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Alberto Fortis Viaggio in Dalmazia

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Alberto Fortis

Viaggio in Dalmazia

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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Viaggio in Dalmazia


AUTORE: Fortis, Alberto
TRADUTTORE:
CURATORE:
NOTE:

CODICE ISBN E-BOOK: n. d.

DIRITTI D’AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza


specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Alberto Fortis (1741-1803), Viaggio in


Dalmazia dell’Abate Alberto Fortis, in Venetia :
presso Alvise Milocco, all’Apolline, 1774. - 2 v. ;
4° ; vii + 384 p.; 22 cm. Incisioni di Giacomo
Leonardis.

CODICE ISBN FONTE: n. d.

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 20 luglio 2016

INDICE DI AFFIDABILITÀ: 1
0: affidabilità bassa

2
1: affidabilità standard
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima

SOGGETTO:
NAT030000 NATURA / Rocce e Minerali
TRV009040 VIAGGI / Europa / Generale
SCI030000 SCIENZA / Scienze della Terra / Geografia
SOC015000 SCIENZE SOCIALI / Geografia Umana

DIGITALIZZAZIONE:
Giovanni Mennella, [email protected]

REVISIONE:
Ruggero Volpes, [email protected]

IMPAGINAZIONE:
Giovanni Mennella, [email protected]
Ruggero Volpes, [email protected]

PUBBLICAZIONE:
Catia Righi, [email protected]

Informazioni sul "progetto Manuzio"


Il "progetto Manuzio" è una iniziativa
dell’associazione culturale Liber Liber. Aperto a
chiunque voglia collaborare, si pone come scopo la
pubblicazione e la diffusione gratuita di opere
letterarie in formato elettronico. Ulteriori
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3
NOTA PER L’EDIZIONE ELETTRONICA MANUZIO

Per meglio comprendere il testo, nella sua


trascrizione sono state adottate queste minime
modifiche:
- si sono apposte le note in progressione numerica
continuativa, anziché per lettere e con inizio a
ogni pagina, e si sono normalizzate alcune citazioni
bibliografiche;
- si è eliminato l’uso del maiuscoletto nel corpo
del testo, uniformandolo al carattere tondo o
corsivo;
- si è introdotta la lettera h iniziale nelle voci
del verbo “avere” che la prevedono;
- si è sostituita la numerazione arabica a quella
romana nell’indicazione delle date;
- si sono sciolte le abbreviazioni e sigle, quando
potevano venire fraintese;
- si sono effettuati limitati interventi di natura
fonetica e grammaticale, per lo più consistenti nel
separare due componenti costitutivi di un unico
termine (es.: benespesso = bene spesso);
- pur mantenendosi la punteggiatura originale, si è
conformato alle consuetudini moderne l’uso
dell’apostrofo, degli accenti e delle maiuscole, in
parte sulla base dell’edizione di confronto, che è
quella curata da E. Viani, Marsilio, Venezia, 2010;
- si sono riviste, corrette e normalizzate secondo
l’uso filologico attuale le citazioni in greco
antico;
- si è eliminato l’“errata corrige” a p. vii del
secondo volume nell’edizione a stampa, inserendosi
le correzioni direttamente nel contesto.
L’edizione riproduce l’originale del 1774, dal quale
riprendono tutte le proposte successive (vd. G.
Biancardi – C. Francese, Prime edizioni di scrittori
italiani, Milano 2004, p. 196).

4
Indice generale

Agl’illustrissimi, ed eccellentissimi signori Andrea Quirini, Girolamo Grimani,


Sebastiano Foscarini K.r senatori gravissimi, riformatori dello Studio di
Padova. Alberto Fortis......................................................................................10
A Sua Eccellenza il signor Jacopo Morosini patrizio veneto. DELLE
OSSERVAZIONI FATTE NEL CONTADO DI ZARA....................................14
§. 1. Dell’isole d’Ulbo, e Selve...................................................................16
§. 2. Dell’isola di Zapuntello.......................................................................19
§. 3. Dell’isola d’Uglian..............................................................................21
§. 4. Impasti marmorei, che la compongono...............................................23
§. 5. Della città di Zara................................................................................30
§. 6. Polledra ermafrodito............................................................................33
§. 7. Del livello del mare.............................................................................34
§. 8. Della città, e campagna di Nona..........................................................35
§. 9. Della campagna di Zara.......................................................................38
§. 10. Acquedotto di Trajano.......................................................................39
§. 11. Biograd, o Alba maritima..................................................................41
§. 12. Castello della Vrana..........................................................................43
§. 13. Del lago della Vrana, suo emissario, e pescagione...........................45
§. 14. Petrificazioni di Ceragne, Bencovaz, e Podluk.................................50
§. 15. Rovine d’Asseria, ora detta Podgraje................................................51
§. 16. Della manna di Coslovaz...................................................................55
§. 17. D’Ostrovizza.....................................................................................56
§. 18. Del rivo Bribirschiza, e di Morpolazza.............................................61
A Sua Eccellenza mylord Giovanni Stuart, Conte di Bute, ec. ec. ec. DE’
COSTUMI DE’ MORLACCHI........................................................................65
§. 1. Origine de’ Morlacchi.........................................................................66
§. 2. Etimologia di questo nome..................................................................68
§. 3. Origine diversa de’ Morlacchi dagli abitanti del litorale, dall’isole, e
anche fra loro...............................................................................................73
§. 4. Degli Haiduci......................................................................................75
§. 5. Virtù morali, e domestiche dei Morlacchi...........................................78
§. 6. Amicizie, e inimicizie.........................................................................83
§. 7. Talenti, ed arti......................................................................................86
§. 8. Superstizioni........................................................................................89

5
§. 9. Costume...............................................................................................93
§. 10. Vesti donnesche.................................................................................95
§. 11. Sponsali, gravidanze, parti................................................................98
§. 12. Cibi..................................................................................................110
§. 13. Utensili, e capanne; vestiti, ed armi.................................................113
§. 14. Musica, e poesia; danze, e giuochi..................................................117
§. 15. Medicina..........................................................................................123
§. 16. Funerali............................................................................................124
CANZONE DOLENTE DELLA NOBILE SPOSA D’ASAN AGÀ.............127
Argomento.................................................................................................127
Xalostna pjesanza Plemenite Asan-Aghinize............................................128
Canzone dolente della nobile sposa d’Asan Agà......................................133
Al chiarissimo signor cavaliere Antonio Vallisnieri p. p. di storia naturale
nell’Università di Padova. DEL CORSO DEL FIUME KERKA, IL TITIUS
DEGLI ANTICHI...........................................................................................137
§. 1. Delle vere sorgenti del fiume Kerka..................................................137
§. 2. De’ colli vulcanici, che si trovano fra la cascata di Topolye, e Knin.
...................................................................................................................141
§. 3. Di Knin, e de’ Monti Cavallo, e Verbnik...........................................143
§. 4. Delle acque, che confluiscono nella Kerka, e del corso di questo
fiume, sino al Monastero di S. Arcangelo.................................................146
§. 5. Delle rovine di Burnum.....................................................................149
§. 6. Corso del fiume sino alla caduta di Roschislap.................................152
§. 7. Corso della Kerka sino alla cascata di Scardona...............................157
§. 8. Della città di Scardona, e d’alcuni tratti d’antichi scrittori, attinenti
alla mineralogia della Dalmazia................................................................160
§. 9. Voci popolari in fatto di mineralogia dalmatina................................163
Al chiarissimo signor abbate Gabriello d.r Brunelli professor disegnato di
storia naturale nell’Istituto di Bologna. DEL CONTADO DI SIBENICO, O
SEBENICO.....................................................................................................167
§. 1. Del territorio, e della città di Sibenico..............................................168
§. 2. De’ letterati che nacquero, o fiorirono nel XVI secolo a Sibenico; e de’
pittori.........................................................................................................171
§. 3. Porto di Sibenico, e Lago scardonitano. Costumanze antiche..........184
§. 4. Pesca del lago, litografia, e produzioni subacquee del porto di
Sibenico.....................................................................................................190
§. 5. Villa, e vallone di Slosella.................................................................196
§. 6. Osservazioni su l’androsace..............................................................200
§. 7. Dello scoglietto di S. Stefano............................................................202

6
§. 8. Dell’isola di Morter...........................................................................203
§. 9. Di Tribohùn, Vodizze, Parvich, Zlarine, e Zuri.................................206
§. 10. De’ laghi di Zablachie, e di Morigne...............................................211
§. 11. Di Simoskoi, e Rogosniza...............................................................213
Al chiarissimo signor Gian-Giacopo Ferber, membro del Collegio
mineralogico di Svezia, socio di varie accademie, ec. DEL CONTADO DI
TRAÙ..............................................................................................................228
§. 1. Del distretto di Traù..........................................................................228
§. 2. Di Bossiglina, e della penisola Illide.................................................231
§. 3. Della città di Traù, e del marmo traguriense degli Antichi...............234
§. 4. Dell’isola di Bua................................................................................238
§. 5. Minera di pissasfalto.........................................................................245
§. 6. Delle patelle articolate.......................................................................250
§. 7. Del litorale di Traù verso Spalatro, e della pietra di Milo.................256
§. 8. Degl’insetti nocivi.............................................................................259
A Sua Eccellenza il signor Giovanni Strange ministro britannico presso la
Serenissima Repubblica di Venezia, membro della Società reale di Londra, e
d’altre celebri accademie d’Europa, ec. DEL CONTADO DI SPALATRO...261
§. 1. Descrizione degli strati, e filoni del promontorio Marian. Sbaglio del
Donati rilevato...........................................................................................263
§. 2. Del porto, della città, della storia letteraria di Spalatro.....................272
§. 3. Rovine di Salona...............................................................................277
§. 4. Della montagna di Clissa, e del Mossor............................................281
§. 5. Del paese abitato da’ Morlacchi fra Clissa, e Scign; della valle di
Luzzane, e del Gipàlovo Vrilo...................................................................284
§. 6. Della montagna Sutina, e luoghi aggiacenti......................................290
§. 7. Delle rovine d’Epezio, e de’ petrefatti che si trovano in que’ contorni.
...................................................................................................................292
Al chiarissimo signor Giovanni Marsili professore di botanica nell’Università
di Padova, membro della Società reale di Londra, ec. DEL CORSO DELLA
CETTINA, IL TILURUS DEGLI ANTICHI.................................................298
§. 1. Delle fonti della Cettina....................................................................299
§. 2. Viaggio sotterraneo...........................................................................301
§. 3. Pranzo morlacco in un sepolcreto......................................................311
§. 4. Pianura di Pascopoglie, Fonte salsa, isola d’Otok. Rovine della
Colonia Equense........................................................................................314
§. 5. Delle colline vulcaniche, e de’ laghi di Krin. Gesso di Scign...........318
§. 6. Della fortezza di Scign, e della campagna vicina..............................321
§. 7. Corso della Cettina fra’ precipizj; sue cateratte.................................324

7
§. 8. Corso della Cettina da Duare, sino alle foci......................................329
§. 9. Della provincia di Pogliza, e suo governo.........................................334
§. 10. Della città d’Almissa. Ingiustizia fatta dal padre Farlati a quegli
abitanti. Errori geografici dello stesso.......................................................338
§. 11. Della muraglia naturale di Rogosniza, e della Vrullia, il Peguntium
degli Antichi..............................................................................................342
§. 12. Della paklara, o remora de’ Latini...................................................345
A Sua Eccellenza mylord Federico Hervey vescovo di Londonderry, pari
d’Irlanda, ec. ec. DEL PRIMORIE, O SIA REGIONE PARATALASSIA
DEGLI ANTICHI...........................................................................................349
§. 1. Della città di Macarska......................................................................350
§. 2. Del monte Biocova, o Biocovo, che domina Macarska....................356
§. 3. Delle meteore del Primorie...............................................................359
§. 4. Del mare che bagna il Primorie; del suo livello; della pesca............364
§. 5. De’ luoghi abitati lungo il litorale del Primorie a ponente, e a levante
di Macarska...............................................................................................378
§. 6. Delle voragini di Coccorich; de’ laghi di Rastok, di Jezero, di Desna; e
del fiume Trebisat......................................................................................392
§. 7. De’ fiumi Norin, e Narenta, e della pianura allagata da essi.............399
Al chiarissimo signor abbate Lazzero Spallanzani pubblico professore di storia
naturale nell’Università di Pavia, membro della Società reale di Londra,
dell’Istituto di Bologna, e d’altre celebri accademie d’Europa. DELL’ISOLE
DI LISSA, PELAGOSA, LESINA, E BRAZZA NEL MARE DALMATICO, E
DELL’ISOLA D’ARBE NEL QUARNARO..................................................413
§. 1. Dell’isole Lissa, e Pelagosa...............................................................414
§. 2. Dell’isola di Lesina...........................................................................424
§. 3. Dell’isola di Brazza...........................................................................436
§. 4. Dell’isola d’Arbe, nel Golfo del Quarnaro........................................443

8
VIAGGIO
IN

DALMAZIA
DELL’
ABATE ALBERTO FORTIS.

____________________________________
… Modò exustione, modò eluvione terrarum
diuturnitati rerum intercedit occasus.
M A C R O B . in Somn. Scip. L. 2. c. 10.
____________________________________

V O LU M E P R IM O .

IN VENEZIA.
PRESSO ALVISE MILOCCO, ALL’APOLLINE.
_________________________
MDCCLXXIV.

9
AGL’ILLUSTRISSIMI,
ED ECCELLENTISSIMI SIGNORI

ANDREA QUIRINI,
GIROLAMO GRIMANI,
SEBASTIANO FOSCARINI K. R

SENATORI GRAVISSIMI,
RIFORMATORI
DELLO STUDIO DI PADOVA.

Alberto Fortis.

I o avea di già scorso parte della Dalmazia,


profittando della dotta compagnia
ragguardevolissimo personaggio straniero, e mi
d’un

accingeva a passare in più rimote contrade spinto dal


desiderio d’acquistar nuovi lumi, quando l’elevato
genio [VI] dell’amplissimo senatore signor Giovanni
Ruzini fervidamente promosse una mia seconda
spedizione in quel regno, sull’esempio delle tanto
moltiplicate e sostenute dai più illuminati sovrani
dell’età nostra. Prestaronsi a favorirla con generosa
efficacia il Nobil Uomo signor Filippo Farsetti,
celeberrimo protettore delle scienze, e dell’arti, tanto
della sua stessa celebrità, quanto d’ogni elogio
trascendentemente maggiore, e il Nobil Uomo signor
conte Carlo Zenobio, pelle signorili doti dell’animo,

10
pella coltura dello spirito, pella dolcezza delle maniere,
e pell’aurea modestia, ch’egli in superior modo fa unire
alla grandezza, da qualunque ordine di persone riverito
ed amato. I risultati del viaggio eseguito sotto auspicj sì
fortunati formano l’opera, che ardisco d’offerire alla
sapienza dell’Eccellentissimo Magistrato, dal di cui
zelo sono protetti ed incoraggiti gli studj utili ne’
felicissimi stati del veneto dominio. Sicuro di non avere
risparmiato insistenza o sfuggito disagio per
corrispondere all’oggetto della mia missione, io mi
sento animato dalla speranza, che l’Eccellenze Vostre
sieno per accogliere benignamente l’omaggio d’un
divoto suddito, quantunque la debolezza dell’ingegno, e
la scarsezza delle cognizioni possano per avventura
averlo reso meno perfetto di quello che farebbe d’uopo
egli fosse per comparire degnamente dinanzi a Loro. Se
dalla pubblicazione di questa fatica mia non altro
vantaggio [VII] presentaneo si ottenesse che la
sostituzione de’ marmi dalmatini (de’ quali servivansi
pell’architettura non meno, che pegli usi più nobili
della statuaria i Romani) a quelli, che a caro ed
oggimai indiscreto prezzo annualmente ci vendono i
forastieri, io stimerei che i miei nobilissimi mecenati
potessero sentire la compiacenza d’aver reso nella
scoperta di quelle antiche lapicidine un servigio non
lieve alla nazione. Che se poi dagli esami diligenti
intorno all’indole e allo stato attuale de’ laghi, delle
paludi, de’ fiumi; dalle notizie de’ prodotti naturali di
quel vasto paese, e dalle indicazioni tendenti ad
11
aumentarli, a migliorarli, a renderli più utili allo Stato;
dalla scoperta di qualche nuova cosa, che sfuggì sinora
alle ricerche de’ naturalisti, ne derivassero de’ vantaggi
sensibili al pubblico patrimonio, al commercio
nazionale, ed alle arti, allora i generosi promotori della
mia spedizione goderebbero con incontrastabile titolo
la qualificazione d’ottimi patrioti, ed io gusterei
pienamente della interna contentezza che inonda
l’anima del suddito utile, a cui ben più che alla fama
d’erudito e scienziato deve ogni bennato uomo aspirare.
La clemenza, e la protezione autorevole
dell’Eccellenze Vostre, ch’io imploro col più vivo
sentimento di rispettosa fiducia, potranno sole
condurmi a tanto bene, ed animare in me vie
maggiormente il desiderio [VIII] di penetrare con viste
di pubblica utilità, ne’ segreti della scienza naturale, da
tutta l’Europa colta riconosciuta a’ dì nostri dopo
replicate sperienze come la meno disputatrice ed
incerta, e per conseguenza la più direttamente
vantaggiosa d’ogn’altra. [1]

12
13
A Sua Eccellenza il signor
Jacopo Morosini
patrizio veneto.

DELLE OSSERVAZIONI FATTE NEL


CONTADO DI ZARA.

L a lontananza da Venezia privandomi dell’onore


d’esserle vicino sovente, e togliendomi
pell’interposto mare il modo d’inviarle con sicurezza
frequentemente nuove di me, non farà già ch’io tralasci
di scriverle. Assai tardi Vostra Eccellenza probabilmente
avrà questa mia lettera: ma io sono ben certo, che in
qualunque tempo le giunga sarà benignamente accolta,
mercé di quella bontà, cui Ella degnasi d’avere per me,
e di quel trasporto, col quale usa ricevere tutte le notizie,
che tendono a dilatare i progressi della scienza naturale.
Io mi sono prefisso di render conto delle varie
osservazioni, che ho di già fatte, e di quelle, che sarò per
fare d’ora innanzi nelle mie peregrinazioni, intraprese
sotto gli auspicj di nobilissimi mecenati patrizj, a quel
picciolo numero d’illustri amatori, o di celebri
professori, co’ quali mi tiene in corrispondenza il
vincolo fortissimo degli studj comuni. L’incominciare
dallo scriverne a Lei mi sembra un tanto più preciso
dovere, quanto che i coltivatori della buona, ed utile
scienza de’ fatti, e le produzioni così belle, e varie della

14
natura (in un secolo di tanta luce pel resto dell’Europa)
dispregiate, e pur troppo mal conosciute fra noi, [2]
unicamente presso l’Eccellenza Vostra ritrovano
buon’accoglienza, e ricetto.
Io dividerò le mie lettere ora seguendo la separazione
topografica dei distretti, ora il corso de’ fiumi, ora il
circuito dell’isole, ora la natura ed analogia delle
materie. L’estensione della Dalmazia veneta è troppo
vasta, il numero dell’isole di questo mare troppo
considerabile, perché da brevi peregrinazioni qualche
cosa di completo possano aspettare i naturalisti.
V’hanno degli uomini audaci, che trasportati da uno
sconsigliato fervore di giovinezza, e persuasi di poter
imporre al mondo letterario, promettono di dare in pochi
mesi la botanica, la zoologia, e l’orittografia delle più
vaste provincie: ma chi è usato a contemplare con
filosofica posatezza la varietà immensa delle cose
intende pur troppo bene, che non basta la vita d’un
uomo solo (ed abbia pur egli ajuti generosi) a tessere la
completa storia naturale della più picciola isola, o del
territorio più angusto. Un’acqua minerale, una vasta, e
diramata caverna, il corso d’un fiume con tutte le acque
influenti, ricercano lunghissime osservazioni innanzi
che si possa di loro espressamente trattare. E come non
le ricercherebbono, se gli abitanti subacquei del più
picciolo seno di mare, anzi un solo di essi, una pianta,
un insetto, di cui si vogliano appieno conoscere le
trasformazioni e le proprietà, puote occupare per mesi
ed anni talvolta un oculato naturalista, prima di lasciarsi
15
conoscere a perfezione? Chi non diverrebbe modesto e
tardo, sapendo che quanto Swammerdam, Reaumur,
Maraldi, e tanti altri uomini celeberrimi hanno osservato
intorno alle api resta convinto di poca esattezza dopo le
recenti osservazioni di Mr. Schirach? Vostra Eccellenza,
che ben conosce le asprezze, e l’ampiezza del campo, in
cui sudano [3] i naturalisti, voglia difendermi dalle voci
indiscrete de’ non-conoscitori di questa scienza, che pur
talvolta l’osservatore taciturno, e raccolto in se stesso
importunano latrando, come i fastidiosi cani usano di
fare contro chi va pe’ fatti suoi, senza pensare a recar
loro molestia. Vitaliano Donati, dopo parecchi anni di
viaggi dalmatici, non ebbe il coraggio di pubblicare se
non che un Saggio di storia naturale dell’Adriatico; il
grande Hallero dopo lunghe peregrinazioni pell’Alpi
Svizzere, diè un luminoso esempio di modestia
pubblicando un Catalogo incominciato delle piante
elvetiche; or che dovrassi pretendere ed aspettare da me,
che dinanzi a questi sommi uomini trovomi d’essere un
insetto invisibile?

§. 1. Dell’isole d’Ulbo, e Selve.


Varcato quel tratto di mare, che dai nostri naviganti, e
da’ geografi è conosciuto sotto il nome di Quarnaro, le
prime isolette, dove io ho approdato, furono le due
contigue d’Ulbo, e di Selve, fra le quali sogliono
passare i legni minori diretti da Venezia a Zara. Esse
probabilmente sono quelle medesime, che da Costantino

16
Porfirogenito1 trovansi annoverate fra le deserte co’
nomi al di lui solito stroppiati d’Aloep, e Selbo.
L’opportunità della situazione, in cui trovansi, fa che a’
tempi nostri sieno abitate, e coltivate anche più che non
merita lo scarso, ed ingrato loro terreno. Gli abitatori vi
hanno che fare con un fondo arido, e petroso, in cui gli
ulivi mal volentieri allignano, e le viti producono poco
buon frutto; di grano [4] fanno sì miserabile raccolta,
che non giova parlarne. La pietra dominante vi è della
pasta di marmo compatto, biancastro, ch’è, come sa
Vostra Eccellenza, estesa anche molto ampiamente pe’
monti più alti dell’Italia, che guardano il Mediterraneo,
e segnatamente a Piperno, a Terracina, e presso le reali
delizie di Caserta ritrovasi. Io non so se facendo il giro
del golfo fra l’Italia nostra, e l’Istria si ritrovasse pelle
altezze del Friuli, non essendomi sino ad ora accaduto di
viaggiare per quelle contrade, né (per quanto mi si fa
credere) avendovi molti amatori dichiarati l’orittografia.
N’è però composta per la maggior parte la penisola
dell’Istria, e regna questa spezie d’impasto pell’isole
intermedie, mostrando una contemporaneità d’origine
coi monti litorali, e mediterranei, ne’ quali si veggono
del marmo medesimo vaste stratificazioni, quantunque
bene spesso fuor della giacitura loro naturale, e
interrotte. Noi lo abbiamo comunemente sotto gli occhi,
pel grand’uso, che se ne fa nelle fabbriche di Venezia; e
mi pare che convenga col calcareo, solido, di particelle

1 Cost. Porph., de Themat. Imp. Them. Dalm. c. 29.


17
impalpabili, e indistinte del Wallerio2. L’apparenza di
questo marmo è silicea, particolarmente nella frattura,
rompendosi egli sotto il martello in ischeggie concavo-
convesse come le focaje usano di fare. Tardi si lascia
attaccare dagli acidi artefatti; e non v’è che l’aria con
quelli, cui porta seco sovente, che rendane in lungo giro
d’anni la superficie scabrosa, e lasci distinguere i
corpicelli [5] triturati, ond’egli è composto. Sull’umile
isoletta d’Ulbo io ho raccolto de’ curiosi esemplari di
pietra ostracitica. I guscj delle ostriche vi si trovano
orizzontalmente disposti l’uno sopra l’altro; la lunga età
né li calcinò, né li petrificò. Essi conservano la
lucentezza loro naturale, e si rompono in isquame
laminose a un di presso come fanno quelli, che di fresco
sono tratti dal mare. Non sono però que’ guscj spoglie
d’abitanti delle nostre acque, che non producono
ostraciti così lunghe e scannellate: ma sembrano
abbandonati colà da quel rimoto oceano, de’ di cui
testacei formaronsi i vasti strati di pietra calcarea
differentemente impastati, che compongono tuttora
l’ossatura dell’isole di Dalmazia, piccioli, e miserabili
avanzi d’antiche terre squarciate da’ fiumi, corrose da’
sotterranei torrenti, scombussolate da’ tremuoti,
capovolte da’ vulcani, e finalmente allagate dal nuovo

2 Calcareus solidus, particulis impalpabilibus, et indistinctis.


Wall. §. 41. 1.
Lapis calcareus particulis impalpabilibus. Cronstedt 7.
Calculus litoralis. Dioscorid. Cæsalp. Encel.
Pierre à chaux compacte. Bomare 149. 105.
18
mare. Io ho dato a questo aggregato il nome di pietra
calcarea scissile, spatosa, alternativamente composta di
trituramenti marini, e d’ostraciti piane, scannellate,
esotiche. Fra le fenditure degli strati, e nelle picciole
caverne, che vi si trovano bene spesso, è frequente cosa
l’incontrare delle grosse incrostazioni, e gruppi di
qualche mole. Queste rassomigliano identicamente al
marmo dolce, stalattitico, colorato, a fascie
serpeggianti, cui gli scalpellini nostri conoscono sotto il
nome d’alabastro di Corfù. Sull’isola di Selve non ebbi
campo di fare osservazioni d’alcuna sorte; il vento, e la
pioggia burrascosa, che mi vi avea spinto, m’impedì
anche una breve escursione. È probabile, che le pietre
non vi siano differenti da quelle d’Ulbo. Entrambe
queste isolette godono d’aria salubre; non hanno però
acqua buona, e sentono troppo da ogni lato i venti, non
avendo eminenze, che le difendano. Selve abbonda di
popolo addetto alla navigazione, e di greggie. [6]

§. 2. Dell’isola di Zapuntello.
L’ostinazione del vento burrascoso mi cacciò a forza
in un seno dell’isola di Zapuntello, dopo ch’ebbi salpato
da Selve. L’isola è poco abitata in proporzione della sua
estensione, quantunque v’abbiano tre ville, da una delle
quali riceve il nome. Chiamasi anche Melada per la
ragione medesima; e non è da dubitare, che sia la
nominata Meleta dal Porfirogenito3 fra le deserte del

3 Cost. Porph. l. cit.


19
mar di Zara. Io non mi sono colà fermato lungamente:
ma anche la breve dimora mi vi fece osservare delle
curiosità fossili. Vi raccolsi de’ grossi pezzi di pietra
forte, ripieni d’una spezie incognita di lapidefatti
appartenenti alla classe degli ortocerati, de’ quali mi
riservo a far parola in altro luogo più diffusamente. Ma
la più bella produzione fossile di Zapuntello si è una
pietra calcarea bianchissima, che ha durezza quasi
marmorea, benché apparisca farinosa nella frattura. In
essa trovansi delle impressioni di lavori petrosi, arborei,
degl’insetti marini. Sembra che nella fanghiglia
indurata, ond’ebbe questa spezie di pietra l’origine,
varie spezie di madrepore, e coralline sien rimaste
sepolte; l’acido, che le distrusse, vi lasciò vuoto o al più
tinto d’ocra ferruginosa il luogo, che occupavano, per
modo che dall’impressione, che ne rimane, si può
agevolmente giudicare della cosa distrutta. L’arena
marina di quel porto è popolata di piccioli nicchi
microscopici del genere de’ nautili, e corna d’Ammone,
le figure de’ quali trovansi nell’opera del celebre [7]
Giano Planco4 Delle conchiglie men conosciute, ch’egli
ebbe il merito di scoprire il primo nelle arene del nostro
mare. Io avrei voluto tentare di far un’appendice alle
oculatissime osservazioni di lui sottoponendo al
microscopio acquatico questi piccioli viventi appena
estratti dal mare, onde veder se fosse possibile il sapere
qualche cosa di più intorno alla struttura particolarmente
dell’abitante di quella conca politalamia, che chiamasi
4 Jani Planci Ariminensis etc. De conchis minus notis. Tab. I.
20
corno d’Ammone; non rimanendo alcun dubbio, che la
sola differenza fra le maritime del naturalista riminese, e
le montano-fossili, consista unicamente nella varietà
della mole.

§. 3. Dell’isola d’Uglian.
Il primo luogo, dov’io mi fermai di proposito per fare
qualche osservazione, si fu l’isola d’Uglian nel canale di
Zara. Io vi restai otto giorni, esaminandone i colli
petrosi, vagando poco utilmente in cerca di nuove cose
lungo le rive del mare, ed occupandomi del cinguettare
alla meglio qualche parola d’una lingua, il di cui uso
m’era divenuto necessario. I dolci costumi di que’
poveri isolani mi rendevano cara quella solitudine, a cui
m’aveva condotto l’abituale melanconia, che forma
oggimai il fondo del mio carattere. Io avrei voluto
potermivi fermare lungamente; e lo avrei fatto, se
l’incommoda combinazione d’esser male accompagnato
non mi avesse quasi a forza costretto a pensar altrimenti.
L’isola è feconda produttrice d’ogni cosa, quando i
coltivatori scelgano opportunamente le situazioni, cui
destinano [8] alle varie spezie di semi, o di piante.
Ell’ha però un guai comune a quasi tutte l’isole di
questo arcipelago illirico; l’acqua vi manca, e se ne
risentono pur troppo sovente nella calda stagione i
poveri abitatori, che veggono inaridire le loro speranze,
e sono costretti a portarsi l’acqua da lontani luoghi, o a
berne di pessima, e mal conservata in pozzanghere.
Il vestito degli abitanti dell’isole soggette a Zara è
21
22
molto dissimile da quello de’ contadini nostrali, e
s’accosta più a quello, che usano i coltivatori delle terre
del continente vicino. Le donne però, e le fanciulle in
particolare, hanno una sorte di vesti, e d’ornamenti assai
vagamente ricamati. Io ho creduto che meritassero
l’applicazione del mio disegnatore. (Tav. I.)
Sull’isola d’Uglian, presso alla maritima villetta di
Cale, ha voluto combattere colla natura, e vincerla il
signor T.C. conte di Therry, che a dispetto della
marmorea ossatura del colle, riuscì a farvi delle ortaglie
col metodo italiano. Gl’insetti fannogli una guerra
atrocissima; e, ad onta dell’attenzione, ch’ei vi fa usare,
gli devastano pur troppo spesso i prodotti. A quelli, che
volano pell’aria, si uniscono le lumache, delle quali io
non ho mai veduto altrove così prodigiosa quantità. Vi
avrebbe trovato da soddisfarsi quel Fulvio Irpino, che il
primo fece vivaj di lumache nella campagna tarquiniese.
Io non so se nell’isola d’Uglian crescano alla maggiore
grandezza come a detta di Plinio ne’ di lui vivaj
facevano le lumache illiriche5. Ma è probabile che se vi
si lasciassero propagare, e vivere tranquillamente la loro
mole corrisponderebbe alla fecondità. [9]

§. 4. Impasti marmorei, che la compongono.


Varie spezie di pietra formano l’ossatura d’Uglian, e
degl’isolotti vicini: ma si possono ridurre a quattro
principali. Il più basso strato è marmoreo, con

5 Plin. lib. IX. cap. 56.


23
un’infinità di corpi estranei ceratomorfi, cristallizzati in
ispato bianco, calcareo. Questi corpi non sono tutti
simili di mole, e di configurazione, quantunque siano
tutti fistolosi, e recurvi. Alcuni esemplari, ch’io ne
conservo, corrispondono alla descrizione
dell’helmintholitus nautili orthoceræ del signor Linneo6.
Il celeberrimo naturalista crede senza dubbio abitante
de’ fondi del Baltico l’originale marino di questa
petrificazione (d’onde non fu però mai tratto vivo, né in
istato testaceo), condotto a ciò dal trovarla
frequentissima nel marmo da lui detto stratario, cioè
usato ne’ pavimenti delle strade di molte provincie a
quel mare aggiacenti. Sembra, che il dottissimo uomo
siasi dimenticato questa volta delle tante spezie di piante
esotiche, de’ corpi marini stranieri, e delle ossa
d’animali terrestri, che si trovano lapidefatte nelle
viscere de’ monti d’Europa, né mai si rinvengono in
istato naturale pe’ nostri mari. Io posso impegnarmi, che
nell’Adriatico non vivono gli ortocerati, i quali pur sono
petrificati nel marmo dell’isole, e del continente di
Dalmazia; i pescatori di coralli ne hanno scopato il
fondo quanto basta per farci sapere, che non vi abitano
spezie di viventi assai propagate, delle quali ci restino
tuttora incogniti gl’individui. Ho [10] fatto disegnare
varj pezzi di questo marmo, ne’ quali veggonsi
prominenti gli ortocerati; e descriverò più minutamente
6 Linn. Syst. Nat. t. III. p. 162. ed. 1768. Habitat sine dubio in
abysso maris Balthici, deperditus; petrificatus nobis
frequentissimus in marmore stratario etc.
24
i corpi presivi dentro, quando farò parola dell’isoletta,
su di cui ho raccolto i più interessanti. Voi troverete
certamente, Eccellentissimo Signore, che fa una strana
sensazione al galantuomo quell’asseverante sine dubio,
non appoggiato a veruna prova di fatto, e contraddetto
poi immediatamente da quel deperditus; e quindi non
vorrete condannarmi, se mi sono emancipato fino al dir
contro un celeberrimo uomo, riverito meritamente dalla
maggior parte dei coltivatori della scienza naturale.
La seconda spezie di marmo d’Uglian, analoga alla
pietra ostreifera d’Ulbo, contiene gran quantità
d’ostraciti conservatissime, e riconoscibili, ma non
separabili agevolmente dalla troppo resistente pasta
lapidosa, in cui stanno prese; si lasciano particolarmente
vedere sulla superfizie di que’ pezzi di marmo, che sono
stati lungamente esposti all’azione dell’aria, e delle
pioggie. Tanto quel primo, ch’è composto d’ortocerati,
quanto questo ostreifero sono di color bianco, ma rigidi,
e intrattabili dallo scalpello di chi volesse trarne lavoro
men che grossolano. Sarebbe più atto a prender forma
sotto l’artefice il terzo, ch’è assai compatto, e ritiene
bensì corpi marini, ma così infranti, o così compenetrati
dalla sostanza lapidosa, che non si ponno per ignun
modo sconnettere. Le sommità de’ colli d’Uglian sono
di marmo calcareo, compatto, di parti impalpabili,
istriano, dalmatino, o apennino che dir si voglia, da che
l’impasto medesimo descritto più addietro come
dominante in Ulbo, a vicenda colle breccie domina su le
altezze di tutte queste provincie, e in Italia. Il Donati,
25
descrivendolo meno esattamente che il Linneo, lo
chiama marmo opaco, di grana uniforme, di colore
biancastro, ed [11] ha creduto che fosse il traguriense
degli antichi, non so quanto bene apponendosi7.
Ho per la prima volta veduto su di quest’isola una
curiosa spezie di kermes (se pur questo nome può
convenirgli, e piuttosto non si dee formarne un nuovo
genere) sul fico, e non risovvenendomi d’aver letto
alcuno autore, che l’abbia descritta, né d’averne veduto
la figura ne’ libri classici d’insettologia, l’ho voluta far
disegnare. Questo insetto è differentissimo dal faux-
puceron del signor di Reaumur, che non si è mai lasciato
trovare da me su’ fichi della Dalmazia. Osservi
l’Eccellenza Vostra il ramoscello di fico, (Tav. I, Fig.
A.) su di cui stanno attaccate le galle, se pur con tal
nome ponno esser senza improprietà chiamate queste
crisalidi singolarissime. Egli non è de’ più carichi; v’ha
tale albero, i di cui rami minori tutti ne sono così
eccessivamente coperti, che rassomigliano a un
vajuoloso pieno di pustole accavallate. La Figura B.
mostra la galla alcun poco ingrandita; ella è per certo
uno de’ più eleganti lavori, che l’insettologia possa
offerire a’ curiosi. La sua cupola è striata, ma così
minutamente, che non perde punto della levigatezza se
sia guardata coll’occhio nudo. La sommità di essa è
costantemente adornata da una papilla, che ricorda
quelle, nelle quali stanno incastrate le spine degli echini.
La parte inferiore intorno alla base è circondata da otto
7 Donati Saggio d’istoria naturale dell’Adriatico p. VIII.
26
papille, quasi del tutto simili alla superiore, che
corrispondono ad altrettanti fermagli, co’ quali si è da
prima attaccato per disotto l’animaluzzo alla corteccia.
La grandezza di queste galle è inuguale; ve n’hanno di
quelle, che restano meschine, [12] e malfatte, per essersi
fermato l’animaletto, dal quale tranno l’origine, troppo
vicino a due o tre altri, che hanno succhiato il latte della
corteccia, col mezzo del quale anch’elleno dovean
crescere. Non è da mettere in dubbio, che dall’umore
lattiginoso del fico, elaborato pe’ vasi del trasformato
animaluzzo, non prenda giornaliero accrescimento la
galla; da che se per qualche disavventura esteriore ella
venga guasta alcun poco, si riproduce la parte offesa
facilmente, come usano di fare i guscj delle lumache.
Questa particolarità sola par che possa bastare a
costituirne un nuovo genere8. La sostanza del di lei
guscio è un cerume, o lacca, molto analoga al latte

8 Parecchi scrittori non ignobili, fra’ quali Garzia dall’Orto,


Bonzio, Montano, Amato Lusitano, e Tavernier hanno
asserito, che la lacca della China, del Giappone, e del Pegu sia
tratta dall’albero dettovi fanoski, o namra da una spezie di
formiche alate. Potrebb’esser vero in parte, se non del tutto;
da che un insetto più minuto, e debole può estrarre un cerume
dal fico. Il Cleyero fin dal 1685. stando a Nangasaki scrisse al
Mentzelio che questa era una favola, e che la lacca traeasi
unicamente per incisione: ma fors’egli non avea potuto
prender tutti i lumi necessarj. V. Garziae ab Horto Hist. arom.
l. 1. c. 8; Jacobi Bontii Medic. Ind. Arnoldi Montani Hist.
Legat. Batav. Soc. Ind. Orient. ad Imp. Japon. Amati Lusitani
in Dioscorid. l. 1. Tavernier p. 2. l. 2.
27
seccato dell’albero, su di cui nasce, e propagasi. Non si
potevano distinguere le parti dell’animale, allora quando
io l’osservai pella prima volta sull’isola d’Uglian, e ne
feci raccogliere buona quantità; in tutte le galle, ch’io
volli esaminare allora, trovai una sostanza mocciosa, di
colore sanguigno, che tingeva di bellissimo rosso le dita.
Ne portai a Zara nel mese di giugno un gran cartoccio: e
da una picciola porzione di esso ritrassi per la via
semplice [13] della decozione un cerume di color
incarnato; l’acqua, in cui bollirono le galle, restò tinta di
rosso-giallognolo.
Io ne serbava parecchie da me staccate con diligenza,
senza ferire l’animale nascostovi, in uno scatolino, cui
per varj giorni non badai punto, distratto da altre
occupazioni. All’aprirlo trovai con mia sorpresa, che
n’erano usciti innumerabili granellini rossi, i quali
esaminati sotto ’l microscopio mi si fecero conoscere
per ova allungate a somiglianza dei boccioli de’ bachi da
seta. Niun vestigio di verme, o di mosca rinvenni nella
scatola; né sospetto che potessero esserne usciti mi poté
venire, perch’ella chiudevasi esattamente a vite. Riposi,
avendola prima diligentemente chiusa, la mia scatoletta;
e quattro o sei giorni dopo, riapertala, vidi un
innumerabile esercito d’animaluzzi rossi, che da prima
mi parvero aver ali bianche, ma che poi esaminati colle
lenti mi si fecero conoscere apteri, da sei piedi, e non
ancora del tutto liberi dal guscio dell’ovo, cui portavano
sulla schiena, in guisa d’ale sollevate, ed unite. Io li
rinserrai nella loro prigione, dove morirono in pochi
28
giorni di fame. Non si trovavano nelle campagne de’
contorni di Zara fichi popolati da quest’insetti; e quindi
rinunziai al desiderio di veder più oltre. Poco tempo
dopo ne rinvenni sull’isola della Brazza, e in molte
galle, o crisalidi sorpresi un verme, che mi fe’ girare il
cervello: ma dopo d’avervi ben pensato, io pendetti a
crederlo un usurpatore, anzi che un abitator naturale
della casa. E vie più in questa opinione mi confermai
allora quando mi venne fatto di trovare gl’insettini rossi
erranti pe’ rami, indi mezzo istupiditi, e strettamente
aderenti alla corteccia. Io mi prometto di riosservarli
diligentemente, se mi si presenteranno di nuovo in
opportuna stagione. E tanto più mi cresce la voglia di
farlo, [14] quanto che quelle ova rosse hanno di molta
rassomiglianza colla grana del kermes tintorio. Io spero,
che stiacciandole, e riunendole in massa prima che
sbuccino, o dagli animaluzzi uccisi appena sbucciati si
avrà una pasta da farne qualche cosa di ragionevole. Il
Quinquerano, cent’ottant’anni sono, scrisse della grana
del kermes circostanze, che molto convengono a questa
nuova grana del fico9.
9 Has autem baccas quando vident in vermiculos abire velle
illos aceto, vel aqua frigidissima ex puteo adspergunt, et in
loco tepido supra fornacem, seu in sole lente exsiccant, donec
moriantur. Aliquando animalcula ista a vesiculis relictis
segregant, et extremitatibus digitorum leniter
comprehendendo in pilam, seu massam rotundam efformant,
quæ multo pretiosior est granis, et ideo majori pretio a
mercatoribus emitur. Quinqueran. ap. Cestonium in Ep. mss.
ad Vallisnerium Seniorem. Dove si dee notare, che le voci
29
Non è antica, né costante questa malattia de’ fichi
pell’isole, e lidi della Dalmazia. Se ’l verno freddo più
dell’usato si faccia sentire in qualche distretto, il paese
resta per quell’anno quasi totalmente libero
dagl’incomodi insetti, che fanno un vero danno alla
provincia, dove i fichi formano un importante capo di
commercio. L’albero, di cui questa genìa s’è
impossessata, porta insipidi, e schifosi frutti, perché
ricoperti anch’essi, come le foglie, e i rami, della nuova
generazione resavisi di già immobile, e sepolta sotto la
sua spoglia di lacca.
Quando però gli alberi abbiano sofferto per due, o tre
anni di seguito questa peste, la corteccia annerita, e tutta
cariosa si distacca dai rami, che infracidiscono; l’aspetto
loro è squallido anche nel fine di primavera, e [15]
finalmente il fracidume dall’estremità propagandosi
sino alle principali diramazioni, il tronco medesimo ne
resta offeso, e perisce10.

vermis, e vermiculus usavansi frequentemente in quel tempo


per indicare un insetto qualunque.
10 Nel mese di settembre 1773., vale a dire un anno dopo, ch’io
avea scritto queste osservazioni, ritornato a Zara non trovai
su’ fichi de’ contorni vestigio alcuno dell’insetto. Così lo
cercai indarno sull’isole di Cherso, d’Ossero, di Veglia,
d’Arbe, e di Pago. Communicai quel poco, ch’io ne ho
osservato, al celeberrimo naturalista sig. Carlo Bonnet, e
questo illustre amico mi anima a proseguirne l’esame, come di
cosa interessantissima pell’insettologia non meno che per le
arti.
30
§. 5. Della città di Zara.
Zara, detta Jadera da’ Latini, e Diadora ne’ bassi
tempi, ch’era una volta la capitale della Liburnia, vale a
dire della gran penisola, che sporge in mare fra i due
fiumi Tedanio, e Tizio, ora conosciuti sotto i nomi di
Zermagna, e di Kerka, dopo la decadenza dell’Impero
romano è divenuta la capitale di una più estesa
provincia. Il tempo, che ha fatto perdere sino alle
vestigia della maggior parte delle città liburniche, ha
sempre rispettato questa. Ella gode attualmente di tutto
lo splendore, che può convenire a una città suddita; e
probabilmente ha guadagnato col girare de’ secoli in
vece di perdere. La società di Zara è tanto colta quanto
si può desiderarla in qualunque ragguardevole città
d’Italia; né vi mancarono in verun tempo uomini distinti
nelle lettere. Federico Grisogono, che visse nel bel
mezzo del XVI. Secolo, pubblicò un Discorso sopra le
cause del flusso, e riflusso del mare, attribuendolo alla
pressione del sole, e della luna. Gianpaolo Gallucci,
saloense inserì per intero questo trattatello [16] nella sua
opera intitolata Theatrum Mundi et Temporis, traendolo
dal libro medico, in cui l’avea posto l’autore. Simone
Gliubavaz, gentiluomo zaratino, lasciò molte preziose
carte tendenti ad illustrare la nobile sua patria, e l’ampio
territorio, ch’ella possiede. Restaci di questo
valentuomo un opuscolo manoscritto inedito, che
illustra tutte le iscrizioni zaratine, ch’erano state
disotterrate sino alla metà del XVII secolo. Fra quelli,

31
che attualmente vi abitano, meritano distinta menzione
l’amabile, e coltissimo signor conte Gregorio Stratico, e
il signor Domenico Balio, taciturno, modesto, e forse
troppo lucifugo gentiluomo, dalla onestà, cortesia, e
sapere de’ quali gran vantaggi può ritrarre il viaggiatore.
Delle antiche fabbriche romane, che l’adornavano,
miserabili vestigj vi si conoscono appena; le
fortificazioni moderne essendovi state fatte a spese degli
antichi rimasugli. Troverà Vostra Eccellenza
agevolmente ne’ collettori le molte iscrizioni, che vi si
conservavano sino al principio di questo secolo. Elleno
provano, che questa città, e colonia fu guardata con
particolare affezione da molti imperadori romani, e
segnatamente da Augusto, e dall’ottimo Trajano. Il
primo meritò d’esser chiamato Padre della colonia
jadertina, e di questo titolo resta il documento in una
pregevole lapida: il secondo fece fabbricare, o ristorare
un acquedotto, che vi portava l’acqua di lontano, il che
rilevasi da un frammento d’iscrizione tuttora esistente
nella città.
Io sono stato accolto a Zara con generosa ospitalità
nella bella abitazione del signor dottor Antonio Danieli,
dotto professore di medicina. Ella è adornata da varj
pezzi di scolture antiche, fra’ quali distinguonsi quattro
statue colossali di marmo salino, che a proprie
esorbitanti spese questo zelante amatore dell’antichità
fece trarre dalle rovine della vicina città di Nona. [17]
Parecchie lapide colà portate da varj luoghi della
Dalmazia vi si veggono, fra le quali la riguardevole
32
iscrizione riferita anche dallo Spon com’esistente nella
casa de’ signori Tommasoni, che dal 1675. in poi era
stata nascosa da un intonaco di calce, e dal dottor
Danieli fu scoperta e ridonata alla luce dietro alle traccie
lasciatene dal viaggiatore francese11.
V’hanno, fra le altre molte, tre tavole greche
trasportate dall’isola di Lissa, che sembrano appartenere
a qualche psefisma, ed essere frammenti delle
sottoscrizioni de’ senatori.
Presso questo mio ottimo amico ed ospite trovasi
anche un’abbondante collezione di monete antiche
romane, e un buon numero di greche egregiamente
conservate.

§. 6. Polledra ermafrodito.
Io ho veduto a Zara una polledra ermafrodito, cioè a
dire singolarizzata da quella viziatura mostruosa delle
parti sessuali, assai nota agli anatomici, che
volgarmente viene chiamata ermafroditismo. S’ella
fosse nata a Parigi, i dotti l’avrebbero fatta mettere fra
gli stalloni come maschio, facendo una bella sentenza
simile a quella, che obbligò la Drouart a vestire da
uomo, perché predominava in essa il sesso virile12. Un

11 Spon Voyages tom. I. L’iscrizione trovasi nel fine del tomo III.
12 Michel-Anna Drouart, che si fé vedere per prezzo ai curiosi e
a’ professori nel 1769. in Venezia, e che fu particolarmente
esaminata dal celebre sig. prof. Caldani in Padova, e
riconosciuta per femmina mostruosa, e schifosa, fu dal
rinomato sig. Morand, chirurgo del re di Francia, e membro
33
Morlacco, [18] in casa di cui era nata quella bestia,
somigliante alla Drouart negli organi della generazione,
la vendette a bassissimo prezzo, quantunque fosse di
bella statura, e ben messa, per allontanarsi il mal
augurio, che la nazione superstiziosa trae dalla nascita, e
sopravvivenza de’ mostri.

§. 7. Del livello del mare.


Il mare guadagna continuamente sopra Zara; e se non
lo provassero abbastanza le alte maree, che allagano
que’ luoghi, a’ quali l’acqua non dovea giungere quando
furono fabbricati, lo provano gli antichi pavimenti della
piazza, che sono molto al disotto dell’attuale livello
medio dell’acque, e i residui di fabbriche nobili
scopertivi non ha molti anni nel purgare dalle
immondizie quella parte del porto, che si chiama il
mandracchio. La quantità de’ fatti, che incontransi
lungo le coste dell’Adriatico, atti a provare l’alzamento
progressivo dell’acque, non permette che si metta più in
dubbio fra noi. Il mare guadagna su i litorali
costantemente, anche ad onta de’ fiumi, che prolungano
le terre deponendo belletta, ed arena presso alle loro
foci. Sia paludoso, arenoso, o montuoso, e marmoreo il
litorale del nostro golfo, vi si ritrovano sommerse le

dell’Accademia delle Scienze dichiarata ermafrodito, in cui


predominava la virilità. La Cancellaria Arcivescovile la
obbligò con particolare decreto a vestire da uomo. Può
ciascuno leggere la Memoria del sig. Morand fra quelle
dell’Accademia, e restarne scandalezzato.
34
rovine delle antiche fabbriche; e di giorno in giorno vi si
moltiplicano le prove dell’inalzamento di livello, o pella
ritrocessione delle acque fluviatili impedite dall’aver
l’antico libero corso, o pella corrosione, e
smantellamento [19] de’ massi, e de’ monti. Non sembra
ammissibile da chi abbia moltiplicato le osservazioni su
questo proposito né l’opinione già celebre del
Browallio, né quella d’un rinomatissimo vivente
matematico, il quale ha creduto, che dalla subsidenza
delle terre sia da ripetersi l’apparente alzamento
dell’acque. I Veneziani sono in istato di giudicare della
ragionevolezza di questo sistema, esaminando i
cangiamenti della loro città.

§. 8. Della città, e campagna di Nona.


Le rovine di Nona, che dovrebbono somministrare
abbondante pascolo alla curiosità degli antiquarj, sono
così sotterrate dalle replicate devastazioni, alle quali
quell’infelice città fu soggetta, che di raro ne scappano
fuori vestigj. Io mi vi portai, colla speranza di veder
qualche cosa degna d’esser notata: ma mi vi sono
trovato deluso. Non solo niente vi resta, che indichi
grandezza di tempi romani, ma nemmeno alcun residuo
di barbara magnificenza, che ricordi que’ secoli, ne’
quali vi risiederono i re degli Slavi croati. Ella giace su
d’un’isoletta nel mezzo d’un porto, che fu ne’ tempi
andati capace di ricevere grossi legni, e che adesso si è
cangiato in fetida palude, perché vi mette foce una
fiumaretta fangosa, dopo di aver corso pel tratto di sei
35
buone miglia attraverso le pingui campagne
abbandonate di quel distretto. Gli antichi abitatori
aveano deviata quest’acqua; e dell’argine da essi
fabbricato per farla scaricar nella valle di Drasnich al
mare veggonsi tuttora gli avanzi. Ad onta però della
spopolazione de’ campi, e dello squallore del sito, non si
perdettero di coraggio i nuovi abitanti di Nona; ed
animati da privilegi accordati loro dalla clemenza del
Serenissimo Governo si studiano di farvi ne’ migliori
modi rifiorire la popolazione, e l’agricoltura. Lo scolo
dell’acque [20] renderebbe abitabile, e fruttuoso quel
pingue territorio. La palude salmastra, che cinge le mura
di Nona, è attissima a somministrare quantità
considerabile di pesce, e particolarmente d’anguille. La
pubblica munificenza ne accordò l’investitura a privati,
che ne traggono un frutto sufficiente. Introducendovi co’
lavorieri migliori metodi per la pesca, vi si potrebbono
marinare, o metter in sale molte migliaja d’anguille, che
servirebbono al nostro commercio interno, e
risparmierebbono una parte almeno del dispendio cui fa
la nazione per acquistare salumi esteri. A sinistra della
città di Nona, costeggiando il mare, si trovano delle
muraglie rovinose d’antiche fabbriche, le quali
second’ogni apparenza in più lontani tempi siedettero
sulla terraferma, dove ora sono circondate dalle acque.
Il mare forma in quel luogo uno stretto, che può passarsi
a guazzo, e per cui nelle basse maree a gran pena
possono trovar passaggio le più picciole barchette. La
villa vicina corrottamente detta Privlaca da’ Morlacchi
36
abitantivi, e Brevilacqua dai Zaratini, sembra trarre il
nome dal guado, che da’ Latini brevia aquæ soleva
chiamarsi. Questo guado separa il Contado di Nona
dall’isola contigua di Puntadura. La costa di
Brevilacqua è molto alta, e tagliata a piombo per modo,
che lascia vedere scopertamente i varj strati, ond’è
composta, e la materia loro. Eglino sono tutti arenarj, o
ghiajuolosi, e manifestamente deposti da un fiume
antico, che adesso non si vede più. Alcuni di questi
strati, e spezialmente i più bassi, pel filtrare dell’acque
si rassodano in pietra, e formano una spezie di tronchi
d’osteocolle perpendicolarmente disposti. In qualche
luogo di quella costa vedesi a pel d’acqua il marmo, che
serve di base agli strati fluviatili; e questo medesimo
marmo volgare comparisce dentro terra, dove
probabilmente ne stava prominente [21] qualche collina,
prima che le torbide riempiendo i luoghi bassi delle
deposizioni loro appianassero la campagna. Vi
dominano le lenticolari, e petrefatti congeneri
strettamente uniti all’impasto marmoreo.
Nell’andare da Zara a Nona cavalcando, io ho
osservato una curiosa distribuzione di terreno, che
sembrano aver fatta fra loro gli arbusti spontanei, ond’è
coperto quel tratto di paese per tredici miglia di
lunghezza. Sino alla villa di Cosino trovansi campi
pietrosi, ma sufficienti per le viti, e pel grano;
attualmente sono messi a prato, e pessimamente tenuti.
Un miglio di là da Cosino trovasi un bosco di sabina
fruticosa, detta in illirico gluhi smrich, ginepro sordo, né
37
vi si trova verun’altra spezie d’arbusto. Vengono, dopo
un miglio di sabine, i lentischi, che occupano breve
tratto; indi fillirèe, eriche, arbuti, ed elci minori, che
vivono in buona società tutti insieme; succedono a
questi i ginepri; e finalmente presso Nona regna libero,
e solo il paliuro, cui chiamano draça13. Non mi sono
avveduto d’alcuna differenza sensibile nelle terre
occupate da queste varie famiglie di arbusti. L’ilex cocci
glandifera de’ botanici è frequentissima lungo il litorale,
e pell’isole della Dalmazia; ma, per quanta diligenza io
abbia usato, non mi venne fatto di trovarvi la grana del
kermes. Sarebbe lodevole tentativo il procurare di
spargervi la razza di questo insetto prezioso, facendola
venire dalle isole del Levante, dove alligna
naturalmente. V’è ogni ragion di sperare, che in breve
tempo si avrebbe un nuovo prodotto in Dalmazia. [22]

§. 9. Della campagna di Zara.


All’ampia provincia, che nelle nostre carte porta il
nome di Contado di Zara, è restato il nome antico di
Kotar14; non la chiamano mai altrimenti gli abitatori
13 Dal greco δράπτω, pungo. Molte altre voci botaniche della
lingua illirica hanno stretta parentela col greco, come a cagion
d’esempio, trava, erba, δράβη; dervo, legno, δρῦς.
14 Il Kotar stendevasi oltre i confini che adesso lo circoscrivono,
ed arrivava sino alle acque del fiume Cettina. Le antiche
canzoni illiriche ne fanno fede:
Ustanise, Kragliu Radoslave,
Zloga legga, i Zoriczu zaspà;
Odbixete Liika, i Karbava,
38
della campagna. Questo tratto di paese ha fama di poco
salubre in tempo di state; io però ne ho scorso una parte
impunemente; e più estese osservazioni vi avrei fatto, se
le fatiche, e il caldo non avessero prodotto una lunga
serie d’ostinate febbri al mio disegnatore. Senza di
questo contrattempo, io avrei portato in Italia un molto
maggior numero di notizie, di disegni, e di curiosità
d’ogni genere. La linea, ch’io ho seguita viaggiando pel
Contado di Zara, tocca le ville di Santi Filippo e
Giacomo, Biograd (detto anche Zaravecchia), e
Pacostiane al mare; la Vrana sul lago di questo nome,
Ceragne, Pristegh, Bencovaz, Perussich, Podgraje,
Coslovaz, Stancovzi, Ostrovizza, Bribir, Morpolazza,
Bagnevaz, e Radassinovich fra terra. [23]

§. 10. Acquedotto di Trajano.


