
mentologia fondamentale n ell’am bito della teologia liturgica fondam entale,
poiché i sacramenti, prima di esser riflessione, sono le azioni liturgiche fon­
damentali della Chiesa».28 La sicurezza dell’asserzione con cui P. Fernàndez
apre il suo bollettino di sacramentologia fondamentale sulla rivista Phase in­
dica con chiarezza quale sia l’orientamento prevalente della ricerca sacra­
mentaria in area spagnola. In Spagna, infatti, più che in altre zone della geo­
grafia teologica, il contatto tra la sacramentaria sistematica e la disciplina li­
turgica si è fatto così intenso, da non poter più quasi distinguere la specifici­
tà delle competenze.
L’operazione non è esente da problemi, non soltanto di diritto, ma anche
di fatto. Alle difficoltà intrinseche ad ogni reimpostazione radicale del di­
scorso teologico, infatti, si aggiunge la modalità concreta con cui si è data e
si dà attuazione al programma di una sacramentaria «interna» alla ricerca li­
turgica: la via percorsa dagli autori dell’area spagnola non è stata quella del­
l’incontro tra due diverse modalità di accostamento alla realtà sacramentale,
bensì fondamentalmente quella dell’assorbimento del discorso sistematico
nel discorso liturgico-pratico. A prescindere da una valutazione di merito sui
risultati dell’operazione, deve essere in ogni caso segnalato come un limite
l ’assenza di un dibattito critico sulla metodologia seguita. L’orientamento
che tende a impostare «liturgicamente» il discorso sacramentario si è affer­
mato, infatti, senza difficoltà, ma anche sènza, produrre uno sforzo per pre­
cisare il senso «allusivo» del programma.29
A questo dato fondamentale, che emerge da una considerazione della
produzione recente, si deve aggiungere come caratteristica della ricerca sa­

28 P. FERNÀNDEZ, S acram entologia fundam en tal (1991-1996), «Phase» 37 (1997), 245-254,


245 (corsivo nostro).
29 Cfr. ad es. le indicazioni «generalissime» offerte in D. BOROBIO M . (ed.), La celebrazio­
n e n ella Chiesa. I. L iturgia e sacram entaria fon dam en tale (tr. it.), Elle Di Ci, Leumann (Tori­
no) 1992,20-22.
126 P arte prim a: Il dibattito

cramentaria spagnola l ’abbondanza delle pubblicazioni. Solo tra il 1991 e il


1995 sono comparsi ben cinque trattati di sacramentaria fondamentale,30 ma
anche negli anni precedenti la produzione si presenta relativamente ricca.
La relazione tra i due dati non deve necessariamente indurre a configura­
re il caso, non raro, di una coincidenza tra difetto qualitativo e abbondanza
quantitativa, ma certamente l’analisi delle opere segnala l’assenza di un vero
confronto e una certa tendenza alla ripetitività delle tesi e degli argomenti
addotti a sostenerle. Sarebbe pertanto superfluo indugiare analiticamente
sulla recensione delle singole posizioni. Più opportuno pare invece cogliere
in certo modo la linea di evoluzione e il tono d’insieme di questa letteratura,
limitandosi alle opere più emblematiche della tendenza comune.
Quanto alla linea di evoluzione, il term inus a quo può essere ritrovato nel
testo di Nicolau,31 che, pur mantenendo un’impostazione sotto vari aspetti
molto tradizionale, dimostra una certa apertura alle tesi più recenti, senza
escludere l ’accoglienza per la teologia della Chiesa sacramento. Una fase
successiva si apre con gli anni Settanta, quando diventa dominante l ’influsso
di Rahner, sia a livello di impostazione globale della problematica sacramen­
taria (dipendenza dei singoli sacramenti dalla Chiesa sacramento e più a
monte da Cristo sacramento), sia a livello della soluzione di singole questio­
ni, in particolare quella dell’istituzione.32 Salva restando la necessità di di­
stinguere la presentazione delle tesi nell’originaria formulazione rahneriana
dal loro successivo utilizzo, bisogna riconoscere che la letteratura spagnola
posteriore a Rahner risulta fortemente caratterizzata dal suo pensiero. E
questo in misura maggiore di quanto avvenga nella più autonoma ricerca
francese o nella più attardata ricerca italiana. Un terzo momento, infine, può
essere ritrovato nell’accentuazione della prospettiva liturgica e nel definitivo
spostamento della ricerca fondamentale sul sacramento nell’ambito della
teologia liturgica.
Emblematica di questo orientamento è senza dubbio l ’opera di Borobio,
che, pur non collocandosi esplicitamente nel modello rahneriano,33 di fatto
ne assume le tesi decisive collegandole con la prospettiva antropologica e ri­
tuale proposta dagli autori francesi.34 Il suo programma trova espressione

30 J.C.-R. GARCÌA PAREDES, T eologia fu n dam en tal d e los sacram entos, Edicione Paulinas,
M adrid 1991; P. FERNÀNDEZ, La H umanidad d e Cristo en la Iglesia. Sacram entologia fu n d a ­
m ental, S. Esteban, Salamanca 1993; R. ARNAU, Tratado gen era i d e los Sacram entos, BAC,
M adrid 1994; P.J. ROSATO, Introducción a la T eologia d e los Sacram entos, Verbo Divino,
Estella 1994; L. MALDONADO, La A cción Litùrgica. Sacram ento y C elebración, San Pablo, M a­
drid 1995.
31 M. NlCOLAU, T eologia d e l sign o sacram entai, BAC, M adrid 1969.
32 Cfr. ad es. J . L . LARRABE, El sacram ento corno en cu en tro d e salvación, Fax, M adrid 1971;
J . ESPEJA, Para una renovación d e la teologia sacramentai, «Ciencia Tomista» 99 (1972) 217-257.
33 D. B orobio , o.c., 380-383.
34 Per il giudizio di Borobio sull’opera di Chauvet cfr. D. BOROBIO, El m od elo sim bòlico
d e la sacram entologia, «Phase» 32 (1992) 229-246.
3. Altre aree 127

non soltanto nelle sue pubblicazioni personali, ma anche nel corso La cele-
bración en la Iglesia, prodotto sotto il suo coordinamento dall’Associazione
spagnola dei professori di liturgia. A questo testo, in particolare al primo
volume dedicato alla sacramentaria generale, facciamo soprattutto riferimen­
to per cogliere tesi condivise e orientamenti comuni.
La tesi di fondo dell’opera è la necessità di superare la tradizionale sepa­
razione tra liturgia e sacramenti, che ha condotto le discipline liturgiche ad
estenuarsi nel rubricismo e la riflessione sistematica ad isolarsi nell’astrattez­
za. Poiché alla radice di questo stato di cose viene posta, più o meno esplici­
tamente, la fissazione medievale del settenario e la definizione scolastica di
sacramento, il percorso che conduce a ritrovare l’unità intrinseca tra i due am­
biti deve passare attraverso una ricomprensione della nozione sacramentale,
che superi l ’attribuzione esclusiva della sacramentalità ai sette sacramenti.
In base a queste premesse, che richiederebbero qualche puntualizzazione
sul versante storico e teorico, risulta immediato il collegamento tra i due
modelli sacramentali più in evidenza: quello dei discepoli di Rahner, che at­
tribuisce la sacramentalità rispettivamente a Cristo, alla Chiesa, all’uomo e al
cosmo per poi passare da una sacramentalità diffusa alla sacramentalità
«concentrata» dei sette sacramenti,35 e quello antropologico, che facendo le­
va sull’efficacia performativa del simbolo e del rito presenta i sacramenti
come espressione simbolica della salvezza nelle situazioni fondamentali della
vita. Ciò che sorprende in questo accostamento non è soltanto la pacifica
convivenza di modelli che hanno provenienze eterogenee, ma anche la so­
stanziale elusione dell’intendimento di procedere alla comprensione del sa­
cramento «a partire» dalla celebrazione.
Ciò che guida il disegno sistematico, infatti, non è l’evento della celebra­
zione del sacramento interpretato teologicamente, ma la teoria della sacra­
mentalità diffusa. Sicché si ha il semplice accostamento di una fenomenolo­
gia liturgica e di una teologia della sacramentalità, senza che l’elemento per­
tinente del programma, ovvero l ’intento di superare effettivamente la scol­
latura tra celebrazione e intelligenza del sacramento, trovi reale attuazione.36

35 Su questa linea bisogna ricordare già P. POU Y RlUS, Transformació d e la sacram entolo­
gia, «Revista Catalana de Teologia» 1 (1976) 513-530; ma soprattutto L. MALDONADO, Hacia
la su peración d e una n oción sola m en te «regional» d e la sacramentalidad, «Revista Espanda de
Teologia» 48 (1988) 5-13.
36 II risultato eclettico del procedimento di Borobio risulta particolarmente evidente nelle
affermazioni «riassuntive» che tendono semplicemente a giustapporre prospettive diverse.
Esemplarmente: «Possiamo dire che l’essenza del sacramento risponde a questi tre principi:
O n tologicam en te, il concetto di sacramentalità ha le radici nel fatto che immanenza e trascen­
denza non sono assolutamente inconciliabili, anzi nella loro alterità tendono a unirsi e a in­
contrarsi. A n tropologicam ente, il concetto di sacramentalità ha le radici nella “necessità” di
Dio di farsi comprendere dall’uomo, e nella necessità dell’uomo di comunicare con Dio: co­
municazione “simbolica”. T eologicam ente, il concetto di sacramentalità ha le radici nel biso­
gno di verità e di efficacia di comunicazione, per mezzo di un linguaggio e simbolo performa-
128 Parte prim a: Il dibattito

In parte alternativo all’orientamento di Borobio è il testo di Castillo,37


che condivide con la maggioranza degli autori spagnoli il riferimento alle te­
si rahneriane38 e la valorizzazione della categoria di simbolo, ma si distacca
nel dare del momento rituale un’interpretazione fortemente negativa: il rito
è la «degenerazione» del simbolo. Poiché l ’autore si ispira fondamentalmen­
te alla teologia della liberazione, la sua opera esula dai limiti che abbiamo
posto alla nostra ricerca. Il suo valore rappresentativo, nei confronti di posi­
zioni che in Spagna hanno trovato particolare ascolto e accoglienza, sembra
però richiedere almeno una sommaria presentazione. La tesi fondamentale
dell’opera è che «i sacramenti cristiani non sono riti religiosi, ma simboli che
esprimono le esperienze fondamentali che comporta la fede in Gesù».39 In­
terpretare i sacramenti come riti religiosi significa assecondare una mentalità
ancora soggetta alla schiavitù della legge e mantenere un accostamento ma­
gico, che confida nell’efficacia della ripetizione di un certo comportamento
stereotipo. Intendere i sacramenti come simboli vuol dire, invece, riconosce­
re che essi non scaturiscono dal gesto rituale, bensì dall’esperienza vitale di
libertà che il credente riceve dallo Spirito. «Dio opera nel sacramento, ma
non con la mediazione strumentale del rito (tale interpretazione non è altro
che una spiegazione teologica di origine tardiva) bensì attraverso l ’esperien­
za che vive il credente e proprio per mezzo di essa. E tale esperienza interio­
re che viene espressa simbolicamente nella celebrazione sacramentale».40
Parlando di simbolo, è necessario precisare che esso si pone in stretta vi­
cinanza con la metafora, da cui però si allontana non solo per la sua natura
fondamentalmente non linguistica, ma anche per il suo legame con le espe­
rienze preconcettuali dell’uomo, con il mondo delle pulsioni e dei desideri.
Proprio per questa radicazione nelle dimensioni più profonde dell’uomo (in­
conscio), e per la sua capacità di portarle ad espressione senza ridurle nei
confini del lo go s, il simbolo è «la comunicazione più profonda e più seria
delle realtà più intense dell’esistenza umana».41 Esso si presta così ad espri­
mere anche quell’esperienza di straordinaria intensità che è la libertà nello
Spirito: « l’azione di Dio si fa presente in seno all’esperienza umana del cre­
dente, ed è proprio tale esperiènza suscitata e animata dallo Spirito che vie­
ne espressa simbolicamente nel sacramento».42

tivo, che realizza ciò che annuncia, che costituisce la realtà nell’atto stesso di dirla» [D. BO­
ROBIO (ed.), La celebrazione nella Chiesa. I. Liturgia e sacramentaria fon d a m en ta le (tr. it.), o.c.,
4231
37J.M . CASTILLO, S im bolos d e libertad. T eologia d e los sacram entos, Si'gueme, Salamanca
1981; tr. it.: S im boli d i libertà. A nalisi teologica d e i sacram enti, Cittadella, Assisi 1983.
38 Tali tesi, peraltro, compaiono in maniera estemporanea nell’ultimo capitolo dell’opera,
senza concorrere a costruire una concezione unitaria della realtà sacramentale.
39 O.c. (tr.it.), 261-262.
40 O.c., 268.
41 O.c., 221.
42 O.c., 267.
3. Altre aree 129

Il rischio di questa impostazione è evidentemente la riduzione del sacra­


mento ad espressione, tendenzialmente spontaneista, di un’esperienza di li­
bertà già data in precedenza. Oltre al limite di una concezione riduttiva di
esperienza, che tende a prendere in considerazione essenzialmente il mo­
mento preconcettuale della coscienza, il sacramento viene assimilato per
questa via a una metaforizzazione, in fondo accessoria, del vissuto della fede.
Rimane però valida la denuncia dei rischi della deriva ritualistica e la sol­
lecitazione a mettere in evidenza la peculiarità della concezione cristiana del
rito, irriducibile ad ogni forma di cattura del Sacro, ma vera espressione
(contro Castillo bisogna dire: proprio nella sua forma rituale) della libertà
dello Spirito.

3.3. Area anglo-nordamericana

Il panorama della letteratura sacramentaria nell’area anglo-americana è


per molti versi emblematico dell’evoluzione in corso in questo settore della
teologia. In questa letteratura, infatti, si riflettono le tendenze e gli orienta­
menti che in momenti e luoghi diversi hanno caratterizzato e stanno caratte­
rizzando la ricerca sul sacramento. Questa pluralità di voci e di posizioni
non rende agevole fornire un quadro di insieme organico e logicamente or­
ganizzato. Gli stessi autori americani che hanno tentato di offrire una pre­
sentazione della materia43 hanno dovuto dichiarare la difficoltà dell’impresa
e accontentarsi di accostare le varie posizioni, raggruppandole con criteri
più o meni stringenti. Senza impegnarci in un’opera di ulteriore catalogazio­
ne, ci limitiamo pertanto a delineare rapidamente le linee di tendenza del
dibattito, che senza particolare originalità ricalca questioni e temi correnti.
Secondo la presentazione di O’Connell44 la ricerca americana degli anni
Sessanta è caratterizzata per un lato, come prevedibile, dall’influsso della di­
scussione conciliare e dalla recezione della Sacrosantum C oncilium , per l’al­
tro dalla traduzione in inglese delle opere di autori continentali, tra cui so­
prattutto Rahner e Schillebeeckx. Anche in America, dunque, il punto di
partenza della nuova sacramentaria è l’abbandono della sintesi classica del
D e sacram entis in g e n e r e e l’introduzione della prospettiva personalista ed
esistenzialista, centrata sulla nozione di Cristo-sacramento e di Chiesa-sacra­
mento.

43 K.W. IRWIN, R ecen t Sacram entai T heology: A R eview Discussion, «The Thomist» 47
(1983 ) 592-608; D.N. POWER - R.A. DURFY - K.W. IRWIN, Current T heology. Sacramentai
T h eology: A R eview o f L iterature, «Theological Studies» 55 (1994) 657-705. Quest’ultimo
contributo si riferisce non soltanto all’ambito americano, ma considera tutta la letteratura sa­
cramentaria.
44 M. O ’CONNELL, N ew P erspectives in Sacramentai T heology, «Worship» 39 (1965) 196-
206.
130 Parte prim a: II dibattito

Gli anni successivi vedono soprattutto una prosecuzione della ricerca sul­
la linea proposta da Rahner e Schillebeeckx, con una particolare sottolinea­
tura della dimensione fenomenologica.45 Anche nella letteratura americana,
però, lo sviluppo delle tesi di Rahner si compie spesso con scarso rigore e
con un dirottamento in senso antropologico46 che non corrisponde all’impo­
stazione originaria.
Accanto a questa tendenza, parallela al cammino della letteratura sacra­
mentaria continentale, si assiste negli anni Settanta e Ottanta ad una molti­
plicazione delle ricerche su problematiche collaterali, che per un verso dila­
tano opportunamente gli orizzonti e le prospettive della sacramentaria, ma
che non contribuiscono di fatto a fornire gli elementi per una nuova sinte­
si.47 Si moltiplicano gli studi di carattere storico, biblico, giuridico, fenome­
nologico, antropologico, ecclesiologico e cristologico,48 ma l’assenza di una
chiara istruzione del problema impedisce di configurare un quadro d’insie­
me che superi la frammentarietà e il disorientamento. Il giudizio più severo
su questo stato di cose, variamente ripreso dai commentatori, è quello di
Monika Hellwig, secondo cui la teologia sacramentale, nel senso stretto del
termine, è «scomparsa».49
In questa complessa rete di problemi si inserisce vistosamente anche in
America la questione di un’impostazione «liturgica» della ricerca sacramen­
taria,50 ma senza che si produca un reale progresso rispetto alla situazione di
incertezza del dibattito europeo. Anche in questa letteratura «dilaga» l’uti­
lizzo del simbolo,51 assunto come categoria più idonea per l ’interpretazione
della realtà sacramentale e come nozione che può favorire il dialogo con la

45 Soprattutto K.B. OSBORNE, Jesu s as Human Expression o f th è D ivine P resen ce: T oward
a N ew Incarnation o f th è Sacraments, in F.A. ElGO (ed.), The Sacram ents: G od’s L ove and
M ercy Actualized, Villanova University Press, Philadelphia 1979.
46 «Un sacramento è un’azione festiva in cui i cristiani si radunano per celebrare la loro
esperienza vissuta e per richiamare alla memoria la loro storia comune. L’azione è un simbolo
della cura che Dio si prende di noi in Cristo» (T. GUZIE, T he Book o f Sacram entai Basics,
Paulist Press, New York 1981,599).
47 È il giudizio espresso in K. W. IRWIN, R ecen t Sacram entai T heology, a.c., 605.
48 P.J. LEVESQUE, A Sim bolical Sacram entai M ethodology: An application o f t h e T hought o f
Louis Dupré, «Questiones Liturgiques» 76 (1995) 161-181, soprattutto 167-171.
49 M.K. HELLWIG, N ew U nderstanding o f th è Sacram ents, «Commonweal» 105 (1978)
}75-}80.
50 Devono essere segnalate soprattutto K.W. IRWIN, Context a n d Text: M ethod in Liturgi-
ca l T heology, Pueblo - Liturgical, Collegeville 1994 e il tentativo di un’impostazione interdi­
sciplinare proposta nei sette volumi di B. LEE (ed.), A lternative F utures f o r W orship, Liturgi­
cal, Collegeville 1987. Di diversa impostazione E. KlLMARTlN, Christian Liturgy. I. T heology,
Sheed and Ward, Kansas City 1988, che cerca di elaborare una teologia della liturgia che sia
una teologia della Trinità, utilizzando la nozione rahneriana di «simbolo reale».
51 In maniera particolarmente rappresentativa: D.N. POWER, U nsearchable R iches: The
S ym bolic Nature o f Liturgy, Pueblo, New York 1984; M.G. LAWLER, S ym bol and Sacrament.
A contem porary sacram entai T heology, Paulist Press, New York - Mahwah 1987.
3. Altre aree 131

cultura contemporanea. Alla diffusione della nozione, però, non sembra an­
cora una volta corrispondere un proporzionale sforzo di approfondimento e
una sufficiente univocità di utilizzo. Rispetto alla ricerca teoretica, sembra
prevalere l’intento pratico-pastorale e la scelta di un’«intelligente volgarizza­
zione».52
In questo contesto merita di essere segnalato uno dei tentativi più recenti
di offrire una giustificazione per una sacramentaria simbolica. Si tratta di un
articolo di P. Levesque,53 che si propone di affrontare la questione del sim­
bolo sotto il profilo metodologico. La prospettiva che fa da sfondo all’artico­
lo è il pensiero di Louis Dupré, di cui si richiamano le linee essenziali: l’e­
sperienza dell’uomo è interpretabile solo attraverso il riferimento ad una tra­
scendenza, che è colta fondamentalmente in jnaniera simbolica. A questo ri­
sultato conduce sia l’analisi dell’esperienza dei mistici, che in misura note­
volmente diversa è presente in ogni esperienza religiosa, sia il confronto e la
differenziazione del simbolo religioso dalla rappresentazione estetica, tema­
tizzata da Schleiermacher e Hegel. A partire da queste premesse e da un
confronto con le varie prospettive metodologiche che convivono nella fase
attuale della ricerca, Levesque giunge alla conclusione che «la realtà della
struttura simbolica non è semplicemente un aspetto che può essere investi­
gato nel più ampio contesto della ricerca ecclesiologica o fenomenologica sui
sacramenti. Al contrario, il simbolico è l’approccio metodologico determi­
nante per l’indagine più appropriata e diretta sui sacramenti».54 Il simbolico,
infatti, è capace di assumere e correggere le altre modalità di accostamento
alla realtà sacramentale, impedendo, ad esempio, che la problematica biblica
e storica si riducano ad un interesse ricostruttivo o che l’orientamento an­
tropologico conduca ad una dissoluzione della dimensione teologica dei sa­
cramenti.
A prescindere da una valutazione di merito, l’articolo di Levesque mette
bene in evidenza un elemento che caratterizza in maniera determinante la
fase attuale della ricerca sacramentaria: lo studio dei sacramenti tende oggi
ad essere affrontato in una prospettiva, come quella del simbolo, che chiama
in causa discipline molteplici ed eterogenee, ma non sembra caratterizzarsi
essenzialmente come prospettiva «teologica».55 Su questa via certamente la
sacramentaria ritrova il contatto con la cultura contemporanea della postmo­
dernità, che, soprattutto in America, manifesta un forte orientamento alla

52 Così H. Bourgeois [Bulletin d e T héologie sacramentaire, «Recherches de Science Reli­


gieuse» 78 (1990) 594] qualifica due recenti pubblicazioni, che risultano ira le più significati­
ve dell’area angloamericana: M.G. LAWLER, Sym bol and Sacrament, o.c., e K.B. OSBORNE, Sa­
cram en tai T heology. A g en era i Introduction, Paulist Press, New York - Mahwah 1988.
53 P.J. LEVESQUE, A S im bolicalS acram entaiM ethodology, a.c.
54 A c., 179.
55 Cfr. G. COLOMBO, Presentazione, in G. MOIOLI, Il quarto sacram ento, Glossa, Milano
1996, IX-XLIV, XXI.

]
132 Parte prim a: Il dibattito

dissoluzione dei confini tra le discipline.56 Allo stesso tempo, però, si profila
il rischio di una perdita dell’oggetto teologico della ricerca e conseguente­
mente di una condanna della teologia in genere, e della sacramentaria in spe­
cie, all’inutilità.
j

3.3.1. V anRoo

La rapida presentazione della sacramentaria anglo-americana può con­


cludersi recensendo la posizione di Willian van Roo, gesuita americano che,
dopo aver lungamente insegnato presso la Pontificia Università Gregoriana
di Roma, ha continuato negli Stati Uniti la sua attività di docenza e di ricer­
ca. La sua posizione merita di essere presa in considerazione, oltre che per il
contributo teoretico, anche per il carattere in certo modo rappresentativo
dell’evoluzione di questo settore della teologia dagli anni Cinquanta ad oggi.
La ricerca sacramentaria di Van Roo, infatti, è iniziata nel 1957 con la pub­
blicazione di uno degli ultimi manuali De sacram entis in g e n e r e ,57 che, sep­
pur aperto agli sforzi di rinnovamento della teologia preconciliare, pare an­
cora fortemente segnato nell’impostazione e nei contenuti dalla tradizione
scolastica e manualistica. Gli elementi di maggiore apertura riguardano forse
la consapevolezza della necessità di un’attenta ricerca storica e della dipen­
denza della sacramentaria generale da una considerazione dell’identità speci­
fica dei singoli sacramenti,58 ma questa attenzione ad evitare un procedimen­
to troppo deduttivo non giunge a produrre una diversa articolazione delle
tesi.
Il rinnovamento conciliare e la necessità di confrontarsi con l ’evoluzione
del dibattito teologico59 hanno successivamente indotto Van Roo, come egli
stesso esplicitamente dichiara,60 a rielaborare profondamente l ’impostazione
della sua sacramentaria. Il fattore decisivo in ordine a questa trasformazione
è stato l ’introduzione della prospettiva simbolica come elemento chiave per
comprendere teologicamente il sacramento. Se già nel trattato manualistico
Van Roo aveva utilizzato, seppur in maniera marginale, il vocabolario sim­
bolico,61 la revisione dell’opera, intrapresa a distanza di dieci anni, gli mo­

56 Cfr. R. RORTY, C ontingency, Irony and Solidarity, Cambridge University Press, Cam­
bridge 1989.
57 W. VAN Roo, De sacram entis in g en ere, Gregoriana, Roma 1957.
58 Cfr. Praefatio, V-VI.
59 È da segnalare al riguardo il confronto critico di Van Roo con la posizione di Rahner,
espresso in W. VAN Roo, R eflection s on K arl R ahner's «K irche un d Sakramente», «Gregoria-
num» 44 (1963) 465-500.
60 Cfr. W. VAN ROO, Man th è Sym bolizer, Gregoriana, Roma 1981,1.
61 Ad es. nel commentare la definizione di sacramento: «ACTUS EXTERIOR: signum sensi­
bile de quo agitur non est simpliciter res quaedam vel elementum materiale, sed actus exter-
nus Divino-humanus, gestus symbolicus» ( D e sacram entis in g en ere, o.c., 63).
3. Altre aree 133

strava la necessità di una lunga deviazione attraverso la ricerca dell’identità


del «simbolo», per poter giungere ad una vera riformulazione della nozione
di «sacramento». E proprio nell’awertire questa necessità e nel dare attua­
zione a questo programma, Van Roo esprime esemplarmente l’orientamento
corrente della teologia sacramentaria, variamente incontrato nel dibattito so­
pra recensito.
L ’opera di revisione del De sacram entis, iniziata nel 1967, è giunta a com­
pimento soltanto nel 1992, con la comparsa di The Christian Sacrament, che
già dal titolo annuncia il suo carattere di rifacimento del trattato. La struttu­
ra del volume è emblematica: dopo aver colto il problema sacramentale a
partire dai testi biblici relativi al Battesimo, l’opera prospetta l’evoluzione
storica della terminologia e della problematica sacramentale dall’antichità al­
l ’epoca contemporanea, per poi riassumere nella parte «decisiva» del discor­
so i risultati della ricerca sul simbolo, estesi poi, con le dovute cautele e la
dovuta «analogia», al simbolismo «divino-umano» in cui «rientrano» i sette
sacramenti.
Tralasciando una presentazione dettagliata delle tesi dell’opera, che pe­
raltro non introducono novità di rilievo, concentriamo l’attenzione sul per­
corso metodologico seguito dall’autore. Come la struttura del testo lascia
chiaramente trasparire, il momento determinante per l’impostazione della
teologia del sacramento è la comprensione dell’identità del simbolo. 11 sim­
bolo, però, non viene studiato nella sua identità teologica, in riferimento ai
contenuti e alla modalità della Rivelazione, bensì riportando in sintesi i risul­
tati di un’opera precedente, significativamente intitolata Man th è Symboli-
zer,62 in cui la problematica simbolica era stata affrontata sostanzialmente
come questione di filosofia antropologica. Sicché la chiave di volta per l’in­
telligenza «teologica» del sacramento diviene la nozione «filosofica» di sim­
bolo, elaborata a partire dai procedimenti cognitivi ed emotivi che costitui­
scono la soggettività e l’intersoggettività umana. Se nel manuale del ’57 la
dimensione antropologica del sacramento non aveva rilievo sostanziale, nel
testo del ’92 buona parte del discorso sistematico è occupato dall’analisi del­
la coscienza e delle molteplici forme della sua intenzionalità.
Ma poiché il discorso filosofico sul simbolo, nonostante tutte le sue suc­
cessive «traduzioni» teologiche, non può «sostituire» l’indagine teologica sul
sacramento, paradossalmente quando Van Roo offre la definizione di sacra­
mento che emerge dal lungo ripensamento del trattato, egli ripete sostan­
zialmente quella del manuale. Se il testo del ’57 recitava: «Sacramentum No-
vae Legis est actus cu ltu s ex terìor quo Christus p er Ecclesiam et ministrum,
repraesentan do m ysteria carnis suae, significat et efficit ex op ere operato sanc-
tifica tion em h om in is apte dispositi»,63 il testo del ’92 propone: «Il sacramento

62 W. VANRoo, Man th è Symbolizer, o.c.


63 W. VANRoo, De sacram entis in gen ere, o.c., 63.
134 Parte prim a: Il dibattito

cristiano è un atto d i cu lto pu bblico attraverso cu i Padre, Figlio e Spirito San­


to, attraverso la m ediazione d i Cristo sacerdote, della Chiesa, d el m inistro e
d ell’azione sim bolica essenziale, ripresentano il m istero d ell’azione salvifica di­
vina ch e raggiun ge questa persona, e attraverso l ’efficacia reale d el rito consa­
crano e/o santificano la persona ch e è disposta a ricev ere il d on o divin o».M
Gli spostamenti di accento sull’efficacia simbolica del rito non sono tali
da poter parlare effettivamente di un rinnovamento «teologico», a conferma
del fatto che la teologia può rinnovarsi soltanto «dal di dentro», coltivando
con convinzione l ’interesse per i temi più rilevanti della cultura contempo­
ranea, ma mantenendo rigorosamente la propria specificità.

64 W. VANRoo, The Christian Sacrament, Gregoriana, Roma 1992,178.


4. BILANCIO

Alla conclusione della panoramica sugli sviluppi della letteratura sacra­


mentaria generale negli ultimi trentanni, un bilancio dei risultati dell’inda­
gine è tanto necessario quanto difficile.
Il primo dato che emerge con chiarezza dalla considerazione dei singoli
autori e delle varie correnti presenti nel dibattito è, infatti, la molteplicità
delle direzioni in cui la ricerca sacramentaria è impegnata e della varietà de­
gli stimoli cui è sottoposta. Concorrono a generare questa complessità, in­
nanzi tutto, le questioni connesse al ritrovato collegamento della sacramen­
taria con gli altri rami della teologia. I sacramenti, non più positivisticamente
considerati come realtà a sé stanti, richiedono oggi l’approfondimento dei
nessi cristologici-pneumatologici ed ecclesiologici in termini certamente più
impegnativi di quelli sufficienti alla semplificatrice impostazione del ma­
nuale: istituzione da parte di Gesù; produzione della Grazia; destinazione al
singolo credente.
D’altra parte la complessità non dipende soltanto da motivi «intrinseci»
allo sviluppo teologico della ricerca, ma proviene anche dalla pressione eser­
citata per un verso dalla rapida evoluzione della cultura occidentale,1 per
l’altro dalle urgenze della situazione pastorale.2
Sul primo versante la sacramentaria partecipa, come è ovvio, al disagio e
alla provocazione avvertiti in genere dalla teologia di fronte a una cultura ir­
riducibilmente lontana dalle categorie e dalle strutture concettuali che han­
no segnato lungamente l’intelligenza critica dei dati della fede. Per questo la
ricerca sacramentaria sente di non potersi accontentare di una semplice ri­
comprensione «aggiornata» di alcune singole questioni, per «tradurre» la
«dottrina» tradizionale in una forma più «accessibile», ma, doverosamente,
riconosce la necessità di un lavoro di ricerca sul piano delle categorie fon­
damentali e delle strutture formali che permettono di «pensare» i sacramen­

1 Ad es. la prima parte di L.-M. CHAUVET, Sym bole et sacrem ent. Une relectu re sacramen-
telle d e l ’ex isten ce ch rétien n e, Cerf, Paris 1987.
2 Cfr. J . RATZINGER, D ie sakram entale B egriindung christlicber Existenz, Kyrios-Verlag,
Freising 1966; P.M . GY, P roblèm es d e th éo lo gie sacram entane, «La Maison-Dieu» 110 (1972)
129-142; R. DIDIER, Les sa crem ents d e la foi. La Pàque dans ses signes, Centurion, Paris 1975.
136 Parte prim a: Il dibattito

ti. Tale consapevolezza spiega il moltiplicarsi di proposte, anche «radicali»,


di una «trasformazione» della sacramentaria, in direzioni più o meno abboz­
zate, in proporzione alla profondità dei cambiamenti e all’ampiezza delle
questioni sottese.
Sul secondo versante i risultati della Riforma liturgica, alternamente in­
terpretati in chiave di maggiore o minore riuscita, hanno in ogni caso costi­
tuito un nuovo quadro celebrativo a cui la ricerca sistematica non può rima­
nere indifferente. Non solo per le domande che in ogni epoca accompagna­
no la prassi pastorale della Chiesa, stimolando un progresso della ricerca, ma
anche per la nuova, o recuperata, consapevolezza che la «teologia» del sa­
cramento non può avere altro punto di partenza che la «celebrazione» del
sacramento. Si tratta di un’acquisizione sufficientemente consensuale, che
però non si traduce ancora in un serio e condiviso orientamento metodolo­
gico. Ne è un segno evidente la confusione relativa al rapporto tra conside­
razione liturgica e considerazione sistematica del sacramento, dove, quanto
meno, la rivendicazione della necessità di valorizzare la natura celebrativa
del sacramento spesso si riduce a una sottrazione di indagine teoretica.
Ricondotta alle sue cause, o almeno alle principali, la complessità del di­
battito sacramentario cessa in parte di stupire e trova la sua collocazione sul­
lo sfondo di un’evoluzione che, nonostante l ’abuso della parola, si può ben
dire «epocale». A sorprendere, piuttosto, è la trascuratezza nei confronti di
ciò che una simile trasformazione sembrerebbe richiedere con particolare
urgenza: uno sforzo di riflessione metodologica che permetta di fare fronte
alle questioni sopra indicate, senza cedere alla tentazione di nuove sintesi
fragili e frettolose. Quanto più è viva la consapevolezza che non è richiesta
un’operazione di aggiustaggio superficiale, ma di profondo ripensamento,
tanto più ci si dovrebbe attendere una cauta e ponderata opera di imposta­
zione della ricerca.
L’analisi delle posizioni recensite deve rassegnarsi a riscontrare che tale
«ponderazione» spesso manca. Di qui il trasformarsi della legittima e, sic
stantibus rebus, attendibile «complessità» in un patologico «disorientamen­
to». Le forme e i passaggi di questo disorientamento sono già state illustrate
volta per volta, segnalando le eventuali incertezze e cadute di tono della ri­
flessione. Ciò che qui merita di essere richiamato è che, in mancanza di
un’impostazione metodologica discussa e motivata, hanno contribuito a di­
sorientare la ricerca anche fattori che potrebbero/dovrebbero, invece, con­
correre al superamento d e ll’impasse.
Questo vale, ad esempio, per le indicazioni provenienti dalla ricerca filo­
sofica. Nel periodo considerato, si tratta soprattutto della rivalutazione della
«prassi» e della «storia», della critica alla tradizione metafisica, in vista di un
rinnovamento o di un abbandono del discorso ontologico, e dell’introduzio­
ne della problematica «comunicativa». In tutti i casi, la tendenza è stata
quella di un’immediata trascrizione teologica della questione filosofica rite­
4. Bilancio 137

nuta di volta in volta più conveniente alla soluzione del problema sacramen­
tario.
Altrettanto, e forse peggio, è capitato nei confronti delle scienze umane
(soprattutto scienza della religione, psicologia, sociologia, linguistica, psica­
nalisi), che indubbiamente costituiscono la «novità» impostasi all’attenzione
della teologia postconciliare. Come tutte le novità, le scienze antropologiche
hanno affascinato, giovandosi della disaffezione della teologia verso la tradi­
zione filosofica precedente e proponendosi come partners affidabili per il so­
spirato rinnovamento. La sacramentaria, però, si è dimostrata impreparata
all’incontro. E quanto attesta innegabilmente la frequente assimilazione tra
idee teologiche, nozioni filosofiche e categorie scientifiche,3 oggettivamente
favorita anche dall’identità, e dunque dall’ambiguità terminologica.4
In entrambi i casi, la sacramentaria ha più volte mostrato la difficoltà di
mantenere la specificità della propria prospettiva, adagiandosi sulla nozione
di prassi trasformatrice della Scuola di Francoforte o rimettendosi alla «me-
ontologia» heideggeriana, concentrandosi sui risultati delle scienze comuni­
cative o perdendosi nel labirinto delle molteplici prospettive simboliche.
Sicché il quadro di insieme fondamentalmente non si può fare, perché i tas­
selli che dovrebbero comporlo sono troppo dispersi e disparati.
E possibile, però, evidenziare sullo sfondo di questa molteplicità di voci e
orientamenti alcuni elementi, se non comuni, per lo meno prevalenti, e in
quanto tali indicativi non tanto di soluzioni accertate, ma di problemi con­
divisi. Abbiamo già accennato al profilo «fondamentale» della riflessione.5
Gli autori più significativi di questi trent’anni hanno compreso la necessità
di una reimpostazione del discorso non tanto a livello tematico, quanto a li­
vello formale. Per questo occupano vasto spazio nelle trattazioni considerate
gli sviluppi delle nozioni fondamentali di «sacramento», «sacramentalità»,
«simbolo», «rito» e altre simili.6
In secondo luogo caratterizza largamente la posizione degli autori recenti
il superamento di una nozione «regionale» di sacramentalità,7 in direzione di
un allargamento tendenzialmente onnicomprensivo.8

3 Cfr., ad es., la sovrapposizione indebita tra «efficacia simbolica» e/o «rituale», «perfor-
matività linguistica» ed «efficacia sacramentale».
4 Esemplare la confusione sul «simbolo» variamente inteso in prospettiva metafisica clas­
sica (Chenu, Rahner, Lies), grosso m odo antropologica (rahneriani), psicanalitico-sociologica
(Chauvet), comunicativa (Hunermann).
5 Soprattutto Chauvet, ma già Schneider e tendenzialmente i discepoli di Rahner. Cfr. G.
COLOMBO, T eologia sacram entaria e teologia fondam entale, «Teologia» 19 (1994) 238-262.
6 Ad es. «azione cultuale» (Schaeffler), «prassi trasformatrice» (Schupp), «azione comu­
nicativa» (Ganoczy), «figura di vita» (Hunermann), «incontro personale» (Lies)...
7 L. MALDONADO, Hacia la superación d e una noción solam ente «regional» d e la sacramen-
talidad, «Revista Espanola de Teologia» 48 (1988) 5-13; H. BOURGEOIS, Positions du sacra-
m en tela u jo u rd ’hui, «Recherches de Science Religieuse» 75 (1987) 175-202.
8 P. POU Y RlUS, La p resencia d e Cristo en los sacram entos, «Phase» 6 (1966) 177-200; L.
138 Parte prim a: Il dibattito