A’ Santi Filippo e Giacomo ho veduto i vestigj
dell’acquedotto fabbricato, o ristorato da Trajano, e gli
ho anche seguiti verso la loro meta non meno, che verso
il principio per lungo tratto. Sono quindi in caso di
Ravni Kotar do vode Cettine.
e più sotto
I vas Kotar do vode Cettine.
vale a dire,
Sorgi, o re Radoslao: t’era nemica
La sorte allor che ti colcasti, e dormi
Al nascer dell’aurora. A te ribelle
Si fé la Lika, la Corbavia, e tutto
Il pian Kotar fin di Cettina all’acque....
Tutto il Kotar fin di Cettina all’acque.
39
positivamente asserire, che gli storici dalmatini, e
segnatamente Simone Gliubavaz, di cui ho sotto gli
occhi le schede manoscritte, e Giovanni Lucio nella sua
celebre opera del Regno della Dalmazia, e Croazia,
hanno preso un grosso granchio su questo proposito,
lasciandoci scritto, che Trajano condusse l’acqua dal
fiume Tizio, o Kerka, persino a Zara, togliendola dalla
cascata di Scardona, detta volgarmente Skradincki
slap15, presso di cui alcune rovine tuttora d’ignobili
acquedotti si vedono. Eglino meritano qualche
compatimento, se trasportati dalla voglia di far onore al
proprio paese hanno dato a Trajano un merito trenta
volte maggiore di quello, ch’egli ebbe veramente nella
costruzione, o riattazione dell’acquedotto; perché non
ben conoscevano la contrada, che giace fra Skradincki-
slap, e le marine di Zara, della quale erano, mentr’essi
scrivevano, posseditori i Turchi. I residui
dell’acquedotto veggonsi comparire poco lontano dalle
mura di Zara lungo il mare verso la villa di S. Cassano;
indi pel bosco di Tustiza sino alle Torrette, dove servono
di sentiero ai pedoni, e a’ cavalli; poi presso a’ Santi
Filippo e Giacomo, e più oltre a Zaravecchia, nel qual
luogo se ne perdono le traccie, che però accennano
d’essere [24] state dirette al vicino rivo di Kakma,
distante da Skradincki-slap a dritta linea trenta buone
miglia. I monti, che sorgono fra quel sito, e Zaravecchia,
sono assai più alti, che la cascata del fiume; e quindi
sarebbe stato impossibile il condurvi acqua. Eglino sono
15 Scardonicus lapsus.
40
poi anche così tramezzati da valloni, che dovrebbono
apparirvi frequenti residui d’arcate, se realmente l’acque
del Tizio avessero potuto far quella strada. Ora niun
vestigio d’acquedotti trovasi per trenta miglia di paese,
che giustifichi l’inconsiderata asserzione del Lucio, del
Gliubavaz, e la volgare opinione. L’iscrizione ch’io ho
accennata più addietro non dice, né lascia sospettare
d’onde avessero origine le acque condotte da Trajano.

§. 11. Biograd, o Alba maritima.


Biograd, adesso povera villa sul mare, conosciuta da
noi, e segnata nelle carte col nome di Zaravecchia,
datole ne’ tempi d’ignoranza, fu altre volte città
ragguardevole. Le distanze, la situazione, e qualche
lapida, che vi è stata trovata, sembrano indicare, che in
quel sito medesimo fosse Blandona, ma non già l’antica
Jadera, come credette il Cellario16. Egli è poi certo, che
ne’ tempi di mezzo questo luogo splendette per la
frequente residenza, e l’incoronazione d’alcuni re croati,
e segnatamente di Cresimiro, che vi fondò un monastero
nel 1059. Ella è chiamata ne’ documenti di que’ tempi
Alba maritima, e dal Porfirogenito Belgrado, [25]
secondo l’usanza de’ popoli slavi, che le città di
residenza de’ loro Principi con questo nome chiamarono

16 Post quam Jadera est, Ἰαδἑρα κολωνία Ptolomeo, et Plinio


Colonia Jadera, memorata etiam Mel. lib. 2. c. 3. ... Hodie
vocatur locus Zara vecchia, ultra Zaram novam, visendus cum
ruderibus nostræ Jaderæ. Cellar. Notit. Orb. Antiqui l. 2 c. 8.
41
frequentemente17. Ebbe titolo di Vescovato, che fu
trasferito a Scardona dopo che il doge Ordelafo Faliero,
la fece rovinare nel bollor delle guerre cogli Ungheri.
Da quelle rovine sorse coll’andar degli anni un
villaggio, che popolatosi di gente rapace, e facinorosa,
meritò lo sdegno del Serenissimo Governo, e fu
atterrato da’ fondamenti nello scorso secolo. Adesso vi
abita poca, e povera gente. Il porto di questa villa è
ampio, e sicuro; su le di lui rive io ho raccolto della
sabbia piena di conchigliette microscopiche. Il terreno
de’ suoi contorni lungo il mare è petroso, ma non
ingrato; quantunque le pietre vi sieno di pasta
marmorea. Fuori del porto di Biograd havvi un gruppo
d’isolette, che servirono di ricovero sovente agli
abitatori del vicino litorale, ne’ tempi dell’incursioni
turchesche.
Pacostiane è povero, ed ignobile luogo, poco distante
da Biograd, situato sull’ismo, che separa il mare dal
lago della Vrana. I pochi, e malsani abitatori si risentono
di questa vicinanza, perché consigliati dalla indocilità
de’ loro terreni litorali varcano la palude in picciole
barchette, per andar a coltivare le sponde opposte del
lago, e ne respirano gli aliti poco salubri. Costoro si
17 Bielograd, o Belograd, e Biograd significa Bianca-Città. Il
Bonfinio Dec. I. lib. VI. fra le città maritime della Dalmazia
distrutte da Attila novera Belgrado, quantunque sembri che
prima della irruzione degli Unni non dovesse portare questo
nome la città, che lo portò ne’ secoli posteriori. Se lo portava
poi veramente, sarebbe una nuova prova dell’antichità della
lingua slavonica nell’Illirico.
42
cibano comunemente di pesce lacustre, e in particolare
d’anguille anche ne’ tempi meno opportuni, e [26] ne’
quali la carne loro è nocevole. La maniera usata colà di
pescarle, allor quando s’aggruppano per andar in frega,
è singolare. S’avanzano due uomini diguazzando pel
lago ne’ luoghi di poco fondo, e con una grossa corda,
cui tengono ciascuno dall’una delle due estremità,
battono su le masse delle anguille: una parte ne
uccidono, l’altra mettono in fuga; raccolgono le morte, e
le si mangiano.

§. 12. Castello della Vrana.


La Vrana, che dà nome al lago, ed è fabbricata ad una
delle di lui estremità, che guarda tramontana, fu
importante luogo ne’ tempi andati, ed appartenne a’
Templarj. Vi risiedeva un Gran Priore, che crebbe
talvolta in potenza a segno d’essere personaggio
preponderante negli affari del Regno. Uno di questi gran
priori, Gianco di Palisna, del 1385. spinse la sacrilega
temerità sino al far prigioniera la propria sovrana
Elisabetta vedova di Lodovico re d’Ungheria, e Maria di
lei figliuola; né gli bastò questo, ché la prima fece
affogare in un fiume. Filippo il Bello sul principio dello
stesso secolo non poté far confessare a’ Templarj alcun
delitto, e pur li distrusse col ferro, e col fuoco. I
successori de’ Templarj d’Ungheria, e di Dalmazia,
convinti d’un sì esecrabile misfatto, non patirono alcun

43
male; tutta la vendetta, che Sigismondo, marito della
regina Maria, ne volle trarre, fu mitissima, e circoscritta
alla persona del Gran Priore.
Il castello, detto per eccellenza Brana, o Vrana18 nel
tempo della sua fondazione, è adesso un orrido
ammasso [27] di rovine, ridotto a questo stato
dall’artiglieria veneziana. Alcuni scrittori credettero che
Blandona fosse colà anticamente: ma niun vestigio di
romana antichità si vede in quelle mura, e torri cadenti,
e disabitate. Io mi v’aggirai cercando qualche pietra
scritta, o lavorata; e n’uscii finalmente dopo d’aver
sudato invano, per non trovarne qualcuna, che mi
cadesse sul capo.
È ben degno d’osservazione l’han, che sta vicino a
queste macerie, quantunque anch’egli sia adesso
rovinoso, ed abbandonato alla barbarie de’ Morlacchi
abitatori delle campagne vicine, che vanno a prendervi
materiali da impiegare nelle goffe loro fabbriche. Le
fondazioni degli han, o caravanserai, fanno molto onore
alla nazione turca, presso di cui sono frequentissimi.
Questo, che vedesi vicino alla Vrana, è stato fabbricato
senza risparmio. La sua facciata è di 150. piedi; la
lunghezza di 175. È tutto fabbricato di marmo ben
appianato, e connesso, i di cui pezzi sono stati colà
trasportati dalle rovine di qualche antica fabbrica
romana, per quanto ben esaminandoli si può rilevare. Il
corpo dell’han è diviso in due gran cortili circondati da
ben adorne camere, e ben intese gallerie. L’architettura
18 Vrana, fortezza, da braniti, fabbricare, e fortificare.
44
delle porte vi è di cattivo gusto turchesco traente al
gotico. Una parte delle mura, e dei pavimenti di questo
luogo fu messa sozzopra dalla sciocca avidità de’
cercatori di tesori.
Il nome di Vrana è passato adesso a una meschina
villa, forse un miglio lontana dalle rovine del castello,
sul luogo medesimo, dove nel secolo passato avea i suoi
giardini un riguardevole turco detto Halì-begh; la
squallida abitazione del curato di quel paese porta
ancora il nome degli Orti d’Halì-begh. In un
manoscritto del Gliubavaz, ch’io ho presso di me, e che
appartiene [28] al dotto, e cortese signor conte Gregorio
Stratico di Zara, trovasi una descrizione de’ giuochi
d’acque di que’ giardini, e dell’allora ben coltivata
campagna vicina. Che cangiamento! I giardini d’Halì-
begh sono ridotti a un monte di macerie; le acque, che
gl’innaffiavano condotte dall’arte, scorrono adesso per
alvei ineguali, e scorretti, e unisconsi a quelle di molti
rivoli, che cent’anni sono erano maestrevolmente
incassati, per impaludare nel lago.

§. 13. Del lago della Vrana, suo emissario, e


pescagione.
È celebre il lago di Vrana in Dalmazia, e noto anche a
Venezia, piucché gli altri di quelle contrade, non meno
pella sua considerabile estensione di dodici miglia, che
pel progetto immaginato da privata persona, e messo
anche in parte ad esecuzione, di scavarvi un emissario,
per cui se ne scaricassero le acque al mare. Il Zendrini,
45
di chiara memoria, fu consultato sulla possibilità di sì
fatto scolo: ma non fu chiamato sopra luogo. Egli si fidò
delle livellazioni fattevi all’ingrosso da non so quale
ingegnere; e non vide altra difficoltà, che quella della
spesa, trattandosi di tagliare a considerabile profondità
un ismo di vivo marmo pella estensione di mezzo
miglio. La spesa non ispaventò il progettante, che
favorito dalla clemenza del Senato Eccellentissimo
intraprese, e sbozzò per così dire il suo lavoro, scavando
coll’ajuto della polvere da cannone un canale, che giace
abbandonato, e imperfetto da molti anni, e restando così
dovrà in breve tempo pella rovina delle sue sponde
otturarsi. Il fine dell’emissario era di metter a secco, e in
istato coltivabile 14000. campi occupati dall’acque,
supposte stagnanti, e capaci di sfogo.
Io fui a vedere questo sconsigliato lavoro, per la
prima [29] volta in compagnia di mylord Hervey,
vescovo di Derry, e sul fatto conobbimo, che ogni spesa,
e fatica vi era stata gettata, e il progetto fisicamente
impossibile ed illusorio. Basta esaminare il lido del
mare per chiarirsi di questa verità. Le acque del lago
facendosi luogo pelle vie sotterranee delle divisioni
degli strati marmorei, portansi da per sé sole al mare nel
tempo della bassa marea; elleno sono impedite dal far
questo viaggio quando l’acqua cresce, o è a un livello
medio. Da questa sola semplicissima osservazione
apparisce, che qualunque emissario si scavasse, le acque
di quel lago non anderanno mai a scaricarsi in mare con
rilevante, e permanente utilità de’ terreni inondati, e che
46
al più potranno, se fosse loro aperta una vera, e
sussistente communicazione, esser rese soggette ad
un’alternazione più sensibile di flusso, e riflusso.
Egli è certo, che ’l dimostrato alzamento progressivo
del livello del nostro mare (sia poi ch’egli venga dalla
depressione delle terre, come alcuni vorrebbero, sia che
si debba da qualche altra più universale ragione ripetere,
com’io pendo a credere) renderà sempre più scarso lo
scolo di quelle acque, e per conseguenza farà crescere
d’anno in anno insensibilmente, e sensibilmente poi di
cinquanta in cinquant’anni il cratere del lago.
Raccogliesi dalle pregevoli schede del Gliubavaz, che
sino all’anno 1630. il lago della Vrana era dolcissimo;
questo scrittore sembra accusare il tremuoto
dell’apertura de’ meati sotterranei, pe’ quali la
communicazione delle acque, e il passaggio de’ pesci si
è fatto strada. Ma chiunque ha esteso le proprie
osservazioni pelle spiaggie, e pelle coste dell’Adriatico,
e dopo lunghi esami conosce l’indole degli strati
marmorei della Dalmazia maritima, vede
manifestamente, che non da una causa accidentale qual
sarebbe stato uno scuotimento di tremuoto, ma sibbene
[30] da una durevole e progressiva, qual è l’alzamento
di livello del mare si ha da riconoscere questo
cangiamento; e dee ridere dell’impresa tentata.
Non è già ch’io creda impossibile il ritrarre parecchie
centinaja di campi dall’inondazione, che ogni giorno più
s’avanza impaludando le terre migliori presso a quel
lago, e rendendo insalubre l’aria del vicinato. Al
47
contrario; io sono convinto che v’è un ripiego, come
sono convinto che non è, né può essere quello
dell’emissario. Eccolo in poche parole. Si rimettano
sull’antico cammino le acque provenienti da
Smocovich, che probabilmente portavansi al mare;
s’incassino, per quanto riesce possibile, quelle, che
scendono dal ramo di colline, che fiancheggia la villa di
Vrana, come a dire il rivo di Scorobich, e la ben più
abbondante acqua della Biba colla medesima direzione;
si facciano vagare pel pendio della valle l’acque di
Riçina e di Pécchina, che si scaricano adesso senza
veruna legge nel lago, e vi portano ad accrescere un
male ciò, che serpeggiando pe’ campi soggetti all’arsura
produrrebbe mille beni; si cavino alvei profondi
all’acqua, che indispensabilmente dee lasciarsi andare
pel paludo; s’alzino gli opportuni argini per mettere al
coperto le terre basse; presieda a questi lavori qualche
uomo onesto, ed intelligente. Ecco il vero, ed unico
modo di trar profitto dalle adesso allagate pianure, di
dar una direzione all’acque stagnanti, di render forse
non del tutto inutile lo scavato emissario, che
presentemente al più potrebbe servire a dar uno sfogo
alquanto men tardo alle strabocchevoli piovane.
L’uso vantaggioso, che potrebbe farsi del lago della
Vrana, in qualunque stato egli si voglia considerare, è
quello della pescagione. Le anguille, che in grandissima
quantità vi si trovano, e che sono abbandonate alla poco
[31] ben intesa arte de’ pescatori di que’ contorni,
somministrerebbono una somma non indifferente di
48
barili al nostro commercio interno, se colà fossero con
intelligenza imprigionate ne’ lavorieri19, e a’ tempi
convenienti prese per metterle in sale, o marinarle. Non
sarebbe mal consiglio il mandarvi qualche barca di
pescatori usi a prendere le anguille delle nostre valli del
Dogado, onde gli abitanti di Pacostiane, e de’ vicini
luoghi imparassero un miglior metodo. La Nazione
spende annualmente molto denaro per provvedersi di
anguille salate, e marinate a Comacchio; perché non
facciamo piuttosto valere i laghi, e le valli dello Stato?
Uno degli oggetti principali delle mie osservazioni
lungo i lidi della Dalmazia è stata la pesca, in quanto il
sistemarla, o l’introdurla di nuovo là dove non è
praticata a dovere, può, e dev’essere una fonte di
risparmio, e di provento nazionale. Il lago della Vrana è
il più esteso di tutti quelli, che vi si trovano poco lontani
dal mare, e quindi il più degno d’essere particolarmente
contemplato dalle magistrature, che presiedono al nostro
commercio, e alla coltivazione, ed aumento de’ prodotti
nostrali.
Gli abitanti di questo paese, e in generale tutti i
Morlacchi hanno un’avversione mortale per le rane. Ne’
tempi di carestia (che sono pur troppo frequenti in
19 Lavorieri è voce tecnica pescatoria delle nostre lagune, e delle
valli di Comacchio, che significa que’ ricinti di canne
maestrevolmente piantati, ne’ quali internate che sieno le
anguille non trovano più il modo d’uscirne. Quest’arte de’
lavorieri, ch’era propria delle lagune dell’Adriatico, è stata
introdotta con buon esito anche nelle paludi pontine presso al
Mediterraneo.
49
Dalmazia, sì per la male intesa agricoltura, che per [32]
grandissimi difetti di costituzione), niun vero Morlacco
mangerebbe rane a costo di lasciarsi morire di fame. Il
curato di Vrana interrogato del perché in vece di cattivo
cacio non mangiava delle rane, s’accese quasi di
sdegno. Ei ci disse, «che un briccone Morlacco ne
pigliava per portarle al mercato di Zara, ma che non era
ancora giunto a mangiarne;» ed aggiunse che costui era
l’obbrobrio della villa.

§. 14. Petrificazioni di Ceragne, Bencovaz, e


Podluk.
Ne’ boschi poco lontani da Ceragne ho trovato in gran
quantità nuclei di turbiniti presi nel marmo comune
dalmatino, e poco lunge da questi la medesima spezie
d’ortocerati che a Uglian. Così trovansi pietre lenticolari
sotto la rocca di Bencovaz, e a un casale poco lontano
detto Podluk, dove sono tanto perfettamente ben
conservate, come quelle di Monteviale nel Vicentino, e
di S. Giovanni Ilarione, che sono le più belle ch’io
conosca. Fra la rocca di Bencovaz, e ’l bosco di Cucagl
stendesi un ramo di colline composte di argilla marina
piombata, e in alcun luogo di terra marnosa
bianchissima. Nelle aperture scavatevi dalle acque de’
torrenti, io ho raccolto de’ corpi marini erranti, alcuni
de’ quali sono nuclei spatosi di turbiniti petrefatti
lucidissimi di color giallo dorato. In generale la pietra,
di cui sono formate le colline di questi contorni,
rassomiglia di molto alle pietre dolci de’ nostri colli
50
italiani. Le vaste campagne, e le valli amenissime, che
formano i distretti di queste ville, sono poco popolate e
peggio coltivate. In qualche luogo la scarsezza della
popolazione fa torto alla purità dell’aria, portando per
necessaria conseguenza l’abbandono totale de’ rivoli
montani a se stessi, e l’impaludamento delle acque. [33]
Non è già insalubre l’aria di Perussich, castello eretto
dalla nobilissima famiglia de’ conti di Possedaria, per
servire di ricovero ne’ tempi di diffidenza ai Morlacchi
delle vicine campagne. Egli è situato su d’una collina
petrosa, e domina un gran tratto di bel paese dall’alto.
Le poche petrificazioni, che vi si discernono,
somigliano alle sopraccennate.

§. 15. Rovine d’Asseria, ora detta Podgraje.


Un breve miglio lontano da questo castello trovasi il
povero casale di Podgraje20. Egli trae il nome dalla città,
che dominava negli andati secoli il luogo dalle
miserabili case presentemente occupato. La Tavola
itineraria di Peutingero mette in questo sito Aseria, ch’è
l’Assisia di Tolommeo, e l’Assesia, o Asseria di Plinio.
Quest’ultimo, dopo d’aver fatto il novero delle città
liburniche obbligate a portarsi al Convento, o Dieta
Scardonitana, aggiunge al catalogo i privilegiati
Asseriati, immunesque Asseriates21. Questo popolo, che
faceasi da sé i proprj magistrati, e colle proprie leggi
municipali si governava, dovett’essere ricco, e potente
20 Pod-grada, sotto la città.
21 Plin. Nat. Hist. Lib. III. c. 21.
51
sopra gli altri vicini. S’ingannarono di molto quegli
scrittori delle cose illiriche, i quali credettero sorto dalle
rovine d’Asseria Zemonico, ch’è una rocca del contado
di Zara sedici miglia lontana da Podgraje. Il più volte
lodato Gliubavaz in un suo manoscritto De situ Illyrici
ha preso questo sbaglio, ma non si può fargliene colpa;
imperocché, mentr’egli scriveva, le rovine d’Asseria
erano ancora soggette ai Turchi, e quindi non potevano
essere agevolmente osservate. [34]
Le vestigia, che ci rimangono delle mura di Asseria
(Tav. II.), lo provano assai. Il loro circuito resta tuttora
assai precisamente riconoscibile sopra terra, e gira 3600
piedi romani. La forma dello spazio, cui racchiudono, è
d’un poligono bislungo; la materia, onde sono state
fabbricate, è marmo comune di Dalmazia: ma non del
colle, su di cui sorgono, che somministra solamente
pietra dolce. I pezzi di questo marmo sono stati tutti
lavorati a bugno, e le mura ne furono rivestite dentro, e
fuori; qualche pietra arriva a essere lunga dieci piedi, e
tutte sono di notabile dimensione. La grossezza di
queste fortificazioni è communemente d’otto piedi: ma
all’estremità più angusta, che cala verso il pié della
collina, sono grosse undici piedi; in qualche sito
veggonsi tuttora alte da terra dodici braccia. In un sol
luogo (A) vi si trova manifesto indizio della porta, ch’è
coperta dalle rovine; io ho messo i piedi sulla curvatura
dell’arco, e v’ha più d’uno de’ vicini abitatori, che si
ricorda d’averla veduta a netto. Potrebb’esservi stata
un’altra porta nel sito (B) d’onde adesso si entra. Oltre
52
53
le porte, due altre aperture (CD) veggonvisi praticate.
Ma l’ultima non è così ben conservata come l’altra. Non
saprei congetturare a qual uso servissero; non
sembrando, che possano essere state porte, né feritoje,
né scoli d’acqua. Merita molta osservazione il mezzo
bastione (E) che conviene benissimo alla moderna
architettura militare. Molte più cose vi vedrebbe degne
d’attenzione particolare un professore di quest’arte
nobilissima. L’antiquario, o anche il semplice amatore
delle belle arti, e della buona erudizione non potrà a
meno, quando si trovi a Podgraje, di non desiderare, che
qualche mano potente quicquid sub terra est in apricum
proferat. A questo desiderio lo moverà particolarmente
il vedere, che, dalla rovina di quella città in poi, [35]
niuno vi frugò profondamente per voglia di trarne
qualche cosa. Quelle mura cingono un deposito
d’antichità sfasciatevisi dentro, chi sa per qual cagione;
forse per un tremuoto, o per una improvvisa
inondazione di barbari, ch’è peggior cosa. La porta
sotterrata, l’altezza considerabile delle mura, veduta dal
di fuori in più d’un luogo, qualche grossa muraglia, che
fra gli arbusti si vede ancora a pel di terra, sono tutte
circostanze, che deggiono far isperare moltissimo sulla
quantità di monumenti pregevoli, che di là si
trarrebbono. La magnificenza del fabbricato delle mura
(F), e la frequenza de’ pezzi lavorati, o de’ fini marmi,
che trovansi sparsi pe’ campi contigui, fanno ben
conoscere, che in quel paese allignava buon gusto, e
grandezza. In mezzo alla spianata, che copre i residui
54
d’Asseria, trovasi isolata la chiesa parrocchiale della
soggetta picciola villa, che fu fabbricata de’ rottami
antichi cavati sul luogo. Vi si vedono iscrizioni
maltrattate, e pezzi di cornicioni grandiosi.
I Morlacchi abitatori di Podgraje non facevano per lo
passato ingiuria alle lapide, che incontravano arando, o
scavando per qualche loro bisogno la terra. Ma da poi
che furono obbligati a strascinare, senza mercede,
alcune colonne sepolcrali sino al mare co’ loro buoi,
eglino hanno giurato inimicizia con tutte le iscrizioni; e
le guastano appena disotterrate a colpi di piccone, o per
lo meno le risotterrano più profondamente di prima.
Avrebbe il torto per certo chiunque volesse accusarli di
barbarie per questo. Il modo di renderli ricercatori, e
conservatori degli antichi monumenti sarebbe il far loro
sperare un premio delle scoperte, e delle fatiche. Io ho
trovato per un raro accidente nella casa del morlacco
Juréka una sepolcrale, che ho anche acquistata, con
pochi quattrini, e unitamente ad alcune altre porterò in
[36] Italia. Cattivandosi la fiducia, e amicizia de’
Morlacchi, si potrebbe ragionevolmente sperare di
trarne delle indicazioni utili. Io mi lusingherei di saperlo
fare, conoscendo l’indole della nazione; e quindi ho
lasciato Podgraje portando meco una gran voglia di
ritornarvi munito delle facoltà necessarie per farvi
scavare.

§. 16. Della manna di Coslovaz.


Coslovaz è un povero luogo, come gli altri casali di
55
queste contrade; ma i boschi del suo distretto abbondano
di frassini, che danno manna in abbondanza, quando
siano opportunamente incisi. I Morlacchi non sanno
farvi incisioni; e non conoscevano questo prodotto. Due
anni sono, andò a far colà delle sperienze persona, che
ne avea ottenuta la permissione dal Governo. Queste
non corrisposero tosto alle speranze concepite, perché
l’aria erasi rinfrescata alcun poco. Lo sperimentatore
perdette la pazienza, e abbandonò i frassini tagliati. Al
ritornare del caldo, eglino diedero esorbitante quantità
di manna, cui avidamente presero a mangiare i
Morlacchi, trovandola dolce. Parecchi di essi furono
quasi ridotti a morte dall’uscite violente: la manna restò
dopo pochi giorni abbandonata ai porci, e ai polli
d’India.

§. 17. D’Ostrovizza.
Ostrovizza, che alcuni vogliono corrisponda ad
Arauzona, altri allo Stlupi degli Antichi, e che
probabilmente non ha punto che fare coll’una, né
coll’altro, è stato altre volte luogo di qualche riguardo, e
dalla Serenissima Repubblica comperato del 1410. con
qualche altro pezzo di terreno, per cinque mila ducati.
La sua rocca, che sorgeva su d’un sasso tagliato a
piombo d’intorno, dovea essere creduta a ragione
inespugnabile, prima che l’uso dell’artiglieria si fosse
propagato. [37] Fu presa da Solimano del 1524. ma poi
ripassò sotto il felice dominio veneto. Adesso non ha
più verun vestigio di fortificazione, ed è un masso
56
57
ignudo, e isolato.
Io ho fatto disegnare una picciola prospettiva de’ colli
d’Ostrovizza (Tav. III.), perché le loro sommità
mostrano assai manifestamente la duplicità delle
divisioni degli strati, e ponno disingannare coloro, che
fossero troppo corrivi a credere nate con essi per legge
di stratificazione le apparenze di separazioni
perpendicolari. Le linee divisorie (AAAA) che tagliano
quasi sempre ad angoli retti le orizzontali (BBBB), sono
altrettante prove visibili del lavoro dell’acque
distruggitrici. Elleno si fanno strada giù per le spalle del
colle scavandovi rivoletti (CC), i quali nascondono in
qualche sito le divisioni orizzontali (DDDD).
Gli strati, che formano la sommità (E) del masso, su
di cui siedeva l’antico castello, sono di ghiaja fluitata di
varie paste, e colori; ve n’ha di quarzosa, chi sa mai da
quali montagne minerali venuta, e ve n’ha, che porta
corpi marini lapidefatti. Lo strato (F) è di pietra analoga
a quella di Nanto nel Vicentino, ch’è il moilon de’
Francesi. Vagando pell’aspra collina (GG) e pe’ suoi
contorni ho raccolto varie nummali erranti, sì della
spezie volgare, che ha le spire nascoste, come di quella
men ovvia, che le ha di fuori, un bellissimo esemplare di
camite, ed ho veduto fra gli altri petrefatti molte
coralloidi fistulose, e degli echiniti africani maltrattati.
Vi si ritrovano anche varj univalvi turbinati, coclee
particolarmente, e buccini liscj, con qualche raro
esemplare di una spezie esotica di fungite, orbicolare,
complanata, anzi talvolta depressa nel centro, che agli
58
orli non ha un terzo di linea di grossezza, né suol
eccedere un pollice nel diametro. Sul colle, dov’era
anticamente il castello, trovansi degl’indizj di strato
d’un bellissimo marmo tigrato, [38] composto di
piccioli frantumi marini, e di sabbia vulcanica prodotta
dal fluitamento di lave triturate.
Lo strato coperto (H) è d’argilla azzurognola,
semipetrosa, simile a quella, che forma il piè del colle
contiguo, e d’un ramo di monticelli, che prolungandosi
incontrano Brebir, e passan oltre sino a Scardona. Non
m’accomoderei agevolmente col celebre signor Raspe
ad attribuire a’ tremuoti queste fenditure verticali degli
strati calcarei, e molti altri fenomeni somiglianti. Eglino
sono troppo minutamente suddivisi, e troppo
regolarmente, perché si possa ripeterne le separazioni da
un agente improvviso, e gagliardo. S’aggiunge per
togliermi affatto da questa opinione l’aver io in più
luoghi della Dalmazia osservato, che anche i solidi
massi di marmo calcareo volgare hanno delle crepature,
e fenditure in ogni senso, a un dipresso come quelle de’
marmi sopraccennati, spiegate assai ingegnosamente dal
dottissimo monsignor Passeri nella sua Storia naturale
de’ fossili del Pesarese, opera degnissima di ricomparire
alla luce, e d’essere, più di quello ch’è, conosciuta
oltremonti. Non è già ch’io non sia disposto a concedere
moltissimo col signor Raspe (e col soprallodato amico
mio monsignor Passeri, che sembra parziale del sistema
hoockiano) alla forza de’ tremuoti, e de’ fuochi
vulcanici, che li cagionano, allorquando si tratta di
59
spiegare le gran fenditure, sfaldamenti, rovesciamenti
delle montagne: ma gli esempj dei disequilibramenti, e
rovine nate dai lunghi lavori sotterranei delle acque,
sono tanto frequenti nelle provincie, ch’io nelle picciole
mie peregrinazioni ho visitato, sì in Italia, come
oltremare, che non ardirei di preferir loro cagioni più
infrequenti, e rimote.
Sotto la villa d’Ostrovizza è una palude, il di cui
fondo di torba colpito da un fulmine alcuni anni sono
arse lungamente, non dando verun segno d’incendio
[39] se non in tempo di notte. Spento che fu il fuoco
sotterraneo, restò tutto nero, e sterile il terreno
sovrappostovi, e appunto la di lui negrezza, destando la
mia curiosità, mi fece rilevare questa cosa. Mi accorderà
l’Eccellenza Vostra, che fra le origini de’ monti
vulcanici abbiamo un diritto di mettere anche i fulmini?
Se desse un fulmine in qualche monte di zolfo, non
farebb’egli probabilmente più romore, non avrebbe più
riflessibili conseguenze di quello, ch’ebbe nelle umide
torbiere d’Ostrovizza? Mi risovviene a questo proposito
d’aver letto in qualche luogo, che il signor Linneo
viaggiando pell’isola d’Oeland vide ardere a Moe Kelby
alcuni monticelli di minerai, dal quale era già stato
cavato l’allume; l’incendio accidentale avea
incominciato due anni prima, ch’egli passasse di quel
luogo: il vulcanetto avea molti caratteri della solfatara di
Pozzuoli. Kempfero ha notato ne’ suoi viaggi del
Giappone un vulcano nato dall’accensione casuale
d’una minera di carbon fossile.
60
Un boschetto, non molto lontano da questo sito,
produce nelle stagioni d’autunno, e di primavera una
enorme spezie di fungo, che rassomiglia perfettamente
al carrarese sopra di cui l’ottimo amico nostro signor
Marsili, professore di botanica nell’Università di
Padova, ci ha dato un aureo opuscolo22. Le vipere
amano quel sito, detto da’ soldati il Picchetto, e vi
moltiplicano più, che in qualunque altro luogo vicino. I
frassini danno anche in que’ contorni abbondante
manna, e di ottima qualità: ma i Morlacchi nemmeno
colà hanno imparato la semplice operazione, che si
richiede per farla stillare dai rami. [40]

§. 18. Del rivo Bribirschiza, e di Morpolazza.


Per esaminare da vicino lungo il loro corso le acque
che impaludano sotto Ostrovizza, io andai a traverso
delle sue campagne sino alle fonti della Bribirschiza,
considerabile rivo, che scaturisce dalle radici dell’erto
colle, su di cui veggonsi ancora le rovine di Bribir,
antica residenza d’una possente famiglia di Bani della
Dalmazia, che fé gran figura nel XIV. secolo.
Esaminando il corso della Bribirschiza, trovai molte
petrificazioni di grandi ostraciti erranti, e guaste dalla
fluitazione, e più presso alla fonte parecchie spezie di
turbiniti, e bivalvi semicalcinati, conservatissimi, e
lucenti, nell’argilla petrosa azzurra. Niuna delle varietà,
ch’io vi osservai, frugando, e rompendo pietre col mio

22 Fungi Carrariensis historia. Pat. 1766. in 4º.


61
martello orittologico, vive nei mari nostri. I gran massi
di breccia, che sembrano in qualche luogo rovinati dalla
sommità, lungo le sponde del rivo, sono di formazione
submarina, e fra ghiaja, e ghiaja tengono imprigionate
molte varietà di testacei calcinati, riconoscibili ancora
malgrado il loro stiacciamento, alcuni de’ quali mi
parvero simili ai nostrali.
Nel ritornarmene al lido del mare, attraversai l’ampia,
e bella pianura di Morpolazza, fiancheggiata da poco
abitate colline, e divisa per lungo da un canale destinato
a scaricare le acque de’ rivoli, e delle paludi vicine. Il
fondo di questa campagna quasi del tutto incolta è di
terra marnosa, al formare la quale sembra debbano
essere concorsi i guscj de’ piccioli turbiniti, che in
infinito numero vi sono d’anno in anno abbandonati
dalle acque, che partendo dai colli superiori a Sopot
sogliono allargarla. Il canale di Morpolazza mette capo
nel lago di Scardona, dopo trenta buone miglia di corso,
col nome di Goducchia. Probabilmente nel sito, [41]
dov’ora è la chiesa di S. Pietro di Morpolazza, appiè
delle colline, sorgeva qualche stabilimento romano. Vi
restano tuttora degli avanzi di pietre lavorate, e qualche
frammento d’iscrizione. L’Arausa dell’Itinerario
d’Antonino non dovrebb’essere stata molto lontana da
questo luogo. È andato molto lungi dal vero chi ha
creduto che Arausa, o Arauzona, sia Zuonigrad, piazza
ch’è ben trenta miglia più addentro, e lontana dalla
strada, cui fece quell’Imperatore.
I corpi marini fannosi vedere fra Ostrovizza, e
62
Morpolazza su’ colli di Stancovzi, e fra Morpolazza, e il
mare per tutte le falde di Bagnevaz, e di Radassinovaz.
Il contado di Zara avea molti altri stabilimenti
romani, de’ quali, quantunque sieno periti anche i nomi,
troverebbonsi però de’ vestigj coll’ajuto della carta
peutingeriana. D’alcuni rimangono i nomi tuttora come
sono Carin, e Nadin, sorti dalle rovine di Corinium, e
Nedinum; io non posso per ora renderle conto di ciò, che
vi si osservi, non avendoli visitati. Mi fu però detto, che
presso Carin si veggano tuttora de’ vestigj d’un
anfiteatro.
Ho voluto con una stucchevole precisione parlare a
Vostra Eccellenza di tutti i luoghi, dove ho trovato
lapidefatti d’origine marina, e di tutte le pianure, o valli
coltivabili ed amene, che ho veduto cavalcando per una
picciola porzione del Contado di Zara, perché la non si
lasciasse ingannare da quanto fu scritto poco
veracemente degli eterni dirupi23 della Dalmazia, della
continuità di non so qual masso marmoreo che la
compone, e della rarità, o difficile riconoscimento de’
corpi marini lapidefatti. [42] Non si può negare, che
sian aspre ed orride alcune delle montagne di questo
regno; ma fa d’uopo anche aggiungere, che v’hanno
ampj distretti, ne’ quali montagne non s’incontrano
giammai, e che fra le montagne ancora v’hanno delle
valli amenissime, e feconde. Il mio concittadino Donati
ha nel suo Saggio dato anche qualche poco favorevole
cenno del carattere dei popoli, che abitano l’interno di
23 Donati Saggio di storia nat. p. VIII. IX.
63
questa provincia; ed egli ebbe il torto, alla pagina III.
prendendo a dirci, che il timore cagionato dalla
barbarie de’ popoli, e dal pericolo delle ricerche
trattenne lo Spon, e il Wheler dall’internarsi nella
Dalmazia mediterranea. Chiunque sa, che questi due
viaggiatori erano diretti pel Levante, imbarcati su d’una
nave pubblica veneziana, e per conseguenza costretti a
dilungarsi poco dal lido, allorché afferravano qualche
porto, non vorrà crederlo. Lo Spon trovò poi tanta, e sì
generosa ospitalità ne’ luoghi maritimi, e segnatamente
a Spalatro, e fu sì contento dell’onestà, e ragionevolezza
delle guide morlacche, dalle quali fu accompagnato in
qualche sua picciola escursione a cavallo, che non
avrebbe mai sognato di temere la barbarie de’ popoli
fra terra. È facile il consultare lo Spon medesimo nel
primo tomo del viaggio, dove rende conto della sua gita
a Clissa. Se Vostra Eccellenza avrà la pazienza di
leggere un giorno o l’altro i dettagli di quanto io ho
personalmente su di questo proposito veduto cavalcando
fra’ Morlacchi, non vorrà più credere, che questa
nazione sia barbara a segno di render pericoloso il
viaggiare pelle contrade ch’ell’abita. [43]

64
A Sua Eccellenza
mylord
Giovanni Stuart,
Conte di Bute, ec. ec. ec.

DE’ COSTUMI DE’ MORLACCHI.

V oi avrete più volte, nel tempo del soggiorno vostro


fra noi, udito parlare de’ Morlacchi come d’una
razza d’uomini feroce, irragionevole, priva d’umanità,
capace d’ogni misfatto; e forse v’avrà sembrato, ch’io
sia stato assai più temerario di quello si deggia
permettere ad un naturalista, scegliendo il paese da essi
abitato per oggetto delle mie peregrinazioni. Gli abitanti
delle città litorali della Dalmazia raccontano un gran
numero de’ fatti crudeli di questi popoli, che dall’avidità
del rubare condotti si portarono sovente agli eccessi più
atroci d’uccisioni, d’incendj, di violenze: ma que’ fatti
(de’ quali non permette si dubiti la riconosciuta onestà
di chi li riferisce) o sono d’antica data, o, se ne sono pur
accaduti recentemente alcuni, i caratteri, che portano,
deggiono piuttosto fargli ascrivere alla corruzione di
pochi individui, che all’universale cattiva indole nella
nazione. Sarà pur troppo vero, che dopo le ultime guerre
col Turco i Morlacchi abituati all’impunità
dell’omicidio, e del predare, avranno dato qualche
esempio di crudeltà sanguinaria, e di rapine violente: ma
65
quali sono mai state le truppe, che ritornate dalla guerra,
e licenziate dall’esercizio dell’armi contro il nemico del
proprio sovrano non abbiano, sciogliendosi, [44]
popolato i boschi, e le vie pubbliche d’assassini, e di
malviventi? Io mi credo di dovere alla nazione, da cui
sono stato così ben accolto, e umanamente trattato,
un’amplissima apologia, scrivendo ciò, che
personalmente delle sue inclinazioni, e costumi ho
veduto; e tanto più volentieri secondo questa mia
disposizione, quanto meno sospetto d’interessatezza
posso incontrare, non dovendo io probabilmente mai più
ritornare ne’ luoghi della Morlacchia, dove sono già
stato. I viaggiatori si studiano pell’ordinario di
magnificare i pericoli, a’ quali sono andati incontro, e i
disagi sofferti ne’ rimoti paesi. Io mi trovo ben lontano
da sì fatte ciarlatanerie, e Voi rileverete, Nobilissimo
Signore, dal dettaglio, che sono per darvi delle maniere,
e usanze de’ Morlacchi, quanto sicuramente, e con
quanto leggieri disagi io abbia viaggiato pelle loro
contrade, e quanto ragionevole fiducia mi animerebbe a
proseguirvi le mie ricerche, se lo mi permettessero le
circostanze.

§. 1. Origine de’ Morlacchi.


L’origine de’ Morlacchi, che trovansi attualmente
propagati pelle amene valli del Kotar, lungo i fiumi
Karka, Cettina, Narenta, e fra le montagne della

66
Dalmazia mediterranea24, è involta nelle tenebre de’
secoli barbari, insieme con quella delle tante altre
nazioni somiglianti ad essi ne’ costumi, e nel linguaggio
sì fattamente, che possono essere prese per una sola,
vastamente distesa dal nostro mare sino all’Oceano
Glaciale. L’emigrazioni delle varie tribù de’ popoli
slavi, che sotto i nomi di Sciti, di Geti, di Goti, d’Unni,
[45] di Slavini, di Croati, d’Avari, di Vandali
inondarono le provincie romane, e particolarmente
l’Illirico ne’ tempi della declinazione dell’Impero,
deggiono avere stranamente intralciate le genealogie
delle nazioni, che l’abitavano, portatevisi forse nel
modo medesimo in secoli più rimoti. I residui degli
Ardiei, degli Autariati, e degli altri popoli illirj
anticamente stabiliti in Dalmazia, i quali mal avranno
potuto accomodarsi a dipendere dai Romani,
agevolmente sarannosi affratellati cogl’invasori
stranieri, di poco dissimile dialetto, e costumi 25. Non

24 Il paese abitato da’ Morlacchi s’estende molto di più, così


verso la Grecia, come verso l’Allemagna, e l’Ungheria; io
circoscrivo la mia relazione al poco, che ho visitato.
25 Non è da mettere in dubbio l’esistenza della lingua slavonica
nell’Illirico sin da’ tempi della Repubblica Romana. I nomi
delle città, de’ fiumi, de’ monti, delle persone, de’ popoli di
quelle contrade conservatici dagli scrittori greci, e latini sono
manifestamente slavonici. Promona, Alvona, Senia, Jadera,
Rataneum, Stlupi, Uscana, Bilazora, Zagora, Tristolus,
Ciabrus, Ochra, Carpatius, Pleuratus, Agron, Teuca,
Dardani, Triballi, Grabaei, Pirustæ, e tante altre voci, che
s’incontrano presso gli storici, e i geografi antichi, la provano
67
sarebbe forse mal fondata congettura il sospettare, che
anche dall’ultima inondazione de’ Tartari, che dierono la
caccia sul principio del XIII. secolo a Bela IV. re
d’Ungheria, rifugiatosi in quell’occasione nell’isole
della Dalmazia, sieno restate molte famiglie a popolare
le valli deserte, che giacevano fra le montagne, e
v’abbiano lasciato que’ germi calmucchi, che vi si
vanno tuttora sviluppando, e spezialmente nel contado
di Zara.
Non è da far gran conto dell’opinione del geografo
Magini, che dall’Epiro fa derivare i Morlacchi, ed
Uscochi, il dialetto de’ quali somiglia molto più al [46]
rasciano, e al bulgaro che all’albanese; quando anche in
parte i Morlacchi della Dalmazia veneta fossero venuti
negli ultimi tempi da quelle contrade, resterebbe sempre
da cercare, d’onde colà si fossero recati. Egli fa anche
una nazione separata degli Haiduci, che non hanno mai
formato un popolo, come dal significato della voce
medesima si rileva26.

§. 2. Etimologia di questo nome.


I Morlacchi generalmente chiamansi Vlassi

bastevolmente. Vi si potrebbono aggiungere in molto maggior


numero le voci di radice slavonica, che si leggono nelle lapide
scolpite pel paese illirico sotto i primi imperatori.
26 Haiduk significa originariamente capo di partito, e talvolta
(come in Transilvania) capo di famiglia. In Dalmazia si
prende per distintivo dell’uomo facinoroso, bandito, e messo a
far l’assassino di strada.
68
nell’idioma loro, nome nazionale, di cui, per quanto io
ho potuto finora sapere, non si trova vestigio alcuno ne’
documenti della Dalmazia anteriori al XIII. secolo, e
che significa autorevoli, o potenti. La denominazione di
Moro-Vlassi, e corrottamente Morlacchi, di cui servonsi
gli abitanti delle città per indicarli, potrebbe forse
additarci l’origine loro, che a gran giornate dalle
spiaggie del Mar Nero vennero a invadere questi regni
lontani. Io crederei possibile (non impegnandomi però a
sostenere questa mia congettura sino all’ultimo sangue)
che la denominazione di Moro-Vlassi avesse significato
da principio i potenti, o conquistatori venuti dal mare,
che chiamasi more in tutti i dialetti della lingua
slavonica. Non merita quasi alcun riflesso l’etimologia
del nome Morlacchi immaginata dal celebre istorico
della Dalmazia Giovanni Lucio, e goffamente ricopiata
dal suo compilatore Freschot, perché tirata come il
cuoio de’ calzolaj. Egli pretese che Moro-Vlassi, o
Moro-Vlaki [47] significhi neri-Latini; quantunque in
buona lingua illirica la voce moro non corrisponda a
nero, e i Morlacchi nostri sieno forse più bianchi
degl’Italiani. Per appoggiare poi meno infelicemente la
seconda parte di questa etimologia, trovando che la
radice comune de’ nomi nazionali Vlassi, o Vlaki, e
Valacchi, è la voce vlàh indicante potenza, autorità, e
nobiltà, ne concluse primieramente, che gli abitanti
della Valacchia, e i nostri Vlassi doveano essere in tutto,
e per tutto la stessa cosa. Ma i Valacchi parlano una
lingua, che latineggia moltissimo, e interrogati del
69
perché, rispondono d’essere originariamente Romani;
dunque anche i nostri, quantunque non latineggino
tanto, sono romani. Questi Vlassi provenienti da colonie
latine furono poi domati dagli Slavi; e quindi il nome
singolare di vlàh, e il plurale vlassi, «appresso gli Slavi
divenne obbrobrioso, e servile, per modo, che fu esteso
anche agli uomini d’infima condizione fra gli Slavi
medesimi». A tutte queste miserie si risponde anche più
del bisogno col dire, che i Morlacchi nostri chiamansi
Vlassi, cioè nobili o potenti, per la medesima ragione
che il corpo della nazione chiamasi degli Slavi, vale a
dire de’ gloriosi; che la voce vlàh non ha punto a fare
col latino, e se trovasi essere la radice del nome
Valacchi, ella lo è, perché ad onta delle colonie
piantatevi da Trajano, il pieno della popolazione dacica,
come ognun sa, era di gente, che avea lingua slavonica,
non meno che i popoli sopravvenutivi ne’ secoli
posteriori; che se gli Slavi conquistatori avessero dovuto
dare o lasciare un nome ai popoli vinti non avrebbero
mai dato o lasciato loro quello, che significa nobiltà, e
potenza, come necessariamente intendevano, essendo
voce pura, e pretta slavonica; e che finalmente il Lucio
aveva del mal umore, quando si è affaticato per avvilire
i Morlacchi anche [48] nell’etimologia del nome, che
portano. Non si può negare, che molte voci d’origine
latina si trovino nel dialetto degl’Illirici abitanti fra
terra, come in grazia d’esempio, salbun, plavo, slap,
vino, capa, rossa, teplo, zlip, sparta, skrinya, lug, che
significano sabbia, biondo, caduta d’acqua, vino,
70
berretto, rugiada, tepido, cieco, sporta, cassa, bosco; e
derivano manifestamente da sabulum, flavus, lapsus,
vinum, caput, tepidus, lippus, sporta, scrinium, lucus:
ma da queste, e da moltissime altre, delle quali
agevolmente potrebbesi tessere un lungo catalogo, credo
non si possa con buona ragione concludere, che i
Morlacchi de’ tempi nostri discendano in dritta linea da’
Romani trapiantati in Dalmazia. Egli è un difetto pur
troppo comune agli scrittori d’origini questo trar
conseguenze universali da piccioli, e particolarissimi
dati, dipendenti pell’ordinario da circostanze eventuali,
e passaggiere. Io sono persuasissimo, che l’esame delle
lingue possa condurre a discoprire le origini delle
nazioni, che le parlano: ma sono poi anche convinto,
che vi si richiede un criterio acutissimo per distinguere
le voci avventizie dalle primitive, onde preservarsi da
sbagli madornali. La lingua illirica, ampiamente diffusa
dall’Adriatico all’Oceano, ha una grandissima quantità
di radici simili a quelle della greca, e se ne trovano
persino fra le voci numeriche, alle quali non si può
contendere l’indigenità; molti vocaboli slavonici sono
affatto greci, come spugga, trapeza, catrida, portati
senz’alcuna alterazione osservabile da σπόγγος,
τράπεζα, καθέδρα. La frequenza de’ grecismi, e
l’analogia dell’alfabeto, non mi condurrebbero però a
francamente asserire, che da’ Greci ristretti a un angusto
tratto di paese sia discesa la vastissima nazione
slavonica, o piuttosto che da essa ne’ più rimoti secoli
sia stata invasa, e popolata la Grecia. Lunghissimi, [49]
71
e laboriosi studj si richiederebbono per mettere in lume
sì fatte anticaglie, e forse ogni studio vi sarebbe gettato.
V’ebbe un dotto vostro nazionale, Mylord, che scrisse
della somiglianza della lingua britannica coll’illirica 27;
né per vero dire senza qualche ragione. Le voci stina,
meso, med, biskup, brate, sestra, sin, sunze, smull,
mliko, snigh, voda, greb, corrispondono molto a quelle
che voi usate, per nominare pietra, carne, miele,
vescovo, fratello, sorella, figlio, sole, bicchiere, latte,
neve, acqua, sepoltura. Sarebbe da esaminare, se come
si trovano queste voci nella lingua germanica, passata
co’ Sassoni in codesta vostra isola nobilissima, così si
trovassero anche in qualche dialetto degli antichi Celti
settentrionali. Io vorrei però, in ogni caso, esser
cautissimo prima di decidere; e forse non lo farei, sino a
tanto che non vedessi delle rassomiglianze palpabili
d’un corpo di lingua coll’altro. La frequenza di voci
esotiche mescolatesi nella nostra italiana (quantunque
non si possa ragionevolmente dire, che gl’Italiani
discendono da nazioni straniere) prova, che
indipendentemente dalle origini d’un popolo ponno
trovarsi molte parole nel di lui idioma comuni ad un
altro. Per ommettere gli arabismi, i grecismi, i
germanismi, i francesismi della lingua italiana raccolti
già dal Muratori, e da altri, non ha ella un grandissimo
numero anche di slavonismi? Abbajare viene da
oblajati, svaligiare da svlaçiti; barare da variti, e varati;
tartagliare da tartati: ammazzare da maç, spada, e dal
27 Brerkvood. De scrut. Relig.
72
derivato maçati; ricco da srichian, fortunato; tazza da
çassa; coppa da kuppa; danza da tanza; [50] bisato,
sinonimo d’anguilla, dal verbo bixati, fuggire; bravo da
pravo, avverbio d’approvazione; briga, è pretta voce
illirica equivalente all’idea che rappresenta in italiano;
maschera, stravizzo, strale, sbignare e innumerabili voci
del nostro dialetto veneziano, come a dire, baza,
bazariotto, bùdela, bore, musìna, polegàna, vera,
zòccolo, paltàn, smalzo, sonoci venute dall’Illirico,
donde certamente non sembra sinora provato che siamo
venuti noi.

§. 3. Origine diversa de’ Morlacchi dagli abitanti del


litorale, dall’isole, e anche fra loro.
La poco buon’amicizia, che hanno gli abitatori delle
città maritime, veri discendenti delle colonie romane,
pe’ Morlacchi, e il profondo disprezzo, che ad essi, e
agl’isolani vicini rendono questi per contraccambio,
sono anche forse indizj d’antica ruggine fra le due razze.
Il Morlacco piegasi dinanzi al gentiluomo delle città, e
all’avvocato, di cui ha bisogno, ma non lo ama; egli
confonde poi nella classe dei bòdoli tutto il resto della
gente, con cui non ha interessi, e a questo nome di
bodolo28 attacca un’idea di strapazzo. È da ricordare a
questo proposito il soldato morlacco, di cui rimane
tuttora la memoria nello spedale di Padova, ove morì. Il
28 Col nome di Bòdoli sono più particolarmente disegnati gli
scogliani del Canal di Zara, e gli abitanti delle isole maggiori
di quel mare.
73
religioso destinato a confortarlo in quegli ultimi
momenti, non sapendo il valore della parola, incominciò
la sua esortazione «Coraggio, signor Bodolo!». «Frate,
interruppe il moribondo, non mi dir Bodolo, o perdinci
mi danno!». [51]
La differenza grandissima del dialetto, del vestire,
dell’indole, delle usanze, sembra provare chiaramente,
che gli abitanti delle contrade maritime della Dalmazia
non hanno la medesima origine, che i transalpini, o che
la deggiono riconoscere da tempi assai differenti, o da
circostanze alteranti persino il carattere nazionale. Sono
anche diverse fra loro le varie popolazioni della
Morlacchia, in conseguenza delle diverse contrade
d’onde vennero, e delle moltiplici mescolanze, cui
dovettero sofferire ne’ cangiamenti replicati di patria,
ne’ tempi d’invasioni, e di guerre le loro famiglie. Gli
abitanti del Kotar sono generalmente biondi, cogli occhi
cilestri, la faccia bislarga, il naso stiacciato; caratteri,
che convengono anche assai comunemente ai Morlacchi
delle pianure di Scign, e di Knin; quelli di Duare, e di
Vergoraz sono di pel castagno, di faccia lunga, di colore
olivastro, di bella statura. L’indole delle due varietà è
anch’essa varia. I Morlacchi del Kotar sono pella
maggior parte di maniere dolci, rispettosi, docili; quelli
di Vergoraz aspri, alteri, audaci, intraprendenti. Eglino
deggiono alla loro situazione fra’ monti inaccessibili, e
sterili, dove spesso nasce il bisogno, e si ricovera
l’impunità, una fortissima inclinazione al rubare. Forse
scorre ancora nelle loro vene l’antico sangue de’ Varalj,
74
degli Ardiei, e degli Autariati, che fra quelle montagne
furono confinati dai Romani29. Pell’ordinario [52] le
ruberie de’ Vergorzani cadono a peso de’ Turchi: in caso
però di necessità dicesi, che non la risparmino nemmeno
a’ Cristiani. Fra i tratti ingegnosi, e arditi di bindoleria
ch’io ho sentito raccontare d’uno di coloro, il seguente
m’è sembrato caratteristico. Trovavasi il mariuolo al
mercato; un poveruomo, che gli si avvenne dappresso,
avea comperato una caldaja, cui s’era posta in terra col
fardello suo da un lato. Mentr’egli parlava d’affari per le
lunghe con un suo conoscente, il vergorzano tolse la
caldaja di terra, e la si pose sul capo, senza cangiar
situazione. Rivoltosi l’altro dopo d’aver finito il
colloquio, né vedendo più la caldaja al suo luogo, chiese
appunto a colui che aveala in capo «se avesse veduto
alcuno a portarla via.» Questi rispose francamente: «io
non ho badato a questo, fratello; ma tu dovevi portela
sul capo, come ho fatto io, che la non ti sarebbe stata
tolta:» Ad onta però di queste malizie, che si dicono
frequenti fra’ Vergorzani, il forastiere può viaggiare
sicuro pel loro paese, ed esservi bene scortato, ed
ospitalmente accolto.

29 «Al fiume Narone sono vicini gli Ardiei, Daorizi, e Plerei...