Altro fattore di convergenza, seppur solo estrinseca, è la valorizzazione


del «simbolo» come categoria «decisiva» per la precisazione dell’identità
teologica del sacramento, e conseguentemente l’attenzione privilegiata al «ri­
to» come realizzazione concreta del simbolo sacramentale.
Ma l ’elemento che ci sembra maggiormente presente nel dibattito, e che
forse ne può illuminare maggiormente gli sviluppi, ci pare il riferimento
mantenuto/variato/abbandonato con il pensiero rahneriano. Se la teologia
sacramentaria postconciliare ha una caratteristica di fondo è quella di essere
una sacramentaria partita, o ripartita da Rahner.9 E questo per vari motivi.
Innanzi tutto perché l ’ascesa dell’interesse per Rahner ha segnato la scom­
parsa, o quasi, delle prospettive che fino a quel momento avevano favorito il
rinnovamento liturgico-sacramentario, propiziando in particolare, come a
suo luogo documentato, l’eclisse dell’ispirazione caseliana, ancora in attesa
di una più produttiva valorizzazione. In secondo luogo per la rapida diffu­
sione delle tesi, che in mancanza di un vero ripensamento teologico delle
questioni, vengono utilizzate nei contesti più disparati10 come supporto per
le «innovazioni» surrettiziamente introdotte da altri campi del sapere. Infine
perché buona parte degli orientamenti più recenti della ricerca sono com­
prensibili solo come un prolungamento e una trasformazione di alcuni nu­
clei centrali della sacramentaria rahneriana, svolti e condotti in una direzio­
ne che solo superficialmente lascia riconoscere l ’impronta del maestro.
Lo svolgimento diacronico di questa parabola, già evidenziato, dove pos­
sibile, all’interno delle singole aree geografiche, merita di essere qui richia­
mato con uno sguardo più trasversale, nella consapevolezza di operare una
scelta nella disposizione dei dati, ma nella persuasione di una sostanziale fe­
deltà all’insieme dell’evoluzione. Affermare che il punto di partenza è Rah­
ner significa riconoscere che l ’evoluzione del dibattito postconciliare affon­
da le radici in una collocazione «ecclesiologica» della tematica sacramenta­
ria. Correggendo un secolare riduzionismo individualistico, che concepiva i
sacramenti come mezzi di grazia per il singolo credente, e una tendenziale
irrelatezza tra sacramentaria ed ecclesiologia, Rahner ha infatti proposto una
salda congiunzione dei sacramenti con la Chiesa, al punto da intenderli pri­
mariamente come azioni attraverso cui la Chiesa compie e realizza eminen­
temente se stessa. E la Chiesa, infatti, il sacramento efficace (tvirksam es Zei-
chen), la presenza visibile della grazia escatologica di Dio in mezzo agli uo-

BOFF, M inima sacramentalia. Os sacram entos d e Vida e a Vida dos sacram entos, Vozes, Pe-
trópolis 1975.
9 Cfr. D. ZADRA - A. SCHILSON, S ym bol u n d Sakrament, in C hristlicher G laube in m oder-
n er G esellschaft (= Enzyklopadische Bibliothek 28), Herder, Freiburg - Basel - W ien 1982,
86-150; M. SEILS, Sak ram ententheologie, «Verkiindigung und Forschung» 39 (1994) 24-44;
K.W. IRWIN, R ecen t Sacram entai T heology: A R eview D iscussion, «The Thomist» 47 (1983)
592-608; D.N. POWER - R.A. DURFY - K.W. IRWIN, C urrent T heology. Sacram entai T heology:
A R eview ofL iterature, «Theological Studies» 55 (1994) 657-705.
10 Da Chauvet a Castillo, da Schneider alle sintesi americane.
4. Bilancio 139

mini. Lo è con tutta se stéssa, nella sua missione di annuncio e di servizio,


ma lo è in maniera del tutto particolare quando si impegna nella celebrazio­
ne dei sacramenti, dove, secondo la prospettiva del «simbolo reale», essa
esprime e, dunque, realizza al massimo grado se stessa. Se il rapporto dei sa­
cramenti alla Chiesa costituisce un felice recupero della prospettiva patristi­
ca, testimoniata anche dai testi liturgici, la modalità con cui questo recupero
è stato realizzato da Rahner è di fatto nuova, perché non porta a concepire
la Chiesa a partire dai sacramenti, ma i sacramenti a partire dalla Chiesa.
In questa forma la tesi di Rahner ha avuto solo una parziale sopravviven­
za. E sopravvissuta, infatti, al di là della ripresa di Schulte, soltanto nel senso
dell’affermazione di una sacramentalità della Chiesa, di cui si parla spesso in
maniera piuttosto fumosa e imprecisa.11 D’altronde era tesi sostanzialmente
«teorica», frutto di una sistemazione dei dati del sapere fortemente segnata
dalla prospettiva metafisica del «simbolo reale» e scarsamente verificata nel­
la sua base tradizionale attraverso la ricerca storica. Per questo, sotto il peso
di alcune voci critiche (Kasper, Ganoczy, Colombo) e soprattutto delle pro­
fonde trasformazioni culturali del Postconcilio, si è spenta nelle sue motiva­
zioni originarie, divenendo secondaria rispetto alla problematica antropolo­
gica.
Il profilo «antropologico» dei sacramenti era già oggetto di attenzione
nella ricerca di Rahner, ma la collocazione della problematica sacramentaria
all’interno della questione ecclesiologica impediva che la riflessione imboc­
casse la direzione di cercare nell’«umano», evidentemente da non contrap­
porre al «cristiano», ma neppure semplicemente da identificare con esso, la
chiave di comprensione del sacramentale. Il che, invece, è capitato con ac­
centi ed esiti diversi «dopo» Rahner, quando la teologia nel suo complesso
ha conosciuto una «disaffezione per l’ecclesiologia».12 Disaffezione parados­
sale, se è vero che il rinnovamento ecclesiologico costituisce il frutto maturo
della teologia del Novecento e dell’evento conciliare.
Ad orientare la riflessione sacramentaria verso il superamento dell’im­
postazione ecclesiologica e verso l ’apertura all’«uomo» è stato soprattutto il
desiderio di rendere accessibile la realtà sacramentale al «mondo», ormai
lontano dalla Chiesa e incapace di comprendere i suoi riti. E parso perciò
necessario scavalcare la mediazione, storica e concettuale, della realtà eccle­
siale, per collegare i sacramenti direttamente all’antropologia. Più precisa-
mente all’antropologia delle scienze umane, incontrata proprio nel momento
in cui manifestava la pretesa di sostituire all’astrattezza della sintesi filosofica
la concretezza dell’indagine empirica sui dinamismi umani.

11 Cfr. A. GANOCZY, Einfiihrung in d ie k atholhche Sakramentenlehre, Wissenschaftliche


Buchgesellschaft, Darmstadt 21984; 114-116.
12 G. COLOMBO, P resentazione, in G. MOIOLI, Il quarto sacram ento, Glossa, Milano 1996,
IX-XLIV, XII.
140 Parte prim a: II dibattito

Nel compiere questo passaggio, però, la sacramentaria non ha ritenuto di


dover abbandonare le tesi rahneriane, ma piuttosto di correggerle e/o inve­
rarle, completando quanto in esse vi era di troppo astratto rispetto alla con­
siderazione delle condizioni effettive (la «storia») in cui l ’uomo si apre alla
salvezza. Per questo nella rilettura di Rahner sono passati in primo piano,
non senza trasformarsi, i temi antropologici e, in particolare, l’interpretazio­
ne simbolico-reale del «corpo» umano. Gli esiti di questa operazione sono
stati descritti nella parte analitica e sono difficilmente inquadrabili in un or­
dine coerente, debitori come sono degli influssi «stagionali» della mutevolis-
sima ricerca antropologica. Ci limitiamo a sottolineare qui la necessità di di­
stinguere le soluzioni che hanno sostanzialmente omologato l ’identità sa­
cramentale con l’efficacia antropologica del «rito», da procedimenti più av­
vertiti nel salvaguardare l ’indeducibile novità della grazia e il primato del ri­
ferimento cristologico.
In ogni caso il modello tipico di questa produzione schiera la seguente
concatenazione di concetti: il «corpo» è il «simbolo» fondamentale in cui si
articolano i molteplici elementi dell’esperienza dell’uomo; Gesù (Ursakra-
m ent) invera e apre ad una trascendenza trinitaria il simbolismo umano/reli­
gioso; la Chiesa (G rundsakrament) continua/prolunga l ’azione di Gesù; i sa­
cramenti sono il vertice di questa azione e il pieno compimento del simboli­
smo antropologico. Talora il modello conosce una variante «cosmologica»: il
mondo è già tutto «sacramentale» e i sacramenti permettono di scoprire la
salvezza già sempre offerta in ogni cosa, incontro, occasione.
Rimandando la discussione delle tesi, è necessario segnalare che il con­
cetto di sacramento «dipende» in questo orientamento dalla nozione (filoso­
fica, sociologica, psicologica) di simbolo assunta in riferimento all’esperienza
antropologica. Il momento cristologico, infatti, non è «veritativamente» rile­
vante, ma solo portatore di un nuovo, più ampio e decisivo ambito, in cui il
simbolismo antropologico, in sé già chiaro, si esercita.
In questa direzione la teologia sacramentaria viene tendenzialmente a
coincidere con la teologia tou t court, perché anziché avere contenuti propri e
specifici da elaborare, si presenta piuttosto come struttura «fondamentale»
capace di ospitare i contenuti cristologici, ecclesiologici e antropologici, cioè
sostanzialmente tutti i dati della fede.
Il terzo momento del dopo-Rahner differisce dal secondo perché ne è la
radicalizzazione. Esso viene indicato esplicitamente dalla critica13 in riferi­

13 A. HAQUIN, Vers u n e n o u velle th éo lo gie fon d a m en ta le d es sacrem ents: d e E. S chille­


beeckx à L.-M. Chauvet, «Questions Liturgiques» 75 (1994) 28-40; D.N. POWER - R.A.
DURFY - K.W. IRWIN, C urrent T heology. Sacram entai T heology: A R eview o f Literature, a.c.
705. Quest’ultimo articolo a più mani, esaurita la presentazione dei filoni rahneriani e di al­
cuni sviluppi «particolari» (liberazionista, femminista ecc.), presenta in Chauvet e Marion (il
cui impegno sacramentale è marginale rispetto alla sua produzione) i rappresentanti del­
l’attuale momento postmoderno. Inoltre G. COLOMBO, P resentazione, cit., XXV-XXVIII.
4. Bilancio 141

mento a Chauvet e alla sua teologia «postmoderna», a cui si possono affian­


care i tentativi di una sacramentaria comunicativa. Caratteristico di questo
momento è la radicale riduzione della sacramentalità alla simbolicità e l’ab­
bandono sicuro della prospettiva ontologica, in favore della «meontologia»
di cui il simbolo è appunto espressione. La critica teme che questa imposta­
zione conduca ad uno svuotamento non solo della destinazione ecclesiale del
sacramento ma anche della sua dipendenza cristologica, poiché i riti sacra­
mentali si vedono attribuito, unilateralmente, il ruolo fondamentale di far
sperimentare l’assenza del Signore. Bisogna, però, con sorpresa registrare
che anche in queste posizioni, così lontane dal ceppo rahneriano, le tesi della
Chiesa G rundsakrament e di Cristo Ursakrament ritornano come un posses­
so pacifico e assestato, sfidando la rivoluzione antimetafisica, e forse anche,
più semplicemente, la coerenza della riflessione.
Sicché dopo Rahner la sacramentaria è andata «oltre» Rahner, ma sem­
pre in compagnia del suo pensiero, più o meno rispettato e integrato, e in
qualche modo attingendo ispirazione alla «svolta antropologica» da lui, in
altri termini rispetto a quelli attuali, propiziata.
Se questo ci sembra essere il quadro che emerge dalla rassegna della let­
teratura, non mancano certo gli interrogativi e i problemi da affrontare, ché
anzi la frammentarietà delle posizioni ne pone fin troppi. La seconda parte
del nostro lavoro vorrebbe cercare di affrontarne alcuni, con l’intento quan­
to meno di renderne più istruita la formulazione e con la speranza di poter
giungere a qualche iniziale indicazione propositiva in vista di un incremento
della ricerca.

i
Parte Seconda
I PROBLEMI

Il dibattito sacramentario che abbiamo considerato nella prima parte del­


la nostra ricerca, nonostante la ricorrenza delle formule sintetiche cui si affi­
da, si presenta nella sostanza piuttosto disomogeneo e frantumato. Questa
caratteristica non permette di ritrovare, all’interno della letteratura, la pre- •
senza di questioni già adeguatamente istruite e, meno ancora, la formulazio­
ne di soluzioni teoreticamente robuste. L’indagine circa i problemi emergen­
ti, cui è dedicata la seconda sezione del lavoro, non può pertanto avere altra
fisionomia che quella di una discussione aperta e non risolutiva, volta più a
precisare e a valutare l’impostazione delle tematiche in esame, che a propor­
ne la trattazione teoretica. Il che non significa che si voglia previamente ri-,
nunciare ad offrire, ove possibile, qualche suggerimento in vista di un in­
cremento della ricerca, eventualmente anche in'«controtendenza» rispetto
agli orientamenti prevalenti.
La scelta dei problemi su cui fermare l’attenzione è motivata dal duplice
carattere della loro ricorrenza nella letteratura esaminata e dalla necessità di
un’impostazione più rigorosa. Balzano, pertanto, immediatamente all’atten­
zione le questioni relative all’«estensione» della nozione di sacramento oltre
la regione tradizionale del settenario, l’utilizzo della categoria di «simbolo»
come nozione risolutiva dei problemi della sacramentaria e la nuova atten­
zione alla natura «rituale» dell’azione liturgico-sacramentale. Benché si tratti
di tre questioni non del tutto indipendenti e spesso presentate dagli autori in
maniera unitaria, preferiamo svolgerle in tre capitoli distinti per meglio mo­
strare la complessità interna dei problemi, l ’incertezza di non poche soluzio­
ni e la conseguente approssimazione di molte formule sintetiche.
5. SACRAMENTO E SACRAMENTALITÀ

La tesi della sacramentalità «diffusa» costituisce certamente uno degli


elementi caratterizzanti la teologia sacramentaria recente. Come è emerso
dalla presentazione del dibattito nella prima parte del nostro lavoro, l’«allar-
gamento» della nozione di sacramento costituisce uno dei punti in cui sor­
prendentemente convergono modelli teologici disparati e perfino recipro­
camente alternativi. Tale inattesa convergenza, che ha offerto alla letteratura
divulgativa lo spunto per una spesso incontrollata enfasi sulla dimensione
«sacramentale» dell’esistenza, suscita, però, il sospetto di essere precipitosa
e di confondere, sotto il velo di un linguaggio apparentemente identico, con­
tenuti distanti e tra loro non assimilabili. Il sospetto è alimentato anche dalla
considerazione che, nel periodo più recente, la tesi si mantiene con partico­
lare tenacia soprattutto nelle aree dove il dibattito si presenta più fragile e
ripetitivo, mentre sembra trovare una più attenta decantazione dove la ricer­
ca si prospetta in termini innovativi.
Poiché nella questione della «sacramentalità diffusa» è in gioco la nozio­
ne stessa di «sacramento», la teologia sistematica non può che interessarsi a
una chiarificazione del problema sottostante alla nuova impostazione, nella
consapevolezza che non si tratta soltanto di accordarsi su un certo utilizzo
del linguaggio teologico, ma di operare un profondo ripensamento dei rap­
porti tra i contenuti della fede. Chi sostiene la necessità di un uso «indiscri­
minato» della categoria sacramentale per .designare ogni realtà, in quanto in­
serita nel piano salvifico di Dio e portatrice di un riferimento all’evento cri­
stologico, pensa infatti di proporre, o meglio di riproporre, una più ricca ar­
ticolazione dell’intelligenza della fede, sostituendo alla comprensione ten­
denzialmente frammentaria e positivistica propria della tradizione di scuola
un accostamento unificante, che si fa derivare dalla tradizione patristica. La
tesi del «sacramentale» come dimensione trasversale a tutto l ’universo cri­
stiano, umano e cosmico, viene, infatti, proposta non come l’apertura di una
«nuova strada», ma piuttosto come il «recupero» di un dato tradizionale,
che la rigida sistematizzazione del settenario ha fatto troppo a lungo dimen­
ticare.
Agli indubbi vantaggi del radicamento nella tradizione ecclesiale genuina
e della coerente espressione del legame tra i vari aspetti della vita cristiana,
146 Parte seconda: I p rob lem i

la teologia della sacramentalità diffusa aggiunge, infine, la convenienza alla


D enkform contemporanea, caratterizzata da una riscoperta del «simbolico»,
che si presta ad un apparentamento molto stretto con il ritrovamento del
«sacramentale». La proposta si arricchisce così di un particolare tratto d’ele­
ganza, perché si mostra capace di trovare la massima vicinanza con la cultu­
ra contemporanea, valorizzando uno dei dati più tradizionali della fede.
Se uno sguardo d’insieme può indirizzare facilmente verso un’accoglien­
za favorevole di quest’orientamento teologico, che mette insieme vantaggi
così consistenti e plausibili, una valutazione più attenta delle singole tesi
coinvolte in quest’impostazione può, però, sollevare motivati dubbi sulla lo­
ro chiarezza e solidità.
Per riferimento alla chiarezza bisogna, innanzi tutto, chiamare in causa la
nozione stessa di «sacramentalità», che è spesso presupposta come evidente
o risolta nella non certo più consensuale, e comunque non coincidente, no­
zione di «simbolicità». Solo una sufficiente precisione terminologica e con­
cettuale permette, infatti, di non trasformare la prevedibile analogia del con­
cetto in dispersiva eterogeneità. Ma bisogna riconoscere che, quando si ap­
plica la stessa nozione a «Gesù Cristo», alla «Chiesa», alla «parola di Dio»,
all’«uomo», al «mondo» e ai «sette sacramenti», risulta quanto meno fatico­
so precisare la formalità sotto cui sono riunite realtà così disparate in una
medesima qualifica «sacramentale».
Per riferimento alla solidità, conseguentemente, ci pare necessario preci­
sare la qualità dei rapporti che giustifica l’accostamento tra i diversi ambiti
sacramentali. Limitandosi alla sola prospettiva di teologia sacramentaria ge­
nerale, e dunque rinunciando a chiarire la problematica sul versante della
cristologia (il senso e la plausibilità dell’attribuzione di Ursakrament a Gesù
Cristo), dell’antropologia e della teologia della creazione, si tratta di precisa­
re, ad esempio, se sia la sacramentalità della Chiesa a permettere di com­
prendere i sette sacramenti, o, viceversa, se sia solo nella celebrazione di
questi ultimi che la Chiesa si scopre, in un senso eventualmente da determi­
nare, sacramento di salvezza per l’umanità. Allo stesso modo sembra neces­
sario verificare il rapporto tra sacramentalità della parola e sacramentalità
della celebrazione, tra sacramentalità dei riti religiosi e sacramentalità del sa­
cramento cristiano, e così via.
Dicendo questo non si vuole affatto pregiudicare la plausibilità della ca­
tegoria del «sacramentale» per esprimere altre dimensioni della fede, rispet­
to a quella del settenario, ma semplicemente si rivendica la necessità di un
chiarimento terminologico e concettuale senza di cui non è possibile alcun
incremento della riflessione.
Nel tentativo di contribuire a questo chiarimento, procederemo a deli­
neare, in un primo tempo, i modelli teorici più rilevanti in riferimento alla
questione e discuteremo, successivamente, i problemi sollevati dal confronto
critico tra le posizioni.
5. Sacramento e sacramentalità 147

5.1.1 modelli

La tesi della sacramentalità diffusa conosce varie formulazioni, che si dif­


ferenziano sia sul piano delle motivazioni che su quello dell’estensione.
Avendo già offerto una presentazione analitica delle sintesi sacramentarie
più rilevanti, possiamo qui limitarci a caratterizzare le proposte più rappre­
sentative e più incisive in riferimento al nostro tema specifico. In particolare
dobbiamo prendere in considerazione e mettere a confronto la «sacramen­
talità» di Chauvet e quella dei discepoli di Rahner, risalendo così necessa­
riamente alle tesi del maestro e al parallelo, ma diverso, tentativo di Schille­
beeckx.
Merita, per altro, di essere segnalata fin dall’inizio l’assenza della tesi sul
«sacramentale» all’interno dei modelli di tipo comunicativo, che intendono
svolgere la ricerca teoretica a partire da un’analisi pragmatica della celebra­
zione: quasi a suggerire che la considerazione della «forma» concreta del sa­
cramento scoraggi le sintesi che troppo univocamente dipendono da una ri­
cerca ontologica o antropologica, disancorata dalla «cosa» del sacramento
cristiano.

5.1.1. C hauvet: «sacram entalità della fed e »

Nella sintesi di Chauvet l’estensione della sacramentalità trova la sua col-


locazione più radicale e centrale. Non si tratta, infatti, come a suo luogo in­
dicato, di una tesi che dipende dalla teologia sacramentaria, ma della tesi
che ne permette l’esistenza, o meglio che permette l’articolazione della teo­
logia tou t court. Parlare di sacramentalità significa, pertanto, riferirsi alla di­
mensione «fondamentale» e «decisiva» della fede, il cui riconoscimento per­
mette di uscire dalle secche dell’ontoteologia sclerotizzata e di aprirsi alla
prospettiva innovatrice del simbolico.
Se si rivolge a Chauvet la domanda circa l’identità del «sacramentale», ci
si deve disporre ad una risposta che richiede uno spiazzamento dell’interro-
gazione. Chiedere una definizione significa, infatti, rimanere vincolati alla
prospettiva rappresentativa e speculativa, che tende ad isolare gli elementi
del reale e ad esprimerne l’identità senza tenere conto dei loro legami strut­
turali. Questa forma metafisica del pensare ha segnato il tramonto dell’intui­
zione sacramentale propria dei Padri della Chiesa e ha portato all’irrigidi­
mento della sacramentalità nel settenario. Fino a quando la prospettiva me­
tafisica s’impone come modalità di accostamento al reale, la sacramentalità
della fede rimane «impensabile», perché essa richiede un modello diverso di
ragione, di tipo ermeneutico e simbolico. Si può comprendere il sacramen­
tale solo riconoscendosi già «com-presi» in esso; si può parlare della «sacra­
mentalità» della fede solo in quanto essa ci permette di parlare da credenti.
148 Parte seconda: Ip ro b lem i

All’interno di questa logica, si può capire come nel testo di Chauvet man­
chi una tematizzazione «diretta» della nozione di «sacramentalità», affidata
piuttosto al chiarimento che deriva dal rapporto tra le varie dimensioni della
vita cristiana. Trattare della sacramentalità significa, infatti, descrivere il pro­
cesso che ha mediato e che continuamente media il nostro accesso alla fede,
secondo una dinamica che costituisce una struttura trascendentale dell’esi­
stenza. Collocata su questo sfondo ermeneutico, che suppone le opzioni teo­
retiche fatte valere dall’autore nella prima parte del saggio, la sacramentalità
mostra immediatamente la sua parentela con quel «regime della mediazio­
ne» che caratterizza tutta l’esperienza antropologica. Chauvet ne parla fran­
camente in termini di «ordine simbolico cristiano», con l ’intento di far risal­
tare la sua singolarità all’interno dell’ordine simbolico, che costituisce la di­
mensione trascendentale di tutta l ’antropologia. Prima di accostare la sacra­
mentalità cristiana nella sua specificità rispetto al simbolico, si deve pertanto
registrare, in prima approssimazione, che approfondire la dimensione sa­
cramentale della fede significa riferirsi al «corpo», come luogo in cui Dio si
iscrive e si cancella; al «linguaggio» come modalità della costituzione del
soggetto; alla «società» ecclesiale come luogo in cui si esercita lo scambio
simbolico, e così via. Dato l ’interesse della nostra ricerca, rinunciamo a scen­
dere nel dibattito relativo alla figura di fede e di teologia su cui queste af­
fermazioni riposano, e ci limitiamo a mostrarne l ’incidenza e lo sviluppo
strettamente «sacramentali».
A questo riguardo bisogna, innanzi tutto, affermare che l ’impostazione
del problema del «sacramentale» in termini di «mediazione» sembrerebbe
persuasivamente suggerire che si voglia identificare nei sacramenti il «luogo»
per articolare il versante teologico (il darsi della verità liberante di Dio nel­
l ’evento di Gesù) e il versante antropologico (il darsi della libertà che fa vero
l ’uomo credente) dell’esistenza cristiana, mostrando nella singolarità della
«prassi» sacramentale la loro sintesi realizzata. La «mediazione», infatti, ri­
manda strutturalmente a due poli che sono in rapporto reciproco e che non
possono essere separati se non a costo della loro identità; la nozione, dun­
que, debitamente precisata, offre un modello proficuo per pensare il rap­
porto tra rivelazione cristologica e compimento antropologico. In realtà,
l ’analisi degli sviluppi dell’autore deve registrare la tendenza a svolgere quasi
esclusivamente il versante antropologico. Probabilmente in dipendenza dalle
opzioni filosofiche che caratterizzano la prima parte del saggio, il regime
della mediazione sacramentale rimanda più al processo del costituirsi dell’i­
dentità del soggetto credente («sacramentalità della fede») che al manifestar­
si della verità cristologica («sacramentalità della rivelazione»). E questo co­
stituisce l ’elemento differenziale, che caratterizza profondamente l ’imposta­
zione teologica dell’autore e decide dell’orientamento e della qualità del suo
pensiero.
Svolgendo la sua proposta, infatti, Chauvet apre la prospettiva del «sa-
5. Sacramento e sacramentalità 149

cramentale» sintomaticamente a partire dalla considerazione dell’ordine


simbolico che regola l’universo antropologico: «come la scrittura empirica è
la manifestazione fenomenica di queU’arci-scrittura che costituisce il lin­
guaggio in cui ad-viene il soggetto umano, i sacramenti possono essere con­
siderati la manifestazione empirica dellUlarci-sacramentalità” ch e costituisce il
lin gu a ggio della fed e, dove ad-viene il soggetto credente. Questa arci-sacra­
mentalità è una condiz ion e trascendentale d ell’esistenza cristiana».' Se però,
oltrepassando i limiti che Chauvet pone al pensiero teoretico, ci si chiede
anche «perché» l ’esistenza cristiana sia segnata in maniera trascendentale da
questa caratteristica, non sembra di poter trovare altre motivazioni rispetto a
quelle filosofiche e antropologiche su cui è edificata la prima parte del­
l ’opera. La fede ha struttura e consistenza sacramentali essenzialmente per­
ché nell’uomo l’accesso al senso e all’identità avviene attraverso il dinami­
smo del conoscere/riconoscere/agire. Quando si considera questo dinami­
smo secondo la sua mediazione linguistica in termini filosofici, si parla di
«ordine simbolico»; quando lo si considera all’interno della fede, si parla di
«ordine simbolico cristiano» (ovvero di «sacramentalità»), ma senza che il ri­
ferimento alla rivelazione cristologica determini una sostanziale innovazione
del modello, mostrandone l’ultima indeducibile legittimazione. Il contenuto
cristologico, per quanto elaborato nell’ultima sezione dell’opera in prospet­
tiva staurologica, comporta, infatti, un ampliamento soltanto «materiale»
dell’ambito del simbolico, ma non giunge a fondare la singolarità cristiana,
che legittima la distinzione tra «sacramentalità» e «simbolicità».
Non è, dunque, casuale che nell’opera di Chauvet manchi l’elaborazione
della tematica della «sacramentalità di Cristo», che pure sembrerebbe neces­
saria in una teologia fondamentale che vuole rileggere «tutti» i contenuti
della fede nella prospettiva simbolico-sacramentale. Il riferimento a Cristo
Ursakrament è, infatti, del tutto marginale, introdotto, si direbbe, per pura
inerzia del modello, in margine alla prospettazione della sacramentalità ec­
clesiale, assunta in maniera un po’ eclettica dal pensiero di Rahner.
Conseguentemente, anche la comprensione della Chiesa come sacramen­
to non si sviluppa sul versante del rapporto della Chiesa con Cristo, ma piut­
tosto sul versante del rapporto della Chiesa con i singoli credenti e con il
mondo. La Chiesa è la società in cui l’ordine simbolico cristiano si dispiega
attraverso codici, simboli e riti che permettono l’orientamento, l’identifica­
zione e quindi l’accesso alla fede dell’uomo. Essa occupa il posto di Cristo
senza riempirlo e rimanda a Lui in forza dello scarto tra la sua identità stori­
ca e la sua origine trascendente. La caratterizzazione di questo rimando, pe­
rò, avviene in termini prevalentemente negativi (evidenziazione del «posto
vacante», rimando all’«assenza» del Signore) e pertanto non sembra suffi­
ciente per caratterizzare il rapporto in termini «sacramentali». La sacramen-

1 L.-M. C h a u v e t, o.c., 108.


150 Parte seconda: I p rob lem i

talità ecclesiale così concepita si riduce, infatti, alla «resistenza» che la co­
munità impone alle pretese dell’inconscio religioso, costringendo ad una
perlaborazione del desiderio e ad un ingresso nella dinamica della media­
zione, che richiede la rinuncia alla presa gnostica sul Risorto.2
Una lettura più attenta dei testi «matriciali» a cui Chauvet fa riferimento,
in particolare dell’episodio paradigmatico per il costituirsi della fede che è
l’incontro del Risorto con i discepoli di Emmaus, mostra, però, che all’ori­
gine del regime simbolico della fede non c’è la «resistenza della Chiesa», ma
P«apparire del Signore». E lui, infatti, che, senza alcun potere d’evocazione
da parte della comunità, si presenta e si vuole far vedere, richiedendo una
correzione della memoria e una rilettura dell’evento della sua morte non co­
me contraddizione, ma come compimento della sua rappresentanza del vol­
to di Dio.3 Se la fede si struttura secondo modalità simboliche, non è sem­
plicemente in dipendenza dalla costituzione trascendentale dell’uomo, ma
perché essa corrisponde all’evidenza simbolica con cui il Risorto si presenta
all’uomo di ogni tempo. Solo all’interno di questo rapporto fondamentale e
insostituibile del credente con «Lui», la mediazione ecclesiale può essere
specificata nella sua portata e nella sua valenza «sacramentale», anche in ri­
ferimento ai testi matriciali utilizzati da Chauvet, che però non hanno diret­
tamente di mira una teologia della sacramentalità ecclesiale.
Le affermazioni di Chauvet sulla «necessità» della mediazione ecclesiale e
sul suo carattere di «resistenza» colgono effettivamente un elemento del di­
namismo della fede, ma risultano incomplete, perché mostrano tale necessità
soltanto sul versante «negativo» (l’assenza del Signore da un lato, la tenta­
zione necrotica del desiderio antropologico dall’altro) e non designano «po­
sitivamente» la consistenza di questa mediazione: il ruolo «testimoniale»4
della prassi storica ecclesiale in cui la possibilità di incontrare «proprio» il
Signore è difesa dalle pretese di cattura del divino. È vero che «il passaggio
alla fede richiede il consentimento alla Chiesa»,5 ma questo non pone la
Chiesa come «intermediaria» tra il credente e il Signore, bensì dispone sol­
tanto lo spazio in cui Egli in una maniera nuova, che può anche essere desi­
gnata con Chauvet secondo il registro dell’assenza, si dà realmente a vedere
e a riconoscere.

2 «La Chiesa radicalizza la vacanza del posto di Dio. Accettare la sua mediazione significa
accettare che questa vacanza non sia mai colmata» (o.c., 125). Non mancano nell’opera di
Chauvet affermazioni che correggono il carattere perentorio di queste tesi, mostrando la ne­
cessità di articolare il registro dell’assenza con quello di una nuova presenza, ma non ci sem­
bra che tali affermazioni correggano alla radice il modello.
3 P. SEQUERI, La storia d i Gesù, in G. COLOMBO (ed.), L’evidenza e la fe d e , Glossa, Mila­
no 1988,235-275, in particolare 246-251.
4 La singolare identità testimoniale della Chiesa non viene elaborata da Chauvet in manie­
ra adeguata, tanto che il ruolo della Chiesa sembra oscillare tra la nozione di «rappresentan­
za» e quella di «enfatizzazione dell’assenza», senza però potersi precisare in termini positivi.
5 O.c., 121.
5. Saaam ento e.saaam entalità 151

Da quanto sopra esposto risulta che la nozione di sacramentalità non tro­


va nell’autore una vera elaborazione teologica, ma designa soltanto in manie­
ra «allusiva» la modalità con cui si diventa credenti, sottostando al regime
della «mediazione ecclesiale». Il limite principale della proposta è il difetto
di elaborazione cristologica, che non permette di intendere il costituirsi della
fede come riferito alla «specifica» struttura della «rivelazione», ma solo di
ricondurlo alla struttura «trascendentale» dell’«accesso al senso».6
Riassumendo le considerazioni svolte a proposito della concezione della
sacramentalità propria di Chauvet, ci pare di dover affermare che alla legit­
tima rivendicazione di non voler assumere il modello della chiarezza concet­
tuale e definitoria, non corrisponda, però, un rigoroso procedimento che
conduca ad un’altra forma di chiarezza. Per questo, il discorso sulla sacra­
mentalità, che è poi il tema portante del pensiero dell’autore, non riesce a
trovare una formulazione sufficientemente rigorosa e perspicua. A singoli
approfondimenti, talora anche di notevole interesse, non corrisponde, infat­
ti, una solida caratterizzazione dei rapporti che determinano l’identità del­
l ’ordine sacramentale. Se la robustezza del nuovo modello simbolico si gioca
sulla capacità di mantenere la tensione dinamica esistente tra i vari elementi
della struttura della fede, bisogna riconoscere che, senza nulla togliere al ge­
neroso sforzo pionieristico della ricerca, questo sembra l’aspetto più debole
della proposta. È proprio a questo livello, infatti, che i singoli contenuti di
fede non sembrano capaci di mostrare l’articolazione loro propria, ma ten­
dono ad appiattirsi sulla correlazione che le scienze umane e la filosofia dal
loro punto di vista, che non è quello della fede, possono individuare. Così la
sacramentalità sembra avvicinarsi di volta in volta al tema heideggeriano del­
l ’assenza dell’essere, allo scambio sociale, alla performatività linguistica e al­
l ’efficacia dei riti, ma non riesce ad esibire, se non nominalmente, la propria
irriducibile singolarità.