Le meno rimote età chiamarono gli Ardiei Varalj. I Romani li
cacciarono fra terra allontanandoli dal mare, perché mettevano
ogni cosa a ferro, e a fuoco, rubando; e li costrinsero a
coltivare la terra. Il paese loro è per verità aspro, sterile, e
degno d’abitatori selvaggi; quindi n’avvenne, che la nazione
s’è quasi spenta». Strab. lib. VII.
75
§. 4. Degli Haiduci.
Il pericolo maggiore, che potrebbe temervisi, viene
dalla quantità di Haiduci, che suol ritirarsi pelle grotte, e
pe’ boschi dell’aspre, e rovinose montagne di quel
confine. Non bisogna però farsene paura oltremodo. Il
ripiego, per viaggiare con sicurezza ne’ luoghi alpestri,
si è appunto quello di prendere per iscorta una coppia di
que’ galantuomini, che non sono capaci d’un
tradimento. Né dee far ribrezzo il sapere, che sono
banditi: imperocché mettendo le mani nelle cause della
loro misera situazione, si trovano pell’ordinario casi più
atti a destar compassione che diffidenza. Guai agli
abitanti delle città maritime della Dalmazia, se i pur
troppo [53] esorbitantemente moltiplicati Haiduci
avessero un fondo di carattere tristo! Eglino menano una
vita da lupi errando fra precipizj dirupati, e inaccessibili,
aggrappandosi di sasso in sasso per iscoprir da lunge le
insidie, agitati da un continuo sospetto, esposti
all’intemperie delle stagioni, privi sovente del
necessario alimento, costretti ad arrischiar la vita per
procurarselo, e languenti nelle più orrende, e disabitate
sinuosità delle caverne. Non sarebbe da meravigliarsi,
se frequentemente si udissero tratti d’atrocità da questi
uomini insalvatichiti, e irritati dal sentimento sempre
presente d’una sì miserabile situazione; è ben da stupire,
che, lungi dall’intraprendere cos’alcuna contro le
persone, alle quali credono dovere le proprie calamità,
essi rispettino pell’ordinario la tranquillità de’ luoghi

76
abitati, e sieno scorte fedeli de’ viandanti. Le loro rapine
hanno per oggetto gli animali bovini, e le pecore, cui
traggono nelle loro spelonche, onde avervi di che
nudrirsi, e far provvisione di cuojo per le scarpe.
Sembra un tratto di barbara indiscretezza l’uccidere il
bue d’un poveruomo per servirsi solamente d’una
picciola porzione della carne, e della pelle; ed io ho
sentito più volte chi ne faceva amare, e giuste doglianze
contro gli Haiduci. Non mi passerebbe mai pel capo di
voler far loro l’apologia su di questo: ma non si dee
però lasciar di riflettere, che le opanche, o scarpe sono
per quegl’infelici un affare di prima necessità, da che
trovansi condannati a trarre una vita errante per luoghi
asprissimi, ignudi d’erba, e di terra, coperti di punte
acutissime di duri macigni, rese vieppiù scabrose, e
taglienti pell’ingiurie dell’aria, e de’ secoli. Accade
talvolta, che la fame cacci delle partite di Haiduci alle
capanne de’ pastori, dove chiedano violentemente da
mangiare, e se ne tolgano a forza, se per avventura
venisse loro negato. In sì fatti casi, chi fa resistenza [54]
ha il torto per ogni titolo; il coraggio di questi uomini
risoluti è proporzionato al bisogno, e alla vita selvaggia
cui menano. Quattro Haiduci non temono d’assalire una
caravana di quindici, e venti Turchi; e la sogliono
spogliare, e metter in fuga.
Se accade talvolta, che un Haiduco sia preso da’
Panduri, questi non lo legano già, come i birri usano di
fare fra noi; ma sciogliendogli la funicella de’ calzoni
glieli fanno cadere su le calcagna, onde non possa
77
fuggire, e dia del mostaccio in terra se tentasse di farlo.
È cosa molto umana l’aver trovato un ripiego per
assicurarsi d’un uomo, senza legarlo all’uso delle bestie
più vili. La maggior parte degli Haiduci si credono
uomini di garbo, quando si sono macchiati di sangue
turchesco. Uno spirito di religione mal intesa,
combinato colla naturale, e coll’acquisita ferocia, porta
costoro violentemente a molestare i confinanti, senza
verun riguardo alle conseguenze. In questo hanno colpa
sovente i loro ecclesiastici pieni d’impeto nazionale, e
di pregiudizj, che mantengono, e non di rado riscaldano
il fermento dell’odio contro i Turchi, come contro a
figliuoli del demonio, invece d’invitar i buoni Cristiani
a pregar la clemenza divina pella loro conversione.

§. 5. Virtù morali, e domestiche dei Morlacchi.


Il Morlacco, che abita lontano dalle sponde del mare,
e da’ luoghi presidiati, è generalmente parlando un
uomo morale assai diverso da noi. La sincerità, fiducia,
ed onestà di queste buone genti, sì nelle azioni
giornaliere della vita, come ne’ contratti, degenera
qualche volta in soverchia dabbenaggine, e semplicità.
Gl’Italiani, che commerciano in Dalmazia, e gli abitanti
medesimi del litorale ne abusano pur troppo spesso;
quindi è che la fiducia de’ Morlacchi è scemata di
molto, e [55] va scemando ogni giorno più, per dar
luogo al sospetto, e alla diffidenza. Le replicate
sperienze, ch’essi hanno avuto degl’Italiani, han fatto
passare in proverbio fra loro la nostra malafede. Eglino
78
dicono per somma ingiuria egualmente passia-viro e
Lanzmanzka-viro, fede di cane e fede d’Italiano. Questa
mala prevenzione contro di noi potrebb’essere
incomoda al viaggiatore poco conosciuto: ma non lo è
quasi punto. Ad onta di essa, il Morlacco nato ospitale,
e generoso apre la sua povera capanna al forastiere: si
dà tutto il moto per ben servirlo, non richiedendo mai, e
spesso ricusando ostinatamente qualunque ricognizione.
A me più d’una volta è accaduto per la Morlacchia di
ricevere il pranzo da un uomo, che non m’avea veduto
giammai, né poteva ragionevolmente pensare di
dovermi rivedere in avvenire mai più.
Io non mi dimenticherò per sin che avrò vita
dell’accoglienza, e trattamento cordiale fattomi dal
vojvoda Pervan a Coccorich. Il mio solo merito era
d’essere amico d’una famiglia d’amici suoi. Egli mandò
monture, e scorte a incontrarmi, mi ricolmò di tutte le
squisitezze dell’ospitalità nazionale ne’ pochi giorni,
ch’io mi trattenni in que’ luoghi, mi fece scortare dal
proprio figlio, e dalle sue genti sino alle campagne di
Narenta, che sono una buona giornata lontane dalle di
lui case, e mi premunì di vettovaglie abbondantemente,
senza che potessi spendere in tutto questo un quattrino.
Dopo che fui partito dall’albergo di sì buon ospite, egli,
e tutta la sua famiglia mi seguitò cogli occhi, né si ritirò
in casa, che nel momento, in cui mi perdette di vista.
Questo affettuoso congedo mi destò nell’anima una
commozione, ch’io non avea mai provata sino allora, né
spero di provare sovente viaggiando in Italia. Io portai
79
meco il ritratto di questo generoso uomo, sì
principalmente [56] per aver il piacere di rivederlo
anche di lontano, malgrado al mare, e alle montagne che
ci separano, come anche per poter dare un’idea del lusso
della nazione negli abiti de’ suoi capi (Tav. IV.). Egli
permise ancora, che fosse disegnato il vestito d’una
fanciulla sua nipote, molto differente da quello delle
Morlacche del Kotar, e degli altri territorj, ch’io aveva
scorso.
Basta trattare con umanità i Morlacchi per ottener da
loro tutte le possibili cortesie, e farseli cordialmente
amici. L’ospitalità è fra loro tanto virtù del benestante,
quanto del povero; se il ricco v’appresta un agnello o un
castrato arrosto, il povero vi apparecchia un pollo
d’India, del latte, un favo di miele o tal altra cosa.
Questa generosità non è solamente pel forastiere; ella
stendesi su tutti quelli, che ponno averne di bisogno.
Quando un Morlacco viandante va ad alloggiare in
casa del suo ospite, o parente, la fanciulla maggiore
della famiglia, o la sposa novella, se v’è, lo riceve
baciandolo allo scendere di cavallo, o all’entrare
nell’albergo. Il viaggiatore d’altra nazione non gode
facilmente di questi favori donneschi; al contrario,
elleno gli si nascondono se sono giovani, e stanno in
riserva. Forse più d’una violazione delle leggi ospitali le
ha rese guardinghe; o il geloso costume de’ Turchi
vicini si estese in parte fra’ nostri Morlacchi.
Sinché v’è di che mangiare in casa de’ benestanti
d’un villaggio, che oggimai sono ridotti a un picciolo
80
81
numero, non mancano i poveri vicini del necessario
sostentamento. Quindi è che niun Morlacco si avvilisce
sino al chiedere l’elemosina a chi passa pel suo paese.
In tutti i viaggi, ch’io ho fatto pelle contrade abitate da
questa nazione, non m’è accaduto giammai d’incontrare
[57] chi m’abbia chiesto un quattrino. Io sì, che ho
avuto bisogno sovente di chieder qualche cosa a’ pastori
meschini, ma però liberali di quanto aveano; e molto più
frequentemente, attraversando le loro campagne nel
bollore della state, ho incontrato poveri mietitori, che
venivano spontaneamente ad offerirmi, con una
cordialità che m’inteneriva, l’otre da bere, e porzione
delle loro rustiche provvigioni.
La domestica economia non è intesa punto dai
Morlacchi comunemente; eglino somigliano in questo
particolare agli Ottentotti, e danno fondo in una
settimana a quanto dovrebbe loro bastare per molti
mesi, solo che si presenti un’occasione di far galloria. Il
tempo delle nozze, il dì solenne del Santo protettore
della famiglia, l’arrivo di parenti, o d’amici, e
qualunque altro motivo d’allegria fa, che si beva, e si
mangi intemperantemente quanto v’è in casa. È poi
economo, e castiga se stesso il Morlacco nell’usar delle
cose destinate a ripararsi dall’intemperie delle stagioni;
di modo che se ha il berretto nuovo, e la pioggia lo
sorprenda, egli se lo trae, amando piuttosto di ricevere
sul capo scoperto, e nudo la procella, che di guastare
troppo presto il berretto. Così si trae le scarpe, se
incontra fango, quando le non sieno più che sdruscite.
82
La puntualità del Morlacco è pell’ordinario
esattissima, quando l’impossibilità non vi si opponga
insuperabilmente. Se accade, che non possa restituire al
prescritto tempo il denaro preso ad imprestito, egli viene
con qualche presentuccio dal suo creditore a chiedere un
termine più lungo. Avviene bene spesso, che di termine
in termine, e di regalo in regalo, egli paghi senza
riflettervi il doppio di ciò, che dovrebbe. [58]

§. 6. Amicizie, e inimicizie.
L’amicizia, così soggetta anche per minimi motivi a
cangiamento fra noi, è costantissima fra i Morlacchi.
Eglino ne hanno fatto quasi un punto di religione, e
questo sacro vincolo stringesi appiè degli altari. Il
rituale slavonico ha una particolare benedizione per
congiungere solennemente due amici, o due amiche alla
presenza di tutto il popolo. Io mi sono trovato presente
all’unione di due fanciulle, che si facevano posestre
nella chiesa di Perussich. La contentezza, che trapelava
dagli occhi loro, dopo d’avere stretto quel sacro legame,
provava agli astanti quanta delicatezza di sentimento
possa allignare nell’anime non formate, o, per meglio
dire, non corrotte dalla società, che noi chiamiamo
colta. Gli amici così solennemente uniti chiamansi
pobratimi, le donne posestrime, ch’è quanto a dire
mezzo-fratelli, e mezzo-sorelle. Le amicizie fra uomo, e
donna non si stringono a’ giorni nostri con tanta
solennità: ma forse in più antiche, e innocenti età s’è

83
usato di farlo30.
Da queste amicizie, e semi-fratellanze consacrate de’
Morlacchi, e delle altre nazioni, ch’ebbero la medesima
[59] origine, sembra sieno derivati i fratelli giurati, che
fra la nostra plebaglia sono frequenti, e in molti luoghi
ancora fuori d’Italia. La differenza, che passa fra questi
nostri, e i pobratimi di Morlacchia, si è non solamente
che vi manca la ceremonia del rituale, ma ancora che
nelle contrade slavoniche ogni sorte d’uomini per
vantaggio reciproco, nelle nostre i facinorosi e
prepotenti sogliono più che gli altri congiungersi, e
affratellarsi per danno, e inquietudine delle popolazioni.
I doveri degli amici così legati sono d’assistersi l’un
l’altro in qualunque bisogno, o pericolo, il vendicare i
torti fatti al compagno, ec. Eglino usano di spingere
l’entusiasmo dell’amicizia sino all’azzardare, e perdere
la vita pel pobratime, né di tali sagrifizj sono rari gli
esempj, quantunque non si faccia tanto romore per
questi amici selvaggi come pegli antichi Piladi. Se

30
Dozivgliega Viila Posestrima
S’Velebite vissoke planine:
Zloga siio, Kragliu Radoslave;
Eto na re dvanajest delija.
Pism. od Radosi.
Ma una fata Posestrima chiamollo
Dell’Alpi Bebie dall’eccelsa vetta:
«Re Radoslavo, in tua mal’ora siedi.
Ecco sopra di te dodici armati».
Canz. di Radosi.
84
accadesse che fra’ pobratimi si mettesse la discordia,
tutto il paese vicino ne parlerebbe come d’una novità
scandalosa; ed accade pur qualche volta a’ dì nostri, con
afflizione de’ vecchiardi Morlacchi, i quali danno la
colpa alla mescolanza cogl’Italiani della depravazione
de’ loro compatriotti. Il vino, e i liquori forti, de’ quali la
nazione incomincia a far abuso quotidiano sul nostro
esempio, vi produce discordie, e tragedie, come fra noi.
Se le amicizie de’ Morlacchi non peranche corrotti
sono forti, e sacre, le inimicizie loro sono poi per lo più
inestinguibili, o almeno molto difficilmente si
spengono. Esse passano di padre in figlio; e le madri
non mancano di ricordare a’ teneri fanciulli il dovere
che avranno di vendicar il genitore, se per mala ventura
fosse stato ucciso, e di mostrar loro sovente la camicia
insanguinata, o le armi del morto. La vendetta è così
immedesimata nell’anima di questa nazione, che tutti
[60] i missionarj del mondo non basterebbono a
sradicarnela. Il Morlacco è naturalmente portato a far
del bene a’ suoi simili; egli è gratissimo anche a’ più
tenui benefizj: ma guai a chi gli fa del male, o lo
ingiuria! Vendetta, e giustizia corrispondono fra quella
gente alla medesima idea, ch’è veramente la primitiva; e
corre un trito proverbio, alla di cui autorità pur troppo
deferiscono: Kò ne se osveti, onse ne posveti: «Chi non
si vendica, non si santifica». È notabile cosa, che in
lingua illirica osveta significhi egualmente vendetta, e
santificazione; e così il verbo derivato osvetiti. Le
inimicizie antiche delle famiglie, e le vendette personali
85
fanno scorrere il sangue dopo molti, e molti anni; e in
Albania, per quanto mi vien detto, sono ancora più
atroci gli effetti loro, e più difficilmente riconciliabili gli
animi esacerbati. L’uomo del più dolce carattere è in
quelle contrade capace della più barbara vendetta,
credendo sempre di far il proprio dovere nell’eseguirla,
e preferendo questa pazza chimera di falso onore alla
violazione delle più sacre leggi, ed alle pene, che va ad
incontrare con risoluzione pensata.
Pell’ordinario l’uccisore d’un Morlacco, che abbia
parentado forte, è in necessità d’andarsene profugo di
paese in paese, nascondendosi pel corso di parecchi
anni. S’egli è stato assai destro, o assai fortunato per
isfuggire alle ricerche de’ suoi persecutori, e si trova
d’aver ammassato qualche denaro, cerca d’ottenere il
perdono, e la pace, dopo un ragionevole tempo; per
trattare delle condizioni di essa dimanda, ed ottiene un
salvocondotto, che gli viene fedelmente mantenuto sulla
parola. Egli trova de’ mediatori, che in un determinato
giorno uniscono i due parentadi nemici. Il reo, dopo
alcuni preliminari, è introdotto nel luogo dell’assemblea
strascinandosi per terra a quattro zampe, e tenendo
appeso al [61] collo l’archibugio, pistolla, o coltello,
con cui eseguì l’omicidio. Mentr’egli stà in così umile
positura, si recita da uno, o da più parenti l’elogio del
morto, che spesso riaccende gli animi alla vendetta, e
mette a un brutto rischio l’uomo quadrupede. È di rito in
qualche luogo, che gli uomini del partito offeso,
minacciando gli mettano alla gola armi da fuoco, o da
86
taglio, e dopo molta resistenza consentano finalmente a
ricevere in denaro il prezzo del sangue sparso. Queste
paci sogliono costare assai fra gli Albanesi; fra i
Morlacchi alcuna volta s’accomodano senza molto
dispendio, e in ogni luogo poi si conchiudono con una
buona corpacciata a spese del reo.

§. 7. Talenti, ed arti.
La svegliatezza d’ingegno, e un certo spirito naturale
d’intraprendenza rendono i Morlacchi atti a riuscire in
ogni sorte d’impiego. Nel mestiere dell’armi, quando
siano ben diretti prestano un ottimo servigio, e sul finire
del passato secolo furono adoperati utilmente per
granatieri dal valoroso generale Delfino, che conquistò
un importante tratto di paese soggetto alla Porta,
spezialmente servendosi di queste truppe in varj usi.
Riescono a meraviglia nella direzione degli affari
mercantili, ed anche adulti imparano agevolmente a
leggere, e scrivere, e conteggiare. Dicesi, che nel
principio di questo secolo i Morlacchi pastori usavano
molto occuparsi nella lettura d’un grosso libro di
dottrina cristiana, morale e storico, compilato da un
certo Padre Divcovich, e stampato più volte in Venezia
nel loro carattere cirilliano bosnese, ch’è in qualche
parte differente dal russo. Accadeva sovente, che il
parroco più pio che dotto, raccontando dall’altare
qualche fatto della Scrittura, lo storpiasse, o ne alterasse
le circostanze, ne’ quali [62] casi s’alzava dall’uditorio
la voce d’alcuno degli astanti a dire Nie tako, «la non è
87
così». Pretendesi, che per evitare questo scandalo sia
stata usata dell’attenzione in raccogliere tutti que’ libri,
di modo che pochissimi se ne ritrovano in Morlacchia.
La prontezza di spirito di questa nazione si dimostra
bene spesso nel dar risposte piccanti. Un Morlacco di
Scign trovavasi presente, dopo l’ultima guerra della
Serenissima Repubblica col Turco, al cambio de’
prigionieri. Davansi parecchi soldati ottomani per
riscattare un uffiziale de’ nostri. Uno dei deputati turchi
disse con ischerno, che gli sembrava i Veneziani
facessero un mal mercato. «Sappi, rispose il Morlacco,
che il mio Principe dà sempre volontieri parecchi asini
in cambio d’un buon cavallo».
Ad onta delle ottime disposizioni naturali ad
apprendere ogni cosa, i Morlacchi hanno
imperfettissime nozioni di georgica e di veterinaria. La
tenacità degli usi antichi singolarmente propria della
nazione, e la poca cura, che s’è avuto sino ad ora di
vincerla col mostrar loro ad evidenza l’utilità de’ nuovi
metodi, deve condurre necessariamente questa
conseguenza. I loro animali bovini, e pecorini soffrono
sovente la fame, e il freddo allo scoperto. Gli aratri, de’
quali si servono, e gli altri stromenti rurali sembrano
essere della primissima invenzione, e sono tanto
dissimili dai nostri quanto lo sarebbono le altre mode
dei tempi di Trittolemo dalle usate nell’età presente.
Fanno del burro, del cacio, della giuncata fra il bene, e il
male; e forse non vi si troverebbe che dire, se
manipolassero queste preparazioni di latte un po’ meno
88
sporcamente. L’arte del sarto vi è circoscritta agli
antichi e inalterabili tagli d’abiti, che si formano sempre
delle medesime stoffe. Una tela più alta o più bassa
dell’usato disorienta il sarto morlacco. [63] Hanno
qualche idea di semplice tintura; e i loro colori non sono
per verun conto dispregevoli. Fanno il nero della
corteccia di frassino, da loro chiamato jassen, messa in
fusione per otto giorni colle scorie squamose di ferro,
che raccolgonsi intorno all’incudini dei fabbri; mettono
quest’acqua a raffreddare, poi tingono con essa. Così
ottengono un bel colore turchino coll’infusione del
guado secco all’ombra nel ranno ben puro; bolle anche
questa mistura parecchie ore, e si lascia poi raffreddare
prima di mettervi i panni a tingere. Traggono anche
dallo scòdano, da loro detto ruj, il giallo, e il bruno; e
per ottenere il primo colore, usano talvolta
dell’euonimo, da loro conosciuto sotto il nome di
puzzàlina.
Le donne morlacche quasi tutte sanno lavorare di
ricamo, e di maglia. I loro ricami sono assai curiosi, e
perfettamente simili dal dritto, e dal rovescio. Hanno
una sorte di lavoro di maglia, cui non sanno imitare le
nostre italiane, e l’usano principalmente per quella
spezie di coturno, cui portano nelle pappuzze, e nelle
opanche, chiamato nazuvka. Non sono colassù rari i
telai da rascia, e da grosso telame: poco però vi
lavorano le femmine, perché i loro uffizj fra’ Morlacchi
non sono combinabili con lavori sedentarj.
In qualche villa della Morlacchia v’è l’arte del
89
pentolajo, come a Verlika; i vasi che vi si fabbricano
grossolanamente, e vi si cuociono in fornaci rustiche
scavate nel terreno, riescono di gran lunga più durevoli
che i nostrali.

§. 8. Superstizioni.
Sieno della communione romana, o della greca, que’
popoli hanno stranissime idee in proposito di religione;
e l’ignoranza di coloro, che dovrebbono illuminarli, fa
[64] che divenghino ogni giorno più mostruosamente
complicate. I Morlacchi credono alle streghe, ai folletti,
agl’incantesimi, alle apparizioni notturne, a’ sortilegi
così pervicacemente, come se ne avessero veduto
l’effetto in pratica le mille volte. Credono anche
verissima l’esistenza de’ vampiri; e loro attribuiscono,
come in Transilvania, il succhiamento del sangue de’
fanciulli. Allor che muore un uomo sospetto di poter
divenire vampiro, o vukodlak, com’essi dicono, usano di
tagliargli i garetti, e pungerlo tutto colle spille,
pretendendo che dopo queste due operazioni egli non
possa più andar girando. Accade talvolta, che prima di
morire qualche Morlacco preghi gli eredi suoi, e gli
obblighi a trattarlo come vampiro, prima che sia posto
in sepoltura il suo cadavere, prevedendo di dover avere
gran sete di sangue fanciullesco.
Il più audace Haiduco fuggirebbe a tutte gambe
dall’apparizione di qualche spettro, anima, fantasima, o
altra sì fatta versiera, cui non mancano mai di vedere le
fantasie bollenti degli uomini creduli, e prevenuti. Essi
90
non si vergognano di questo terrore; e rispondono a un
di presso col detto di Pindaro: «la paura, che viene dagli
spiriti, fa fuggire anche i figliuoli degli Dei». Le donne
morlacche sono, com’è ben naturale, cento volte più
paurose, e visionarie de’ maschi, e alcune di esse a forza
di sentirselo dire si credono veramente streghe.
Molti incantesimi, sanno fare le vecchie streghe in
Morlacchia; ma uno de’ più comuni si è quello di
togliere il latte alle vacche altrui per far che n’abbiano
in maggior quantità le proprie. Ma ne fanno anche di più
belle. Io so d’un giovane, a cui mentre dormiva fu tratto
il cuore da due streghe, che lo si voleano mangiar
arrosto; il poveruomo non s’avvide della sua perdita,
[65] com’è ben naturale, perché stava immerso nel
sonno, ma destatosi incominciò a dolersi, e sentì che
avea vuoto il luogo del cuore. Un zoccolante, che stava
a giacere nel medesimo luogo, ma non dormiva, avea
veduto bensì l’operazione anatomica delle streghe, ma
non avea potuto impedirle, perché lo aveano ammaliato.
La malìa perdé la forza allo svegliarsi del giovane
scuorato, ed entrambi vollero castigare le due ree
femmine: ma queste s’unsero in fretta con certo
unguento d’un loro pignattino, e volarono via. Il frate
andò al camino, e trasse dalle bragie il cuore di già
cotto, e lo diè da mangiare al giovane, che com’è ben
ragionevole, guarì tosto che l’ebbe trangugiato. Sua
Riverenza faceva, e fa forse ancora questo racconto,
giurandone la verità sul suo petto; né la buona gente si
credeva, o si crede permesso di sospettare, che il vino
91
l’avesse fatta travedere, o che le due femmine, una delle
quali non era vecchia, fossero volate via per tutt’altra
ragione, che per essere streghe. Come v’hanno le
maliarde, chiamate vjèstize, così vicino al male trovasi il
rimedio, e vi sono frequenti le bahòrnize, peritissime nel
disfare le malie. E di queste due opposte podestà guai
all’incredulo, che dubitasse!
Fra le due communioni latina, e greca passa, secondo
il solito, una perfettissima disarmonia; e i rispettivi
ministri delle Chiese non mancano di fomentarla: i due
partiti raccontano mille storielle scandalose l’uno
dell’altro. Le chiese de’ Latini sono povere, ma non
assai sporche; quelle de’ Greci sono egualmente povere,
e sucide vergognosamente. Io ho veduto il curato d’una
villa morlacca seduto in terra sul piazzale della chiesa
ascoltare le confessioni delle femmine
inginocchiateglisi di fianco; strana positura per certo,
ma che prova l’innocenza del costume di que’ buoni
popoli. La venerazione [66] che hanno pe’ ministri del
Signore è profondissima, e la dipendenza loro, e fiducia
in essi totale. Non di raro i Morlacchi sono trattati alla
militare da’ pastori delle loro anime, che correggono i
corpi col bastone. Forse v’è dell’abuso in questo
particolare, come ve n’è in quello delle penitenze
pubbliche, cui danno sull’esempio dell’antica Chiesa.
Della fiducia credula dei poveri montagnaj v’è chi abusa
anche pur troppo, traendo illeciti profitti da brevetti
superstiziosi, ed altre dannevoli mercatanzie di questo
genere. Ne’ brevetti chiamati zapiz scrivono in
92
capriccioso modo nomi santi, co’ quali non si dee
scherzare, e talora ricopiandone da’ più antichi vi
mescolano delle male cose. A questi zapiz attribuiscono
a un di presso le virtù medesime, che alle loro pietre
mostruosamente incise attribuivano i Basilidiani. I
Morlacchi sogliono portarli cuciti sul berretto per
guarire, o per preservarsi da qualche malattia; sovente li
legano, coll’oggetto medesimo, alle corna de’ loro buoi.
Il profitto, cui ritraggono i compositori di queste
cartuccie, fa che prendano le misure più opportune per
mantenerle in riputazione, ad onta delle frequenti prove
dell’inutilità loro, cui deggiono pur avere quei, che se ne
servono. È cosa degna d’essere notata, che anche i
Turchi de’ vicini luoghi ricorrono a farsi fare de’ zapiz
dai sacerdoti cristiani; il che dee non poco contribuire
ad accrescere il concetto di questa merce. Un’altra
divozione de’ Morlacchi (la quale non è tanto propria
loro, che anche fra ’l popolo nostro minuto non abbia
luogo) si è quella delle monete di rame, e d’argento del
basso-Impero, o veneziane contemporanee, che passano
per medaglie di sant’Elena, alle quali attribuiscono
grandissime virtù contro l’epilessia, ed altri malori. Le
medesime perfezioni sono attribuite a quelle monete
d’Ungheria [67] chiamate petizze, quando nel rovescio
abbiano l’immagine della Vergine col bambino Gesù
sostenuto dal braccio diritto. Il dono d’una di queste
monete è carissimo sì agli uomini, che alle donne di
Morlacchia.
I Turchi del vicinato, che portano con divozione i
93
zapiz superstiziosi, e che arrecano sovente regali, e
fanno celebrar delle messe alle immagini della Vergine
(cosa, ch’è per certo in contraddizione coll’Alcorano),
per un’altra contraddizione opposta, non rispondono al
saluto fatto col santo nome di Gesù. Quindi lungo il
confine loro quando s’incontrano i viandanti non usano
dire, come ne’ luoghi men lontani dal mare, buaglian
Issus, sia lodato Gesù, ma, buaglian Bog, sia lodato
Iddio.

§. 9. Costume.
L’innocenza e la libertà naturale de’ secoli pastorali
mantiensi ancora in Morlacchia; o almeno ve ne
rimangono grandissimi vestigj ne’ luoghi più rimoti dai
nostri stabilimenti, La pura cordialità del sentimento
non vi è trattenuta da’ riguardi, e dà di sé chiari segni
esteriori senza distinzione di circostanze. Una bella
fanciulla morlacca trova un uomo del suo paese per la
strada, e lo bacia affettuosamente, senza pensare a
malizia. Io ho veduto tutte le donne, e le fanciulle, e i
giovani, e i vecchi di più d’una villa baciarsi fra loro, a
misura che giungevano su’ piazzali delle chiese, ne’
giorni di festa. Sembrava, che quella gente fosse tutta
d’una sola famiglia. Ho poi osservato cento volte la
medesima cosa pelle strade, e pe’ mercati delle città
maritime, dove i Morlacchi vengono a vendere le loro
derrate. Ne’ tempi di feste, e chiasso, oltre al bacio corre
qualche altra libertatuccia di mani, che noi troveressimo
poco decente, ma presso di loro non passa per [68] tale;
94
se ne vengano ripresi, dicono «ch’egli è uno scherzare,
che a nulla monta». Da questi scherzi però hanno
principio sovente i loro amori, che frequentemente
finiscono in ratti, quando i due amanti si trovino
d’accordo. È raro caso (e non avviene certamente ne’
luoghi più rimoti dal commercio) che il Morlacco
rapisca una fanciulla non consenziente, o la disonori. Se
questo accadesse, la giovane farebbe per certo buona
difesa; da che la robustezza delle donne di que’ paesi di
poco la cede a’ maschi pell’ordinario. Quasi sempre la
fanciulla rapita fissa ella medesima l’ora, e ’l luogo del
ratto; e lo fa per liberarsi dal numero dei pretendenti, ai
quali forse ha dato buone parole, e da’ quali ha ricevuto
qualche regaluccio in pegno d’amore, come d’anella
d’ottone, di coltellini, o d’altra tal cosa di lieve prezzo.
Le Morlacche si tengono un poco in assetto prima
d’andare a marito: ma dopo che ne hanno fatto
l’acquisto, si abbandonano totalmente al sudiciume;
quasi volessero giustificare il disprezzo, con cui sono
trattate. Non è però, che le fanciulle mandino buoni
effluvj; imperocché usano d’ungersi i capelli col burro,
che irrancidisce facilmente, ed esala anche di lontano il
più disaggradevole puzzo, che possa ferire il naso d’un
galantuomo.

§. 10. Vesti donnesche.


L’abito delle Morlacche è vario ne’ varj distretti, ma
sempr’egualmente strano agli occhi italiani; quello delle
fanciulle è più composto, e bizzarro pegli ornamenti,
95
che portano sul capo, a differenza delle maritate, alle
quali non è permesso di portare altro, che un fazzoletto
aggruppato, bianco, o di colore. Le fanciulle portano
una berretta di scarlatto, da cui pell’ordinario pende un
velo scendendo giù per le spalle, e questa [69] è il
segnale della loro verginità; molte file di monete
d’argento, fra le quali bene spesso ve n’hanno d’antiche,
e pregevoli, la rendono adorna alle più riguardevoli, che
sogliono appendervi anche de’ lavori a filigrana fatti in
foggia d’orrecchini, e delle catenelle d’argento, con
mezze-lune attaccate all’estremità. In alcune si veggono
collocate varie paste di vetri coloriti legate in argento.
Le povere hanno la berretta spoglia d’ogni ornamento, o
talvolta adornata soltanto di conchigliette esotiche, di
pallottoline di vetro infilzate, o di lavori circolari di
stagno. Uno dei principali meriti delle berrette, che
costituisce il buon gusto delle giovani morlacche più
sfarzose, si è il fermar l’occhio colla varietà degli ornati,
e il far romore al minimo scuotimento del capo. Quindi
catenelle, cuoricini, mezze-lune d’argento, o di latta,
pietre false, e chiocciolette, e sì fatte altre cianfrusaglie
vi trovano luogo. In alcuni distretti piantansi sulla
berretta de’ fiocchi di penne colorite, che rassomigliano
a due corna; in alcuni altri vi mettono de’ pennacchi
tremolanti di vetro, in altri de’ fiori finti, che comprano
alle marine; e fa d’uopo confessare, che fra la varietà di
que’ capricciosi, e barbari ornamenti vedesi qualche
volta spiegata una sorte di genio. Le camicie dei dì
solenni sono ricamate di seta rossa, e talvolta d’oro;
96
sogliono lavorarle elleno stesse seguendo le loro greggie
al pascolo, ed è meraviglia, che trapuntino così bene i
loro ricami, senza verun sostegno del lavoro, e vagando.
Queste camicie sono chiuse al collo da due fermagli, cui
chiamano maite, e aperte lungo il petto come quelle de’
maschi. E donne, e fanciulle portano al collo grossi fili
di pallottole di vetro di varia grandezza, e color
barbaricamente confusi; alle mani quantità d’anella di
stagno, d’ottone, e d’argento; ai polsi smaniglie di cuojo
coperte di [70] lavori di stagno, o d’argento se sieno
assai ricche. Usano anche pettine ricamate, o adorne di
vetro infilato, e di conchiglie: ma non conoscono
gl’imbusti, né alle pettine mettono ferri, od ossa di
balena. Una larga cintola tessuta di lana colorita, o
marchettata di stagno sul cuojo, attraversa quella veste e
gonnella, che lungo gli orli è talvolta anch’essa fregiata
di conchiglie, cui dal color modro, o turchino, che vi
predomina, chiamano modrina. La sopravvesta di rascia
come la gonnella arriva loro sino alla metà della gamba;
è listata lungo gli orli di scarlatto, e chiamasi sadak. In
tempo di state depongono la modrina e portano il sadak
solo senza maniche, sopra d’una gonnella, o camiciotto
bianco. Le calzette d’una fanciulla sono sempre rosse; le
sue scarpe simili a quelle degli uomini chiamansi
opanke; hanno la suola di cuojo crudo di bue, la parte
superiore di cordicelle annodate, che son fatte di cuojo
di montone; queste chiamano opùte; e girandole attorno
le si stringono al disopra de’ malleoli ad uso di coturno
antico. Per quanto ricche sieno le loro famiglie, non si
97
permette alle fanciulle di portare altra spezie di scarpe.
Quando vanno a marito, possono deporre le opanke, e
prendere le papuzze alla turca. Le treccie delle fanciulle
stanno nascose sotto la berretta; le spose se le lasciano
cadere sul petto, e talvolta le annodano sotto la gola;
v’attaccano poi sempre, e v’intrecciano medaglie, vetri,
o monete forate all’usanza tartara, e americana. Una
giovane, che si fosse guadagnato concetto di poco buon
costume, arrischierebbe di vedersi strappare
pubblicamente nella chiesa la berretta rossa dal curato, e
d’aver poi i capelli recisi da qualche suo parente in
segno d’infamia. Quindi è, che se alcuna di esse ha
commesso qualche fallo amoroso depone da per se
stessa le insegne verginali, e cerca di cangiar paese. [71]

§. 11. Sponsali, gravidanze, parti.


È frequentissima cosa anche fra i Morlacchi, che una
fanciulla sia chiesta in isposa per un qualche giovane,
che abita molte miglia lontano; sì fatti matrimoni si
trattano dai vecchiardi delle rispettive famiglie, senza
che gli sposi futuri si siano mai veduti. La ragione di
queste ricerche lontane suol essere, più che la mancanza
di fanciulle nel villaggio, o ne’ contorni, il desiderio
d’imparentarsi con famiglie assai diramate, e celebri per
aver prodotto uomini valorosi. Il padre dello sposo, o
altro di lui parente d’età matura va a chiedere la
giovane, o per meglio dire una giovane della tal
famiglia, non avendo pell’ordinario scelta determinata.
Gli vengono mostrate tutte le fanciulle di casa, ed egli
98
sceglie a piacere, rispettando per lo più il diritto della
primogenita. Di raro vengono negate le fanciulle
richieste; né si suol molto badare alle circostanze di chi
le chiede. Sovente avviene, che un ricco morlacco dia
una delle figliuole al proprio servo, o al colono, come
usavasi ne’ tempi patriarcali; così poco si fa conto delle
donne in quelle contrade. In queste occasioni però esse
hanno un diritto, cui le nostre desidererebbero d’avere, e
giustizia vorrebbe che avessero. Colui, che ha chiesto la
giovane come procuratore, ottenuta che l’abbia, va pello
sposo, e ritorna con esso, onde si veggano l’un l’altro.
Quando non si dispiacciano reciprocamente, il
matrimonio è concluso. In qualche paese si usa che la
giovane vada a vedere la casa, e la famiglia dello sposo
propostole, prima di pronunziare un sì definitivo; ella è
in libertà di sciogliere il trattato, ogniqualvolta il luogo,
o le persone avessero di che disgustarla. S’ella n’è
contenta, ritorna alla casa paterna scortata dai futuro suo
sposo, dai [72] cognati, e amorevoli della famiglia. Si
fissa il tempo delle nozze, giunto il quale lo sposo
unisce i più distinti del parentado, che così raccolti
chiamansi svati, e tutti montati a cavallo, e ben adorni se
ne vanno alla casa della fanciulla. Uno degli ornamenti
distintivi de’ chiamati a nozze si è il pennacchio di
pavone su la berretta. La compagnia è ben armata per
rispingere qualunque aggressione, o imboscata, che
tendesse a turbare la festa. Di tali improvvisate
accadevano spesso ne’ tempi andati, allorché (per
quanto dalle canzoni eroiche della nazione raccogliesi)
99
era in uso, che i varj pretendenti alla mano d’una
fanciulla si meritassero la preferenza con azioni
valorose, o con prove d’agilità, e destrezza di corpo, e
prontezza d’ingegno. In una canzone antica sopra le
nozze del vojvoda Janco di Sebigne (che fu
contemporaneo del celebre Giorgio Castriotich, detto
Scanderbegh) i fratelli di Jagna da Temesvvar, ch’egli
avea chiesta per moglie, poco ben disposti verso di lui,
dopo d’averlo fatto bere più del bisogno, gli
propongono de’ giuochi, coll’alternativa di ottenere la
sposa se sapea trarsene con onore, o di restare ucciso se
non riusciva nell’eseguirli.
«E primamente fuor trassero un’asta,
Che un pomo su la cima avea confitto,
E sì parlaro umanamente: Janco,
Col dardo pungi su quell’asta il pomo,
Che se ferir tu nol potrai col dardo,
Né di qui partirai, né omai la testa
Più porterai, né condurrai con teco
La giovane vezzosa»31. [73]
Un altro giuoco proposto fu il varcare d’un salto nove
cavalli, posti l’uno accanto l’altro; il terzo, di conoscere
la sua futura sposa fra nove fanciulle coperte da’ loro
veli. Janco era ben un valoroso soldato, ma non sapea
far di queste galanterie; un suo nipote le fece per lui, e
non vi fu che ridire, poiché l’usanza lo permetteva come
31 Questa canzone non passa per esattamente storica, ma sempre
serve a far conoscere le usanze di que’ tempi, e il carattere
della nazione.
100
permette in codesta vostra isola, regina dell’Oceano, il
pagar un uomo, che faccia alle pugna in cambio dello
sfidato. La maniera, con cui Zéculo, il nipote di Janco,
indovinò qual fosse la sposa promessa allo zio, fra le
nove altre giovani, merita d’essere riferita, e d’allungare
la mia digressione. Egli distese sul pavimento il manto,
che si trasse di dosso, e così in farsetto, dice il poeta,
«A par del sole
Zéculo risplendè folgoreggiante».
Quindi gettovvi sopra una manata d’anella d’oro, e
rivoltosi alle giovani velate:
«Su via raccogli
Le anella d’oro, amabile fanciulla
Tu, che se’ a Janco destinata; e s’altra
Stender la mano ardisse, io d’un sol colpo
Troncargliela saprò col braccio insieme.
Tutte addietro si fer; ma non già addietro
Volle di Janco la fanciulla farsi,
Che l’auree anella si raccolse, e adorna
Ne feo la bianca man».
Fa d’uopo accordare a Zéculo un talento particolare per
conoscere le maschere.
Colui, che dopo questa sorte di prove si trovava
escluso dalla pretesa, o posposto ad altri, e non credeva
d’esserlo giustamente, cercava di risarcirsi colla
violenza, [74] dal che ne seguivano sanguinosi
combattimenti. Su le sepolture degli antichi Slavi, che
trovansi pe’ boschi e luoghi deserti della Morlacchia,

101
veggonsi di frequente scolpite a rozzo bassorilievo
queste zuffe32.
Condotta alla chiesa la sposa velata, e coronata fra gli
svati a cavallo, e compiute le sagre cerimonie, fra gli
spari di pistolle, d’archibugi, e urli barbarici, e grida
romorose d’allegrezza viene accompagnata alla casa
paterna, o a quella dello sposo se sia poco lontana.
Ognuno degli svati ha qualche particolare ispezione,
tanto nel tempo della marcia, che in quello del convito,
a cui si dà mano subito dopo finite le funzioni della
chiesa. Il parvinaz precede gli altri tutti, cantando in
qualche distanza; il bariactar va sventolando una
bandiera di seta attaccata a una lancia, sulla di cui punta
è conficcata una mela; i bariactari sono due, e quattro
negli sposalizj più nobili. Lo stari-svat è il principale
personaggio della brigata, e suol essere rivestito di
questa dignità il più orrevole uomo del parentado. Lo
stacheo è destinato a ricevere gli ordini dello stari-svat. I
due diveri, che quando ve n’abbiano deggiono essere i
fratelli dello sposo, servono la giovane. Il kuum è il
compare al nostro modo d’intendere; komorgia, o
seksana è il deputato alla custodia della cassa dotale.
Ciaus porta una mazza, e tien in ordine la marcia come

32 Ve n’hanno spezialmente nel bosco fra Gliubuski, e Vergoraz,


su le sponde del Trebisat, lungo la via militare, che da Salona
conduceva a Narona. A Lovrech, a Cista, a Mramor, fra Scign,
e Imoski, se ne veggono pur molte. Ve n’ha una isolata a
Dervenich in Primorje, detta Costagnichia-greb; così a
Zakuçaz, dove dicesi eretta sul luogo del combattimento.
102
maestro di ceremonie; egli va cantando ad alta voce
Breberi, Davori, Dobra-srichia, Jara, Pico, [75] nomi
di antiche deità propizie. Buklia è il coppiere della
brigata, così per viaggio, come a tavola. Questi ufizj
sono duplicati, e triplicati a tenore del bisogno nelle
compagnie numerose.
Il pranzo del primo giorno si fa talora in casa della
sposa, ma per lo più dallo sposo, all’albergo del quale
s’avviano gli svati dopo la benedizione nuziale. Tre o
quattro uomini a piedi precedono la comitiva correndo,
e il più veloce di essi ha per premio una mahrama,
spezie d’asciuttamani ricamato alle due estremità. Il
domachin, o sia capo di casa, va incontro alla nuora;
prima ch’ella scenda di sella le vien dato un bambino da
accarezzare, che si prende ad imprestito dai vicini, se
non ve ne fossero in famiglia. Scesa ch’ella è, prima
d’entrare in casa s’inginocchia, e bacia la soglia della
porta. La suocera, o in mancanza di questa qualche altra
femmina del parentado le presenta un vaglio pieno di
varie spezie di grani, e frutta minori, come nocciuole, e
mandorle, ch’essa dee spargere sopra gli svati,
gettandosene a manate dietro le spalle. In quel giorno la
sposa non pranza alla tavola de’ parenti; ma ad una
mensa appartata co’ due diveri, e lo stacheo. Lo sposo
siede alla tavola degli svati: ma egli non dee per tutto
quel dì unicamente consagrato all’unione matrimoniale
sciogliere, né tagliare cos’alcuna. Il kuum trincia per lui
le carni, e ’l pane. Tocca al domachin il far le disfide del
bere; il primo a rispondervi è pella dignità sua lo stari-
103
svat. Pell’ordinario il giro della bukkàra, ch’è un gran
bicchiere di legno capacissimo, incomincia
religiosamente da un brindisi al Santo protettore della
famiglia, alla prosperità della santa Fede, o d’altro nome
ancora più d’ogni altro sublime, e venerabile.
L’abbondanza più strabocchevole regna in questi
conviti, ai quali [76] però ciascuno degli svati
contribuisce mandando per la parte sua provvigioni. Le
frutta e ’l cacio aprono il pranzo; la zuppa lo chiude,
precisamente all’opposto dell’usanza nostra. Fra le
vivande prodigamente imbandite v’hanno tutte le spezie
d’uccelli domestici, carni di capretti, di agnelli, e
selvaggine talvolta: ma di raro vi si trova vitello, e forse
mai fra’ Morlacchi non guasti dalla società forastiera.
Questo abborrimento dalla carne vitulina è antichissimo
presso la nazione; e ne fa cenno anche san Girolamo,
contro Gioviniano33. Il Tomco Marnavich, scrittore
originario di Bosna, che visse nel principio del secolo
passato, dice, che «sino a’ suoi tempi i Dalmati non
corrotti dai vizj de’ forastieri si astenevano dal mangiar
carne di vitello, come da un cibo immondo»34. Le donne
del parentado, se sono invitate, non pranzano già alla
mensa de’ maschi, essendo usanza stabilita che mangino
sempre in disparte. Il dopo pranzo si passa, al solito

33 At in nostra Provincia scelus putant vitulos devorare D. Hier.


Contra Jovin.
34 Ad hanc diem Dalmatӕ, quos peregrina vitia non infecere, ab
esu vitulorum non secus ac ab immunda esca abhorrent. Jo.
Tomc. Marn. in Op. ined. De Illyrico, Cæsaribusque Illyricis.
104
delle solennità, in danze, in canti antichi, e in giuochi di
destrezza, o d’acutezza d’ingegno. La sera all’ora
conveniente, dopo la cena, fatte le tre rituali disfide del
bere, il kuum accompagna il nuovo sposo
all’appartamento matrimoniale, che suol essere la
cantina, o la stalla degli animali, dove appena è arrivato
che fa uscire i diveri, e lo stacheo, restando egli solo co’
due conjugati. Se v’è preparato un letto migliore che la
paglia, egli ve li conduce; e dopo d’avere sciolto [77] la
cintola alla giovane, fa che lo sposo, ed essa
reciprocamente si spoglino. Non è molto tempo, che
sussisteva ancora in tutto il suo vigore l’usanza che
obbligava il kuum a spogliare intieramente la nuova
sposa; ed è una conseguenza di essa il privilegio, che
rimane ancora a questo parente spirituale, di baciarla
quantunque volte, e in qualunque luogo la incontri;
privilegio, che potrà forse esser piacevole su le prime,
ma che dev’essere disgustoso in progresso. Quando gli
sposi sono in camicia il kuum si ritira, e sta
coll’orecchio alla porta, se pur v’è porta. A lui tocca dar
l’annunzio dell’esito de’ primi abbracciamenti, e lo fa
con uno sparo di pistolla, a cui fanno eco parecchi degli
svati; ma se lo sposo trova qualche facilità non
aspettata, (quando sia bastevolmente smaliziato per
avvedersene) la festa è turbata. Non si fa però il romore,
cui fanno in simili casi gli Ukrainesi da’ quali i
Morlacchi nostri sono in questo caso un po’ differenti,
quantunque in pieno abbiano con essi una grandissima
conformità di vestito, di costumi, di dialetto, e persino
105
d’ortografia. Colà usano di portare in trionfo la camicia
della nuova sposa il giorno dopo le nozze con molta
solennità; e maltrattano bruttamente la madre, se la
verginità della giovane si trovasse sospetta. Uno degli
scherni, cui usano di fare alla custode poco attenta, si è
il versarle da bere in un vaso forato nel fondo35.
I due diveri, e stacheo, licenziati dal luogo destinato
al rusticano imeneo, in pena d’avere abbandonata la
giovane alla loro custodia affidata, sono obbligati a [78]
rispondere ad una disfida lustrale, se vogliono essere
riammessi fra gli svati. La rakia, o acquavite si consuma
prodigamente in sì fatte occasioni. Il dì seguente la
sposa, deposto il velo, e la berretta verginale, col capo
scoperto assiste alla tavola degli svati, ed è costretta ad
ascoltare gli equivoci più grossolani, e le brutalità più
ubbriachevoli dai convitati, che si credono in questi casi
liberi dai ceppi della decenza loro abituale su certi
propositi.
Queste feste nuziali, dette zdrave dagli antichi Unni,
sono chiamate zdravize da’ nostri Morlacchi, d’onde
certamente è derivata la voce italiana stravizzo; elleno
durano tre, sei, otto, e più giorni secondo il potere, o
l’indole prodiga della famiglia, che dee farle. La novella
sposa ritrae de’ profitti considerabili in que’ giorni
d’allegria, e quindi si forma il suo picciolo peculio; da
che in dote non suol portare, che le proprie robbe, e una
vacca: spesso accadendo, che i parenti di essa, invece di
darne, ritraggano denaro dallo sposo. Ella porta ogni
35 Queste usanze sono comuni a tutto il paese russo.
106
mattina l’acqua alle mani degli ospiti, ciascuno de’ quali
dopo d’esserlesi lavate dee gettare qualche moneta nel
catino; ed è ben giusto, che paghino qualche cosa
allorché si lavano coloro, che stanno talvolta de’ mesi
interi senza mai farlo. L’uso accorda alle spose la libertà
di far delle burle agli svati, nascondendo loro le opanke,
i berretti, i coltelli, o altre simili cose di prima necessità,
cui deggiono riscattare con una somma di denaro tassata
dalla compagnia. Oltre alle sopraccennate contribuzioni
volontarie, e all’estorte, deve per rito ciascuno di essi
far un regalo alla sposa, che dal canto suo corrisponde
con presentuzzi l’ultimo giorno delle zdravize. Il kuum,
e lo sposo portanli sopra sciable sguainate dinanzi al
domachin, che li distribuisce per ordine a tutti gli svati;
[79] consistono pell’ordinario in camicie, moccichini,
mahrame, berretti, e altre tali coserelle di poco valore.
I riti nuziali sono quasi precisamente gli stessi per
tutto il vasto paese abitato dai Morlacchi; né di gran
lunga dissimili si praticano anche da’ contadini isolani, e
da’ litorali dell’Istria, e della Dalmazia. Fra i tratti di
varietà, che vi s’incontrano è notabile quello dell’isola
di Zlarine, nelle acque di Sebenico, dove lo stari-svat
(che può essere, ed è sovente difatti briaco), nel
momento, in cui la sposa si dispone ad andare col
marito, le deve levar dal capo la corona di fiori con un
colpo di sciabla nuda. Sull’isola di Pago, in Quarnaro,
nel villaggio di Novaglia (dov’era probabilmente la
Gissa degli antichi geografi) v’è un’usanza più comica,
e meno pericolosa, bench’egualmente selvaggia, e
107
brutale. Quando un nuovo sposo è per condurre seco la
fanciulla, a cui dee legarsi indissolubilmente, il padre, o
la madre di essa nell’atto di consegnargliela, gli fanno
con molta caricatura l’enumerazione delle di lei male
qualità! «Giacché tu la vuoi, sappi, ch’ella è dappoco,
caparbia, ostinata, ec.», Lo sposo allora rivolgendosi
alla giovane in atto sdegnoso: «Oh! Dacch’ella è così, le
dice, io ti farò ben mettere il cervello a partito!» e fra
queste parole le sciorina qualche buona ceffata, un
pugno, un calcio, o tal altra gentilezza, che non manca
talvolta di coglierla, perché il rito non sia di sola figura.
In generale sembra, per quanto dicono, che le donne
morlacche, e le isolane ancora, trattone le abitanti delle
città, non disamino qualche bastonata da’ loro mariti, e
sovente anche dagli amanti.
Nei contorni di Dernish le nuove spose, durante il
primo anno del matrimonio, sono in dovere di baciar
tutti i conoscenti nazionali, che giungono alla loro casa;
[80] dopo questo termine, l’uso le dispensa da tal
complimento: come se l’intollerabile sporchezza, a cui
s’abbandonano pell’ordinario, le rendesse indegne di
praticarlo. Fors’è ad un tempo causa, ed effetto questo
lor sudiciume della maniera umiliante, con cui vengono
trattate dai mariti, e da’ parenti. Essi non le nominano
giammai, parlando con persona rispettabile, senza
premettere l’escusatoria con vostra sopportazione; il più
colto Morlacco, dovendo far menzione della moglie sua,
dice sempre da prostite, moia xena, «vogliate
perdonarmi, mia moglie». Que’ pochi, che hanno una
108
lettiera, su cui dormire nella paglia, non vi soffrono già
la moglie, che dee dormire sul pavimento, e ubbidire
soltanto quando è chiamata. Io ho dormito più volte in
casa di Morlacchi, e sono stato a portata di veder quasi
universalmente praticato questo disprezzo al sesso
femminino, che se lo merita colassù, dove non è punto
amabile, o gentile, anzi deforma, e guasta i doni della
natura.
Le gravidanze, e i parti di queste femmine sarebbero
cosa nuova fra noi, dove le signore patiscono tanti
languori, e sì lunghe debolezze prima di sgravarsi, ed
hanno d’uopo di tante circospezioni dopo la
grand’operazione. Una Morlacca non cangia cibo, non
intermette fatica, o viaggio per esser gravida; e spesso
accade ch’ella partorisca nel campo, o lungo la via da
per sé sola, che raccolga il bambino, e lo lavi alla
prim’acqua che trova, se lo porti in casa, e ritorni il dì
seguente a’ consueti lavori, o al pascolo delle sue
greggie. Anche se nascono in casa, i bambini sono per
inveterato costume della nazione lavati nell’acqua
fredda; e ponno ben dire di sé i Morlacchi ciò, che gli
antichi abitatori d’Italia:
Durum a stirpe genus natos ad flumina primum
Deferimus, sævoque gelu duramus, et undis. [81]
Né il bagno freddo produce que’ cattivi effetti ne’
bambini che si diè a credere dovessero venirne il signor
Mochard, che l’uso degli Scozzesi, e Irlandesi de’ giorni
nostri disapprova come pregiudicevole ai nervi, e le
immersioni degli antichi Germani taccia di
109
superstiziose, e figlie d’ignoranza36.
Le creaturine così diligentemente raccolte, e
morbidamente ripulite, sono poscia involte in miserabili
cenci, da’ quali stanno riparate alla peggio pello spazio
di tre o quattro mesi; dopo di questo termine si lasciano
andare a quattro gambe per la capanna, e pe’ campi,
dove acquistano insieme coll’arte di camminare in due
piedi quella robustezza, e sanità invidiabile, onde sono
dotati i Morlacchi, e che li rende atti ad incontrare le
nevi, e i ghiacci più acuti a petto scoperto. I fanciulli
succhiano il latte materno sino a tanto che una nuova
gravidanza lo faccia mancare; e se il ringravidamento
tardasse quattro, e sei anni, per tutto questo tempo
eglino ricevono nutrimento dal seno della madre. Non
dee dopo tutto questo esser creduto favola ciò, che si
racconta della prodigiosa lunghezza delle zinne
morlacche, le quali possono dar latte ai bambini per di
dietro alle spalle, non che per di sotto alle braccia.
Tardi usano di mettere le brache ai fanciulli, che
vanno talvolta col loro camiciotto lungo sino al
ginocchio nell’età di tredici, e quattordici anni,
spezialmente verso il confine della Bossina, seguendo
l’usanza comune del paese soggetto alla Porta, dove i
sudditi non pagano il haraz, o capitazione, se non
quando [82] portano calzoni, essendo prima di quel
tempo considerati come ragazzi incapaci di lavorare, e
di guadagnarsi il vitto.
Nell’occasione de’ parti, e particolarmente de’ primi,
36 Memoires de la Soc. Oecon. de Berne, an. 1764. III. partie.
110
tutti i parenti, ed amici mandano regali di cose da
mangiare alla puerpera; e di questi si fa poi una cena
detta bàbine. Le puerpere non entrano in chiesa se non
dopo quaranta giorni, previa la benedizione lustrale.
La prima età dei fanciulli morlacchi si passa fra’
boschi a guardia delle mandre, o delle greggie. Ogni
sorta di lavori escono lor dalle mani, e in quell’ozio
s’addestrano a farne con un semplice coltello. V’hanno
delle tazze di legno, e degli zufoli adornati di
bassorilievi capricciosi, che non mancano di aver un
merito, e provano abbastanza la disposizione di quella
gente a cose più perfette.
§. 12. Cibi.
Il latte in varj modi rappreso è il nudrimento più
comune de’ Morlacchi; eglino usano di farlo agro
coll’infondervi dell’aceto, e ne riesce una spezie di
ricotta oltremodo rinfrescante; il siero di questa è
bevanda graditissima da loro, e non disgustosa anche a
un palato straniero. Il cacio fresco fritto nel burro è il
miglior piatto, cui sappiano preparare all’improvviso
per un ospite. Di pane cotto alla nostra foggia non
hanno grand’uso; ma sogliono farsi delle stiacciate37 di
miglio, d’orzo, di gran turco, di saggina, e di frumento
[83] ancora se siano benestanti; queste stiacciate
cuociono di giorno in giorno su la pietra del focolare,
ma quelle di frumento rare volte si mangiano nelle
37 Le chiamano pogaccie, probabilmente dalla nostra voce
focaccia, pronunciando la lettera F alla slavonica antica.
111
capanne de’ poveri. I cavoli cabusi inaciditi, de’ quali
fanno la maggior possibile provvigione, le radiche, ed
erbe esculente, che trovansi pe’ boschi, o pelle
campagne, servono loro sovente di companatico poco
costoso, e salubre: ma l’aglio, e le scalogne sono il cibo
più universalmente gradito dalla nazione, dopo le carni
arroste, pelle quali hanno trasporto; ogni Morlacco
caccia molti passi dinanzi a sé gli effluvj di questo suo
alimento ordinario, e s’annunzia di lontano alle narici
non avvezze. Mi ricordo d’aver letto, non so dove, che
Stilpone rimproverato d’esser andato al tempio di
Cerere dopo d’aver mangiato dell’aglio, il che era
vietato, rispose: «dammi qualche altra miglior cosa, e io
lascierò di mangiarne». I Morlacchi non farebbero
questo patto; e se lo facessero potrebb’essere, che se
n’avessero da pentire. È probabile, che l’uso di questi
erbaggi corregga in parte la mala qualità dell’acque de’
serbatoj fangosi, o de’ fiumi impaludati, da’ quali molte
popolazioni della Morlacchia sono in necessità
d’attingere nel tempo di state, e contribuisca a mantener
lungamente robusti, e vegeti gl’individui. V’hanno
difatto vecchi fortissimi, e verdi in quelle contrade, e io
penderei a darne una parte di merito, anche all’aglio,
checché ne possano dire i partigiani d’Orazio. M’è
sembrato stranissimo, che facendo i Morlacchi tanto
consumo di cipolle, scalogne, ed agli, non ne mettano
nelle loro vaste, e pingui campagne, e si trovino costretti
d’acquistarne d’anno in anno per molte migliaja di
ducati dagli Anconitani, e Riminesi. Sarebbe per certo
112
una salutare violenza, o, per meglio dire, un tratto di
paterna carità quello, che li costringesse a [84] coltivare
questi prodotti. Io desidererei, che fosse proposto
almeno questo modo di risparmiare somme
considerabili; da che sarebbe deriso chi proponesse
d’invitarli co’ premj, ch’è pur il modo più facile
d’ottenere ogni cosa in fatto d’agricoltura.
Lo zelo d’uno de’ passati eccellentissimi generali in
Dalmazia introdusse nelle campagne della Morlacchia la
seminagione della canape, che non vi fu poi con egual
vigore sostenuta: ma il vantaggio riconosciuto ha
indotto molti Morlacchi, a continuarne volontariamente
la coltivazione, ed è certo, che da quel tempo in poi
spendono qualche minor porzione di denaro nelle tele
forastiere, avendo qualche telajo in paese. Perché non
potrebbono pigliar più facilmente il genio della
seminagione d’una pianta, ch’è di quotidiano lor uso, e
divenuta quasi di prima necessità? La frugalità, e la vita
faticosa, congiunta alla purità dell’aria fanno, che in
Morlacchia, e particolarmente sul dorso delle montagne
v’abbia un gran numero di macrobj. Io non ho però con
tutto questo cercato di un qualche Dandone38: ma a
traverso dell’ignoranza, che vi regna anche degli anni
proprj, mi è sembrato di vedere qualche vecchione quasi
paragonabile al celebre Parr.