6 Una verifica significativa di questo limite può essere rintracciata dove l’autore affronta il
passaggio dalla descrizione della sacramentalità in genere alla caratterizzazione del «sacra­
mento» in senso stretto. Ciò che permette a Chauvet di qualificare la celebrazione sacramen­
tale all’interno dell’ordine simbolico cristiano è, ancora una volta, soltanto la modalità antro­
pologica della sua attuazione. Riprendendo la tesi rahneriana per cui il sacramento si distin­
gue per il carattere assoluto dell’impegno della Chiesa, Chauvet pensa di precisare e concre­
tizzare l’affermazione sostenendo che la qualità «assoluta» di questo impegno è da mettere in
relazione alla modalità rituale che esso assume, modalità «antropologicamente insuperabile»
(o.c., 256). Anche in questo caso, come già per la tesi della «mediazione ecclesiale», la tesi ha
degli indubbi elementi di plausibilità, perché il momento sacramentale si differenzia all’inter­
no dell’esperienza credente proprio per la sua qualità di celebrazione della fede. L’afferma­
zione della portata antropologica del momento rituale non giunge, però, a rendere conto del­
la singolarità del momento sacramentale perché non è fondata cristologicamente, ma soltanto
introdotta in maniera estrinseca alla fede come acquisizione delle scienze umane.
152 Parte seconda: I p rob lem i

5.1.2. V orgrimler: «sacram entalità della rivelazione»

Un secondo modello teologico che cerca di elaborare la tematica della


sacramentalità cristiana è quello proposto dai discepoli di Rahner. I due pro­
getti sono accomunati dalla tendenza a risolvere tutta la trattazione teologica
nella prospettiva sacramentale, ma divergono profondamente nel modo di
intendere e di attuare questa risoluzione. Se per Chauvet l’unica via percor­
ribile è un radicale cambiamento d’orizzonte culturale e il passaggio dalla
ragione concettuale alla ragione simbolica, per i rahneriani, più sobriamente,
è sufficiente un riassestamento delle tematiche all’interno della figura con­
sueta di teologia. Certamente la loro proposta può vantare un consenso più
diffuso rispetto alle nuove prospettive fatte balenare da Chauvet, ma deve
anche confrontarsi con critiche puntuali, che hanno fatto valere la necessità
di significative precisazioni e correzioni. Nel discutere brevemente questo
modello assumiamo come emblematica la formulazione di Vorgrimler, la cui
pretesa di rappresentare l’eredità rahneriana pare indiscutibile.
Se ci è sembrato possibile qualificare il progetto di Chauvet come un
modello di sacramentalità «della fede», in cui la designazione dell’ambito
sacramentale avviene principalmente sul versante antropologico, il progetto
di Vorgrimler può essere caratterizzato come un modello di sacramentalità
«della rivelazione». Il riferimento al «sacramentale», infatti, è proposto dal­
l ’autore, e dai molti che seguono quest’impostazione, principalmente attra­
verso l’analisi delle caratteristiche dell’economia salvifica: «secondo una
concezione specificamente cattolica la storia di Dio con gli uomini ha una
struttura sacramentale, e precisamente nel senso che il movimento che esce
da Dio e attraverso l’intera storia umana fa ritorno a lui assume tratti sacra­
mentali sempre più precisi».7 Dunque, prima di essere una qualità del­
l ’incontro tra la libertà dell’uomo e la rivelazione storica, la sacramentalità è
una caratteristica delibazione di Dio», anzi «la» caratteristica fondamentale,
che permette la comprensione della creazione e dell’elezione all’interno di
un unico progetto: il darsi «sacramentale» di Dio all’uomo.
La libera rivelazione di Dio assume un carattere sacramentale per una ri­
gorosa necessità: «Dio, se può raggiungere gli uomini, essere detto ed essere
donato a loro, è presente in un mezzo creato, che mantiene la propria auto­
nomia creata e che tuttavia, nel processo di conoscenza interpretativa, diven­
ta trasparente nei confronti di Dio».8 In questa prospettiva la «sacramentali­
tà» si presenta, fondamentalmente, come la qualità per cui Dio opera nella
storia sempre «attraverso» mediazioni creaturali. Ma il legame tra l ’espri­
mersi storico dell’azione di Dio e la consistenza ontologica delle mediazioni
create fa sì che si possa parlare di sacramentalità anche come qualità degli

7 H. V orgrimler, o.c., 41.


8 O.c., 18.
5. Sacramento e sacramentalità 153

enti creati: « l’intera realtà, con la quale noi veniamo a contatto, è caratteriz­
zata da possibilità simboliche o sacramentali. [...] Tutto può diventare così
trasparente nei confronti di Dio, da indicare la sua reale presenza».9
Questo si realizza evidentemente in maniera diversa, attraverso una gra­
dualità di forme e di momenti, tanto da poter parlare successivamente di
una sacramentalità «naturale», di una sacramentalità «dell’Antico Testamen:
to» e di una sacramentalità «cristiana». Fondamentalmente si tratta di uno
«stesso» dinamismo, poiché tutto l’ordine creaturale deve essere compreso
in dipendenza dell’evento cristologico,10 ma le successive fasi di attuazione
dell’economia salvifica permettono una diversa consistenza sacramentale. La
piena «trasparenza» della presenza salvifica di Dio si ha evidentemente in
Gesù Cristo e nell’economia cristiana da lui istituita.
Non a caso la sacramentalità di Gesù Cristo, che nel testo di Chauvet ap­
pare con un ruolo del tutto marginale, assume nel modello dei rahneriani un
ruolo centrale e prioritario. Se tutta la realtà, e in modo particolare l’esisten­
za d ’ogni uomo, può essere interpretata in prospettiva sacramentale, è per­
ché essa dipende radicalmente dal Signore. In Gesù, sacramento originario,
giunge finalmente à pienezza quel dinamismo simbolico attraverso cui Dio si
rende presente nel mondo, e da Lui, che ha introdotto nella storia la presen­
za escatologica della grazia, prende origine la Chiesa, sacramento fondamen­
tale e visibilizzazione permanente dell’offerta definitiva di salvezza.
La presentazione della prospettiva di Vorgrimler, rapidamente richiama­
ta nei suoi tratti essenziali, permette di raccogliere intorno ad un’unica for­
mulazione affermazioni molto diffuse nella letteratura divulgativa, che grosso
m od o possono essere ricondotte a questa matrice. L’interrogativo principale
suscitato da questa proposta teologica verte sulla consistenza della nozione
di «sacramento» adottata. La verifica deve essere effettuata accuratamente,
perché solo una nozione di «sacramento» non approssimativa permette di
garantire chiarezza e univocità alle affermazioni relative ad un’economia sal­
vifica «sacramentale» e consente di operare in maniera affidabile quella ri­
duzione della teologia a teologia sacramentale che è oggettivamente inscritta
nel programma dei rahneriani.
A questo riguardo, si deve riconoscere che nel saggio di Vorgrimler esiste
una tensione non risolta tra una comprensione del sacramento per riferi­
mento alla «struttura ontologica» del reale e la sua determinazione come
«momento della prassi celebrativa» della comunità ecclesiale. L’oscillazione
appare molto vistosa già nella distribuzione dei temi in capitoli separati. Da
un lato, infatti, la sacramentalità è elaborata come una caratteristica di tutta
l’esistenza, fino a parlare della «vita» d’ogni uomo come del «sacramento

9 O.c., 18-19.
10 «L ’evento che comincia con l’inizio della creazione è l’evento-Cristo e perciò esso è, in
un senso non istituzionale, sacramentale» (o.c., 42).
154 Parte seconda: I prob lem i

fondamentale». D’altro canto, quando si deve precisare la collocazione teo­


logica del sacramento, non si può prescindere dalla sua identità ecclesiale e,
più precisamente, «liturgica». Se sul primo versante il sacramento tende ad
allinearsi al concetto di «realtà trasparente», di «simbolo» (cosa, persona,
avvenimento) che rinvia alla trascendenza, sul secondo il sacramento si de­
termina come «azione di Cristo», che è il soggetto dell’azione liturgica attra­
verso il ministero della Chiesa. La distanza tra le due direzioni di pensiero
pare francamente incolmabile.
Non si può assumere sotto la stessa categoria il creato, un evento della
storia (ad es. il passaggio del Mar Rosso), una persona (il povero...), Gesù
Cristo, la Chiesa e le celebrazioni sacramentali semplicemente perché tutto è
parte di una medesima economia salvifica, se non a condizione di rinunciare
a precisare i nessi che certamente legano tutte queste realtà, ma in una di­
stinzione inequivocabile. All’origine della difettosa elaborazione della nozio­
ne di «sacramento» da parte di Vorgrimler, e della k oin é che egli rappresen­
ta, ci sembra di dover ritrovare una troppo immediata riconduzione del sa­
cramento al rimando di una realtà visibile e immediata ad una realtà invisi­
bile e mediata, che ultimamente è sempre Dio e la sua grazia. Contribuisce
indubbiamente ad orientare in questa direzione l ’enfasi che a vari livelli è
posta sulla dimensione simbolica dell’esistenza. Ma una nozione di simbolo
non adeguatamente calibrata e troppo affrettatamente utilizzata, spesso in
modo solo allusivo, all’interno della teologia, anziché permettere un’effettiva
comprensione della realtà dei sacramenti, sposta soltanto in un altro ambito,
quello appunto del simbolico, il luogo di posizione del problema. Chiarire
l ’economia sacramentale sostenendo che si tratta di un’economia simbolica,
in cui il simbolo rimanda specificamente alla trascendenza cristologica, si­
gnifica produrre un chiarimento puramente nominale.11
Concorre, però, a produrre quest’esito insoddisfacente anche la disatten­
zione nei confronti del dinamismo antropologico che permette di cogliere
l’apertura del reale alla significazione di Dio. Il discorso di Vorgrimler al ri­
guardo non va al di là di un appello ad una considerazione «non banale»
dell’esistenza, che superi la superficialità di chi nelle cose e negli eventi non
vede l ’opera e la presenza di Dio. Ma si tratta di un appello tanto vago quan­
to scontato, che si muove sulla linea delle semplici indicazioni di massima,
tra cui si possono iscrivere anche le affermazioni di Schneider sul simbolico
come dimensione originaria dell’esistenza. Più produttivo ci è parso, pur
con i limiti a suo luogo segnalati, lo sforzo di Ratzinger e Kasper di connet­

11 Di fatto nel testo di Vorgrimler l’unica precisazione a riguardo del rapporto tra sim­
bolo e sacramento è la seguente: «La parola “sacramentale” è nel nostro contesto più precisa
della parola “simbolico”, perché tutto ciò che è sacramentale è simbolico (nel senso del sim­
bolo reale), ma non tutto ciò che è simbolico è sacramentale, poiché non ogni simbolo (reale)
comunica la presenza di Dio» {o.c., 41).
5. Sacramento e sacramentalità 155

tere la dimensione sacramentale della rivelazione con il costituirsi presso la


coscienza dell’uomo di un’apertura alla trascendenza nei momenti nodali
della vita. Anche se non elaborata, compare qui l’intuizione che la percezio­
ne della realtà come un simbolo di Dio non si costituisce «naturalmente»,
ma per riferimento ad esperienze storiche specifiche. Sono i «sacramenti»
naturali, storici e cristiani, che aprono alla comprensione di una «sacramen­
talità» e non viceversa. Certamente la tesi rimane astratta e imprecisata, ma
segnala che il chiarimento della singolare identità del sacramento cristiano
non può partire da altro luogo che dall’effettività della sua celebrazione. So­
lo all’interno della prassi della celebrazione cristiana motivata dalla fede è
possibile rintracciare il giusto senso della nozione di sacramento ed evitare la
sua indebita estensione a realtà che certo «con il sacramento» hanno a che
fare, ma che «il sacramento» non sono.

5.1.3. R ahner: «sacram entalità della Chiesa» e «sacramentalità della Parola»

Senza indugiare ulteriormente sulla discutibile posizione dei discepoli,


sembra più utile ricondurre la problematica del sacramentale alla posizione
del maestro, dove essa si trova elaborata in forma più controllata e più
istruttiva, sotto forma di affermazione di una «sacramentalità della Chiesa».
11 testo a cui bisogna fare riferimento è ovviamente K irche und Sakramen-
te, il cui intento dichiarato è superare l ’attribuzione al rapporto tra Chiesa e
sacramenti di un carattere così estrinseco da far ritenere che «la Chiesa co­
me Chiesa e la Chiesa come amministratrice dei misteri di Dio» siano «quasi
solo p e r a ccid en s un’unica e medesima Chiesa».12 La nuova elaborazione del­
la nozione di «sacramento» e la sua estensione oltre l’ambito abituale del
settenario non vuole dunque raggiungere, negli intenti di Rahner, una nuova
impostazione di tutta la teologia intorno al tema sacramentale, ma soltanto
correggere la concezione, giuridica e positivistica, dei sette sacramenti come
sette mezzi di grazia e l’interpretazione riduttiva della loro relazione alla
Chiesa in termini di mera amministrazione istituzionale. Per raggiungere
«questo» obiettivo, Rahner ritiene necessario parlare della Chiesa come
«Chiesa dei sacramenti» e dei sacramenti come «attuazione della Chiesa».13
Le tesi dell’autore sono troppo note perché siano riproposte analitica-
mente e, pertanto, possono prestarsi subito a qualche considerazione.
Pare, prima di tutto, singolare che Rahner, volendo precisare e approfon­
dire il rapporto tra la Chiesa e i sacramenti, non aw ii la sua esposizione dal­
l’evidenza che sembrerebbe costituire il logico punto di partenza della ricer­
ca, ovvero il fatto che la Chiesa «celebra» i sacramenti, in obbedienza alla

12 K. RAHNER, Chiesa e sacram enti (tr. it.), o.c., 9.


13 O.c., 9-10.
156 Parte seconda: I p rob lem i

parola del Signore. La valutazione attenta di questo dato consentirebbe, a


nostro avviso, di onorare effettivamente il proposito di parlare della Chiesa
come Chiesa «dei» sacramenti, attraverso il sondaggio della consistenza in­
trinseca del momento celebrativo nelPesperienza ecclesiale. Il saggio, invece,
prende le mosse dall’esposizione dei motivi che permettono di parlare della
Chiesa come XJrsakrament, cioè come «continuazione» e «presenza perdu­
rante della missione e della funzione storica di salvezza di Cristo».14 Il pro­
cedimento rispecchia la tendenza di Rahner, spesso censurata dalla critica, a
scavalcare l ’esame della fatticità storica in cui l ’economia salvifica si realizza,
per impostare immediatamente la trattazione a livello trascendentale. Do­
vendo pensare il rapporto tra la Chiesa e i sacramenti, egli rinuncia in par­
tenza ad una fenomenologia che tematizzi la fattualità concreta di questa
relazione e che interpreti teologicamente i dati che la prassi ecclesiale offre
alla riflessione, per procedere senz’altro all’elaborazione concettuale delle
«condizioni trascendentali» che permettono di «pensare» il dato di fede. Ma
in questo modo le indicazioni, anche pertinenti, che provengono dalla rifles­
sione trascendentale non possono nascondere i limiti derivanti dal procedi­
mento «astratto», attraverso cui sono state elaborate.
Nel caso specifico, il riferimento immediato della nozione di «sacramen­
to» alla Chiesa Ursakrament, senza una previa indagine fenomenologica ed
ermeneutica sul darsi dei sacramenti nella vita ecclesiale, orienta la ricerca in
una direzione tendenzialmente intellettualistica, in cui il «pensiero» della
nozione di sacramento sostituisce la realtà della «cosa» del sacramento, per­
ché la «cosa» è stata radicalmente ricondotta alla sua pensabilità. Così il sa­
cramento, che fin da una prima approssimazione si qualifica indubbiamente
come un'«azione della comunità ecclesiale», è pregiudizialmente dirottato
verso un’interpretazione che lo presenta come una «qualità della Chiesa».
Ma in questo modo il concetto, anziché acquistare evidenza, si «confonde»
sullo sfondo delle molteplici manifestazioni dell’identità ecclesiale.
Distolta dalla categoria delle azioni storiche e ricondotta nell’ambito del­
le qualità ecclesiologiche, la nozione di sacramento è incentrata intorno ai
caratteri di «manifestazione e realizzazione della salvezza» in una realtà visi­
bile. Su questa via si presenta la possibilità di interpretare i sacramenti valo­
rizzando la nozione di «segno», che certo concorre pertinentemente a chia­
rire l’identità cercata, ma che risulta anche più remota e generica rispetto al­
la specificità singolare della celebrazione sacramentale. Intendiamo dire che
indubbiamente il sacramento è un segno, ma certo lo è in maniera assai de­
terminata dalla sua qualità rituale: prima e meglio che un «segno», il sacra­
mento è un «rito». Rahner, però, pur supponendo una parentela e una vici­
nanza tra il sacramento cristiano e i riti delle religioni,15 non avverte la ne­

14 O.c., 15.
15 Cfr. o.c., 37.
5. Sacramento e sacramentalità 157

cessità di procedere all’esame del loro rapporto, che rimane come un dato
«ovvio», ma allo stesso tempo «insignificante» ai fini dell’indagine teologica.
Il segno sacramentale, infatti, più che per le modalità storiche della sua at­
tuazione, è considerato per le caratteristiche trascendentali che lo qualifica­
no, ossia per il suo carattere allo stesso tempo manifestativo e realizzativo,
secondo la prospettiva espressa dall’assioma tradizionale: sacramenta signifi­
ca n d o efficiu n t gratiam .
L ’attenzione qui si concentra non tanto sulle modalità attraverso cui tale
significazione efficace si realizza, ma sulla legge ontologica che permette di
non contrapporre il manifestarsi della realtà con il suo essere. Così l ’effato
relativo alla pensabilità teologica dei sacramenti viene interpretato sullo
sfondo della teoria del simbolo reale, che intende far valere non soltanto per
i sacramenti, bensì per tutti gli enti, il principio secondo cui «esprimersi» si­
gnifica «realizzarsi». La prima tesi della teoria simbolica di Rahner, infatti,
recita: « l’ente è di per se stesso necessariamente simbolico, perché necessa­
riamente si “esprime” per trovare la propria essenza».16 In tal modo il sa­
cramento, identificato in partenza come una qualità della Chiesa, si presenta
come un caso particolare all’interno della teoria ontologica del simbolo rea­
le, e si precisa come «quella» qualità per cui la Chiesa è «simbolo reale» del­
la grazia di Dio escatologicamente vincitrice: «poiché la Chiesa è segno della
grazia di Dio nel mondo, che è, definitivamente vincitrice in Cristo, questo
segno non può mai - nella possibilità reale - diventare un segno privo di
contenuto. La Chiesa, come realtà storica e sociale, è sempre e definitiva­
mente il segno con cui sempre e indissolubilmente vien dato ciò che esso si­
gnifica».17
Attraverso questo procedimento Rahner pensa di ottenere il duplice van­
taggio di superare la concezione giuridica della Chiesa, che vede nella sua
dimensione storica ed istituzionale soltanto un rivestimento estrinseco della
sua identità misterica, e di poter fondare l’efflorescenza dei sacramenti cri­
stiani sul rapporto che ontologicamente lega la Chiesa alla grazia. La visibili­
tà della Chiesa come istituzione pubblica è, infatti, ricondotta al dinamismo
intrinseco della grazia che prende forma e figura storica, e la presenza dei ri­
ti sacramentali è iscritta come un momento, e precisamente il momento
culmine, di tale processo.
Evidentemente il carattere di simbolo reale della grazia, cioè di sacra­
mento, non spetta alla Chiesa in forza di se stessa, ma in dipendenza da Ge­
sù Cristo, che è originariamente «la cosa e il segno, sacram entum e res sacra­
m en ti della grazia redentrice di Dio, la quale, mediante Lui, [...] si dà e ap­
pare come definitivamente fondata nel mondo».18 Se si vuole fondare la «sa-

16 K. RAHNER, Sulla teologia d e l sim b olo, in Saggi su i sacram enti e sull’escatologia, Paoline,
Roma 1965,51-107,57.
17 C hiesa e sacram enti, o.c., 20-21.
18 O .c., 17-18.
158 Parte seconda: Ip rob lem i

cramentalità» della Chiesa, bisogna, dunque, parlare anche di Gesù Cristo in


termini sacramentali. In questo modo, però, lo slittamento della nozione di
sacramento dall’ambito della prassi storica a quello della qualità ontologica è
ulteriormente radicalizzato. In ambito cristologico, infatti, la sacramentalità
non può che essere ricondotta a designazione allusiva della costituzione on­
tologica di Gesù Cristo, e dunque all’esplicitazione del senso e della modali­
tà dell’Incarnazione.
Il tema, in verità, non ha nel contesto di K irch e u n d Sakram ente un effet­
tivo svolgimento, ma mantiene il carattere di una premessa necessaria, af­
fermata e non svolta, in vista della coerenza delle affermazioni ecclesiologi­
che. Solo le reazioni della critica all’affermazione della Chiesa-Ursakrament
indurranno Rahner a precisare l’originarietà della sacramentalità di Gesù
Cristo e a produrre le correzioni terminologiche conseguenti. È già indicati­
vo, però, che nel semplice abbozzo di cristologia sacramentale della Quae­
stio in esame, il riferimento a Gesù Cristo come sacramento sia accompagna­
to dalla presentazione della sua opera in termini di «darsi della Parola».
Se quest’impostazione della cristologia intorno alla farsi carne della Pa­
rola rispecchia l’orientamento cristologico, e, più in generale, tutta l ’impo­
stazione della teologia di Rahner, merita, però, di essere notata ancora una
volta la tendenziale rinuncia ad un pensiero della prassi, a favore di un pen­
siero della costituzione ontologica. A Gesù Cristo, infatti, è attribuito il ti­
tolo di «sacramento» non tanto per il suo agire concreto, ma perché è il Lo­
gos incarnato, la Parola di grazia e di riconciliazione pronunciata nella sto­
ria,19 senza che la fenomenologia dei gesti e delle parole del Signore concor­
ra a precisare e a distinguere il senso di queste affermazioni. Non entriamo
qui nel merito della discussione sulla cristologia rahneriana e sulle categorie
salvifiche che essa predilige, ma ci limitiamo a registrare che il riferimento
della nozione di Ursakrament a Gesù Cristo conferma l’orientamento ad al­
lineare il proprium della nozione sacramentale con altri concetti e nozioni
che hanno un’indubbia parentela con il sacramento, ma che la tradizione
teologica non identifica con esso. E il caso, ad esempio, della nozione di
«parola». Dire che Gesù Cristo è il «sacramento originario» e dire che Gesù
Cristo è la «parola definitiva» di grazia induce ad una sovrapposizione dei
concetti, che dovrebbe essere quanto meno verificata. In Rahner, invece, la
sovrapposizione viene piuttosto ribadita che discussa. Emblematicamente
nel saggio Parola ed eucaristia.20
Il saggio intende approfondire l’analisi dei rapporti che sussistono tra la
Parola di Dio, intesa come parola attualmente predicata dalla Chiesa, e il sa­

19 «Ora nel Verbo di Dio è stata pronunciata nella storia visibile dell’umanità l’ultima pa­
rola di Dio, come parola di grazia, di riconciliazione e di vita eterna: Gesù Cristo» [o.c., 17).
20 Parola ed Eucaristia, in Saggi sui sacram enti e sull'escatologia, Paoline, Roma 1965,109-
172.
5. Sacram ento e sacramentalità 159

cramento cristiano, in particolare l’Eucaristia. I motivi che orientano ad una


simile ricerca sono molteplici, e vanno dalla centralità di queste due dimen­
sioni all’interno della vita ecclesiale fino agli stimoli che provengono dal rin­
novamento della teologia, che avverte in modo sempre più urgente la neces­
sità di colmare la lacuna relativa alla teologia della Parola. Il motivo princi­
pale, però, è formulato in questi termini: «parola e sacramento sono così si­
mili, che ci si deve porre il problema sia della base di questa comunanza, che
della possibilità di distinzione tra i due».21
Proprio per dare risposta a quest’interrogativo, Rahner elabora una com­
prensione teologica più approfondita della Parola, che mette poi in relazione
con la realtà sacramentale. La tesi principale, ai fini del nostro discorso, è
quella che viene proposta come quarta: «la Parola di Dio (come fattore in­
trinseco all’opera salvifica di Dio sull’uomo e pertanto con essa e per essa) è
la parola generatrice di salvezza, che porta in sé quello che esprime; è evento
di salvezza che (nel suo elemento estrinseco, storico e sociale) annuncia ciò
che avviene in esso e sotto di esso e fa accadere quello che annuncia. È l’at-
tualizzazione della grazia di Dio».22 La tesi afferma pertinentemente l’idea
che la Parola di Dio non deve essere intesa essenzialmente in termini «didat­
tici», ma sulla linea del dabar biblico, in termini di «segno efficace», che
compie e realizza ciò che annuncia. Rahner è consapevole delle difficoltà
connesse alla sua affermazione, che peraltro ritiene pienamente fondata, e
nomina tali difficoltà riconoscendo che la definizione di «parola» appena of­
ferta è «esattamente» la definizione di «sacramento». L’unica possibilità di
mantenere la coerenza del discorso si trova nell’idea che la parola di Dio ha
una «gradualità» di realizzazione, e che il sacramento costituisce il livello in
cui la Parola si attua nella sua massima pienezza. Come asserisce, infatti, la
sesta tesi del saggio: «la suprema forma di realizzazione della parola di Dio,
in quanto attualizzazione dell’azione salvifica di Dio nella Chiesa, che s’im­
pegna a proferirla come tale, e nella decisiva situazione di salvezza del sin­
golo è il sacramento e solo il sacramento».23
L ’analisi puntuale del modo in cui Rahner procede nella sua argomenta­
zione conferma la sua solita tendenza a tralasciare la ricostruzione dei motivi
che, a partire da una fenomenologia delle diverse forme in cui la parola ri­
suona, permettono di formulare queste tesi e consentono di assegnare loro
un senso ben individuato per riferimento all’esperienza credente. Egli prefe­
risce muovere da affermazioni dogmatiche d’indiscutibile solidità per pro­
cedere a ricercare, in base ai dati dell’antropologia, le ragioni della loro pen-
sabilità. Se questo metodo costituisce un limite già in riferimento alla quali­
ficazione teologica dell’efficacia della Parola, diviene però un inconveniente

21 A .c, 111.
22 A c., 122.
23 A .c, 133.
160 Parte seconda: I problem i

particolarmente significativo nel momento in cui si cerca di coordinare i due


concetti di parola e di sacramento tra di loro.
Pare certamente un guadagno la possibilità di pensare il sacramento non
come una realtà che sopravviene alla parola in modo quasi estrinseco, per un
puro accostamento occasionale. Ma non sembra priva d’ambiguità la for­
mulazione che induce a pensare i riti sacramentali semplicemente come il
caso in cui la parola si realizza nella sua più alta e specifica identità. E questo
per un dato immediatamente suggerito dall’esperienza cristiana, ovvero il
fatto che il sacramento non è esclusivamente, né anzitutto, «parola», bensì
«azione». Certo azione accompagnata e sostanziata di parola, ma non ricon­
ducibile alla sola categoria del «verbale». A Rahner, però, la riduzione del
«sacramentale» al «verbale» (ovviamente nel senso della parola esibitiva) pa­
re del tutto plausibile, perché anche la componente materiale del sacramen­
tale, in quanto assunta con valore di «segno», partecipa del carattere della
«parola»: «quando nei sacramenti distinguiamo tra parola ed elemento, o,
ilemorfisticamente, tra forma e materia, questa distinzione in sé utile non
deve annebbiare che ambedue gli elementi, cioè la parola e il gesto sacra­
mentale partecipano dell’unico carattere di segno del sacramento e pertanto
del carattere verbale. Anche il gesto sacramentale ha carattere verbale. Esso
indica, manifesta, esprime qualcosa che di per sé è nascosto. In breve:
anch’esso è una parola».24
Il motivo di questa equiparazione, che non ci pare così perspicua come a
Rahner, è che «segno e parola dal punto di vista metafisico e teologico sono
della stessa specie».25 L’affermazione si presenta tanto perentoria quanto va­
ga, soprattutto se rapportata a tutti gli sviluppi delle scienze antropologiche
circa i dinamismi propri della comunicazione non verbale, che ben difficil­
mente sembrano assimilabili senza differenze alla comunicazione di parola.
In ogni caso, il discorso ci sembra viziato più a monte dalla considerazione
del sacramento ancora una volta non come «celebrazione» della comunità
dei credenti, ma genericamente come «segno», in cui si possono distinguere
la parola vera e propria e l’elemento materiale, a sua volta riconducibile nel­
l’ambito della comunicazione «verbale». Emerge probabilmente da questo
modo di procedere la tendenziale riduzione intellettualistica dell’uomo, pro­
pria di buona parte della tradizione teologica, ma in modo particolare asse­
gnabile all’interpretazione rahneriana dell’uomo come «uditore della paro­
la». Se quest’antropologia ha degli indubbi e consistenti vantaggi, non può
però nascondere un’impostazione che pregiudica il rapporto religioso in ter­
mini fondamentalmente intellettuali, come la riconduzione del «sacramen­
to» alla «parola» sembra confermare.
Quando dunque Rahner cerca di precisare in che modo la «sacramentali-

24 A c., 134.
25 A c., 135.
5. Sacram ento e sacramentalità 161

tà » della parola giunga alla sua efficacia eminente nel sacramento, non può
trarre profitto dalla considerazione della forma concreta in cui il sacramento
si realizza, perché tutto quanto vi è in esso, compreso l’elemento materiale, è
già stato ricondotto nell’ambito del verbale. Egli fa allora riferimento al con­
cetto di op u s operatum , che è utilizzato tradizionalmente per specificare il sa­
cramento all’interno del genere dei «segni», e che, pertanto, può valere an­
che per qualificare il sacramento nel genere delle «parole». Qui Rahner ri­
trova le tesi di K ìrch e u n d Sakram ente sul massimo livello di coinvolgimento
ufficiale della Chiesa e sulla particolare densità esistenziale delle situazioni in
cui la parola è pronunciata con valore di sacramento. La sacramentalità della
parola si congiunge con la sacramentalità della Chiesa, perché «la Chiesa è la
definitiva parola di salvezza al mondo, parola ormai insopprimibile, escato­
logicamente stabile»,26 e pertanto «il sacramento primo».
L ’identificazione è spinta al punto che Rahner trova del tutto logico af­
fermare che «il trattato “De sacramentis” è il trattato del genere, dell’origine
e del fondo radicale dei sacramenti, consistente nella Chiesa».27 Se queste af­
fermazioni in un certo senso chiudono il cerchio che porta alla risoluzione
del sacramento nel «simbolo reale», ovvero nel tipo di segno che si realizza
manifestandosi ed esprimendosi, e nella «Parola» (che è Cristo, ma anche la
Chiesa), esse però sollevano numerosi interrogativi sulla validità della nozio­
ne di sacramento qui impiegata. Gli elementi che sono allineati non ci sem­
brano consentire un utilizzo così disinvolto delle nozioni. Senza ripetere qui
le critiche mosse alla posizione di Rahner dai vari autori che abbiamo recen­
sito nella prima parte del nostro lavoro, ci limitiamo a segnalare qualche ele­
mento che ci sembra bisognoso di rettifica o di un incremento di riflessione.
In primo luogo, la tesi della sacramentalità della Chiesa, che sostiene l’in­
tero impianto della sacramentaria rahneriana e che condiziona radicalmente
l ’elaborazione della nozione di sacramento, non pare esente da ambiguità.
Nella sua prima formulazione, poi attenuata ma non trasformata nella so­
stanza, essa afferma che la Chiesa costituisce l’«origine» dei sacramenti.28
Pur attraverso le correzioni terminologiche che intendono esplicitare quanto
nelle intenzioni dell’autore era ovvio fin dall’inizio, ovvero che la Chiesa non
è origine dei sacramenti in maniera autonoma rispetto a Cristo, l’idea per­
mane persistentemente nella produzione rahneriana e ricompare ogni volta
che l ’identità dei sacramenti deve essere esposta e precisata. Le difficoltà su­
scitate dalla tesi sono connesse all’interpretazione del senso secondo cui la
Chiesa è «origine» dei sacramenti.
L ’affermazione non pone alcuna difficoltà se deve essere intesa come ri­

26 A.c., 148.
27 Ibid.
28 «La Chiesa è effettivamente il sacramento primo, il punto di origine dei sacramenti nel
senso proprio della parola» (Chiesa e sacram enti, o.c., 20).
162 Parte seconda: I problem i

chiamo alla dipendenza dei sacramenti dalla Chiesa quanto alla loro esisten­
za in atto, ovvero alla loro celebrazione: senza l’esecuzione ecclesiale, infatti,
i sacramenti non esistono. Altrettanto pertinente pare l’interpretazione della
dipendenza dei sacramenti dalla Chiesa per quanto riguarda il processo sto­
rico del riconoscimento/definizione della loro identità e della prospettazione
della modalità pratica in cui devono essere celebrati. Ma in Rahner la tesi
vuole affermare altro e di più. La Chiesa è per Rahner «origine» dei sacra­
menti nel senso che i sacramenti ricevono dalla Chiesa, sempre in dipenden­
za dal Signore, la loro «efficacia». Essi sono la parola esibitiva della Chiesa,
che si attua al massimo livello di fronte ad una situazione esistenziale decisi­
va per il singolo. Ma in questo modo il sacramento rappresenta «soltanto» lo
sbocco e il coronamento di un processo di attuazione della salvezza in E ccle­
sia che sembra poter sussistere anche indipendentemente dalla celebrazione.
Leggendo le affermazioni di K irche u n d Sakramente, non prive, tra l’altro, di
qualche oscillazione terminologica, si ha l’impressione che si voglia afferma­
re una sorta di preesistenza «ontologica» della Chiesa rispetto ai sacramenti:
nelle celebrazioni sacramentali «la Chiesa verifica nel grado massimo di at­
tualità ciò che essa è sempre: la presenza della salvezza per gli uomini, nella
sua manifestazione storicamente afferrabile».29 L’asserzione ci sembra con­
divisibile, ma incompleta, nel senso che considera solo un versante del rap­
porto tra la Chiesa e i sacramenti, quello per cui i sacramenti costituiscono il
culm en della vita ecclesiale. Perché la tesi di Rahner non si presti ad inter­
pretazioni discutibili, bisognerebbe chiarire anche che i sacramenti costitui­
scono il fo n s dell’esperienza cristiana. Così che quando la Chiesa «origina» i
sacramenti celebrandoli, si scopre in realtà «originata» da essi. Tant’è che
quando vuole introdurre l’uomo nella vita cristiana, sa di non poter fare al­
trimenti che celebrare sacramentalmente il compiersi di un evento di grazia,
di cui ella è solo «ministra».
I problemi connessi alla questione in esame sono notoriamente complessi
e probabilmente richiedono un’istruzione della questione più avvertita, che
non si accontenti di ricondurre la discussione direttamente a delle formule
riassuntive, ma si confronti con la fenomenologia dell’esperienza storica del
venire alla fede ecclesiale.30 Ci sembra però che proprio quest’indagine
orienti a suggerire la correzione della tesi rahneriana nel senso sopra indica­

29 O.c., 24
30 Quando si espliciti che il discorso sulla grazia consiste nell’affermazione che la giusta
relazione con Dio si attua nella forma del riconoscimento di un «dono», non sembra possibile
affermare che la Chiesa abbia la coscienza realistica di tale relazione a monte dei sacramenti
o, per semplificare, a monte dell’Eucarestia, perché l’Eucarestia è stata istituita da Gesù esat­
tamente per consentire la «memoria» della grazia. Se tale «memoria» fosse reale «prim a» del
sacramento (memoriale del dono di grazia), il sacramento si ridurrebbe a un momento sem­
plicemente pedagogico ed esortativo: cosa che non sembra corrispondere in alcun modo alla
coscienza di fede della comunità cristiana.
5. Sacramento e sacramentalità 163

to. Sia sul versante della fenomenologia scritturistica che su quello del­
l’esperienza storica, non mancano, infatti, elementi per sostenere che la ce­
lebrazione dei sacramenti costituisce non soltanto il culmine, ma la sorgente
e la «matrice» della prassi ecclesiale.31
Un secondo livello di osservazioni critiche riguarda esattamente la nozio­
ne di «sacramento». La riconduzione del concetto nell’ambito più generale
della nozione di segno realizzativo o simbolo reale e la considerazione privi­
legiata della funzione semiotica a partire dalla prospettiva della comunica­
zione verbale (la parola), costituiscono un’identificazione della specificità
sacramentale ancora piuttosto «remota». Abbiamo già segnalato che questa
difficoltà sembra derivare dalla preterizione dell’analisi delle qualità effettive
del sacramento, come si riscontrano nell’esperienza della prassi ecclesiale.
Qui intendiamo piuttosto mettere in luce come la caratterizzazione «remo­
ta» del sacramento che non include nel concetto la qualità di «azione» o,
meglio, di «prassi» e, in particolare, di «prassi rituale» introduce da un lato
una scollatura tra il contenuto del sacramento e la forma della sua celebra­
zione e dall’altro la possibilità di un’estensione dei caratteri della sacramen­
talità non solo alla Chiesa e a Gesù Cristo, ma anche all’uomo e al cosmo. Se
questa possibilità è svolta da Rahner solo nella prima direzione (ecclesiologi­
co/cristologica), si presta però oggettivamente allo svolgimento impostosi
presso i discepoli, cioè allo svolgimento antropologico/cosmologico. Poiché
la nozione di sacramento è risolta nella nozione di simbolo reale della grazia,
non si vede perché il concetto non possa essere riferito per analogia a tutto
ciò che è simbolo reale (per Rahner lo è «ogni» ente), una volta che si sia ri­
conosciuto il suo legame con l’economia salvifica e la sua dipendenza crea-
turale da Gesù Cristo, in cui tutte le cose sono state create.32 Il passaggio
dalla sacramentaria di Rahner a quella di molti suoi discepoli può essere sin­
tetizzato nell’assunzione come prototipo del simbolo reale non più della
Chiesa, ma del corpo umano. Spostamento di notevole rilievo, ma quasi
inavvertito dai rahneriani. Spostamento che in ogni caso non rende ragione
del modo in cui il «sacramento» è simbolo reale della grazia, non semplice-
mente perché ha a che fare con il corpo, e non soltanto perché è compiuto
dalla Chiesa. .

31 Utilizzando il termine «matrice» suggeriamo, senza svolgerla, un’interpretazione della


parola « fon s» che si sottragga ad un’immediata riconduzione «mistica» del discorso, per ap­
profondire le modalità storiche effettive attraverso cui la celebrazione dei sacramenti plasma
l’esperienza e l’identità della Chiesa.
32 L ’estensione però apparirebbe assai più problematica qualora si dovesse riconoscere
che l’identità del «sacramento» non può prescindere dalla «forma» in cui il sacramento esiste,
e che proprio la specificità di questa «forma», considerata rigorosamente nella sua motivazio­
ne di fede, e dunque al riparo dalla immediata trascrizione delle categorie antropologiche in
categorie teologiche, consente di qualificare il ruolo insostituibile del sacramento nella vita
della Chiesa.
164 Parte seconda: I problem i

5.1.4. Schillebeeckx: «sacram entalità d i G esù Cristo» e «sacram entalità d el­


l ’incontro»

Per completare il quadro dei tentativi più significativi di elaborazione


teologica della nozione di sacramentalità, dobbiamo soffermarci brevemente
anche sulla proposta di Schillebeeckx, che, per quanto non rientri nei confi­
ni cronologici della nostra ricerca, mantiene nel panorama attuale della sa­
cramentaria una presenza di sfondo significativa, anche se spesso operante
più in modo implicito che per un formale riferimento alle tesi dell’autore. La
k oinè istituitasi, soprattutto a livello divulgativo, sul tema della sacramentali­
tà di Gesù Cristo deve molto, infatti, al pensiero sacramentario del teologo
olandese, e in particolare alle tesi formulate nel saggio dal titolo emblemati­
co: Cristo, sacram ento d ell’incontro con Dio.}}
Poiché limitiamo il nostro interesse al problema della consistenza della
nozione di sacramento utilizzata dalla teologia della «sacramentalità», non ci
proponiamo di presentare la prospettiva complessiva dell’autore né di for­
nirne un’interpretazione dettagliata. Intendiamo semplicemente raccogliere
dall’opera sopra indicata gli elementi che sono più convergenti con la nostra
questione, nella consapevolezza che, senza una ricostruzione attenta dello
sfondo in cui si collocano le singole tesi, si può correre il rischio di qualche
eccessiva semplificazione.
La necessità di un’estensione della nozione di sacramento nel senso della
sacramentalità appare nel testo di Schillebeeckx fin dalla prefazione, in cui
programmaticamente si dichiara: «i sette sacramenti della chiesa sono solo i
punti focali di una sacramentalità assai più vasta, una sacramentalità dalle
proporzioni cosmiche».34 Per questo il progetto dell’opera assume la forma
di un’indagine circa «la sacramentalità nella religione, per arrivare infine a
vedere che i sacramenti sono il modo propriamente umano dell’incontro con
Dio».35
La chiave d’accesso di cui Schillebeeckx si serve per comprendere il
mondo della sacramentalità è sostanzialmente una filosofia della religione,
applicata alla fede e alla pratica cristiana. Di fronte ad un’interpretazione
tradizionale dei sacramenti che utilizza con troppa disinvoltura categorie de­
dotte dal mondo naturale e che riporta il contenuto dell’azione sacramentale
alla mera presenzialità delle cose, Schillebeeckx intende far valere la necessi­
tà di pensare i sacramenti non come «cose» della religione, ma come il mo­
mento religioso per eccellenza, il luogo e la forma pienamente umana del­

33 Titolo originale: Christus sacram ent van d e godson tm oetin g, Uitgevereij H. Nelissen,
Bilthoven41960; ci riferiamo alla traduzione italiana: Cristo, sacram ento d e ll’in con tro co n Dio,
Paoline, Cinisello Balsamo 91987.
34 O.c., 10.
35 O.c., 17.
5. Sacramento e sacramentalità 165

l’incontro con Dio. Per fare questo ritiene necessario impostare il discorso
teologico adottando le categorie innovative offerte dal personalismo filosofi-
co, in particolare la categoria di «incontro».
È pertanto sullo sfondo del passaggio da un «estrinsecismo sacramenta­
le» ad un «personalismo sacramentale», che si viene a configurare la necessi­
tà di un’estensione della nozione di sacramento. L’esigenza di elaborare una
teoria della «sacramentalità» deriva da una ben precisa prospettiva antropo-
logica, che, descrivendo in termini diversi il mondo religioso dell’uomo, po­
stula una nuova comprensione teologica della vita cristiana, elaborata a par­
tire dall’esperienza dell’«incontro». Nonostante il suo ruolo determinante
sul piano teorico, però, la concezione antropologica di Schillebeeckx non
viene, di fatto, esposta formalmente nel saggio, ma solo richiamata in manie­
ra piuttosto sommaria, come un presupposto pacifico e indiscusso. In parti­
colare manca nel testo una vera e propria fenomenologia dell’incontro e del
vissuto religioso della coscienza, che sono invece presentati attraverso for­
mule riassuntive, come quelle che appaiono nella Prefazione: «ogni incontro
umano presuppone sempre da una parte un 'autorivelazione e dell’altra la f e ­
de, rivelazione e fede che acquistano il senso pieno solo in un’esperienza di
amore».36
Alla radice di queste e simili affermazioni sembra operare, più che un’evi­
denza fatta emergere fenomenologicamente agli occhi della coscienza, uno
schema logico di stampo agostiniano, che contrappone dualisticamente nel­
l’uomo un mondo interiore, il mondo dello spirito e della libertà, e un mon­
do esteriore, costituito dalla realtà sensibile e corporea. Il difetto d’elabora­
zione del tema fa sì che il rapporto tra i due ambiti non sia criticamente pen­
sato dall’autore, ma sia svolto secondo il tradizionale pregiudizio che asse­
gna al corporeo soltanto il ruolo di manifestazione e di limitazione della li­
bertà. Ciò che viene misconosciuto è il radicamento della libertà nella di­
mensione passiva della coscienza, ovvero il fatto che la libertà si afferma solo
come presa di posizione nei confronti di una fatticità di cui sono parte ele­
menti esterni, sinteticamente designabili come la «cultura», ed interni, allusi­
vamente designabili come il «carattere» e i «sentimenti». Sintomatico a que­
sto riguardo è il modo in cui Schillebeeckx, nella prefazione del saggio, ac­
costa la realtà umana per differenza rispetto alla condizione dei puri esseri
spirituali, la cui libertà pare non conoscere mediazioni. L’uomo, diversa-
mente dagli angeli, ha un corpo, e questo dato è senz’altro registrato come
un limite per la libertà,37 perché il corpo si sottrae in parte al «libero domi­
nio personale» e non è pienamente disponibile all’autodeterminazione. Ma
in questo modo la libertà è pensata come già precostituita rispetto al sensi­

36 O.c., 10.
37 «Attraverso la sua corporeità la persona umana è aperta verso l’esterno. Ciò segna un
limite al libero dominio personale, che l’uomo ha su di sé» (o.c., 9).
166 Parte seconda: I problem i

bile e al corporeo. Essa è assimilabile alla libertà angelica, con la variante di


trovare nel corpo un impedimento alPautocomunicazione piena.
La natura corporea dell’uomo, comunque, fa sì che ogni relazione auten­
ticamente umana si realizzi attraverso una mediazione sensibile e che, di
conseguenza, anche l’esperienza della relazione con Dio debba assumere la
forma di un rapporto mediato: «a causa della componente corporea presen­
te in ogni incontro umano, anche la rivelazione e la fede religiosa rivestono
un aspetto corporeo, visibile e storico».38 A partire da questo quadro di rife­
rimento, basato sulla tesi antropologica del corporeo come condizione del­
l’incontro umano, trova articolazione tutto l’impianto dell’opera, attraverso
la successiva considerazione di Gesù Cristo come visibilizzazione e offerta
d’incontro con Dio, della Chiesa come prolungamento dell’umanità gloriosa
di Gesù, e dei sacramenti come mediazione sensibile dell’azione del Cristo
celeste e della risposta di fede della comunità.
Senza seguire nel dettaglio il pensiero dell’autore, ci limitiamo a qualche
considerazione relativa ai punti nodali del discorso. In primo luogo, lo svol­
gimento della tematica cristologica, impostata sulla medesima logica di una
realtà interiore (l’interiorità del Figlio di Dio) visibilizzata esteriormente dai
gesti della sua vita storica, permette a Schillebeeckx una prima definizione
di sacramento: « “Sacramento” significa dono divino di salvezza in e attra­
verso una forma esteriormente tangibile, constatabile, che concreta il dono:
un dono di salvezza in forma storica visibile».39 Per questo il concetto di sa­
cramento si presta eccellentemente a designare in maniera riassuntiva l’iden­
tità di Gesù nei confronti di Dio: «L ’uomo Gesù, manifestazione terrestre
personale della grazia redentiva divina, è il sacramento, il sacramento pri­
mordiale, perché quest’uomo, Figlio di Dio, è voluto dal Padre come l ’unica
via d’accesso alla realtà della salvezza».40 Prescindendo per ora da una valu­
tazione della definizione di sacramento offerta da Schillebeeckx, bisogna pe­
rò osservare come la trattazione della tematica cristologica non nasca da una
considerazione attenta del dato biblico, che permetta di assegnare alle cate­
gorie un senso ben determinato per riferimento ai gesti e alle parole del Si­
gnore, ma dipenda dallo schema teorico del rapporto tra il mistero della
Persona divina e la sua visibilizzazione nella carne umana.
La tendenza a ricorrere a formulazioni riassuntive senza una previa di­
scussione più approfondita delle molteplici modalità che il rapporto «sacra­
mentale» di visibilizzazione può assumere, emerge anche nella formulazione
relativa alla relazione di Gesù Risorto con la Chiesa e con i suoi gesti sacra­
mentali. Scrive, infatti, Schillebeeckx: «Il Cristo rende visibile e tangibile la
sua attiva presenza di grazia non direttamente, per mezzo della sua propria

38 O.c., 10.
39 O.c., 28.
40 O.c., 28-29.
5. Sacramento e sacramentalità 167

corporeità, ma prolungando, per così dire, la sua corporeità celeste sulla ter­
ra in forme di manifestazioni visibili, che esercitano fra noi la funzione del
suo corpo celeste. Si tratta precisamente dei sacram enti, prolungamento ter­
restre del “corpo del Signore”. Si tratta, concretamente, della chiesa».41 Le
affermazioni in esame paiono quanto meno imprecise e precipitose, e si so­
stengono soltanto sull’assolutizzazione dello schema sacramentale interpre­
tato dualisticamente. Non si vede, infatti, se non in maniera assai vaga, come
le celebrazioni sacramentali possano esercitare tra i credenti la funzione del
corpo risorto del Signore. Certo si comprende che Schillebeeckx allude alla
possibilità dei gesti sacramentali di essere manifestazione sensibile della pre­
senza e dell’azione del Signore, ma la sua asserzione prescinde compieta-
mente dalla considerazione del «modo» e del «motivo» per cui i sacramenti
possono avere questo ruolo simbolico. Tanto che i sacramenti non sono
messi in relazione con l’evento storico della salvezza, ma con la sua perma­
nenza metastorica nel corpo glorificato di Gesù.
Altrettanto implausibile pare l’identificazione dei sacramenti con la Chie­
sa, entrambi designati con la problematica attribuzione del ruolo di «pro­
lungamento» terrestre del corpo del Signore. Resterebbe quanto meno da
chiarire in quale rapporto si trovino all’interno della vita ecclesiale i vari
momenti che permettono alla comunità cristiana di svolgere la sua missione
testimoniale, sicuramente non senza i sacramenti, ma altrettanto sicuramente
non soltanto attraverso di essi.
Ed infatti, passando a considerare più da vicino la natura ecclesiale dei
sacramenti, Schillebeeckx avverte l’esigenza di precisare il rapporto che esi­
ste tra « l’insieme sacramentale più vasto della chiesa totale» e le celebrazioni
del settenario. La precisazione passa attraverso la distinzione all’interno del­
la Chiesa di un duplice livello di sacramentalità: un livello che viene definito
carismatico e un livello funzionale o istituzionale. Il primo consiste nelle
azioni che esprimono una comunione interiore di grazia con il Signore, e
dunque rendono possibile un incontro con Lui nelle molteplici circostanze
di una vita condotta nella fede; il secondo si compie nelle celebrazioni sa­
cramentali strettamente intese, la cui caratteristica consiste fondamental­
mente nell’ufficialità, vale a dire nel carattere pubblico e nella presenza di
un ministro ordinato. Se comprendiamo bene il pensiero dell’autore, si trat­
ta di riconoscere il carattere della sacramentalità, ovvero della manifestazio­
ne ecclesiale della presenza salvifica del Signore, a tutta l’attività della Chie­
sa, ma distinguendo una sacramentalità ufficiale, propria dei riti sacramen­
tali, da una sacramentalità quotidiana, propria della vita santa dei credenti.
Anche ammettendo che, sulla base di un’interpretazione del sacramento in
termini di «espressività», sia possibile parlare in entrambi i casi di sacramen­
talità, non si può fare a meno di notare che manca l’elaborazione teorica del

41 O.c., 51.
168 Parte seconda: I problem i

rapporto che esiste tra i due livelli e che permette di ricondurre entrambi ad
un’unica categoria teologica. Parlare dell’amore cristiano come sacramento
dell’amore di Dio in senso rigorosamente teologico, suppone una considera­
zione del rapporto tra la celebrazione dei sacramenti e il momento morale
dell’esperienza che non può essere risolto semplicemente affermando che «i
sacramenti sono i centri d’irradiazione»42 della vita e della testimonianza di
fede e che in essi «ciò che è vissuto giornalmente [...] perviene [...] alla per­
fetta maturità».43
La difficoltà che non permette di articolare in maniera adeguata il rap­
porto e le differenze tra quelli che sono designati come livelli diversi di sa­
cramentalità è riconducibile, in radice, all’assunzione di un’antropologia, e
più a monte di un’ontologia, della manifestazione. Su questa linea Schille­
beeckx può certo parlare delle azioni sacramentali della Chiesa allo stesso
tempo come espressione della grazia salvifica, in quanto costituiscono il pro­
lungamento visibile dell’azione del Cristo celeste invisibile, e come espres­
sione del culto personale, in quanto manifestazione sensibile della risposta
di fede del soggetto e della comunità. Ma su entrambi i livelli l’affermazione
risulta, astratta, perché prescinde dalla considerazione dei motivi che per­
mettono di farne valere la realtà. Non si riesce a vedere come la celebrazione
sacramentale prolunghi l’azione del Cristo celeste, perché non si prende in
esame il modo in cui la testimonianza biblica pone in relazione il sorgere
della comunità ecclesiale postpasquale con la ripetizione dei gesti rituali, in
particolare la cena eucaristica, istituiti da Gesù. Per questo anche la perti­
nente rilettura delle tesi caseliane non giunge a mostrare la presenza del mi­
stero salvifico, e non solo dei suoi effetti, nel sacramento, se non attraverso
una tendenziale destoricizzazione del mistero stesso.44 D’altro canto anche il
rapporto tra il culto interiore della comunità cristiana e il gesto sacramentale
non pare sufficientemente istruito, perché affidato, ancora una volta, allo
schema antropologico che distingue ed articola un elemento interiore e uno
esteriore. A questo riguardo Schillebeeckx avverte l ’esigenza di introdurre il
riferimento all’attività simbolica religiosa generale, ma senza approfondirne

42 O.c., 210.
43 O .c, 198.
44 Per Schillebeeckx, ciò che si fa presente nei sacramenti è l ’elemento «trans-istorico»
della salvezza, ovvero il fatto che essa sia compiuta dalla persona divina del Figlio e dunque
mantenga una permanenza eterna. «Tutto questo ci mostra che i sacramenti, come “media­
zione” tra Cristo e noi, devono essere concepiti meno come un legame tra il sacrificio stori­
camente passato della croce e il nostro mondo del XX secolo che come un legame tra il Cri­
sto che ora vive nel cielo e il nostro mondo umano. Più esattamente, nei sacramenti si compie
l’incontro immediato tra il Kyrios vivente e noi» (o.c., 72). Senza entrare nel merito della que­
stione, ci sembra però di poter segnalare in questa impostazione l ’attribuzione di un ruolo ri-
duttivamente manifestativo all’umanità storica di Gesù e la non sufficiente considerazione del
fatto che l’unico accesso all’incontro con il Kyrios glorioso è la partecipazione alla sua passio­
ne, resa mistericamente presente nel sacramento.
5. Sacramento e sacramentalità 169

la rilevanza antropologica né discuterne il rapporto con il rito specificamen­


te cristiano.
L’aspetto più interessante e pertinente della proposta di Schillebeeckx ci
pare il suo tentativo di mostrare il nesso intrinseco del sacramento con la fe­
de. La celebrazione sacramentale non rappresenta un momento all’interno
della vita di fede della comunità cristiana, ma «il» momento dell’incontro
con il Signore. Di tale incontro si mette in luce la radicazione cristologica,
riaffermando il primato dell’azione del Risorto, la sua presa d’iniziativa nei
confronti della comunità cristiana e, allo stesso tempo, il darsi reale della ri­
sposta di fede nella celebrazione di quel gesto sacramentale.
Le premesse di un’antropologia riduttiva, articolata nella contrapposi­
zione dello spirituale e del corporeo, e di una cristologia che non elabora la
singolarità di Gesù, ma ne interpreta la vicenda in termini ontologicamente
predeterminati, impediscono però all’autore di mostrare adeguatamente il
nesso tra il darsi misterico della salvezza e il costituirsi della fede ecclesiale
«nel» sacramento. La strada percorsa, ovvero la riconduzione del sacramen­
to alla categoria di manifestazione esteriore di una realtà salvifica, orienta la
sacramentaria di Schillebeeckx ad un’estensione della nozione di sacramento
che anziché evidenziarne la specificità, ne «confonde» i caratteri, riportan­
doli a più generiche e imprecise determinazioni. Il risultato non evita sempre
l’ambiguità delle formulazioni, tome abbiamo potuto costatare a proposito
del rapporto sacramenti-Chiesa, e richiede in ogni caso un incremento di ri­
flessione, eventualmente nella direzione opposta a quella seguita dall’autore.
Non dalla sacramentalità ai sacramenti, ma dai sacramenti ad una «sacra­
mentalità» da precisare nei contenuti e nell’attribuzione.

5 .2 .1problemi

I modelli che abbiamo esaminato sono quelli a cui si possono ricondurre,


con maggiore o minore precisione, tutte le posizioni teologiche relative al
tema della sacramentalità allargata. Come si vede, si tratta di modelli etero­
genei, che affrontano la stessa questione a partire da posizioni e scelte di
fondo anche notevolmente distanti. Se per Chauvet la sacramentalità è ri­
conducibile al processo attraverso cui il soggetto si struttura nella fede eccle­
siale, per Vorgrimler è piuttosto una caratteristica trascendentale della rive­
lazione, che diventa sempre più evidente ed efficace nelle varie fasi storiche
dell’economia salvifica. Rahner intende allargare la nozione di sacramento
fondamentalmente per includervi la Chiesa e la Parola, in base ad una certa
ontologia del simbolo reale, mentre per Schillebeeckx si tratta di riconoscere
in Gesù il sacramento originario alla luce dell’esperienza antropologica del­
l’incontro (con Dio), che dopo l’Ascensione si realizza nelle celebrazioni sa­
cramentali.
170 Parte seconda: I problem i

Di fronte ad un panorama teologico così variegato, solo un franco nomi­


nalismo può sostenere le affermazioni di chi registra un generale consenso
della teologia sul tema della sacramentalità. Tanto più che le voci critiche
non mancano e che le sollecitazioni ad un procedimento più rigoroso non
sembrano aver trovato puntuale risposta.
Tra gli autori che hanno manifestato perplessità e mosso obiezioni nei
confronti della teologia della sacramentalità, si segnala H. Bourgeois, noto,
oltre che per i suoi saggi, anche per le rassegne bibliografiche di teologia sa­
cramentaria sulla rivista R ech erch es d e S cien ce R eligieuse. AH’interno della
pubblicazione, sulla medesima rivista, degli atti di un convegno su Les Sa­
crem en ts d e Dieu, Bourgeois traccia un’analisi sulla situazione del «sacra­
mentale» oggi, registrando il passaggio da una teologia del sacramento ad
una teologia della sacramentalità e interrogandosi sulla produttività di que­
sta trasformazione. L’autore non nasconde i timori di «un’inflazione mal
fondata e praticamente pericolosa»45 e specifica le sue perplessità muovendo
fondamentalmente tre obiezioni. La prima riguarda la tendenza della teolo­
gia «sacramentalista» a non rispettare la priorità della Parola: mentre la ri­
cerca teologica recente si sforza di superare la frattura tradizionale tra la
considerazione della parola e quella dei sacramenti, pare che la spaccatura si
possa reintrodurre dove si parla della sacramentalità come dimensione tra­
sversale a tutta la realtà cristiana, senza chiarire la correlazione tra Scrittura,
predicazione e celebrazione rituale. Da questo punto di vista ci si può atten­
dere, tra l’altro, che le risonanze ecumeniche di una sacramentalizzazione
della vita cristiana non siano positive.
La seconda obiezione considera gli effetti di un’estensione della nozione
sacramentale oltre l’ambito del settenario. L’autore riconosce il vantaggio di
una nuova apertura dell’organismo sacramentale nei confronti delle altre
dimensioni della fede, ma mette anche in guardia dalle ambiguità che pos­
sono essere presenti, in particolare, nell’interpretazione della sacramentalità
della Chiesa e della sacramentalità dell’uomo o di alcune situazioni nodali
dell’esistenza.
Il problema principale sollevato da. Bourgeois riguarda, però, il rischio
che una sacramentalità «troppo allargata» finisca con il diventare una «g e n e ­
ralità astratta e vaga, che designa sémplicemente la non-immediatezza di Dio
nella fede o ancora la forma simbolica che l ’esperienza cristiana assume».46
Solo un’analisi accurata dei rapporti che legano le varie realtà, cui si attribui­
sce la qualifica sacramentale, con la forma «forte» di sacramentalità, che so­
no i sette sacramenti, può evitare la dispersione della ricerca nell’astrattezza
e nel nominalismo. .

45 H. BOURGEOIS, P ositions du sacram entel aujourd’hui, «Recherches de Science Religieu­


se» 75 (1987) 175-202,178.
46 A c., 179.
5. Sacramento e sacramentalità 171

Il discorso di Bourgeois prosegue trattando di altri due ambiti di pro­


blemi che possono essere ricondotti ad una parentela, più o meno stretta,
con la questione della sacramentalità. Si tratta, per un verso, del «cedimen­
to» (tassem en t) della riflessione sacramentaria, prodiga nella quantità, ma
avara nella qualità delle pubblicazioni e, per l’altro, della tendenza a «stru­
mentalizzare» la celebrazione del sacramento in funzione di ciò che lo pre­
para e di ciò che lo segue. Il cedimento di cui parla Bourgeois dev’essere
identificato in una sorta di stallo della ricerca, che, fissata nelPeuforia delle
sue scoperte recenti (il sacramento come atto della fede e come gesto sim­
bolico), non sembra seriamente impegnata nell’approfondimento delle tesi e
nelPallargamento della trattazione a questioni che rimangono ancora in buo­
na parte inesplorate. La strumentalizzazione temuta dall’autore corrisponde,
a sua volta, ad una tendenziale risoluzione del sacramento in occasione per
l ’annuncio o per la catechesi, oppure in preparazione del momento etico­
testimoniale. In ogni caso la teologia e la prassi stentano a riconoscere al sa­
cramento la sua specifica qualità di evento di grazia operato da Dio.
Le riflessioni di Bourgeois confermano la nostra valutazione sul fatto che
la problematica della sacramentalità coinvolge alla radice il discorso sacra­
mentario, perché non consiste soltanto in un allargamento concettuale che
lascia impregiudicata la comprensione delle celebrazioni sacramentali, ma è
una vera trasformazione del ruolo riconosciuto al sacramento all’interno del­
la vita cristiana. Che questa trasformazione sia, quanto meno, discutibile, si
ricava anche dai giudizi critici, sull’intero impianto o su singole questioni,
che abbiamo già incontrato nella prima sezione del nostro lavoro. Così, ad
esempio, Kasper denuncia nella prospettiva rahneriana una personalizzazio­
ne destoricizzante e una sopravvalutazione del ruolo della Chiesa, e suggeri­
sce una considerazione più attenta a far emergere le forme storiche attraver­
so cui essa svolge il suo ministero di testimonianza, in dipendenza dal Signo­
re e «sotto» la potenza della parola e dei sacramenti. Sulla stessa linea, ma
con motivazioni diverse, Ganoczy teme che il discorso sulla sacramentalità
conduca a un riduzionismo cultuale nella cristologia e ad una semplificazio­
ne eccessiva della missione ecclesiale, mentre Colombo propone di intende­
re il rapporto tra Chiesa e sacramenti in senso inverso rispetto alla formula
rahneriana, ovvero di riconoscere che sono i sacramenti che «fanno» la Chie­
sa, in quanto sono l’azione di Cristo che edifica il suo popolo nella carità.
Oltre a queste posizioni, che segnalano sul piano teorico la presenza di
elementi d’inconsistenza nella prospettiva che muove alla comprensione del
sacramento a partire dall’identificazione della «sacramentalità» cristiana, bi­
sogna anche registrare le difficoltà che provengono dalla ricerca storica, vol­
ta a ricostruire il percorso che ha condotto alla genesi e alla diffusione delle
tesi sul «sacramentale». Come è noto, la questione si è già imposta in occa­
sione del dibattito conciliare, soprattutto in rapporto alla tradizionalità del­
l’attribuzione alla Chiesa della qualifica di «sacramento», senza però giunge­
172 Parte seconda: I p roblem i

re a conclusioni sicure.47 Più in generale il problema si pone ogni volta che


per sostenere la teologia della sacramentalità, in una delle sue interpretazio­
ni, ci si riferisce all’autorità dei Padri, rispetto a cui la teologia scolastica dei
sette sacramenti rappresenterebbe un indebito irrigidimento e un inaccetta­
bile impoverimento. Bisogna francamente riconoscere, e su questo si registra
un facile consenso, che l ’indagine storica non sembra ancora in grado di ri­
costruire con sicurezza e intelligenza critica il passaggio che ha portato da
un uso piuttosto ampio della terminologia sacramentale alla fissazione ter­
minologica e concettuale del settenario. Per questo le facili e diffuse con­
trapposizioni tra il modello patristico e quello scolastico sembrano prive di
consistenza, nella misura in cui si limitano a segnalare una diversa prassi lin­
guistica, cui non necessariamente corrisponde una diversa interpretazione
del dato di fede.
Lasciando impregiudicato il risultato della ricerca per quanto concerne
l’età antica, è forse meno impervio ricostruire i passaggi che hanno segnato il
ritorno nell’età contemporanea della nozione «ampia» di sacramento. Per
l’estensione della nozione sul piano antropologico e cosmico non si può ri­
salire a un periodo precedente a quello preso in considerazione nella prima
parte del nostro lavoro, e pertanto si può asserire con certezza che l ’afferma­
zione di una sacramentalità a questo livello è posizione «recentissima» e con­
seguente non al recupero della tradizione, bensì all’estensione (indebita) del
modello di Rahner o all’assunzione di uno degli altri modelli sopra indicati.
Anche quando i vari autori si riferiscono a qualche testimonianza patristica,
cosa che peraltro avviene in maniera piuttosto occasionale, non vi attribui­
scono un ruolo determinante, perché il fondamento delle tesi dipende di
volta in volta da una teoria del simbolo, da una concezione ecclesiologica e,
soprattutto, da un’antropologia elaborata su altre basi, come ci sembra di
avere analiticamente mostrato.
Il discorso si fa più complesso per quanto riguarda la «sacramentalità»
della Chiesa. Qui, innanzi tutto, si pone il problema della consistenza del­
l ’affermazione nella dottrina conciliare e delle premesse teologiche che ne
hanno permesso la formulazione. Anche a questo riguardo è nota la diversità
di interpretazioni, tra coloro che sostengono che «il tema della Chiesa-sa­
cramento della salvezza è uno di quelli che caratterizzano la visione che il
Concilio si è formata e ci propone della Chiesa»48 e coloro che attribuiscono
tale caratterizzazione all’interpretazione impostasi nel periodo post-concilia­

47 Cfr. G. COLOMBO, D ove va la teologia sacram entaria?, «La Scuola Cattolica» 102
(1974) 673-717, 678s. Vengono qui segnalate le posizioni di autori che sostengono con uguale
certezza la tradizionalità (Muhlen, Camelot) e la non tradizionalità (Pozo, Dejaifve).
48 Y. CONGAR, Un p op olo m essianico. La ch iesa, sacram ento d i salvezza. La salvezza e la li­
berazione (tr.it.), Queriniana, Brescia 1976,13.
5. S aaam ento e sacramentalità 173

re.49 Non potendo entrare nel merito della questione, che richiederebbe una
discussione analitica dei testi e una ricostruzione del contesto in cui le sin­
gole affermazioni vogliono farsi valere, possiamo limitarci a segnalare l’esi­
stenza del problema, che contribuisce ulteriormente a suggerire alla teologia
di non essere precipitosa nel compiere la sua risoluzione «sacramentale».
Tanto più che indagini recenti50 ritrovano le radici della nuova stagione della
Chiesa-sacramento nell’area del romanticismo tedesco, offrendo una docu­
mentazione accurata sulla ricomparsa della terminologia e sull’evoluzione
dei concetti ad essa legata.
Per quanto riguarda la sacramentalità di Cristo, infine, abbiamo già avuto
modo di mostrare come, negli autori che costituiscono il punto di riferimen­
to del dibattito, essa non sia legata a un confronto con la tradizione: in Rah­
ner, infatti, la tesi dipende logicamente dalla teoria del simbolo in vista del
chiarimento della sacramentalità ecclesiale, in Schillebeeckx è formulata a
partire dall’antropologia dell’incontro, mentre in Chauvet è solo tesi margi­
nale che sopravvive per inerzia quando si parla del modello della Chiesa-
sacramento. Solo nella letteratura secondaria c’è lo sforzo di affiancare alle
motivazioni addotte dai maestri il supporto di una documentazione storica
che non ha, però, concorso alla formulazione della tesi.
In base a queste indicazioni, che ci sembrano emergere con sufficiente
chiarezza, si può ricondurre la discussione del problema della sacramentalità
alla sua radice, affrontando la questione del rapporto tra Chiesa e sacramen­
ti, ovvero assegnando un significato il più possibile rigoroso all’espressione
Chiesa-sacramento. Intorno a questa categoria, infatti, si è polarizzato il di­
battito nella fase preconciliare, con l’intento di superare l’estrinsecismo im­
putabile alla sacramentaria manualistica, e a partire da una certa interpreta­
zione del rapporto tra Chiesa e sacramenti si è sviluppato il dibattito post­
conciliare, che ha portato ad allargare ulteriormente il «sacramento» in dire­
zione di una sempre più indistinta sacramentalità.

49 G . COLOMBO, II «P op olo d i D io» e il « m istero» della Chiesa n ell’ecclesiologia p ost­


con ciliare, «Teologia» 10 (1985) 97-169, soprattutto 127-135.
50 M. DENEKEN, Les rom antiques allem ands, prom oteu rs d e la notion d'E glise sa crem en t du
salut?, «Revue des Sciences Religieusés» 67/2 (1993) 55-74; Id., S aaam entalìté d e l ’E glise et
th éo lo g ie rom antique, «Revue des Sciences Religieuses» 67/3 (1993) 41-57.
6. SACRAMENTO E SIMBOLO

L ’ambito teoretico del simbolico è, notoriamente, un labirinto. Ciò è do­


vuto a molti fattori. Da un lato si tratta di un tema affrontato dalle discipline
più diverse: dall’antropologia culturale alla psicologia, dalla poetica alla so­
ciologia, dalla psicanalisi fino alla filosofia e, ultimamente, anche alla teolo­
gia. D’altra parte al simbolo sono affidate speranze e attese di notevole por­
tata: lo s’invoca come categoria in grado di ringiovanire il sapere, di ricosti­
tuire unità infrante, di riattivare dialoghi interrotti. Fino a far nascere il so­
spetto che si rischi di fare del simbolo un novello deus ex machina, che,
giungendo da regioni remote e a lungo disattese dalla ricerca, imponga mi­
racolosamente un nuovo ordine e una nuova figura alle certezze frammenta­
rie del sapere.
La consapevolezza di questo stato di cose, già divenuto da più parti og­
getto di denuncia e di richiesta di rettificazione, dovrebbe sconsigliare alla
teologia sacramentaria di ricorrere al simbolo in maniera «precipitosa». Non
perché il riferimento al simbolico non sia pertinente, ma perché rischia di
essere un ricorso poco più che nominale, ove non sia chiaro che cosa il sim­
bolo «sia» e che cosa «faccia». E poiché nel dibattito su questo tema le va­
riabili paiono più numerose delle costanti, è difficile non solo raggiungere
un consenso sulla «cosa» di cui si parla, ma anche solo sulle direzioni in cui
orientare la ricerca, perché risulti meno dispersiva e più istruita.
D’altra parte, considerando il dibattito degli ultimi trent’anni, non si può
fare a meno di asserire che la teologia sacramentaria non ha saputo resistere
alla seduzione esercitata dal simbolico e si è ampiamente servita di questa
categoria per riformulare e «aggiornare» le proprie tesi. Di qui la necessità
per la nostra ricerca di addentrarsi in questo terreno minato, non certo con
la pretesa di offrire svolgimenti teoretici più pertinenti, ma con lo sforzo di
dare un’interpretazione critica e una valutazione del cammino percorso, se­
gnalando ciò che, alla luce degli sviluppi recenti, si è già mostrato un tentati­
vo impraticabile o, per qualche aspetto, inconsistente.
176 Parte seconda: I p rob lem i

6.1. La motivazione culturale

Uno dei motivi che hanno sostenuto l ’ingresso del simbolo nella sacra­
mentaria è stato indubbiamente il convincimento che questa categoria, me­
glio di altre, permette di esprimere la dimensione «antropologica» dei sacra­
menti. Sotto questo profilo, il simbolo presenta alla teologia la possibilità di
ottenere un duplice risultato: il superamento di una lacuna tradizionale «in­
terna» alla sua ricerca e l ’apertura al vivace dibattito antropologico «ester­
no», che caratterizza l’orientamento culturale di questi decenni.
Sul versante interno, è nota la tradizionale difficoltà della ricerca teologi­
ca a mostrare il valore intrinseco dell’asserto «sacram enta p rop ter hom ines»,
che non sembra potersi ridurre all’affermazione della mera «destinazione»
antropologica delle realtà sacramentali. La difficoltà di mostrare il nesso
«positivo» tra il sacramento e l ’uomo si è formalizzata soprattutto nella sa­
cramentaria del manuale,51 che riconduce la comprensione del sacramento
alla logica del «segno efficace della grazia». Contro i limiti di questa formu­
lazione si era già pronunciato Casel,52 denunciando soprattutto l ’impoveri­
mento teologico intrinseco a questa prospettiva: strumentalizzazione indivi­
dualistica della celebrazione, frammentazione della grazia, isolamento del
sacramento all’interno della vita cristiana e, soprattutto, frattura della grazia
sacramentale dall’evento salvifico. La teologia, accettata la denuncia di Ca­
sel, senza peraltro approfondirne l ’ispirazione, ha sentito però il bisogno di
proseguire la critica anche su un altro versante, e nei confronti della sistema­
tizzazione manualistica ha lamentato soprattutto la sottovalutazione della
componente antropologica.53 Dalla critica è emerso che,la prospettiva del
segno efficace della grazia «blocca» la sacramentaria all’interno di un’antro­
pologia fondamentalmente dualista, basata sulla contrapposizione tra una
realtà interiore e spirituale, inaccessibile all’esperienza e oggetto di fede, e
una realtà esteriore e materiale, legata alla prima solo per un rimando estrin­
seco. Il signum sacramentale, infatti, per quanto possa essere indagato e ap­
profondito nella suà consistenza «naturale», non rimanda alla res «sopranna­
turale» che per una designazione «creduta», e dunque di «altro» genere ri­
spetto a qualsiasi forma dell’esperienza.
Secondo la denuncia di Chenu,54 che ha lucidamente prospettato la ne­
cessità di un cambiamento di modello, opera in questa prospettiva una sot­

51 Cfr. C. ROCCHETTA, Sacramentaria fondam entale. Dal «m ysterìon» al «sacram entum »,


Dehoniane, Bologna 1989,335-356.
52 A. SCHILSON, T heologie a h S akram ententheologie. D ie M ysterien th eologie O do Caselsj
Griinewald, Mainz 19 82 ,170ss.
53 A . VERGOTE, D im ensioni anthropologiques d e l'eucharistie, in A a .V v ., L 'eucharistie.
S ym bole e t réalité, Duculot - Lethielleux, Gembloux - Paris 1970,7-56, in particolare 7-9.
54 M.-D. CHENU, P our m e anthropologie sacram entelle, «L a M aison-Dieu» 119 (1974) 85-
100.
6. Sacramento e sim bolo VII

tovalutazione della materia, e in particolare del corpo, che indirizza la teolo­


gia in una direzione astratta e intellettualistica. Il corporeo, e dunque l’an­
tropologico, costituisce semplicemente un rivestimento esterno per il darsi
della grazia e, per giunta, un rivestimento inteso in termini prevalentemente
«medicinali». Il sacramento non è in alcun modo «azione» dell’uomo, ovve­
ro espressione della sua libertà credente, ma solo «segno» della grazia, appa­
rato strumentale in funzione di un evento «interiore». Se la prospettiva del
«segno» blocca la sacramentaria, appare subito pertinente il passaggio alla
prospettiva del «simbolo», che invece «sblocca» la ricerca e la orienta, o for­
se la riorienta, verso l’uomo. Diciamo «forse» perché i pareri degli autori di­
vergono: per Chenu, infatti, si tratta di un recupero della tradizione patristi­
ca greca e, soprattutto, dell’antropologia tomista; per altri, invece, si tratta di
un superamento e di un’innovazione più o meno radicale. In ogni caso si
tratta di un «vantaggio»: più intravisto che già acquisito, ma sicuramente da
apprezzare.
Il secondo guadagno che il simbolo promette alla sacramentaria è sul ver­
sante esterno e consiste nella possibilità di un rinnovato dialogo con la cul­
tura. I possibili interlocutori sono molti, forse anche troppi, nella loro di­
spersione, ma tutti ritenuti degni d’attenzione, anzi riconosciuti come parte
attiva e indispensabile della ricerca teologica. Questo vale evidentemente,
ma non senza ambiguità, per la filosofia, che costituisce per la teologia un
p a rtn er tanto tradizionale quanto problematico, nella misura in cui si presen­
ta come la voce della «ragione» che viene ad illuminare le proposizioni della
fede. Ma vale soprattutto per le scienze umane, che di fronte allo smarri­
mento della filosofia, rassegnata a rappresentare solo più delle «opinioni»,55
si sono proposte come la nuova forma di «ragione» e come la vera «novità»
sull’uomo. La straordinaria diffusione che il tema del simbolo ha acquisito
all’interno delle scienze umane si è così «felicemente» sposata con l’interesse
teologico per una nuova impostazione che permettesse di valorizzare il volto
antropologico, troppo a lungo misconosciuto, dei sacramenti. Nonostante
gli ottimismi iniziali, o forse proprio a cagione di essi, l’introduzione della
categoria «antropologica» di simbolo nel discorso teologico si è rivelata me­
no facile e consensuale del previsto. Innanzi tutto perché le stesse scienze
umane non presentano alcuna convergenza sul tema,56 non soltanto in sede
interdisciplinare, ma neppure all’interno della stessa disciplina, e in secondo
luogo perché è mancato, e manca tuttora, un chiaro (o anche solo un meno
chiaro) orientamento metodologico per valorizzare in maniera corretta pro­
spettive e analisi formalmente differenti, come quelle delle scienze umane e
della teologia. Il rischio è che si ripeta il tipo di rapporto instaurato dalla

55 R. RORTY, C ontingency, Irony and Solidarity, Cambridge University Press, Cambridge


1989.
56 U. ECO, S im bolo, in E nciclopedia [Einaudi], XII, Einaudi, Torino 1981,877-915.
178 Parte seconda: I p rob lem i

teologia recepta nei riguardi della filosofia, che è stata accolta, nelle inten­
zioni, come ancilla th eo logia e, ma che, di fatto, ha assunto sul piano formale
una funzione «costitutiva».57 Le aporie legate a quest’impostazione, tramon­
tata d e iure con la crisi della teologia neoscolastica, sconsigliano di ripeterne
la vicenda a proposito delle scienze umane, ma non costituiscono ancora
un’indicazione sufficiente ad orientare in positivo la nuova metodologia. Pa­
re comunque chiaro che la teologia non può né funzionalizzare i risultati
delle scienze umane ad illustrare le proprie tesi precostituite, né assumerli
direttamente come un dato indiscutibile, ma deve compiere lo sforzo di «in­
terpretarli», assumendo gli interrogativi che essi pongono e affrontandoli nel
quadro della propria ricerca, che, mirando all’intelligenza della verità rivela­
ta, non può che risultare più ampia e più completa.

6.2. La motivazione pastorale

L’incontro della teologia e delle scienze umane sul terreno del simbolo è
stato propiziato non soltanto da motivi interni alla ricerca, ma anche, e forse
soprattutto, da fattori estrinseci, tra i quali spicca in particolare, nel periodo
immediatamente successivo al Concilio, la pressione della situazione pasto­
rale. Nei saggi e negli articoli dei primi anni Settanta si registra puntualmen­
te l’affermazione di un disagio tanto diffuso quanto radicato nei confronti
della pratica sacramentale,58 che finisce per essere semplicemente «diserta­
ta» da una vasta massa di cristiani. I bilanci dell’epoca, al di là del tono cata­
strofico che talora assumono, sono la spia di una situazione di smarrimento
che sembra richiedere ripensamenti coraggiosi e iniziative urgenti. Come
scrive un autore, la crisi è tale che la teologia si vede chiamata a lavorare «in
diretta» per far fronte alle nuove problematiche.59 E ovvio che, sotto la pres­
sione dell’emergenza, difficilmente la teologia può produrre i suoi frutti mi­
gliori, perché l’indispensabile attenzione agli interrogativi della prassi rischia
di trasformarsi in un cedimento all’immediato e all’estemporaneo. L’urgen­
za, comunque, non può essere disattesa, ed in effetti viene assunta dalla
teologia, che si vede imposto dall’andamento pastorale un radicale cambia­
mento di domanda. Mentre in un contesto di prassi sacramentale consolida­
ta e socialmente condivisa la domanda circa i sacramenti riguardava soprat­
tutto la modalità della loro più conveniente celebrazione, lo sgretolarsi della

57 G. COLOMBO, Filosofia e teologia n ell’«A eterni Patris», in La ragione teologica , Glossa,


Milano 1995, 367-387, in particolare 369; ID., T eologia e filosofia. Le v icen d e d i un rapporto
d ifficile, in o.c., 191-209.
58 R. DiDIER, Les sacrem ents d e la foi. La Pàque dans ses signes, Centurion, Paris 1975; J.
RATZINGER, Die sakram entale B egriindung ch ristlicher Existenz, Kyrios-Verlag, Freising 1966.
59 P.M. G y , P roblèm es d e th éo lo gie sacram entaire, «L a Maison-Dieu» 110 (1972) 129-142,
129.
6. Sacram ento e sim bolo 179

pratica mette al centro dell’indagine un problema più radicale e in un certo


senso nuovo: «perché» esistono dei sacramenti e che «senso» hanno nella vi­
ta del credente? Ciò che rende nuovo l’interrogativo non è evidentemente
l ’interesse per l’identità del sacramento, che è interesse antico, ma il presup­
posto «pratico» su cui la domanda ora si sostiene: il presupposto che «di fat­
to» sia possibile essere cristiani anche «senza» i sacramenti.
Alla radice della domanda, sempre secondo le ricostruzioni del momen­
to, non si pone principalmente un orientamento ideologico, che pure è ope­
rante, ma l ’esperienza dell’«insignificanza» della celebrazione nella vita del
credente.60 Tale insignificanza è espressa nei termini di una «distanza» del
mondo cultuale dalla vita e di un «sospetto» nei confronti dell’istituzione
ecclesiale, cui compete l ’amministrazione delle realtà sacramentali. Per que­
sto la plausibilità di una vita cristiana «senza pratica sacramentale» si ac­
compagna all’idea di un cristianesimo «senza Chiesa», che ha trovato spazio
anche al di là della pur ampia zona della sua formulazione esplicita.
Trovandosi di fronte alla necessità di affrontare la questione dell’«iden-
tità» del sacramento nella prospettiva del suo «senso» antropologico, la teo­
logia ha pensato di trovare la soluzione imboccando decisamente quella pro­
spettiva (vagamente) «simbolica», su cui già altri fattori l’avevano avviata. In
questa direzione acquisiva un significato diverso l ’attuazione della riforma
conciliare, che, elaborata ancora in vista della domanda precedente (come
celebrare i sacramenti?), difficilmente poteva concorrere a fornire le risposte
«urgenti» imposte dalle nuove circostanze. Il significato «diverso» diventava
così fondamentalmente un significato più «sbiadito», meno convinto della
propria solidità e incisività, più disposto ad ulteriori modifiche e anche al­
l’improvvisazione dell’esperimento. Ma in questa direzione acquisiva anche
un significato diverso l ’incontro con le scienze umane, che nella loro pretesa
di dire all’uomo contemporaneo il «senso» della sua esistenza stavano gua­
dagnando sempre più ascolto e attenzione. In questo caso il significato «di­
verso» diventava significato più «importante», più promettente per una nuo­
va comprensione dell’uomo e quindi per una nuova «qualificazione» del
«senso» dei sacramenti.
Al centro di questi complessi spostamenti di attenzione, il «simbolo» si
vede così investito di una missione forse troppo pretenziosa: restituire il
«senso» del sacramento. E poiché il sacramento sembra aver perso il suo
senso in riferimento all’«uomo», la missione si specifica in questi termini: re­
stituire il «senso» del sacramento, e dunque l’interesse per la sua celebrazio­
ne, mostrandone il «radicamento nell’umano».61 La teologia avrebbe dovuto
sospettare che difficilmente il sacramento può trovare «nell’uomo» il motivo

60 R. DIDIER, o.c.; B. Le G al , Situations pastorales aux m ultiples fa cettes, «La Maison-


Dieu» 119 (1974) 16-34.
61R. D idier, o.c., 21.
180 Parte seconda: I p rob lem i

per apparire interessante, mentre è molto più plausibile che lo trovi «in Ge­
sù Cristo», che è all’«origine» sia dell’uomo sia del sacramento. Ma forse
l’«urgenza» dei problemi ha talora prevalso sul rigore della ricerca e sulla
solidità delle risposte.
Certo l ’affermazione che il senso del sacramento viene da Gesù Cristo, e
dunque va cercato in quella direzione, si chiarisce solo a condizione che Ge­
sù Cristo non venga, neppure implicitamente, «contrapposto» all’uomo, ma
sia invece riconosciuto come «la luce del mondo», cioè come Colui in cui si
svela nella sua verità totale e definitiva il mistero dell’uomo, e quindi anche
il senso dei dinamismi simbolici che lo abitano. Da questo punto di vista do­
vrebbe apparire chiaro che lo sforzo della sacramentaria nella valorizzazione
della questione del simbolo, una volta chiarite le ambiguità dovute all’utiliz-
zo «selvaggio» del termine, dovrebbe consistere nel mostrare come il sacra­
mento/simbolo cristiano si radichi nel mistero di Cristo e per questo non so­
praggiunga all’uomo, alla sua storia e alla sua libertà, dall’esterno, come un
intruso, ma corrisponda sovrabbondantemente alle attese e alla richiesta di
«senso» dell’uomo, perché propone non una delle risposte penultime, sem­
pre trascendibili e insufficienti, ma la risposta ultima e indeducibile: l ’evento
di Gesù.
Qui probabilmente il «simbolo» troverebbe la propria collocazione teo­
logicamente pertinente, perché l’affermazione antropologica che il rapporto
dell’uomo con il senso si realizza attraverso mediazioni simboliche (una delle
poche affermazioni sul simbolo che registra vasti consensi) rimanda al chia­
rimento del tipo di rapporto che il simbolo intrattiene con l ’«origine» del
senso. Questione che compete appunto alla teologia.62
Sembra invece da escludere in partenza la riduzione del sacramento cri­
stiano al simbolo antropologico. Non solo perché strategicamente costituisce
una reductio ad obscurius di difficile gestione teoretica, come il dibattito am­
piamente conferma, ma perché la fede non può rinunciare all’affermazione
che il «contenuto» dei sacramenti non è un dinamismo antropologico, co­
munque lo si intenda, ma la Grazia di Dio, da intendere nel senso più pre­
gnante: lo Spirito di Gesù. Ancora una volta senza contrapposizione ai di­
namismi umani, ma senza riduzione ad essi.