38 Alexander Cornelius memorat Dandonem Illyricum D. annos


vixisse. Plin. l. 7. c. 48.
113
§. 13. Utensili, e capanne; vestiti, ed armi.
Le schiavine provenienti dal paese turco servono di
materasse ai Morlacchi più benestanti; rarissimo fra loro
è il riccone, che abbia un letto alla nostra usanza, né vi
sono assai frequenti quelli, che abbiano lettiere [85] di
legno rozzamente connesse, nelle quali dormono senza
materasse, o lenzuola, fra le schiavine. Il letto della
maggior parte è il suolo ignudo, su di cui stendono la
coperta, nella quale si ravvolgono come fegatelli,
mettendovi al più qualche poco di paglia sotto. Nel
tempo di state amano di dormire all’aria aperta del
cortile, e prendono per certo il miglior partito per
liberarsi dagl’insetti domestici. I mobili delle loro
capanne sono i pochi e semplici, che abbisognano ai
pastori, e agli agricoltori poco avanzati nell’arti loro. Se
le case de’ Morlacchi hanno un solajo, e un tetto di
pietra, o di coppi, le travature sono il guardarobba della
famiglia, che deve in tal caso essere ben provveduta: le
signore però dormono in terra, anche abitando così
nobili case. Io mi sono trovato qualche volta anche a
vederle macinare sino alla mezzanotte trascorsa, urlando
ad alta voce non so quali diaboliche canzoni, nella
stanza medesima, in cui io dovea dormire, e in cui
dormivano saporitamente a tal musica dieci, o dodici
persone stese per terra. Ne’ luoghi rimoti dal mare, e
dalle città, le case de’ Morlacchi, non sono
pell’ordinario, che capanne coperte di paglia, o di
zimble; così chiamano certe assiccelle sottili usate

114
invece di tegole pelle montagne, dove non si trovano
pietre scissili da impiegare a quest’uso, o dove temono,
che il vento possa accoppare gli abitanti sotto le rovine
dei tetti. Gli animali abitano il medesimo tugurio, divisi
dai padroni col mezzo d’un’intrecciatura di bacchette
impiastricciate di fango, o di sterco bovino; le muraglie
delle capanne o sono anch’esse di questa materia, o
sono grossissimi ammassi di pietre unite a secco, l’una
sopra l’altra.
Nel mezzo della capanna sta il focolare, il di cui fumo
esce per la porta, non avendovi pell’ordinario altre [86]
aperture. Quindi neri, ed inverniciati sono al di dentro i
miserabili tugurj, e tutto vi puzza d’affumicato, non
eccettuandone il latte, di cui si sostentano i pastori
morlacchi, che l’offeriscono volontieri a’ viandanti. Le
vesti, e le persone contraggono il medesimo odore. Tutta
la famiglia usa cenare d’intorno al focolare nelle
stagioni, che rendono grato il fuoco; e ciascuno dorme
allungandosi nel luogo medesimo, dove ha cenato
sedendo in terra. In qualche tugurio si trovano delle
panche. Ardono il burro in vece d’oglio nelle lucerne:
ma per lo più adoperano scheggie di sapino per aver
lume di notte, il fumo delle quali annerisce stranamente
i loro mostacci. Qualche ricco morlacco ha case alla
turchesca, e scranne, o altro mobile alla nostra maniera:
ma pell’ordinario anche i ricchi stanno selvaggiamente.
Ad onta della povertà, e poca pulizia delle abitazioni
loro, i Morlacchi hanno abborrimento ad alcune
immondizie, che noi ritenghiamo nelle nostre stanze per
115
molte ore, del che ci beffano come barbari, e sporchi.
Non v’è uomo, o donna in quelle contrade, che, per
qualunque malattia, potesse essere indotto a liberarsi dal
soverchio peso degl’intestini nella propria capanna;
anche i moribondi sono portati fuori, perché all’aperto
facciano questa funzione. Chi bruttasse con tale
immondezza i loro tugurj, per disprezzo, o per
inesperienza, correrebbe gran rischio della vita, o di una
solenne bastonatura per lo meno.
Il vestire comune del Morlacco è assai semplice, ed
economico. Le opanke servono di scarpe così a’ maschi
come alle femmine; mettonvi il piede vestito d’una
specie di borzacchino fatto a maglia, cui chiamano
navlakaza, e che va ad incontrare al di sopra del
malleolo l’estremità de’ calzoni, da’ quali tutta la gamba
è coperta. Questi sono di grossa rascia bianca, legati
intorno [87] a’ fianchi da una cordicella di lana, che li
chiude a foggia di sacco da viaggio. La camicia entra
pochissimo in questi calzoni; perché di poco oltrepassa
il bellico, sino al quale i calzoni arrivano. Sopra di essa
portano un giubbetto corto, cui chiamano jaçerma, al
quale in tempo d’inverno sovrappongono un piviale di
grosso panno rosso; questo piviale dicesi kabaniza, e
japungia39. In capo portano un berretto di scarlatto detto
capa, e sopra una spezie di turbante cilindrico nominato
kalpak. I capelli usano radere, lasciando un solo codino
alla polacca, e alla tartara. Si cingono l’anche con una
39 Da queste voci derivano probabilmente le nostre, gabbàno, e
giubbone.
116
fascia rossa di lana, o di seta, fatta a rete di grossa
cordicella, fra la quale, e i calzoni annicchiano le loro
armi, vale a dire una, o due pistolle di dietro, e dinanzi
un enorme coltellaccio, detto hanzàr, colla guaina
d’ottone adorna di pietre false; questo è spesso
raccomandato a una catena dello stesso metallo, che gira
sopra la fascia. Nel medesimo nicchio sogliono trovar
luogo a un cornetto tutto marchettato di stagno, in cui
tengono del grasso per difendere l’armi dalla pioggia, ed
ungere se medesimi, se camminando si scorticano in
alcun luogo. Così pende dalla fascia una picciola
patrona, nella quale tengono l’acciarino, e il denaro, se
ne hanno; il tabacco da fumare è anch’egli
raccomandato alla fascia, chiuso in una borsa fatta di
vescica secca. La pippa tengono dietro alle spalle,
cacciandone la canna fra la camicia, e la pelle, col
camminetto all’in fuori. Lo schioppo è sempre su la
spalla del Morlacco allorch’egli esce di casa. [88]
I capi della nazione sono più riccamente vestiti, e si
può giudicare del buon gusto de’ loro abiti dalla Tavola
IV., che rappresenta nella figura il mio buon ospite di
Coccorich.

§. 14. Musica, e poesia; danze, e giuochi.


Nelle rustiche conversazioni, che si raccolgono
particolarmente nelle case, dove v’hanno di molte
fanciulle, si perpetua la memoria delle storie nazionali
de’ tempi antichi. V’è sempre qualche cantore, il quale
accompagnandosi con uno stromento detto guzla, che ha
117
una sola corda composta di molti crini di cavallo, si fa
ascoltare ripetendo, e spesso impasticciando di nuovo le
vecchie pisme, o canzoni. Il canto eroico de’ Morlacchi
è flebile al maggior segno, e monotono: usano anche di
cantare un poco nel naso, il che s’accorda benissimo
collo stromento, cui suonano; i versi delle più antiche
loro canzoni tradizionali sono di dieci sillabe, non
rimati. Queste poesie hanno de’ tratti forti d’espressione,
ma appena qualche lampo di fuoco d’immaginazione, né
questo ancora è sempre felice. Esse fanno però un
grand’effetto sull’anima degli ascoltanti, che a poco, a
poco le imparano a memoria; io ne ho veduto alcuno
piagnere, e sospirare per qualche tratto, che a me non
risvegliava veruna commozione. È probabile, che il
valore delle parole illiriche meglio inteso dai Morlacchi
abbia prodotto questo effetto; o forse, il che mi sembra
più ragionevole, le anime loro semplici, e poco
arricchite d’idee raffinate hanno bisogno di piccioli urti
per iscuotersi. La semplicità, e il disordine, che si
trovano sovente combinati nelle antiche poesie de’
trovatori provenzali, formano il principal carattere de’
racconti poetici morlacchi generalmente parlando. Ve
n’hanno però di ben ordinati: [89] ma è sempre
necessario, che chi gli ascolta, o legge, supplisca da per
sé a un gran numero di piccioli dettagli di precisione,
de’ quali non possono mancare senza una sorte di
mostruosità le narrazioni in prosa, o in versi delle
nazioni colte d’Europa. Non m’è riuscito di trovare
canzoni, la data delle quali sia ben provata anteriore al
118
XIV. secolo; del che temo possa esservi una cagione
analoga a quella, che ci fé perdere tanti libri greci, e
latini ne’ tempi della barbarie religiosa. Mi è venuto
sospetto, che si potrebbe forse rinvenire qualche cosa
d’antico molto più addentro fra’ Merediti, e gli abitanti
de’ Monti Clementini, che menano una vita pastorale,
separati quasi intieramente dal commercio delle altre
nazioni: ma chi può lusingarsi di penetrare
impunemente fra quelle popolazioni affatto selvaggie, e
impraticabili? Io confesso, che mi sentirei coraggio
bastevole per intraprendervi un viaggio; non solamente
coll’oggetto di trovarvi delle antiche poesie, ma per
conoscere la storia fisica di quelle contrade totalmente
incognite, e rinvenirvi forse de’ gran vestigj greci, o
romani: ma troppe cose vi vogliono per mandare ad
effetto sì fatti desiderj.
Io ho messo in italiano parecchi canti eroici de’
Morlacchi, uno de’ quali, che mi sembra nel tempo
medesimo ben condotto, e interessante, unirò a questa
mia lunga diceria. Non pretenderei di farne confronto
colle poesie del celebre bardo scozzese, cui la nobiltà
dell’animo vostro donò all’Italia in più completa forma,
facendone ripubblicare la versione del chiarissimo abate
Cesarotti: ma mi lusingo che la finezza del vostro gusto
vi ritroverà un’altra spezie di merito, ricordante la
semplicità de’ tempi omerici, e relativo ai costumi della
nazione. Il testo illirico, cui troverete dopo la mia
traduzione, vi metterà a portata di giudicare quanto [90]
disposta a ben servire alla musica, e alla poesia sarebbe
119
questa lingua, vocalissima, ed armoniosa, che pur è
quasi totalmente abbandonata, anche dalle nazioni colte,
che la parlano. Ovidio, mentre vivea fra gli Slavi del
Mar Nero, non isdegnò di esercitare il suo talento
poetico facendo versi nell’idioma loro, e n’ottenne lode,
ed applauso da que’ selvaggi; quantunque si
vergognasse poi d’aver profanato i metri latini, per un
ritorno di orgoglio romano40. La città di Ragusi ha
prodotto molti poeti elegantissimi, ed anche delle
poetesse di lingua illirica, fra’ quali è celebratissimo
Giovanni Gondola; né le altre città litorali, e dell’isole
di Dalmazia ne furono sprovvedute: ma i troppo
frequenti italianismi ne’ dialetti loro introdottisi, hanno
alterato di molto l’antica semplicità della lingua. I
conoscitori di essa (col più dotto de’ quali, ch’è
l’arcidiacono Matteo Sovich di Ossero, io ho avuto su di
questo particolare lunghissime conferenze) trovano
egualmente barbaro, e ripieno di voci, e frasi straniere il
dialetto de’ Morlacchi41. Ad ogni modo, il bosnese, che

40 Ah! pudet, et Getico scripsi sermone libellum,


Structaque sunt nostris barbara verba modis.
Et placui (gratare mihi), cœpique poetæ
Inter inhumanos nomen habere Getas.
De Ponto IV. Ep. 13.
41 Il dotto, pio, benefico, ed ospitale arcidiacono Matteo Sovich
è passato da questa a miglior vita, verso la fine dello scaduto
febbrajo, con vero dolore di tutti i buoni, e gravissima perdita
nazionale. La memoria di quest’uomo degnissimo di più
lunghi anni, e di più luminosa fortuna, non dovrà perire, se i
Dalmatini vorranno aver a cuore il proprio onore, e vantaggio.
120
parlasi da’ Morlacchi fra terra, [91] è pegli orecchi miei
più armonioso, che l’illirico litorale; né questo possono
aver per male i Dalmatini maritimi, da che gli orecchi
miei sono ben lontani dal pretendere d’esser giudici
competenti in sì fatta materia. Ma torniamo alle canzoni.
Il Morlacco, viaggiando pelle montagne deserte,

Il Sovich nacque a Pietroburgo sul principio del secolo, da


padre chersino colà passato al servigio di Pietro il Grande.
Restovvi orfano nella più tenera età: ma v’ebbe nobilissima
educazione in casa dell’ammiraglio Zmajevich, dopo la morte
del quale fu condotto in Dalmazia dall’allora abate Caraman,
ch’era stato spedito in Russia per acquistar notizie inservienti
alla correzione de’ breviarj, e messali glagolitici. Il giovinetto
Sovich fu accettato, per le raccomandazioni di monsignor
Zmajevich allora arcivescovo di Zara, nel Seminario della
Propaganda, dove si applicò agli studj sacri, e particolarmente
a quello degli antichi codici glagolitici. Fu di grande ajuto a
monsignore Caraman, che morì anch’egli tre anni sono
arcivescovo di Zara, nella correzione del messale, e nella
redazione di una voluminosa apologia, che restò inedita.
Ottenne in premio delle sue fatiche l’arcidiaconato della
Cattedrale di Ossero, dove visse contento in filosofica pace,
dividendo lietamente coi poveri, e cogli ospiti quel poco, ch’ei
possedeva. Fu richiamato a Roma più volte pella correzione
del breviario; v’andò una sola, e se ne tornò malcontento. Non
abbandonò gli studj nella sua solitudine; e ne rende buona
testimonianza la quantità di pregevoli schede, ch’io vidi più
volte standomene presso di lui. Fra queste deve trovarsi una
fatica condotta a perfezione, ch’è la Grammatica slavonica di
Melezio Smotriski, messa in latino, col testo a fronte, purgata
dalle superfluità, ed arricchita di nuove osservazioni per uso
de’ giovani ecclesiastici illirici. Quest’opera è tanto più
121
canta, e particolarmente in tempo di notte i fatti antichi
de’ baroni, e re slavi, o qualche tragico avvenimento. Se
s’incontra, che su le vette d’un monte vicino un altro
viaggiatore cammini, ei ripete il verso cantato dal
primo; e questa alternazione di cantare continua [92]
sino a tanto, che la distanza divide le due voci. Un lungo
urlo, ch’è un oh! modulato barbaramente precede
sempre il verso; le parole, che lo formano, sono
rapidamente pronunziate quasi senz’alcuna
modulazione, ch’è poi tutta riserbata all’ultima sillaba, e
finisce con un urlo allungato a foggia di trillo, che
rialzasi nello spirare. La poesia non è già del tutto
spenta fra i Morlacchi, e ridotta al ricantare le cose
antiche. V’hanno ancora molti cantori, che dopo d’aver
cantato un pezzo antico, accompagnandosi colla guzla,
lo chiudono con alquanti versi fatti all’improvviso in
lode della persona riguardevole, per cui si sono mossi a
cantare; e v’è più d’un Morlacco, che canta
improvvisando dal principio al fine, accompagnandosi
sempre sulla guzla; né vi manca del tutto la poesia
scritta, quando le occasioni di conservar la memoria di
qualche avvenimento si presentino. Lo zufolo, e le
sampogne pastorali da più canne, ed un otre, cui
suonano col fiato accompagnandosi colle strette del

meritevole di vedere la luce, quanto che la lingua sacra


slavonica, che si studia ne’ seminari di Zara, e d’Almissa, non
ha grammatiche ben condotte; e che, morto l’arcidiacono
Sovich, non v’è più (sia detto con buona pace de’ vivi) chi
possa a buon diritto chiamarsene professore.
122
braccio, sotto del quale lo tengono, sono anche rustici
stromenti musicali comunissimi in Morlacchia.
Le canzoni tradizionali contribuiscono moltissimo a
mantenere le usanze antiche; quindi come i loro riti,
anche i loro giuochi, e le danze sono di rimotissimi
tempi. I giuochi consistono quasi tutti in prove di forza,
o di destrezza, com’è quello di fare a chi salta più alto, a
chi corre più veloce, a chi scaglia più da lontano una
grossa pietra, che può a gran fatica esser alzata di terra.
Al canto delle canzoni, e al suono dell’otre, che non mal
rassomiglia a quelli, cui portano in giro i maestri
dell’orso, fanno i Morlacchi la loro danza favorita, che
chiamasi kolo, o cerchio, la quale poi degenera in
skoççi-gori, cioè salti alti. Tutti i danzanti, uomini e
donne, prendendosi per mano formano [93] un circolo, e
incominciano prima a girare lentamente ondeggiando,
su le rozze, e monotone note dello stromento, che
suonasi da un valente nel mestiere. Il circolo va
cangiando forme, e diviene ora ellissi, or quadrato, a
misura, che la danza si anima; e alfine trasformasi in
salti sperticatissimi, a’ quali si prestano anche le
femmine, con una rivoluzione totale della loro
macchina, e delle vesti. Il trasporto che hanno i
Morlacchi per questa danza selvaggia, è incredibile.
Eglino l’intraprendono sovente ad onta dell’essere
stanchi pel lavoro, o per lungo cammino, e mal pasciuti;
e sogliono impiegare con picciole interruzioni molte ore
in così violento esercizio.

123
§. 15. Medicina.
Non è rara cosa, che malattie infiammatorie
succedano alle danze de’ Morlacchi. In questo, come in
tutti gli altri casi, essi non chiamano medici, da che per
buona fortuna loro non ne hanno, ma si curano da per se
stessi. Una generosa bibita di rakia suol essere la loro
prima pozione medicinale; se il male non dà luogo,
v’infondono una buona dose di pepe, o di polvere
d’archibugio, e cioncano la mistura. Fatto questo, o si
cuoprono bene, s’egli è d’inverno, o si distendono
supini in faccia all’ardente sole, s’egli è di state, per
sudare, com’essi dicono, il male. Contro la febbre
terzana hanno una cura più sistematica. Pel primo, e
secondo giorno prendono un bicchier di vino, nel quale
per parecchie ore sia stato infuso un pizzico di pepe; nel
terzo e quarto si raddoppia la dose. Io ho veduto più
d’un Morlacco perfettamente guarito con questo strano
febbrifugo. Curano le ostruzioni col metter una gran
pietra piana sulla pancia dell’ammalato; i reumi con
violentissime fregagioni che scorticano, o illividiscono
[94] da un capo all’altro la schiena del paziente.
Talvolta usano anche contro i dolori reumatici
l’applicazione d’una pietra arroventata, ed involta in
uno straccio bagnato. Per riguadagnare l’appetito
perduto dopo qualche lunga serie di febbri, usano bere
di molto aceto. L’ultimo di tutti i rimedj, di cui si
servono ne’ casi disperati, quando possono averne, è lo
zucchero, cui vanno mettendo in bocca a’ moribondi;

124
onde passino da questo all’altro mondo con meno
amarezza. Usano del criptamo, e dell’iva artetica pe’
dolori articolari; e sogliono frequentemente applicare le
mignatte alle parti enfiate, o dolenti. Dove trovasi
frequentemente terra ocracea rossigna pelle campagne,
l’applicano per primo rimedio su i tagli, e le
scorticature; come s’usa di fare anche in qualche luogo
fra la Boemia, e la Misnia, dove si fatta terra è copiosa42.
Il Greiselio, che riferisce questa pratica, ne avea fatto
colà sperienza su di sé medesimo, com’io l’ho
replicatamente fatta in Dalmazia. I Morlacchi sanno
assai ben rimettere le ossa slogate, e riattare le infrante,
senza avere studiato tanto d’osteologia quanto i
chirurghi nostrali, che spesso dottamente ci storpiano; e
cavano sangue agli ammalati con uno stromento simile a
quello, che s’adopera pei cavalli, di cui però si servono
felicemente, senza incontrare giammai le disgrazie
prodotte dalle lancette.

§. 16. Funerali.
Il morto è pianto, ed urlato dalla famiglia prima che
sia portato fuori di casa, ed al momento, in cui ’l
sacerdote va a prenderlo, le strida si rinnovano
altamente, [95] come fra noi. Ma quello, che fra di noi
non si usa fare, i Morlacchi fanno in que’ momenti di
lutto; e parlano all’orecchio del cadavere, dandogli
commissioni espresse pell’altro mondo. Finite queste
cerimonie, il morto è coperto di tela bianca, e portato
42 Suppl. act. nat. curios. Dec. 1. ann. 2. Obs. 78.
125
alla chiesa, dove si rinuovano i piagnistei, e si canta
dalle prefiche, e dalle parenti la di lui vita piagnendo.
Sotterrato ch’egli è, tutta la comitiva insieme col curato
se ne ritorna alla casa d’ond’è partita; e colà si mangia a
crepapancia, stranamente intrecciando le orazioni, e le
ciotole. I maschi in segno di scorruccio si lasciano
crescere la barba per qualche tempo; costume
ch’ebraizza, come quello degli azimi, delle lustrazioni, e
varj altri di questa gente. È anche segnale di lutto il
color pagonazzo del berretto, o il turchino. Le donne si
mettono in capo fazzoletti neri, o turchini; e nascondono
tutto il rosso de’ loro abiti col sovrapporvi del nero.
Durante il primo anno dall’inumazione d’un qualche
loro parente, le Morlacche usano d’andare, per lo meno
ogni dì festivo, a fare un nuovo piagnisteo sulla
sepoltura, spargendovi fiori, ed erbe odorose. Se talvolta
per necessità elleno sono state costrette a mancare, si
scusano nelle forme, parlando al morto come se fosse
vivo; e rendongli conto minutamente del perché non
poterono fargli la dovuta visita. Non di raro gli chiedono
anche novelle dell’altro mondo, facendogli curiosissime
interrogazioni. Tutto questo si canta in una spezie di
verso, e in tuono lugubre. Le giovani, desiderose
d’avanzarsi nelle belle arti della nazione, accompagnano
le donne, che vanno a fare di tali lamenti su le sepolture,
e spesso cantano anch’esse formando un duetto
veramente funebre.
Eccovi, Mylord, quanto io ho creduto meritare di
cader sotto ai riflessi vostri de’ costumi d’una nazione
126
[96] disprezzata, o svantaggiosamente conosciuta sino
ad ora. Io non m’impegno, che ad ogni villaggio di
Morlacchi esattamente convengano tutti i dettagli, che
ho notati viaggiando pel loro paese in luoghi assai
discosti gli uni dagli altri: ma le differenze, che vi si
potessero trovare, saranno minime. Crederò fortunate
abbastanza le mie diligenze su di questo proposito, se
avranno avuto il merito d’occupare non
disaggradevolmente, uno di que’ ritagli del prezioso
tempo, cui Voi di raro togliete alle serie applicazioni
degli studj più gravi. [97]

127
CANZONE DOLENTE
DELLA NOBILE SPOSA
D’ASAN AGÀ.

Argomento

A san, capitano turco, resta ferito in un


combattimento per modo, che non può ritornarsene
alla casa propria. Va a visitarlo nel campo la madre, e la
sorella: ma, trattenuta da un pudore, che parrebbe strano
fra noi, non ha il coraggio d’andarvi la di lui moglie.
Asan prende per un tratto di poco buon animo questa
ritrosia; si sdegna colla sposa, in un momento di primo
impeto, e le manda il libello di repudio. L’amorosa
donna, con angoscia acerbissima di cuore, si lascia
condurre lontano da cinque tenere creaturine, e
particolarmente dall’ultimo suo bambino, che giacevasi
peranche nella culla. Appena ritornata alla casa paterna,
fu chiesta in moglie da’ principali signori del vicinato. Il
begh Pintorovich, di lei fratello, stringe il contratto col
cadì, o giudice d’Imoski; e non bada ai prieghi
dell’afflitta giovane, che amava di perfetto amore il
perduto marito, e i figliuolini suoi. La comitiva, per
condurla a Imoski, dovea passare dinanzi alla casa
dell’impetuoso Asan, che di già guarito delle sue ferite
se n’era tornato, e trovavasi pentitissimo del repudio.
Egli, conoscendo benissimo il di lei cuore, manda a
incontrarla due de’ suoi fanciulli, a’ quali ella fa dei
128
regali, che di già aveva preparati. Asan si fa sentire a
richiamarli in casa, dolendosi che la loro madre ha un
cuore inflessibile. Questo rimprovero, il distacco de’
figliuoli, la perdita d’un marito, che nel suo modo aspro
l’amava quanto era amato, operano una sì forte
rivoluzione nell’anima della giovane sposa, ch’ella ne
cade morta all’improvviso, senza proferir parola. [98]

Xalostna pjesanza
Plemenite Asan-Aghinize.
Scto se bjeli u gorje zelenoj?
Al-su snjezi, al-su Labutove?
Da-su snjezi vech-bi okopnuli;
Labutove vech-bi poletjeli43.

43 Non essendo i varj caratteri usati in Dalmazia molto


comunemente noti, credo prezzo dell’opera il trascrivere
questi quattro versi ne’ tre principali, cioè nel glagolitico, o
geronimiano de’ libri liturgici, nel cirilliano de’ documenti
antichi, e nel corsivo cirilliano de’ Morlacchi, che molto
somiglia al corsivo de’ Russi, se alcune sue note particolari se
ne eccettuino.

Il corsivo de’ Morlacchi è men bene ortografato, ma mantiene più


la verità della loro qualunque siasi pronunzia, da cui nel testo
129
Ni-su snjezi, nit-su Labutove;
Nego sciator Aghie Asan-Aghe.
On bolu-je u ranami gliutimi.
Oblaziga mater, i sestriza;
A Gliubovza od stida ne mogla.
Kad li-mu-je ranam’ boglie bilo,
Ter poruça vjernoi Gliubi svojoj:
Ne çekai-me u dvoru bjelomu,
Ni u dvoru, ni u rodu momu.
Kad Kaduna rjeci razumjela,
Josc-je jadna u toj misli stala.
Jeka stade kogna oko dvora:
I pobjexe Asan Aghiniza
Da vrât lomi kule niz penxere.
Za gnom terçu dve chiere djevoike:
Vrati-nam-se, mila majko nascia;
Ni-je ovo babo Asan-Ago, [100]
Vech daixa Pintorovich Bexe.
I vrâtise Asan Aghiniza,
Ter se vjescia bratu oko vrâta.
Da! moj brate, velike framote!

io mi sono un po’ allontanato.

Il serviano majuscolo de’ Calogeri, e il corsivo usato


nell’interiore della Bosna, ch’è quasi arabizzato, sono
anch’essi curiosi; ma sarebbe di noja il riferirli.
130
Gdi-me saglie od petero dize!
Bexe muçì: ne govori nista.
Vech-se mâscia u xepe svione,
I vadi-gnoj Kgnigu oproschienja,
Da uzimglie podpunno viençanje44,
Da gre s’ gnime majci u zatraghe.
Kad Kaduna Kgnigu prouçila,
Dva-je sîna u çelo gliubila,
A due chiere u rumena liza:
A s’ malahnim u besicje sinkom
Odjeliti45 nikako ne mogla.
Vech-je brataz za ruke uzeo,
I jedva-je sinkom raztavio:
Ter-je mechie K’ sebi na Kogniza,
S’ gnome grede u dvoru bjelomu.
U rodu-je malo vrjeme stâla,
Malo vrjeme, ne nedjegliu dana,
Dobra Kado, i od roda dobra,
Dobru Kadu prose sa svî strana;
Da majvechie Ismoski Kadia46.
Kaduna-se bratu svomu moli:

44 L’originale: affinché prenda con piena libertà coronazione


(da sposa novella) dopo che sarà ita con esso della madre ne’
vestigj.
45 Dovrebbe dire odjelitise, separarsi; ma la misura del verso
decasillabo non lo permette, quantunque lo richieda la buona
sintassi.
46 Imoski, l’Emeta de’ bassi geografi greci, luogo forte, tolto a’
Turchi nell’ultima guerra.
131
Aj, tako te ne xelila, bratzo!47
Ne moi mene davat za nikoga,
Da ne puza jadno serze moje
Gledajuchi sirotize svoje.
Ali Bexe ne hajasce nista,
Vech-gnu daje Imoskomu Kadii.
Josc Kaduna bratu-se mogliasce,
Da gnoj pisce listak bjele Knighe,
Da-je saglie Imoskomu Kadii. [102]
«Djevoika te ljepo pozdravgliasce,
A u Kgnizi ljepo te mogliasce,
Kad pokupisc Gospodu Svatove
Dugh podkliuvaz nosi na djevojku;
Kadà bude Aghi mimo dvora,
Neg-ne vidî sirotize svoje.»
Kad Kadii bjela Kgniga doge
Gospodu-je Svate pokupio.
Svate kuppi grede po djevoiku.
Dobro Svati dosli do djevoike,
I zdravo-se povratili s’gnome.
A kad bili Aghi mimo dvora,
Dve-je chierze s’penxere gledaju,
A dva sîna prid-gnu izhogiaju,
Tere svojoi majçi govoriaju.
Vrati-nam-se, mila majko nascia,

47 L’originale: Deh! così non debba io desiderarti! che vale a


dire «così viva tu a lungo, ond’io non ti desideri dopo d’averti
perduto!»
132
Da mi tebe uxinati damo48.
Kad to çula Asan-Aghiniza,
Stariscini Svatov govorila:
Bogom, brate Svatov Stariscina,
Ustavimi Kogne uza dvora,
Da davujem sirotize moje.
Ustavise Kogne uza dvora.
Svoju dizu ljepo darovala.
Svakom’ sinku nozve pozlachene,
Svakoj chieri çohu da pogliane;
A malomu u besicje sinku
Gnemu saglie uboske hagline. [104]
A to gleda Junak Asan-Ago;
Ter dozivglie do dva sîna svoja:
Hodte amo, sirotize moje,
Kad-se nechie milovati na vas
Majko vascia, serza argiaskoga.
Kad to çula Asan Aghiniza,
Bjelim liçem u zemgliu udarila;
U pût-se-je s’ duscjom raztavila
Od xalosti gledajuch sirota49. [99]

48 Uxinati non significa propriamente cenare, ma far merenda,


il che mi sarebbe stato difficile da esprimere non
ignobilmente.
49 La mancanza di caratteri adattati mi ha costretto a usare della
lettera z nostra, in luogo della slavonica, ch’equivale al ζ
greco; lo hanno però fatto molti altri prima di me senza
scrupolo, nel che mi è sembrato di doverli seguire a
preferenza di quelli, che usano della lettera s alta. Non ho
133
Canzone dolente
della nobile sposa d’Asan Agà.
Che mai biancheggia là nel verde bosco?
Son nevi, o cigni? Se le fosser nevi
Squagliate ormai sarebbonsi: se cigni
Mosso avrebbero il volo. Ah! non son bianche
Nevi, o cigni colà; sono le tende
D’Asano, il duce. Egli è ferito, e duolsi
Acerbamente. A visitarlo andaro
La madre, e la sorella. Anche la sposa
Sarebbev’ita; ma rossor trattienla.
Quindi allorch’ei delle ferite il duolo
Sentì alleggiarsi, alla fedel mogliera
Così fece intimar: «Non aspettarmi
Nel mio bianco cortil; non nel cortile,
Né fra’ parenti miei». Nell’udir queste
Dure parole pensierosa, e mesta
L’infelice rimase. Ella d’intorno
Al maritale albergo il calpestio
Di cavalli ascoltò; verso la torre
Disperata fuggìo, per darsi morte
Dalla finestra rovinando al basso.
Ma i di lei passi frettolose, ansanti
Le due figlie seguir: «Deh! cara madre,
Deh! non fuggir; del genitore Asano
Non è già questo il calpestio; ne viene [101]

raddoppiato lettere, per uniformarmi all’ortografia de’


manoscritti slavonici più antichi.
134
Il tuo fratello, di Pintoro il figlio».
Addietro volse a questo dire i passi
D’Asan la sposa, e le braccia distese
Al collo del fratello. «Ahi! fratel mio,
Vedi vergogna! e’ mi repudia, madre
Di cinque figli!». Il begh nulla risponde;
Ma dalla tasca di vermiglia seta
Un foglio trae di libertade, ond’ella
Ricoronarsi pienamente possa,
Dopo che avrà con lui fatto ritorno
Alla casa materna. Allor che vide
L’afflitta donna il doloroso scritto,
De’ suoi due figliuolin baciò le fronti,
E delle due fanciulle i rosei volti:
Ma dal bambino, che giaceva in culla
Staccar non si poteo. Seco la trasse,
Il severo fratello a viva forza;
Sul cavallo la pose, e fé ritorno
Con essa insieme alla magion paterna.
Breve tempo restovvi. Ancor passati
Sette giorni non erano, che intorno
Fu da ogni parte ricercata in moglie
La giovane gentil d’alto legnaggio;
E fra i nobili proci era distinto
L’imoskese cadì. Prega piagnendo
Ella il fratel: «Deh non voler di nuovo
Darmi in moglie ad alcun, te ne scongiuro
Pella tua vita, o mio fratello amato;
Onde dal petto il cor non mi si schianti
135
Nel riveder gli abbandonati figli!».
Il begh non bada alle sue voci; è fisso
Di darla in moglie al buon cadì d’Imoski.
Allor di nuovo ella pregò: Deh! almeno
(poiché pur così vuoi), manda d’Imoski [103]
Al cadì un bianco foglio. «A te salute
Invia la giovinetta, e vuol pregarti
Per via di questo scritto, che allor quando
Verrai per essa co’ signori svati
Un lungo velo tu le rechi, ond’ella
Possa da capo appiè tutta coprirsi,
Quando dinanzi alla magion d’Asano
Passar d’uopo le sia; né veder deggia
I cari figli abbandonati!». Appena
Giunse al cadì la lettera, ei raccolse
Tutti gli svati, e pella sposa andiede,
Il lungo velo, cui chiedea, portando.
Felicemente giunsero gli svati
Sino alla casa della sposa; e insieme
Felicemente ne partir con essa.
Ma allor, che presso alla magion d’Asano
Furo arrivati, dal balcon mirorno
La madre lor le due fanciulle, e i figli
Usciro incontro a lei. «Deh, cara madre,
Tornane a noi; dentro alle nostre soglie
A cenar vienne». La dolente sposa
Del duce Asano, allor che i figli udìo,
Volsesi al primo degli svati: «O vecchio
Fratello mio, deh ferminsi i cavalli
136
Presso di questa casa, ond’io dar possa
Qualche pegno d’amore agli orfanelli
Figli del grembo mio». Stettersi fermi
Dinanzi alla magion tutti i cavalli;
Ed ella porse alla diletta prole
I doni suoi, scesa di sella. Diede
Ai due fanciulli bei coturni, d’oro
Tutti intarsiati, e due panni alle figlie,
Onde dal capo ai pié furon coperte:
Ma al picciolo bambin, che giacea in culla, [105]
Da poverello un giubbettin mandava.
Tutto in disparte il duce Asàn vedea;
E a se chiamò i figliuoli: «A me tornate
Cari orfanelli miei, da che non sente
Più pietade di voi la crudel madre
Di arrugginito cor». Udillo; e cadde
L’afflitta donna, col pallido volto
La terra percuotendo; e a un punto istesso
Del petto uscille l’anima dolente,
Gli orfani figli suoi partir veggendo. [107]

137
Al chiarissimo signor
cavaliere
Antonio Vallisnieri
p. p. di storia naturale nell’Università di Padova.

DEL CORSO DEL FIUME KERKA, IL TITIUS


DEGLI ANTICHI.

L a dura necessità di viaggiare alla fortuna per un


vasto regno, dove tuttora è straniera ogni parte della
storia naturale, m’ha fatto perdere, come ben potete
immaginarvi, molto tempo, e molte fatiche. La
scarsezza di persone atte a somministrare qualche buona
indicazione al viaggiatore è il massimo de’ mali, ch’io
v’abbia incontrato. Non è già, che nelle città maritime
della Dalmazia manchino gli uomini colti, no: ma questi
pell’ordinario si occupano di tutt’altri affari, che quelli
del naturalista, e quindi sono di pochissimo ajuto. Non
potendo avere un numero conveniente di punti fissi, a’
quali dirigere le mie gite, io mi sono trovato in necessità
di segnarmi delle linee, o di profittare delle già segnate
dalla natura, ora lungo il mare nella sinuosità de’ lidi,
ora fra terra ne’ corsi de’ fiumi.

§. 1. Delle vere sorgenti del fiume Kerka.


Uno di quelli, ch’io ho più diligentemente seguito si è

138
il Tizio degli Antichi, oggidì detto Kerka, o [108] Karka
dai nazionali; egli fu, come sapete, a’ tempi romani il
confine, che divideva la Liburnia dalla Dalmazia. Le di
lui sorgenti sono segnate nelle carte molto più addentro,
che le non si trovano veramente. Anche i più esatti
corografi della Dalmazia hanno confuso coll’alveo della
Kerka un torrente, che vi precipita dall’alto, e conduce
le acque eventuali d’un mediocremente esteso tratto di
monti aspri, conosciuto dagli abitanti sotto ’l nome di
Hersovaz. La giogana di Hersovaz congiunge le radici
della montagna Dinara con quelle di Gnat, e divide le
campagne bagnate dalla Cettina, ch’è il Tiluro de’
geografi, dalle ampie valli irrigate dal Tizio.
Questo fiume non ha d’uopo d’accessioni per
iscorrere con decoro; ed è già bello, e formato un trar di
mano fuori della caverna, d’onde scaturisce.
L’alveo superiore del torrente eventuale, che vi
conduce le acque montane, ha trenta piedi di larghezza,
ma non corre per lungo tratto prima d’arrivare a
Topolye50. Egli porta seco quantità di terra calcarea, e
però molto disposta a rapprendersi, formando tartari, ed
incrostazioni. Il tofo della Kerka fabbricato da queste
acque superiori è una bella spezie di fitotipolito, ora più,
ora meno compatto, in ragione del maggiore, o minor
declivio dell’acque, che lo formano, e racchiude le
impressioni di varie piante palustri, fluviatili, e ripensi 51.
50 Topolye ha denominazione da’ pioppi, che vi sono comuni. Il
pioppo chiamasi tòpola in illirico.
51 Stalactites vegetabilia incrustans. Linn. Syst. Nat.
139
Questa sorte di tartarizzazione, oltre all’essere [109]
curiosa è anche utile, perché opportunissima alla
costruzione di muraglie, e volte, agevolmente
lavorabile, resistente all’azione dell’aria, e poco
pesante. Il corso del torrente superiore alle propriamente
dette origini della Kerka non è costante, quindi l’alta
cateratta, d’ond’egli precipita, trovavasi totalmente
arida, allora che noi vi fummo verso la metà d’agosto.
Dal livello del letto superiore a quello della caverna, da
cui esce perenne la Kerka, v’avrà una differenza
perpendicolare d’intorno a 100. piedi. Nel tempo, che vi
discende il torrente ingrossato, deve colà formarsi uno
spettacolo magnifico. Il ciglione, da cui l’acque
precipitano, è tutto di tofo, cui servono di base le lunghe
barbe della gramigna, e il musco. Egli curvasi,
formando come una volta, sotto di cui v’hanno molti
antri freschissimi, e difesi dal sole perfettamente, ne’
quali s’entra per anguste aperture. Le falde del monte,
che servono di sponde alla Kerka in quel luogo, sono
tutte capovolte, e mostrano stravagantissime confusioni
nelle loro stratificazioni. Elleno sono ripide, e talvolta
perpendicolari; l’impasto del marmo è il biancastro
comune. Vi s’incontra qualche pezzo errante di lava
durissima variolata, che dà molte scintille battuta
coll’acciarino, di colore fra l’avvinato e ’l cenerognolo.
Trovasi colà ripetuto il fenomeno, che mi colpì allora
Porus aquæ crustaceus circa alia corpora concretus. Wall.
Gli scheletri delle piante marciscono dopo la incrostazione, e ne
restano soltanto le impressioni nel tofo.
140
quando cavalcammo da Spalatro a Clissa sulle falde
della montagna, e vidimo da lontano i lembi d’alcuni
strati scoperti, che sembravano descrivere archi di
cerchio coll’estremità volte all’insù. A Topolye è ancora
più complicata la faccenda; imperocché non un sol
ordine d’archi, ma due se ne veggono descritti l’un dopo
l’altro sulla medesima base, e l’estremità loro interne
riunisconsi a foggia di tetto acuminato, e cornuto alla
chinese. Il resto del monte è tutto sconnesso, [110]
disequilibrato; e rovinoso, com’è scoglioso, e ineguale
l’alveo della cascata. Per di sotto a questa da un’oscura
caverna esce con grande abbondanza d’acqua la Kerka.
Io mi posi in capo d’entrarvi; e quindi messomi in uno
zopolo (spezie di barchetta cavata in un tronco d’albero,
come le canoe de’ selvaggi americani), e provveduto di
scheggie di pino accese tentai di navigare sotterra, in
compagnia dell’egregio giovanetto signor Jacopo
Hervey. Non fu del tutto vano il tentativo, quantunque
grande impegno fosse il difendersi dalle protuberanze
tartarose della volta, e il cozzare coll’impeto dell’acqua
contraria; ma le nostre fiaccole si spegnevano pella
quantità di gocciole, che cadono colà dalle rupi
superiori filtrandosi, e lo zopolo affrontando il fiume
laddove con molto romore scende per angusto, e declive
canale, se n’empieva più del bisogno. Si dovette
replicatamente ritrocedere: ma con uno zopolo riparato
saremmo certamente andati più oltre, e forse avremmo
potuto passeggiare su le rive sotterranee del fiume. È da
ricordarsi, che i monti di Topolye sono della stessa
141
catena, calcareo-marmorea, che quelli di Jerebiza, da’
quali esce con opposta direzione la Cettina. A un tiro di
sasso dalla bocca della caverna, d’onde vien fuori la
Kerka, v’hanno i mulini. Le ruote delle macine sono
orizzontali, e i raggi loro fatti a foggia di cucchiaj.
Questa maniera di ruote, ch’è buona pe’ luoghi, ne’
quali si può radunare poc’acqua, e l’alzarla esigerebbe
molto dispendio, trovasi nel Libro delle Macchine di
Fausto Veranzio da Sebenico, vescovo canadiense.

§. 2. De’ colli vulcanici, che si trovano fra la


cascata di Topolye, e Knin.
Da Topolye a Knin v’hanno cinque miglia di
cammino [111], sì per acqua, che per terra. Cavalcando
pelle altezze de’ colli, vidimo di molti massi
disequilibrati, e tratti assai considerabili di breccia
ghiajosa. Scendendo poi a seconda del fiume, nel
ritornare da una replicata visita fatta alla cascata, ci
fermammo a due colline opposte, l’una di marmo
volgare calcareo, e di ghiaja rassodata in breccia, l’altra
per la maggior parte vulcanica. Questa seconda, detta
Capitùl, merita d’essere visitata per la gran varietà di
materie vulcaniche, che somministra. Vi si trova una
pietra leggierissima, biancastra, sparsa di mica aurea,
manifestamente prodotta dal fuoco sotterraneo, che,
quantunque non sia cavernosa, credo possa chiamarsi
pomice micacea, avendo riflesso alla sua porosità,
leggierezza e all’origine vulcanica. Esaminata colle lenti
mostra d’essere composta di minuta arena vitrescente
142
semifonduta, e pare che consti degli stessi principj, che
un eccellente Tripoli, di cui ho rinvenuto la vena appiè
del colle medesimo. V’hanno delle scorie ferrigne nere,
cavernose, e pietre arenarie rossiccie, e gialle; una sorte
di breccia arenaria di fondo pagonazzo pezzata di
bianco; una spezie d’ardesia micacea52; grumi erranti di
pozzolana di colore avvinato53 rassodata quasi a durezza
di pietra; e finalmente molti sassi rassomiglianti al
porfido, che conservano manifesti segni di antica
fusione. Tanto nelle materie, che lo compongono, [112]
come nella figura, il colle di Capitùl somiglia
moltissimo al Monte-nuovo54, che sorge isolato accanto
degli altri nostri Euganei d’origine vulcanica. La
differenza degl’impasti non è però così variata presso
Padova, come vicino a Knin. La sommità della collina è
tratto tratto seminata di breccia, come lo sono tutti i
vicini colli vulcanici a destra del fiume, per sino alla
picciola città di Knin55 che ha titolo di Vescovato, ma

52 Mica squamosa, alba. Wall. §. 74.3. Mica squamosa,


rigidula, argentata. Linn. 58. 3.
Mica compacta, membranis squamosis, argentea. Woltersdorff.
Min. 17.
53 Terra puteolana rubra. Wall. Cæmentum induratum. Cronst.
209.
54 Il Monte Nuovo degli Euganei sembra indicare col nome, cui
porta, una posteriorità di nascimento. Le materie ond’è
composto mostrano, che lo fece sorgere il fuoco sotterraneo,
come il Monte Nuovo di Pozzuoli.
55 Ne’ documenti è detta Tnin, Tnina, Tininium e Tnena. Forse il
nome di Knin, e Klin gli viene da klin, cuneo, da che trovasi
143
non residenza. Ella dovrebb’essere, secondo la maggior
parte degli scrittori delle cose illiriche, l’Arduba degli
Antichi, celebre non tanto pella resistenza fatta a
Germanico, quanto pell’indomabile coraggio delle
donne, che vollero gettarsi nel fuoco, e nel fiume co’
loro bambini insieme, anziché divenire schiave de’
vincitori Romani.

§. 3. Di Knin, e de’ Monti Cavallo, e Verbnik.


Non si trova lungo il corso de’ due fiumi Kerka, e
Cettina verun luogo, a cui meglio convengano i caratteri
attribuiti da Dione Cassio alla fortezza d’Arduba56. Il
fiume Kerka dall’una parte, la Butimschiza dall’altra
bagnano il cuneo, sull’estremità del quale attualmente
sorge la fortezza di Knin. Lo storico parla [113] però
d’un solo fiume, non d’una confluenza, e lo qualifica
rapido; questo non conviene adesso alla Kerka sotto le
mura di Knin dove, per dire il vero, ha pigrissimo corso.
L’abbandono di questo fiume, che non avendo argini
straripa sovente, e forma paludi insalubri
immediatamente sotto Knin, è dannoso all’aria di que’
contorni. Monumenti antichi di sorte alcuna io non vi ho
veduto, trattone un’osservabile quantità di monete
romane, e particolarmente de’ tempi del buon
imperatore Antonino. Trovansi anche non di rado per
infatti posta sulla punta d’un cuneo.
56 «Germanico prese anche Arduba, castello.... fortissimo, e da
un rapido fiume, che gli bagna il piede, quasi tutto
circondato». Dione Cassio. Lib. 56.
144
quelle contrade monete antiche veneziane, e d’altre
città, e principi dell’età di mezzo.
Rimpetto a Knin, alla sponda opposta della Kerka
sorge il colle, detto Monte Cavallo, alle di cui radici
mettono nella Kerka le acque della Cossovschiza, che
scendono dalle colline vulcaniche della campagna di
Cossovo, la di cui bassa parte è ricca di torba, che vi
giace inutile.
Non molti anni sono, fu cavato un canale, che
tendeva ad asciugare le terre allagate di essa campagna:
ma questo lavoro, abbandonato pur troppo presto,
divenne inutile all’ottimo fine. Il Monte Cavallo è ora
quasi del tutto incolto, quantunque viva una tradizione a
Knin, ch’ei fosse celebre ne’ passati secoli pello squisito
suo vino, come pure il monte Verbnik, ad esso
congiunto. Anche su di questo si ponno raccogliere
parecchie varietà di materie vulcaniche, fra le quali è
osservabile una pietra rossiccia, come il mattone, sparsa
di arena nera, e lucente di ferro vetrificato. La di lui
sommità però è di pietra calcarea cenerognola, molto
compatta, e piena di corpi marini anomj, corrispondenti
a quelli, che trovansi su le piu alte montagne de’ Sette-
Comuni nel Vicentino. La via pubblica divide il Monte
Cavallo dal Verbnik, le radici del quale [114] sono di
pietra calcarea biancastra, madrosa, screpolosa, e
macchiata d’ocra rossiccia. Alla metà della salita trovasi
un’eruzione di granitello informe, e friabile, che scappa
fuori dalle viscere del monte diretta verso il colle vicino.
La larghezza scoperta di questa massa è di circa dugento
145
piedi; la compattezza dell’impasto è ineguale, ma non
arriva mai a quella de’ nostri granitelli padovani. Ho
trovato frequentemente pe’ monti di Galzignano, ne’ tufi
arenosi, ed ocracei vomitati da quegli antichi vesuvj,
pezzi similissimi che nella mia picciola serie ho
denominati granitello friabile, imperfetto. Sopra questa
materia vulcanica di Monte Cavallo corre uno strato di
pietra forte calcarea, e più su un altro di breccia
ghiajosa: alle stremità v’ha della confusione del
calcareo-marino, e del vulcanico. Il monte calcareo-
marino, e gli strati di breccia ghiajosa pur calcareo-
marina s’alzan di molto sopra le materie vulcaniche; e
se un torrentello non le avesse scoperte coll’andare degli
anni, sarebbe stato difficile anche il sospettare, che
l’interiore del Verbnik avesse sofferto fuoco sotterraneo;
imperciocché la confusione, e sconnessione, che vi si
sarebbe potuto vedere al di fuori, non avrebbe
chiaramente a tutti gli occhi mostrato da che fosse stata
prodotta. Il paese è tuttora soggetto a frequenti scosse di
tremuoto, e ne’ tempi lontani da noi lo sarà
probabilmente stato molto di più. Malagevolmente si
può immaginare, che senza violentissimi scuotimenti
abbiano potuto interrompersi, e sprofondarsi gli strati di
sassi fluitati, che regnano ancora su le altezze de’ monti,
e dall’avvallamento uscir fuori nuove colline di materia
tormentata dal fuoco, sollevando anche talvolta qualche
masso delle antiche breccie ghiajose. Il corso del fiume
dee aver sofferto di gran mutazioni; e ben lo indica fra
le altre cose chiaramente la caduta di Topolye, [115]
146
così alta, ripida, e scogliosa, dal labbro della quale se
fosse condotta una linea, ell’anderebbe sopra tutte le
nuove colline a congiungersi colle falde del Verbnik.
Poco distante dal Monte Cavallo sorgeva l’antica città
liburnica di Promona, che diè tanto da fare ai Romani.
Sarebbe d’uopo viaggiare pell’aspra regione, che tuttora
porta il nome di Promina, a picciole giornate, per
raccogliervi i residui d’antichità, che vi sono sparsi.
Veggonsi su le vette d’alcuni di quegli aspri monti de’
resti della muraglia, cui Augusto fece da’ suoi soldati
fabbricare per cinquanta stadj di circuito, onde chiudere
la communicazione degl’Illirj fortificatisi in Promona
co’ loro nazionali, e alleati delle vicine contrade. Fra il
Verbnik, e il colle di Knin per un angusto, e non diritto
canale, che ne sostiene l’acqua di molto, passa la Kerka.
Il fiumicello Butimschiza vi si unisce poco più sotto, e
ne ritarda il corso, portandovi de’ banchi d’arena, e
ghiaja incomodissimi, e pericolosi alla breve
navigazione, cui pur permettono le distanze delle
cateratte, che frequentemente interrompono il corso di
questo fiume.

§. 4. Delle acque, che confluiscono nella Kerka,


e del corso di questo fiume, sino al Monastero di
S. Arcangelo.
La Butimschiza si forma sotto il monte di Stermizza
dal concorso di tre torrentelli, il principale de’ quali,
ch’è detto Czerni-Potok (nero torrente) dopo nove

147
miglia di corso dal monte Gelinach, serpeggiando si
conduce a incontrare l’acqua di Mraçai, nata dal monte
Plissiviza, che perde il nome conservato per sei miglia
di viaggio, confondendosi col ruscello di Tiscovci
nell’alveo del maggior torrente. Il Tiscovci, o Tiscovaz
entra a ingrossare l’acque del Torrente-nero, poco [116]
prima che ’l Mraçai vi metta capo; egli viene dal monte
Vulizza attraversando l’ampia campagna di Sarb, e
Dugopoglye, cui ’l Vulizza, e ’l monte Trubar separano
dalla pianura di Grahovo, che giace oltre il veneziano
confine. Entra finalmente, poco lontano dalle spalle di
Knin, a ingrossare il fiumicello Butimschiza la
Plavnanschiza, acqua nata dal monte, che domina la
campagna di Plavno, accresciuta dal torrentello di
Radugl-Potok, che in alcune delle migliori carte è detto
Radiglievaz. La concorrenza di tutte queste acque
montane rende la Butimschiza ghiajosa, e fa, per quanto
io credo, delle di lei foci il principalissimo motivo (non
so perché mai sino ad ora avvertito o almeno sospettato
da altri) dell’impaludamento dell’ampia, e fertile
pianura di Knin. Forse il ponte, sotto di cui ella passa
nell’atto di metter foce in Kerka, anch’egli ha buona
parte nella colpa dell’inghiajamento fatale. È lungo
questo ponte circa 100. passi geometrici, ed ha dieci
archi; io l’ho trovato angusto, mal selciato, e
pericolosissimo pegli animali inferrati, come quasi tutti i
ponti turcheschi sparsi per quelle contrade. È probabile,
che dirigendo in miglior modo la confluenza della
Butimschiza, e trasportandola alquanto più sotto, ne
148
venisse un massimo bene a quella pianura; né mi resta
quasi dubbio, che la probabilità potess’essere ridotta a
dimostrazione da quegli abili uomini, che il Governo
Serenissimo suole in sì fatti casi impiegare.
Sei, in otto miglia più sotto, il fiume (che quantunque
abbia letto assai riguardevole quasi sempre corre
profondamente chiuso fra’ monti tagliati a piombo)
incontra un intoppo a Babovdol, e vi fa una picciola
cascata. L’isoletta tofacea, che vi s’è accozzata
nell’alveo, sembra essere il motivo del ritardo
dell’acque, che [117] poco prima d’arrivare ad essa
formano una spezie di lago, e si lasciano ingombrare il
letto dalle canne, ed altr’erbe palustri. La concrezione
tartarosa occupa l’alveo diviso dalla picciola isoletta di
Babovdol, e va di giorno in giorno accrescendosi;
quindi le acque, ogni giorno più sostenute,
maggiormente impaludano colà presso, e sotto Knin,
con pregiudizio grandissimo della popolazione. Fa
d’uopo non fosse così negletto il corso di quel fiume al
tempo de’ Romani; poiché fu trovato, non ha molti anni,
nello scavare per sovrano comando in quel luogo, sette
piedi sepolto nel tofo un architrave, e cornicione di
marmo greco egregiamente adornato di bassorilievi, che
rappresentavano festoni di fiori, testuggini, coccodrilli,
ed altri animali anfibj. Egli stava probabilmente sopra la
porta d’un qualche ninfeo. I frati di Knin lo asportarono
da Babovdol, e ne trassero partito rompendolo, secondo
la pur troppo comune usanza della barbarie religiosa,
per fare qualche ornamento nella chiesa loro. Se sette, in
149
otto piedi più profondo fosse attualmente l’alveo, e
l’isoletta si trovasse congiunta ad una delle due sponde
del fiume, vi sarebbe un intoppo di meno alla
navigazione, e uno scolo più pronto dell’acque
superiori, che dovrebbonsi allora dirigere in modo, che
non istraripassero agevolmente. La salubrità, e l’uso
delle fertilissime pianure, e colline di Knin è pur un
oggetto importante; quantunque sino ad ora non sembri
avervi il sapientissimo Governo volto i pensieri, per
quelle molte e giuste ragioni, che deggiono essere
profondamente venerate in silenzio. Presso alla cateratta
di Babovdol ne’ buchi delle rupi superiori di molto al
fiume, ho raccolto begli esemplari di musco
egregiamente tartarizzato. V’hanno anche de’ pisoliti
somiglianti ai bezoar degli animali pella struttura, e a’
confetti di Tivoli: ma molto [118] meno bianchi e
consistenti di questi ultimi. Su le pietre del fiume presso
Babovdol vivono polipi grandicelli, a’ quali coll’occhio
nudo, e viaggiando in fretta non ho potuto donare tutta
l’attenzione che meritano dopo le scoperte del
Trembley, del Backer, e del celeberrimo Bonnet.