62 «Lo spazio che compete alla teologia nell’articolazione del sapere è quello definito dal
rapporto verità-senso. Poiché tematizza la verità del senso e il sen so della verità, essa si col­
loca nel punto di mediazione tra la riflessione fondamentale e le scienze ermeneutiche» [A.
BERTULETTI, Sapere e libertà, in G. COLOMBO (ed.), L’evidenza e la fe d e , Glossa, Milano 1988,
444-465,464].
6. Sacramento e sim bolo 181

6 .3 .1precedenti: Casel e Rahner

Nella direzione di un recupero del contenuto cristologico-pneumatologi-


co del sacramento si era mossa, in effetti, la riscoperta e la reintroduzione
del simbolo nella teologia da parte di Casel. Se bisogna credere alla detta­
gliata ricostruzione di Schilson, al teologo benedettino non si deve ricono­
scere soltanto il merito di aver offerto un «preludio» ai temi della ricerca
simbolica attuale, ma ben di più di essere alla guida della «falange» di teolo­
gi che sono scesi a disputare sul tema.63 Questo almeno nel senso di aver po­
sto problemi che la teologia del simbolo/sacramento «deve» («dovrebbe»)
approfondire, e di aver suggerito un orientamento che, pur con le necessarie
precisazioni e rettificazioni, «merita» di essere proseguito. Non invece nel
senso che la teologia successiva si sia lasciata condurre dalP«ispirazione» di
Casel, che è stata, forse precipitosamente, abbandonata.
Tale ispirazione consisteva, come è noto, nel ricorso al simbolo per cor­
reggere la diffusa teoria che concepiva l’effetto dei sacramenti come qualco­
sa di estrinseco all’evento salvifico. La teoria del simbolo reale di Casel, sot­
to certi aspetti profondamente vicina a quella di Rahner,64 intendeva, infatti,
far valere che l ’effetto del sacramento non è una grazia mediata dalla cele­
brazione sacramentale, ma è la presenza misterica della stessa azione salvifi- Il
ca.65 Conseguentemente il fulcro della prospettiva simbolica caseliana si ri- (/
trova nel discorso relativo all’Eucarestia, che manifesta per eccellenza l’es­
senza del sacramento cristiano.66
I due tentativi più consistenti di pensare la sacramentaria in termini sim­
bolici dopo Casel e prima del dibattito postconciliare sono, ovviamente,
quello di Schillebeeckx e quello di Rahner. Poiché a Schillebeeckx si deve
attribuire l’intenzione non di abbandonare, bensì di approfondire, corregge­
re e sviluppare l’intuizione di Casel,67 il «tramonto» della prospettiva caselia­
na viene associato all’affermarsi della sacramentaria di Rahner.68 Ed in effet­
ti, nonostante la comune insistenza sul «realismo» simbolico, le due prospet­
tive si muovono in direzioni diverse: la prima verso l’Eucarestia, la seconda
verso la Chiesa.

63 A. SCHILSON, T h eo logie als Sak ram ententheologie, o.c., 272s.


64 O.c., 279, n. 20.
65 O . CASEL, Das ch ristlich e K ultm ysterium , Pustet, Regensburg41960.
66 S. UBBIALI, E ucarestia e sacram entalità. P er una teologia d el sacram ento, «La Scuola f
Cattolica» 110 (1982) 540-576, soprattutto 547-555. '
67 E . SCHILLEBEECKX, D e sa cra m en tele H eilseconom ie. T heologische bezinning op S. Tho­
m as' sa cra m en ten leer in h et licht van d e traditie en van d e hedendaagse sacram entsproblem a-
tiek, ’t Groeit, Antwerpen 1952,215-219; ID., Cristo, sacram ento d ell’incon tro con Dio (tr. it.),
Paoline, Cinisello Balsamo 91987,66-90.
68 G. COLOMBO, T eologia sacram entaria e teologia fondam entale, «Teologia» 19 (1994) I
238-262,246.
182 Parte seconda: I problem i

L’orientamento ecclesiologico della ricerca simbolica di Rahner si chiari­


sce non soltanto alla luce della sua T heologie des Sym bols, ma più precisa-
mente negli sviluppi offerti in K irche und Sakramente. Il saggio sulla teologia
del simbolo, infatti, si apre più liberamente in diverse direzioni. Formalmen­
te l’interesse è cristologico, e mira a fondare la devozione al Sacro Cuore sot­
to le sollecitazioni dell’enciclica H aurietis Aquas, ma le questioni affrontate
spaziano anche in altri ambiti, e offrono indicazioni tendenzialmente onni­
comprensive, nella misura in cui fanno valere il contenuto della prima tesi:
« l’ente è di per se stesso necessariamente simbolico, perché necessariamente
si “esprime” per trovare la propria essenza».69 In questo senso l ’articolo im­
posta una vera «ontologia» del simbolo, che nella sua onnivalenza conduce
ad una altrettanto onnivalente «teologia» del simbolo. Al suo interno, tra le
tematiche rilette in chiave simbolica, va richiamata in particolare quella del
«corpo», non solo perché corrisponde direttamente allo scopo del saggio
(devozione al Sacro «Cuore»), ma perché ha conosciuto una fortuna ben più
ampia di quella prevedibile in base alla sua funzionalità immediata. Dal sim-
bolo-corpo, infatti, i discepoli di Rahner faranno dipendere la comprensione
del simbolo-sacramento, che egli invece, già nel saggio in questione, fa deri­
vare dal simbolo-Chiesa.
Senza indugiare sulle posizioni di Casel e di Rahner, che rappresentano
gli antecedenti del dibattito attuale, è però necessario richiamare la diversa
direzione della loro teoria simbolica, non soltanto per far emergere la novi­
tà/diversità della ricerca recente, ma anche per segnalare lo spostamento, già
avvenuto con Rahner, della questione del simbolo da questione in prim is eu­
caristica a questione in prim is ecclesiologica. Mentre, infatti, in Casel la
Chiesa è la «sposa» di Cristo (o anche il «corpo» del «Capo») creata dal­
l ’Eucarestia, simbolo che esprime (realmente) l ’«azione salvifica», in Rahner
la Chiesa è il «sacramento/simbolo» di Cristo, che nell’Eucarestia esprime
«se stessa» come opus operatum della grazia. Lasciando impregiudicata la di­
scussione sui motivi dello spostamento e la valutazione sulla loro validità, la
differente modalità di ricorso al simbolo reale da parte dei due teologi non
deve essere trascurata. Essa, infatti, ripropone per un verso la questione del
rapporto tra Chiesa ed Eucarestia, che abbiamo già incontrato discutendo le
origini della teologia della sacramentalità, e per l ’altro la necessità di proce­
dere più accuratamente a determinare il senso della teoria del simbolo reale,
che, se è sostanzialmente identica nei due autori, non può condurre coeren­
temente a due esiti alternativi.
D’altra parte, al di là della diffidenza di Rahner per l ’«intuizionismo» di
Casel, il carattere alternativo della loro ricerca non va esagerato, perché in
entrambi gli autori il simbolo reale conduce all’intelligenza teologica del

69 K. RAHNER, Sulla teologia d e l sim bolo (tr. it.), in Saggi su i sacram enti e su ll’escatologia,
Paoline, Roma 1965,51-107,57.
6. Sacramento e sim bolo 183

«sacramento» nel suo rapporto «intrinseco» e «necessario» con la «Chiesa».


Al di sotto delle differenze, rimane, dunque, nei due teologi una collocazio­
ne chiara della questione «teologica» del simbolo nella problematica relativa
al radicamento cristologico/ecclesiologico dei sacramenti, rispetto a cui il
tentativo recente di mostrare il radicamento «antropologico» costituisce,
sotto un certo profilo, una «novità».
L ’indicazione deve essere precisata, perché non si può certo muovere a
Casel e a Rahner la critica di non aver prestato attenzione sufficiente all’an­
tropologia. E noto, infatti, lo spazio, perfino eccessivo, che occupa nella teo­
ria di Casel il confronto con la ricerca religionistica, come pure l’orienta­
mento di fondo che permette di designare la teologia rahneriana con la cifra
della «svolta antropologica». Nonostante gli addebiti critici che i due pro­
getti registrano sotto il profilo antropologico, la novità del dibattito recente
non può pertanto essere determinata come l’introduzione di una preoccupa­
zione del tutto nuova.70 Se non può essere trovata sul piano dei contenuti,
l’innovazione va collocata con maggiore pertinenza sul piano del metodo o
del percorso seguito: mostrare il radicamento antropologico del sacramen­
to/simbolo «al di fuori» del radicamento cristologico-ecclesiologico.

6.4. Il presupposto: antropologia del simbolo

La strategia di cercare il radicamento del sacramento nell’antropologico


attraverso la valorizzazione del «simbolico» è stata, dunque, suggerita alla
teologia non tanto dai precedenti della sua ricerca, quanto dalle motivazioni
culturali e pastorali già ricordate. La loro persuasività è per molti aspetti in­
dubitabile, perché fa riferimento a questioni e sollecitazioni reali, ma la ri­
sposta che la teologia deve offrire ai problemi sollevati dalla cultura e dalla
prassi pastorale non comporta necessariamente l’assunzione indiscussa della
domanda nei termini in cui viene formulata. Tocca infatti alla teologia, ancor
prima che elaborare coscienziosamente le risposte, istruire accuratamente le
domande, per evitare che la ricerca si aw ii in una direzione tortuosa e in­
concludente.
Nella fattispecie la teologia dovrebbe discutere, innanzi tutto, un presup­
posto che forse è stato accolto troppo rapidamente, ovvero l’idea che la trat­
tazione del simbolo «esaurisca» la questione antropologica e che, di conse­
guenza, la questione della dimensione antropologica dei sacramenti si riduca
al rapporto tra simbolo corporeo e simbolo sacramentale. Il presupposto,
evidentemente, deve essere discusso perché suppone quanto meno un’acce­
zione chiara della nozione di simbolo, che invece manca, e un approfondi­
mento fenomenologico della sua identità, che spesso viene eluso procedendo

70 Bisogna ricordare anche L. BOUYER, Le rite et l ’h om m e, Cerf, Paris 1962.


184 Parte seconda: I p rob lem i

direttamente alle definizioni trascendentali. Il caso più evidente è rappresen­


tato dal procedimento dei discepoli di Rahner, che deducono il discorso an-
. tropologico a partire dalla tesi del corpo come simbolo reale dell’uomo (più
precisamente dell’«anima»).
Abbiamo già avuto modo di osservare che la tesi è formulata da Rahner
' non in vista della sacramentaria, ma della cristologia; ora è necessario ag-
1giungere che la tesi, che per molti aspetti appare solida e convincente, ha pe­
rò il difetto di essere ancora generica e astratta, perché priva di un’adeguata
base fenomenologica. L’affermazione di Rahner suona, infatti, in questi ter­
mini: «il corpo è il simbolo dell’anima, in quanto viene formato dall’anima
come sua autorealizzazione (anche se non adeguata); in esso, come nell’altro
i da lei distinto, l ’anima diviene presente a se stessa e si “manifesta”» .71 Il ca-
! rattere generico dell’affermazione pare subito chiaro, non appena si richiami
alla coscienza il dato immediatamente evidente che gli atti corporei non so­
no tutti ugualmente «espressivi» dell’anima, perché non sono tutti ugual­
mente posti, decisi, intenzionati: esistono anche atti corporei che paiono
prevalentemente strumentali, fisiologici e per questo lontani più di altri dal
movimento simbolico della libertà. Così pure è facile riconoscere che i me­
desimi atti corporei non sono «sempre» ugualmente «simbolici»; il saluto af­
frettato di un incontro quotidiano non rende l ’anima «presente a se stessa»
come il sobrio e solenne saluto liturgico, o come il saluto augurale in occa­
sione di una festa o di una ricorrenza. Per questo non sembra legittimo far
semplicemente coincidere la considerazione antropologica del sacramento
con l’assunzione della tesi del corpo come simbolo reale dell’anima e con le
deduzioni che ne derivano. Occorre piuttosto «allargare» l’indagine sul sim­
bolo e sul corporeo, esaminando quando e come il corpo realizzi la dimen­
sione di simbolo. Probabilmente su questa strada la ricerca dovrebbe mette­
re in discussione molti punti, dati invece per scontati dalla sacramentaria an­
tropologica recente, fino magari a porre l ’interrogativo se la nozione di ani­
ma e di corpo possano essere «presupposte» rispetto alla ricerca simbolica,
o non costituiscano piuttosto il tentativo di articolare teoricamente l ’espe­
rienza del continuo trascendimento dell’immediatezza e della passività che
costituisce il dato fenomenologico originario relativo alla coscienza.
Senza voler risolvere il quesito circa la riducibilità dell’antropologia alla
questione del simbolo, ricaviamo però dalle considerazioni svolte l’indica­
zione che in ogni caso l’antropologia non può essere «risolta», come invece è
in buona misura avvenuto, nella tesi rahneriana del corpo come simbolo
reale dell’anima. E di questo si è accorta la sacramentaria stessa, spostando
successivamente la considerazione dell’antropologia dall’ambito del «simbo­
lo» a quello del «rito». Sotto questo profilo, il limite della sacramentaria che
ha assunto come punto di partenza la tesi antropologica rahneriana risulta

71 K. RAHNER, Sulla teologia d e l sim bolo, a.c., 99.


6. Sacramento e sim bolo 185

ancora più vistoso, perché, come a suo luogo documentato, non si è trattato
semplicemente dell’introduzione di un capitolo in più (l’antropologia del sa­
cramento) all’impostazione precedente, ma della «riformulazione» del trat­
tato sui sacramenti a partire da «quella» tesi. La collocazione all’inizio della
sequenza «Cristo XJrsakrament - Chiesa Grundsakrament - sette sacramenti»
della considerazione dell’uomo come «simbolo/sacramento fondamentale»
ha, infatti, orientato la teologia a intendere il sacramento come «espressio­
ne» di un dinamismo antropologico, fondato nel rapporto simbolico del còr­
po con la trascendenza. Ma il carattere semplicemente additivo della rifles­
sione cristologica rispetto al fondamento antropologico ha portato a com­
prendere questo rapporto alla luce non della Rivelazione, ma di un’ontologia
dell’interiore e dell’esteriore, del finito e dell’infinito, del visibile e dell’invi­
sibile, ovvero di un’ontologia elaborata a prescindere dalla cristologia.

6.5. Dal simbolo al sacramento

Una volta assunto come punto di partenza, forse non indiscutibile72 e


comunque ulteriormente da indagare, che l’uomo va interpretato a partire
dalla sua corporeità simbolica, l’istruzione del problema sacramentario ri­
chiede di discutere la praticabilità e la validità del tentativo di mostrare il
radicamento dei sacramenti nell’umano, scavalcando la considerazione della
loro collocazione ecclesiale, recepita come un dato culturalmente problema­
tico ed escludente. Che il dibattito si sia mosso (anche) in questa direzione,
lo dimostra buona parte della letteratura che abbiamo preso in considera­
zione nel momento analitico. L’unico autore dell’area tedesca a cui abbiamo
potuto attribuire una collocazione ecclesiologica dei sacramenti è stato, in­
fatti, Schulte,73 e i pochi nomi che si potrebbero affiancare al suo non sono
sufficienti per indicare un orientamento diverso rispetto a quello predomi­
nante.
Schupp,74 che forse rappresenta la punta estrema di quest’orientamento,
è arrivato addirittura a proporre di trasferire radicalmente i sacramenti dal­
l’ambito «alto» del culto ecclesiale a quello «concreto» del lavoro materiale,
dove l ’uomo può raggiungere la vera emancipazione, che consiste nel supe­
ramento delle strutture sociali oppressive. La tesi ovviamente era inconsi­
stente ed è rapidamente caduta, insieme alla ideologia che ne era all’origine,
ma segnala il problema dell’individuazione del senso simbolico dei sacra­

72 Tra coloro che si oppongono a quest’orientamento: L. LlES, Sakram ententheologie. Bi­


n e p erso n a le Sicht, Styria, Graz 1990.
73 R . SCHULTE, D ie Einxelsakramente als A usgliederung des W urzelsakraments, in M yste-
rium salutis, IV/2, Benziger, Einsiedeln 1972,46-155.
74 F . SCHUPP, G laube - K ultur - Sym bol. Versuch ein er kritischen T heorie sakram entaler
Praxis, Patmos, Dusseldorf 1974.
186 Parte seconda: I p rob lem i

menti, una volta che esso sia affrontato a partire dall’umano. Astraendo dal­
la celebrazione, e dunque dal «senso» ecclesiale, infatti, il sacramento si apre
nelle più svariate direzioni, divenendo il «prodotto» dell’antropologia do­
minante e proponendo il contenuto antropologico a cui di volta in volta si
riconosce il carattere di autenticità. Nel migliore dei casi il suo contenuto
diventa l’«apertura alla trascendenza», ovvero l ’espressione dell’anelito reli­
gioso dell’umanità che invoca un compimento salvifico. Questa è, infatti, la
massima determinazione che l ’uomo da se stesso può dare alla propria ricer­
ca di «senso», ma bisogna schiettamente affermare che questo «non» è il
contenuto del sacramento cristiano.
D’altra parte non si vede perché per mostrare il senso antropologico del
sacramento, e per mostrarlo «simbolicamente», si debba escludere la dimen­
sione ecclesiale.75 Potrebbe indurre in questa direzione soltanto una teologia
che vedesse nella Chiesa una realtà che si «sovrappone» all’uomo dall’ester­
no e che si «interpone» come un diaframma tra il singolo credente e Dio.
Ma questa sarebbe evidentemente una cattiva ecclesiologia, perché la Chie­
sa, il cui «mistero» è irriducibile alle dimensioni di una qualsiasi figura so­
ciale, non è però una realtà «fuori» del tempo che predetermina astratta-
mente una certa visione dell'uomo, ma è la comunità dei discepoli del Signo­
re (il nuovo «popolo di Dio») che alla luce della fede, e dunque all’interno
dei rapporti ecclesiali che la fede determina, elabora «storicamente» una
certa antropologia (nel senso più ampio del termine, che coinvolge anche la
prassi e la orienta). Il senso ecclesiologico dei sacramenti cristiani non è
dunque altro, né di più, del senso antropologico, ma è il senso antropologico
conosciuto e svelato nel suo orizzonte ultimo (quello della rivelazione cristo­
logica). Questo significa che la Chiesa custodisce nei sacramenti che le sono
stati affidati dal Signore il «senso» della vita dell’uomo: l ’incontro con Gesù
che riunisce gli uomini nel nuovo popolo di Dio, costituito dai suoi discepo­
li. Per questo il radicamento del sacramento nell’antropologico non richiede
l’«esclusione» dell’ecclesiologico, ma il «ricorso» all’ecclesiologico, come e
perché la comprensione dell’uomo non richiede l’esclusione della fede, ma il
ricorso alla fede.
Il dibattito, invece, si è mosso in altra (opposta) direzione, e ha ritenuto
conveniente mettere tra parentesi l ’identità ecclesiale come punto di parten­
za per la comprensione del sacramento, preferendo la via d’accesso dell’an­

75 Sul fraintendimento che può sostenere questa tesi, scrive un autore: «Basta un difetto
di comprensione della Chiesa per trasformarla in una gabbia, o piuttosto in una fortezza chiu­
sa in se stessa, con tutte le proprie “cose”, inaccessibile ed estraniata dal mondo. Affiora un
duplice errore: la precomprensione della Chiesa come un mondo separato e chiuso in se stes­
so, invece che aperto e “inculturato”, cioè criticamente partecipe della cultura generale; inol­
tre la pretesa di offrire immediatamente alla comprensione della cultura gli elementi struttu­
rali della Chiesa, nella fattispecie i sacramenti, “by-passando” la Chiesa» (G. COLOMBO, P re­
sentazione, in G. MOIOLI, Il quarto sacram ento, Glossa, Milano 1996, IX-XLIV, XVII).
6. Sacramento e sim bolo 187

tropologia. Non è inutile forse richiamare brevemente le linee seguite dalla


sacramentaria antropologica, nella sicurezza delle sue intenzioni, ma nel­
l ’incertezza dei suoi percorsi.
Gli orientamenti principali segnalati dalla critica, nel suo sforzo di mette­
re ordine in un panorama complesso, sono stati il tentativo di mostrare il ra­
dicamento del sacramento/simbolo nella natura/storicità dell’uomo; il suo
rapporto alla prassi/storia/cultura e il suo funzionamento pragmatico/comu-
nicativo.
Il primo orientamento conduce alla valorizzazione della qualità simbolica
del corpo, quale appare esistenzialmente nei momenti nodali della vita e nel­
le istituzioni più rilevanti della società. L’analisi ha mostrato la necessità di
sottrarre le affermazioni sulla simbolicità delle situazioni esistenziali all’allu-
sività dei riferimenti, per determinare con maggiore precisione fenomenolo­
gica il rapporto tra il corpo e l ’accesso al senso e alla trascendenza. Non è,
infatti, subito chiaro «quali» siano i «momenti nodali» della vita,76 e il tenta­
tivo di esprimerli in corrispondenza scoperta con le situazioni antropologi­
che a cui si riferiscono i sette sacramenti lascia sempre il sospetto di un pro­
cedimento apologetico di dubbia consistenza. Ma anche ammettendo che i
momenti nodali siano già sempre quelli a cui corrispondono i sacramenti cri­
stiani, occorre anche mostrare «perché» sono percepiti come momenti «de­
cisivi» e «in che modo» si manifesta il loro valore simbolico. Il carattere sim­
bolico del mangiare, ad esempio, non può essere determinato astrattamente,
per la semplice corrispondenza da un lato con uno dei bisogni primari del­
l ’uomo e per l ’altro con una delle manifestazioni tipiche della cultura. Che
l ’assunzione del cibo non sia solo un «bisogno» dell’uomo, ma anche un
«luogo simbolico» della sua relazione al mondo, alla società e al sacro va in­
vece mostrato fenomenologicamente e interpretato teologicamente, per rife­
rimento alle forme storiche che il mangiare assume nelle varie culture, ovve­
ro per riferimento alla «ritualità» del mangiare.
In questa direzione appare chiara l’impossibilità di un accostamento
«neutro» all’antropologico, perché l’«uomo» non è mai conosciuto astratta-
mente, attraverso una pura evidenza concettuale, ma sempre solo per riferi­
mento a figure storiche di cui si apprezza il valore e si valuta l’autenticità.77

76 Si pensi, ad esempio, al momento della pubertà, a cui molte culture associano un signi­
ficato determinante per l’inserimento nella vita sociale, ma che non sembra poter trovare cor­
rispondenza in un rito cristiano sacramentale. Solo una «forzatura», spiegabile sul piano sto­
rico, ma non per questo fondata su quello teologico, può orientare in questa direzione la
comprensione del sacramento della Confermazione, che finisce con il diventare il «sacramen­
to dell’adolescenza».
77 «L ’idea di uomo, o più in generale di ciò che è umano, non è mai data alla nostra cono­
scenza come idea “chiara e distinta”, astratta da ogni riferimento alle concrete figure storiche
nelle quali l’uomo si manifesta; certamente questo debito del “concetto” di uomo nei con­
fronti delle immagini concrete costituisce insieme un motivo di indeterminatezza, di ambigui-
188 Parie seconda: I p rob lem i

Di qui l’impossibilità per la teologia di partire dall’«antropologico» quasi


fosse una categoria chiara e distinta, semplicemente da presupporre nell’evi­
denza dei suoi dinamismi simbolici, per mostrare la corrispondenza del sa­
cramento cristiano a quanto appartiene al patrimonio e ai bisogni dell’uma­
nità. Di qui ancora la necessità di non interpretare la figura «ecclesiale» del
sacramento come un elemento aggiuntivo all’antropologico, e quindi come
una sovrapposizione da cui prescindere per mostrare il radicamento nell’u­
mano, ma piuttosto come la «forma» che l’antropologico assume quando
accoglie la rivelazione cristologica. È a partire dalla sua prassi sacramentale,
e non da una figura antropologica astratta, che il cristiano riconosce e ap­
prezza il valore simbolico dei momenti nodali dell’esistenza.78
La necessità del riferimento alla prassi è stata, infatti, il guadagno del se­
condo orientamento che ha caratterizzato la sacramentaria del simbolo an­
tropologico. Nel suo sforzo di valorizzare non soltanto la «storicità» dell’uo­
mo, ma la sua «storia» effettiva, esso ha indirizzato indubbiamente la rifles­
sione in una direzione pertinente, anche se le motivazioni ideologiche (l’ob­
bedienza al marxismo della Scuola di Francoforte) che hanno talora caratte­
rizzato pesantemente la ricerca hanno impedito di conseguire una vera intel­
ligenza della prassi simbolica.
In questo ambito il contributo più significativo, forse, è quello di Schaef­
fler e Hunermann volto a mostrare come solo all’interno dell’agire, e più
precisamente dell’agire rituale, l’uomo attinga la sfera del simbolico. Gli ele­
menti per una teoria pratica del simbolico offerti da questo approccio sono
ancora più intuiti che elaborati, ma possono costituire un significativo punto
di riferimento. Certo rimane anche in questi autori la difficoltà di articolare
il momento antropologico con quello teologico, che rischia sempre di so­
pravvenire come una «dilatazione» o una semplice ulteriorità del senso, che
non riesce ad esibire il suo carattere originario e fondante.
Il terzo orientamento, di tipo pragmatico-comunicativo, non sembra per
ora andare al di là di qualche intuizione iniziale (quelle di Hunermann), in
cui però l’acquisizione della ricerca filosofica recente sulla comunicazione
non ha ancora sostanziale incidenza.
La difficoltà ricorrente di tutti questi tentativi, in ogni caso, è quella di

tà, eventualmente di contraddittorietà, del “concetto” di uomo. Quel “concetto” non è mai
definitivamente compreso; e insieme non è mai del tutto disatteso e frainteso. Nella compren­
sione credente dell’uomo Gesù - e la fede cristiana non può mai darsi senza tale comprensio­
ne almeno virtuale - è insieme implicita una ricomprensione dell’uomo e del suo destino. La
riflessione teologica cerca di rendere tematica e di svolgere criticamente tale ricomprensione;
per pensare la fede, e non quasi astraendo dalla fede, è nella necessità di riprendere la stessa
riflessione (filosofica, o eventualmente filosofico-religiosa) circa l’idea di uomo» [G. COLOM­
BO - G. ANGELINI, R ipresa sintetica, in A a .V v ., C elebrare l ’eucaristia. Significato e p rob lem i
della d im en sion e rituale, Elle Di Ci, Leumann (Torino) 1983,138-149,147].
78 Non si vuole con questo negare la complessità metodologica di questo chiarimento che
richiede certamente ulteriori precisazioni.
/

6. Sacramento e sim bolo 189

far emergere la consistenza cristiana del sacramento, perché l’insistenza sulla |


mediazione antropologica rischia di trasformarsi in un riassorbimento del sa- j\
cramento nel «simbolo». Chiaramente la riduzione «radicale» del sacramen-'■
to cristiano nel simbolo antropologico non è fatta in maniera intenzionale da
nessuno, perché tutti affermano che la grazia non è riducibile all’an­
tropologico. Ma, di là dalle intenzioni, più di una proposta teologica si muo­
ve in quella direzione, fino a far dire alla critica che l’esito radicale è tratte­
nuto solo in extrem is.
L’autore a cui più puntigliosamente è stata mossa questa critica è indub­
biamente Chauvet.79 Egli, recependo le osservazioni mosse al suo primo sag­
gio,80 ha riconosciuto il carattere datato dell’«opzione antropologica» del te­
sto, che intendeva «reagire contro un discorso teologico che, troppo sicuro
di sé e dei propri principi, non onorava in modo sufficiente la preoccupa­
zione di radicarsi altrettanto profondamente nei nuovi saperi e nelle nuove
questioni provenienti dalle scienze dell’uomo».81 Il confronto con la seconda
opera82 non segnala però alcuna modifica nell’impianto, che mantiene l’op­
zione, criticata in maniera particolarmente lucida da Gisel,83 di procedere
dal «simbolico» antropologico al «simbolo» sacramentale. Abbiamo già avu­
to modo di fare qualche considerazione critica nei confronti di Chauvet a
proposito della sua concezione di sacramentalità. Qui ci limitiamo a segnala­
re come un inconveniente obiettivo l ’uso disinvolto della terminologia sim­
bolico/sacramentale e l ’insufficiente tematizzazione del rapporto tra il sim­
bolo e l ’origine del senso.
Il proliferare della terminologia «simbolica» nel saggio di Chauvet suscita
qualche perplessità, prima di tutto, perché non sembra accompagnato da
un’effettiva chiarificazione formale di cosa si intende per «simbolo». Pur
nella consapevolezza che Chauvet vuole intenzionalmente evitare l’ambito
della definizione e procedere attraverso un’altra forma di chiarificazione in­
tellettuale, rimane però discutibile che un’opera tutta centrata sul «simboli­
co» non introduca una «rigorosa» determinazione dell’ambito di utilizzo ter­
minologico delle nozioni. Il «simbolo», infatti, interviene nel saggio di

79 P. GlSEL, Du sym b oliq u e au sym b ole ou du sym bole au sym bolique? Rem arques intem -
p estiv es «Recherches de Science Religieuse» 75 (1987) 357-370; Y. LABBÉ, R éceptions théolo-
giq u es d e la «p ostm od ern ité», «Revue de Sciences Philosophiques et Theologiques» 72 (1988)
397-462; A. CAPRIOLI, Il sacram ento tra conoscenza sim bolica e rivelazione, «L a Scuola Catto­
lica» 117 (1989) 452-464; G. COLOMBO, P er i l trattato su ll’Eucarestia (I), «Teologia» 13
(1988) 95-130, in particolare 120-122; ID., Presentazione, in G. MOIOLI, Il quarto sacram ento,
Glossa, M ilano 1996, IX-XLIV, soprattutto XXV-XXXIV.
80 L.-M . CHAUVET, Du sym boliq u e au sym bole. Essai sur les sacrem ents, Cerf, Paris 1979.
81 L.-M . CHAUVET, R itualité et th éologie, «Recherches de Science Religieuse» 78 (1990)
535-564,542.
82 L.-M . CHAUVET, S im bolo e sacram ento (tr. it.), o.c.
83 P. GlSEL, Du sym b oliq u e au sym b ole o u du sym b ole au sym bolique? R em arques intem -
p estives, «Recherches de Science Religieuse» 75 (1987) 357-370.
190 Parte seconda: I problem i

Chauvet a vari livelli: sul piano conoscitivo designa una forma diversa di ra­
gione rispetto a quella speculativa e riflessiva della tradizione metafisica,
proponendosi come alternativo all’assolutizzazione del concetto; sul piano
ontologico designa un modo diverso di accostamento all’Essere, rispettato
nella sua differenza e nel suo sottrarsi al dominio dell’uomo, sostituendo alla
ontologia della metafisica una «me-ontologia» di ispirazione heideggeriana;
sul piano antropologico designa un rivalutazione del pratico, dell’inconscio,
del desiderio, del momento sociale, rispetto all’intellettualismo e all’indivi­
dualismo dell’antropologia tradizionale; e infine, sul piano teologico, per­
mette di articolare la presenza e l ’assenza del Crocifisso/Risorto all’interno
della struttura sacramentale della fede, e in particolare della prassi rituale
che sono i sacramenti.
Che tra i vari livelli sopra nominati possa/debba esistere un rapporto
sembra senz’altro plausibile, ma l’utilizzo indiscriminato della terminologia
simbolica probabilmente non aiuta a fare chiarezza sul «tipo» di rapporto
che esiste tra gli elementi che costituiscono la nuova struttura del sapere. Per
limitare l’attenzione al solo ambito teologico, l ’elemento che appare più pro­
blematico è l’identificazione tra il simbolico e il sacramentale. Dopo che il
simbolico è stato introdotto come categoria antropologica essenzialmente ri­
ferita al «corpo», che costituisce l’«arci-simbolo»,84 ossia il simbolo in cui si
articola e si costituisce tutto l ’universo di senso, non sembratosi immediata
l ’identificazione del simbolo cristiano con i «sacramenti». E ovvio, infatti,
che i «sacramenti» e il «corpo» non sono identificabili, e che l ’indubbia dif­
ferenza esistente tra la grazia sacramentale e le molteplici forme di relazione
articolate dalla corporeità non può essere aggirata dall’utilizzo allusivo di
un’unica qualificazione simbolica.
Per quanto riguarda il secondo problema, l’insufficiente tematizzazione
del rapporto tra simbolo e origine del senso, la critica segnala che l’inconsi­
stenza dipende dal rifiuto radicale dell’ontologia, che probabilmente richie­
derebbe una più attenta distinzione di livelli e una valutazione più sfumata
della tradizione.85 Per riferirsi a tale «origine», infatti, Chauvet ricorre abi­
tualmente al linguaggio dell’assenza, affermando ad esempio che il rapporto
simbolico che permette l ’identificazione, il riconoscimento e lo scambio so­
ciale è fondato sul comune riconoscimento di un Terzo Assente o che il sim­
bolo è il testimone del «posto vacante».86 Ma senza un approfondimento a
livello ontologico di quale sia la possibilità di designazione di questo riferi­
mento ultimo, il discorso non evita l’ambiguità e non giustifica a sufficienza
il ricorso privilegiato, anzi quasi assolutizzato, al registro negativo. Per resta­
re nell’ambito sacramentario, i presupposti me-ontologici di Chauvet lo in-

84 L.-M. Chauvet, o.c., 106.


85 G. LAFONT, Recensione a S ym bole et Sacrament, «Ecclesia Orans» 5 (1988) 230-235.
86 L.-M. C hauvet, o.c., 184.
6. Sacramento e sim bolo 191

ducono a intendere l ’Eucarestia come la «figura Par^ i ^ at^ j- je Jjj j ot.


za della mancanza del Signore»- e a rinteUigoi-

carestia nella dipendenza dal sacrificio storico e a > „ • • na j e- sa. :; !


terrogativi sulla possibilità di 1? aldiscorsosull’essere p rin- 1
cramenti in una prospettiva simbolica che si apre <u
cipalmente nella forma dell’assenza.88

6.6. Il simbolo, variabile vaga

Se si riconosce in Chauvet l’esponente più rappresentativo della sacra­


mentaria contemporanea, non si può forse evitare il giudizio che 1 introdu­
zione del simbolo nella ricerca sul sacramento, promossa dalla duplice moti­
vazione culturale e pastorale, abbia di fatto condotto la teologia più ad un
allineamento con la cultura che ad una soluzione dei problemi della prassi.
La recezione, non sempre critica, degli orientamenti culturali dominanti, ha
infatti favorito, se non determinato, la trasformazione della sacramentaria
dell’«antropologico» nella sacramentaria del «postmoderno»,89 che, a diffe­
renza della prima, partecipa della rinuncia generalizzata all’interrogazione
radicale sulla verità per ridursi all’interpretazione del dato esistente.90 Il ri­
sultato dell’operazione è indubbiamente un avvicinamento alla sensibilità

87 O.c., 278.
88 Per la discussione del quadro teorico in cui si iscrive la problematica in esame ci si può
riferire ad A. BERTULETTI, P en siero d e ll’alterità e teologia della rivelazione, «Teologia» 14
(1989) 199-216; 285-317. In particolare scrive l ’autore: «La verità teologica non è deducibile
dalla teoria ontologica, ma non perciò la teologia deve rinunciare alla legittimazione del carat­
tere veritativo della fede. La fine dell'ontoteologia non comporta la rinuncia all’interrogazio­
ne fondamentale sulla verità e all’ideale di apoditticità che essa persegue, ma una riformula­
zione della questione trascendentale. La concettualità ontologica non costituisce la misura
della verità, ma lo strumento di pensabilità della necessità e normatività intrinseca alla mani­
festazione della verità, la quale non può essere anticipata concettualmente» (316s.).
89 D. N. POWER - R. A. D urfY- K.W. Irwin , C urrent T heology. Sacramentai T heology: A
R ev iew ofL itera tu re, «Theological Studies» 55 (1994) 657-705,684-693.
90 «In conformità alla problematica sviluppata fino ad ora, la domanda che percorre il no­
stro discorso teologico non può essere: “Perché i sacramenti?”. Noi infatti rinunciamo, per
principio, a pretendere di risalire all’origine e a rendere ragione delle cose. Partiamo piutto­
sto dal fatto, ineludibile, che siamo, nella Chiesa, dei praticanti di riti chiamati “sacramenti” -
soprattutto battesimo ed eucaristia - e che siamo sempre-già accompagnati dalla sacramenta­
lità. La domanda che guida la nostra riflessione teologica è quindi: Cosa significa p e r la f e d e il
fa tto ch e essa sia intessu ta d i sacram enti? Cosa v u o l d ire dunque cred ere in G esù Cristo, s e que­
sto cred ere è stru ttu ralm en te sacram entale?» (L-M. CHAUVET, o.c., 113).
192 Parte seconda: I prob lem i

del pensiero contemporaneo, al suo rifiuto per le «metanarrazioni» e alla sua


rivendicata «debolezza», ma proprio tale estenuazione della pretesa veritati­
va solleva numerose perplessità circa la solidità dell’impianto teologico91 e,
in ogni caso, circa la consistenza delle indicazioni pastorali che ne possono
derivare.
D’altra parte non sembra necessariamente questa la strada che la ricerca
sul simbolo deve imboccare. Tanto più che l ’orientamento postmoderno
non pare sia stato «imposto» dall’utilizzo della prospettiva simbolica, che
nella versione del simbolo reale di Casel e di Rahner, come in quella succes­
siva del simbolo antropologico, si prospettava in altri termini e si proponeva
altri obiettivi. Lo sguardo d’insieme sull’evoluzione della sacramentaria sem­
bra, caso mai, orientare alla conclusione contraria, ovvero che il simbolo, an­
ziché aver «imposto» un orientamento, l’abbia «subito», nel senso di essere
stato utilizzato di volta in volta come una «variabile vaga», adatta ad espri­
mere istanze molteplici e disparate.92 Prova ne sia la sorprendente eteroge­
neità dei discorsi che attribuiscono il titolo di simbolo radicale od originario
rispettivamente al corpo, alla prassi materialistica, a Gesù Cristo, alla Trini­
tà. Un utilizzo così poco istruito della categoria non può che produrre di­
spersione nella ricerca e ambiguità nei risultati. Ed è ormai la denuncia di
molte voci.
La vaghezza della nozione e la dispersione del dibattito non permettono
di avanzare facilmente proposte di incremento, ma consentono forse di
escludere alcuni percorsi che si sono mostrati infruttuosi e di sollecitare al­
cuni approfondimenti che finora sono stati carenti.
Da evitare sembra, innanzi tutto, la pretesa di affidare «unicamente» al
simbolo la spiegazione del sacramento, o di dedurre «dal» simbolo la sacra-
mentalità cristiana. Comunque si debba precisare ulteriormente il discorso
simbolico, è infatti chiaro che il sacramento dipende da Gesù Cristo e che lo
scavalcamento, più o meno esplicito, dell’origine cristologica può solo por­

91 In riferimento alla teologia del postmoderno scrive un autore: «Anche la teologia ha da


essere attuale. Non può però accettare di esserlo nella condizione posta dal “pensiero debo­
le”, cioè rinunciando alla questione della verità; poiché la questione della verità è la ragione
stessa dell’esistenza della teologia, propriamente non come “scelta”, ma come “necessità”.
Poiché infatti la verità della teologia - cioè la verità che la teologia intende dire - è la verità di
Dio, - non però come risultato della ricerca dell’uomo, ma come “risposta” (“corrisponden­
za”) all’autorivelazione di Dio - consegue che il “compito teologico” non può essere scelto,
ma solo ricevuto, perché comandato da Dio stesso. Propriamente è iscritto nell’autorivelazio-
ne di Dio. Si comprende perciò che la questione della verità sia irrinunciabile per la teologia:
s’identifica infatti con la questione stessa dell’autorivelazione di Dio. Le due questioni - veri­
tà e autorivelazione di Dio - possono cadere solo insieme; ma con loro cade automaticamente
la teologia» (G. COLOMBO, T eologia e filosofia. Le vicen d e d i un rapporto d ifficile, a.c., 205).
92 Scrive giustamente un autore che «la nozione [di simbolo] rischia di morire della morte
di mille qualificazioni» (P. SEQUERI, Il Dio affidabile. Saggio d i teologia fon d a m en ta le, Queri-
niana, Brescia 1996,473 n. 48).
6. Sacramento e sim bolo 193

tare alla confusione del sacramento tra i tanti simboli della cultura, ma non
farne emergere l ’irriducibile singolarità. Per lo stesso motivo sembra impra­
ticabile in radice il tentativo di rendere comprensibile il sacramento al di
fuori della fede, proponendolo all’accettazione dell’uomo e della cultura sul­
la base dei dinamismi antropologici che esso suscita e promuove.
In positivo, sembra raccomandabile approfondire per un verso il rappor­
to tra l ’«evidenza simbolica»93 della Rivelazione e i gesti simbolici sacramen­
tali, e per l ’altro il rapporto tra la prassi simbolica cristiana e il costituirsi
della coscienza credente. E non mancano in questa direzione spunti e appro­
fondimenti di indubbia consistenza.94

93 G. COLOMBO (ed.), L’evidenza e la f e d e , Glossa, Milano 1988.


94 In particolare A. BERTULETTI, C onoscenza sim bolica. R ivelazione e Eucaristia, in
AA.Vv., Il m angiare d i D io co n noi, Edizioni del Seminario, Bergamo 1980, 81-102; P. SEQUE-
RI, I l D io affidabile, o.c.
7. SACRAMENTO E RITO

Una delle prime evidenze relative all’identità dei sacramenti è che essi
sono delle celebrazioni, ovvero dei riti. La cosa è tanto ovvia che la tradizio­
ne teologica non ha mai sentito il bisogno di esplicitare questo dato, pen­
sando le implicanze che la forma rituale ha per il contenuto teologico del sa­
cramento. Ha certamente contribuito al prolungarsi di questa dimenticanza
la tendenza della teologia di scuola a strutturarsi su un’impostazione specu­
lativa, che procedeva più per deduzione da assiomi metafisici che per la con­
siderazione dell’esperienza credente.1 Ma pare innegabile che all’origine di
questa disattenzione per il significato teologico della dimensione rituale vi
fosse anche la sua evidenza e aproblematicità,2 all’interno di un contesto re­
ligioso e culturale saldamente strutturato intorno all’ordine simbolico offer­
to dall’esperienza cristiana.
I complessi processi che hanno condotto il móndo moderno sulla via del­
la secolarizzazione, per un lato, e la riscoperta dell’irriducibilità della dimen­
sione liturgica al rubricismo, per l’altro, hanno solo recentemente riproposto
alla considerazione della teologia la «forma» liturgica del sacramento come
elemento essenziale per la chiarificazione del suo contenuto, ovvero del «m i­
stero» salvifico in esso presente. D’altra parte la riscoperta del rito come fat­
tore antropologico di primario interesse è uno degli elementi che caratteriz­
zano gli sviluppi più recenti dell’antropologia scientifica, disposta infine,

1 La vicenda della disattenzione alla dimensione rituale da parte della teologia viene rico­
struita in riferimento al sacramento dell’Eucarestia in I. BIFFI, T eologia d ell’eucaristia: le lacu­
n e d i una tradizione dottrin ale e le p rosp ettive d el p resen te (lin ee interpretative), in Aa.VV., Ce­
leb rare l ’eucaristia. Significato e p rob lem i della dim ensione rituale, Elle Di Ci, Leumann (Tori­
no) 1983,27-45.
2 «P er quasi due millenni (ossia fino alla esplosione dell’ultima fase della modernità, con
la Rivoluzione francese) la teologia ha potuto presupporre la liturgia (ossia il cu lto rituale in­
dividu ale e com unitario) come orizzonte di senso d el suo discorso, ma non tematizzato n el suo
discorso» [A. GRILLO, La riscoperta d el sim bolism o sacram entale. Il rito co m e «locus theologi-
c u s » p e r la solu z ion e della controversia ecum enica su «parola e sacram ento», in P. LYONS (ed.),
Parola e sacram ento. A tti d el Sim posio della Specializzazione D ogmatico-Sacramentaria presso la
Facoltà di T eologia d e l P ontificio A teneo S. A nseim o, S. Anseimo, Roma 1997,83-139,106].
196 Parte seconda: I p rob lem i

non senza ritardi e incertezze, a correggere la riduzione del rito a compor­


tamento parossistico o deviante.3
Si comprende così come a fianco del filone, che tende a ricondurre la
comprensione del «sacramento» nel solco di una teologia della «sacramen-
talità», si sviluppi anche un orientamento di pensiero che tende a privilegia­
re la nozione di «ritualità», presentandola come la categoria antropologica
più adatta per far emergere il senso e la verità del sacramento. Le due linee
dovrebbero risultare alternative, perché centrate rispettivamente su una di­
mensione trascendentale dell’esistenza (la sacramentalità) e su un’azione
specifica e culturalmente determinata (il rito). In realtà le cose non stanno
così, o almeno non sempre. A costruire un ponte tra la sacramentalità tra­
scendentale e il rito categoriale interviene, infatti, il «simbolo» che si presta
generosamente a ospitare sia la dimensione simbolica della vita (sacramenta­
lità) sia la dimensione simbolica della celebrazione (il rito), e a farsi garante
della continuità tra i due momenti, in una sintesi spesso tanto immediata
quanto vaga. Ci si può senz’altro attendere che, dopo secoli di disattenzione,
una teologia della ritualità cristiana si presenti oggi ancora acerba. Troppe
sono le questioni implicate e troppo pochi i punti di convergenza per assicu­
rare uno sviluppo compatto della ricerca. Quanto ora ci proponiamo di fare
è un confronto critico delle posizioni più significative su questo tema, con lo
scopo di evidenziare i problemi che devono essere affrontati per compren­
dere teologicamente la qualità «celebrativa» del sacramento. Discuteremo
pertanto brevemente l’accostamento alla tematica del sacramento/rito espres­
so dalla teologia della secolarizzazione, dalla teologia liturgica e da L.-M.
Chauvet.

7.1. La teologia secolarista e il rapporto rito-carità

Uno dei filoni teologici che hanno caratterizzato la riflessione postconci­


liare sulla problematica del rito è indubbiamente rappresentato dalla cosid­
detta teologia della secolarizzazione, che costituisce, nella varietà/confusione

3 Recensendo le principali interpretazioni antropologiche del fenomeno rituale, Terrin


individua le seguenti tesi: il rito come «risposta strumentale a bisogni concreti» (Malinowski),
come «espressione, esaltazione e riconferma della società nel suo elemento più ideale e sim­
bolico» (Durkheim, Radcliffe-Brown, Douglas, Wilson e altri), come «espressione di una vio­
lenza passata e di un equilibrio sociale ritrovato, ma instabile» (Girard) e in prospettiva sim­
bolica come «guida alla ricerca di senso e al superameno del sociale tramite il sociale»
(Geertz, Turner). Cfr. A.N. TERRIN, Esperienza d i Dio e ritualità. P rospettiva antropologico-
funzionalista e tesi fen om en ologica , in ID. (ed.), Liturgia soglia d e ll’esperienza d i Dio?, Mes­
saggero, Padova 1982, 97-135. Per una rassegna dei principali approcci teoretici al rito cfr.
anche E.M. ZUESSE, Rito, in E nciclopedia d elle religioni. II, Il rito. O ggetti, atti, cerim on ie,
Marzorati - Jaca Book, Milano 1994,482-501.
7. Sacramento e rito 197

delle sue forme e dei suoi momenti, il tentativo di assegnare alla secolarizza­
zione4 della cultura un significato positivo e un valore di opportunità per la
fede e la pratica cristiana.5 Il carattere favorevole della cultura secolare è in­
dividuato nel fatto che la nuova attenzione alla centralità dell’uomo e della
storia, sottratti alla soggezione della «natura» sacralizzata, corrisponde ad
uno dei tratti caratteristici del cristianesimo. La fede cristiana, infatti, non si
fonda su una manifestazione «sacrale» del divino nell’ambito della «natura»,
ma su una Rivelazione attuatasi nella e attraverso la «storia» umana di Gesù.
Prescindendo da una ricostruzione del quadro complessivo delle tesi teo­
logiche fatte valere da questa corrente, limitiamo la nostra attenzione alla
problematica del rito, che peraltro costituisce uno degli elementi centrali del
dibattito secolarista.6 La teologia della secolarizzazione, infatti, si è impegna­
ta a mostrare non soltanto il carattere specifico del culto biblico, derivante
dal suo fondamento storico, ma anche la sua carica «contestativa» nei con­
fronti della religiosità antropologica. A differenza dei riti delle religioni, che
convergono nell’istituire un ambito «sacro» (luoghi, tempi, persone, cose e
linguaggio) separato dal profano, il culto cristiano, nella fedeltà al modello
biblico, si caratterizza per la sua realizzazione «esistenziale», che non cono­
sce margini di distinzione tra preghiera cultuale e impegno secolare. Per i
cristiani, infatti, i luoghi e le forme del culto hanno assunto una nuova iden­
tità: «il tempio è la comunità cristiana, i sacerdoti sono tutti i credenti, i sa­
crifici sono le stesse persone dei cristiani con la loro vita condotta sotto
l’influsso santificante dello Spirito».7 Al punto che, se le forme rituali del
culto non potranno mai essere del tutto superate nella storia, esse possiedo­
no, però, un carattere soltanto provvisorio e un valore puramente funziona­

4 Per la presentazione critica delle varie accezioni del termine «secolarizzazione» cfr. A.
RIZZI, C ristianesim o e filo so fia della storia. La secolarizzazione co m e categoria interpretativa d el
m od ern o, «Filosofia e Teologia» 2/2 (1988) 40-65.
5 L’interpretazione positiva del fenomeno della secolarizzazione è presentata in questi
termini nel documento preparatorio della IV Assemblea del Consiglio mondiale delle Chiese,
tenutosi a Uppsala (Svezia) nel 1968, dal titolo II cu lto d i Dio in un tem po secolare-. «La seco­
larizzazione come processo di emancipazione umana di fronte all’idolatria di tutto quello che
è creato, permette all’uomo di rendersi responsabile della configurazione del suo proprio fu­
turo e del futuro del mondo. Rifugge dal considerare come assoluta qualsiasi autorità o strut­
tura dell’ordine creato e si preoccupa di conservare una visione del futuro aperta. [...] Le
Chiese, desiderando affermare la realtà di Dio nel culto, lo hanno fatto a spese della realtà
dell’uomo e del mondo. Con tale distorsione, hanno provocato la negazione della realtà di
Dio (tesi quarta). La secolarizzazione, intesa correttamente, può riscattarci da tali distorsioni e
portarci al vero culto che afferma la realtà di Dio, dell'uomo e del mondo. [...] {tesiquinta)»
(cit. in L. MALDONADO, Secolarizzazione della liturgia, Paoline, Roma 1972,66).
6 Alla radice di molte tesi secolariste sulla liturgia bisogna riconoscere l’influsso del pen­
siero del vescovo anglicano J.A.T. Robinson e del suo celebre testo H onest to God, SMC,
London 1963.
7 G. BARBAGLIO, Culto, in G. B arbaglio - S. D ianich (edd.), Nuovo Dizionario di T eo­
logia, Paoline, Alba 1977,280-293,290.
198 Parte seconda: 1 problem i

le: «nella misura in cui la carità prende piede nell’esistenza temporale del
credente risulta progressivamente meno necessaria l’espressione liturgica».8
È evidente che in questa prospettiva non è facile riconoscere il senso e il
ruolo della celebrazione sacramentale all’interno della globalità della «litur­
gia della vita», anche perché, più o meno esplicitamente, l’articolazione del
rapporto tra il momento celebrativo e la pratica esistenziale della carità av­
viene in termini «alternativi». Lo sviluppo della carità consente, infatti, il
tendenziale superamento del sacramento, che nella sua connotazione di mo­
mento «rituale» può giustificarsi soltanto per una motivazione «negativa»:
l’incapacità del credente di essere pienamente ciò che dovrebbe essere.9
All’interno del dibattito teologico sulla sacramentaria recensito nella pri­
ma parte del nostro lavoro, le posizioni che possono essere ricondotte più
esplicitamente al filone secolarista sono quelle di Schupp10 e di Castillo.11
Per quanto riguarda il primo autore, basti richiamare la sua proposta di sot­
trarre il sacramento all’ambito del rito, per introdurlo nella sfera della prassi
materiale ed emancipatrice, ossia, in concreto, la sfera del lavoro. Alla base
della tesi vi è la netta, e fondamentalmente grezza, contrapposizione tra la
«fissità» della liturgia, considerata funzionale all’autoconservazione dei di­
namismi sociali di oppressione, e I’«innovazione» della prassi emancipatrice,
risolta nella lotta per la liberazione sociale e nella speranza di un futuro mi­
gliore. Il modello di sacramento prospettato da Schupp, nel suo carattere
non più cultuale, è l’anticipazione simbolica di questo futuro possibile, per­
ché contiene un riferimento all’uso della materia diverso da quello imposto
dai modelli dominanti. Ricondotta all’essenziale, la tesi proclama che il sa­
cramento «trova» il suo senso nella misura in cui «abbandona» il rito, per
rendersi funzionale alla prassi emancipatrice.
In Castillo la considerazione del problema avviene sullo sfondo della teo­
logia liberazionista e conduce ad esiti forse meno radicali, ma comunque as­
sai dubbi. La tesi dell’autore è che il rito costituisce la «degenerazione» del
simbolo,12 perché ne irrigidisce la forza liberatrice, che invece trova la sua
piena espressione all’interno delP«esperienza di libertà» portata dallo Spiri­
to. Per questo il sacramento, che non può deporre completamente il caratte­
re della celebrazione, deve assumere l’aspetto della «festa», ossia staccarsi
dalla ripetizione di un agire stereotipato, regolato da rigide norme rituali
(celebrazione in stile «sacrale»), per mantenere quel minimo di ritualità ri­

8 A.c., 293.
9 Cfr. le osservazioni di G. COLOMBO, Problem atica della «celebrazione d e ll’eucaristia», in
AA.Vv., C elebrare l ’eucaristia, o.c., 7-26, in particolare 11-17.
10 F. SCHUPP, Glaube - K ultur - Symbol. Versuch ein er kritischen T heorie sakram entaler
Praxis, Patmos, Dusseldorf 1974.
11J.M . CASTILLO, Sim boli d i libertà. A nalisi teologica d e i sacram enti (tr. it.), Cittadella,
Assisi 1983.
12 O.c., 223.
7. Sacramento e rito 199

chiesto dalla condivisione comunitaria dei gesti (celebrazione in stile «seco­


lare», cioè in una forma «connaturale all’esperienza spontanea degli uomi­
ni»).13
La nozione di rito cui l’autore si riferisce è introdotta in questi termini:
«in primo luogo, si tratta di un’azione socialmente stereotipa e soggetta a
una regolazione fissa; in secondo luogo, esso produce il suo effetto per il
solo fatto di venir eseguito con esattezza».14 Di qui la contrapposizione di
simbolo e rito, perché mentre il primo nasce dalla vita ed esprime esterior­
mente un’esperienza esistenziale profonda, il secondo nasce dall’esecuzione
meccanica di una serie di azioni, cui si attribuisce un valore sostanzialmente
magico. Si tratta, come è facile rilevare, di una nozione di rito assai generica
e poco attendibile, che isola alcune (discutibili) caratteristiche dell’agire ri­
tuale senza peraltro offrirne un’interpretazione antropologica. In particolare
si presenta fragile la contrapposizione tra «rito», inteso come agire plasmato
da una «norma» e dunque fondamentalmente «inautentico», ed «esperien­
za», intesa come agire tendenzialmente immediato e «spontaneo», e dunque
«autentico». L ’autore non suppone minimamente che l’uomo possa giùnge­
re a fare «esperienza» del reale solo sottomettendosi al codice simbolico che
gli permette di interpretare la realtà come un cosmo, ovvero come un uni­
verso «regolato», e che proprio questa dimensione passiva della coscienza
consenta al soggetto di esprimere la propria libera decisione. Il rifiuto della
qualità rituale del sacramento è, quindi, basato su una riduzione della libertà
alla spontaneità che, oltre ad una notevole fragilità teoretica, non pare com­
patibile con il messaggio cristiano.15
Di là dalla formulazione pregiudicata fornita dalla teologia della secola­
rizzazione, il problema del rapporto tra il momento celebrativo e il momen­
to morale della vita cristiana costituisce, in ogni caso, un riferimento oggetti­
vamente imprescindibile per giungere alla comprensione teologica della «ce­
lebrazione». L’oggettiva consistenza del problema è segnalata sintomatica­
mente dal permanere della problematica anche dopo la fine della va gu e se-
colarista, come attesta, ad esempio, l’opera di Ghauvet. Benché il teologo
francese persegua l’obiettivo di mostrare la convenienza antropologica e la
necessità teologica del rito, quando affronta la questione del rapporto tra sa­
cramenti ed etica, egli conserva una concezione didascalica del rito («grande
pedagogia»16 della carità), che risulta ancora debitrice del riduzionismo se-
colarista. Si tratta di un sintomo indicativo del fatto che il superamento «cul­

13 O.c., 516-530.
14 O.c., 224.
15 «La morale cristiana rimane, fondamentalmente, morale del comandamento, e non in­
vece una morale che persegua l’obiettivo dell’autopromozione dell’uomo attraverso la colti­
vazione della sua spontaneità» (G. ANGELINI, Il sen so orientato al sapere. L’etica co m e que­
stio n e teologica , in G. COLOMBO (ed.), L 'evidenza e la fe d e , o.c., 387-443,419).
16 L.-M. CHAUVET, S im bolo e sacram ento, o.c., 183.
200 Parte seconda: Ip ro b lem i

turale» della teologia della secolarizzazione non costituisce ancora un supe­


ramento «critico» delle sue tesi.
La permanenza dell’impostazione secolarista nei confronti del rito, d’al­
tronde, sembra sostenuta dal radicamento culturale degli atteggiamenti an­
tropologici che hanno permesso l ’affermarsi di quelle tesi. Se bisogna crede­
re alle numerose e ripetute denunce circa l’atteggiamento tecnicistico del­
l ’uomo contemporaneo, che vede il mondo come materia e la materia come
materiale,17 non ci si può attendere che la D enkform dominante sia così ra­
pidamente evoluta da riguadagnare la rilevanza antropologica del rito.18 Sic­
ché, se la ricerca vuole far valere la portata teologica della celebrazione, deve
assumersi l’onere di istruire il credente sul «senso» dei riti cristiani, che dif­
ficilmente può risultare immediatamente e consensualmente perspicuo.
In coerenza con gli orientamenti della ricerca sul simbolo, tale «senso» è
stato finora cercato soprattutto nella direzione segnalata di volta in volta dal­
le scienze umane, come attesta con particolare evidenza l ’evoluzione della ri-
tologia diJ.-Y . Hameline, ricostruita retrospettivamente dall’autore stesso.19
Ma l’istruzione teologica della questione del rito non può attingere sempli­
cemente ai risultati delle scienze antropologiche ed alla nozione di rito da
esse elaborate, anche perché l ’impegno di queste discipline sembra orientato
più ad una rassegna fenomenologica della varietà del comportamento ritua­
le, che all’interpretazione del rapporto che il rito intrattiene con l’orizzonte
di senso in cui si muove la libertà dell’uomo e all’elaborazione teorica della
nozione di rito.20
In ogni caso, per non eludere la questione sottesa alla problematica se­
colarista, la teologia deve impegnarsi a dare risposta alle questioni pertinenti

17J. RATZINGER, D ie sakram entale B egriindung ch ristlicher Existenz, Kyrios-Verlag, Frei-


sing 1966.
18 Un contributo alla comprensione dell’evoluzione della problematica del rito nella cul­
tura e nella società contemporanea è offerto dagli articoli raccolti sotto il titolo Enjeux du rite
dans la m odernità, «Recherches de Science Religieuse» 78/3-4 (1990).
19J.-Y . HAMELINE, É lém ents d'anthropologie, d e so cio lo gie historique et d e m u sicologie du
cu lte ch rétien , «Recherches de Science Religieuse» 78 (1990) 397-424. Avviatosi alla riscoper­
ta del valore del rito grazie all’incontro, piuttosto congiunturale, con il pensiero di Durkheim,
Hameline è poi passato a recepire le istanze dello strutturalismo e a superare un’interpreta­
zione del «senso» del rito legata soprattutto ai suoi effetti psicologici e sociali, per preferire
un’interpretazione «epifanica» del rituale, come «messa-in-presenza» di un insieme di signifi­
canti di cui fanno parte gli attori stessi del rito. Lo sviluppo successivo è stato caratterizzato
soprattutto dalla recezione del tema della «liminalità» costitutiva del momento rituale (in ri­
ferimento alle tesi di Van Gennep, Turner e Winnicott) e della portata comportamentale del
rito, come «messa in scena» dell’identità del gruppo (Bateson, Goffman), La ricostruzione la­
scia trasparire un’evoluzione, in cui la singolarità del rito cristiano non sembra costituire il
motore della ricerca, né fornire gli elementi decisivi per il discernimento della figura di rito
utile a concorrere alla comprensione del sacramento.
20 L’elaborazione di questa nozione pertiene, infatti, all’ambito della ricerca della filosofìa
della religione.
7. Sacramento e rito 201

sollevate dal dibattito, sul duplice fronte della ricerca esegetica e dell’inter­
pretazione teologica. Sul primo fronte la questione si pone, in primo luogo,
per la critica profetica nei confronti del culto, come viene attestata da nume­
rosi passi veterotestamentari, e, ad un livello ancora più radicale, per la cen­
sura posta dal Nuovo Testamento all’utilizzo del linguaggio «sacrale» per ri­
ferirsi al culto cristiano.21 Poiché tale linguaggio viene reintegrato in epoca
patristica è necessario verificare se si sia trattato di un tradimento della pro­
spettiva biblica, come la letteratura secolaristica sostiene,22 o, come pare più
plausibile, se sia stato un legittimo assestamento terminologico, che può mo­
strare le proprie ragioni storiche e teologiche.23
A livello di riflessione sistematica occorre soprattutto recepire l’istanza
che denuncia la possibile degenerazione del rito nel ritualismo e produrre
un’adeguata caratterizzazione della singolarità del culto cristiano, per evitare
di dedurre da una nozione predefinita di rito la comprensione del sacramen­
to, che nella sua dipendenza cristologica non può che esibire caratteristiche
irriducibili alla ritualità delle religioni. Qui si manifesta, in particolare, la ne­
cessità di affrontare la questione circa il ruolo che la categoria di «sacro»,24
con tutto l’ambito teoretico implicato in questa nozione, può assumere per
designare il fenomeno cristiano. Impresa certo assai complessa, che richiede
una rilettura di molta della letteratura teologica del Novecento, posta sotto il
segno dalla contrapposizione tra fede e religione.
Più facile, forse, è mostrare la fragilità della posizione secolarista sotto il
profilo della specifica contrapposizione tra momento liturgico-sacramentale
e momento etico-politico dell’esperienza cristiana, che giunge fino alla ten­
denziale dissoluzione del primo nel secondo. Alla radice di questa contrap­
posizione sembra operare un’ingenuità antropologica, consistente nel man­
cato riconoscimento del debito che l’identità soggettiva mantiene nei con­
fronti della cultura e dei suoi riti. L’uomo non conosce se stesso, né apprez­
za ciò che concorre alla riuscita della sua vita, se non a partire dalle istruzio­
ni di senso che l’ambiente e la cultura gli forniscono attraverso le forme ri­
tuali di cui è intessuta l’esistenza.25 Meno ancora il soggetto, a prescindere

21 Sul tema cfr. B. MAGGIONI, II cu lto «spirituale» e il significato della celebrazione n elle
testim onianze d e l N uovo T estam ento, in Aa.Vv., C elebrare l ’eucaristia, o.c., 46-68.
22 Castillo, ad esempio, afferma che con l’epoca costantiniana ci fu una «regressione» alla
sacralità precristiana ed imputa in particolare a Cipriano la grave responsabilità di aver rein­
trodotto il linguaggio e la mentalità sacerdotale: «Cipriano ha operato la svolta decisiva: si è
allontanato dalla mentalità del nuovo testamento per collocarsi in perfetta continuità con
l’idea del sacerdozio esistente nella cultura pagana dell’impero. [...] La “sacralizzazione” del
ministero si impone da allora in maniera progressiva» (J.M. CASTILLO, o.c., 129).
23 Per un’elaborazione teoretica della questione cfr. P. SEQUERI, Il Dio affidabile, o.c.,
742ss.
24 Sulla problematica cfr. A. BERTULETTI, Il sacro e la fed e. La pertinenza teologica di una
ca tegoria religiosa, «La Scuola Cattolica» 123 (1995) 665-688.
25 Sulla permanente tendenza dell’uomo a ritualizzare le forme della vita sociale anche in
202 Parte seconda: I problem i

dalle codificazioni rituali dell 'ethos, può giungere ad apprezzare la qualità


morale dei suoi atti, e dunque a intendere il «senso» della propria vita nei
termini di quell’impegno per la fraternità, che la teorie secolariste ritengono
immediatamente evidente alla coscienza. Senza impegnarci ad uno svolgi­
mento teorico delle affermazioni, è però plausibile che proprio attraverso
l’esercizio dei comportamenti simbolici che guidano le prime forme di acco­
stamento alla realtà, la coscienza, nel suo emergere singolare, impari a tra­
scendere l ’ordine dei bisogni immediati come unico riferimento dell’agire,
per instaurare, attraverso le forme simboliche del saluto, del sorriso, del nu­
trimento, un rapporto non meramente funzionale con il mondo.
Non è forse un caso che le teorie che negano o sottovalutano la consi­
stenza del rito per l’istituirsi della coscienza morale, siano anche quelle che
riconducono la prassi al prassismo, perdendo la considerazione del carattere
che costituisce la singolarità dell’agire dell’uomo e della sua libertà, ovvero il
fatto che l ’uomo, mentre dispone del mondo, dispone radicalmente di sé,
dando figura alla propria libertà.

7.2. La teologia liturgica e il rapporto rito-mistero

Un secondo momento dell’incontro della teologia sacramentaria con la


questione del rito è rappresentato dalla teologia liturgica e, in genere, dalla
ricerca legata all’attuazione della riforma conciliare. Sarebbe complesso, e
dovrebbe costituire l’oggetto di una ricerca specifica, offrire la ricostruzione
globale del quadro dei riferimenti teorici sul tema della celebrazione, sotto­
stante al dettato conciliare e alle successive fasi di attuazione della Riforma.26
Per il nostro obiettivo, può essere sufficiente accostare le formule sintetiche
di un autore che indubbiamente rappresenta l ’orientamento teologico desi­
gnabile globalmente con la cifra di «teologia liturgica» e che si colloca al­
l’interno del movimento dottrinale che ha maggiormente segnato il rinnova­
mento della sensibilità liturgica del nostro secolo. Intendiamo riferirci a Sal­
vatore Marsili, e in particolare ad uno dei testi in cui più compiutamente ha
sintetizzato gli orientamenti di fondo della sua ricerca.27
Presentando i progressi più significativi della riflessione conciliare sul te­
ma liturgico, Marsili mette in evidenza, insieme al superamento di una con-

un contesto secolarizzato cfr. C. RIVIÈRE, R ites pro/anes, bribes d e sacré, «Recherches de


Science Religieuse» 78 (1990) 373-395.
26 In rapporto al tema specifico dell’eucaristia si può vedere: F. BROVELLI, In teresse p e r la
d im en sion e « celeb ra tiva » d e ll’eucaristia nella riform a liturgica e nella riflession e con segu en te,
in Aa.V v., C elebrare l ’eucarestia, o.c., 90-112. Conferente al tema anche S. UBBIALI, Liturgia e
sacram ento, «Rivista Liturgica» 75 (1988) 297-320.
27 S. MARSILI, La liturgia, m om en to storico della salvezza, in A a .Vv ., Anàmnesis. I. La li­
turgia, m om en to nella storia della salvezza, M arietti, Torino 1974,31-156.
7. Sacramento e rito 203

cezione statico-giuridica del rito, la riscoperta che la liturgia costituisce un


«momento della storia della salvezza». Se la categoria storico-salvifica può e
deve essere utilizzata per interpretare tutta l’economia divina, culminante
nel «mistero di Cristo», anche il momento celebrativo della vita ecclesiale
deve essere accostato in questa prospettiva. Nella liturgia, infatti, si ha l’au­
tentica traditio del mistero salvifico, in una forma che si adatta ai tempi e agli
ambienti, ma che costituisce la trasmissione viva ed operante dell’azione di
salvezza del Signore. Scrive Marsili: «ridiventando un “momento della storia
della salvezza”, la Liturgia riprendeva il posto di vera “tradizione” ossia tra­
smissione del mistero di Cristo attraverso un rito, che dello stesso mistero è
insieme attuazione e rivelazione, in maniera sempre nuova e sempre adegua­
ta al succedersi dei tempi e al variare dei luoghi».28
Una delle conseguenze principali di questa riscoperta della qualità storica
della liturgia è la distinzione tra la traditio cultuale del mistero e le singole
«tradizioni» rituali, che devono essere accostate come «interpretazioni» del
rito in un certo ambiente e in una determinata epoca, ma non possono esse­
re assolutizzate come «la» forma della liturgia. La liturgia, infatti, non ha
una «forma “avulsa” dalla realtà del momento», ma partecipa sempre del ca­
rattere storico che qualifica tutta l’economia della salvezza. Di qui la possibi­
lità di un «pluralismo» liturgico e la necessità di un «aggiornamento», che
tenga conto non solo della fedeltà alla tradizione, ma anche delle esigenze
del presente.
Come fa giustamente notare un autore, in queste affermazioni di Marsili
sembra implicato il riconoscimento che l’azione rituale costituisce «la mo­
dalità antropologica dell’attuazione/rivelazione del mistero»,29 e poiché pro­
prio a questo livello di prassi rituale deve essere collocata la mutabilità della
liturgia, sembra impossibile procedere ad un «aggiornamento» consapevole
delle modalità celebrative senza approntare un chiarimento teorico della no­
zione di «rito». Il rapporto tra la mutevolezza dei riti e la permanenza in essi
del «mistero», infatti, non può essere soltanto affermata o nominata, ma de­
ve essere mostrata nelle sue ragioni e nel suo senso, per evitare che tra la
«forma» dei sacramenti e il loro «contenuto» rimanga quel rapporto pura­
mente estrinseco che la teologia liturgica ha opportunamente criticato nel­
l’impostazione della teologia manualistica, e in genere della teologia di
scuola.
Marsili, però, non sembra percepire la necessità di dare effettivo svolgi­
mento alla prospettiva che pure egli ha aperto, e per questo riconduce il
problema del rapporto rito-mistero immediatamente alla questione della
«presenza» di Cristo come agente principale della liturgia. Secondo l’ispira­

28 O.c., 88.
29 G. ANGELINI, L 'approccio teologico-pratico all’eucaristia: im postazione teoretica e proble­
m i em ergen ti, in A a .V v ., C elebrare l'eucaristia, o.c., 113-137,127.
204 Parte seconda: I problem i

zione già di Casel,30 infatti, Cristo agisce ora «nel rito e con il rito, come una
volta aveva agito nella e con l’umanità sua propria».31 Ma in questa imme­
diata attribuzione a Cristo del ruolo di agente principale della celebrazione,
la questione del «rito» viene, di fatto, scavalcata e ricondotta alla sua spiega­
zione «mistica», prescindendo dalla considerazione effettiva della realtà ri­
tuale. Il nodo problematico consiste nel fatto che il credente sa che Cristo è
agente principale del rito, non «a monte» della celebrazione, ma grazie ad
essa. E «nell’atto» singolare della celebrazione cristiana che la comunità fa
memoria e acquisisce consapevolezza viva di essere originata dall’azione di
Cristo, in un modo che non può essere superato né sostituito, e che in quan­
to tale è stato lasciato da Gesù come suo testam entum .
Anche la ricerca sul rapporto tra la celebrazione della cena del Signore
da parte della comunità primitiva e la custodia della memoria di Lui nella
forma della Scrittura32 attesta il ruolo originario e costitutivo della prassi ri­
tuale per la professione di fede nella signoria escatologica del Risorto e nella
sua presenza cultuale.33
La tesi della presenza di Cristo come attore principale della celebrazione,
che pare uno degli elementi fondamentali della riscoperta teologica della li­
turgia, non deve pertanto essere affermata a scapito dei dinamismi rituali,
ma mostrando il modo singolare in cui il sacramento cristiano realizza la no­
zione di «rito». Questo in maniera analoga al procedimento con cui la cri­
stologia mostra la divinità di Gesù non a prescindere dalla sua umanità e
dalla sua storia, ma mostrandone l ’irriducibile «singolarità». Non è dunque
un caso che la riduzione del rito a funzione puramente accessoria e strumen­
tale dell’azione di Cristo, sostenuta, al di là delle intenzioni, da Marsili, cor­
risponda ad una cristologia che sembra ancora interpretare l’umanità di Ge­
sù come «strumento aggiunto» attraverso cui opera la sua divinità. E appun­
to la tesi, vaga nel contenuto e dubbia nella formulazione, per cui Cristo
opera ora attraverso il rito, come prima agiva attraverso la sua umanità.34
Come il rinnovamento della cristologia ha messo in crisi la teologia dell7«-
strum entum coniunctum , così il rinnovamento liturgico, per conseguire ve­
ramente il risultato iscritto nel suo programma, deve superare la contrappo­

30 Per la presentazione della stessa problematica in Casel cfr. G. ANGELINI, I l m ovim en to


liturgico: rilettura critica d i istanze, orientam enti e problem i, in A a .V v ., R iform a liturgica: tra
passato e futuro. Atti della XIII Settimana d i studio d ell’A ssociazione P rofessori d i Liturgia,
Marietti, Casale Monferrato 1985,11-29, in particolare 18-21.
31 S. MARSILI, La liturgia, m om en to storico della salvezza, o.c., 88.
32 L.-M. CHAUVET, S im bolo e sacram ento, o.c., 134-158. Più ampiamente, per il rapporto
tra Bibbia e liturgia cfr. P. BEGUERIE, La B ible n é e d e la liturgie, «La Maison-Dieu» 126
(1976) 108-116.
33 Cfr. P. SEQUERI, Il Dio affidabile, o.c., 752.
34 Con varietà di impostazione la tesi è anche in Schillebeeckx, che si riferisce direttamen­
te all’agire cultuale del Risorto. Cfr. Cristo, sacram ento d ell’in con tro con Dio (tr. it.), Paoline,
Cinisello Balsamo 91987, 66-73.
7. Sacramento e rito 205

sizione tra prassi antropologica e azione misterica che nelle tesi di Marsili ri­
sulta ancora operante.35
Senza allargare la discussione alla posizione di altri rappresentanti di que­
sto orientamento, che non porterebbe nessun incremento sostanziale, si può
recepire da questo confronto la problematica del rapporto tra «rito» e «mi­
stero», che costituisce certamente un tema cospicuo e inevitabile per una
teologia del sacramento. La soluzione offerta da Marsili, e da molta lettera­
tura liturgica di simile ispirazione, consiste nell’interpretare il rito semplice-
mente come «segno» del mistero, ovvero nella riduzione del rito al suo valo­
re «semantico».36
Alla radice di questo riduzionismo opera inconsapevolmente il pregiudi­
zio che il rito sia decodificabile e trascrivibile in un linguaggio discorsivo,
che ne permette più agevolmente la comprensione. Il rito, insomma, deve
essere prima «spiegato», perché possa essere poi convenientemente celebra­
to. L’attitudine della parola esplicativa a «significare» ciò a cui essa rimanda,
cioè a valere come linguaggio della fede, viene in questo modo presupposto
rispetto all’esperienza pratica della celebrazione. E questo per il persistente
pregiudizio metafisico che la parola veicoli un significato interiore accessi­
bile all’intelletto per la sola partecipazione ad un comune codice linguistico.
Sembra un paradosso che questa riduzione del rito a «significazione» sia
assai diffusa nella letteratura di tipo liturgico-pastorale, che per sua natura
dovrebbe essere invece particolarmente sensibile all’irriducibilità del pratico
al teorico. Non mancano certo nella ricerca liturgica i tentativi di elaborare

35 Emblematicamente quando Marsili giunge a trattare del rapporto tra «rito» e «Litur­
gia», si preoccupa solo di mostrare la differenza tra i due ambiti, senza istituirne anche la cor­
relazione che sembrava postulata dalle affermazioni precedenti: «La Liturgia cristiana non è
un com p lesso d i riti, che interpretando l’atteggiam ento interiore umano, vuole offrire a Dio
delle “adorazioni”, ma è un regim e d i segni, che inserendo n el m istero d i Cristo i singoli uomi­
ni, ne fa altrettanti “adoratori”. [...] La Liturgia non è infatti l’azione con la quale gli uom ini
si ricongiungono a Dio, ma è prima di tutto l’azione con la quale Dio in Cristo viene a contat­
to con gli uomini» (o.c., 105). A conferma di questa dissociazione, nel testo di Marsili dedica­
to alla sacramentaria generale (I seg n i d e l m istero d i Cristo. T eologia liturgica d ei sacramenti,
Edizioni Liturgiche, Roma 1987) la questione del rapporto rito-sacramento non è neppure
presa in considerazione.
36 In questa prospettiva la ritualità è considerata sostanzialmente come un codice, come
un modo di esprimere e tradurre in gesti il linguaggio della fede, che però si suppone già noto
e istituito indipendentemente dalla celebrazione. La denuncia non è recente, e corrisponde
all’esperienza piuttosto comune di una celebrazione in cui la ritualità diventa occasione per
didascalie intellettualisticamente orientate alla «spiegazione». Già Bouyer si lamentava della
riduzione del rito a «illustrazione» di una «lezione» offerta nell’omelia: «In un lato, un inva­
dente commentatore attira su di sé l’attenzione generale. La sua parola esplicativa, che nulla
vuole lasciare nell’ombra e non ammette alcun silenzio, alcun mistero, alcun ineffabile, assor­
be, diluisce, dissolve tutto in essa, nella sua pedagogia elementare, nelle sue spiegazioni che
trasformano la predicazione in una semplice lezione di cose, e i riti in una semplice illustra­
zione di quella lezione» [L. BOUYER, Il rito e l’uom o. Sacralità naturale e liturgia (tr. it.), Mor­
celliana, Brescia 1964,79-80].
206 Parte seconda: Ip rob lem i

una teologia del rito che ne mostri l’originale consistenza di fondamento del­
la prassi cristiana/7 ma in numerosi testi che si muovono in direzione di una
teologia liturgica il rito rimane «occasione» per esprimere un significato, ri­
mane cioè un «santo segno». La tendenza diventa poi dirompente nella con­
siderazione dei singoli riti sacramentali, dove la teologia del sacramento pro­
cede dalla «descrizione» del rito. Così, ad esempio, la teologia liturgica del
battesimo diventa di volta in volta il «commento» al rito, o l’enfasi posta sui
significati «biblici» dell’acqua, o l’amplificazione retorica dei testi liturgici,
ma evade la questione fondamentale del rapporto intrinseco tra il costituirsi
della coscienza credente e la celebrazione battesimale. Rapporto che non
può essere in alcun modo risolto nei «significati» che il rito espone al sogget­
to e che la grazia rende «incomprensibilmente» presenti e operanti.