§. 5. Delle rovine di Burnum.


Andando per terra da Knin al monastero degli
ospitalissimi Calogeri di Sant’Arcangelo57 noi ci
57 I Calogeri di S. Arcangelo in Kerka conservano la pia
tradizione, che s. Paolo abbia celebrato in una picciola
cappellina contigua al loro monastero. I Morlacchi di rito
greco concorrono a questo santuario con molta divozione,
150
quantunque la povertà loro non permetta, che vi portino ricchi
doni.
151
dilungammo mai sempre poco dal fiume, che di là alle
foci scorre quasi costantemente fiancheggiato da monti
marmorei, e di rado incontra valloni, e campagne, pelle
quali si possa spandere, allorché gonfia. Trovammo per
la deserta Bukoviza vestigj di antiche abitazioni
romane: ma che miserabili vestigj! Pietre rozzamente
appianate, nelle quali veggonsi scalpellati de’ buchi in
quadro per piantarvi travicelli, o altra cosa simile da
sostenere le tende pegli accampamenti, giacciono da
entrambi i lati lungo la via per quasi un miglio di
cammino. Molti frammenti d’iscrizioni stritolate
s’incontrano sparsi qua, e colà, fra’ quali un pezzo di
pilastro a quattro faccie adorno di bassorilievi agli
angoli, su di cui si legge in lettere massime, e ben
conservate un residuo d’antico elogio.
V’ha ogni ragion di credere, che la città distrutta in
questo sito sia stata il Burnum di Procopio, [119] e la
Liburna di Strabone58. La Tavola di Peutingero mette
Burno a destra del fiume Tizio, sopra Scardona, 24.
miglia lontano da Nedinum, ch’è il Nadino de’ giorni
nostri, 25. miglia per l’appunto distante da questo luogo,
da’ tre archi, che tuttora vi si vedono, chiamato
58 Il Meriano (Topograph. Carniol.) ebbe molto men buone
ragioni di mettere l’antica Burno dove ora è Gottschevia, il di
cui sito non fu abitato ne’ secoli romani, ed è lontanissimo da’
luoghi accennati dai geografi come vicini a Burno. Peggio
ancora s’appose colui, che questa città antica si credette di ben
collocare sul fiume di S. Vito, dove altre volte fu Tarsatica, e
non mai Burno, che dev’essere lontano di là intorno a dugento
miglia. V. Schonleben. Carniola Antiqua et Nova.
152
Suppliacerqua, vale a dire Chiesa traforata. Non ha
molti anni eglino erano cinque, e da un Morlacco due ne
furono disfabbricati per far uso del pietrame. Di quei
tre, che sussistono, uno ha ventun piede di corda; i due
minori, che gli stanno a destra, la metà meno. Il tempo
ha maltrattato assai quell’antico monumento, ch’è
fabbricato di pietra dolce simile al moilon de’ Francesi,
e meno compatta della nostra pietra di Nanto, e di S.
Gottardo ne’ monti vicentini. Quello che ce ne resta
mostra però assai bene, ch’egli fu eretto ne’ buoni secoli
dell’architettura. Se si potesse agevolmente far iscavare
il terreno d’intorno ad esso si troverebbe, ch’è
benissimo proporzionato. Io l’ho fatto disegnare come
attualmente si vede (Tav. V.). Non vorrei determinare a
qual fine sieno stati eretti i cinque archi di
Suppliacerqua; sembra però dovessero stare isolati,
perché le scannellature, e cornici dell’arco si vedono
egualmente da entrambe le facciate. Potrebb’egli essere
stato un monumento trionfale di cinque archi? Rovine
rimarchevoli non v’hanno colà presso: [120] ma di
sotterra cavansi grosse pietre, e ne’ contorni trovansi de’
resti d’una strada romana. Suppliacerqua è nome
precisamente del sito dove sono gli archi; il tratto poi di
campagna vicina sparsa di ruderi chiamasi Trajanski-
grad, vale a dire, Trajanopoli.

§. 6. Corso del fiume sino alla caduta di


Roschislap.
A destra degli archi corre pel profondo suo letto fra’
153
monti divisi la Kerka, e vi fa una caduta presso a un
povero casale aggiacentevi, che veduto dall’alto è
delizioso, ma non gode forse in quella profondità d’aria
molto salubre. Così è in bassa, e uliginosa valle situato
cinque, o sei miglia più sotto il monastero de’ Calogeri
di S. Arcangelo sul fiume, alle radici d’un monte, che ha
la sommità, parte di marmo brecciato ghiajoso, parte di
dalmatino volgare, e ’l piede di pasta totalmente diversa,
e molto meno antica. La strada, per cui si discende verso
il monastero, è cavata sulla costa, e lascia vedere
parecchi strati di pietra scissile, di varie durezze, che ora
si sfarina sotto le dita, ora si scaglia come le selci, ora è
piena di ciottoli fluitati, e può essere detta terra
calcarea, petrosa, brecciata di ghiaja. Sembra che il
fiume, attraversato dalla caduta improvvisa di qualche
gran pezzo di monte, abbia sormontato di molto in
lontani tempi l’ordinario livello, e deposto colà quegli
strati di belletta, e mescolativi i sassolini. Quantunque io
vi abbia cercato minutamente, per quella fanghiglia
indurata nessun vestigio di corpi marini ho potuto
scoprire, e quindi ho creduto, che avesse origine
fluviatile. Come facilmente accada, che si stacchino
gran pezzi di marmo dall’altezze de’ monti, che quasi
perpendicolarmente sorgendo formano le sponde alla
Kerka, da cui furono [121] squarciati, ben lo provano i
contorni della quarta caduta di esso fiume a Roschislap.
Eglino sono sparsi di massi rovinati dalla sommità de’
monti. L’ultimo scoglio, che si è precipitato alle rive del
fiume, da cencinquanta piedi d’altezza, pella violenta
154
scossa di tremuoto, fattosi colà sentire del 1769, ha
settantadue piedi di circonferenza, e una procerità
corrispondente. Egli è composto di sassi fluitati bianchi,
avvinati, grigj, e finalmente d’ogni colore, e grado di
compattezza. Nella maggior parte di quelli, che sono
coloriti, veggonsi delle lenticolari; e in una scheggia
tratta da questo masso incontrai cosa, che non
m’accadde di vedere altre volte sin ora, vale a dire, le
lenticolari calcinate, e divenute bianchissime, senza che
sieno punto guaste le loro concamerazioni, che
coll’ajuto d’un buon vetro si distinguono perfettamente
vuote. Stava il masso caduto del Sessantanove su la più
alta parte del monte attaccato a un ciglione inaccessibile
a’ giorni nostri. Fa d’uopo, che fosse meno impossibile
il salirvi ne’ secoli trapassati: mentre sulla faccia
esteriore del masso sfaldatosi è scolpita l’iscrizione
sepolcrale d’un antico soldato. Se la ragione condotta
semplicemente dalle replicate sperienze giornaliere non
bastasse a far intendere, che lo stato antico della
superficie del nostro globo ha sofferto delle mutazioni
grandissime, non solo millennari, ma secolari ancora, e
spezialmente ne’ luoghi montuosi, questo esempio lo
proverebbe particolarmente pel paese attraversato dal
fiume Kerka, e potrebb’essere applicato a tutti gli altri
confinanti ai fiumi, e torrenti montani. Colassù sarebbe
d’uopo mandare coloro che, standosene ben adagiati, e
riparati nelle loro stanze, pronunziano magistralmente,
che la terra nostra è precisamente adesso nello stato
medesimo, in cui ell’era sessanta secoli addietro, e si
155
credono d’aver provato [122] assai quando adducono in
confermazione della opinione loro, nata dal non avere
osservato, i rimasugli di antichità rimota, che restano
ancora scoperti in alcuni luoghi elevati, dimenticandosi
di tutti quelli, che si trovano affatto sepolti. A Voi
dev’essere più d’una volta accaduto d’aver contesa con
sì fatti ragionatori, né avrete risparmiato in rispondendo
loro gli sfaldamenti, ed avvallamenti delle montagne, la
distruzione di esse lentamente operata dalle acque, i
vulcani, che le scombussolano talvolta, e ne alterano la
struttura, i cangiamenti de’ letti de’ fiumi,
gl’ingojamenti, e gli abbandonamenti del mare, de’ quali
tanti esempj ci conservano le storie, e tanti più ne sanno
leggere gli occhi sicuri dell’osservatore.
La cascata di Roschislap, veduta di fronte forma un
aggradevole colpo d’occhio; ella dev’essere magnifica
sui finire d’autunno, e in primavera. Ad ogni modo però
non essendo possibile, ch’ella superi la cascata di Terni,
io trovo, che il suo vero punto di vista è nel cuore della
state. Il fiume è largo in quel luogo da trecento passi
geometrici; lo attraversa uno stretto, e lungo ponte di
sessant’archi, rozzo, e mal inteso, ma solido lavoro
turchesco. Fra questo ponte, e la cascata sono parecchi
mulini; quindi l’acqua è divisa in varj canali. I ritagli di
terra, che giacciono fra queste divisioni, verdeggiano
per una quantità d’alberi lussureggianti, che vi crescono
felicemente col benefizio dell’acqua perenne, onde sono
inaffiati, e spruzzati. È tratto tratto interrotta la verdura
pelle onde, che scendono spumanti, e romorose
156
dall’altezza di circa venti piedi, ora serpeggiando, ora
scorrendo per diritto sentiero. Non tutta però l’acqua
superiore concorre a formare i varj rivi, che
abbelliscono la cascata; buona parte ne passa per
dissotto all’obice petroso. Per quanto [123] io ho
osservato, quel fiume non lascia incrostazioni tofacee, o
tartarose, se non dove trova delle remore, ed intoppi
marmorei, o dove il declivio è molto considerabile e ’l
corso rapido per conseguenza. Nella pianura di Knin,
dove scorre lentamente per un letto uguale, egli non
petrifica né radici, né piante, quantunque ne bagni di
molte; perché non trova resistenza. Crederei si potesse
asseverantemente dire, che dalle rupi, rovinate dall’alto
de’ monti nell’alveo della Kerka, sieno state prodotte le
varie cateratte, che la rendono innavigabile. Le
incrostazioni tofacee trovarono luogo opportuno a
crescere negli anfratti, e ineguaglianze di que’ massi; e
tanto le ajutò il tempo, e la disposizione del luogo, che
giunsero ad obbligare una parte dell’acque a
sormontarli, non trovando più sfogo sufficiente per
dissotto. Sospetterei poi, che niun’acqua tartarosa,
eccettuandone le termali, lascierà incrostazioni ne’
luoghi, dove avrà lento corso; e che ne lascieranno,
tanto le fredde, quanto le calde, sempre in ragione
dell’angustia, e del declivio de’ canali, pe’ quali
dovranno scorrere. Se le incrostazioni tofacee
d’un’acqua tartarosa, cresceranno a maggior volume ne’
luoghi di men rapido corso, e di poco declivio, che ne’
luoghi più angusti, e inclinati; la compattezza, e ’l peso
157
del tofo formatosi in questi compenserà la maggior mole
accozzatasi in quelli. Così negli stillicidj delle caverne
io ho costantemente osservato sinora, che que’ torsi, e
fusti di colonne calcareo-spatose, i quali sorgono da’
pavimenti sotterranei, sono di materia più pura, e più
compatta in ragione della maggior altezza, d’onde vi
cadono le gocciole cariche d’atometti salini, e di
particelle cristallizzabili. Le incrostazioni formate da’
fili d’acqua abbondanti, vi sono sempre meno solide, e
per conseguenza più cariche di parti terree, e mal
colorate. [124] L’indole degli strati di breccia ghiajosa,
che occupano la sommità piana de’ monti, fra’ quali
sprofondatosi scorre il fiume, si manifesta disposta alle
rovine, non solamente lungo il di lui letto, ma eziandio
lungo i botri, e valloni, che conducono, o in altri tempi
condussero acque eventuali, e mettono nella Kerka. Io
ho veduto il piano d’una valletta a destra di Roschislap
tutto seminato di gran pezzi di scogli caduti dall’alto; e
su d’uno di essi leggonsi i residui d’una corrosa, e
mutilata iscrizione.
§. 7. Corso della Kerka sino alla cascata di Scardona.
Il fiume, o per meglio dire, il torrente Cicola, che ha
le sue origini sotto Gradaz, quindici miglia lontano da
Knin, si scarica anch’egli nella Kerka, dopo d’aver
ricevuto le acque di Verba, ingrossate da quelle di
Mirilovich. Su la destra sponda di esso giace la terra di
Dernish, abbandonata dai Turchi all’armi veneziane. La
campagna soggetta a questo luogo è oltremodo ubertosa,
158
ed amena. Non molto lungi da Dernish è la picciola
villetta di Tribuje, dove probabilmente fu il Tribulium
degli Antichi, e dove si vede qualche miserabile vestigio
d’abitazioni romane. Della mala direzione di queste
acque, e dell’altre, che dall’opposta parte di Kerka,
formano la Butimschiza, di cui ho detto più su, lungo
sarebbe il favellare. Elleno potrebbono essere fonti di
ricchezza per quelle contrade, e lo sono pur troppo di
miseria, e di biasimo. Da Roschislap si discende
all’isola di Vissovaz, ch’è la sommità d’una collina, le
di cui radici stanno sott’acqua, abitata da’ frati
zoccolanti, benemeriti coltivatori della vigna del
Signore per que’ luoghi, dove un prete secolare
difficilmente vorrebbe darsi a così laboriosa vita. [125]
Il fiume è molto largo in quel sito, ma non somministra
oggetto veruno d’osservazione. Egli vi corre lentamente,
perché la cateratta de’ mulini di Scardona, ch’è intorno a
cinque miglia più sotto, sostiene l’acqua. Questa è
l’ultima, e la più magnifica caduta della Kerka; e lo
sarebbe al doppio, se l’arte non vi avesse profittato degli
obici messi della natura al fiume per fabbricarvi molte
case di mulini. Formasi presso a quel luogo un tofo
ondulato, di grana salina, che potrebb’essere preso a
prima vista per legno impietrito. I novizj amatori della
storia fossile spesso raccolgono, e tengono come
petrificazioni di legni i lavori delle acque cariche di
particole tartarose. Le linee dinotanti le divisioni de’
piccioli strati, e la diversità del tempo, in cui furono
dalle acque formati, non meno che delle materie,
159
ond’erano saturate, sono in questi casi nominate fibre
longitudinali de’ legni; e gli occhi mal prevenuti vi
distinguono agevolmente anche le trasversali. Errore
simile producono pure talvolta alcune spezie di pietre
vulcaniche, i diaspri variegati, e le selci, che
rappresentano gruppi, e nodi simili a quelli degli alberi;
ed è difficile il persuadere dell’inganno coloro, che non
usano d’andare a raccogliere i fossili personalmente pe’
monti, dove può giudicare sanamente chi non porta seco
prevenzioni. Dalla caduta di Scardona sino a Zara, che
n’è cinquanta miglia lontana, scrisse Simone Gliubavaz,
e Giovanni Lucio stampò, e il padre Farlati replicò, su la
di lui fede, che sia corso in altri tempi un acquedotto.
Eglino furono tratti in errore da’ residui d’un ignobile
canale di mattoni, che veggonsi lungo le sponde del
fiume a destra dalla cascata de’ Mulini sino
all’imboccatura del lago; ma questo, second’ogni
apparenza, non conduceva l’acqua più lungi, che a
Scardona. Della [126] impossibilità di condurre le acque
della Kerka a Zara ho parlato a lungo nel render conto
d’altri vestigj d’acquedotti, che veggonsi presso il mare
nel distretto di quella città59. Scardona ne aveva un vero
bisogno: da che l’acqua del lago, in cui si scarica la
Kerka, è salmastra quasi in ogni stagione dell’anno; e le
fontane, dalle quali poteva attingere, non erano atte a
somministrare il bisognevole per una considerabile
popolazione. Dalle sorgenti di Topolye alla sua caduta
nel lago scardonitano, il fiume Kerka non ha corso più
59 Vedi il §. 10. della prima lettera.
160
lungo di trenta miglia.
Facendo viaggio a cavallo dal monastero di S.
Arcangelo a Scardona, tre miglia prima d’arrivare a
quella città, trovasi un torrentello, che fra gli altri sassi
volgari, conduce de’ grumi di terra azzurra, petrosa,
piena di corpi marini lapidefatti. Coll’indizio di que’
pezzi raminghi, io trovai gli strati di essa scoperti in più
d’un luogo, ma segnatamente presso alla cima del
monte, a sinistra del cammino. I corpi presi in quella
terra sono nummularie, e lenticolari, e porpiti di figura
analoga ad esse, piccioli nuclei di bucardie, molte
fungiti, e articolazioni di stelle di mare. A Scardona
trovai quantità di turbiniti presi nel marmo volgare, de’
quali ho portato meco varj esemplari. Non molto lungi
da questo torrente, nel luogo detto Ruppe, trovansi gran
denti di cane carcarias corrispondenti a quelli, cui
descrive lo Scilla Tav. III. Fig. I. Io non ho potuto
visitare quel sito: ma ho veduto di que’ denti presso a
persone degne d’ogni fede, che mi assicurarono
trovarsene in grandissima quantità. [127]

§. 8. Della città di Scardona, e d’alcuni tratti


d’antichi scrittori, attinenti alla mineralogia
della Dalmazia.
Dell’antica città, dove ne’ tempi romani tenevansi gli
stati della Liburnia, non restano più sopra terra vestigj
riconoscibili. Io vi ho trascritto due belle iscrizioni
scoperte colà parecchi anni sono, e conservate nella casa

161
del reverendissimo canonico Mercati. Egli è sperabile,
che, a misura dell’accrescimento della popolazione di
Scardona moltiplicandosi i novali, si scopriranno d’ora
innanzi frequentemente in que’ contorni monumenti
pregevoli d’antichità. È da desiderare, che le poche
persone colte, le quali hanno influenza nella polizia di
quella città rinascente, donino una particolare attenzione
a questo articolo, onde non periscano, o siano altrove
trasportate le onorevoli memorie dell’antica, ed illustre
loro patria, che tanto riguardevole rango tenne fra le
città liburniche a’ tempi romani. Ella è quasi una
vergogna, che sei sole lapide ricopiabili esistano
attualmente a Scardona; e le altre molte, che deggiono
esservi state dissotterrate, sieno andate a male
miseramente, o trasportate in Italia, dove perdono la
maggior parte del loro merito.
Si trovano ne’ contorni di Scardona molto
frequentemente monete romane, alcune delle quali, assai
pregevoli, ho veduto presso l’ospitalissimo prelato
monsignor Trevisani, vescovo, e padre di quella
rinascente popolazione. Dalla cortesia d’uno de’ più
riguardevoli signori del paese, mi furono donate
parecchie lucerne sepolcrali, che portano il nome del
figulo Fortis, e pella forma elegante delle lettere
mostrano d’essere degli ottimi tempi. Le replicate
devastazioni, alle quali Scardona fu soggetta, non le
lasciarono [128] vestigio di grandezza. Ella cresce però
adesso; e molti mercadanti serviani, e bossinesi vi si
stabiliscono, come in una scala opportunissima pel
162
commercio colle provincie turchesche superiori: ma non
è punto fortificata, checché ne dica il padre Farlati60.
In nessuna delle peregrinazioni mie pell’Illirico mi
venne fatto sinora d’incontrare alcuna miniera di
qualunque metallo, se una di ferro se n’eccettui, che non
dovrebbe essere molto lontana da Scign, e di cui mi fu
(non capisco per qual motivo ragionevole) fatto un po’
di mistero. Dicono, che a Hotton, dove io non sono
stato, nel territorio di Knin, v’abbiano miniere di
qualche ricchezza: ma la gente avida, e inesperta vede
oro, ed argento in tutte le piriti, e non si può contare su
le voci popolari. Fa però d’uopo credere, che la
Dalmazia producesse anticamente di molt’oro; da che
varj scrittori ne fanno aperta testimonianza. Plinio fra
gli altri, ch’era in caso di saperlo, dice, che sotto
l’impero di Nerone dalle miniere di quella provincia
cinquanta libbre d’oro giornalmente traevansi, perché si
raccoglieva a fior di terra, in summo cespite61.
Floro ci lasciò scritto che Vibio, al quale
l’incombenza di domare i Dalmatini era stata
appoggiata da Augusto, quella feroce gente a cavar
minere, e a purgar oro costrinse. Anche Marziale,
60 Illyr. Sacr. t. 1.
61 Aurum qui quærunt ante omnia segullum tollunt (ita vocatur
indicium). Alveus, ubi id est, arenæque lavantur, atque ex eo
quod resedit conjectura capitur ut inveniatur aliquando in
summa tellure, penitus rara fœlicitate; ut nuper in Dalmatia,
principatu Neronis, singulis diebus etiam quinquagenas libras
fundens; cum jam inventum in summo cespite. Plin. Hist. Nat.
Lib. XXXIII. cap. IV.
163
scrivendo [129] a Macro, chiama terra aurifera la
Dalmazia, e pare, che i contorni di Salona, secondo la di
lui opinione, meritassero questa qualificazione.
Ibis litoreas, Macer, Salonas;
Felix auriferæ colone terræ.
E da un verso di Stazio nell’epitalamio di Stella
apparisce, che in proverbio fosse passato l’oro della
Dalmazia:
Robora dalmatico lucent satiata metallo:
tratto, che non permette di rivocare in dubbio
l’esistenza, e l’abbondanza di questo prezioso prodotto.
Così alcuno de’ nostri poeti chiamò l’oro metallo
peruano, e si fece intendere benissimo.

§. 9. Voci popolari in fatto di mineralogia


dalmatina.
Ad onta però di queste testimonianze, che in più
d’una persona coltivarono la speranza di rinvenir tesori,
io non posso darmi ad intendere, che ne’ monti, che
sorgono lungo il lido della Dalmazia propriamente detta,
vi sieno miniere d’oro, o d’argento; eglino non hanno
verun carattere di monti minerali. Forse la mediterranea
montagna di Promina, dove la città di Promona era
situata, è ricca di miniere, come alcuni scrittori
dalmatini assicurano. Io non l’ho peranche colla
necessaria diligenza, e in ogni sua parte visitata: ma
sospetto, che il nome della montagna possa aver fatto
inganno ai Dalmatini, pell’apparente analogia, ch’egli
164
ha colle miniere, quantunque originariamente sia forse
derivato a prominendo. M’era stato detto, che il
fiumicello Hyader, ora dalle rovine della città vicina
chiamato Salona, porti seco dalle origini sue nell’uscire
arena non affatto priva di pagliuzze d’oro; e mi fu anche
asserito, [130] che alcuni poveri abitanti delle di lui rive
ne avevano sovente fatto qualche picciola raccolta; ho
cercato di chiarirmene, e mi sono chiarito che non è
punto vero. Ho anche udito raccontare da parecchie
persone, e trovato scritto in alcune memorie della
provincia, da me tolte alla polvere, e alle tignuole, che
sopra Sibenico nel luogo detto Suhidolaz, v’ha una ricca
miniera di mercurio: ma questo è falso di pianta, e non
può essere altrimenti. Le mie ricerche sino ad ora non
mi condussero molto innanzi in questo proposito. Così
all’oscuro come sono ancora della minuta topografia di
questo vasto paese, di cui ho scorso una parte
solamente, io penderei però a credere, che miniere
considerabili, e preziose non si trovassero nelle
montagne calcaree aggiacenti al mare, né lungo le valli
bagnate dalla Kerka, e dalla Cettina. Più addentro erano
probabilmente le miniere antiche; e i confini della
provincia piu addentro di fatti stendevansi. S’egli è
vero, che nella rena del fiume di Travnik in Bossina,
trovinsi delle pagliuzze d’oro, sarebbe per avventura da
cercare lungo il corso di esso, e intorno alle sorgenti
l’abbondante miniera, di cui parla Plinio. Non so se
quello sia il medesimo fiume, dal di cui letto a quindici
miglia dalla città di Travnik, sorge con impeto una fonte
165
d’acqua acidula, alzandosi considerabilmente sopra la
superfizie dell’acqua corrente. Mi fu detto, che di
quest’acqua usano i Bossinesi per cacciare la febbre
terzana; che messa in vasi, e trasportata si turba, e
depone un sedimento ferrugginoso, ec. La Bossina, per
quanto si può congetturarne dalle relazioni de’ nostri,
che vi praticano, è ben provveduta di montagne
minerali; dicesi che abbia ricche miniere d’argento; e ’l
luogo, dove si trovano, ne porta il nome di Srebrarniza,
che suona paese, o terreno argenteo, così detto dalla
voce [131] srebro, che argento significa in tutti i dialetti
della lingua slavonica. Io ho avuto un esemplare di
quella miniera, che somiglia all’argento nativo del
Potosì. Egli è in fogliuzze simili al musco, e trovasi
combinato col puro quarzo gialliccio, senza punto
mescolarvisi. Molte altre cose appartenenti alla storia
fossile della Bossina, mi furono raccontate: ma io non
credo opportuno il rendervene conto sull’altrui fede. So
per isperienza quanto stia bene una prudente incredulità
in fatto di storia naturale.
Se i minuti dettagli, ne’ quali sono entrato, vi fossero
sembrati nojosi, spero che non vorrete rimproverarne
l’amico vostro. Voi certamente credete, come io
medesimo ho creduto sempre, che la precisione esatta
sia la qualità migliore, cui possa avere un osservatore,
che si proponga il bene nazionale, nell’indicare i luoghi
bisognosi di coltura, e l’avanzamento della scienza
naturale, nel descrivere le produzioni della gran madre
maestra. Oltre questi oggetti, io ho stimato benfatto ne’
166
miei viaggi dalmatici, di prefiggermi anche la
rettificazione degli scrittori, che hanno preso qualche
sbaglio nel parlare di queste contrade; ed ho avuto in
vista il maggior comodo de’ viaggiatori, nell’indicare le
voci popolari riconosciute false. Non ho poi creduto di
dover ommettere affatto i residui d’antichi stabilimenti,
quantunque il farne memoria più all’antiquario, che al
naturalista appartenga; e tanto meno ho voluto
trascurarli quanto più deggiono servire a riformare
l’idee, che si hanno comunemente fra noi in proposito
della Dalmazia, dove non si sarebbero piantate tante
colonie romane, se fosse quell’orrido paese, che vien
dipinto.
Abbenché io conosca abbastanza la poca forza d’un
libro, e la grandissima delle prevenzioni, e delle
circostanze, [132] vi confesserò, che provo nel mio
segreto una sorte di compiacenza nel pensare, ch’è fra i
possibili, che il mio viaggio arrechi qualche benefizio
alla nazione dalmatina, se non adesso immediatamente,
almeno coll’andare degli anni. Mi crederei il più
fortunato di tutti i viaggiatori, se prima di finir d’esistere
sulla nostra terra potessi esser convinto d’aver esistito
utilmente. [133]

167
Al chiarissimo signor
abbate
Gabriello d.r Brunelli
professor disegnato di storia naturale
nell’Istituto di Bologna.

DEL CONTADO DI SIBENICO, O SEBENICO

I l mio viaggio in Dalmazia interrompendo per qualche


tempo il commercio di lettere, che tien viva da
parecchi anni l’amicizia nostra, dee avervi messo
qualche curiosità intorno a’ risultati di esso. Amatore
della storia naturale, e destinato a professarla in codesta
rinomata Accademia, dov’ella rinacque mercé le fatiche
degli Aldrovandi, de’ Malpighi, de’ Marsigli, ricercatore
diligentissimo di manoscritti, e documenti atti a
spargere qualche lume su la storia letteraria de’ passati
secoli, e di ogni esotica notizia buon giudice, ed
apprezzatore, Voi siete quasi più d’ogni altro a portata di
gradire la varietà de’ miei dettagli. Ecco ch’io ve ne
indirizzo una parte, affinché vi serva di prova della mia
costante stima, ed amicizia per Voi, e di qualche
concambio alle notizie, che mi communicate sovente da
codesta nobilissima vostra patria, dove ogni genere di
letteratura, ed ogni scienza fiorisce. [134]

168
§. 1. Del territorio, e della città di Sibenico.
Fra le provincie tutte della Dalmazia da me visitate, la
più atta a tenere molto tempo occupato un osservatore si
è certamente il territorio di Sibenico, che stendesi lungo
il mare per trenta buone miglia, penetrando oltre venti in
alcun luogo fra terra, ed abbraccia intorno a settanta fra
isole, e scoglietti minori. La varietà degli oggetti,
l’amenità delle situazioni, la buona sorte d’avervi
incontrato egregj ospiti, e un ristretto numero di cortesi,
ed attivi amici, fra’ quali a cagion d’onore mi giova
nominare la famiglia del conte Francesco Draganich
Veranzio, coltissima, ed ospitalissima, e ’l conte
Giacinto Soppe Papali, di soavissimi costumi, e di
cognizioni al viaggiatore utilissime fornito, m’avrebbe
determinato a fissare colà per qualche mese il mio
soggiorno, facendo quella colta città centro delle mie
escursioni marine, o montane pe’ vicini luoghi. Ma il
giusto timore d’essere sindacato, timore cui ben
giustificò in parte l’esito della mia spedizione, mi trasse
a forza da que’ contorni, e mi costrinse a contentarmi
d’aver incominciato parecchie osservazioni senza quasi
condurne a perfezione veruna; verità, che non
iscandalezzerà punto Voi, né qualunque altro abituato ad
osservare, e che sa per conseguenza quanto tempo
esigano le più minute ricerche per esser ben eseguite, ed
a compìto stato ridotte.
La città di Sibenico, quarantacinque miglia a dritta
linea lontana da Zara; non vanta origine illustre. Coloro,

169
che la vollero nata dalle rovine di Sicum, stabilimento
romano, dove Claudio mandò una colonia [135] di
veterani62, ebbero così deboli ragioni per istabilire
questa opinione, ch’ella cadde da per sé sola. La Tavola
peutingeriana non mette in Dalmazia altro nome di
luogo simile a Sicum, se non se Siclis; e questo fra Traù
e Salona. Nessun vestigio d’antichità rimota qualifica
Sibenico; non residui di mura, non petrame di lavoro
romano. Una sola iscrizione vi si vede incassata nelle
mura della città presso alla porta, che conduce al molo;
e questa vi fu portata da quella parte interna del
territorio, che chiamasi il Campo di sopra, dove
probabilmente sorse ne’ tempi antichi Tariona. Il Lucio
vuole, che Sibenico sia stato fabbricato da’ Croati ne’
tempi della decadenza dell’Impero, e Giambatista
Giustiniano, che fiorì un secolo prima, nella sua
relazione manoscritta della Dalmazia dice, che questa
città «fu fabbricata da Malandrini, o Euscocchi che
vogliamo dire, i quali avanti l’edificazione di essa
solevano abitare sopra uno scoglio alto, dove ora è
fabbricato il castello, dal quale come vedevano qualche
navilio discendevano dal monte; e con le barche, le
quali stavano ascose appiè dello scoglio, intorno a cui
erano folti boschi, andavano a depredar detti navilj; col
tempo incominciarono a drizzare alcune casette,
attorniate di certe bacchette chiamate sibice, dal cui
nome fu nominata la città Sibinico. Questa città a poco a
62 Plin. l. III. C. XXII. Tragurium civium Romanorum marmore
notum; Sicum, in quem locum divus Claudius veteranos misit.
170
poco incominciò ad aumentarsi dalle adunazioni di
questi ladroni. Si crede poi, che ruinata, e distrutta
l’antichissima città di Scardona nel tempo delle antiche
[136] guerre, molti di quegli abitanti si riducessero a
Sibinico, di modo che se ben allora non avea nome di
città, col tempo l’acquistò, e si governò molti anni senza
esser sottoposta ad altri principi che agli abitanti di sé
medesima. Ma non durò questa libertà, imperciocché il
re d’Ungheria, che allora signoreggiava la Dalmazia,
incominciò a tiranneggiarla, dalla qual tirannide
volendosi liberare i Sibenzani non potendo più
sopportare le insolenze degli Ungheri usate contro le
mogli, e contro le figliuole, e nelle proprie facoltà,
deliberarono di sottoporsi alla Signoria, come a principe
giusto, del 1412 a’ dodeci del mese di luglio, essendo
principe il Serenissimo Michele Steno, di felice
memoria».
Qualunque sia stato veramente il principio di questa
città, o simile a quello di Roma, o da una serie di
piccioli accrescimenti prodotto, ella è la meglio, e più
teatralmente situata, che v’abbia in Dalmazia, e dopo
Zara la meglio fabbricata, e popolata di nobili famiglie,
tanto lontane dalle barbare maniere degli antichi pirati,
quanto le case loro lo sono dalle meschine sibice. Il
castello eretto sul monte, che la copre, poté preservarla
dai replicati sforzi de’ Turchi; e per difenderla dalla
parte del mare, v’ha dinanzi all’angusto canale, che
introduce nel porto, un altro forte, bell’opera del
Sammicheli, che vi ha messo una porta molto simile a
171
quella sua celebre di Verona. Fra le fabbriche di
Sibenico merita d’essere osservato il Duomo,
quantunque sia di tempi barbari, per la magnificenza del
fabbricato, e molto più pel suo tetto composto di gran
tavole di marmo connesse insieme: lavoro ardito quanto
qualunque altro analogo di tempi romani. In questa città
fiorirono nel XVI secolo le lettere, e le arti più che in
qualunque altra della [137] Dalmazia. Vi si vede in più
d’una fabbrica buon gusto d’architettura, e vi nacquero
molti uomini degni di particolare menzione.

§. 2. De’ letterati che nacquero, o fiorirono nel


XVI secolo a Sibenico; e de’ pittori.
Fra tutti gli uomini illustri, de’ quali può vantarsi
madre la Dalmazia, merita per ogni titolo il primo luogo
Antonio Veranzio, da Sibenico. Di questo grand’uomo
trovansi memorie sparse in varj libri contemporanei, e
presso a qualche scrittor posteriore di cose ungaresi; ma
niuno ha scritto di proposito63 la di lui vita, ch’è ben
degna d’aver luogo distinto fra quelle degli uomini di
stato non meno che fra quelle de’ letterati. Io non ho i
talenti necessarj per tesserla, né forse il tempo: ma credo
di farvi un piacere communicandovi in succinto le
notizie, che ne ho potuto raccogliere dalle preziose carte
63 Il Belio nell’Hungaria Nova, t. I; e lo Schmitth, negli
Archiepiscopi Strigonienses compendio dati, abbozzarono la
vita del Veranzio; ma entrambi presero degli sbagli, e
trattarono assai digiunamente il loro soggetto. Lo Szentivanio
poi credette, ch’egli fosse nato in Transilvania.
172
conservate presso la nobilissima famiglia de’ conti
Draganich Veranzj.
Nacque Antonio Veranzio, il dì ventinove di maggio
1504 da Francesco nobile sebenzano, e da Margherita
Statileo, gentildonna traurina. La prima puerizia passò
in Traù presso gli zii materni: ma ben presto fu reso alla
patria, dov’ebbe per precettore Elio Tolimero, del quale
fra le Carte veranziane conservansi varie poesie latine
manoscritte di qualche pregio. Dalla [138] Dalmazia,
già ben nutrito nelle lettere greche, e latine, fu chiamato
a Vesprimio presso il celebre vescovo e bano Pietro
Berislavo, traurino, ch’era pur suo zio dal lato della
madre; ed ebbe colà i primi rudimenti dell’arte militare.
Ucciso dai Turchi barbaramente nel 1520 il guerriero
vescovo, Giovanni Statileo, uomo d’autorità somma
nella corte d’Ungheria, e vescovo transilvano, chiamò a
sé il nostro Antonio, e il di lui fratello Michele, suoi
nipoti. Una delle prime occupazioni del bennato giovane
sembra sia stata la compilazione della vita del morto
Berislavo, ch’è quella medesima, cui s’appropriò
cent’anni dopo, con impudentissimo plagio, il Tomco
Marnavich, senza quasi cangiarvi una parola64. Intorno a
questo tempo Antonio fu mandato all’Università di
Padova; ma le turbolenze insorte nel Regno d’Ungheria
fecero, che fosse richiamato ben presto. Sembra ch’egli
possa aver continuato gli studj a Vienna, indi a
64 Vita Petri Berislavi Vesprim. Ep. Sclav. Dalm. et Croat. Bani,
Jo. Tomco Marnavitio Auctore. Ven. ap. Evang. Deuch. 1620.
in 8º.
173
Cracovia, nelle quali due Università certamente studiò
Michele. Ritornatosene in Ungheria presso lo zio, che
asprissimo, e tenace uomo era, e con villane parole i
nipoti suoi vilipendeva mai sempre, Antonio usò
d’un’eroica pazienza, né si lasciò sedurre dall’esempio
del fratello, che la perdette dopo breve tempo. Egli si
raccomandò a Stefano Broderico, vescovo vaciense (del
quale resta un pregevole Commentario manoscritto della
fatal giornata di Mohacz, ove combatté personalmente)
e al monaco Giorgio Utissenio, ch’erano potentissimi
alla [139] corte del re Giovanni Sepusio. Fu impiegato
dallo sfortunato monarca sin dal 1528 in commissioni
spinose verso i confini del turbulentissimo regno; e
trovavasi presso di lui allora quando fu assediato in
Buda da Guglielmo Rogendolff, generale de’
malcontenti. Ottenne il posto di segretario regio, e la
Prepositura di Buda Vecchia, de’ quali beneficj ringraziò
particolarmente con un’elegia il Broderico. Andò in
Transilvania commissionato dal Re, per agirvi gli affari
del Vescovado in luogo dello Statileo; ed apparisce dalle
sue schede, che non solo vi ricopiasse le iscrizioni
esposte, ma eziandio che ne facesse scavare da’ luoghi,
dove apparivano ruderi romani. Sciolto l’assedio di
Buda nel 1530 fu inviato a Sigismondo re di Polonia
due volte, e due alla Serenissima Repubblica di Venezia.
Nell’anno seguente andò a papa Clemente VII, poi a
Paolo III, ed appena ritornato in Ungheria a Sigismondo
di nuovo. Sul finire del 1534 passò in Francia spedito
dal signor suo al re Francesco I, dove fu due volte; indi
174
in Inghilterra ad Arrigo VIII, presso di cui ritrovavasi
nel mese di gennajo 1535. È probabile, che intorno a
questo tempo egli stringesse amicizia col grand’Erasmo
Rotterodamo, e imparasse a stimare il Melantone: del
primo si conserva diligentemente ancora una lettera,
presso il soprallodato conte Francesco Draganich
Veranzio, e in lode del secondo leggesi un epigramma
fra le poesie latine manoscritte del nostro Antonio. Nel
testamento, ch’egli fece prima d’andare in Francia
leggonsi queste parole: «Mihi, si moriar, pompas
sepulchrales, aut missas fieri nolo ullas. Hospitale
pauperum juvetur. Ego contentus ero si in Domino
moriar», tratto, che prova certamente almeno la di lui
carità verso i poveri. Ritornato alla corte fu [140] dal
suo Re spedito con altri due colleghi ambasciatore a
Ferdinando d’Austria re di Boemia: ma con poco frutto.
Il re Giovanni morì del 1540; e il Veranzio, di cui si
conservano due lunghe lettere su di questo avvenimento
scritte a Giovanni Statileo allora ambasciatore in
Francia, sembrava indivisibilmente attaccato
agl’interessi della regina vedova Isabella, e del pupillo
Giovanni II. Pella ottava volta fu inviato da Isabella al
re Sigismondo, che aveva preso moglie, nel 1543; ed è
stampata in Cracovia l’orazione da esso recitata in
quell’occasione, che vivamente dipingendo le luttuose
circostanze dell’infelice regina, fece piangere gli
ascoltanti. Dopo breve riposo, nell’anno medesimo fu
mandato al re Ferdinando, da cui fu accolto
umanissimamente, e trattato a pranzo. Sembra che da
175
quest’epoca egli abbia incominciato a raffreddarsi verso
Isabella, i di cui affari piegavano malissimo. Trovo che
del 1544 rinunziò a Giorgio Utissenio la Prepositura
transilvana, il che non fece volontieri, come apparisce
dai frammenti d’un dialogo, ch’ei scrisse molti anni
dopo. Ad onta di questo il nostro Antonio restò qualche
mese ancora nella corte d’Isabella, e pella nona volta
andò in Polonia a trattar d’affari con Sigismondo; dopo
la qual commissione dimandò il suo congedo, e passò a
Sibenico, d’onde partì conducendo seco due o tre de’
suoi nipoti, fra’ quali Fausto. Si può pensare ch’egli
abbia fatto qualche dimora in Italia sino al 1549, intorno
al qual tempo si ridusse alla corte del re Ferdinando, che
su le prime diegli sufficienti rendite ecclesiastiche, indi
principiò a impiegarlo. Del 1553 fu deputato ad Aly-
Bassà, beglierbego di Buda, e nell’anno medesimo fu
creato vescovo di Cinque-Chiese, e consigliere regio;
indi spedito ambasciatore in Turchia, con Francesco
Zay. [141] Di questo suo viaggio egli deve avere scritto
un esteso giornale, di cui non ci rimane altro che un
frammento degnissimo di vedere la luce65. Antonio
dovette seguire Solimano, che andò a portar la guerra su
le frontiere della Persia; e per cinque anni errò

65 La più interessante parte delle memorie della lunga, e


pericolosa spedizione fu affidata al gesuita Riceputi, che
raccolse pella Dalmazia preziosi documenti col pretesto di
farli servire all’intrapresa opera dell’Illirico Sacro; e subì la
sorte di quasi tutte le altre carte radunate da lui smarrindosi di
qua dal mare.
176
coll’esercito turchesco di paese in paese. Egli profittò
della lunga dimora per unire molte memorie spettanti
alla polizia, all’arte militare de’ Turchi, e alla corografia
delle contrade soggette alla Porta. Augerio Busbekio, di
cui abbiamo un trattato del governo ottomano fra le
Repubbliche elzeviriane, andava e veniva in questo
frattempo da Vienna in Turchia, e finalmente concluse
una tregua. Il Veranzio, e lo Zay partirono di là, al dire
del Busbekio medesimo, agli ultimi d’agosto del 1557.
Non finì l’anno, che Antonio fu traslato dal vescovato di
Cinque-Chiese a quello d’Agria; nel seguente trovasi
una lettera di Paolo Manuzio al nostro vescovo, che
n’ebbe anche una dal celebre, e sfortunato Aonio
Paleario nel 1560. Fra le carte veranziane, ch’io ho sotto
gli occhi, non trovo cosa rimarchevole sino al 1567, nel
qual anno andò per la seconda volta ambasciadore alla
Porta, pell’imperadore Massimiliano II. Il trattato di
pace con Selimo II. fu condotto a fine in pochi mesi
dallo sperimentato ministro, e grandissimo vantaggio ne
venne a tutta la Cristianità. Di quest’ambasciata celebra
le lodi un poemetto elegiaco di Giovanni Seccervizio.
Molti libri manoscritti dovette raccogliere [142] nelle
due spedizioni alla corte ottomana il dotto prelato, de’
quali pell’ingiuria de’ tempi non ci restano memorie: ma
basta per far onore al di lui genio la traduzione, ch’egli
fece fare degli Annali turcheschi da lui trovati in Ancira.
Questo codice, che si conserva colle altre di lui carte a
Sebenico, è quel medesimo, da cui trasse gran parte

177
della sua opera il Leunclavio66, e che dai dotti è
conosciuto sotto il nome di Codice Veranziano. Resosi
gloriosamente alla corte non tardò ad avere il premio
delle sue fatiche; e nel 1569 fu creato Arcivescovo di
Strigonio, che dopo il Re è la prima figura
dell’Ungheria, alla qual dignità si aggiunse nel 1572
quella di Viceré. In quest’anno egli coronò Re
d’Ungheria l’arciduca d’Austria Rodolfo; e trovasi
stampata in Venezia dal Rampazetto l’orazione, ch’ei
recitò in quell’occasione a nome degli stati ungaresi.
Giovanni Seccervizio pubblicò a Vienna un panegirico
in versi latini intitolato Verantius, al quale trovansi unite
varie poesie pur latine d’autori tedeschi; Giovan Mario
Verdizotti, stampò in Venezia un poemetto, diretto
all’arcivescovo Veranzio, sopra la vittoria navale
riportata l’anno innanzi dell’armi venete sopra i
Turchi67. Nel principio del 1573 Pietro Illicino gli
dedicò un’opera teologica. Probabilmente molti altri ibri
uscirono sotto gli auspizj di lui; il buon prelato era
magnifico protettore d’ogni sorte di [143] letteratura.
Ma egli trovavasi di già al fine della laboriosa sua vita.
Portatosi a Eperies per attendere alla giudicatura ne’
Comizj del Regno, egli cadde ammalato. Su le prime si
lasciò medicare: ma sentitosi aggravare fuor dell’usato

66 Leunclav. Hist. Turc. Lib. 1. p. 31.


Schmitth. op. cit. in Ver.
67 Jo. Verdizotti Oraculum pro magna navali victoria etc. ad
Antonium Verantium Strig. Archiep. Ven. apud Guerræos
1572.
178
allontanò da sé i medici spontaneamente, ed aspettò la
morte con cristiana, e filosofica tranquillità. I letterati
perdettero un generoso mecenate, i poveri un padre
caritatevole, l’Ungheria, e la Cristianità tutta un
consumato uomo di stato, il dì quindici di giugno 1573,
pochi giorni dopo che gli erano state recate lettere
affettuosissime di papa Gregorio XIII, colle quali gli si
annunziava la sua elezione al cardinalato, procuratagli
da un vero merito. Michele Duborozky, recitò l’orazione
funebre al cadavere, che fu sepolto con onorevolissima
iscrizione nella chiesa di S. Niccolò di Tirnavia. Di
questo illustre prelato parlarono con elogio, oltre i
soprannominati Belio, Leunclavio, Schmittio, Busbekio,
Manuzio, Seccervizio, anche il Bonfinio nelle sue
Decadi Ungariche, l’Istuamfio di lui continuatore, il
Jongelino nel Catalogo de’ Palatini, l’autore dell’opera
intitolata Castrum strigoniense aureum, che ne fa
amplissimo panegirico in poche parole; e molti altri
scrittori.
Antonio fu di bella statura e ben proporzionato, di
carnagione dilicata, d’aperta, e nobile fisonomia; il naso
avea lungo, gli occhi azzurri, la bionda barba gli
arrivava alla cintola. Nella sua gioventù sembra che sia
stato portato agli amori, non potendosi credere affatto
finti i molti versi erotici, ch’egli lasciò manoscritti. Alla
bellezza, e dignità della persona egli congiunse in
sommo grado la facondia, qualità che come lo rese
accetto sin dall’età più fresca ai sovrani di varie
contrade, così dovette renderlo fortunato in amore. La
179
dolcezza [144] delle di lui maniere era veramente la
mostra esterna d’un animo dolcissimo; s’egli usò di
pazienza eroica collo zio Statileo non lo fece già per
accortezza, ma per buon animo. Fa d’uopo, che qualche
grave offesa lo abbia staccato dalla regina Isabella,
senza di che egli avrebbe persistito. Crescendo in
dignità, e in ricchezze non crebbe in superbia, ma sì
bene in magnanimità, e beneficenza; del grand’animo di
lui può esser prova il dono fatto spontaneamente
all’imperador Ferdinando di 30 mila fiorini d’Ungheria,
ch’egli avea spesi per pagare le milizie in tempo che
l’erario era sprovveduto. Quindi, ad onta delle immense
rendite, ch’ei possedeva allorché venne a morire, fu
d’uopo vendere gli argenti vescovili, e gli arredi preziosi
per pagare i suoi debiti. Negli affari politici avea
grandissima penetrazione; né per sua opinione si
sarebbe mai dichiarata la guerra al Turco, se non da una
ben connessa, e potentissima lega di Principi cristiani.
Quantunque occupatissimo negli affari egli conservò
mai sempre una predilezione distinta pelle lettere, e
trovò delle ore per applicarvi. Restano delle di lui opere
manoscritte:
1. Vita Petri Berislavi.
2. Iter Buda Hadrianopolim.
3. De situ Moldaviæ et Transalpinæ.
Fragmentum.
4. De rebus gestis Joannis Regis Hungariæ. Libri
duo.
5. De obitu Joannis Regis Hungariæ, Epistolæ ad
180
Joannem Statilium Episcopum Transylvanum datæ,
dum idem Statilius in Gallia oratorem ageret anno
1540.
6. Animadversiones in Pauli Jovii historiam, ad
ipsum Jovium.
7. De obsidione, et interceptione Budæ; ad
Petrum Petrovvith.
8. Vita F. Georgii Utissenii, quæ pene tota periit.
9. Collectio antiquorum epigrammatum.
10. Multa ad historiam Hungaricam sui temporis.
11. Otia, seu Carmina.
Michele Veranzio, fratello dell’Arcivescovo, non fece
così luminosa figura. Egli si stancò di sopportare lo
Statileo, e visse disagiatamente per qualche tempo in
Ungheria, poi finalmente tornossene a Sibenico. Egli
scrisse con più purgato stile che quello d’Antonio, così
in prosa, come in versi. Il Tomco Marnavich cita
un’opera di Michele Veranzio sopra la storia ungarica
de’ suoi tempi: ma di questa non si trova più che un
frammento attinente all’anno 1536. Non so se di lui
v’abbia altra cosa stampata che un’elegia fra i versi
latini di Girolamo Arconati. Lasciò manoscritti alcuni
pezzi di poesia non ineleganti, e un’orazione ai
Transilvani, colla quale vuol persuaderli a mettersi
piuttosto sotto la protezione del Turco, che divenir
sudditi del re Ferdinando.
Fausto, e Giovanni, figli di Michele, furono affidati
allo zio Antonio perché pensasse alla loro educazione.
Di Giovanni ci rimangono alcuni epigrammi da scuola.
181
Egli morì giovinetto in battaglia. Fausto visse
lungamente ed avrebbe potuto essere ricco e felice: ma
la sua fervidezza lo fece essere mediocremente
provveduto, ed inquieto. Ebbe delle traversie per aver
compromesso sconsigliatamente la corte d’Ungheria
con quella di Roma in materia beneficiaria; e quindi
morì vescovo di Canadio, in partibus. Pubblicò in
Venezia un Dizionanetto pentaglotto nel 1595, indi un
volume in folio, intitolato Le Macchine, e una
brevissima Logichetta, in 24º, sotto il nome di Giusto
Verace. Per quest’ultimo opuscolo entrò in relazione con
due celeberrimi uomini, vale a dire con frate Tommaso
Campanella e coll’arcivescovo [146] de Dominis. Del
primo conservasi fra le carte veranziane una censura
autografa della Logichetta medesima; ed una pur ne
rimane del de Dominis. Fausto scrisse molto, e fra le
altre cose una Storia della Dalmazia, cui volle aver seco
in sepoltura. Gli eredi suoi rispettarono questa strana
volontà; e chi sa quante preziose carte dell’arcivescovo
Antonio perirono allora deplorabilmente insieme con
quelle di Fausto? Questi morì del 1617, e fu sepolto
nell’isola di Parvich68. Il Tomco Marnavizio gli fece
l’orazione funebre, ch’è stampata in Venezia nello
stesso anno. Carlo Veranzio nipote di Fausto non lasciò
dopo di sé libri stampati, né opere inedite: ma fu
protettore degli studiosi, raccoglitore di buoni libri, ed
68 Oltre alle accennate cose stampate Fausto Veranzio pubblicò a
Roma Xivot nikoliko izabraniib diwiicz. 1606. in 8º. e lasciò
un volume manoscritto Regola Cancellariæ Regni Hungariæ.
182
intelligente d’antiquaria.
Giovanni Tomco Marnavich, nacque del 1579, di
bassa gente, quantunqu’egli abbia poi voluto nobilitarsi
fino al darsi origine reale, pazzia che gli costò
grandissimi dispiaceri. Egli fu educato da’ Gesuiti a
Roma, e sino dal 1603 avea già dato forma a un grosso
manoscritto De Illyrico, Cæsaribusque Illyricis, che si
conserva ancora, quantunque sia un po’ mutilato. Del
1617 trovavasi al servigio del Vescovo canadiense, pella
cui morte pubblicò l’orazione soprindicata. Frugando
nelle carte veranziane, costui avrà rubato chi sa quante
cose! Così dee far giudicare il plagio della Vita di Pietro
Berislavo, ch’egli diè alla luce del 1620, non altro
aggiungendovi che alcuni periodi per farsi di [147] lui
congiunto, e sopprimendo le poche linee, che
scoprivano il vero biografo Antonio Veranzio. Fra le
molte cose pubblicate colle stampe di quest’uomo è la
migliore una dissertazione Pro sacris Ecclesiarum
ornamentis, et donariis, contra eorum detractores; a
Roma, 1635, in 8º. Egli era allora vescovo di Bosna.
Pochi anni prima, avea dato alla luce un leggendario di
santi illirici di stirpe reale, col titolo Regiæ sanctitatis
Illyricanæ fæcunditas, in 4º. 1630, nel quale fra gli altri
santi annovera Costantino imperadore, a cui sanno ben
tutti quanto male il titolo di santo convengasi. Gli altri
opusculi del Tomco non meritano d’essere riferiti.
Jacopo Armolusich, creato di Carlo Veranzio, lasciò
molti versi manoscritti. Pubblicò a Padova del 1643 un
libretto, Slava xenska sprotivni odgovor Giacova
183
Armolusichia Scibençanina çuitu sestomu, in 4º.
Guarino Tihich, o sia Tranquillo, visse nel principio
del XVI secolo, e lasciò delle poesie sacre manoscritte.
Pietro Difnico, contemporaneo de’ due primi Veranzj,
scrisse alcune poesie nell’idioma illirico. Dalla
medesima famiglia qualche altro dotto uomo
debb’essere stato prodotto: ma io ne cercai senza frutto
le notizie. Di questo Pietro vi parlerò più sotto, e d’un
Giovanni Nardino, che scrisse in versi elegiaci latini
Delle lodi di Sebenico, soggetto che fu anche trattato da
un
Giorgio Sisgoreo, di cui cita l’opera il Tomco. Ogni
diligenza usata per rinvenirla fu vana.
Pietro Macroneo sebenzano, canonico di Scardona,
quantunque nominato da me dopo tutti gli [148] altri,
visse in più rimoti tempi. Fra i manoscritti posseduti nel
1634 da Lorenzo Ferenczfi a Vienna varie cose
trovavansi del Macroneo, che fiorì cencinquant’anni più
addietro. Un solo opuscolo di lui è stampato,
stranissimo opuscolo, che ha per titolo Controversia
Lyaei, atque Tethidis, Vienna, 1634. È un pasticcio di
passi scritturali parodiati per servire a questa lite,
trattata nulla meno che dinanzi al tribunale di Dio. Forse
il Macroneo lo fece con buona fede: ma ne’ tempi nostri
corrotti questo accozzamento di sacro, e di profano
avrebbe tutta l’apparenza d’una beffa.
Nacque a Sibenico Martino Rota, dipintore, e
incisore, di cui ci restano parecchie stampe, fra le quali
varie carte corografiche della Dalmazia, che quantunque
184
poco esatte, sono di qualche uso. Due de’ tre ritratti in
rame d’Antonio Veranzio, che si conservano fra molte
altre preziose carte di quel grand’uomo presso la non
mai abbastanza lodata famiglia de’ conti Draganich
Veranzj, vengono dal bulino di questo artefice. Fu anche
nativo di Sibenico Andrea d’oscura origine conosciuto
sotto il nome di Schiavone, valoroso dipintore, le di cui
opere in molto pregio sono tenute dagli amatori, ad onta
del disfavorevole giudizio formatone dal Vasari.

§. 3. Porto di Sibenico, e Lago scardonitano.