7.3. Chauvet e il rapporto rito-fede

L’autore che più d’ogni altro si avvicina ad una teologia del rito in vista
della ricomprensione del sacramento è forse Chauvet. Nel suo saggio fonda-
mentale, infatti, egli dedica alla tematica rituale un intero capitolo, solita­
mente piuttosto apprezzato dalla critica, con l’intento di far emergere la spe­
cificità e l ’originalità dei sette sacramenti all’interno della vita cristiana tutta
sacramentale. Chauvet ritiene che per conseguire questo risultato non si
possa percorrere la strada tradizionalmente seguita dalla teologia, ovvero la
deduzione dell’originalità dei sacramenti dal criterio dell’«efficacia». Su que­
sto punto, egli si trova in linea con la posizione di Rahner nel giudicare in­
sufficiente il concetto di opus operatum per la caratterizzazione dei sacra­
menti, poiché tale concetto trova la sua prima e fondamentale applicazione
non in relazione alle singole celebrazioni sacramentali, considerate in manie­
ra autonoma e puntuale, ma in rapporto all’identità della Chiesa, presenza
visibile della grazia escatologica nella storia.
Con altrettanta sicurezza si può escludere che l’originalità dei sacramenti
si possa ritrovare sulla via dtìY opus operantis, ovvero dell’impegno personale
del soggetto recettore della grazia sacramentale. Per questo, non rimane che
accogliere l’indicazione rahneriana, che invita a rintracciare la specificità dei
sette sacramenti sul versante dell’«impegno ecclesiale»: il settenario sacra­
mentale si distingue all’interno delle molteplici manifestazioni della Chiesa,

37 A. GRILLO, T eologia fon d a m en ta le e liturgia. Il rapporto tra imm ediatezza e m ediazione


nella riflession e teologica , Messaggero, Padova 1995; ID., La riscoperta d e l sim bolism o sacra­
m entale. Il rito co m e «locu s th eologicu s» p e r la soluzione della controversia ecum enica su «pa­
rola e sacram ento», in P. L yo n s (ed.), Parola e sacram ento. A tti d e l Sim posio della Specializza­
zione D ogmatico-Sacramentaria p resso la Facoltà d i T eologia d e l P ontificio A teneo S. A nseim o,
S. Anseimo, Roma 1997, 83-139; G.' BONACCORSO, C elebrare la salvezza. L ineam enti d i litur­
gia, Messaggero, Padova 1996.
7. Sacramento e rito 207

perché in esso la comunità credente si impegna in maniera «radicale». Chau­


vet condivide pienamente l ’indicazione, ma ritiene necessario «verificarla»
su un piano più «concreto», che è proprio quello della «mediazione rituale»,
attraverso cui i sacramenti trovano effettiva realizzazione. In questo modo la
tesi di Rahner assume una forma più determinata: nei sacramenti la Chiesa
s’impegna in maniera «radicale», perché s’impegna «attraverso dei riti».
Su queste premesse, l’interesse per il rito si colloca al centro della pro­
blematica sacramentaria, superando alla radice il rischio di introdurre nel sa­
cramento una distinzione tra il «contenuto» di grazia e la «forma», sostan­
zialmente estrinseca, della sua comunicazione. Il rito, infatti, inteso non
astrattamente come insieme di regole e di prescrizioni, ma come azione in
cui il soggetto è coinvolto, diviene l’esperienza antropologica che permette
di nominare l’incontro con Dio come grazia.
L ’accostamento alla tematica rituale conosce, però, nel saggio di Chauvet
uno svolgimento in due momenti che segnala, già a livello strutturale, la dif­
ficoltà e i limiti dell’impostazione. La ritualità, infatti, è considerata dappri­
ma nei dinamismi che essa mette in opera a livello antropologico e, in un se­
condo momento, attraverso una rilettura teologica delle sue caratteristiche.
In questo modo, il rito, che certo ha bisogno anche di essere analizzato nelle
sue componenti e caratterizzato nelle sue leggi, subisce una sorta di «scom­
posizione», in cui i singoli aspetti che lo costituiscono tendono a perdere la
natura loro propria, derivante appunto dalla qualità pratica dell’azione ri­
tuale, per prestarsi ad un’interpretazione «soltanto» simbolica. Il rito, in al­
tre parole, non è considerato come una celebrazione credente, come un «at­
to di fede», ma soltanto come un «modo» di agire, le cui componenti prin­
cipali sono successivamente interpretate alla luce della fede.
Cerchiamo di rendere più chiara la nostra osservazione attraverso qual­
che esemplificazione. Chauvet qualifica il rito riconoscendolo costituito, sen­
za pretesa di esaustività, da almeno quattro componenti, che sono la rottura
simbolica, la programmazione e la reiterazione, la sobrietà simbolica, e il ca­
rattere indiziale.38 Parlando della rottura simbolica egli prende in considera­
zione il carattere di frontiera dei riti, cioè la loro eterotipia a livello di luogo,
tempo, oggetti, agenti e linguaggio. Dopo una descrizione di questa ca­
ratteristica e una valutazione delle condizioni in cui essa può operare, evi­
tando i due estremi dello ieratismo e della banalizzazione, l’eterotipia viene
riletta teologicamente come «simbolo» delPalterità di Dio, sullo sfondo della
questione tradizionale del rapporto tra sacro e profano. «La ritualità, attra­
verso il suo uso non utilitario degli oggetti, luoghi e linguaggio che le sono
propri, effettua uno sganciam ento decisivo rispetto al mondo ordinario. [...]
Che Dio sia il Differente, che la sua differenza, pensata sul registro simboli­

38 Per una caratterizzazione delle quattro componenti rimandiamo alla prima parte del
nostro lavoro.
208 Parte seconda: I prob lem i

co dell’Altro, sia Grazia-, ecco quello che si dice “performativamente” e pri­


ma d i qualsiasi discorso nella rottura rituale».39
La considerazione del rapporto che sussiste tra eterotipia del rito e alteri­
tà di Dio rimane, però, su un livello che risulta necessariamente estrinseco,
perché l’autore non pensa il nesso tra le condizioni fattuali di eterotipia e il
dinamismo della libertà antropologica all’interno dell’azione rituale motivata
dalla fede. Chauvet, infatti, nonostante tutte le affermazioni sul fatto che il
rito è un’azione, e che pertanto dev’essere collocato non sulla linea della
«-logia» ma dell’«-urgia», quando poi deve pensare effettivamente la «pras­
si» rituale ne trascura la dimensione fondamentale, ovvero l ’impegno della
«libertà» nella forma della «fede», per considerarla solo alla luce del riman­
do «simbolico» di una condizione esterna al volere (le circostanze liminali in
cui il rito si svolge) alla realtà trascendente di Dio. In questo modo, però, il
rito non può manifestare la sua originalità, che consiste nell’offrire la possi­
bilità originaria di accesso alla trascendenza,40 perché tale originalità non si
dà a vedere se il rito viene considerato soltanto nel dispiegarsi delle sue ca­
ratteristiche «formali».
Certamente Chauvet recepisce la necessità di mostrare sul versante della
libertà il significato dell’agire rituale e per questo parla di uno «sganciamen­
to» del soggetto nei confronti del mondo ordinario: «la rottura rituale eser­
cita una funzione simbolica altamente costruttiva per la fede. Essa crea infat­
ti un vu oto rispetto a ll’im m ediato e all’utilitario».41 Ma ciò che rimane non
investigato è proprio il rapporto che questa presa di distanza dalla logica
dell’utilità intrattiene con il costituirsi della fede. In altre parole non basta
un agire rituale perché la fede si strutturi: occorre una disposizione del vole­
re, rispetto a cui il rito pone le condizioni, ma che la sola esecuzione mate­
riale del rito non costituisce. Non basta che il rito cristiano crei un vuoto ri­
spetto all’immediato e all’utilitario, perché Dio sia percepito nella sua gra­
ziosa alterità.42

39 L.-M. CHAUVET, Sim bolo e sacram ento, o.c., 232s.


40 «La celebrazione rituale del mistero sacro stabilisce, rammemora, rinsalda le condizioni
cognitive e pratiche di una promettente relazione con Dio (incluso l ’ascolto della parola che
genera sapienza e l’esperienza di prossimità che genera legami). La religio sarà certamente an­
che molto di più di questo. Ma sicuramente non è mai meno di questo. [...] L’istituzione del­
la fede, nella sua struttura originaria e nella sua determinazione storica, avviene sempre per
rapporto alla dimensione rituale della evocazione del mistero sacro» (P. SEQUERI, Il D io affi­
dabile, o.c., 140-141).
41 L.-M. CHAUVET, Sim bolo e sacram ento, o.c., 231.
42 Lo stesso limite si ritrova anche nel discorso relativo alla programmazione e alla reite­
razione rituale. Chauvet offre, innanzi tutto, i risultati della ricerca religionistica che mettono
in evidenza come la fissità del rito rimandi alla sua origine mitica, che si sottrae alla logora-
zione degli avvenimenti quotidiani e che costituisce, pertanto, «il serbatoio primario della
memoria collettiva del gruppo» (o.c., 233). Per lo stesso motivo la ripetizione regolare si ca­
ratterizza per la sua efficacia in ordine alla strutturazione dell’identità comunitaria, attraverso
7. Sacramento e rito 209

La teologia, invece, dovrebbe mostrare il singolare rapporto che il sacra­


mento, in quanto rito cristiano, intrattiene con la verità escatologica compiu­
tasi nell’evento di Gesù e con la fede che motiva la celebrazione. Solo la sin­
golarità della fede cristiana, infatti, può decidere della verità del rito,43 mo­
strando come in esso non si realizzi soltanto un dinamismo sociologico di
comunicazione dei valori di un gruppo, né l’appello ad un’origine mitica,
designabile solo in maniera negativa rispetto alla qualità del quotidiano (l’al­
terità), ma si compia l ’iscrizione della temporalità del soggetto nella verità
escatologica anticipata dall’evento salvifico. Poiché tale comprensione del ri­
to può essere solo «interna» alla fede, la teologia non può limitarsi ad una
rilettura delle caratteristiche rituali individuate dalla ricerca religionistica e
filosofica, ma deve mostrare in che modo la libertà nella prassi rituale cri­
stiana si possa disporre, senza scarti e residui, nella forma della fede, ovvero
del consenso alla libera iniziativa del Signore. Mentre il primo procedimento
conduce ad una mera allegorizzazione dei significati (l’eterotipia come «sim­
bolo» delPalterità, la reiterazione come «simbolo» della dipendenza), il se­
condo permette di pensare la fede come atto pratico del rapporto dell’uomo
con la verità.
Da questo limite fondamentale dell’impostazione ritologica di Chauvet
derivano le altre aporie che il suo pensiero manifesta a vari livelli. Il primo
livello è quello dell’«impegno radicale» della Chiesa nei sacramenti grazie al­
la loro forma rituale. A questo riguardo, infatti, la qualità «radicale» dell’im­
pegno della Chiesa è affidata sostanzialmente non alla «singolarità della fe­
de» con cui essa celebra i sacramenti, ma alla «peculiarità antropologica»

un lento processo in cui sono inculcati i valori e gli atteggiamenti del gruppo. La rilettura teo­
logica di queste caratteristiche, però, non riesce a mettere sufficientemente in evidenza la loro
singolare realizzazione all’interno del sacramento cristiano. Chauvet si limita, infatti, a riem­
pire del contenuto della fede il dinamismo dell’azione rituale, senza chiarire la modalità as­
solutamente originale in cui il rito si realizza come atto della fede. Egli afferma indubbiamen­
te che celebrando i sacramenti « confessiam o in atto ciò che diciamo nel credo usando la mo­
dalità del discorso» (o.c., 234), ma quando si tratta di chiarire il motivo per cui la fede ha bi­
sogno di questa modalità pratica del suo esercizio, non si trovano altre motivazioni se non
quelle che guidano il credente di ogni religione a celebrare i propri riti: la consapevolezza di
una dipendenza dall’evento fondatore.
43 «La soluzione offerta dal rito alla tentazione cui è esposta la libertà finita, dell’afferma­
zione tragica della propria volontà di onnipotenza o della rinuncia rassegnata a volere, è sem­
pre solo interlocutoria. Solo l’atto assolutamente singolare della fede, che afferma la propria
trascendenza rispetto a qualsiasi modello disponibile per articolarla all’esperienza, decide del­
la verità del rito: se cioè esso non si limita a richiamare la legge che nasconde e pone un argi­
ne alla violenza, ma riattualizza la promessa che è al di qua della legge e alimenta l’attesa del
compimento che può venire solo dall’origine» [A. BERTULETTI, II sacro e la fed e. La p ertin en ­
za teo lo gica d i una ca tegoria religiosa, «La Scuola Cattolica» 123 (1995) 665-688,687].
«Il rito indirizza il simbolico originario e circolare del sacro ad un senso che è quello ine­
rente alla decisione della fede: suscitata dalla parola, ma determinata dalla scelta» (P. SEQUE-
RI, Il Dio affidabile, o.c., 508).
210 Parte seconda: I p rob lem i

dell’espressione rituale. Chauvet, infatti, asserisce che la differenza dei sa­


cramenti consiste «nella modalità antropologica secondo cui la Chiesa si atte­
sta in essi nella sua identità di Chiesa-di-Cristo. [...] Questa modalità è an­
trop ologica m en te insuperabile. Insuperabile nel senso che, come “espressioni
rituali”, essi sono degli atti che si presentano come performativi al più alto
livello, e non delle semplici idee; delle pratiche che vogliono essere efficaci e
non dei discorsi didattici; degli avviluppi simbolici e non degli sviluppi di­
scorsivi».44 E dunque il carattere performativo del rito che distingue il mo­
mento del sacramento dalle altre forme di prassi ecclesiale, come la predica­
zione e la catechesi. La differenza è «antropologica»: il rito ha una particola­
re incisività, perché esso è di natura «comportamentale», nel senso che «fun­
ziona al livello d ei sign ificanti e delle “figure” che essi formano, e non prim a
d i tutto al livello d ei significati e dei “contenuti” ideali».45 Queste afferma­
zioni sono certo seguite dalla precisazione «fondamentale» che l ’insieme
pragmatico dei sacramenti è ricevuto dalla Chiesa come proveniente da Ge­
sù Cristo e come atto del Signore, ma l’asserzione, in se stessa ineccepibile,
rimane estranea alla comprensione del carattere illocutorio e performativo
del rito, perché questo non è pensato in relazione alla fede, ma genericamen­
te in rapporto all’esperienza antropologica.
La scollatura tra dinamismo antropologico e contenuto dogmatico si ri­
pete dove Chauvet prende esplicitamente in esame l ’efficacia sacramentale,
nello sforzo di sottrarla ad una considerazione oggettivistica e soggettivisti­
ca. Ciò che caratterizza i sacramenti rispetto ai riti delle religioni tradizionali
è il fatto che essi non mirano ad un’efficacia empiricamente verificabile, ma
hanno una finalità di un altro ordine, non valutabile, indicata con il termine
«grazia». Proprio tale grazia può essere finalmente pensata se, abbandonan­
do la prospettiva metafisica, si accede ad una visione simbolica che permette
di interpretare l ’efficacia dei sacramenti sul modello dell’«instaurazione illo-
cutoria di un nuovo rapporto tra gli uomini».46 Quando però si tratta di
esprimere il contenuto della grazia sacramentale, il discorso si trova impac­
ciato dalla necessità di affermare la consistenza antropologica della grazia,
resa constatabile dal rito, e l’irriducibilità della sua qualità teologica ai di­
namismi psichici cui il rito dà origine. Così la grazia va pensata come un «la­
voro simbolico» che trasforma l ’identità dei soggetti, come un ricever-si che
si attua attraverso la perlaborazione dolorosa del desiderio imposta dal ca­
rattere illocutorio del linguaggio rituale, ma allo stesso tempo come una real­
tà extralinguistica che trascende ogni dinamica psicologica e ogni sviluppo
cognitivo.
Un secondo indice della difficoltà di cogliere il rapporto tra il sacramen­

44 L.-M. CHAUVET, Sim bolo e sacram ento, o.c., 256s.


45 O.c., 224.
46 O.c., 291.
7. Sacramento e rito 211

to/rito cristiano e la fede si manifesta nelle pagine che Chauvet dedica alla
tematica del corpo. Il tema del corpo non sopraggiunge a quello del rito co­
me dalPesterno, ma ne è la continuazione o, se si vuole, il presupposto, per­
ché «da qualunque verso si prendano, i riti ci rimandano al corpo».47 La cor­
poreità, evidentemente, non deve essere intesa soltanto nel senso più empi­
rico di una corporeità fisica, ma nel senso più ampio che pone il corpo di
ogni soggetto in rapporto con il corpo sociale, con il corpo tradizionale (la
memoria del gruppo di appartenenza) e con il corpo cosmico. La tesi di
Chauvet è che la ritualità religiosa simbolizza l’uomo totale proprio come
corporeità.
Per esprimere il suo pensiero l’autore analizza successivamente il rappor­
to tra rito e cosmo, tra rito e tradizione/società, e infine tra rito e ordine oc­
culto del desiderio. L’analisi, però, ruota sostanzialmente intorno ad una
concezione ancora metaforica del rito, per cui in esso si usano elementi che
«simbolizzano» soltanto l’ordine del senso, ma non lo istituiscono. Chauvet
è preoccupato di mostrare che l’utilizzo simbolico di pane e vino o l’assun­
zione simbolica di determinate posizioni e posture «simbolizza» una certa
teologia della creazione, ma non si impegna a mostrare in che modo il rito
«permetta» all’uomo di disporsi verso il mondo come un cosmo creato da
Dio. Allo stesso modo, in riferimento all’ordine occulto del desiderio, egli
tratta del rito cristiano come una forma di gestione della colpa, ma non si
impegna ad elaborare teologicamente (in relazione alla fede nella riconcilia­
zione con Dio) il linguaggio e le categorie psicanalitiche utilizzate con disin­
voltura: «Il simbolismo sacramentale funziona necessariamente attraverso le
nostre pulsioni più arcaiche e meno riconoscibili, contraffatte e distorte co­
me sono per poter superare la barriera della censura e manifestarsi alla co­
scienza».48
La singolarità del sacramento cristiano consiste, invece, nel suo carattere
di risposta a un’iniziativa divina, che è all’origine del rito e che il rito in nes­
sun modo produce, ma soltanto media. Per questo la simbolizzazione del­
l’uomo come essere di desiderio ha nel sacramento una realizzazione del tut­
to particolare e irriducibile alla forma pedagogica di cui parla Chauvet: la li­
turgia come «pedagogia di conversione dal desiderio» che fa passare a poco

47 O.c., 244.
48 O.c., 252. Qualunque sia il contenuto di verità di queste affermazioni esse risultano so­
stanzialmente astratte, perché non considerano effettivamente quale sia il rapporto tra il cor­
po (in questo caso la dimensione pulsionale della coscienza) e la libertà, e lontane da un’ela­
borazione teologica della questione, perché ignorano il legame tra Incordine del desiderio» e il
«giusto senso» offerto dalla verità cristologica all’accoglienza della fede proprio «nel» sacra­
mento. Il sacramento cristiano non si limita a mettere in scena e a educare l’ordine occulto
del desiderio. Una simile affermazione si sostiene soltanto qualora si consideri il rito ancora
astrattamente, cioè a prescindere dal coinvolgimento della libertà e dalle motivazioni che la
determinano.
212 Parte seconda: I p rob lem i

a poco «dal semplice reclamo di oggetti di bisogno [...] alla domanda di Dio
come tale».49
Questa riduzione del momento rituale a momento pedagogico, che pure
altrove è corretta da affermazioni che sembrano andare in altra direzione,
costituisce il terzo e ultimo elemento che intendiamo segnalare come indice
di una non riuscita articolazione della singolarità della fede cristiana con la
dimensione antropologica del rito. L’espressione più vistosa di questo ridu­
zionismo didascalico del rito si ha quando Chauvet asserisce che «la liturgia
è la grande ped agogia in cu i impariam o ad a ccon sen tire a questa presenza della
mancanza d i Dio ch e ci ch ied e d i dargli corpo in qu esto m on d o, compiendo
così il sacramento in “liturgia del prossimo”, e la memoria rituale di Gesù
Cristo in memoria esistenziale».30 Al di sotto di queste affermazioni si pone
la questione, già incontrata nelle pagine precedenti, del rapporto tra il mo­
mento rituale dell’esperienza religiosa e il momento morale, questione noto­
riamente complessa e oggetto di non facile assestamento all’interno di tutta
la tradizione.
Se in Chauvet il modello secolarista, ormai esaurito nelle sue motivazioni
teoretiche, continua a mantenere un certo peso, è proprio perché il rito vie­
ne prospettato «soltanto» nel suo valore di rimando all’agire morale: «è
proprio questo rimando della memoria rituale alla memoria esistenziale che
costituisce i sacramenti, primo fra tutti l ’eucaristia. La narrazione ritua­
le, a ogni eucaristia, del motivo per cui Cristo ha offerto la sua vita rimanda i
cristiani alla loro responsabilità di assunzione della storia nel suo nome».51
Opera ancora in simili asserzioni una riduzione etica del sacramento/rito,
che si fonda su un misconoscimento del fondamento teologico, e dunque
metaetico, dell’etico. Se l’uomo può volere il bene è perché è autorizzato
dalla rivelazione escatologica, che si offre come senso per cui impegnare per
sempre e senza riserve la libertà. Il sacramento cristiano, dunque, non ri­
manda semplicemente a un compimento etico, ma ne istituisce allo stesso
tempo la possibilità e la necessità. Ne istituisce la possibilità, perché la cele­
brazione cristiana non attinge il sacro come radicalmente altro rispetto al
profano, ma come l’origine del senso che si dispiega in tutta l ’esistenza, e ne
istituisce la necessità, perché offre nella rivelazione cristologica l ’unico pos­
sibile compimento della libertà.
Nelle sue pagine migliori sul rito Chauvet avverte che la differenza del
sacramento/rito cristiano rispetto a tutta la tradizione religiosa è «teologale e
non morale», come anche che la sovversione antisacrale del cristianesimo
non va confusa con la desacralizzazione, perché «il “sacro” non è affatto ne­

49 O.c., 255.
50 O.c., 183.
51 O.c., 181.
1. Sacramento e rito 213

gato, ma ca p o volto ».52 Egli però non dispone di una teoria della prassi in
grado di produrre una rigorosa intelligenza teologica del rito come atto della
fede. Il difetto va segnalato, ma senza negare con questo gli apporti signifi­
cativi dell’autore ad un percorso teologico ancora tutto da fare. Piuttosto è
l’indicazione di una pista su cui la riflessione ha bisogno d’incremento, per
non ridurre il sacramento ad una «enfatizzazione dell’antropologico», ma
farne valere la qualità teologica che ha permesso alla tradizione di parlarne
come azione, il cui soggetto «principale» è Cristo stesso.

7.4. Problemi e prospettive

I tre diversi tipi di approccio alla tematica rituale che abbiamo esamina­
to, ancor prima che sollevare degli interrogativi particolari concernenti la
natura della ritualità cristiana, pongono alla teologia sacramentaria la que­
stione fondamentale circa la possibilità e l’opportunità di applicare al sacra­
mento la nozione di «rito». Nella varietà delle loro impostazioni, infatti, gli
autori sopra recensiti, e molti altri che potrebbero essere affiancati alle loro
posizioni, mostrano una profonda divergenza non soltanto sull’elaborazione
dei singoli temi teologici, ma anche, e soprattutto, sul problema di fondo.
Per la teologia secolarista, infatti, la sopravvivenza del sacramento è legata
alla sua differenziazione dal rito; per la teologia liturgica la correlazione tra
rito e sacramento deve essere per vari aspetti problematizzata, mentre per
Chauvet la ritualità rappresenta l’elemento specifico per distinguere i sette
sacramenti dallo sfondo complesso e articolato della «sacramentalità». Sotto
questo profilo, dunque, i tré modelli risultano semplicemente alternativi.
La conclusione è particolarmente grave, perché non riguarda una que­
stione marginale e accessoria, ma l’elemento fondamentale su cui si è impe­
gnato il rinnovamento della prassi ecclesiale a seguito della riforma concilia­
re. Nell’ambito della sacramentaria, infatti, il rinnovamento voluto dal Con­
cilio è stato essenzialmente un rinnovamento dei «riti», da intendere non più
come semplice trasformazione dell’apparato cerimoniale, ma come espres­
sione di una più profonda adesione e partecipazione al «mistero». Su queste
premesse, se il consenso sull’identificazione tra il «sacramento» e la «cele­
brazione» non è ancora sufficientemente assestato a livello teoretico, la si­
tuazione si presenta con le caratteristiche del dato di fatto, ma non di diritto.
La teologia, infatti, se non si lascia soggiogare dalla spinta culturale del mo­
mento, può e deve far valere che tra «sacramento» e «celebrazione» non esi­
ste, e non può esistere, alcuna dicotomia.
La dicotomia ha potuto insinuarsi, dicono gli storici, quando, a partire
dal Medioevo, si è incominciato a separare la considerazione del «mistero»

52 O.c., 182.
214 Parte seconda: I problem i

sacramentale, in particolare dell’Eucarestia, dalla considerazione della «ce­


lebrazione», avviando la ricerca teologica in una direzione se non fuorviante,
almeno riduttiva, e suscitando la reazione contestatrice della Riforma. Rigua­
dagnato l ’orizzonte della celebrazione dalla deriva del «ritualismo giuridico»
alla pertinenza delibazione sacramentale», non dovrebbe sussistere più al­
cuna difficoltà per intendere il sacramento come rito.
In realtà le difficoltà, come si è visto, permangono, non soltanto per la re­
sistenza della cultura moderna nei confronti della ritualità,53 ma anche per la
complessità degli elementi implicati nella ricerca. In riferimento alla cultura
si insiste solitamente sulla necessità di restituire all’uomo contemporaneo la
«profondità» simbolica, che permette di instaurare un rapporto non mera­
mente funzionalistico con il reale, e sull’urgenza di elaborare le categorie ri­
flesse che consentano il superamento di un’antropologia àtW’h om o fa ber.
Per quanto poi riguarda la complessità del tema, senza negarne la consisten­
za, si può forse segnalare che essa è talora aggravata dalla debolezza meto­
dologica. Spesso, infatti, la considerazione del rapporto tra rito e sacramento
si attarda nella problematica della definizione separata dei due termini - il
primo a partire dai dati, sempre mutevoli, offerti dalle scienze umane, il se­
condo a partire dall’eredità dogmatica della tradizione teologica - per met­
terli solo successivamente in relazione.
Rispetto a questa impostazione, sembra, invece, da preferire il procedi­
mento che non considera il «rito» come un’entità universale e astratta, da
«applicare» poi al caso specifico del sacramento, ma si riferisce all’esperien­
za concreta della celebrazione sacramentale cristiana, che trova il suo model­
lo e il suo apice nella celebrazione dell’eucaristia.54 Che l’Eucarestia sia un
rito, il credente lo sa non per deduzione positivistica dalle affermazioni bi­
bliche, ma per l ’esperienza della sua prassi celebrativa, che chiede di essere
commisurata con le altre forme della ritualità antropologica, ma senza
astrarre dalla singolare coscienza di fede che accompagna la celebrazione del
sacramento cristiano.55

53 Cfr. R. SCHAEFFLER, K ultisches Handeln. Die Frage nach P roben sein er B ew àhrung und
nach K riterien sein er L egitim ation, in R. SCHAEFFLER - P. HUNERMANN, A nkunft G ottes und
H andeln d es M enschen. T hesen ù ber K ult u n d Sakrament, Herder, Freiburg i.B. 1977, 9-50;
ID., K ultur undK u lt, «Liturgischesjahrbuch» 41 (1991) 73-87.
54 G. COLOMBO, P er il trattato sull'Eucaristia (I), «Teologia» 13 (1988) 95-130,128s.
55 «Che l’idea di “rito” - iscritta nella concreta esperienza religiosa universale deU’uomo,
tematicamente svolta dalla filosofia religiosa - debba essere per così dire “verificata” a con­
fronto con la determinatezza singolare, storica e indeducibile della Eucaristia cristiana, è veri­
tà indubbia, ma da non fraintendere. “Verificare” vuol dire mettere alla prova l’attitudine
dell’idea in questione a illuminare l’intelligenza del fatto cristiano, e - ma non è cosa adegua­
tamente distinta - la valenza che il fatto cristiano ha di interpretare e giudicare l’esperienza
religiosa universale; valenza che il rito cristiano di fatto esibisce nella concreta prassi cristiana,
e nella coscienza che sul fondamento di tale prassi si sviluppa. L’idea di “rito” alla quale si ri­
ferisce il teologo è, in tal senso, esistenzialmente con-determinata dalla sua coscienza credente
7. Sacramento e rito 215

Sotto questo profilo dovrebbe essere proseguita e ampliata la prospettiva


di quegli autori che pongono l’accento sull’indissociabilità della pratica ri­
tuale dalla configurazione dell’orizzonte simbolico della coscienza. L’interes­
se del tema consiste nella possibilità di mostrare più dettagliatamente il rap­
porto tra i riti antropologici e l’emergere della coscienza in genere, e tra i sa­
cramenti e il costituirsi della coscienza cristiana in specie. A questo riguardo,
particolare attenzione sembrano meritare le riflessioni di P. Hunermann e R.
Schaeffler, soprattutto per l’intenzione di attribuire al rito, nell’atto pratico
del suo esercizio, un ruolo configurativo dell’esperienza (il rito come Figur
d es L ebens). La ricerca, però, deve superare la spaccatura tra il momento an­
tropologico e quello teologico, integrando l’originale prospettiva della fede
come orizzonte di comprensione del rito e superando il riferimento al teolo­
gico come semplice metaforizzazione dell’antropologico.
La difficoltà ad introdurre questa correzione è fondamentalmente quella
registrata a proposito della posizione di Chauvet, in cui la pur ampia atten­
zione prestata al rito si attesta sulla declinazione delle sue caratteristiche for­
mali e sulla loro risignificazione teologica, ma non raggiunge una teologia
dell’azione rituale, che ne prospetti unitariamente l’identità di prassi storica
motivata dalla fede. Alla radice della difficoltà è la carenza di una teologia
della prassi cristiana, che, auspicata da più parti, fatica ancora a trovare posi­
tiva elaborazione.
Nonostante i limiti con cui la tematica del rito è stata finora recuperata,
non bisogna tacere i vantaggi che ha già apportato, o che può apportare, nel­
la teologia del sacramento. Innanzi tutto, il tema della celebrazione costitui­
sce un luogo più prossimo di accostamento al sacramento, rispetto alla di­
spersiva prospettiva del simbolo. Mantenendo tutti i vantaggi della ricerca
simbolica, in particolare il superamento deU’estrinsecismo tra signum e res,
ne supera però i limiti, perché fa più diretto riferimento non ad una nozione
astratta di simbolo, ma ad una pratica simbolica («simbolo in esercizio»56)
determinata: il rito cristiano. Su questa strada, si ritrova immediatamente il
riferimento alla «storia» che la prospettiva del simbolo (reale) tendeva a pre­
terire, ponendo una problematica continuità tra simbolo ontologico e sa­
cramento.57 Il sacramento cristiano, infatti, non deriva semplicemente dalla
costituzione ontologica del Verbo incarnato ma dal rito di Gesù, da intende­
re sullo sfondo di tutta la sua vicenda terrena.
Qui la tematica del rito mostra la sua pertinenza non soltanto per l’intel­
ligenza di fede del «sacramento», ma anche per l’intelligenza di fede della

e dalla sua prassi eucaristica. Ma questo stato di fatto non può essere interpretato quasi che
quell’idea sia positivisticamente dedotta dalle affermazioni del Nuovo Testamento o dei gesti
di Gesù» (G. COLOMBO - G. A ngelini, Ripresa sintetica, in A a .V v ., C elebrare l’Eucaristia,
o.c., 138-149,147s.).
56 P. SEQUERI, Il Dio affidabile, o.c., 485.
57 G. COLOMBO, P er il trattato su ll’Eucaristia, a.c., 125.
216 Parte seconda: I problem i

«storia di Gesù», se è vero che egli ha voluto legare la «memoria» viva di sé


ad un gesto rituale. Si apre così lo spazio per una ricerca promettente, che
mostri l ’interpretazione che Gesù ha dato al suo vivere e al suo morire attra­
verso il «compimento» e il «superamento»58 delle figure simboliche e rituali
offerte dall’Antico Testamento (il rito pasquale). La ricerca dovrebbe muo­
versi nelle duplice direzione di approfondire la dipendenza dell’autocoscien­
za di Gesù dall’universo simbolico dell’Antico Testamento, e la dipendenza
del sacramento/rito cristiano dalla «novità» di Gesù. Con l ’ovvia precisazio­
ne che nei due casi la «dipendenza» non è evidentemente dello stesso tipo.
Nel primo, infatti, va intesa nel senso di evidenziare la «realtà» dell’incar­
nazione, nella sua specificità storico-geografica e culturale, e dunque nel
senso del «debito» della coscienza umana di Gesù rispetto al mondo religio­
so d’Israele. Ne deriverebbe l’affermazione che non è possibile intendere
l ’irriducibile «novità» di Gesù se non nella «relatività» alle forme cultura­
li/religiose dell’Antico Testamento, e in particolare nella relatività ai suoi
«riti». Nel secondo caso, si tratta invece di una dipendenza «radicale», per­
ché nel variare delle sue determinazioni storiche, il sacramento cristiano tro­
va nella «singolarità» di Gesù il «principio» insuperabile per la propria com­
prensione. Da entrambe le direzioni della ricerca, l ’interesse non può che es­
sere orientato verso il «rito di Gesù», ovvero verso la cena rituale cui ha le­
gato il «senso» del suo morire, e verso l’interpretazione che ne ha dato la co­
munità primitiva, iniziando a celebrare l ’eucaristia come memoriale del sa­
crificio del Signore.
Il secondo vantaggio conseguente alla comprensione del sacramento nel­
l ’orizzonte della celebrazione è il radicale superamento della prospettiva
«cosificante» e della deriva «magica». I sacramenti, intesi pertinentemente
come celebrazioni della comunità, possono, infatti, riacquistare la loro iden­
tità dinamica e la loro qualità pratica, che attira l’attenzione sugli atteggia­
menti personali, più che sulla considerazione (positivistica) delle «cose» e
delle «parole». Non perché le cose e le parole perdano il loro significato, ma
perché lo trovano solo in quanto si collocano all’interno della consapevolez­
za di fede della Chiesa, espressa dalla celebrazione del rito. Su questa linea si
aprono nuove prospettive anche per intendere l’efficacia dei sacramenti, più
sul versante della mediazione della libertà (che trova nel sacramento la pos­
sibilità di disporsi all’accoglienza reale della Grazia), che su quello della
«produzione» di un «effetto».
Infine la riscoperta del sacramento come rito permette di recuperare al­
l’attenzione della teologia il riferimento alla storicità ecclesiale (la comunità

58 «A dim plendo superavi!» è la formula usata dal documento Uliimis tem poribus sul sa­
cerdozio ministeriale del primo Sinodo dei Vescovi: «Sui ipsius oblatìon e sum m um atque uni­
cu m ex ercens sacerdotitim , om nia ritualia sacerdotia e t sacri fid a Veteris T estam enti im m o et
gen tiu m adim plendo superavit» [Pars 1,1, «Acta Apostolicae Sedis» 63 (1971) 898-922, 903].
7. Sacramento e rito 217

concreta come soggetto «storico» del sacramento), aprendo la possibili­


tà/necessità della ricerca pratica, allo scopo di determinare la forma più per­
tinente della celebrazione, e soprattutto di indagare le modalità attraverso
cui la celebrazione dei sacramenti plasma, all’interno di una determinata cul­
tura e nella partecipazione critica alle sue domande, la figura storica del
«Popolo di Dio».
In questo contesto di rinnovamento della domanda sacramentaria, si col­
locano più specificamente i tre interrogativi particolari che il dibattito ha
sollevato, cioè la questione del rapporto che il rito intrattiene con l’impegno
etico, con il mistero salvifico e con la fede personale e comunitaria. Senza
pretendere di offrire la soluzione a questioni così complesse, si possono for­
se ipotizzare delle indicazioni utili per l’incremento della ricerca.,
Sembra, prima di tutto, necessario evitare di porre la questione del rito in
contrapposizione alla questione dell’«esperienza» o dell’«agire quotidiano»,
quasi si trattasse di due mondi distinti e bisognosi di trovare un punto di
collegamento. Se questo può forse essere vero per i riti delle religioni, am­
messo che se ne possa dare un quadro ed una lettura unitaria, non è certa­
mente vero per il rito cristiano. La celebrazione cristiana, infatti, non si in­
tende come alternativa all’esistenza, perché non celebra un evento mitico,
ma un avvenimento storico (la morte di Gesù, principio di vita per l’umani­
tà), e poi perché intende suscitare quella disposizione della libertà nella for­
ma della fede/carità che non è reale se non a fronte delle circostanze fattuali
dell’esistenza, che nel sacramento non sono scavalcate, ma illuminate. L’a­
scolto della parola «storica» della celebrazione e la ripetizione del gesto
«storico» del Signore costituiscono nel sacramento il principio di discerni­
mento della forma quotidiana del vivere secondo l’Evangelo, e non la sacra­
lizzazione di un momento dell’esistenza «alternativo» alla ferialità. Di qui la
possibilità, da parte della letteratura neotestamentaria, di utilizzare il voca­
bolario cultuale per designare la vita nello Spirito del credente,59 rinnovato
nella sua «esperienza» della vita e del mondo dalla partecipazione sacramen­
tale al mistero della salvezza.
D’altronde la necessità di non contrapporre il rito alla vita appare già
chiara dalla insopprimibile esistenza, anche nella nostra cultura «desacraliz­
zata», di molteplici espressioni di ritualità «profana», che circondano gli am­
biti più vari dell’esistenza:60 dalla pratica sportiva ài viaggio, dalla politica al­
le forme più quotidiane della vita domestica. Senza poter affatto «dedurre»
da questa presenza il significato del rito cristiano, non si può però ignorare
che la fenomenologia dei comportamenti umani pone piuttosto il problema
opposto a quello sollevato dalla teologia della secolarizzazione, chiedendo

59 B. MAGGIONI, I l cu lto «spiritu ale» e il significato della celebrazione n elle testim onianze
d e l N uovo T estam ento, o.c.
60 C. RIVIÈRE, R ites profa nes, brìbes d e sacre, a.c.