Costumanze antiche.
L’ampio porto, in riva del quale stesa sul pendio d’un
colle sorge la città di Sibenico, spalleggiata dai monti
Tartari, asprissimi, e coperti di ghiaje d’antichi fiumi
rassodate in breccie, è uno de’ più belli che si possano
vedere, pella varietà delle colline, e piccioli promontorj,
che lo circondano a foggia di teatro. Il [149] fiume
Kerka, dopo d’aver messo foce nel lago di Scardona, e
d’avervi confuso le proprie acque con quelle del fiume
Goducchia, e del torrente Jujova, che vi si scaricano
anch’essi all’estremità opposta, si rincanala fra’ dirupi
per tre miglia di lento corso, d’onde viene a formare
sotto Sibenico un secondo lago, che ne ha ben sei di
lunghezza, e si mescola poi col mare mediante l’angusto
canale di S. Antonio. I Romani ebbero uno stabilimento
fra le foci de’ due fiumi Goducchia, e Jujova, di cui
restano vestigj appena riconoscibili, ma non affatto
dispregevoli, perché somministrano una prova manifesta
185
dell’alzamento dell’acque. I pavimenti a mosaico, e le
divisioni delle stanze rovinate, sono adesso ben due
piedi sotto all’ordinario livello del lago, che soffre
qualche flusso, e riflusso in dipendenza dal mare. V’è
anche un lungo molo subacqueo, che congiunge la punta
della penisola formata da’ due fiumi collo scoglietto
Sustipanaz, su di cui com’ora trovasi una chiesa
rovinata, così altre volte sarà probabilmente stato un
sacello, o tempietto de’ Gentili. In una carta del
territorio di Sibenico incisa dal sopraccennato Martino
Rota del 1571, vedesi un gruppo d’abitazioni succedute
alle romane sulla punta che sporge nel lago fra le due
foci, che v’è nominato Razlina; il luogo adesso è affatto
deserto.
Fra le poesie del Difnico v’ha un elogio di Sibenico,
in cui trovansi varie cose attinenti alla storia naturale
delle acque vicine. Eccovi il tratto di questo antico poeta
naturalista; io avrei creduto, qualunqu’egli siasi,
malfatto il trascurarlo69. «Il fiume Karka, [150] dic’egli,

69 Karka, koye potok – plove sve mimof grad,


Ugnoy chiye otok – nigdarga nebì gràd.
Rika Karka ovay – spilah kapgliucch ozgor,
Slove po svaki kray – chino stuara mramor.
Na çudan pak zlamen – svakse tuy navracchià
Gdi darvo u kamen – tay voda obracchià.
Utoyti yosc ricy – ugori padayu,
Kogi no oghnici – betegh ne pridayu.
Riche tey yosc nad slap – riba slavom slove
Parxinom yere kgliap – zlatnomse tuy tove.
Tuyusu psi brez straha – chino samo rexe
186
la di cui corrente perenne bagna il piede della città, ha
un’isola, in cui non mai cade gragnuola. [151] Esce
questo fiume mormorando per ogni lato da spelonche
stillanti, dove producesi il marmo; e ognuno concorre a
vedervi un prodigio laddove le di lui acque cangiano in
pietra il legno. A te porta, o Sibenico, questo fiume

Na Turka, i Vlaha – i ugistgih prexe.


Yezero nam blatno – sedmo lito svih stran,
Ugore tad yatno – mecchie iz sebe van.
Raçzi yosc stonoghi – kozzice chih zovu,
Od pegliasu mnoghi – i ti prì nas plovu.
Prì gradu ovomu – zubataz krunnasti
A ne poi inomu – naydese ù çasti.
I toye podobno – castse tay pristogi.
Ofdi er osobno – s’ kragliem broy rib stogi.
Che ima suud more – nay plemenitiye
Ofdi kraglia duore – passom svaka tiye,
Pitomanam çudno – p skava riba tay,
Ghdici prirazbludno – na suhi doyde kray
Ayoscchie çudnigi – stuor, osdi vidisce.
Morschi çlovich diugi – bi kog’ uhitisce,
Morenam pri kruzih – ima korotagne
Zaloxay od druxih – trisu, à ne magne.
Od tach yosc vaglie – moranamsu strane
Danam od kuraglie – u gnih rastu grane.
Dalece od mora – srid kopnasu vodè,
Nana che su stuora – i solnam tuy rodè.
Ohualnoga soka – sladorizna vide
Srimçanam otoka – glas po suitu ide.
Viscega ponosa – kopnaye yosc strana.
Mednabonam rosa – tuy pada tay mana.
Ofdi xena tuy svu – sminose slobodi
187
anguille, le carni delle quali non porgono malignità alla
febbre, e prima ch’ei precipiti dalla sua gran cateratta vi
si trova la rinomata trota, che d’oro si nutrisce. Lungo
quelle sponde abitano cani coraggiosi, che fremono
unicamente contro il Turco, e il Morlacco (di lui
suddito), e sono intenti a morderli. Il paludoso lago
caccia fuori per nostro uso di sette in sette anni
numerosi stuoli d’anguille. Anche i granchi da cento
piedi, che schille sono chiamati, nuotano lunghi un
palmo dinanzi a noi. I dentici coronati trovansi più
squisiti presso a questa città che in qualunque altro
luogo. Ed è ben conveniente cosa, che facciano onore al
sito; perché quivi particolarmente concorrono in gran
numero i pesci più nobili, che abbia il mare, e vi
corteggiano il Re, vagando pei pascoli d’ogni sorte sì
fattamente, che alcuna volta il pesce abitator della
sabbia fatto dimestico viensene blandamente all’asciutto
lido. Ma più maravigliosa creatura vi si fece vedere, e vi
fu preso un marino uomo insociabile. Per noi nodrisce
presso a’ suoi vortici il mare kotoragne70 riguardevoli
per la loro mole; e i di lui scogli subacquei sono così
ricchi, che vi crescono i rami del corallo. Lontano dal
Odrizat mater suù – ter xive, i hodi.
Osdi chih ranioce – prisikscigim moxyan
Gliudi ti xivisce – potle godiscch, i dan.
Pet. Difn. Upohualu od Grada Scib.
70 Nessuno a Sibenico ha saputo dirmi che spezie di pesce sia la
Kotoragna. Generalmente il dialetto di questo poemetto non è
inteso da’ Sebenzani, né somiglia ad alcuno de’ colti, che
s’usano adesso nella Dalmazia veneta.
188
mare, in mezzo alle [152] terre, abbiamo acque salse,
dove si cristallizza il sale.... Va pel mondo la fama del
lodato succo dolce, che proviene dall’incisione sotto
all’isola di Srimçani71; ed è più gloriosamente dotato il
continente, perché vi cade la manna di miele-rugiada.
Quivi la donna sempre francamente ardisce tagliare i
ligamenti del proprio feto, e ciò non pertanto vive, e
cammina72. Quivi coloro, che riportarono ferite nel capo,
a’ quali fu spaccato il cervello, vissero posteriormente
un anno, ed un giorno».
Fra le particolarità di Sibenico, mentovate in questo
curioso pezzo, mi sembra degno d’osservazione quel
marino uomo insociabile che vi fu preso. Delle due
spezie di manna indicate dallo scrittore, la prima è
certamente quella, che cola dal frassino per mezzo de’
tagli, che vi si praticano nella stagione opportuna da’
Calabresi, Pugliesi, Maremmani, e Provenzali, e che
sono andati in disuso presso i Dalmatini; l’altra è
probabilmente quella farina unitasi colla rugiada, che si
raccoglie annualmente ne’ contorni di Cracovia, e di cui
si fa un picciolo commercio fra quella città, e Varsavia.
Noi abbiamo a Cortelà, vicino a Este nel territorio
padovano, qualche cosa di simile ne’ mesi d’agosto, e di
settembre.
La massima parte di questi cenni di storia naturale

71 Di quest’isola non ho potuto trovare chi mi sapesse dar


nuova.
72 Le donne popolari non abbisognano in Dalmazia di chi le
assista nel parto.
189
sibenzana trasse Pietro Difnico da’ versi elegiaci pur
inediti di Giovanni Nardino canonico zagabriense,
alcuni de’ quali trovansi riferiti in un’opera manoscritta
del Tomco Marnavich, e non sono stati [153] con
iscrupolosa fede espressi dal parafraste illirico. Il
Nardino vi accenna la raccolta della manna come il
Difnico, e la pesca de’ coralli.
Manna solo, Sibenice, tuo fœlicibus astris
Ambrosias tribuit, nectareasque dapes.
Il commercio de’ coralli sebenzani era bene stabilito
in quel secolo, come lo provano questi versi:
Hæc quoque florescit speciosis unda corallis,
Qui dites Indos, antipodasque petunt.
Fra le altre molte cose all’enumerazione de’ pregi
della sua patria due costumanze particolarissime
annovera questo autore, una delle quali sussiste tuttora.
Eccovi i quattro versi, ne’ quali sono racchiuse:
Sic trino dicata Deo dum festa refulgent
Civis in hac sceptrum nobilis urbe tenet.
Hic prius ostenso celebrat nova nupta Priapo
Connubium, et socias porrigit inde manus.
Il re di Sibenico creasi pelle feste del Santo Natale, e
dura quindici giorni. Io non mi sono colà trovato in
tempo, che lo potessi vedere; quindi scrivo solamente
ciò, che me ne fu raccontato. Egli ha de’ segni d’autorità
sovrana, come quello di tenere presso di sé le chiavi
della città durante il tempo del suo buffonesco regnare;
d’aver luogo distinto nella Cattedrale, e d’esser giudice
190
191
delle azioni di coloro, che compongono la sua corte
efimera. Non è più adesso un gentiluomo, che faccia la
buffonesca figura di re, ma un qualche zappatore.
Questo re ha però una casa destinata a ben alloggiarlo
nel breve giro del suo governo; va per la città coronato
di spiche, vestito di scarlatto alla nazionale, e con
seguito di molti suoi ufiziali. Il Governatore lo tratta a
pranzo, e così il Vescovo; chiunque lo incontra per la
via se gl’inchina. Il Borgo di Terra-ferma, e il Borgo di
Marina fanno [154] anch’essi ciascuno il loro re, che
non può entrare in città senza prima aver passato un
ufizio al monarca cittadino. Non ho creduto ben fatto di
prendere informazioni in proposito di que’ preliminari
del matrimonio, che si sono indicati dal canonico
zagabriense; fa però d’uopo egli sapesse di certo ch’era
in vigore così prudente usanza, da che viene
caratterizzato dal Tomco come diligente osservatore
delle patrie cose. Se avessi potuto rinvenire l’opera
inedita di Giorgio Sisgoreo, che trattava Delle più nobili
prerogative di Sebenico, scritta intorno al 1500, ne avrei
probabilmente tratto molte notizie risguardanti non
meno i costumi antichi, ora andati in disuso, che la
storia fisica del paese.

§. 4. Pesca del lago, litografia, e produzioni


subacquee del porto di Sibenico.
Il lago di Scardona è tutto circondato da colline di
piacevole pendio, e suscettibili di ottima coltura: ma
queste per la maggior parte sono abbandonate. Come
192
l’agricoltura, così è maltrattata la pesca in que’ luoghi,
quantunque non sieno mal frequentati da tonni, e pesci
minori emigranti. Vi si bada quasi unicamente al pesce
nobile pell’uso giornaliero delle tavole di que’ signori,
che abitano le due città di Scardona, e di Sibenico. Le
lizze, le palamide, i dentici, e le orate dalla corona, le
triglie, i congri, e molte altre spezie d’egual pregio si
pigliano in quelle acque con metodi rozzissimi, e poco
economici. Gli schilloni lunghi un palmo, de’ quali fa
cenno il Difnico, proprj del Lago scardonitano, e del
seno di Sibenico, sono veramente un boccon ghiotto.
Delle anguille non vi si fa pesca regolare, quantunque il
paludoso fiume Goducchia debba nodrirne in quantità, e
debbano anche [155] trovarsene dall’opposta parte ne’
fondi fangosi del lago presso alla città di Scardona.
Tutte le sponde di questi seni interni sono marmoree;
né molte varietà d’impasti vi si ponno osservare. Il
marmo commune di Dalmazia, ora più, ora meno
ripieno di corpi fistulosi, e di frantumi di testacei vi
domina, bene spesso diviso semplicemente in istrati
orizzontali inclinati, e talvolta suddiviso anche
verticalmente. Io ho fatto disegnare (Tav. VI) uno de’
più osservabili luoghi di quel litorale detto Suppliastina,
vale a dire pietra traforata, denominazione venutagli dal
buco B, formatovisi in vetta alla rupe ignuda, pel quale
si vede fuor fuori. Non v’è forse lungo le coste della
Dalmazia, né fra terra, come non v’è a mia notizia ne’
monti d’Italia che ho visitati, sito più atto a stabilire
qualche spirito prevenuto nella falsa opinione
193
dell’esistenza degli impropriamente detti strati verticali
calcareo-marini, nella giacitura lor naturale. Il picciolo
promontorio stendesi nel canale A, che s’interna verso il
Lago scardonitano. Dalla parte opposta si veggono a
nudo le apparenze ingannevoli di filoni C, quasi
perpendicolari. Fra le due lettere DD sembrano i filoni
perpendicolari del tutto, ma ben esaminando si
riconosce la linea EEEE, costituente la primitiva
divisione degli strati, e confermata dalla differenza delle
materie prese nel marmo. Di sì fatte linee v’hanno
riconoscibili vestigj anche più sopra; e ciò, che
manifesta la dissimiglianza dell’origine fra esse e le
verticali, si è il trovare, che le prime sono appena
visibili, e rare volte discontinuano la solidità della
massa, le seconde sono manifeste fenditure, ora più ora
meno larghe. Anche il canale di S. Antonio, per cui
s’esce dal porto di Sibenico in mare, presenta un aspetto
di strati degno d’osservazione. Imperocché le divisioni
[156] della costa marmorea sono da principio
inclinatissime verso il promontorio interno del porto,
indi a poco, a poco si erigono a segno tale, che si
trasformano in verticali, e finalmente cangiando indole
all’improvviso divengono sinuose con istravagantissima
direzione. A questo fenomeno malagevolmente si può
trovare spiegazione conveniente, quando non si voglia
crederlo dipendente dal vario moto delle acque
dell’antico mare, che i primi componenti degli strati
calcarei successivamente accozzarono, portate ora di
qua, ora di là dalle procelle, e dalle correnti.
194
I lidi marmorei del porto di Sibenico mostrano in più
d’un luogo manifesti segni di sconvolgimento, che
potrebbono essere stati conseguenze di qualche violento
tremuoto. Fra questi deesi annoverare la grotta di S.
Antonio, la di cui volta è formata dall’angolo di due
pezzi di monte, che cadendo cozzarono insieme; ed è
anche osservabile la lunga rupe pendente per lo spazio
di quasi un miglio in senso opposto al mare, che vedesi
presso alla città di Sibenico su la picciola penisola delle
Fornaci, appiè del quale s’è rassodata una terra marina
argillosa, sterile, azzurrognola, senza testacei. Le
frumentarie prese nella pietra forte sono l’unica spezie
ben riconoscibile di corpi marini lapidefatti, che trovasi
lapidefatta in quel sito.
Io ho voluto provarmi a pescare produzioni marine
nella maggior profondità del canale di S. Antonio,
servendomi d’una barca, e degli attrezzi de’ pescatori
corallaj. Trassimo dal fondo coll’ordigno varj pezzi di
quella crosta petrosa, che in più luoghi del fondo
subacqueo suole formarsi da’ frantumi de’ testacei,
dall’arena, e dal fango rappreso. Ognuno de’ pezzi
estratti mi parve un’isola popolata di viventi subacquei.
Vi esaminai rapidamente gli oloturj rossi, le spugne pur
[157] rosse, arboree, ed altri zoofiti congeneri, parte
descritti, e parte ancora poco conosciuti dai naturalisti:
ma il tempo, i modi, e la stagione m’impedirono di fare
completi studj su di tanto varj oggetti. Insieme con essi
trovavansi su’ medesimi rottami molti viventi gelatinosi,
ed insetti parasiti, e vermi ignudi, ed escare, e fungiti
195
abitate da’ loro polipi; delle quali cose tutte spero di
poter un giorno ragionare per esteso. Per adesso
contentatevi, ch’io vi descriva alla meglio una nuova
terebratola, che non ho sinora trovata ne’ libri di
conchiliogia marina. Il solo barone di Hupsch ne ha dato
la figura somigliantissima nella sua Tavola IV. n.º 16,
1773 sotto il nome di Conchites anomius Eifliaco-
Juliacensis perulam referens. Egli ha creduto, e a
ragione, che l’originale della petrificazione da lui
trovata nell’Eifel del Ducato di Juliers non fosse
conosciuto. Quantunque la terebratola da me pescata
non corrisponda sempre identicamente alle figurate
dall’Hupsch, io pendo a crederla l’originale della sua,
dopo d’aver osservato, che da un individuo all’altro, fra
quelle ch’io posseggo, v’hanno delle discrepanze di
configurazione. La più regolare si è quella, che vedete
rappresentata dalla Figura I. (Tav. VII.). Ell’ha delle
gibbosità così nel guscio inferiore come nel coperchio,
ed è substriata tanto per lungo quanto pel traverso. Nel
bel mezzo del ginglimo, che tiene unite le due valve
ineguali, vedesi un foro, dal quale esce il piede
dell’animaluzzo, che stassene attaccato, ed ancorato col
mezzo di esso a’ corpi [158] che più gli convengono, nel
medesimo modo, che osservasi nella valva inferiore di
tutte le ostraciti, e de’ pettiniti74 non ancor giunti all’età

73 Nouvelles decouvertes de quelques testacés petrifìés rares, et


inconnus, etc. par J. G. C. A. baron de Hupsch, à Cologne
1771. in 8º.
74 Queste spezie di testacei trovansi nella prima età loro aderenti
196
di poter vivere senz’appoggi, nelle conche anatifere,
nelle patelle, in parecchie spezie di turbiniti. Non è da
metter in dubbio che il moto progressivo della
terebratola sebenzana (s’ella ne ha) non dipenda
interamente dall’uso di questo piede. La Figura II è
molto più simile al peridiolito dell’Hupsch. L’interno di
questo mio testaceo, è anch’egli singolarmente
costruito, e merita d’esser posto sotto agli occhi de’
naturalisti, che probabilmente non hanno avuto
occasione d’esaminarlo. Nel suo stato naturale io non
l’ho trovato così degno d’osservazione, come mi sembra
che sia dopo morto, e disseccato. Vedetelo nella Figura
III. Ma non vi credeste ch’ei fosse di tanta energia
dotato, che potesse da se medesimo starsene così teso;
no, egli ha buon sostegno; ed è un’elaboratissima
appendice testacea furciforme, che sorge dall’estremità
posteriore del coperchio, qual è la rappresentata dalla
Figura IV. Sarebbe da esaminare se molte delle
produzioni fossili della bassa Germania convenissero
colle naturali, che vivono negli abbissi più profondi del
nostro mare. Chi sa che non si venisse a capo di
sminuire a poco a poco il numero delle petrificazioni
provenienti da testacei, e da lavori di polipi non

a’ testacei più provetti col mezzo d’un piede, che passa per un
forellino lasciato loro dalla provvida natura nell’uscire
dall’uovo. Fra i pettiniti fossili de’ colli di Borgo S. Donnino
frequentemente se n’incontrano di quelli, che hanno sul dorso
i pettoncoli giovanetti: nelle acque nostre è poi comunissima
cosa.
197
conosciuti? La terebratola sebenzana [159] è tratta da
forse cent’ottanta, e più piedi di fondo. Trovasi anche in
maggiori profondità nelle caverne, dalle quali traggonsi
i coralli; e m’è accaduto di vedere alcuna di esse tutta
chiusa dalla sostanza del corallo cresciutovi sopra.

§. 5. Villa, e vallone di Slosella.


Il primo luogo del territorio di Sibenico, che
s’incontra partendo da Zara, è la villa di Slosella
fabbricata sul vallone che ne porta il nome, e riparata da
una grossa muraglia dalla parte di terra. Pretendono gli
abitanti, che la denominazione di Slosella, equivalente a
Malvillaggio, le sia stata data dai Turchi ne’ tempi delle
incursioni, perché negli abitanti di essa trovavano
ardire, e resistenza; qualunque però sia l’origine di
questo nome, egli è certo, che conviene moltissimo al
popolo che vi abita. Io mi sono molti giorni fermato
colà profittando dell’antica amicizia del conte abate
Girolamo Draganich Veranzio, la di cui illustre famiglia
è proprietaria della villa: e quindi ho avuto campo di
trarne più copiose informazioni, e di farvi anche
osservazioni più agiate, che negli altri luoghi della
Dalmazia.
Il suolo di Slosella non somministra osservazioni
particolari; egli è marmoreo, stalattitico in alcun luogo,
e cavernoso frequentemente. L’esterno aspetto della
plaga è orrido per la nudezza de’ monti, spogliati dalla
brutalità inconsiderata degli abitanti; né riesce ameno
quel poco di pianura che giace lungo il mare; perché la
198
stupida agricoltura loro non sa, anzi non vuole trattar
bene le viti, gli ulivi, i seminati. Le terre coltivate dal
mio amico si distinguono da lontano per la lieta verdura
onde sono coperte, come si distinguono i pochi boschi,
su de’ quali resta un arbitrio, che di [160] raro in quella
provincia è congiunto colla proprietà de’ fondi. Egli
pensa di farvi rispettare i giovani frassini; ed anzi vuole
che sieno liberati dalla vicinanza de’ rovi, e de’ nuovi
getti, onde crescano più vigorosi e divengano in breve
atti a sofferire l’incisione, e a dar manna. V’ha luogo di
sperare un buon esito da queste attenzioni; imperocché
la situazione di que’ luoghi è opportunissima ad ogni
prodotto de’ climi caldi. Io vi ho fatto delle incisioni al
lentisco; e quantunque il tronco, su di cui ho eseguito
questa operazione, non fosse assai grosso, e d’ogni
intorno lo cingessero spine, ed erbe parasite, n’ebbi del
mastice, che ad onta della sua scarsezza mi si lasciò
conoscere d’ottima qualità. V’ha grandissima quantità
di lentisco nel tenere di Slosella: ma la barbarie degli
abitanti, che tagliano a dritto e a rovescio ogni sorta
d’alberi, e d’arbusti, non lo lascia crescere sino all’età
necessaria per dare un prodotto considerabile.
Le abbondanti fontane, che uscendo dalle radici de’
monti si mescolano coll’acque salse nel vallone di
Slosella, vi chiamano in gran numero, e varietà i pesci.
Io non ho colà minutamente fatto ricerca intorno alle
spezie raminghe, che vi si prendono, e quindi poco
sarete di me contento come izziologo. V’ebbi per
oggetto delle mie ricerche quelle spezie sole, il
199
passaggio delle quali è copioso, costante, e quindi
meritevole dell’attenzione del Governo relativamente
all’economia, e commercio nazionale. Io vorrei poter
dichiarare la guerra al pesce del Nord, che viene a
invadere l’Italia nostra, come gli uomini usarono di fare
ne’ secoli della barbarie; e mi terrei fortunato se potessi
armare contro de’ mercatanti stranieri i pescatori
dell’Adriatico.
Ogni stagione conduce stormi di pesci al vallone di
[161] Slosella. Ne’ mesi freddi, e particolarmente in
que’ giorni, ne’ quali il verno si fa più acutamente
sentire, vi si affollano i muggini, o cefali chiamati dal
tepore delle acque dolci, che uscendo dalle viscere de’
monti prima d’aver sofferto l’impressione dell’aria
rigida si mescolano immediatamente col mare. Gli
abitanti delle vicine ville concorrono a que’ luoghi con
una spezie di reti dette in loro dialetto frusati, o sia
spaventi, di larghezza adattata a que’ bassi fondi. Le
grida, il picchiare di remi, e legni, e sassi sull’acqua
mette terrore ne’ cefali, i quali dandosi alla fuga
incappano nelle reti, e per la maggior parte, secondo
l’indole della loro spezie, al primo sentire un ostacolo
guizzano per di sopra. I contadini pescatori vi stanno
ben attenti, e con sciable, e hanzari uccidono gran
numero de’ fuggitivi. La primavera conduce in quelle
acque le xutizze, o sia pesci colombi, del genere delle
raje, ma di carne più soda, e fibrosa. Al riscaldarsi poi
dell’aria, vi si portano le sardelle, e gli sgomberi a gran
partite. Ad onta però di tanta abbondanza, e varietà di
200
pesci emigranti, e alla copiosa frequenza de’ pesci
raminghi, l’infingardo Sloselliano trascura ogni modo di
approfittarne. Egli si contenta di vivere alla giornata, e
si divora sovente senza pane, e senz’alcun condimento
tutto il pesce, che ha preso col rozzo metodo
sopraccennato, o con qualche altra pratica egualmente
barbara. Le seppie sono la vivanda universale di que’
poltroni abitanti nel tempo di primavera; e le prendono
col mettere sott’acqua molti rami frondosi di qualunque
albero, ond’elleno vi si attacchino per isgravarsi delle
ova. Se vi facesse d’uopo qualche fatica più complicata,
credo che si contenterebbono di star a digiuno anzicché
farla. Eglino odiano sì fattamente il bene proprio, e
l’altrui, che [162] per attraversare l’introduzione delle
reti da tratta fattavi dal loro padrone hanno seminato di
gran sassi tutti i bassi fondi della valle; quantunque
dall’esercizio di esse reti molti uomini della villa
dovessero giornalmente trarre vantaggio. In generale
tutti i contadini abitanti del litorale sono egualmente
infingardi, e tristi, forse perché protetti dalle troppo
clementi leggi, e messi del pari co’ loro signori. È fuor
di dubbio, che per formare la felicità di quelle
popolazioni maritime dovrebb’essere come principale
strumento impiegato il bastone, cioè quel mezzo che
mal si converrebbe agli abitanti del paese mediterraneo,
i quali sono di tutt’altra indole, e che colla dolcezza ben
temperata dall’autorità si condurrebbono a qualunque
cosa per vantaggio degl’individui loro, e dalla nazione
in corpo.
201
§. 6. Osservazioni su l’androsace.
Fra le molte produzioni subacquee del vallone di
Slosella merita particolar osservazione l’androsace, che
fra le piante è stato annoverato da Vitaliano Donati, e
fra’ zoofiti dal Linneo sotto ’l nome di tubularia
acetabulum. Non vi dirò da qual delle due parti io
penda; imperocché non sono ancora bastantemente al
fatto per decidere, e credo che si debba prima esaminare
l’androsace in più d’una stagione. Sino a questo
momento io vi confesserò, che né l’androsace vivo, né ’l
secco osservato con qualche diligenza sotto ’l
microscopio mi ha mostrato caratteri evidenti di zoofito.
Riscontrando le osservazioni del Donati cogli esemplari
degli androsaci tratti da varj luoghi del vallone di
Slosella, e particolarmente dallo scoglietto di Santo
Stefano, io ho aggiunto al margine del di lui libro le
annotazioni seguenti. 1º L’androsace, che secondo
questo autore molto di raro nel [163] nostro mare
s’innalza oltre un pollice, e mezzo, trovasi oltrepassare i
tre pollici ne’ contorni dello scoglio suddetto, dove
cresce quasi a pel d’acqua. 2º I fili, che sorgono dalla
parte concava del coperchietto fungiforme
dell’androsace, lungi dall’esser così minuti, e delicati,
che discernere neppure col microscopio si possano, se
non quando l’androsace sia in acqua, dove appariscono
molli, ed argentei, e tanto s’estendono, che toccar
possono la circonferenza del cappelletto75, sono così

75 Donati Saggio di storia naturale, etc., pag. XXX, e XXXI.


202
visibili, che senza l’ajuto del microscopio io gli ho
potuti discernere, e rilevare che il color loro non è
argenteo, ma traente al cannellino. La loro lunghezza
eccede poi così considerabilmente il giro del
cappelletto, che fuor d’acqua, e raccolti da per sé
medesimi in un fascicolo gli ho potuti far disegnare
come li vedrete nella Figura V. a. (Tav. VII.) che
rappresenta un androsace irregolare nel giro del
cappelletto medesimo. 3º Io ho trovato qualche
androsace, nel quale non si vedevano più i filamenti, dal
centro del di cui cappelletto, sorgeva una spezie di
pistilo. La speranza di riosservarlo mi ha fatto trascurare
i primi esemplari, che mi vennero sotto gli occhi nel
mese d’agosto; e non ebbi più occasione di rivederne in
seguito, dilungatomi assai da Slosella. 4º Alcuna volta
l’androsace ha due cappelletti, l’uno sopra l’altro, come
li mostra la Figura VI; ed (assai più di raro però) io l’ho
trovato anche dicotomo, come lo vedete nella VII. Il
solo esemplare d’androsace dicotomo, che s’abbia
potuto conservare durante il mio lungo viaggio, mi si
guastò poi qui in Venezia, dopo ch’io aveva avuto la
compiacenza [164] di farlo vedere a parecchi amatori
delle naturali curiosità. Di quelli da due cappelletti, che
sono men rari quantunque non ovvj, ne ho fatto passare
nella collezione del nostro dotto amico botanico il dottor
Antonio Turra di Vicenza. Se dovrò riviaggiare in
Dalmazia, com’è probabile, io mi lusingo di poter dare
anche l’anatomia dell’androsace più esatta, e meglio
disegnata, che quella del Donati.
203
§. 7. Dello scoglietto di S. Stefano.
Ne’ vivaj, che sono al piede dello scoglietto di S.
Stefano, e servono all’uso de’ pochi, e poveri frati, che
vi abitano, trovasi moltiplicato l’androsace, e insieme
con esso, varie spezie d’insetti marini degni di
particolare attenzione, alcuni de’ quali vagano
pell’acqua, altri stannosene attaccati alle pietre, altri
finalmente all’ulve, alle virsoidi, ai fuchi, e alle
conserve si raccomandano. Io vi ho raccolto una
picciola spezie di stella pentagona, scabra,
corrispondente all’asteria aculeata del Linneo; l’onisco
assillo; varj bucciniti, e porporiti; de’ mituli, le valve de’
quali non si combaciano; l’ostrica lima; due varietà di
chitone fascicolare, e l’altro senza fascicoli, variegato;
piccioli nautiliti, e serpole lombricali; né mancarono di
cadermi colà sotto gli occhi altre spezie comuni a tutti i
luoghi del nostro mare.
Alle rive di questo scoglietto veggonsi assai
frammenti di tegole romane, e d’urne. Vi si
disotterrarono anche molte iscrizioni: ma queste dalla
barbarie de’ frati furono gettate in pezzi, per farne
pavimento a un loro meschino cortile. Veggonvisi
tuttora conficcati in una muraglia residui d’una
iscrizione in bronzo, da cui come potete ben credere
furono tratte le lettere. È probabile che questo scoglio
fosse un sepolcreto, [165] secondo l’uso lodevole degli
Antichi più ragionevoli di noi, che lontano dall’abitato
portavano il fracidume de’ cadaveri, onde i morti

204
almeno cessassero di nuocere ai vivi.

§. 8. Dell’isola di Morter.
Tre miglia lontano dallo scoglietto di S. Stefano giace
l’isola di Morter, cui gli scrittori sibenzani del XVI
secolo credettero essere il Colentum di Plinio,
appoggiati alla prova della sua distanza dalle foci del
Tizio. Io ho voluto visitare il luogo, dove anticamente fu
per certo qualche stabilimento greco, o romano: ma
pochi vestigj di riguardevole paese vi sussistono. Il solo
indizio d’antica abitazione sono le tegole antiche, e i
rottami di vasi, e qualche pietra lavorata, fra le quali ho
osservato bellissimi pezzi di cornicione, che
appartennero a qualche grandiosa, e ben architettata
fabbrica. Si trovano non di raro monete, e iscrizioni in
que’ contorni: ma l’indole sospettosa degli abitanti
dell’isola rende difficilissimo il profittarne. Io avrei
voluto vedere qualche lapida disotterratavi, che
nominasse la città di Colentum. Mi fu detto sopra luogo,
che su la sommità del colle eranvi non ha molto de’
residui di mura, e che furono disfatti per fabbricarne la
chiesa della Madonna detta di Gradina. Qualunque
nome abbia portato anticamente quel paese, egli è certo,
che in più bella, e deliziosa situazione non poteva esser
posto. La collina s’erge con pendio non difficile, e
domina un braccio di mare tutto ingombro d’isolette, e
di promontorj, stendendo la sua prospettiva per di sopra
a una parte de’ colli del Contado di Zara, sino alle Alpi
Bebie. I piccioli scoglietti selvosi di Vinik-Stari, di
205
Teghina, e di Mali-Vinik, aggiungono bellezza a quel
sito. L’isola poi tutta di Morter, che ha tredici [166]
miglia di giro, ed è per la maggior parte coltivabile,
deve aver somministrato ricchi prodotti a quegli
abitanti. I Morterini de’ giorni nostri non godono di
molto buona riputazione; e si osserva, che in ogni barca
di ladri da mare v’è almeno uno di quest’isolani, che
serve di pilota, e guida pe’ nascondigli delle più rimote
calanche l’onoranda brigata. Lo stretto, che divide
l’isola di Morter dal continente, è frequentatissimo dalle
barche minori, che temono d’esporsi al mare nelle
stagioni pericolose. Quindi è, che vi sorge un villaggio
riguardevole di ben fabbricate case, e abitato da buon
numero di commodi negozianti, quantunque in quel sito
gli scogli vicini, e ’l continente opposto, e i colli
marmorei dell’isola medesima sieno affatto ignudi, e
rattristino colla mostra d’una sterilità, che fa orrore. Il
marmo di quest’isola, e delle minori contigue, è pieno di
corpi marini, che probabilmente appartengono al genere
degli ortocerati; in alcuni luoghi è traforato dalle foladi,
e queste vi crescono ad una grandezza che mi sorprese:
alcuna di esse eccede in lunghezza i quattro pollici
parigini.
I proprietarj de’ fondi dell’isola di Morter sono a
cattivo partito. I coloni non si credono in obbligo di dar
loro se non la quinta parte del vino che raccolgono, e
niente di tutto il resto. Quindi ne avviene, che la vite sia
pochissimo coltivata da que’ maliziosi villani, e ad essa
sia preferito l’ulivo, quantunque soggetto a maggiori
206
disgrazie, o che sia lasciato il terreno alle greggie.
L’indisciplinatezza de’ coloni avvalorata da fatali
combinazioni mette i proprietarj de’ terreni a pericolo
della vita per poco che vogliano scuotersi, e far valere la
menoma parte de’ loro diritti. L’agricoltura risente
anch’essa gli effetti di questa costituzione viziosa, che
ha avuto origine ne’ tempi calamitosi [167] de’ contagj,
o delle irruzioni di genti barbare, e che sarebbe
desiderabile ricevesse un sistema migliore in questo
fortunato secolo di pace, e di promovimento del bene
nazionale.
La pescagione non è molto esercitata da’ Morterini,
quantunque ne’ canali vicini all’isola loro passino
sovente i tonni a grosse partite, e parecchi vi si
smarriscano, e vi restino anche nel tempo d’inverno,
errando spezialmente pe’ bassi fondi vicini al casale di
Ràmina, dove in altri tempi furono saline. L’arte
prediletta de’ Bettignani, abitanti dell’estremità
occidentale di quest’isola, si è il raccogliere, macerare,
filare, e tessere la ginestra, cui vanno a cercare sino
sulle coste dell’Istria, e pell’isole del Quarnaro. Ne
fanno tele di varie grossezze ad uso di sacchi, e talvolta
di camicie, e gonnelle rustiche; né v’ha dubbio che se
l’arte vi fosse men rozzamente trattata non uscissero da
questa pianta migliori manifatture. Il mare serve loro
alla macerazione de’ fastellini.

207
§. 9. Di Tribohùn, Vodizze, Parvich, Zlarine, e
Zuri.
Uscendo dallo stretto di Morter il primo luogo
abitato, che s’incontra lungo le coste del continente, è
Tribohùn, o Trebocconi, villaggio isolato, brutto, e
meschino, circondato di mura, e congiunto con un ponte
di pietra al litorale. Vi nacque sul finire del secolo
passato Pappizza, contadino improvvisatore, che lasciò
fama di sé anche dopo la morte, per le molte poesie, che
usava di cantare accompagnandosi colla guzla. Niente
ho potuto trovare di scritto de’ costui versi.
La villa di Vodizze, che poco più d’un miglio è
lontana da Tribohùn, ha tratto il nome dalla grande
[168] abbondanza d’acqua che vi si trova, poiché voda,
in tutti i dialetti slavonici significa acqua. Non si può
dire però che Vodizze abbondi di fontane; vi è un fiume
sotterraneo più picciolo, e meno sprofondato di quello
de’ pozzi di Modana, ma della stessa natura. Egli scorre
fra strato, e strato de’ marmi litorali, e ne’ tempi delle
alte maree non somministra molto sana bevanda. In
qualunque luogo si voglia scavare un pozzo, senza
grande spesa vi si trova alla medesima profondità
l’acqua desiderata. L’aspetto del popolo radunato nella
chiesa, non mi parve annunziare ricchezza. Il suolo però
di Vodizze, per quanto ne potei vedere all’intorno delle
abitazioni, non è indocile; e ’l pendio del lido vi è dolce,
né si va alzando se non quanto fa d’uopo per mettere le
terre al coperto dagl’insulti de’ flutti. Parecchie isole, e

208
scoglietti ben coltivati fanno a questo villaggio una
deliziosissima prospettiva. Uno de’ di lui considerabili
prodotti, come anche di Tribohùn sono le marasche
pell’uso delle fabbriche de’ rosolj di Zara, e di Sibenico.
Parvich, Zlarin, e Zuri sono le più popolate, e
riguardevoli isole della giurisdizione sibenzana, e quelle
che danno al mare un gran numero di pescatori, come al
terreno infaticabili braccia coltivatrici d’eccellenti uve, e
d’ottime ulive. Quaranta reti da tratta escono un anno
per l’altro dai porti di quest’isole, e colla preda
abbondante rendono la vita meno spiacevole a un gran
numero di famiglie. Così piacesse al Cielo, che
venissero a far capo nel porto di Venezia gl’incettatori
delle sardelle, de’ gavoni, degli sgomberi, e de’ cefali
messi in sale! Noi potremmo escludere una gran parte di
quel puzzolente, e insalubre pesce, cui dal principio di
questo secolo in sempre maggior copia ci portano gli
Olandesi, e che avvelena [169] le povere mense de’
nostri contadini. Io mi fermai su d’una di queste isole
per molti giorni; e la speranza di poter giovare alla mia
nazione mi vi occupò di quest’oggetto assai più, che
delle curiosità naturali, onde il vicino mare puot’essere
fecondo. Io non vi tratterrò su questo proposito, i di cui
dettagli sono più fatti per interessare le viste economico-
politiche del Governo, che de’ dotti forestieri.
Tutte e tre queste isole furono abitate dagli antichi
Romani; e in ciascuna di esse trovaronsi monumenti di
quella nazione inondatrice di tutto il mondo allora
cognito. A Zlarin fu disotterrato nel XVI secolo il
209
marmo sepolcrale d’una donna chiamata Pansiana, e che
vi portava il titolo di regina. I dotti d’allora, che
numerosi erano nella vicina città, cercarono inutilmente
da qual paese potess’essere venuta a lasciar l’ossa in
quell’isola una tal signora; e non trovandone vestigio
nelle storie, con molta probabilità congetturarono che si
trattasse di qualche regina barbara, relegatavi dopo
d’aver servito d’ornamento al trionfo del suo vincitore.
Io non ho potuto ridissotterrare questa iscrizione, né
trovarne traccia veruna oltre a quelle, che me ne diedero
le memorie manoscritte di que’ tempi.
Parvich, è di picciolo circuito, ma d’altrettanto
pregevole fertilità. Tutti i prodotti vi riescono
perfettamente; dico i prodotti de’ quali quel terreno poco
profondo è suscettibile; vale a dire il vino, l’oglio, i
mori, e le frutta, L’aspetto di quest’isoletta è delizioso
anche di lontano, dove quello dell’altre vicine disgusta
l’occhio colla mostra di troppo alti colli, e troppo
sassosi, ed ignudi. Il nome di Parvich le sembra venuto
dall’essere la prima che s’incontra uscendo dal porto di
Sibenico; la voce illirica parvi equivale alla nostra
primo. [170]
L’isola di Zuri è mentovata da Plinio, col nome di
Surium, dove sembra che Parvich, e Zlarin con altre
molte minori oltre al numero di cinquanta, siano da lui
chiamate collettivamente Celadusse, manifestamente
invertendo la voce greca δυσκέλαδοι, che vale mal-
sonanti, o romorose. Il testo di Plinio, se si voglia
seguire la comune lezione, racchiude uno sbaglio
210
madornale di corografia. Per rettificarlo basta però
cambiare leggiermente l’interpunzione, e leggere così:
Nec pauciores Trucones (insulæ) Liburnicæ. Celadussæ
contra Surium. Bubus, et capris laudata Brattia76. Di
fatti Zuri è la più esposta al mare di tutte; e ha
dirimpetto, fra sé e il continente, Kausvan, Capri,
Smolan, il di cui nome può indicare l’antico uso di farvi
della resina; Tihat desolata da’ pastori; Sestre, isolette
note per un’eccellente cava di pietra forte bianca, il di
cui uso sarebbe molto men dispendioso, e molto più
durevole, che quello delle pietre vicentine; le coltivate e
popolose di Parvich, e Zlarin, con altre molte ignobili. Il
vestito delle femmine abitatrici di queste Celadusse, è
differente da quello delle isolane Truconidi, o del canal
di Zara.
Più assai, che dai residui di romane abitazioni, i quali
tuttora vi si riconoscono, è nobilitata l’isola di Zuri dalla
pesca de’ coralli, che non riesce mai sterile del tutto
nelle acque ad essa vicine, e che trent’anni sono diede
ricchezza immensa di questo prezioso genere per una
secca oltremodo feconda, che vi fu scoperta di nuovo.
Un amatore della storia naturale, istruito dall’esempio
del vostro celeberrimo conte Marsigli, di [171] quante
belle prede, e curiose scoperte si possano fare pescando
nella profondità opportuna alla moltiplicazione de’
coralli, dovea desiderarsi di poter vivere qualche mese
su d’una barca corallaja. Quanti testacei tuttora incogniti
non iscapperebbero fuori, e quanti originali di que’
76 Plin. Hist. Nat. lib. III. cap. ult.
211
petrefatti, che crediamo essere spezie smarrite od
estinte, non ci verrebbero alle mani? Io ho concepito
vivamente questo desiderio: ma le circostanze, e le
riflessioni non mi permisero di soddisfarlo. In vece di
lasciarmi condurre dal mio genio, credetti miglior
partito il cercare alle gengive del continente un campo
d’osservazioni più esteso in lunghezza, e suscettibile di
dettagli più varj.
La pesca de’ coralli è praticata nel nostro mare da
sudditi del Re di Napoli, che stanno al servigio del
conduttore di questo diritto. I nostri isolani quantunque
di sovente s’impieghino su le barche corallaje non
hanno però ancora potuto imparare quell’arte
meravigliosa di estrarli dalle più anguste e internate
caverne subacquee. Eppure quest’arte sarebbe degna
d’incoraggimento, e di propagazione. Il genere de’
coralli è ricchissimo anche se si spacci in natura; e
quindi tanto più è da stupire che l’arte di pescarli non
sia bene intesa dai Dalmatini, quanto più è antico il
commercio de’ coralli sebenzani.

§. 10. De’ laghi di Zablachie, e di Morigne.


Proseguendo la navigazione del litorale di Sibenico
oltre la imboccatura del porto, trovansi le terre piane ma
sassose di Zablachie, al di là delle quali è il lago di
questo nome, che per mezzo d’un angusto canaletto
artificiale comunica col mare. Vagando per que’ luoghi
io ho trovato delle lagrime di mastice spontaneo
pendenti da’ tronchi de’ lentischi lasciati crescere [172]
212
da’ pastori, che colà frequentano, perché faccian ombra
agli animali ne’ bollori della state. Il lago era fino al
principio di questo secolo un fondo d’abbondantissime
saline, come lo erano parecchi altri terreni vicini
soggetti all’inondazione del mare. Adesso egli è una
peschiera di pochissima considerazione, perché niuna
cura si ha di mantenervi, o moltiplicarvi le spezie. La
sola di lui particolarità, che meriti qualche riflesso, si è
l’arena popolatissima da picciole conchiglie d’elegante
struttura, perfettamente ben conservate, e talora abitate
dall’insetto vivo, alcune delle quali non sono state
peranche descritte. Tal è per grazia d’esempio quella,
che vedete primieramente nella sua mole naturale, e poi
ingrandita dal microscopio nella Tav. VII. Figur. VIII.
IX., che somiglierebbe a un uovo troncato, se non fosse
spiralmente striata dal fondo alla circonferenza della
bocca. L’insetto, che vi abita, non ha opercolo di sorte
alcuna; egli è tutto nero come un carbone, qualità che
rende oltremodo difficile il distinguerne le minutissime
parti. Così vi si trova vivente il nautilo microscopico,
candido, figurato dal chiarissimo Bianchi nella sua
celebre opera77 su le conchiglie poco note. Le terre
coltivate ne’ contorni di questo lago sono bianche, e
producono abbondanti derrate.
Tre brevi miglia lontano da quel di Zablachie trovasi
il lago falso di Morigne, comunicante col mare per
mezzo d’un canal naturale, che internasi fra le terre
rimpetto all’isola di Crapano. Il circuito del lago è di tre
77 Jani Planci Ariminensis De conchis minus notis.
213
miglia; la sua imboccatura di cencinquanta piedi; [173]
il fondo algoso, e fangoso per la maggior parte, e sì
basso, che nel ritrocedere della marea le sommità
dell’alghe vi restano a fior d’acqua in parecchi luoghi.
La fonte perenne di Ribnich, che vi si scarica, invita i
pesci ad insinuarvisi, e i pingui pascoli ve li trattengono.
Riuscirebbe facilissimo il far di questo lago una
peschiera chiusa, da cui si trarrebbe assai ricco prodotto
d’ogni spezie di pesci, e superiore di molto
all’estensione del luogo. Due scoglietti sorgono verso
l’estremità occidentale di Morigne, su de’ quali
dovrebbero essere state delle fabbriche in altri tempi, da
che vi si veggono molte pietre riquadrate, e fondamenta
di muraglie. Forse da questi residui ebbe origine la
tradizione volgare, che nel sito ora occupato dall’acque
ne’ tempi andati fosse una città sobbissata
all’improvviso. La pesca, che vi si fa dagli abitanti delle
ville contigue, è sul gusto di quella de’ bassi fondi di
Slosella. I testacei del lago di Morigne sono quasi del
tutto i medesimi che quelli notissimi della laguna di
Venezia, e di Comacchio; e se anche il mare vi porta il
seme d’altre spezie, che amino i gran fondi, esse non vi
propagano, e se ne ritornano ad acque più ampiamente
estese. Fra i testacei microscopici di Morigne oltre alle
varietà di Corna d’Ammone, e d’altri minuti corpicelli
comuni a quasi tutti i fondi arenosi, e fangosi
dell’Adriatico, vi si osservano molti porpiti simili a
quelli che i vostri ruscelli bolognesi sogliono dare
talvolta, dopo d’averli separati dalle terre marine de’
214
colli superiori. Il botro di Brendola nel Vicentino ne dà
anch’egli in quantità. La loro mole originalmente non
eccede la metà d’un granellino di miglio nudo.
Esaminati sotto al microscopio appariscono tutti
composti di sottili pareti irregolarissimamente
intersecate per formare un gran numero di cellule ai
polipi fabbricatori, [174] ed abitatori della picciola città.
Fig. X. XI. Tav. VII.
I terreni vicini al lago sono della qualità medesima,
che intorno a Zablachie, e formano con essi insieme
porzione del Campo-d’abbasso, ch’è il midollo del
territorio di Sibenico. Il marmo volgare dalmatino, e una
spezie di pietra dolce lenticolare dominano nelle parti
più elevate di questo tratto di paese presso al mare.
Accostandomi alle radici de’ monti più alti, trovai che
sono composte d’argilla indurata, come i lidi vicini a
Zara.

§. 11. Di Simoskoi, e Rogosniza.


Il mare, che comanda ai viaggiatori, non mi permise
di sbarcare al luogo, che porta il nome di Sibenico
Vecchio, dove per avventura avrei rinvenuto qualche
monumento della buona antichità. La Tavola del
Peutingero non mette però in que’ contorni veruno
stabilimento antico.
Gli ultimi luoghi maritimi, ch’io ho visitati nella
giurisdizione di Sibenico, sono le due isolette di
Simoskoi, e Rogosniza. Simoskoi ha la sommità di
marmo volgare dalmatino; verso le radici è composta di
215
216
pietra men rigida, piena zeppa di corpi marini esotici
riducibili al genere degli ortocerati, ma distinti da
particolari articolazioni. La sostanza d’alcuni di questi
corpi è oltremodo porosa, ad onta del cangiamento cui
hanno sofferto; e vi si distinguono coll’occhio
mediocremente armato innumerabili cellule.
Osservatene alla Fig. VII uno de’ più curiosi esemplari,
che passò in Inghilterra nella ricca collezione del conte
di Bute, celeberrimo mecenate della storia naturale in
quel regno. La seguente Fig. XIII è stata diligentemente
disegnata dal conte Fausto Draganich Veranzio da un
esemplare, ch’io conservo, [175] venuto dall’isole
Coronate. La parte interiore a, a, minutamente striata, è
il nucleo dell’ortocerate composto di lucidissima
cristallizzazione spatoso-calcarea; nel rompere questi
nuclei trovansi sovente de’ vestigj di concamerazioni
divise in due da una parete. La corteccia b, b, anch’essa
longitudinalmente striata, a somiglianza dell’amianto
immaturo, è la spoglia antica dell’animale passata in
sostanza di spato men candido, meno lucente, e
unitissimo. La materia c, c, che racchiude questa
petrificazione, e ne asconde i lineamenti esteriori, è
pietra forte biancastra volgare. Lungo sarebbe il
descrivervi tutte le varietà di questa spezie, che
s’incontrano petrefatte pe’ lidi della Dalmazia, dove il
Donati non trovò quasi affatto petrificazioni
riconoscibili. Voglio però aggiungervene un’altra (Fig.
XIV) che vi mostra un pezzo d’ortocerate lapidoso
coll’esterna superficie rigata, e scannellata a guisa di
217
cardo.
Un basso ed angusto canale, che non ammette
passaggio di barche nell’ore del riflusso, divide
quest’isoletta dal continente; e ben esaminandone le
opposte sponde si conosce ad evidenza, che non è molto
antica quella separazione. L’estremità di Simoskoi, che
sporge verso il lido vicino, è composta di marmo bianco
salino78, come lo è il lido medesimo che le corrisponde.
Potrebbe darsi, che lo spazio intermedio fosse stato
anticamente [176] scavato per trarne materia da lavoro;
e tanto più probabile mi sembra questa congettura,
quanto che il marmo bianco salino di Simoskoi somiglia
allo statuario antico, che trovasi adoperato nelle scolture
di Roma. La corrosione operata dal sal marino sulla
porzione di questo strato, che resta alternativamente
scoperta e sott’acqua secondo l’alternazione della
marea, rendendo scabrosa la superficie del marmo, vi
mette a netto una quantità di frantumi di corpi marini
cristallizzati, che lo compongono. I naturalisti, e alcuni
de’ più celebri, come lo Swab e ’l Raspe, credettero
priva di corpi estranei la pasta de’ marmi salini; e di
fatto io non oserei d’assicurare che tutti ne
conservassero riconoscibili i vestigj. Vorrei però prima

78 Marmor (Micans) particulis spathoso-squamosis. Linn.


Hoc petrificatis destituitur. Swab.
Di questo dell’isoletta Simoskoi bisogna fare una varietà, che
petrificatis scatet, come anche dello statuario antico romano,
ch’era differentissimo dal marmo salino dell’isole greche, di
cui pur si facevano statue.
218
di negarlo visitare le loro cave, e vederne de’ pezzi, che
fossero stati lungamente esposti all’aspergine marina, ed
all’azione dell’aria, e del sole. Il marmo di Carrara
sembra almeno a prima vista poter cadere sotto la dotta,
e ingegnosa spiegazione del celebre signor Raspe.
Comunque sia di questo, non si può mettere in questione
che il marmo bianco di Simoskoi non sia precisamente
della medesima pasta che lo statuario romano antico; e
quindi importerebbe moltissimo il fare un diligente
esame del sito per vedere se pezzi di buona misura se ne
potessero cavare. È ridicola cosa il pensare di trar
partito dal marmo che vedesi a fior di terra, e il voler
farne giudizio dallo stato in cui trovasi la superficie
dello strato esteriore. Se la cava di Simoskoi non fosse
inserviente agli usi statuarj, se ne potrà sempre
ragionevolmente cercare un’altra ne’ contorni, dov’è
quasi sicura cosa che si dovrà trovare.
Su di quest’isoletta trovansi in iscarsissima quantità
delle ossa fossili; ma in molto maggiore abbondanza se
[177] ne trovano ammassate a Rogosniza, e negli scogli
di Muja, e della Pianca, che da essa non sono molto
lontani. La situazione della Rogosniza è così fuor di
mano, che la sola violenza del vento contrario può
costringere i naviganti ad approdarvi. Ella è situata in un
ampio vallone di mare, che può servire di porto ai legni
minori. Gli abitanti vi sono poveri, e sucidi. Gli
ortocerati dominano nel marmo del più basso strato di
quest’isoletta; nelle fenditure trovansi gruppi
d’alabastro fiorito, o vogliam dire di stalattite rossa
219
venata. Le ossa fossili ho veduto lontane dal loro luogo
nativo prese in gran lastre di pietra aggregata, e
casualmente poste dinanzi alle case di que’ contadini.
Camminando pe’ contorni delle abitazioni de’
Rogosnizani m’è accaduto di veder nel vivo del colle
marmoreo una curiosa petrificazione somigliantissima
alle corna, e m’è venuto a mente d’aver osservato in
Padova nel Pubblico Museo di Storia Naturale un pezzo
della medesima spezie qualificato come cornu
vaccinum. Io credo che tanto la petrificazione
ceratomorfa di Rogosniza, come l’altra di Padova sieno
ortocerati, de’ quali o sono perdute le specie, o vivono
nascose in mari lontani. Voi mi direte probabilmente,
che ad una petrificazione ricurva mal si conviene il
nome d’ortocerate; ed io v’accorderò che avete ragione.
Quindi Voi potrete, sempre che ne abbiate voglia,
chiamarlo campilocerate.
Questa mia lunga diceria vi serva di sprone a
rendermi buon cambio; e se vi sembra ch’io di poco
interessanti cose abbiavi trattenuto, spiegate la
generosità vostra nel darmi cento per uno, da che ben lo
potete senza timore d’impoverire. [178]

220
Articoli contenuti nel primo volume79
DELLE OSSERVAZIONI FATTE NEL CONTADO DI ZARA. Pag. 1
§. 1. Dell’isole d’Ulbo, e Selve. 3
§. 2. Dell’isola di Zapuntello. 6
§. 3. Dell’isola d’Uglian. 7
§. 4. Impasti marmorei, che la compongono. 9
§. 5. Della città di Zara. 15
§. 6. Polledra ermafrodito. 17
§ 7. Del livello del mare. 18
§ 8. Della città, e campagna di Nona. 19
§. 9. Della campagna di Zara. 22
§. 10. Acquedotto di Trajano. 23
§. 11. Biograd, o Alba maritima. 24
§. 12. Castello della Vrana. 26
§. 13. Del lago di Vrana, suo emissario e pescagione. 28
§. 14. Petrificazioni di Ceragne, Bencovaz, e Podluk. 32
§. 15. Rovine d’Asseria, ora detta Podgraje. 33
§. 16. Della manna di Koslovaz. 36
§. 17. D’Ostrovizza. ivi.
§. 18. Del rivo Bribirschiza, e di Marpolazza. 40
DE’ COSTUMI DE’ MORLACCHI. 43
§. 1. Origine de’ Morlacchi. 44
§. 2. Etimologia di questo nome. 46
§. 3. Origine diversa de’ Morlacchi dagli abitanti del
litorale, dell’isole, e anche fra loro. 50 [179]
§. 4. Degli Haiduci. 52
79 L’indice si riferisce alla numerazione cartacea (nota per
l’edizione elettronica Manuzio).
221
§. 5. Virtù morali, e domestiche dei Morlacchi. 54
§. 6. Amicizie, e inimicizie. 58
§. 7. Talenti ed arti. 61
§. 8. Superstizioni. 63
§. 9. Costume. 67
§. 10. Vesti donnesche. 68
§. 11. Sponsali, gravidanze, parti. 71
§. 12. Cibi. 82
§. 13. Utensili, e capanne; vestiti, ed armi. 84
§. 14. Musica e poesia; danze e giuochi. 88
§. 15. Medicina. 93
§. 16. Funerali. 94
Canzone dolente della nobile sposa d’Asan Agà. 97
DEL CORSO DEL FIUME KERKA, IL TITIUS DEGLI ANTICHI. 107
§. 1. Delle vere sorgenti del fiume Kerka. ivi.
§. 2. De’ colli vulcanici, che si trovano fra la cascata di
Topolye, e Knin. 110
§. 3. Di Knin, e de’ Monti Cavallo, e Verbnik. 112
§. 4. Delle acque, che confluiscono nella Kerka, e del
corso di questo fiume, fino al monastero di S.
Arcangelo. 115
§. 5. Delle rovine di Burnum. 118
§. 6. Corso del fiume sino alla caduta di Roschislap. 120
§. 7. Corso della Kerka fino alla cascata di Scardona.
124
§. 8. Della città di Scardona, e d’alcuni tratti d’antichi
scrittori, attinenti alla mineralogia della Dalmazia. 127
§. 9. Voci popolari in fatto di mineralogia dalmatina. 129
[180]
222
DEL CONTADO DI SIBENICO, O SEBENICO. 133
§. 1. Del territorio, e della città di Sibenico. 134
§. 2. De’ letterati, che nacquero, o fiorirono nel XVI
secolo a Sibenico, e de’ pittori. 137
§. 3. Porto di Sibenico, e Lago scardonitano.
Costumanze antiche. 148
§ 4. Pesca del lago, litografie, e produzioni subacquee
del porto di Sibenico. 154
§. 5. Villa, e vallone di Slosella. 159
§. 6. Osservazioni sull’androsace. 162
§. 7. Dello scoglietto di S. Stefano. 164
§. 8. Dell’isola di Morter. 165
§. 9. Di Tribohùn, Vodizze, Parvich, Zlarine, e Zuri. 167
§. 10. De’ laghi di Zablachie, e di Morigne. 171
§. 11. Di Simoskoi, e Rogosniza. 174
F IN E D EL P RIM O V OLU M E

223
VIAGGIO
IN

DALMAZIA
DELL’
ABATE ALBERTO FORTIS.

____________________________________
… Modò exustione, modò eluvione terrarum
diuturnitati rerum intercedit occasus.
M A C R O B . in Somn. Scip. L. 2. c. 10.
____________________________________

V O LU M E S EC O N D O .

IN VENEZIA.
PRESSO ALVISE MILOCCO, ALL’APOLLINE.
_________________________
MDCCLXXIV.

224
Articoli contenuti nel secondo volume80
DEL CONTADO DI TRAÙ. Pag. 1
§. 1. Del distretto di Traù. ivi.
§. 2. Di Bossiglina, e della penisola Illide. 3
§. 3. Della città di Traù, e del marmo traguriense degli
antichi. 6
§. 4. Dell’isola di Bua. 10
§. 5. Minera di pissasfalto. 15
§. 6. Delle patelle articolate. 19
§ 7. Del litorale di Traù verso Spalatro, e della pietra di
Milo. 24
§. 8. Degl’insetti nocivi. 27
DEL CONTADO DI SPALATRO. 29
§. 1. Descrizione degli strati, e filoni del promontorio
Marian. Sbaglio del Donati rilevato. 31
§. 2. Del porto, della città, della storia letteraria di
Spalatro. 38
§. 3. Rovine di Salona. 42
§. 4. Della montagna di Clissa, e del Mossor. 46
§. 5. Del paese abitato da’ Morlacchi fra Clissa, e Scign;
della valle di Luzzane, e del Gipalovo Vrilo. 49
§. 6. Della montagna Sutina, e luoghi aggiacenti. 54
§. 7. Delle rovine d’Epezio, e de’ petrefatti che si
trovano in que’ contorni. 56 [VI]
DEL CORSO DELLA CETTINA, IL TILURUS DEGLI ANTICHI. 61

80 L’indice si riferisce alla numerazione cartacea (nota per


l’edizione elettronica Manuzio).
225
226
§. 1. Delle fonti della Cettina. 62
§. 2. Viaggio sotterraneo. 64
§. 3. Pranzo morlacco in un sepolcreto. 73
§. 4. Pianura di Pascopoglie, fonte salsa, isola d’Otok.
Rovine della colonia Equense. 75
§. 5. Delle colline vulcaniche, e de’ laghi di Krin. Gesso
di Scign. 79
§. 6. Della fortezza di Scign, e della campagna vicina. 81
§. 7. Corso della Cettina fra’ precipizj: sue cateratte. 84
§. 8. Corso della Cettina da Duare, sino alle foci. 88
§. 9. Della provincia di Pogliza, e suo governo. 92
§. 10. Della città d’Almissa. Ingiustizia fatta dal padre
Farlati a quegli abitanti. Errori geografici dello stesso.
95
§. 11. Della muraglia naturale di Rogosniza, e della
Vrullia, il Peguntium degli Antichi. 99
§. 12. Della paklara, o remora de’ Latini. 101
DEL PRIMORIE, O SIA REGIONE PARATALASSIA DEGLI ANTICHI. 105
§. 1. Della città di Macarska. 106
§. 2. Del monte Biocova, o Biocovo, che domina
Macarska. 111
§. 3. Delle meteore del Primorie. 114
§. 4. Del mare, che bagna il Primorie; del suo livello;
della pesca. 119
§. 5. De’ luoghi abitati lungo il litorale del Primorie, a
ponente e a levante di Macarska. 131 [VII]
§. 6. Delle voragini di Coccorich; de’ laghi di Rastok, di
Jezero, di Desna; e del fiume Trebisat. 143
§. 7. De’ fiumi Norin, e Narenta, e della pianura allagata
227
da essi. 149
DELL’ISOLE DILISSA, PELAGOSA, LESINA, E BRAZZA NEL MARE
DALMATICO, E DELL’ISOLA D’ARBE NEL QUARNARO. 161
§. 1. Dell’isole Lissa, e Pelagosa. 162
§. 2. Dell’isola di Lesina. 171
§. 3. Dell’isola di Brazza. 182
§. 4. Dell’isola d’Arbe nel golfo Quarnaro. 188 [VIII]

228
NOI RIFORMATORI
DELLO STUDIO DI PADOVA.

A vendo veduto per la fede di revisione, ed


approvazione del pubblico revisor Don Natal dalle
Laste nel libro intitolato: Viaggio in Dalmazia di
Alberto Fortis, ec. manoscritto non v’esser cosa alcuna
contro la santa fede cattolica, e parimente per attestato
del segretario nostro, niente contro principi, e buoni
costumi, concediamo licenza ad Alvise Milocco
stampator di Venezia che possa essere stampato,
osservando gli ordini in materia di stampe, e
presentando le solite copie alle pubbliche librerie di
Venezia, e di Padova.
Dato li 3. marzo 1774.
(Andrea Querini riformatore
(Girolamo Grimani riformatore
(Sebastian Foscarini Cavaliere Riformatore
Registrato in Libro a carte 153. al numero 4.
Davidde Marchesini segretario
8 marzo 1774.
Registrato al Magistrato contro la bestemmia in libro
a carte 55.
Andrea Grattarol segretario [1]

229
Al chiarissimo signor
Gian-Giacopo Ferber,
membro del Collegio mineralogico di Svezia,
socio di varie accademie, ec.

DEL CONTADO DI TRAÙ.

N el separarmi da Voi l’ultima volta, allora quando


andaste a far pe’ monti d’Italia quelle osservazioni,
pella pubblicazione delle quali tanto onore ritraeste, e
così gran servigio rendeste ai dotti orittologi del Nord
poco addomesticati cogli antichi vulcani, io v’ho
promesso di comunicarvi qualche parte delle mie
osservazioni sopra la Dalmazia, verso di cui
m’accingeva a far vela. Esigeste la ratificazione della
promessa in iscritto, visitandomi colle vostre
amichevolissime lettere anche in quella lontana
provincia, dove furono quasi per condurvi a gara il
vostro insaziabile desiderio di veder nuovi oggetti
relativi alla scienza naturale, e la cordiale vostr’amicizia
per me. Eccomi a soddisfare alla promessa; da che la
mia mala sorte non vi permise di venir in persona a
visitar meco quel regno.

§. 1. Del distretto di Traù.


La giurisdizione di Traù incomincia rimpetto all’isola
Rogosniza, stendesi per trenta miglia lungo il mare [2]
230
quasi sino alle rovine di Salona, e comprende parecchie
isole abitate, oltre a un maggior numero di scoglietti
deserti. Uno di questi è detto la Pianca picciola, ed è
luogo stimato pericoloso per essere esposto all’aperto
mare, a differenza del resto di quel litorale ch’è difeso
dalle isole.
Non si può a meno di non ridere leggendo nel primo
volume dell’Illirico Sacro del padre Farlati gesuita che
in tanto è pericoloso passo quello della Pianca, in
quanto vi s’incontrano cozzando insieme le acque de’
fiumi Narenta, e Cettina con quelle del fiume Kerka. Le
foci di Narenta sono ottantacinque buone miglia lontane
da questo luogo: e quel fiume mette in mare così
lentamente, che la marea s’insinua ben dodici miglia nel
di lui alveo. Il fiume Cettina poi è lontano quaranta
miglia dalla Pianca, ed anch’esso si perde
lentissimamente sotto Almissa nell’acqua salsa. La
Kerka finalmente cade nel Lago scardonitano, ben trenta
miglia lontano dalla Pianca, e dodici dal mare, a cui
portasi confusa colle acque del vasto porto di Sibenico.
Da questo errore madornale d’un eruditissimo uomo
imparino gli scrittori a non fidarsi ciecamente delle
informazioni prese da gente ignorante. Fra i più
osservabili luoghi della costa soggetta a questa città è
certamente pell’amatore dell’antichità quello, che vien
detto Traù vecchio dal volgo de’ pescatori, e de’
marinari. Egli è lontano poco più di ventiquattro miglia
da Sibenico, e intorno a nove dal vero Traù. Giovanni
Lucio, il celebre scrittore traurino, credette che in quel
231
sito fosse anticamente il Praetorium della Tavola di
Peutingero. Io non vorrei attribuire a’ Romani una così
cattiva scelta di luogo, e un così cattivo modo di
fabbricare. Il sito è per tutti i versi infelice, fuor di
mano, senza porto, senza campagna [3] coltivabile; il
fabbricato è rozzissimo, senza un indizio di pietra
riquadrata all’uso della buona architettura romana. Le
muraglie rovinose, che portano il nome di Traù vecchio,
sembrano piuttosto residui di qualche vasta abitazione
privata, che di paese anche mediocremente abitato;
elleno sono composte di pietrame irregolare tolto dal
monte contiguo.
Il pavimento, che in alcun luogo vi si conserva, era di
battuto grossolano, ma legato con un cemento
tenacissimo, che resiste tuttora al tempo, ed al mare. Io
penderei a creder queste rovine greche de’ bassi tempi
anzicché romane; e una spezie di cappella, che vi si
conserva ancora riconoscibile, me ne accresce il
sospetto. In tutta la vicinanza di questo luogo desolato,
non v’ha iscrizione di sorte alcuna, non una pietra
lavorata, non un pezzolino di mosaico, non una scheggia
di marmo nobile, cose che pur si trovano sempre in
poca, o in molta quantità dove i Romani abitarono.
La pietra, che forma il cattivo lido di Traù vecchio, è
piena di corpi marini fistolosi di quelle medesime
spezie, ch’io ho osservato nell’isole del canal di Zara, e
che si trovano frequentissimamente nelle Coronate.

232
§. 2. Di Bossiglina, e della penisola Illide.
Poche miglia oltre le descritte rovine trovasi il casale
di Vinischie vicino al porto Mandola, dove in altri tempi
fu scavata una minera di pissasfalto, della quale non mi
fu possibile aver un qualche saggio. Avanzando verso
Traù s’incontra la villa di Bossiglina, nella di cui
denominazione il Lucio si credette di veder chiaro la
corruzione del nome de’ Bulini. Egli arrischiò di fissare
ben angusti confini alla penisola Hyllis [4] lasciandosi
condurre da questa congettura etimologica, da che, se i
Bulini abitavano in quel sito, non resta pegl’Illi altro
luogo se non se il piccolo tratto di paese, conosciuto da’
vecchi geografi sotto il nome di Promontorium
Diomedis, che sporge in mare fra l’isoletta di
Rogosniza, e la villa di Bossiglina, feudo del Vescovado
di Traù. L’estensione dell’Hyllis, non sarebbe più di
dodici miglia, da una punta all’altra, né più di cinque
miglia nella sua maggiore larghezza; misure che non
sembrano convenire alla descrizione, che ce ne ha
lasciata Scimno Chio, chiamandola gran penisola, e
dicendo, ch’era creduta uguale al Peloponneso. Delle
quindici città, che dovrebbono esservi state, non ci resta
vestigio; e quindici città avrebbono pur occupato buona
parte di quella ristretta superficie! Ecco il tratto
dell’antico geografo. «A questi (cioè a’ Liburni) è
congiunta la nazione de’ Bulini. Indi trovasi la gran
penisola Illica, creduta uguale al Peloponneso; in essa
dicono esservi quindici città, nelle quali abitano gl’Illi,

233
che sono Greci d’origine, imperocché loro fondatore fu
Illo figlio d’Ercole. Imbarbarirono poi costoro
coll’andare del tempo, per quanto si dice, nel mescolarsi
con altre nazioni81».
Potrebbe per avventura sembrare più atto a contenere
tante città il tratto di paese, che stendesi fra le foci del
fiume Tizio (ch’è stato fissato mai sempre per confine
della Liburnia) e quelle del Tiluro, la di cui espansione
s’avvicina un poco più a quella del Peloponneso, e
racchiude le belle campagne di Knin, di [5]
Petrovopoglie, di Scign, e la contrada che stendesi
intorno alle rovine sepolte di Promona, ch’era ancora il
centro delle abitazioni degli Illirj propriamente detti al
tempo di Augusto. Fu anche dato il nome dell’Illide alla
penisola montuosa di Sabbioncello, che prolungasi in
mare fra le foci del fiume Narenta, e l’isola di Curzola;
ma gli autori, che così opinarono, non aveano ben
esaminato le descrizioni, che se ne trovano presso gli
antichi geografi, differentissime da quanto a
Sabbioncello può convenire.
Comunque siasi dell’antica loro origine, gli abitanti di
Bossiglina sono a’ giorni nostri così poveri, che non di
raro trovansi in necessità di macinar le radici
dell’asfodelo, e farne un pessimo pane, che deve
contribuire di molto a mantenervi colla fiacchezza delle
forze lo squallore, e la miseria. Le malattie
costantemente prodotte da questa malefica radice sono il
dolore di stomaco, e l’uscita di sangue. Io non posso
81 Scymn. Chius inter Geograph. min. Hudson. v. 403. et seqq.
234
abbastanza stupire, che i posseditori de’ terreni, e i
feudatarj della Dalmazia badino generalmente sì poco
alla sussistenza de’ coloni, i quali hanno pur gran
bisogno, che vi sia chi pensi per loro. La piantagione dei
castagni, spezie d’albero, che non si trova assolutamente
in veruna parte della provincia, e che converrebbe
moltissimo alle montagne interne, sarebbe salutare pei
poveri. Gioverebbe anche ad essi l’uso delle patate,
delle quali si pascerebbono certamente più volontieri,
che di radici d’aro e d’asfodelo, o di bacche di ginepro
cotte, cibi pur troppo usati negli anni di scarsezza da
molte, e molte miserabili popolazioni dell’isole, e del
litorale. Voi sapete quanto alla patria vostra sieno state
utili le patate, che hanno preso il luogo del cattivo pane,
cui mangiavano particolarmente nelle povere contrade
della Dalecarlia gli squallidi contadini ne’ tempi di
carestia. [6]
Le lane di Bossiglina si distinguono da quelle de’
vicini luoghi per la loro buona qualità; e questa
prerogativa è probabilmente la conseguenza
dell’attenzione d’alcuno de’ passati Vescovi, che avrà
voluto migliorarvi le razze delle pecore, col trarne
d’Italia. V’ha ogni ragion di sperare dall’umanità, e
lumi dell’ottimo prelato monsignore Antonio
Miocevich, che attualmente copre con sommo lustro la
sede di Traù, qualche maggior benefizio a que’ poveri
vassalli.
Dopo Bossiglina costeggiando il mare trovasi la villa
di Seghetto, circondata da ben coltivata campagna, che
235
s’innalza ascendendo verso i monti, ed offre in ogni
stagione a’ naviganti uno spettacolo ridente pella
quantità d’ulivi ond’è ricoperta. Da questa villa a Traù si
va per un cammino piano non discosto dal mare.

§. 3. Della città di Traù, e del marmo


traguriense degli Antichi.
Traù, detta dagli Slavi Troghir, lontana da Sibenico
intorno a trentaquattro miglia di mare, se non è città
molto considerabile pell’estensione delle sue mura, o
pel numero de’ suoi abitanti, lo è però assai
pell’antichità della sua fondazione, pe’ dotti uomini che
produsse, e pello spirito di concordia cittadinesca, che vi
regna. I Siracusani moltiplicatisi nell’isola d’Issa fuor di
proporzione coll’angusta circonferenza del paese,
staccarono una colonia, che andò a fabbricare Traù. La
situazione, ch’eglino scelsero, prova che i Greci furono
in ogni tempo avveduti, e che non degenerarono
trapiantandosi in paesi stranieri. Giace questa città su
d’un’isoletta artificiale congiunta al continente da un
ponte di legno, e coll’isola Bua da un sodo argine di
muro [7] intersecato da due ponti di pietra, e da un
levatojo, che serve al passaggio delle barche.
La larghezza del canale fra la città, e l’isola Bua è di
circa trecencinquanta piedi; egli è frequentatissimo dai
legni, che temono il mare, e che da Zara all’estremità
orientale della provincia studiansi di viaggiare lungo la
costa sempre coperti dall’isole.
Della storia di questa città pubblicò un farraginoso
236
volume abbondantissimo di documenti, e buone notizie
il celebre Giovanni Lucio, che vi nacque di nobilissima
famiglia ora estinta. Ella ha prodotto parecchi uomini di
lettere, nella biblioteca d’uno de’ quali fu rinvenuto il
celebre codice di Petronio col frammento della cena di
Trimalcione. Di questo codice, che lo Spon ha potuto
vedere del 1675, non m’è riuscito di trovare alcuna
traccia. Coriolano Cippico, Marino Statileo, Tranquillo,
e Paolo Andreis sono i più illustri nomi fra’ letterati
traurini. Di questi, e d’altri io darò forse in più
opportuna occasione dettagliate memorie, profittando
dell’erudite fatiche del dottissimo Vescovo, che si
occupa nel raccoglierle; quando egli, che può farlo
superiormente, non le dia al pubblico per onore della
sua nazione.
Plinio facendo breve menzione di Traù, lo distingue
dagli altri stabilimenti romani pella celebrità del suo
marmo: Tragurium oppidum Romanorum marmore
notum. Vitaliano Donati ha creduto, che il marmo
traguriense degli Antichi sia quello, ch’è conosciuto a’
dì nostri sotto il nome di marmo d’Istria, o di Rovigno.
Sarà forse così; né io ardisco d’asserire francamente il
contrario a fronte d’un sì celebre uomo. Ma se il marmo
traguriense fosse stato quella spezie di pietra forte
volgare, onde in buona [8] parte sono composti i lidi, e
l’isole dell’Istria, e della Dalmazia, i Romani non
avrebbono avuto bisogno di trarlo da Traù. I monti
vicini a Roma, che dominano le paludi pontine sino a
Terracina (per lasciar da parte i mediterranei di que’
237
contorni) sono per lo più composti di questa medesima
spezie di marmo, che io credo di poter chiamare marmo,
o pietra forte dell’Apennino, da che l’ossatura di quella
catena di monti n’è quasi totalmente composta. Egli è
certo, che con molto minore spesa se ne potevano
condurre masse grandissime da Terracina a Roma, che
dalla Dalmazia. Né si può dire, che i Romani non
conoscessero le cave del marmo Apennino, e non
sapessero quanti gran pezzi se ne potessero trarre. Fra
gli altri luoghi, ne’ quali appariscono i lavori de’ loro
tagliapietra, è illustre quel pezzo di monte marmoreo
tagliato a piombo in riva del mare appunto presso
Terracina per 120 piedi, a fine di togliere un incomodo
passo alla via Appia. Voi l’avrete certamente esaminato
da vicino nel passaggio, che faceste da quella parte,
andandovene a Napoli per visitare il Vesuvio. S’eglino
avessero poi voluto, per una stravaganza, che non si dee
attribuire a così avveduto popolo, avere dalla lontana
provincia un marmo ignobilissimo, non lo avrebbero
preso da Traù, ma dalle parti più orientali della
Dalmazia, e dall’isole men lontane, che ne abbondano
egualmente, e nelle quali v’erano pure stabilimenti
romani. A tutto questo s’aggiunge, che fra le rovine di
Roma non si vedono lavori di questa sorte di marmo,
trovandosi sempre nelle fabbriche antiche adoperata la
pietra forte di Tivoli, chiamata travertino da’ marmoraj
de’ nostri tempi, o il peperino tolto dai colli vicini alla
città stessa, non già da Piperno, e finalmente il tufo

238
arenoso vulcanico, che veniva dai [9] monti di Marino82.
Ne’ colonnati, nelle incamiciature, negli ornamenti delle
fabbriche antiche oltre i graniti, i porfidi, ed altri marmi
vitrescenti veggonsi breccie calcaree di varie macchie, e
marmi uniti di varj colori, ed impasti provenienti da
diversi paesi. Fra queste pietre della seconda classe
farebbe d’uopo cercare quel traguriense, che nobilitava
il suolo nativo. È probabile che fosse qualche breccia
ben macchiata, confusa adesso colle africane, da che le
sommità di tutti i monti della Dalmazia ne danno varie e
nobilissime spezie. È anche molto verisimile che del
marmo statuario traessero gli Antichi dai contorni di
Traù: ma chi ne indovinerebbe la cava senza
riconoscerne la scoperta dal caso, o senza misurare a
palmo a palmo il paese? Io feci delle ricerche non del
tutto fruttuose per trovare il marmo salino presso a Traù;
e v’ebbe chi cercò di sorprendere la mia buona fede,
mostrandomi una scheggia di marmo carrarese, come
tolta dal Monte di Sant’Elia, che sorge vicino alla città,
dove in alpestre sito veggonsi antiche cave di marmi
82 È strana cosa che il celeberrimo Wallerio confonda il peperino
col travertino, e nella descrizione, che dà dell’uno, e dell’altro
mostri di non conoscerne bene nessuno. Alla p. 356. 357.
della nuova edizione 1772 del suo Sistema mineralogico, egli
si fida a d’Arcet, e asserisce, che il peperino non è una pietra
vulcanica: ma poi alla p. 422, dimenticatosene riconosce per
vulcanico il peperino, o sia tiburtino credendo queste due
differentissime spezie una cosa sola. Oh, quante correzioni
farebbero ne’ loro sistemi, se viaggiassero un poco più gli
scrittori più celebri!
239
non affatto volgari, ma ben ancora lontani dalla finezza
del carrarese. Farebbe d’uopo che il viaggiatore usasse
sempre dell’attenzione, ch’io uso costantemente prima
di asserire un fatto sull’altrui fede; cioè, ch’egli andasse
[10] sopra luogo, o almeno minacciasse di farlo ad onta
d’ogni difficoltà; così si scoprono le bugie. A ogni
modo, la pietra di Sant’Elia merita qualche
considerazione, se non pella sua bianchezza, almeno
pella facilità, che trovasi nel lavorarla. Ella congiunge
alla trattabilità, ed unitezza della grana la facoltà di
ricevere bel pulimento. Non sarebbe la migliore pe’
lavori di primo rango: ma riuscirebbe opportunissima
pelle scolture da collocarsi in luoghi men nobili, o fuori
della portata d’un occhio esaminatore. Certa cosa è, che
gli Antichi ne fecero uso.
Poche iscrizioni, e niun residuo di fabbriche romane
si è conservato a Traù. Le poco importanti lapide di
questa città sono già state pubblicate nelle collezioni,
cui gli amatori hanno sovente per le mani: e nemmeno
tutte quelle, che altre volte vi si trovavano, vi si trovano
adesso.

§. 4. Dell’isola di Bua.
L’isola di Bua, detta Bubus da Plinio, è per tal modo
congiunta colla città di Traù, che non mi credo permesso
di separarnela, quantunque ell’abbia tanta varietà di
cose osservabili, che meriterebbe di formare un articolo
a parte. Le numerose abitazioni raccolte sul lido di Bua,
che guarda Traù, possono degnamente portare il nome
240
di borgo; e formerebbero da sé un considerabile paese,
se la vicinanza della città non le oscurasse. Fa però
d’uopo confessare, che il borgo è assai meglio situato
che la città medesima. Ne’ tempi della decadenza
dell’Impero chiamavasi Boas, e furono relegati in
quest’isola parecchi illustri uomini caduti in disgrazia
della corte, fra’ quali Fiorenzo maestro degli ufizj
dall’imperatore Giuliano, Immezio da Valente, e
l’eretico Gioviniano. Fa d’uopo, [11] che gl’Imperatori
di Costantinopoli, o non conoscessero bastevolmente
questa pretesa Siberia, o volessero trattare con molta
clemenza i relegati. Egli è certo, che il clima dell’isola è
dolcissimo, l’aria perfetta, l’oglio, l’uve, i frutti
eccellenti, il mare vicino abbondante di pesci, il porto
vasto, e sicuro. Né l’estensione d’essa è tanto picciola,
che un galantuomo non vi potesse passeggiare, e
cavalcare a suo comodo: poiché ha dieci miglia di
lunghezza, e intorno a venticinque di circuito, né,
benché sia molto elevata, può chiamarsi aspra.
Vedesi nella borgata di Bua una palma dattilifera
natavi quarantatré anni sono, che sta sempre esposta ai
cangiamenti dell’aria, e da dieci anni in qua non manca
mai di produrre abbondantissima copia di datteri. Questi
non sono per vero dire della più perfetta qualità: sono
però mangiabili ad onta d’un po’ d’aspretto, che
ritengono forse dall’essere la palma un poco troppo
abbandonata all’intemperie dell’inverno, che per quanto
sia dolce sull’isola di Bua, è però sempre più rigido, che
l’invernate de’ luoghi nativi delle palme in Africa, e in
241
Asia. Forse in conseguenza del non aver un maschio
vicino, che la fecondi, la palma di Bua produce datteri
privi di nocciuolo. In luogo di esso hanno una cavità, le
di cui pareti sono un poco più resistenti che il resto della
polpa. È probabile, che se il proprietario di questa palma
la facesse coprire nel tempo d’inverno, i datteri ch’ella
produce fossero più dolci.
Varj impasti di marmo, e di pietra dolce io ho
incontrato su quest’isola, e molti più ne troverebbe chi
avesse da farvi replicate osservazioni. V’ha del marmo
bianco comune da fabbrica di pasta istriana, rigido,
madroso, che scheggiasi come le selci; v’ha del marmo
laminoso tegolare della stessa natura, nella superficie
[12] del quale veggonsi spesso impressioni o
protuberanze di corpi marini petrificati. Vi domina il
marmo lenticolare di non sempre uguale durezza; vi si
trovano vene di pietra dolce calcarea trattabile dallo
scalpello, e crete rassodate, e gruppi di spati
stalagmitici, che da’ nostri scalpellini sono conosciuti
sotto ’l nome d’alabastri fioriti. Selci di più colori, e
d’incostantissime forme si veggono prese nel marmo, ed
erranti nella terra schistosa, che divide in alcun luogo i
filoni petrosi, e circondate sovente d’aggregati di corpi
marini lapidefatti. Non trovai verificata dal fatto in
quest’isola, né in verun altro luogo della Dalmazia, dove
le selci s’incontrano prese negli strati di marmo,
l’asserzione del signor di Reaumur, che dell’origine loro
scrivendo nelle Memorie dell’Accademia disse «che le
focaje affettano per lo più una sorte di rotondità».
242
Elleno trovansi a Bua per lo più angolose
irregolarissimamente, colle faccie piane, a grossi pezzi,
interrompendo visibilmente la continuità del marmo.
Sembrano a chi le vede cadute dall’alto per qualsivoglia
accidente, e senza sofferire alcuna fluitazione sepolte
dal proprio peso nella fanghiglia marina, che poi
coll’andar degli anni rassodossi in marmo sott’acqua,
indi col girar di più secoli restò all’asciutto, e soffrì tutte
quelle rivoluzioni, che sono necessarie perché vengano
squarciati gli strati continui, restino divisi i monti, e ne
siano trasportate le membra sminuzzate in ghiaja, ed
arena, e perché finalmente ne rimangano isolate le parti
coll’introduzione di lontani mari, i flutti de’ quali
percotendo impetuosamente le radici delle nuove isole
scompongano, e corrodano a poco a poco il lungo
lavoro d’acque più antiche. Le selci di Bua, e assai
comunemente quelle di tutta la provincia, che trovansi
sepolte ne’ monti marmorei, portano così chiari segni di
[13] separazione da una massa continua, ch’io sarei
tentato di credere si sieno staccate da strati molto estesi
di monti, che più non esistono: quantunque il celebre
naturalista sopra nominato scriva che le focaje mai non
si trovano disposte a strati. A questa congettura mi dà
coraggio il ricordarmi d’aver personalmente osservato, e
’l trovare minutamente descritto ne’ miei Odeporici uno
strato di focaja verde, che vedesi attraversare
orizzontalmente le materie vulcaniche d’una delle
isolate colline di Montegalda, fra Padova, e Vicenza,
detta il Monte-lungo. Ho poi cento volte avuto sotto gli
243
244
occhi selci nere disposte a strati ne’ colli Euganei, e colà
spezialmente dove sono formati di quella spezie di
pietra calcarea bianca, scissile, piena di dendromorfi
piriticosi, che fra noi chiamasi scaglia, e pel resto
d’Italia viene comunemente detta alberese. Io so d’aver
anche veduto sulle spiaggie di Manfredonia in
prodigiosa quantità i ciottoli di focaja fluitati, erranti; e
dieci miglia più addentro, al passo del Candelaro,
ciottoli di focaja scantonati, coll’esterna corteccia
candida, presi in una spezie di fragilissimo tufo marino
composto da madrepore, e frantumi di testacei
petrificati. Ma né i ciottoli di Manfredonia, né quei della
collinetta aggiacente al Candelaro sono nativi de’
luoghi, dove attualmente si trovano, anzi
manifestamente sono stati portati d’altronde.
Da questi fatti io mi credo concesso il diritto di
rivocare in dubbio l’universalità della dottrina del
Linneo: silex nascitur in montium cretaceorum rimis,
uti quartzum in rimis saxorum83. Né quindi stimo, che
[14] al dottissimo naturalista rimprovero d’inesattezza si
deggia fare; egli avrebbe scritto altrimenti, se nelle
nostre contrade meridionali avesse viaggiato, o da’
nostri osservatori avesse ricevuto notizie. Se ’l trovarsi
le selci sovente disposte a strati prova che il signor de
Reaumur non avea ragione di dire, che per lo più sono
erranti, la frequenza poi grandissima de’ ciottoli silicei
erranti, e divenuti probabilmente tali dopo d’essersi
sciolti dal cemento de’ marmi brecciati, prova che il
83 Linn. Syst. Nat. silex.
245
signor Linneo ha tutti i torti nel prescriver loro
l’assoluta legge di nascere nelle fenditure de’ monti
cretacei. Io ho più volte trovato le selci nell’atto per così
dire del passaggio dallo stato calcareo al siliceo; ed in
particolare ne ho frequentemente incontrato di ravvolte
nelle materie vulcaniche. M’è anche venuto fatto di
disporre in serie i varj gradi di questo passaggio, ed ho
avuto la compiacenza di farli vedere a molti dotti amici
nostri.
Le focaje di Bua prese nel marmo sono alcuna volta
circondate da una crosta ocracea poco più grossa di
mezza linea; alcun’altre sono macchiate di ruggine, e
talora finalmente, quando sono erranti nella creta, o ne’
frantumi di corpi marini inegualmente petrefatti,
affettano una sorte di rotondità. Ve n’hanno di ramose,
di cilindriche, di globose, e fatte a foggia di pero: ma
queste figure sono anche comuni a molti pezzi di pietra
non silicea, che ne’ medesimi luoghi si trovano ad un
tratto insieme colle focaje, e al di fuori malagevolmente
si ponno da esse distinguere. Una focaja cilindrico-
stiacciata, ch’io ho fatto pulire, è tutta compenetrata di
vene di spato calcareo cristallizzato, che circondano
piccioli ritagli di selce ripieni di minuti corpicelli marini
del genere delle frumentarie. Questo pezzo è de’ più atti
a far girare il capo a chi si lusingasse [15] di veder netto
nella formazione delle selci. Confessa Henckel nella sua
Piritologia, dopo d’averne parlato a lungo, ch’ella è
inintelligibile84.
84 Nella collezione del nobil uomo signor Giacomo Morosini,
246
§. 5. Minera di pissasfalto.
La curiosità fossile di Bua, che merita a mio credere
maggior attenzione di tutte l’altre, si è la minera di
pissasfalto. Io mi arrischio a chiamarla minera con non
affatto proprio vocabolo, per non dirla piuttosto fonte,
che parrebbe ancora più strana denominazione. In due
promontorj dividesi l’isola di Bua fra ponente, e
tramontana, l’un de’ quali guarda l’isola di Solta, l’altro
prolungasi rimpetto a Traù. Fa d’uopo varcare la
sommità di quest’ultimo, che non è largo mezzo miglio,
discendendo a dritta linea verso il mare per condursi ad
una buca assai nota agli abitatori. Questa ha poco più di
dodici piedi d’apertura, e dal di lei fondo s’alza a
perpendicolo oltre venticinque piedi il vivo degli strati
marmorei, su de’ quali posano i massi irregolari, che
servono di circondario alla cima del monte.
Il luogo m’è sembrato così degno d’osservazione,
ch’io l’ho fatto disegnare (Tav. VIII). La buca AAA è
scavata in uno strato irregolare di terra argillacea
arenosa ora biancastra, ora traente al verde, ora mezzo
petrificata, piena di nummali della maggior grandezza
[16] di lenticolari, e frantumi, con qualche ramicello di
madrepora, e non di raro di quelle serpole lombricali,
vedesi fra le altre molte pregevoli curiosità fossili, una
tavoletta di diaspro tolta dai monti di Recoaro, presso alla
fonte delle Acidule, in cui la pasta della pietra, e i guscj delle
terebratole, e grifiti, che vi stanno prese, è silicea; l’interno
poi dei detti corpi marini è ripieno d’una candidissima
cristallizzazione calcarea.
247
che dal Gesnero son dette Corna d’Ammone bianche,
minime, ec. Il masso B è caduto dall’alto, e giace
isolato. L’escavazione praticata da qualche poveruomo
nella materia più arrendevole, s’interna alcun poco sotto
l’estremità CC dello strato DD. Questi è separato per la
linea EE dallo strato FF, ch’è di marmo forte volgare
con corpi marini, senza focaje.
Il superiore GG è di pietra forte lenticolare, e
seminato di focaje, piene esse pure di lenticolari. Il
masso H non mostra al di fuori le divisioni de’ suoi
strati, e trasuda minute gocciole di pissasfalto, che non
sono quasi osservabili. Ben lo sono le lagrime III della
stessa materia, che colano dalle fessure, e screpoli dello
strato biancastro DD. Elleno usano d’uscirne più
abbondevolmente allor quando il sole percuote que’
marmi nelle ore calde del giorno. Questo pissasfalto è
della più perfetta qualità85 nero, e lucente quanto il
bitume giudaico, purissimo, odoroso, tenace; egli esce
come liquefatto, e arrendevole per rassodarsi poi in
grosse gocciole al tramontare del sole. Rompendo molte
di queste gocciole sul luogo, io ho trovato che quasi
ognuna di esse ha una cavità interna ripiena d’acqua
limpidissima.
La maggior larghezza delle lagrime, ch’io abbia
veduta, si è di due pollici parigini, la comune di mezzo
pollice. Gli screpoli, e fenditure del marmo, d’onde
trasuda la pece bituminosa, hanno al più la larghezza di
una linea; per la maggior parte però sono così
85 Bitumen subfriabile piceum. Linn. Syst. Nat.
248
impercettibili, [17] che senza la pece medesima, da cui
sono annerite, non si potrebbono per alcun modo ad
occhio nudo distinguere. Dall’angustia delle vie forse
dee in parte ripetersi la scarsezza del pissasfalto, che
geme da quelle rupi.
Io ho rotto molti, e molti pezzi di quella pietra forte
calcarea: e vi ho costantemente trovato dentro macchie
nere di pece lucida, che hanno talvolta comunicazione
cogli screpoli esteriori, e talvolta sono come laghetti
isolati, senza uscita da veruna parte. Mi parve sul fatto
s’avesse quindi motivo di sospettare, che la pece
preesistesse al rassodamento della terra calcarea in
pietra di quell’antico fondo marino, ch’è certamente
faccenda di qualche antichità.
La parte superiore del colle è marmorea, e quasi nuda
di terreno; alberi non vi allignano, né senza gran
soccorsi dell’arte vi potrebbono allignare. Chi mi saprà
dire d’onde colà sia venuta, e come al percuotere de’
raggi solari in que’ dirupi sciolgasi, e trasudi la pece di
già cotta, e annerita? Qual rimotissimo incendio di
selve, o qual vulcano la produsse? Ed in qual distanza
prodigiosa di tempi, e differenza di circostanze? E come
v’entra quell’acqua, che l’accompagna fedelmente,
anche ne’ tempi di maggior aridezza? Vien’ella dagli alti
monti del continente passando per disotto al canal di
mare, che divide l’isola di Bua da Traù? E in questo
caso, come può ascendere attraverso i compattissimi
strati di marmo, onde l’isola stessa è composta? Si
potrebbe pensare, che l’ardore del sole rendesse que’
249
massi atti ad attrarla dal mare medesimo, che in alcun
luogo sotto d’essi s’insinua, o da qualche fonte ben
profondamente sepolta? Io non m’appiglio a verun
partito, e lascio a Voi, che siete maestro in queste oscure
materie, a decidere [18] d’ond’ella venga. In varj altri
luoghi d’Europa, e segnatamente nell’Alvernia, presso
Clermont-Ferrand, v’ha un monte, d’onde si trae il
pissasfalto. Strabone fa menzione d’un celebre luogo
dell’Epiro nel tenere degli Apolloniati, dove dalla terra
raccoglievasi. Ma il monticello di Clermont è
vulcanico86: e ne’ contorni della minera mentovata dal
geografo, eravi87 una rupe, che gettava fuoco, e vi
sorgevano acque termali contigue. Così dal monte
vicino a Castro, nella campagna romana, geme la pece
bituminosa, di cui fa motto anche il Boccone: ma il
luogo è tutto circondato da materie vomitate dagli
antichi vesuvj. Sull’isola di Bua non v’è alcun vestigio
di vulcano antico, né moderno, come non v’è per molte,
e molte miglia addentro nel continente.
Mi ricorda, che Voi medesimo m’avete alcuna volta
parlato di una pece somigliante a questa, che cola dalle
rupi in qualche provincia della Svezia; ma non m’avete
aggiunto che da’ vostri compatriotti fossero stati
esaminati, o descritti minutamente i monti, d’ond’ella
scaturisce. Trovo presso quasi tutti gli scrittori, che della
pece minerale ci hanno lasciato cenni, trascurato quasi
totalmente l’esame degli strati, da’ quali trasuda; e mi
86 Aldrovandi, Mus. Metall. p. 382.
87 Strab. Geograph. lib. VII.
250
251
par condannevole negligenza.
Corrisponde questo pissasfalto di Bua a quella
produzione fossile, che mumia minerale vien detta
dall’Hasselquist ne’ suoi viaggi, e mumia nativa
persiana dal Kempfero, di cui serviansi gli Egiziani [19]
per imbalsamare i loro re88. Trovasi questa in una
caverna del Caucaso, che sta chiusa, e guardata con
gelosia per ordine del re di Persia. Una delle qualità
assegnate dal signor Linneo al bitume prezioso si è il
fumare nel fuoco, come fuma il nostro, spargendo un
88 «Mumiahì, o sia mumia nativa persiana. Esce da una dura
rupe in pochissima quantità. È un sugo bituminoso, che
trasuda dalla petrosa superficie del monte, somigliante
nell’aspetto alla brutta pece de’ calzolaj, come anche nel
colore, nella densità, e nella duttilità. Quando è ancor aderente
alla sua rupe riesce men solido; prende forma col calor delle
mani; gode d’esser unito all’oglio, rispinge l’acqua; è affatto
privo d’odore, e similissimo nella sostanza alla mumia
egiziana. Posto su i carboni accesi, dà un odore di zolfo,
temperato un cotal poco dall’odore di nafta, non
dispiacevole.... V’hanno due varietà di questa mumia; l’una è
la primaria nobilitata dalla sua scarsezza, e dall’attività
somma... Il luogo nativo della mumia primaria, è rimotissimo
dall’accesso degli uomini, da’ luoghi abitati, dalle fonti
d’acqua, nella provincia di Daraab. Trovasi in una caverna
angusta, non più profonda di due braccia, scavata a guisa di
pozzo nel masso, alle radici d’uno scosceso monte del
Caucaso». Kempfer. Amœn. Pers.
Questa descrizione corrisponde perfettamente al pissasfalto, o
mumia fossile di Bua, e solo discorda pella privazione
d’odore, che par difficile possa esser totale nella mumia
persiana.
252
odore di pece non dispiacevole. Io credo, che sarebbe
ottimo per le ferite, come lo è quello d’Oriente; e come
la pece di Castro usata assai comunemente per le
fratture, contusioni, ed altri molti malori da’ chirurghi
romani89.

§. 6. Delle patelle articolate.


Fra i molti viventi marini, che si pescano nel porto di
Bua, anzi lungo il suo lido ch’è tutto ingombro di massi
rovinati dall’alto, meritano particolar descrizione due
spezie di patelle bislunghe, articolate, dette [20]
babusche da que’ pescatori, che sembrano essere state
mal distinte sinora, e peggio figurate dagli scrittori di
storia naturale marina, e segnatamente dal Rumfio, e dal
Ginanni, l’uno de’ quali limaci marine, l’altro patelle
testudinate le nominò.
Questo testaceo è d’una struttura così elegante, che
mi è sembrato meritare d’esser più accuratamente
figurato. La Figura A della Tavola IX. rappresenta la
patella così distesa, come suole naturalmente starsi
attaccata alla superficie piana de’ sassi, o d’altra cosa
sott’acqua. Ella è composta d’otto pezzi accavallati,
come le squame de’ pesci, e legati insieme da forti
tendini, col mezzo de’ quali l’animale si fa lungo
camminando tre e quattro linee più, ch’ei non è quando
sta fermo. A questa distensione s’accomoda anche l’orlo
coriaceo, che veduto coll’occhio armato, dalla parte, che

89 Boccone Museo di fisica, ec. p. 161.


253
s’attacca alle pietre, è tutto tessuto di papille nervose
corrispondenti per avventura ad altrettante protuberanze
della superficie esterna.
Queste papille gemono una sostanza glutinosa, che
serve a fermare l’animale tenacissimamente là, dov’ei
s’attacca. Dopo d’essere stata distaccata a forza due, o
tre volte, la bestiuola resta priva de’ modi di
riappiccarsi, e si lascia andare a corpo morto per molte
ore, finché si riempiano di nuovo i serbatoj del suo
glutine; allora ella si rimette col ventre in giù. Quando
questo animaluccio cammina non mostra punto il
grugno, ma va sempre coperto dall’orlo coriaceo, che si
muove tutto ad un tempo col meccanismo della
distensione, e prolungazione delle papille suddette, che
gli servono di gambe. Esaminando il corpo della patella
articolata viva, io non le ho veduto nel piede (che simile
a quello della patella volgare stendesi per tutta la sua
lunghezza) verun organo distinto; forse la progressione
[21] di quella suola callosa dipende dai movimenti delle
papille dell’orlo coriaceo. La bocca è somigliante a
quella dell’altre patelle, ma l’interna struttura ancora più
semplice; non vedendovisi altro, che un sacco dalla
bocca all’ano.
Gli escrementi dell’animaletto sono piccioli granellini
cilindrici, e prendono questa figura prima d’affacciarsi
all’orificio; sovente il sacco accennato se ne trova
ripieno. Sono di lui cibo minuti vermicelli marini, e più
frequentemente la sostanza gelatinosa di varie spezie di
polipi, che si propagano su le pietre sommerse nel mare.
254
Quantunque la patella articolata mai non si trovi così
vicino al lido, che la bassa marea possa lasciarla fuor
d’acqua, ell’ama però l’aria, e lo mostra con singolar
precisione. Io ne ho tenuto parecchie in piccioli piattelli
ripieni d’acqua marina, per averle comode alle lenti.
Stavano quatte sott’acqua sino a tanto, che io faceva
romore nella stanza: ma tosto che io ne usciva, o mi
stava zitto per qualche minuto, elleno si moveano
direttamente verso gli orli, e appena sentivano mancarsi
l’acqua, alzavano or da una, or dall’altra parte il lembo
coriaceo, quasi fiutando l’aria con piacere, e finalmente
o rannicchiate di fianco arrestavansi mezzo all’asciutto,
e mezzo in molle, o si strascinavano sul taglio esteriore
del piattellino, dove si fermavano sollevando un lato del
tutto, perché l’aria potesse insinuarsi di sotto al loro
ventre raggrinzato. L’estremità anteriore, rappresentata
dalla Figura B molto più grande del naturale, è assai
differente dalla posteriore, Figura C, quantunque al
primo guardarla nell’animaluzzo intero sembri della
stessa struttura. Le sei vertebre di mezzo, Figura D,
sono tutte simili, ed il lembo, che le circonda, veduto
sotto ’l microscopio, offre la superficie globulosa
mostrata da un picciolo ritaglio [22] di esso nella Figura
E. Usano di piantar abitazione sul guscio di questa
patella varie spezie di polipetti minutissimi, e vi
fabbricano particolarmente le case loro quelli
dell’escare. Vi sono frequenti i sifoncoli testacei di
vermi, e non di raro se ne trovano d’assai elegantemente
girati in ispirale, e fasciati, come si vedono espressi
255
nella vera loro grandezza dalle Figure F, G, H, e
accresciuti sotto ’l vetro nelle Figure G, H, I. Il colore
del guscio delle patelle è vario non solamente da un
individuo all’altro, ma altresì da una vertebra all’altra.
Ve n’hanno di grigie, di verdastre, di gialle, di nere; e
taluna ha l’estremità d’un colore, e le vertebre d’un
altro, o una vertebra rossa, e ’l resto tutto punteggiato.
Io ne conservo un esemplare, che ha le due estremità, e
la metà della prima vertebra tinta di nero, col rimanente
verde. Il signor Linneo mette questa spezie fra i chitoni
al n. VII.
L’altra spezie di patella rappresentata dalla Figura K è
poco comune nelle acque di Bua, ed ama piuttosto i
fondi limacciosi come quelli del vallone di Slosella. Io
la chiamerei patella articolata, cotennoso-testacea,
adorna di fiocchi. Nella struttura interiore è simile alla
prima spezie; nell’esteriore ha di molte differenze. Il suo
orlo più cotennoso che coriaceo, tigrato di nero sul
grigio, seminato di peli, termina tutto all’intorno in
piccioli pennellini stiacciati, ed acuti. Il numero delle
vertebre è lo stesso: ma fra l’una, e l’altra s’insinua
esteriormente la sostanza cotennosa dell’orlo, formando
nelle connessioni di esse vertebre altrettante piramidi,
che vanno a combaciarsi negli apici. Le vertebre
medesime, Figura L, hanno l’arcuazione più acuta, e la
loro parte testacea è coperta d’un epiderma punteggiato
di picciolissimi circoletti, che corrispondono
esattamente nelle Figure M, N a quella del già descritto,
[23] Figura E. La massima differenza poi, che
256
caratterizza questa seconda spezie, consiste in dieciotto
fiocchetti argentei, che l’adornano, composti di
filamenti simili all’amianto. Sorgono questi alla
congiunzione delle vertebre, e servono quasi di base alle
piramidi cotennose, che vi s’insinuano. Eglino
dovrebbono a questo modo essere solamente sedici,
dacché d’otto soli pezzi è composta la spoglia della
patella articolata: ma ve n’hanno due un po’ più piccioli
degli altri alla estremità anteriore. La Figura O
rappresenta ingrandita la sesta parte d’uno di que’
fiocchi, e la colonnetta esagona P mostra uno de’
filamenti veduto con vetro più acuto. Non saprei
indovinare, che uso ne faccia l’animaletto. Il signor
Linneo descrive questo testaceo, cui fa abitante delle
coste di Barberia, al n. IV. de’ chitoni. La di lui
descrizione però non dà un’idea bastevolmente precisa
della struttura dell’animale; e contiene qualche
inesattezza intorno al numero, e disposizione de’
fiocchi, al colore della spoglia, all’arcuazione, ec.90
Una spezie rarissima di chiton fascicolare da sei sole
articolazioni ho trovato nell’esaminare minutamente la
mia collezione ritornato dal viaggio, ed è la
contrassegnata dalla lettera Q. In più d’un centinajo di

90 Chiton testa octovalvi, corpore ad valvas utrinque


fasciculato.
Habitat in Barbaria.
Corpus cinereum, læve. Testæ leviter carinatæ. Fasciculi pilorum
totidem, albidi, juxta testarum latera corpori insident. Linn.
Syst. Nat.
257
chitoni ottovalvi raccolti con molta fatica non ho potuto
rinvenirne, che un solo esemplare. [24]
Un’infinità d’altri curiosi viventi propagansi ne’
piccioli seni del porto di Bua, fra’ quali non v’ha
dubbio, che molti riuscirebbono nuovi ai naturalisti: ma
lunghe diligenze richiedonsi per osservarli ne’ varj loro
stati; lunghe stazioni per discoprirne l’indoli, e le qualità
differenti; lunghi esami di libri non ovvj, e di collezioni
farraginose per assicurarsi, che nessuno degli scrittori di
storia naturale marina n’abbia parlato. Io ho sbozzato la
storia di parecchi: ma non la darò, se non quando mi sia
riuscito di perfezionarla.

§. 7. Del litorale di Traù verso Spalatro, e della


pietra di Milo.
Il litorale di Traù verso levante è più coltivato, che
spazioso. Egli stendesi appiè d’alti monti, e quasi mai
arriva alla larghezza d’un miglio e mezzo fra la pianura,
e ’l pendio coltivabile.
Due miglia lontano dalla città sorge dalle radici del
monte Carbàn un considerabile capo d’acqua, che non
ignobile fiumicello formerebbe se avesse più lungo
corso, e non si perdesse appena uscito dalle sotterranee
caverne nel padule salso, che fa un po’ di torto all’aria,
cui respirano i Traurini. I massi sconvolti, da’ quali esce
questa gran fonte di sotto in sù, sono di pietra forte
lenticolare; la parte media del monte è di terra argillosa
biancastro-azzurrognola, ora più, ora meno rassodata; la
sommità di marmo volgare biancastro, di brecciato, o di
258
lenticolare incostantemente, come si può arguire dalle
ghiaje, che scendono pe’ rigagni eventuali dell’acque
piovane, e pe’ ruscelli perenni, da parecchi de’ quali è
irrigato quel delizioso litorale.
Otto macine girano in que’ mulini, mosse da ruote
orizzontali co’ raggi fatti a foggia di cucchiaj secondo
l’usanza comune a quasi tutta la Dalmazia. In questo
[25] luogo per la prima volta ho veduto usare le macine
composte di molti pezzi di pietra di Milo, ch’io non
conosceva per lo innanzi, così chiamata dall’isola di
questo nome nell’arcipelago. Non crederei agevolmente
che l’isola avesse tratto il nome dall’uso della pietra91:
imperocché Μέλος non Мῦλος fu dagli Antichi
chiamata. Quasi tutti i mulini della provincia fanno uso
di questa sorte di macine, preferendole alle mole pesanti
di macigno, perché girano più velocemente, essendo
assai più leggiere, e per conseguenza danno molto
lavoro in poco tempo.
L’esame della pietra di Milo m’ha chiarito, che da
questo apparente vantaggio deono venirne dei danni
reali. È questa spezie di pietra bianca, cavernosa,
leggierissima di peso in proporzione della sua mole.
91 Cristoforo Crisonio, autore d’un isolario manoscritto figurato,
che si conserva nella biblioteca de’ conti Draganich Veranzj a
Sibenico, asserisce, che l’isola ha tratto il nome dalle pietre. Il
codice mostra di essere stato scritto verso la fine del XV
secolo. Il Crisonio nel corpo di quest’opera, dice d’averne
scritto un’altra espressamente pell’isola di Creta. Ad onta de’
pregiudizj del suo secolo, questo autore, ch’io credo inedito,
ha del merito.
259
Nelle sue cellule irregolari par che si scuopra a prima
vista il lavoro d’un’acqua stillatizia, e che per
conseguenza deva riporsi fra i pori acquei: ma
confrontata colle pomici nere spungose, e pesanti de’
vulcani antichi somiglia ad esse nella tessitura
moltissimo. Nel girare rapidamente si consuma, e
mescola le sue particelle vitree angolose colla farina, lo
che rende il pane arenoso, e dee produrre alla lunga
pessimi effetti ne’ corpi umani. Per fare l’uso migliore
della pietra di Milo, sarebbe da adoperarla nella
costruzione delle volte, ad imitazione de’ Pompejesi,
[26] che formavano le loro colle pomici nere del
Vesuvio. Ella è leggiera più, che qualunque altra spezie
di pietra, o tufo, e quindi peserebbe poco sulle muraglie
laterali; è attissima ad abbracciare il cemento pelle
frequenti sue cavità; né teme punto l’ingiurie dell’aria, o
del salso, che alla lunga consumano ogni sorte di
marmo, e di pietra cotta, essendo composta di atometti
cristallini strettamente unitisi per formarla92.
Oltre i mulini di Traù stendesi per sino alle antiche
rovine della città di Salona la deliziosa spiaggia de’
Castelli, la di cui amenità è stata da tutti gli scrittori
92 Petrosilex opacus, variis foraminulis inordinate distinctus.
Wall. Pumex saxiformis, cinereus. Linn. 182. 6.
La pietra di Milo bianca, leggierissima, sembra non sia
individuatamente conosciuta da’ naturalisti oltramontani; le
convengono però le due definizioni generali del Wallerio, e
del Linneo. Bomare la conosce meglio d’ogni altro; ma la
chiama poi quartz carié, con istranissima denominazione ben
più poetica che mineralogica.
260
delle cose illiriche meritevolmente celebrata. Alcuno di
questi castelli è fabbricato dov’era il Siclis della
Peutingeriana, e probabilmente il Sicum di Plinio, nel
qual luogo Claudio mandò i suoi veterani. Le viti, e gli
ulivi vi sono così ben coltivati, che da questo breve
tratto d’angusta campagna si trae la maggior parte de’
tredici mille barili di squisito oglio, e de’ cinquanta
mille d’ottimo vino, che (per quanto mi fu detto, e
scritto) formano la rendita media di questi due generi
nel territorio di Traù. Il litorale de’ Castelli, dà anche
buona provvisione di mandorle, trecento mille libre di
fichi, e qualche poco di grano, che non è però il più
ricco prodotto di queste contrade. L’interno del [27]
territorio, che ha quasi cento miglia di circuito nel
continente, produce scarsissima quantità di vino, e forse
niente d’oglio; le greggie, che vi pascolano, danno
insieme con quelle dell’isole soggette alla medesima
giurisdizione intorno a quattrocento mille libre di cacio,
e lane in proporzione. La popolazione di questo paese, è
d’intorno a venti mille abitanti93.

§. 8. Degl’insetti nocivi.
Molti insetti congiurano ai danni d’ogni sorta di
produzioni campestri sotto quella dolce temperatura; e

93 Credo giusto, e necessario il dichiarare, che i dettagli


individuati de’ prodotti, e popolazione del Contado di Traù,
mi sono stati gentilmente comunicati per iscritto dal signor
Pietro Nutrizio, colto gentiluomo di quella città, insieme con
molte altre notizie.
261
di raro avviene, che il rigore del verno ne spenga, o
diminuisca universalmente le spezie per vantaggio
comune. Il più fatale si è il punteruolo dagli abitanti
detto magnacoz. Oltre a quelli, che vivono a spese de’
frutti della terra, ve n’hanno di nemici agli animali, ed
all’uomo particolarmente. Una spezie di tarantola
similissima a quella di Calabria, e di Puglia, v’è
conosciuta sotto il nome di pauk, comune a tutti i ragni,
nell’idioma illirico. I contadini, che nella stagione
ardente deggiono agire in campagna, sono
frequentemente soggetti al morso di questo brutto
insetto, come anche a quello del ragno variegato, di
corte gambe, conosciuto in Corsica sotto il nome di
malmignatto. Il rimedio, cui usano per calmare a poco a
poco, e far poi cessare del tutto i dolori prodotti dal
veleno del pauk, si è il mettere gli ammalati a sedere su
[28] d’una fune non tesa, ben raccomandata da’ due capi
alle travi, e dondolarveli per cinque, o sei ore; rimedio
analogo alla danza de’ tarantolati pugliesi. Questi pauk
di Dalmazia sono irsuti, e tigrati come le tarantole del
Regno, e hanno solamente talvolta qualche varietà ne’
colori; del resto eglino sono d’indole egualmente fiera,
ed audace.
Io conosco molto questa razza di bestiuole malefiche,
perché in molti luoghi ho avuto l’opportunità di
studiarle, e ne ho anche nodrito alcuna volta per qualche
tempo ne’ vetri. Voi ne avrete veduto presso il nobil
uomo signor Giacomo Morosini una, ch’io ho portata di
Manfredonia, pochi anni sono, e che visse molti mesi a
262
Venezia pasciuta di mosche, malgrado alla differenza
del clima.
Aggradite, dolcissimo amico, in questa lunga lettera
un pegno della mia costantissima stima, e tenerezza per
Voi; e se agli studj vostri potete rubar qualche ora di
tratto in tratto, scrivete anche da codeste rimote
contrade ad un uomo, che v’amerà sempre, e non
cesserà di dolersi della fortuna, che gli ha fatto avere
una patria così lontana da quella, cui le virtù, e ’l saper
vostro resero illustre fra noi. [29]

263
A Sua Eccellenza il signor
Giovanni Strange
ministro britannico presso la Serenissima
Repubblica di Venezia,
membro della Società reale di Londra, e d’altre
celebri accademie d’Europa, ec.