BADIA PRìMAZ. S. AfJSELiViO


BIBLIOTECA
218 Parte seconda: I p rob lem i

non più come sia possibile un rito nella cultura secolare, ma quale sia l’arti­
colazione tra rito cristiano e ritualità della vita.
Sullo sfondo di questo interrogativo, si colloca più precisamente la que­
stione del rapporto tra sacramento/rito ed etica. Si tratta solo apparente­
mente di due questioni distinte, perché la ricerca teologica può/deve far va­
lere che la considerazione etica dell’esperienza non costituisce l ’analisi di
«una» delle dimensioni della vita, bensì la comprensione dell’agire umano
nella sua globalità, e dunque nel riferimento al suo senso ultimo. Senza poter
qui svolgere la questione, pare, però, plausibile che la determinazione della
vita secondo il «giusto» senso non sia dissociabile dalla questione del fon­
damento metaetico dell’agire, ovvero dalla questione del «teologico», a cui
appunto il sacramento risponde rimandando, per dipendenza «storica» e
«radicale», all’evento del sacrificio di Gesù, celebrato come principio della
vita, e dunque dell’agire, dell’uomo.
Qui si collega logicamente la domanda circa la presenza del «mistero»
nel «rito». Si tratta indubbiamente di domanda più complessa e di quaestio
disputata, o forse meglio, date le condizioni in cui languisce la sacramentaria,
di quaestio disputanda. Che il sacramento permetta la partecipazione all’«e-
vento» della salvezza, e che dunque sia legittimo il linguaggio della «prin­
cipalità» di Cristo come «soggetto» della celebrazione, costituisce il guada­
gno, o meglio la riscoperta, conseguente all’intuizione di Casel. Ma siccome
più di intuizione che di «teoria» si tratta, non è legittimo che la teologia si
limiti ad affermarla, senza «pensarla». Se si esclude il tentativo di Schille­
beeckx, di cui intanto sono emersi i limiti, che non ne permettono la sempli­
ce ripetizione, non risulta che la teologia sia ritornata, per i motivi già più
volte esposti, ad affrontare la questione. La nuova provocazione, che provie­
ne dalla comprensione teologica della celebrazione, solleva oggettivamente il
problema, e forse lo «puntualizza» richiedendo di chiarire il modo specifico
e insuperabile in cui l ’azione celebrativa della comunità cristiana (il «rito»)
permette di accedere all’evidenza del proprio fondamento cristologico (il
«mistero»). Escluso che il rito sia solo un «segno esterno» del mistero, sem­
bra che si debba piuttosto cercare la risposta nell’atto pratico della celebra­
zione, e dunque nell’elaborazione di una teologia della «prassi» rituale come
prassi credente.
A questo livello si colloca, infine, anche l ’ultimo interrogativo, che inte­
ressandosi dei rapporti tra rito e fede non può che urgere la necessità di una
teologia della fede e di una teologia del sacramento che non s’ignorino a vi­
cenda, non solo nello svolgimento delle tematiche, ma radicalmente nella
posizione della domanda.61 Qualora si recuperi una teoria della fede, che in­
tegri il momento pratico (la forma dell’agire credente) come elemento costi­

61 P. SEQUERI, I l Dio affidabile, o.c., 141; A. GRILLO, T eologia fon d a m en ta le e liturgia. Il


rapporto tra immediatezza e m ediazione nella riflession e teologica, Messaggero, Padova 1995.
7. Sacramento e rito 219

tutivo del credere, si rende possibile attribuire al sacramento il suo ruolo


«fondamentale» nella strutturazione della coscienza credente. Solo portando
la domanda a questo livello radicale, si sottrae il rito alla deriva che Io rende
una forma di enfatizzazione dell’antropologico, e lo si riconosce come luogo
in cui l’evento salvifico si offre alla libera accoglienza della fede.

/
CONCLUSIONE

Al termine della nostra indagine sulla letteratura sacramentaria generale


del periodo postconciliare, tentare un bilancio complessivo si presenta come
impresa assai complessa e di difficile realizzazione. Concorrono a generare
questa complessità molteplici fattori, già più volte richiamati nel corso del­
l ’esposizione, ma che qui devono essere raccolti per offrire un quadro sinte­
tico conclusivo. Si tratta, innanzi tutto, della profondità delle trasformazioni
in atto, che non riguardano semplicemente problematiche particolari o te­
matiche specifiche, ma investono la globalità della ricerca teologica sul sa­
cramento e conducono ad una revisione delle categorie formali e delle strut­
ture di fondo del pensiero. Quanto più le trasformazioni investono gli stru­
menti e i processi dell’indagine teologica, tanto più lenta e faticosa è l’opera
di elaborazione teoretica dei percorsi, la valutazione delle proposte e l’indi­
viduazione delle linee più promettenti per sviluppi solidi e rigorosi.
A queste motivazioni interne si aggiungono poi quelle derivanti dal con­
testo culturale e dalla pratica celebrativa, che sembrano non trovare il punto
in cui superare la reciproca estraneità, imputabile da un lato alla deficienza
dell’apertura al profilo simbolico dell’esperienza da parte dell’uomo con­
temporaneo e dall’altro ad una forma rituale non sufficientemente incultura-
ta. Poiché la teologia è la riflessione storica sulla fede, non può che risentire
dei problemi che la pratica cristiana incontra in una determinata epoca, del­
le incertezze derivanti dalle profonde trasformazioni culturali e delle diffi­
coltà derivate da una prassi pastorale che trova situazioni inedite e pone
questioni radicali.
Su questo sfondo non stupisce eccessivamente il fatto che il dibattito di
cui abbiamo tentato una ricostruzione e un’interpretazione presenti i carat­
teri della frammentarietà e della dispersione. Certo, se si confronta l’ambito
della sacramentaria con altri settori della teologia, l’impressione di un ritar­
do considerevole nell’affrontare i problemi con la dovuta radicalità e ponde­
ratezza è difficilmente eliminabile, ma il carattere specifico della tematica sa­
cramentale, in cui convergono gli apporti della riflessione cristologico-trini-
taria, ecclesiologica e antropologica, può forse contribuire a spiegare la par­
ticolare densità e difficoltà dei nodi da chiarire. Ciò che in ogni caso non
222 C onclusione

sembra giustificabile è il pressappochismo su cui si fondano alcune delle


proposte di cui ci siamo occupati e la frettolosità di non poche sintesi nel di­
chiarare, in un dibattito a dir poco confuso, la presenza di ampie convergen­
ze e sicuri punti fermi.
La nostra valutazione globale della letteratura recensita è che, nonostante
l ’apparente compattezza derivante dell’utilizzo disinvolto (o ambiguo) dello
stesso linguaggio, sembra mancare all’insieme della discussione un punto fo­
cale intorno a cui concentrare la ricerca e da cui procedere con rigore agli
approfondimenti necessari. Ne dà conferma la facilità con cui l ’indagine sul
sacramento si è concessa (e si concede) alle mode culturali del momento,
senza poter opporre la resistenza di una riflessione che, nella condivisione
degli interrogativi dell’epoca, proceda però su «propri» principi. Basti ri­
chiamare gli sviluppi opposti verso cui la sacramentaria è stata trascinata di
volta in volta dall’onda secolarista, prassico-politica, antropologista e post­
moderna. Seguendo a passo a passo il dibattito, abbiamo dovuto in più di
un caso trarre la conclusione che l ’unica nozione non approfondita dall’in­
dagine teologica è stata quella di «sacramento», travolta dall’uso dirompente
di altre categorie.
Anche nei casi in cui la teologia non si è arresa alle mode del momento, si
è avuto per lo più un processo di semplificazione della complessa realtà sa­
cramentale, che si è fondato sull’assolutizzazione di uno degli elementi che
concorrono a costituirne l ’identità e a guidarne la comprensione. Così il sa­
cramento è stato risolto rispettivamente nell’«autorealizzazione della Chie­
sa», in un «dinamismo antropologico» o, infine, nei «significati offerti dal ri­
to». Intorno a questi tre nodi intendiamo raccogliere le conclusioni del no­
stro lavoro, rinunciando a riproporre la sintesi materiale del dibattito, per
cui rinviamo al bilancio della prima parte.

Nel caso della riduzione del sacramento all’«autorealizzazione della Chie­


sa» si è rivelata particolarmente determinante la matrice rahneriana, che ha
imposto alla comune accoglienza l ’idea che i sacramenti debbano essere in­
terpretati come momenti culminanti del dinamismo con cui la comunità cri­
stiana si afferma quale presenza escatologica della grazia di Dio nel mondo.
La tesi ha subito, all’interno di quasi ogni area linguistica, una sorte curiosa:
per un lato si è mantenuta come chiave di volta di tutto il discorso sacra­
mentario, per l ’altro è stata radicalmente superata proprio nel suo elemento
più valido e pertinente, ovvero l ’affermazione che il sacramento non può es­
sere compreso se non riguadagnando il suo intrinseco riferimento all’eccle­
siologia. La vicenda di questa evoluzione è stata analiticamente ricostruita
nelle singole sezioni della nostra ricerca, ma considerata in sede conclusiva,
anche alla luce delle problematiche discusse nella seconda parte, non cessa
di stupire: la rapidità con cui la collocazione ecclesiologica del sacramento è
stata accantonata come punto di partenza della ricerca è pari, infatti, alla te­
, C onclusione 223

nacia con cui l ’assioma astratto della derivazione dei sacramenti dalla sacra­
mentalità ecclesiale (la Chiesa Grundsakrament) è stato quasi ostinatamente
riproposto alPinterno dei contesti più disparati.
Riteniamo che abbia concorso a determinare questa anomalia, estranea a
qualsiasi coerenza logica e teologica, un duplice ordine di motivi. Il primo è
esterno, ed è la pressione ad accantonare la tematica ecclesiologica esercitata
sulla teologia postconciliare da vari fenomeni culturali, che possono essere
riassunti sotto la cifra del rifiuto preconcetto delle forme istituzionali del­
l’esistenza. La tendenziale contrapposizione dell’istituzione ecclesiale alla
«libertà dei figli di Dio» come anche l ’opposizione dell’«inautentico» della
religione comunitaria all’«autentico» della fede personale ha di fatto portato
ad un maldestro ed inaccettabile appiattimento della Chiesa ad un’entità pu­
ramente giuridica e sociologica, e quindi suscettibile di «qualsiasi» trasfor­
mazione nella sua struttura e nei suoi elementi costitutivi. E poiché un’inter­
pretazione riduttiva dell’«apertura al mondo» ha cercato il principio del rin­
novamento della Chiesa nell’adeguamento del cristianesimo alla cultura (!),
l’iscrizione dei sacramenti all’interno delle manifestazioni visibili della vita
ecclesiale (e dunque nel cuore dell’istituzione inautentica) è parsa più come
un «ostacolo», che come una «condizione» per la loro pratica e la loro com­
prensione.
Il secondo ordine di motivi, probabilmente, risiede nella natura stessa
della tesi rahneriana in questione. Riportata nel contesto specifico della sua
formulazione, l’affermazione della dipendenza dei sette sacramenti dalla
Chiesa-G rundsakram ent non può, infatti, nascondere il suo carattere in buo­
na misura «apologetico»: nel problema rahneriano della Chiesa-sacramento
è in gioco la questione spinosissima dell’istituzione del settenario, che sotto
il profilo storico la teologia non era (e non è) in grado di risolvere adegua­
tamente, mentre la proposta di Rahner di ricondurre l’istituzione dei sacra­
menti all’istituzione della Chiesa permette un assestamento teorico allo stes­
so tempo comodo e radicale.
Non ci sembra, pertanto, una forzatura avanzare l’interpretazione che
mentre la pressione culturale ha indotto la sacramentaria ad abbandonare la
sua collocazione ecclesiologica, la comodità apologetica ha determinato la
sopravvivenza autonoma dell’assioma rahneriano, svincolato dal contesto lo­
gico della sua formulazione e utilizzato senza ulteriore discussione, sempli­
cemente in forza del consenso acquisito. Per questa via il rapporto dei sa­
cramenti alla Chiesa è stato da una parte trascurato e dall’altra astrattamente
assolutizzato, ma in nessun caso approfondito nella sua valenza teologica.
Se la conclusione è valida, non può che seguirne il suggerimento che la
collocazione ecclesiologica dei sacramenti deve essere riguadagnata (non so­
lo nominalisticamente!) come punto di partenza della sacramentaria, senza
timore che questa impostazione risulti alternativa alla valorizzazione dei dati
antropologici e senza che la preoccupazione apologetica prevalga sulla eoe-
224 C onclusione

renza logica. L ’alternativa dell’ecclesiologico all’antropologico è, infatti, co­


me abbiamo già avuto modo di affermare, destituita di ogni fondamento, e
la soluzione del problema dell’istituzione deve procedere, innanzi tutto, da
un rinnovamento della domanda, che sfugga il duplice rischio della ricerca
positivistica e della preterizione dogmatica della storia. Forse non è inutile
richiamare la corrispondenza di questa impostazione con la coscienza di fe­
de che emerge dai testi del Nuovo Testamento, dove il rapporto tra la fra­
zione del pane o il battesimo cristiano e la comunità apostolica non solo è
fuori di ogni dubbio, ma costituisce il principio di discernimento tra la giu­
sta interpretazione dei sacramenti (quella della traditio ecclesiale) e le distor­
sioni falsificanti.
Al suggerimento circa la «direzione» della ricerca se ne può affiancare un
altro relativo alle modalità di «impostazione». La formulazione un po’
astratta che il problema del rapporto Chiesa-sacramenti, o, come preferi­
remmo, sacramenti-Chiesa ha ricevuto in K irche u n d Sakramente, non è l’u­
nico elemento desumibile dalla riflessione teologica rahneriana, né il più
vantaggioso. Non si può, infatti, dimenticare che Rahner è anche il promo­
tore di una teologia pratica come teoria della forma «storica» della prassi
cristiana, e che proprio questo elemento del suo pensiero può incoraggiare
un’impostazione del problema che muova dalla considerazione dei rapporti
storici che esistono tra la comunità cristiana concreta e le sue celebrazioni
sacramentali. I sacramenti, infatti, esistono sempre soltanto come celebrazio­
ni di una comunità particolare e, proprio iscrivendosi nel tessuto delle con­
dizioni storiche e culturali in cui essa vive, concorrono a definirne l’identità,
riproponendo la memoria viva di Gesù come criterio di discernimento delle
forme dell’agire e il suo Spirito come principio di vita nuova. Sottratti ad
una considerazione destoricizzante e collocati nell’ambito concreto della vita
del Popolo di Dio, i sacramenti, e in primo luogo l ’Eucaristia, possono me­
glio mostrare in che modo «generano» l ’esperienza cristiana, ponendosi co­
me il momento originario e la forma archetipa della relazione col Signore.

Per quanto riguarda la tendenza a risolvere il sacramento cristiano in un


«dinamismo antropologico», bisogna affermare che l’analisi della letteratura
e l ’approfondimento delle singole questioni segnala questo come l ’orienta­
mento assolutamente prevalente. L’evoluzione della sacramentaria in questa
direzione, d’altronde, non è che l’altra faccia dell’abbandono della prospetti­
va ecclesiologica, tanto che abbiamo potuto delineare il succedersi delle fasi
cronologiche e logiche del dibattito parlando di un passaggio dalla colloca­
zione ecclesiologica alla collocazione antropologica, ed infine da questa alla
sua radicalizzazione in chiave postmoderna. Se è relativamente semplice ri­
costruire in linea di massima le tappe e i segni della trasformazione, più
complesso è identificarne le motivazioni e precisarne gli elementi decisivi,
poiché essi dipendono di volta in volta dall’assunzione di una particolare an­
C onclusione 225

tropologia. Ad uno sguardo complessivo, comunque, i fattori che sono in­


tervenuti a determinare, o almeno a favorire, questa tendenza, sembrano so­
prattutto quattro. In primo luogo, una certa rilettura della teologia di Rah­
ner, che ha assunto come elementi portanti della sintesi temi e motivi che nel
pensiero del maestro non avevano funzione strutturale. A questo riguardo,
in particolare, va richiamata la scelta dei rahneriani di porre a fondamento
della sacramentaria la tematica del corpo come U rsymbol antropologico, fa­
cendo slittare l’impostazione ontologica del simbolo reale verso quella antro­
pologica della realizzazione di sé mediata dai dinamismi della celebrazione.
In secondo luogo l’utilizzo ambiguo della nozione di simbolo, non appro­
fondita nella sua portata teoretica e immediatamente applicata per designare
in maniera allusiva tutto quanto riguarda l’uomo e il suo rapporto con il sen­
so dell’esistenza. In terzo luogo l’introduzione nel dibattito teologico delle
scienze umane e il disorientamento metodologico provocato dall’incontro
con problematiche nuove di complessa gestione teoretica. Infine l’intento
apologetico di sintonizzare la sacramentaria con la cultura, inizialmente mo­
strando il radicamento del sacramento nell’umano, ma conclusivamente
giungendo talora al limite della dissoluzione del primo nel secondo.
Evidentemente nessun teologo ha voluto praticare tale dissoluzione in­
tenzionalmente, ma la valutazione dei singoli progetti ha portato spesso alla
conclusione che la dipendenza cristologica del sacramento, a cui la fede non
può rinunciare, era semplicemente nominale. Il procedimento più ricorrente
che ha condotto a questi esiti nominalistici è risultato la semplice trascrizio­
ne di una categoria antropologica nel contesto dell’indagine teologica, senza
che la fede cristiana concorresse a precisarne i contenuti, la valenza e il signi­
ficato. Questo è avvenuto per la «prassi emancipatrice», per la «comunica­
zione», per il «rito» e soprattutto per l’«apertura simbolica» al senso del­
l’esistenza.
Anche in questo caso la conclusione si traduce in una duplice indicazione
che riguarda il livello metodologico e il piano contenutistico. Sul versante
metodologico, la teologia sacramentaria non può ulteriormente disattendere
la necessità di un’istruzione «teologica» delle categorie che utilizza nel suo
discorso, impegnandosi a mostrare la «specificità» di un accostamento alla
realtà che parte dalla conoscenza di fede della verità escatologica offerta al­
l ’uomo nell’evento di Gesù e che deve, dunque, far valere la dimensione cri­
stologica come l ’ultima indeducibile legittimazione del senso antropologico
dell’esistenza e delle categorie che intendono esprimerlo. Si tratta, concreta­
mente, di evitare un procedimento che si limiti ad applicare ai contenuti del­
la fede i risultati di una ricerca, filosofica o scientifica, che è stata elaborata a
prescindere dalla rivelazione cristologica. E questo perché tale rivelazione,
che è appunto il darsi assoluto e insuperabile della Verità nella storia, non
costituisce in alcun modo un caso qualificabile come semplice differenza
specifica rispetto a un genere prossimo. La singolarità di Gesù, per cui egli
226 C onclusione

non è soltanto «uno» tra i tanti uomini, seppur il più grande, richiede di es­
sere accostata con uno sguardo che essa stessa suscita, e che in quanto tale
partecipa della sua singolarità. Se si riconosce in Gesù la «luce del mondo»,
non si può che svolgere coerentemente la ricerca teologica, nella fattispecie
sacramentaria, elaborando qualsiasi categoria culturale a partire da quella
luce, e non invece costringendo il contenuto cristologico in uno schema in
qualunque modo predeterminato. I sacramenti cristiani, come ogni realtà
teologica, non possono sopportare alcuna predeterminazione, perché il con­
tenuto che esibiscono è portatore di una sorprendente e irriducibile novità:
il novum di Dio.
Sul versante dei contenuti, deve essere riaffermato con forza che i sacra­
menti sono dinamismi simbolici a servizio non dell’autorealizzazione umana,
della gestione delle energie psicologiche o della mediazione del consenso
comunitario, ma della relazione gratuita con il Signore, la cui offerta risulta
sempre irriducibilmente graziosa e precedente. Celebrando i sacramenti, la
Chiesa riconosce con la massima evidenza simbolica di essere originata dal
sacrificio del Signore e da nient’altro, e in tal modo rinnova la memoria della
propria gratuita elezione e della propria doverosa testimonianza. In questo
senso la derivazione cristologica dei sacramenti, tutt’altro che apparire come
alternativa alla loro rilevanza antropologica, ne è piuttosto l ’insopprimible
presupposto. L’uomo, infatti, non può trovare in se stesso la propria ragion
d’essere e il proprio compimento, ma li può trovare solo in Colui che è l’alfa
e l ’omega di ogni cosa: del creato, della storia, dell’uomo e dei suoi dinami­
smi culturali, comunque li si voglia identificare. Affermare che i sacramenti
non trovano nell’uomo la propria predeterminazione, ma la trovano solo in
Gesù è dunque l’unico modo da un lato per coglierne l ’irrinunciabilità e
l ’appartenenza intrinseca all’esperienza cristiana, e dall’altro per evidenziar­
ne l’interesse. In essi, infatti, è offerto all’uomo qualcosa che lo supera, e
quindi lo può realmente arricchire, e al contempo non gli è per nulla «estra­
neo», ma costituisce il suo compimento indeducibile e sovrabbondante. Solo
mantenendo la distanza (che non è estraneità) dei sacramenti dalle altre pra­
tiche sociali e culturali, si ha la possibilità di trovare nella loro celebrazione il
principio per l ’intelligenza ultima delle molteplici forme dell’esperienza
umana. Detto in altri termini, è forse.giunto il momento di capovolgere la
tendenza a comprendere il sacramento a partire dalla vaghezza del simbolo,
per iniziare a cercare nella prassi sacramentale il principio ultimo capace di
illuminare le molte forme dell’esperienza simbolica dell’uomo. Forme che, al
di fuori della fede cristologica, rimangono necessariamente sospese, nella lo­
ro incapacità di designare realmente e positivamente l’origine del senso che
in esse trapela.

La terza forma di riduzione del sacramento, conseguente all’assolutizza-


zione di una delle sue componenti, è quella «ritologica». Propriamente il sa­
C onclusione 227

cramento non ha nulla da perdere a essere inteso come un rito, purché la


nozione di rito non sia presupposta rispetto alla singolare esperienza della
fede, che illumina in maniera decisiva l’esperienza della celebrazione cristia­
na. Solo dalla singolarità della rivelazione e della fede che la accoglie dipen­
de, infatti, la qualità specifica del rito cristiano. Ma in riferimento a questo
profilo della questione, il dibattito sembra attestato su posizioni ancora re­
mote e disperse. E in questo consiste la qualità riduttiva e insufficiente della
considerazione rituale del sacramento, propria, in particolare, di molta lette­
ratura liturgica. Il rito cristiano è, infatti, spesso enfatizzato nella sua portata
«mistica», ma contemporaneamente disatteso nello sforzo di intelligenza
teologica. Non basta, infatti, ripetere che la celebrazione è partecipazione al
sacerdozio di Cristo e comunione con la liturgia celeste, o che i sacramenti
prolungano i m irabilia D ei e rendono presente il m ysterion salvifico, se con­
temporaneamente il momento rituale dell’esperienza non è articolato con la
globalità delle forme dell’agire umano e iscritto nella vicenda storica in cui
prende forma la vita di fede di ogni uomo e della comunità. Il sacramento
non mostra la propria identità semplicemente per il significato, sia pur sim­
bolico, dei gesti e delle parole che in esso si compiono, se questo «significa­
to» è inteso astrattamente, come puro riferimento a contenuti dottrinali e di­
sposizione pedagogica all’agire virtuoso. Manca ancora, però, alla teologia
l ’istruzione sicura della questione e il sostegno di una teologia della prassi
che permetta di mostrare la necessità della celebrazione per il darsi realistico
della fede, ovvero il rapporto tra le forme antropologiche dell’agire rituale e
il costituirsi della coscienza credente.
Più facile, forse, ma altrettanto necessario, sarebbe proseguire la ricerca
sul versante del rapporto del rito con l’evento della rivelazione, anche per­
ché l’evento stesso si realizza implicando la dimensione rituale. Dall’inizio
dell’attività pubblica nel battesimo al Giordano (per non dire degli avveni­
menti dei vangeli dell’infanzia) fino alla consegna della morte in croce nella
cena, la vita di Gesù pare fortemente segnata dall’assunzione e allo stesso
tempo dall’inveramento/superamento delle figure rituali dell’Antico Testa­
mento, che sono da Lui orientate ad esprimere la verità di Dio nel senso del­
la cura misericordiosa per l’umanità peccatrice e della elezione gratuita alla
più intima comunione con Lui. L’approfondimento del legame tra la verità
cristologica e la forma rituale della memoria a cui è consegnata nel momento
decisivo del suo compimento e della sua attestazione pasquale, offrirebbe al­
la teologia sacramentaria la possibilità di impostare in maniera più pertinen­
te il tema della celebrazione dei sacramenti. La consistenza antropologica
del momento rituale, come tutto ciò che riguarda l’uomo, trova, infatti, la
sua luce neH’umanità di Gesù, e dunque nella storia della sua vita e nel mi­
stero che vi si manifesta. A questo riguardo può ancora essere segnalata la
tendenziale trascuratezza del dibattito recensito nei confronti di un’appro-
fondita fondazione biblica della questione sacramentale, che raramente tro­
228 C onclusione

va un’impostazione critica e che per lo più si limita ad accenni generici al


tema del «memoriale». A ulteriore conferma della carenza di considerazione
rigorosamente «teologica» della questione sacramentale.

Da qualunque parte lo si consideri, dunque, il dibattito non fa che se­


gnalare l ’esigenza di procedere più speditamente verso una fondazione più
rigorosa sotto il profilo metodologico e più coerente sotto il profilo contenu­
tistico. Raccogliendo le indicazioni precedenti, i punti su cui la ricerca do­
vrebbe ritrovare compattezza, superando l’attuale stato di dispersione, sem­
brano soprattutto l ’identificazione dell’«ambito ecclesiologico» come luogo
in cui la realtà sacramentale si dà a conoscere nella sua specifica identità di
prassi celebrativa motivata dalla fede; l’affermazione della «dipendenza cri­
stologica» dei sacramenti, che è riconosciuta dalla coscienza di fede della
Chiesa; l ’articolazione dello «spessore antropologico» della celebrazione cri­
stiana con l’insieme dell’esperienza credente.
Concretamente si tratta di riconoscere, e quindi far emergere, la singola­
rità propria della celebrazione cristiana, che può essere attinta soltanto dalla
coscienza di fede della comunità ecclesiale nel suo rimando oggettivo all’in­
tenzione di Gesù. Tale fede, ovviamente, non è un dato che si sovrappone
alla celebrazione, quasi che questa consistesse soltanto in un insieme di ru­
briche, ma «è» la celebrazione stessa come confessione in atto della dipen­
denza radicale della Chiesa dal suo Signore. I sacramenti, infatti, non sono
realtà a sé stanti, paragonabili a «sacri tesori» che una generazione passa al­
l ’altra come un oggetto già fatto e solo da custodire nella sua integrità, ma
esistono, contro ogni concezione tendenzialmente cosificante, soltanto in
quanto celebrati dalla comunità dei credenti. Per questo il sacramento cri­
stiano non è uno scomodo diaframma interposto tra la Chiesa e Cristo, ma è,
al contrario, la forma storica piena del loro incontro. Meglio, poiché Cristo e
la Chiesa non possono incontrarsi come due realtà autonome e indipendenti
che solo successivamente sono messe in rapporto, il sacramento cristiano è
la realizzazione piena della relazione con cui Cristo costituisce la Chiesa,
rendendo partecipe del suo mistero pasquale gli uomini e le donne che si
aprono a Lui nella fede e accettano di vivere nel suo Spirito.
Compresa in questa logica, qui appena accennata e tutta da svolgere, la
celebrazione sacramentale manifesta la forma «pratica» della fede cristiana,
irriducibile ad un puro assenso intellettuale alle formule dogmatiche o ad un
cieco affidamento alla protezione divina. La fede ecclesiale, che si costituisce
nel sacramento del Battesimo in vista della pienezza eucaristica, ha la forma
del «sacramento», ovvero di un «agire» comunitario che riconosce la «veri­
tà» della Signoria del Risorto nella forma di una «relazione» con Lui, di cui
Egli stesso ha l ’iniziativa.
Coerentemente le «azioni» sacramentali di quella porzione di umanità
che è la Chiesa, nel loro darsi storico, se da un lato riflettono sempre la cui-
C onclusione 229

tura (mentalità, sensibilità, gusto) della propria epoca, dall’altro, e più pro­
fondamente, esprimono all’interno della variazione delle forme rituali la fede
immutata nella presenza attiva del Risorto. Per il primo aspetto esse sono su­
scettibili di un accostamento antropologico di vario tipo (sociologico, psi­
cologico, linguistico), per il secondo sono irriducibili a quanto le scienze uma­
ne e la filosofia possono, per parte loro e in maniera pienamente autonoma,
scorgere in esse e, dunque, chiedono di essere studiate, con rigore, dalla
teologia: senza l ’esclusione degli altri apporti, ma anche senza confusione.
Comprendere i sacramenti come manifestazione della fede della Chiesa
non è, però, ancora il passo ultimo per il chiarimento della loro identità,
perché più radicalmente quell’atto di fede della Chiesa che «è» la celebra­
zione non rinvia a se stesso, ma al Signore di cui riconosce la graziosa inizia­
tiva. Quando la Chiesa celebra, celebra nella forza dello Spirito, ovvero ce­
lebra un dono che essa riceve dall’alto e nei cui confronti si pone in atteggia­
mento di obbediente e grata accoglienza. La piena confessione della fid es
E cclesiae ha la forma di un rito nato dall’istituzione del Signore, perché è la
confessione che la morte/risurrezione di Gesù non ha introdotto una spac­
catura incolmabile tra Gesù e i suoi, ma ha introdotto una nuova forma di
comunione, quella operata dallo Spirito effuso dal Crocifisso/Risorto: la for­
ma di comunione con il Signore che caratterizza il tempo intermedio fino al­
la fine della storia. Per questo la teologia sacramentaria adempie il suo com­
pito quando evidenzia, di là da ogni riduzionismo, il contenuto cristologico
dei sacramenti, ovvero quando mostra l’attualità della croce del Signore, che
non viene meno alla storia, ma invece le assicura la possibilità di configurarsi
secondo la fo rm a C hristi: per ogni uomo e per ogni tempo, grazie allo Spirito
che «fa» la memoria viva di Gesù.
Quelli che abbiamo offerto sono soltanto rapidi suggerimenti, che non
intendono chiudere la ricerca, bensì aprirla, ma presumono di farlo in altra
direzione, rispetto a quella percorsa dal dibattito recensito. L’intento del la­
voro non era, peraltro, quello di «risolvere» i problemi della sacramentaria
attuale, ma di «riconoscerli» e snidarli dalla latenza in cui giacciono, per
mostrare la «necessità» di riprendere un cammino, troppo rallentato da tor­
tuosità estranee e dall’imbocco di vicoli ciechi. Il che può essere convenien­
temente fatto a partire dalla considerazione della celebrazione dell’Eucari­
stia come luogo originario di comprensione del «sacramento» cristiano. La
nozione di «sacramento», infatti, è inevitabilmente astratta e riferibile solo
per analogia alle celebrazioni che costituiscono il settenario. Qualora si rico­
nosca nell’Eucaristia, secondo l’insegnamento della tradizione, il sacramento
«principale» della vita cristiana, nel duplice senso di sacramento «fonda-
mentale» e di sacramento che è all’«origine» dell’economia sacramentale, la
sacramentaria può ritrovare nella «celebrazione del sacrificio del Signore» il
centro focale della sua attenzione, da cui prendere le mosse per una più coe­
rente elaborazione.
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INDICE

Prefazione 5

Introduzione ^

Parte prima: IL DIBATTITO

1. AREATEDESCA ..‫־‬ 19
1.1. Prospettiva ecclesiologica: Schulte 22
1.2. Prospettiva antropologica 27
1.2.1. «Sacramento/simbolo» e «natura/corpo» 28
1.2.1.1. Ratzinger 29
1.2.1.2. Kasper 33
1.2.2. «Sacramento/simbolo» e«cultura/societá» 38
1.2.2.1. Schupp ; 39
1.2.2.2. Schaeffler 43
1.2.3. «Sacramento/simbolo» come «nozione-chiave» del trattato 48
1.2.3.1. Schneider 50
1.2.3.2. Vorgrimler 53
1.3. Prospettiva comunicativa 56
1.3.1. Hünermann 57
1.3.2. Ganoczy 61
1.3.3. Lies 64
1.4. Sguardo d'insieme sull’area tedesca 66

2. AREAFRANCESE 71
2.1. C henu 75
2.2. Didier.... 78
2.3. Chauvet 82
2.3.1. II piano dell’opera 84
2.3.2. Dal metafisico al simbolico 87
2.3.2.1. Oltrepassare la metafísica 87
2.3.2.2. L’ordine simbolico 88
2.3.2.3. Segno e símbolo 90
2.3.2.4. II ruolo del símbolo 91
2.3.3. L’ordine simbolico cristiano: la sacramentalitá ' 94
244 In dice

2.3.3.1. La strutturazione sacramentale della fede...................................... , 94


2.3.3.2. Il posto vacante e la Chiesa sacramento......................................... 96
2.3.3.3. I rapporti Scrittura/Sacramento e Sacramento/Etica e il funzio­
namento della struttura..... .............................................................. 98
2.3.4. I sacramenti, atti di simbolizzazione rituale.................................. 101
2.3.4.1. Mediazione antropologicamente insuperabile.............................. 101
2.3.4.2. Dialettica di istituente e istituito.................................................... 105
2.3.5. I sacramenti, figure simboliche della cancellazione di Dio.......... 108
2.4. Il dibattito aperto da Chauvet............................................................ 109
2.5. Sguardo d’insieme sull’area fran cese.................................................. 114
3. ALTRE AREE.................................................................... ........................... 117
3.1. Area italiana................................................... .................................. 117
3.1.1. La teologia sistematica...................................................................... 117
3.1.2. La teologia pratica.......... .................................................................. 120
3.2. Area spagnola..................................................................................... 125
3.3. Area anglo-nordamericana................................................................ 129
3.3.1. Van Roo............................................................................................. 132

4. BILANCIO.................................................................................................... 135

Parte seconda: I PROBLEMI

5. SACRAMENTO E SACRAMENTALITÀ..... ........................................ 145


5.1. I modelli............................................................................................. 147
5.1.1. Chauvet: «sacramentalità della fede».......................... ................... 147
5.1.2. Vorgrimler: «sacramentalità della rivelazione»............................... 152
5.1.3. Rahner: «sacramentalità della Chiesa» e «sacramentalità della Pa­
rola»................................................................................................... 155
5.1.4. Schillebeeckx: «sacramentalità di Gesù Cristo» e «sacramentalità
dell’incontro»................................................................................... 164
5.2. I problem i........................................................................................... 169

6. SACRAMENTO E SIMBOLO................................................................... 175


6.1. La motivazione culturale.................................................................... 176
6.2. La motivazione pastorale................................................................... 178
6.3. I precedenti: Casel e Rahner.............................................................. 181
6.4. Il presupposto: antropologia del simbolo........................................... 183
6.5. Dal simbolo al sacramento................................................................. 185
6.6. Il simbolo, variabile vaga.................................................................. 191

7. SACRAMENTO E RITO............................................................................ 195


7.1. La teologia secolarista e il rapporto rito-carità.................................. 196
7.2. La teologia liturgica e il rapporto rito-m istero.................................. 202
7.3. Chauvet e il rapporto rito-fede........................................................... 206
. 7.4. Problemi e prospettive....................................................................... 213
CONCLUSIONE

Bibliografía

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