DEL CONTADO DI SPALATRO

I l commercio di notizie, che da parecchi anni vi siete


degnato di stabilir meco, vi farebbe avere un diritto
su le osservazioni, ch’io ho fatto pella Dalmazia, se
anche i miei primi passi in quel regno non si fossero
fatti in conseguenza dell’amicizia, e bontà vostra per
me. Ma dovendo io intieramente a Voi l’onore, e ’l
vantaggio d’aver accompagnato in quel regno il
dottissimo, ed amabilissimo mylord Hervey, vescovo di
Londonderry, la continuazione della di cui preziosa
amicizia è uno stimolo sempre presente alla mia
gratitudine, crederei di mancare a un dovere
principalissimo non vi comunicando direttamente una
porzione almeno delle mie osservazioni. Se non vi
conoscessi per quel vero, e profondo filosofo, che
veramente siete, io dovrei arrossire del poco che posso
offerirvi, e trovare all’offerta [30] inopportunissimo il
momento del vostro ritorno da un viaggio orittologico
pell’Alpi svizzere, e pell’Alvernia, d’onde ci riportate
264
tanto magnifici oggetti di meditazioni. Che differenza
dalla Germania, e dalla Francia alla Dalmazia! Oltre a
ciò, che vi si è presentato di grande naturalmente, Voi
avete incontrato cento istruttive collezioni di scelti corpi
appartenenti al regno fossile; e dopo d’averle esaminate,
vi siete portato ne’ più importanti luoghi personalmente
colla sicurezza di non fare le gite indarno. Io all’opposto
ho viaggiato per un vasto paese, dove le scienze poco
sono coltivate, e la storia naturale appena è conosciuta
di nome. Le mie spedizioni si sono fatte alla ventura; io
me n’andai sovente errando come un cieco per vasti
deserti, e per alpestri montagne, colla speranza
d’incontrare qualche cosa, che mi ristorasse delle
fatiche, e trovandomi pur troppo spesso ingannato.
Nulla potei sapere delle produzioni utili, o curiose di
queste contrade, se non quanto cogli occhi proprj ne
potei vedere: né v’ebbe quasi alcuno che abbia voluto, o
saputo dirigere i miei passi piuttosto a una parte che
all’altra. Per tutti questi discapiti sarebbemi mancato il
coraggio di scrivere all’Eccellenza Vostra dettagli
orittologici, se non mi avesse rincorato il sapere che le
osservazioni esatte sopra le cose ovvie, e mal esaminate
dal volgo degli orittografi interessano il vero naturalista
più che le strane, e peregrine sopra fenomeni poco
estesi, che pell’ordinario mediocremente possono
confluire ad appoggiare le universali teorie. Io ho
appreso da Voi molte diligenze nell’osservare, e in
molte mie particolari pratiche m’ha confermato
l’autorevole esempio vostro; quindi come a Voi accadde
265
sovente è anche a me talvolta accaduto di trovare false
di pianta le asserzioni di accreditati scrittori sopra punti
di fatto fisico. Né a Voi, né a me certamente [31] potrà
imporre a segno l’autorità di pochi, o la voce di molti,
che ci renda corrivi nell’asserire le cose non esaminate
cogli occhi nostri medesimi. Non è già per questo, ch’io
stimi deggiano da Voi essere tenute in dubbio le
osservazioni, delle quali io vi rendessi conto
minutamente; né che mi resti veruna incertezza sopra
l’esatta verità di quanto mi comunicate per vostra
gentilezza sovente. È troppo necessaria, e ragionevole la
reciproca fiducia fra gli uomini, che senza spirito di
prevenzione pongonsi ad osservare la struttura de’
monti, l’indole delle acque, degli animali o di qualunque
altra produzione della natura, coll’unica mira
d’investigare il vero.

§. 1. Descrizione degli strati, e filoni del


promontorio Marian. Sbaglio del Donati
rilevato.
Fra le foci del fiume Hyader, ora detto Salona, e
l’imboccatura della Xernovniza, altro fiumicello non
conosciuto forse da’ geografi antichi, stendesi un
promontorio, la di cui punta è formata dal monte Marian
e la base delle radici del Mossor. Costeggiando per mare
colla barchetta questo tratto di paese, io feci più volte
prender riposo a’ miei rematori per esaminare dappresso
le strane modificazioni di materie calcaree disposte

266
lungo quelle rive, con leggi differentissime da quelle,
che i maestri della natura sogliono prescrivere in bei
discorsi su le stratificazioni, pensati e dettati senza
dilungarsi dallo scrittojo. Fra molti luoghi osservabili di
quella costa, fabbricata di varietà, che hanno però
sempre una base argilloso-cretacea, io ne ho fatto
disegnare uno del primo picciolo seno, che trovasi lungo
al lido del medesimo promontorio, dove secondo la
Tavola di Peutingero, era un tempio [32] dedicato a
Diana. Io l’ho creduto meritevole d’occupare il mio
disegnatore. Tav. X.
La sommità del monte AAA è composta di marmo
volgare dalmatino, e di pietra forte lenticolare sparsa di
selci. Vi si vede una grand’apertura fatta dall’acque in
tempi rimoti, quando erano viscere del monte quelle
materie, che or ne compongono la cima; e si riconosce
ancora assai bene l’addentellato degli strati interrotti.
Dalla parte esteriore di queste ripide vette staccansi
tratto tratto gran masse di pietra, a poco a poco divise
dal loro tutto pel segreto lavoro delle piovane, che ne
sciolgono talvolta i fondamenti, e più spesso vi
moltiplicano gli urti progressivamente filtrandosi per
nascosi screpoli, e fenditure de’ marmi, sino a tanto che
arrivino a separarne l’apparente continuità. Non di rado
accade, che le masse rovinate dall’alto, o in
conseguenza del tacito, e lungo rodere dell’acqua, o
pell’impeto troppo manifesto de’ tremuoti, sieno
d’enorme grandezza, ed ingannino gli osservatori
frettolosi, che non s’avveggono della rivoluzione
267
accaduta. Può anche darsi, che gran pezzi di monte
precipitati dall’alto si conservino isolati dopo la
distruzione degli strati, da’ quali furono divisi; ed in tal
caso fa d’uopo avere una sicurezza d’occhio
sperimentata in lunghe osservazioni, per conoscere a
prima vista d’onde siano venuti. Dai vacui restati nella
rupe AAA presero motivo gli uomini negli andati secoli
di formarsi delle abitazioni, chiudendone l’ingresso con
muraglie grossolane. Di questa fatta d’abitazioni sono
quelle, che si vedono segnate BB.
Tutto il corpo del monte, che serve di base alla
descritta sommità marmorea persino al mare, è di
materia dissomigliantissima dal marmo dalmatino, e
istriano volgare; ella somiglia alle terre argillacee
dell’interno [33] de’ monti, che dominano il litorale de’
Castelli di Traù. Questa medesima pasta regna sotto gli
strati marmorei costantemente da Zara fino appiè della
fortezza di Duare, cioè per un tratto di centoquindici
miglia a dritta linea, facendosi anche in varj luoghi
scopertamente vedere per lunghi tratti di paese al mare,
dovunque si scoprono le interiora di monti considerabili.
Sarebbero per certo ingannati quei, che credessero
«l’Istria, la Morlacchia, la Dalmazia, l’Albania, ed
alcuni altri vicini paesi anco fra terra, gli scogli, l’isole,
ed il fondo del mare tutti formati d’un solo masso di
marmo opaco, di grana uniforme, quasi della stessa
durezza, biancastro!»94. Andando innanzi col viaggio
trovasi, che anche lungo ’l Primorye compariscono le
94 Saggio di storia naturale dell’Adriatico. p. VIII.
268
viscere de’ monti ora più ora meno compatte, e strati
immensi di marmo differentissimo dal biancastro
volgare, oltre a’ varj gruppi, e corsi meno estesi di pietre
arenarie, e di marmi pregevoli pella finezza delle loro
paste, o pella varietà de’ colori.
Forse mal si conviene a divisioni così vaghe, ed
eslegi come quelle, che sono rappresentate nella Tav. X,
il nome di strati; e quindi io non userò di questa voce in
onta della mia scompiacenza segreta, quantunque si
trovi consacrata dagli scrittori orittologi accreditati la
contraddittoria denominazione di strati perpendicolari,
che racchiude una manifesta implicanza. Io mi servirò
del nome di filoni, che mi sembra il solo appropriato.
Abbenché la base degli strati, o divisioni inferiori
rappresentate da questa Tavola, sia costantemente di
[34] terra argillosa, eglino hanno però subito così
differenti modificazioni, che meritano un esame
particolare, e minuto. Il filone inclinato CC è di pietra
lenticolare, grigia, marmorea, di grana fina, diviso in
pezzi, che ricevono pulimento quanto ogni altro marmo
calcareo. È di fatti perfettamente calcarea la sostanza di
questa pietra, che di corpi marini lapidefatti è
unicamente composta. Le divisioni DDDD sono di
filoni grigio-ferruginosi di materia simigliante alla cote,
senz’apparenza di corpi marini. Se si tragga dal suo
luogo naturale un pezzo di questi filoni, la continuità de’
quali è divisa in piccioli ritagli, e si esamini colcato
orizzontalmente, vi si distingue chiaramente il corso,
che una volta presero a traverso di quella massa le acque
269
270
cariche di particole ocracee che si deposero a poco a
poco fra gl’interstizj scavatisi nel passaggio, e li
chiusero. Il lavoro di queste acque ferruginose
rappresenta a un di presso l’opera reticolata degli
Antichi; non ha però la medesima solidità, da che
sconnettesi agevolmente cedendo ad ogni picciola forza,
e spesso all’azione dell’acque piovane, che vi passano, e
delle marine, che vi percuotono (Tav. X., Fig. A.). Lo
spazio segnato EE non si può dire propriamente
lapidoso. Egli è d’argilla biancastra, che trae al ceruleo
senza miscuglio d’arena, indurata, che si rompe in
pezzuoli di superficie liscia, e vergata di fluore
piriticoso dendromorfitico. Sembra, che tutta, o per la
maggior parte l’acqua impregnata di parti ferree
disciolte in ocra, e di atometti spatosi, che doveasi
distribuire inzuppando quest’argilla, abbia preso corso,
e corso impaziente d’indugio pell’irregolare cammino
FF, la di cui pasta è divenuta simile a quella del filone
CC. Provano manifestamente la direzione tenuta
dall’acqua ora saturata di particole tartarose, ora
d’ocracee alcune croste [35] GGG di spato candido,
striato longitudinalmente, semi-diafano, che dall’alto al
basso internandosi dividono i filoni minori d’opera
reticolata. Il mare batte furiosamente contro queste
radici del monte Marian poco atte a fargli resistenza, e
le disfabbrica alla giornata. Egli fa il medesimo effetto
su’ massi disequilibrati di lenticolare HHH, ne’ quali
scava buchi di forma ovale, o rotonda. M’è sembrato,
che il sale introdottosi coll’acqua marina insieme sotto
271
alla superficie porosa di questa spezie di pietra, nell’atto
di sprigionarsi ne’ tempi di calma, e di bassa marea
pell’azione dell’aria, e del sole, a poco a poco ne sollevi
picciole squame, e la disciolga in arena. Di questa arena
lenticolare trovasi un deposito nella inferior parte d’ogni
cavità della rupe, ed io non ho mancato di raccoglierne
un saggio. È ben singolar cosa, che questo genere di
petrificazione s’incontri così frequentemente pe’ monti,
che alcuni gran tratti di essi se ne possano chiamare
quasi composti, e non se ne ritrovi peranche l’originale
ne’ mari. Plinio fa menzione d’un’arena lenticolare,
ampiamente stesa ne’ contorni delle famose piramidi di
Memfi, e aggiunge, che si trova della medesima qualità
nella maggior parte dell’Africa95. Fa pur d’uopo che
qualche numero di spezie abitatrici dell’acque si sieno
perdute, o che la Terra abbia subito di strane rivoluzioni,
pelle quali non sieno più sotto i medesimi climi, che in
più lontani tempi le di lei parti. Oltre alle picciole
lenticchie petrose, il monte Marian non [36]
somministra altra petrificazione, che qualche raro
esemplare di quell’elmintolito bianco, compresso,
spirale, col rostro prominente, dal Gesnero chiamato
Corno d’Ammone bianco, minimo, ec.
Le replicate occasioni, ch’io ho avuto di costeggiare
il promontorio del Marian, m’hanno messo in istato di
ben osservare l’indole dei differenti di lui strati, e di dar
95 Harena late fusa circum (pyramides Memphiticas) lentis
similitudine qualis in majori parte Aphricæ. Plin. Hist. Nat.
L. XXXVI. c. 12.
272
il giusto valore allo strano aspetto, che in varj luoghi
presentano. Un breve miglio lontano dal picciolo seno
sopraddescritto, alzasi a piombo il lido scoglioso dalla
superficie del mare forse venticinque piedi, e colla
medesima direzione sprofondasi sott’acqua. La pietra
arenaria giallastro-cenerognola compone quegli strati,
che sono disposti orizzontalmente, quantunque di
lontano sembrino perpendicolari, e dappresso ancora
possano far inganno a chiunque non ha lunga pratica, e
la più scrupolosa avvertenza nell’osservazioni
orittologiche. Io ho udito frequentemente parlare di
strati perpendicolari di formazione marina, e ne ho letto
le descrizioni fatte all’ingrosso in più d’un libro
d’orittografia: ma sino ad ora non m’è riuscito di
vederne in verun luogo, che ben esaminati dappresso
non m’abbiano messo in diffidenza dell’apparente loro
perpendicolarità. Non credo che si debba far conto di
qualche pezzo di montagna rovesciata, ch’è caso
puramente accidentale, qual è in grazia d’esempio il
colle petroso di Salarola, nel tenere di Calaone, fra’
nostri monti padovani. La linea della divisione
orizzontale di questi strati vicini al porto di Spalatro è
quasi impercettibile se siano esaminati di lontano; e
tanto meno si rende osservabile a prima vista, quanto
che o pella inuguaglianza, e sconnessione degli strati
inferiori, o pella filtrazione d’antiche acque il lido
dall’alto al basso è tagliato da larghe fenditure
perpendicolari, che [37] gli danno l’aspetto d’un
aggregato di pilastri. L’erosione degli spruzzi dell’acqua
273
marina divide la superficie esterna di quella pietra
arenaria in areole romboidali, curvilinee, simili a quelle
che si osservano ne’ filoni DDDD Tav. X, co’ quali ha
comune l’origine. La sola riflessibile differenza, che vi
ho veduta, si è, che in queste i canaletti, che
circoscrivono i ritagli romboidali sono concavi, laddove
i filoni DDDD gli hanno prominenti.
La differente positura, o per meglio dire la differente
sezione de’ filoni, che hanno pur la medesima indole,
produce questo diverso fenomeno. Quelli della Tav. X.
soffrono di fronte l’urto de’ flutti; questi più vicini a
Spalatro lo ricevono sull’ampia estensione del fianco,
cui espongono al mare scoperto. La casa di campagna
del sig. conte Capogrosso, deliziosamente situata
sull’altezza della costa, è il confine di questa
combinazione, che resta interrotta da un nuovo seno del
mare, che ha intorno a dugencinquanta piedi di corda.
La di lui curva è scavata in istrati ineguali d’argilla
arenosa, azzurrognola, e giallastra, semi-petrefatta, e in
varj luoghi attraversata da fascie orizzontali di pietra,
che cede fendendosi in ritagli quasi cubici all’azione
dell’aria, e del mare. Il corno ulteriore del picciolo seno
è di rupe arenaria forte, e forma un promontorietto,
dietro a cui internasi un nuovo seno, che ha per confine
un’altra punta quasi affatto marmorea.
Quest’alternazione d’argilla ora più, ora meno petrosa
nelle sinuosità, e di rupe compatta ne’ promontorj, che
costantemente progredisce quasi fino alle foci di
Narenta, gli scoglietti marmorei, che in molti luoghi
274
appariscono fuor d’acqua, o veggonsi poco sotto il
livello ordinario del mare, e l’isole petrose, che
stendonsi lungo il continente della Dalmazia a destra, e
a [38] sinistra del promontorio di Diomede, conservano
siffatti vestigj d’antica continuità, che il pensiero
dell’osservatore non può a meno di lasciarsi andar dietro
a congetture, sulle rivoluzioni sofferte dal nostro globo,
e su i differenti aspetti, che dovettero avere in rimoti
tempi le di lui parti. Nelle acque, che bagnano questo
tratto di litorale, e ricevono il fiumicello di Salona
dovrebbono trovarsi pettini eguali nella grandezza, e
nella squisitezza del sapore a quelli di Metellino, celebri
nelle tavole degli Antichi. Oribasio96 ne fa particolare
menzione; ed aggiunge, che nel mare di Dalmazia
nascono anche le più pregevoli orecchie marine, spezie
nota di lepadi, il condimento delle quali dice essere il
liquore cirenaico, l’aceto, e la ruta.

§. 2. Del porto, della città, della storia letteraria


di Spalatro.
Sulle rive del porto di Spalatro, a destra della città,
stendonsi le numerose abitazioni del borgo, e i ben
coltivati terreni suburbani. Fra di questi merita
particolare menzione il podere destinato alle sperienze,
e alle sessioni della Società d’Agricoltura, eretta con
plausibile esempio, e mantenuta a spese proprie da un
riguardevole numero di que’ gentiluomini, e cittadini. È

96 Oribas. Ad Julian. Imp. l. 2. c. 60.


275
da desiderare, che una così nobile, e laudevole
fondazione non si disciolga inopportunamente; la
provincia ha pur troppo di bisogno, che vi prendano
piede gli studj georgici: da che così la coltura delle terre,
come il governo de’ bestiami è pessimamente inteso
tanto da’ Morlacchi, che da’ contadini litorali. [39]
Appiè delle mura di Spalatro, fuor pelle fenditure
d’alcuni massi di pietra forte conchifera piena
d’echiniti, e di numismali, che non di raro vi si veggono
spaccate orizzontalmente, scaturiscono parecchi rivoli
d’acqua sulfurea, che sovente spargono verso sera una
disaggradevole graveolenza. Eglino conducono seco in
gran quantità filamenti stracciati, candidissimi di fegato
di zolfo. Le pietre, su le quali scorrendo i rivoli mettono
in mare, pochi palmi lontano dalla sorgente, sono tutte
colorite di bianco argenteo, precisamente come lo sono
in Italia quelle, pelle quali scorrono i ruscelli sulfurei
caldi di Sermoneta, prima di perdersi nelle paludi
pontine. Ma questi di Spalatro hanno delle incostanze, e
cangiamenti degni di ogni attenzione.
Il signor Giulio Bajamonti, dotto, e diligente
investigatore delle naturali meraviglie, mi ha assicurato,
che ora sono cariche di sal comune, un altro dì si
trovano gialle, e sulfuree, poi bianche, e calcaree; né
queste variazioni sembrano aver rapporto alcuno alla
varietà dei tempi, o delle stagioni. Il signor dottore
Urbani valoroso medico di Spalatro, e mio pregiatissimo
amico, le ha adoperate con buon successo in varj mali, e
spezialmente cronici. Dall’uno, e dall’altro di questi
276
miei cari amici si denno attendere ulteriori osservazioni,
che saranno certamente degne del loro sapere, e della
loro celebrità.
Il porto di Spalatro è frequentato da vascelli stranieri,
che vi concorrono a caricar merci provenienti dalla
Bossina, come sono il ferro, i cuoj, manifatture di rame,
lane, schiavine, cera, orpimento, cotone, seta, frumento,
ec. D’intorno a quelle rive si osservano le solite varietà
d’argilla mescolata talvolta con arena, e terra calcarea, e
divisa in varj modi da laminette di spato striato,
candido. Nella cerulea [40] semipetrosa mai ho veduto
vestigj di corpi marini, de’ quali trovasi qualche
esemplare nella grigia laminosa. In qualche luogo, e
segnatamente dietro alle case del borgo, v’ha una crosta
tartarosa orizzontale inclinata di poca grossezza, che
corre alcuni pollici sotto alla terra campestre, nella
quale veggonsi presi molti frammenti di testacei
terrestri. Non è possibile il confonderla cogli strati
prodotti dal mare; da che manifestamente si vede, che le
acque eventuali filtrandosi fra terra e terra, e
deponendovi le parti tofacee, ond’erano cariche, l’hanno
formata.
De’ gran residui romani, che formano il pregio più
conosciuto di questa città ragguardevole, io non farò
parola. È bastevolmente nota agli amatori
dell’architettura, e dell’antichità l’opera del signor
Adams, che ha donato molto a que’ superbi vestigj
coll’abituale eleganza del suo toccalapis, e del bulino. In
generale la rozzezza dello scalpello, e ’l cattivo gusto
277
del secolo vi gareggiano colla magnificenza del
fabbricato. Non è già per questo ch’io voglia togliere il
merito a quegli augusti residui del Palazzo di
Diocleziano. Io gli annovero fra i più rispettabili
monumenti dell’antichità che ci rimangano: ma non
vorrei, che gli scultori e gli architetti studiassero a
Spalatro piuttosto che fra le rovine di Roma, o fra i bei
vestigj dell’antica grandezza di Pola.
La cortesia degli abitatori moderni fa ben più onore a
Spalatro che i magnifici avanzi delle fabbriche antiche.
Io vi ricevetti, e in compagnia del nostro
amabilissimo mylord Hervey, e solo, le più ricercate
squisitezze dell’ospitalità.
Que’ reverendissimi canonici usarono la gentilezza di
lasciarci vedere alcuni manoscritti dell’Archivio loro
Capitolare, [41] da’ quali potrebbonsi trarre moltissime
notizie per la storia illirica senza troppa fatica, da che
sono spogli, ed avversarj del Lucio, del Beni, e d’altri
dotti uomini dalmatini.
Fra questi manoscritti trovammo un evangeliario del
VII, o forse anche del VI secolo, assai sufficientemente
conservato. Nella prima carta leggesi il principio del
Vangelo di s. Giovanni in greco, scritto coi caratteri
latini; il copista però si pentì dell’incominciato lavoro
dopo d’averne trascritto due colonne, e lo rincominciò
in latino, servendosi per originale della Volgata.
Questa nobilissima città produsse in ogni tempo
uomini distinti nelle lettere, e nelle scienze. Lasciando
da parte i cronisti de’ secoli barbari, che ci conservarono
278
preziosi documenti, come Tommaso arcidiacono,
Michele spalatino, ed altri, ella vanta ne’ migliori tempi
della risorta letteratura Marco Marulo, di cui molte
opere ci restano stampate, e manoscritte. Io ho
attualmente presso di me un codicetto d’iscrizioni da
esso illustrate, all’autenticità delle quali non si vuol però
dare intera fede; a’ dì nostri s’inventerebbero più
destramente. Fra gli Arcivescovi, che ne occuparono la
sede, merita a titolo di dottrina il primo luogo
Marc’Antonio de Dominis, nativo della città d’Arbe,
che avrebbe lasciato di sé ben più gloriosa memoria, se
si fosse contentato d’essere un uomo distinto nella
fisica, e nelle matematiche, e non avesse voluto troppo
scrivere, e singolarizzarsi in materie di religione. Il suo
opuscolo De’ raggi visuali, e della luce ne’ vetri da
osservazione, e dell’iride, e l’altro cui pubblicò col
titolo d’Euripo, o sia del flusso, e riflusso del mare,
meritano tanto maggior attenzione, quanto che
precedettero di molto que’ celebri filosofi dell’età
nostra, che sono ascesi meritevolmente in riputazione
[42] sviluppando le dottrine medesime, che il dotto
prelato aveva insegnate. Il gran Newton ha reso
giustizia al de Dominis, dall’operetta del quale ha tratto
le prime teorie della luce. Io ho veduto (e un giorno
forse ne pubblicherò alcuna) delle cose inedite di
Marc’Antonio de Dominis, che servono moltissimo alla
storia del di lui spirito. Monsignor Cosmi, che occupò
molti anni dopo il Dominis quella sede arcivescovile,
lasciò una osservabile scrittura sopra la Bolla
279
Clementina, che dovrebbe trovarsi fra i manoscritti del
fu signor Apostolo Zeno nella biblioteca de’ Padri delle
Zattere in Venezia.
Fra Spalatro e ’l fiume Hyader alle radici del monte
Marian stendesi una bella ed amena campagna, che ha
poco fondo di terreno, ed è quindi soggetta all’aridità,
quantunque sembri che non dovess’essere malagevole
cosa l’irrigarla, distraendo l’acque del fiume vicino in
luogo opportuno. I massi, che s’incontrano appiè del
monte, e pella contigua pianura, sono di pietra
lenticolare affatto simile nell’impasto a quella, che
forma il promontorietto HH nella Tavola X: ma molto
più resistente, e sparsa di focaje pur lenticolari.

§. 3. Rovine di Salona.
Per andar a visitare i miserabili vestigj di Salona fa
d’uopo varcare il fiume due miglia lontano da Spalatro a
tramontana su d’un cattivo ponte, ben differente da
quello, che v’avranno costruito i Romani. Esce l’Hyader
dal piè della montagna di Clissa bello e formato, né ha
d’uopo di accessioni avventizie per mettere in mare con
qualche dignità.
Presso alla di lui sorgente trovansi ossa lapidefatte nel
solito impasto di scheggie marmoree, e di terra ferrigno-
petrosa, delle quali conserva qualche esemplare nel suo
palazzo [43] arcivescovile monsignor Garagnini, pio, ed
ospitale prelato, padre dei poveri, e particolarmente
benemerito della storia naturale pell’accoglienza fatta
all’amico mio signor Martino Brunnich pubblico
280
professore a Coppenhague, che in segno della sua
gratitudine gli ha dedicato un opuscolo sopra i pesci
dell’Adriatico97.
La città di Salona, che fu sì grande e prima, e dopo
d’aver subito il giogo romano, è adesso un meschino
villaggio, che conserva poco riconoscibili avanzi
dell’antico splendore. Fa d’uopo, che i due ultimi secoli
abbiano distrutto ciò, ch’era sfuggito alla barbarie delle
nazioni settentrionali, che la rovinarono. Io trovo in una
pregevole relazione manoscritta della Dalmazia, scritta
dal senatore Giambattista Giustiniani intorno alla metà
del XVI secolo un cenno di quanto vi sussisteva in quel
tempo.
«La nobiltà, grandezza, e magnificenza della città di
Salona si comprende dai volti, ed archi del teatro
meraviglioso, che oggi si vedono, dalle grandissime
pietre di finissimo marmore, che sono sparse e sepolte
per quei campi; dalla bella colonna fatta di tre pezzi di
marmore, la quale sta ancor in piedi nel luogo, dove si
dice ch’era l’arsenale verso la marina; e dai molti archi
di meravigliosa eccellenza sostentati da colonne
altissime di marmore, la cui altezza è un tirar di mano,
sopra li quali v’era un acquedotto che conduceva da
Salona a Spalatro... Si vedono d’appresso diverse
rovine, e vestigie di gran palazzi, e in molte bellissime
pietre di marmore si leggono epitafi antiqui: ma il
terreno ch’è [44] cresciuto ha sepolto le più antique
97 Martini Th. Brunnichii, Ichthyologia Massiliensis, et Spec.
Ichth. Hadr. etc. Hafniæ et Lipsiæ. 1769. in-8.
281
pietre, e le più belle cose».
Gli abitanti del villaggio, che sorse dalle rovine di
Salona, traggono pur troppo spesso di sotterra iscrizioni,
ed altri lavori d’antichi scalpelli: ma la costoro
ingordigia è così proporzionata alla barbarie, ch’eglino
preferiscono il rompere, e guastare ogni cosa al ritrarne
un discreto prezzo. Io ho tentato di salvare alcune belle
lapide nuovamente scoperte dalle triste mani d’un
villano, che ne avea di già guaste molte altre, delle quali
vidimo i rottami, per farsi delle imposte di finestre, e di
porte: ma la di lui avidità ruppe i miei disegni per allora,
e mi dovetti contentare di ricopiarle.
Un gran numero d’iscrizioni salonitane non
pubblicate ha raccolto un diligente cittadino di Spalatro,
dalla di cui cortesia io non ho potuto ottenerle. Egli le
destinava all’illustratore di quelle, che per la maggior
parte deformate si trovano nel vol. II dell’Illirico Sacro;
e tanto meno ardisco dolermi, che mi sia stato preferito
il celebre uomo, quanto più sono lontano
dall’impegnarmi ad illustrarle diffusamente, cosa che mi
allontanerebbe dall’oggetto mio principale. Io avrei
forse trascurato del tutto i residui antichi, se l’esempio
rispettabile del signor de Tournefort non m’avesse dato
coraggio di farne menzione alla sfuggita. L’aver poi
conosciuto quanto facilmente traveggano, e scrivano
cose ovvie, o puerili coloro, che si mettono a far
gl’illustratori di antiche cose senz’aver fatto di
proposito, e a lungo studj antiquarj, mi ha persuaso a
metter tutta questa messe fra le mani del dottissimo, ed
282
eruditissimo amico mio, il conte abate Girolamo
Silvestri di Rovigo, come farò di quanto ne’ viaggi miei
potesse cadermi sotto gli occhi d’antico. [45] Il pericolo
quotidiano di essere distrutte minaccia tutte le cose di
questo genere, che trovansi sparse pella Dalmazia; ed
anche pella Dalmazia; ed anche per una sì lagrimevole
ragione mi sono creduto in dovere di parlarne. Io spero,
che Voi ben lungi dal condannarmi, approverete la mia
diligenza, che spargerà forse un poco di varietà non
disaggradevole nel mio scritto, reso pur troppo
stucchevole dall’aridità delle materie orittologiche.
Se le lagrimevoli macerie di Salona non bastassero a
precisamente determinare il sito, dov’ella sorgeva stesa
in riva del mare, ce lo avrebbe assai chiaramente
indicato Lucano:
Qua maris Adriaci longas ferit unda Salonas,
Et tepidum in molles zephyros excurrit Hyader.
Dev’essere stato guasto il testo di Cesare, che mette
Salona in edito colle; non si può credere altramente, da
ch’egli dovea ben conoscere la vera situazione di que’
luoghi.
Questo fiumicello, che non corre più di tre miglia,
incappandosi tratto tratto in banchi tofacei, nodrisce
nelle sue grotte muscose una squisita spezie di trote. Di
qui prese motivo alcuno autore, ben più giusto
apprezzatore dei bocconi ghiotti che delle azioni de’
grand’uomini, di lasciarci scritto, che Diocleziano
(facendo peggio d’Esaù) rinunziò al piacere di
comandare a quasi tutta la terra allora cognita, per
283
mangiarsi tranquillamente di que’ pesci a crepapancia
nel suo magnifico ritiro di Spalatro. Io non so se a
Diocleziano piacesse il pesce, come gli piacevano gli
erbaggi, ma credo, che anche per un uomo non ghiotto
Spalatro dovess’essere un delizioso soggiorno; e per
crederlo più fermamente m’immagino rivestita di
antichi boschi la vicina montagna, che pell’orrida sua
nudezza riverbera a’ tempi nostri un troppo insofferibile
[46] caldo ne’ giorni estivi. È ben chiara cosa, che un
accesso di buona filosofia, e forse un tratto di giudiziosa
politica sia stato il motivo della ritirata di Diocleziano.
Egli visse dieci anni in quiete a Spalatro, e forse
avrebbevi goduto di più lunga vita se le lettere di
Costantino, e di Licinio non fossero venute a
inquietarlo. Ad onta di tutto il male, che di questo
imperadore dalmatino hanno lasciato scritto
ricopiandosi l’un l’altro gli autori cristiani, forse più pii
che imparziali, e veridici, fa d’uopo confessare, ch’egli
fu un uomo di merito sommo, salito al trono senza
macchiarsi di sangue civile, condottovi dalle proprie
virtù, e che dopo vent’anni d’impero diede per
avventura il maggior esempio di moderazione filosofica,
che sia mai stato sentito al mondo. Io conto per distinto
pregio di Diocleziano l’essere stato lodato da Giuliano
ne’ Cesari, che l’avrebbe certamente punto se avesse
potuto farlo.

§. 4. Della montagna di Clissa, e del Mossor.


A destra dell’Hyader sorge la montagna che
284
comunemente porta il nome di Clissa, dalla fortezza,
che le sta su d’un fianco. La di lei ossatura è della
medesima pasta, or grigia, or azzurra, incostante nella
durezza, ch’io ho più sopra descritta, e nell’andatura
degli strati. I massi rovinati dalla sommità, che
s’incontrano per la via, sono ora di marmo dalmatino
volgare, or di durissima breccia ghiajosa, or di pietra
forte lenticolare.
È molto curioso l’aspetto di alcuni strati, che
compongono una falda prominente del monte Mossor in
fianco del cammino di Clissa, a sinistra del profondo
vallone, per cui scorre l’Hyader. Eglino presentano agli
occhi di chi gli osserva da lontano molte divisioni, che
descrivono segmenti di cerchio posti l’un sopra [47]
l’altro coll’estremità volte all’insù, diametralmente
all’opposto di quanto suolsi ordinariamente osservare
dell’indole degli strati curvi. Chi volesse giudicarne di
lontano sarebbe mal avveduto, e arrischierebbe di darne
qualche pazza spiegazione; come pur troppo sogliono
fare anche i maggiori naturalisti, allorché vogliono
dicifrare qualche strano fenomeno dopo un’ispezione
superficiale, o sulle altrui relazioni: come quel
galantuomo, che scrisse dell’istoria naturale dell’Alpi
svizzere, senz’esservisi mai portato a viaggiare.
L’erezione dell’estremità degli strati del Mossor è un
inganno fatto all’occhio dalla distanza, e dalla inferiorità
del sito, su del quale stando si possono osservare. Io gli
avea creduti, nel primo viaggio che vi feci, uno di quegli
scherzi, de’ quali l’antico mare ha lasciato le
285
impressioni nascoste nelle viscere de’ monti, e cui il
tempo, e i torrenti scoprono talvolta per tormentare il
cervello degli orittologi. Ma l’aspetto lontano m’avea
ingannato. Le apparenti estremità de’ semicircoli non lo
sono di fatto, ma sono bensì punti della circonferenza di
quegli strati scoperti, e isolati dalle acque eventuali, che
dalla sommità sino al piede dell’accidentale collina
stanno orizzontalmente colcati l’un sopra dell’altro. Lo
scoglio isolato, su del quale sorge Clissa, è per la
maggior parte di breccia marmorea, la di cui origine è
submarina, da che fra un sassolino e l’altro trovansi
presi corpicelli marini isolati. I sassolini poi medesimi,
che formano quella breccia, racchiudono delle
lenticolari molto anteriori di data all’impasto petroso,
nel quale adesso si trovano. La base dello scoglio è di
cote, corrispondente alla già descritta delle marine di
Spalatro; e fra di essa e ’l marmo corre un filone
incostante di pietra calcarea soda, piena di testacei
calcinati, e sovente zeppi di terra bituminosa lapidefatta.
[48]
Anche nella breccia vedesi qualche pietruzza nera,
figlia di lontani, e antichi vulcani. Riesaminando da un
sito egualmente alto la prominenza di questo colle si
vede, ch’ella è stata divisa in parte dal resto della
montagna, e che i di lei strati vi corrispondono nella
direzione non meno, che nella sostanza. Gli strati arcuati
continuano ad ingannar l’occhio sino a che l’osservatore
non si metta a portata di vederli orizzontalmente; allora
l’illusione sparisce.
286
La fortezza di Clissa è fuor d’ogni dubbio l’Ἀνδήριον
di Dion Cassio, e ’l Mandetrium di Plinio. Il primo di
questi due antichi scrittori descrivendone l’assedio, e
l’attacco sotto il comando di Tiberio, circostanzia
minutamente la situazione di esso, dicendo «che non vi
si trovava dappresso pianura di sorte alcuna, che il
monte era inaccessibile, ripido, trinciato da burroni».
Aggiunge che «Tiberio dopo d’aver veduto riuscir vani i
replicati rinforzi, che dagli accampamenti di Salona
salivano per sostenere i Romani, fece sfilare un corpo di
gente per sentieri dirupati a guadagnar le altezze, che
dominavano Anderio; per lo qual consiglio furono
gl’Illirj tolti in mezzo, e la fortezza costretta a
capitolare»98. Ora Clissa è di fatti poco tratto di
cammino sopra Salona, fabbricata su d’una rupe
inaccessibile, circondata da burroni, e botri, dominata
dalla sommità della montagna. Plinio parla di Mandetrio
come d’un luogo nobilitato da fatti d’arme. Clissa lo è
stata pur troppo anche ne’ tempi vicini a noi; e lo
sarebbe di nuovo, ogniqualvolta il flagello della guerra
desolasse la Dalmazia, [49] così portando la sua
situazione sopra d’un passo angusto, e importante.
Lo Spon riferisce ne’ suoi viaggi un’iscrizione trovata
a Clissa, da lui veduta a Traù, dov’è fatto menzione di
ripari fatti alla strada da Salona ad Andetrio.

98 Dio Cass. Lib. 55.


287
§. 5. Del paese abitato da’ Morlacchi fra Clissa,
e Scign; della valle di Luzzane, e del Gipàlovo
Vrilo.
Per passare oltre Clissa dieci o dodici miglia
nell’interno della provincia, attraversammo un paese or
alto, or basso, ma quasi sempr’egualmente aspro, e poco
abitato. I rompicolli della Clapaviza, la discesa di
Cozigne-Berdo, la valle Draçaniza sassosa, ed
incoltivabile quantunque piana, e la montagna della
Crisiza sono tratti d’orrido deserto capaci d’intiepidire
qualunque fervido viaggiatore naturalista. Tutto il
pendio vi è di marmo pericoloso pe’ cavalli, che a fatica
ponno sostenervisi; tutta la valle è disastrosa pelle
spesse roccie dispostevi in taglio che ne formano il
pavimento. Pochi cespi d’alberi mal nodriti, e molti
spini, da’ quali riceve il nome di Draçaniza 99, fanno un
peggior effetto che non farebbe la nuda orridezza,
perché impacciano, e rendono più incomodo quello
spiacevole cammino.
Appiè della montagna di Crisiza giace la bella valle
di Dizmo, che ha buoni pascoli, e non infecondo
terreno, e gira quasi dieci miglia all’intorno, tutta
circondata di monti. Ella non è coltivata, come potrebbe
esserlo, perché i Morlacchi sono assai lontani
dall’intendere [50] la buon’agricoltura, ed anche la
mediocre. Da Dizmo per Xenski-Klanaz, indi pel monte
di Mojanka, poscia finalmente per Cucuzu-Klanaz si
99 Draça, spina, e più particolarmente paliuro.
288
discende nell’ampia, e bella campagna di Scign, ch’è
irrigata dal Tiluro, detto adesso Cettina; tratto di paese
di cui dovrò riparlare laddove renderò conto delle
sorgenti, del corso, e delle foci del fiume, dal qual ebbe
altre volte la denominazione di Contado di Cettina.
Non è rara cosa internandosi nel paese abitato da’
Morlacchi, il trovare monti, laghi, e contrade, che
conservano nel nome loro la memoria di qualche fatto
seguitovi. Di questa fatta sono la strada detta Xenski-
Klanaz100, e il monte, che si chiama Mojanka. V’ha una
canzone, conservata tradizionalmente fra’ Morlacchi di
que’ contorni, che narra il caso dolente d’uno, a cui fu
rubata l’amante, che avea nome Anka. Egli la cercò in
tempo di notte per tutto il monte chiamandola, e
gridando ad alta voce moja Anka, vale a dire Anka, o
Annuccia mia; quindi la montagna ebbe il nome che
ancora le resta. Varj luoghi vicini portano nomi relativi
ai diversi punti di questa storia.
Dopo una giornata di fastidioso cammino per sì
aspro, e mal abitato paese giunsimo a Scign, fortezza
poco lontana dal fiume Cettina, di cui parlerò in altro
luogo più acconcio.
Non volendo rifare la medesima strada, in partendo
da Scign per ritornare a Spalatro, si può prendere il
cammino di Radossich, ch’è un po’ più verso
tramontana che la Mojanka: ma prima di seguirlo
direttamente il naturalista vorrà declinare alquanto fuor
[51] di mano per andar a vedere la valle di Luzzane, e il
100 Xenski-Klanaz: il passo angusto della donna.
289
botro detto Gipàlovo-Vrilo. In questi luoghi separati dal
mare per mezzo d’una vasta catena di montagne, che ha
ben sedici miglia di largo, trovansi le più riconoscibili
prove dell’antica sede dell’acque marine, e forse prove
non meno incontrastabili dell’abitazione d’uomini sugli
strati, che adesso s’internano nelle radici de’ monti.
La valle di Luzzane è fiancheggiata da umili
collinette, dette glàvize in lingua illirica. Queste
giacciono alle radici d’un alto monte petroso, e sono
formate di terra marina sterile, or biancastra or azzurra,
disposta in regolarissimi strati, e piena zeppa di
turbinati, e in alcun sito di bivalvi marini candidi,
lucenti, semicalcinati, esotici. Sulla superficie esteriore
d’un quadrello non più largo, che quattro dita io ne ho
annoverato oltre quaranta, della spezie, e grandezza
medesima. Tutti gli strati però non ne hanno un’uguale
abbondanza, come non sono tutti della medesima
consistenza, e colore. In alcuno di essi trovasi presa
dell’alga marina, e qualche pagliuzza di carbone d’erbe
bruciate. La differenza più riflessibile, che fra queste
varietà di terre marine si osservi, è la massima
inuguaglianza del peso. Di due pezzi eguali di volume,
presi da due strati differenti, e pieni di corpi marini
quello che contiene pagliuzze di carbone pesa la metà
meno, e ricorda le pomici cineree de’ vulcani,
quantunque non ne mostri al di fuori la porosità.
Quelle pagliuzze incarbonite, non sono già
impregnate di bitume; elleno sfarinansi, e tingono di
nero, come il carbone di paglia de’ nostri focolari. Mi
290
risovviene d’avere osservato piccioli carboncini simili
in una terra bolare verde-ferrigna, che trovasi fra le [52]
materie vulcaniche del monte Berico presso Vicenza.
Gli strati di terra mediocremente indurata delle
collinette di Luzzane sono così ben divisi da linee
orizzontali inclinate, che di gran lastre piane, come
quelle dell’ardesia o lavagna tegolare, ne potrebbono
essere asportate. I canaletti, che le acque piovane si
sono scavati sul dorso di queste colline per iscendere
unite nella valle, lascian vedere al di fuori la tessitura
loro interna, e la disposizione, e colore degli strati.
Andando mezzo miglio più oltre verso le angustie
della valle s’incontra il letto del torrente detto
Gipàlovo-Vrilo, vale a dire fonte della famiglia di Gipal;
questi porta seco grandissima varietà di materie.
V’hanno fra le sue ghiaje delle piriti, dell’etiti
conchifere, nelle quali i corpi marini presi restarono
candidissimi, e perfettamente resisterono al ferro
disciolto. Vi si trova quantità di selci nere, e d’ogni altro
colore; pezzuoli d’agate finissime piene di corpi marini;
ciottoloni di cote, di breccia, e varie spezie di marmi
semplici calcarei portate da’ monti superiori. Oltre a
tutte queste produzioni di monti minerali, e marini
v’hanno infiniti pezzi di lave compatte, pesanti or nere,
or grigie, e carbon fossile, e terra bituminosa scissile,
nera quanto il gagate, piena di corpi marini
bianchissimi. Varj filoni orizzontali inclinati di questa
terra compariscono dapprima lungo l’alveo del torrente,
avendo sopra e sotto di sé altri strati di terra marina
291
poco compatta, e pur piena comunemente di testacei.
Passando più oltre, l’alveo che va ristringendosi, è in
più d’un sito totalmente scavato nella terra bituminosa:
ma pell’ordinario i filoni sono alternati. Come sopra le
collinette della valle di Luzzane sorge un monte petroso,
così sopra gli strati divisi dal Gipàlovo-Vrilo s’alza un
monte maggiore, composto delle varie materie, [53] che
il torrente conduce seco nelle gran piene. All’ultimo
confine della terra ampelitica, che finisce di lasciarsi
vedere sotto a una cateratta del torrente, e a varj massi
ferruginosi caduti dall’alto, trovansi le radici, e il tronco
d’un albero incarbonito, che ha tre piedi di
circonferenza. Egli stava tuttora, quando io fui colà,
nella positura sua naturale, e dal di lui piede vedevansi
partire le radici perfettamente intere sino alle minime
diramazioni.
Io ne ho meco portate alcune, che somigliano alle
silique del carrubbio nella figura, ma sono incarbonite, e
d’una lucidissima nerezza. La particolarità, che
distingue questo tronco incarbonito dalla gran quantità
di legni fossili, che si trovano pelle montagne, si è
l’essere stato tagliato poco più d’un piede sopra le radici
da un’accetta, o altro simile stromento, prima, che lo
coprissero gli strati marini. Il replicato esame fatto sopra
della di lui situazione, e sopra ’l di lui stato attuale mette
fuor di dubbio quest’antica verità. I filoni di terra
marina divisi dal torrente corrono regolarmente oltre
due braccia più alto del sito occupato dalle radici, e dal
pedale. Questo ha dei falsi tagli, ne’ quali s’è insinuato
292
il bitume. Egli era poi anche mezzo sotterrato, allor
quando colle mie proprie mani cavando la terra io l’ho
messo a netto, condotto a ciò fare dal sospetto, cui
m’avea ispirato la naturale situazione delle radici.
Lascio decidere a chi sa più di me da quanto antica
accetta sia stato tagliato quell’albero, di cui ci restano
conservati i residui, e in quali tempi abbiano dominato
su que’ terreni l’acque d’un mare adesso lontano da noi,
che vi ha deposto una così prodigiosa quantità di
testacei stranieri.
Il carbon fossile, e la terra ampelitica del Gipàlovo-
Vrilo, quantunque lontani parecchie miglia dalle marine,
[54] potrebbono divenire generi utili, se non ad altro,
alla distillazione della rachìa, che porta fatalissime
devastazioni ai boschi del litorale.

§. 6. Della montagna Sutina, e luoghi aggiacenti.


Ripigliando il cammino, onde ritornare a Spalatro,
piegammo alquanto più a tramontana per non rifare la
strada medesima, dalla quale eravamo venuti.
All’intorno di Radossich veggonsi rovine di montagne
sfaldate, e massi di marmo isolati fuori del sito loro
naturale; essi posano sopra strati di terra marina, ma non
sarebbe agevole l’indovinare se vi siano caduti ne’
tempi, che le acque coprivano que’ luoghi, e dopo il loro
ritiro per qualche tremuoto. Molta varietà di corpi
marini trovasi fra queste rovine, e lungo le radici della
montagna di Sutina nel profondo letto del torrente, che
le va rodendo, v’è volgare la breccia minuta, pezzata di
293
nero, né v’è raro il bardiglio, il bigio, il bianco e nero, e
il persichino. Questa montagna, che ha pur le sommità
di breccia composta di ghiaje fluitate, ha la parte di
mezzo composta d’ardesia calcareo-micacea, di varie
durezze, e gradi di colore rossiccio più conveniente a’
monti minerali, che a’ calcarei. In uno strato di
quest’ardesia, che fendesi in lamine sottilissime, e
oltremodo fragili, ho veduto dell’impressioni di telline.
Varcata questa montagna trovasi Hamuch, o Mutch
superiore, picciolo casale fabbricato sulla breccia
madrosa, e poco atta a lavori nobili. Colà vidi
accumulate molte lastre di marmo, o ardesia tegolare
calcarea, portate da non so qual luogo de’ monti
superiori. In alcune di queste stanno presi, e petrificati
gusci di vermiculiti, e rami di madrepore; altre sono un
[55] impasto di telline, e d’anomie profondamente
striate, simili a quelle, che non di raro trovansi
lapidefatte ne’ monti del Veronese101. Un pezzo di
questo marmo tegolare, ch’io ho portato meco, fatto
pulire divenne un bardiglio, cupo lumachellato, sparso
di stelle bianche, le quali altro non sono che sezioni
orizzontali di picciole asterie colonnari angolose102. Una
delle superficie di questo marmo nel suo stato naturale
mostra le conchiglie petrefatte prone, l’altra solamente
le loro impressioni concave.

101 Helmintholithus anomiæ deperditæ, novemstriatæ. Linn.


Syst. Nat. III. p. 163.
102 Helminth. Isidis Asteriæ. Linn.
Asteria columna angulis obtusis. Scheuchz.
294
Sotto il casale v’ha una mediocremente estesa
campagna, cui attraversai per andar a leggere
un’iscrizione disotterratavi pochi mesi addietro.
La più osservabile cosa, ch’io abbia colà veduto,
furono de’ gran massi di breccia macchiata di
pagonazzo, e d’altri bellissimi colori. Superbe colonne,
e magnifici monumenti potrebbonsene lavorare, se il
luogo fosse meno lontano dal mare, o più praticabili le
strade intermedie. A Roma si vede impiegata una
breccia antica similissima a questa nelle opere più
riguardevoli; e gli scalpellini la conoscono sotto il nome
di breccia corallata. Chi sa, che negli andati secoli un
paese tanto abitato da colonie romane, e frequentato
dalle milizie non avesse delle strade comode, di cui
adesso abbiamo perduto ad un tratto i vestigj, e la
memoria?
Ghisdavaz, e Prugovo sono due valli, attraverso [56]
delle quali ci condussero le nostre guide per rimetterci
su la via di Clissa. La loro figura è circolare, e tutto
d’intorno sono chiuse dai monti. Parrebbe, che
dovessero avere profondo e pingue terreno: eppure la
non è così. Elleno sono piane, ma così povere di terra, e
ricche di roccie taglienti, che sembrano sommità
d’antichi, e nudi monti avvallate per mancanza di
fondamenti. Di sì fatti avvallamenti sogliono accadere
nelle regioni cavernose, per di sotto alle quali scorrono
fiumi; e perdonsi le acque raccolte da una vasta
superfizie. L’ampia valle di Prugovo si trasforma
sovente in profondissimo lago nel tempo d’inverno, e a
295
poco a poco resta asciutta sul finire di primavera. Il
fiume di Salona, ch’esce già formato dalle radici del
monte, e quello de’ mulini di Traù devono
probabilmente l’origine e gli accrescimenti loro alle
acque, che si sprofondano da questa, e simili valli
sotterra.
§. 7. Delle rovine d’Epezio, e de’ petrefatti che si
trovano in que’ contorni.
Sei o sette miglia lontano da Spalatro verso levante, e
tre miglia da Salona trovansi i residui dell’antico
Epetium, colonia degl’Issei. Il luogo chiamasi adesso
Stobrez. Per andarvi per terra da Salona si passa vicino a
varj archi dell’acquedotto di Diocleziano, dal volgo
chiamati Ponte-secco, e sotto d’un masso isolato detto
per eccellenza Kamen103, che portò in altri tempi qualche
fortino, come da’ vestigj di muraglie che vi rimangono
si può dedurre.
La situazione d’Epezio era bellissima. La città
sorgeva [57] in riva al mare; ma su d’un piano assai
superiore al livello dell’acque. Il bel fiumicello di
Xernovniza104, di cui non ho saputo finora trovare il
nome presso gli antichi geografi, mette foce nel di lei
porto, capace di molti navigli pella sua ampiezza, ma
reso di basso fondo a’ giorni nostri, forse
dall’importazione del fiume abbandonato a se stesso. La
103 Kamen, sasso.
104 Xarnovniza ha il nome da Xarn, che significa in lingua
illirica mulino.
296
campagna vicina, quantunque poco ben coltivata, è
deliziosa. I Turchi v’aveano stabilito delle saline: ma il
cangiamento, che ha fatto il paese passando dal giogo
ottomano al dominio veneto, ne ha portato con sé
l’abbandono. Non è però uliginoso e insalubre quel
tratto di pianura, ch’era dalle saline occupato; egli invita
qualche mano intelligente a farvi prova di quanto vaglia
l’acqua perenne del fiumicello vicino, la dolcezza del
clima, l’apricità della plaga.
Veggonsi ancora lungo le rive del picciolo porto di
Stobrez, riconoscibili vestigj delle antiche mure
d’Epezio, ch’erano fabbricate bensì di solidi materiali,
ma senza quella squisitezza di connessione, che si
ammira nelle fabbriche romane. Un sotterraneo
condotto, di cui sussiste nel suo primiero stato la bocca,
e che s’interna ben addentro sotto le rovine nascose
della città, mostra d’aver servito negli antichi tempi a
scolarne le acque. Vicino alla chiesa parrocchiale, ch’è
un buon quarto di miglio lontana dalle rive del porto, si
osservano le fondamenta d’una torre, che fiancheggiava
Epezio da quella parte; e la chiesa medesima è stata
eretta su’ fondamenti delle antiche mura. Io mi [58]
lusingava di trovarvi qualche pregevole iscrizione greca,
e non mancai di frugare con quest’oggetto per ogni
angolo del villaggio; tutto fu vano. Vi si vedono de’
rottami di lapide latine affatto spregevoli. Io mi dovetti
contentare di ricopiarne una sola intera, che vi ho
rinvenuta nel pavimento della chiesa. È probabile che da
quegli abitanti me ne sia stata nascosta qualche altra;
297
eglino sono abitualmente in sospetto del forastiere, e
particolarmente dell’italiano; né per dir il vero hanno
sempre il torto.
Il fiumicello di Xernovniza non viene di molto
lontano. Egli ha piccioli principj fra Squercich e
Dubrava dalle falde del monte Mossor; fa una cascata
non molto lontano dalla sua fonte, indi gira varie ruote
di mulini; e dopo un corso di cinque miglia mette in
mare non ignobilmente. Le di lui acque nodriscono
pesci di squisito sapore; e quelli del mare amano di
nuotare d’intorno alle sue foci. Quindi gli abitanti di
Stobrez usano d’andare scalzi diguazzando pel porto ad
una pesca, cui si dovrebbe ragionevolmente dare il
nome di caccia, da che vi s’inseguono, feriscono, ed
infilzano i pesci con ispuntoni armati di ferro. Io volli
portarmi alla villetta di Xernovniza sì per esaminare un
poco il corso del fiume, come per vedere delle
iscrizioni, che si veggono colassù in una chiesa, per
quanto mi fu detto a Stobrez. Il viaggio è di tre miglia
poco più. La prima collina, ch’io dovetti varcare, mi
fermò per la quantità innumerabile di nummali sciolte,
onde ha coperte le falde; io ve ne raccolsi buon numero
di perfettamente intere, e di grandezza osservabile. Se
ne trovano di compresse, e anche colla spirale esteriore;
fra di esse si raccolgono frammenti d’ostraciti
lapidefatti, ed elmintoliti rostrati simili alle Corna
d’Ammone bianche, di quella medesima spezie, ch’è
[59] assai ovvia fra le argille di Brendola, e di Grancona
nel Vicentino.
298
I fanciulli del paese mettono la carestia di esemplari
ben conservati sì delle nummali, che degli elmintoliti,
raccogliendoseli pe’ loro giuochi. Eglino sanno anche il
vero momento della raccolta, né mancano di portarvisi
subito dopo le gran pioggie. Così ne’ monti padovani fra
le vette di Venda e di Rua sogliono le fanciulle
raccogliere gli entrochi, o asterie colonnari, che vi si
trovano in quantità dopo lo squagliamento delle nevi,
per gettarli sul fuoco di nascoso, e godere della
sorpresa, e talvolta della paura, cui mette negli astanti il
loro crepitare improvviso simile a quello del sal marino.
Io mi portai due volte espressamente colassù, e ben
m’avvidi dalla scarsezza della raccolta, che molte mani
m’aveano prevenuto.
Il monte squarciato dall’acque della Xernovniza è di
pietra arenaria, ora grigia, or azzurrognola, senza vestigj
apparenti di petrificazioni. La sponda sinistra del
fiumicello è dirupata, orrida, impraticabile; l’altra è
coltivata, o almeno piantata di viti, e fichi
particolarmente. L’insetto nemico a quest’ultima spezie
di frutto v’era così prodigiosamente propagato, che su
d’un solo fico poco più grande d’una noce comune io ho
contato oltre settanta galle nuove, e su d’una foglia sola
ne ho contato centocinquantasette; i rami poi n’erano
tutti coperti.
Arrivato alla villetta di Xernovniza, e arrampicatomi
sino alla casa del curato nello stato d’un uomo, che
aveva camminato di state in fretta, sotto la sferza del
sole ardente, all’ora di mezzo giorno, per una via ripida
299
e sassosa, gli feci esporre dalla benemerita guida il mio
desiderio, non osando farlo da per me stesso, per timore
d’offendere il di lui orecchio nel pronunziar [60] male
alcune poche parole illiriche. L’inospitale, e sospettoso
uomo negò assolutamente d’aprire la chiesa, né volle
cedere alle preghiere, che replicatamente gli furono fatte
colla maggior umiltà possibile. Egli non rispose mai
altro, che nechiu, «non voglio», a quanto gli poté dire la
guida, ed io balbettare. Quest’asprezza di procedere, mi
fece perdere la pazienza; non mi vergognai più a parlare
illirico, e proruppi nell’andarmene in un catalogo così
ampio di titoli contro di quell’uomo ferreo, che credo
d’avervi fatto entrare, oltre gli strapazzi mascolini,
anche le villanie, che si dicono alle donne. Il buon
curato mi lasciò gracchiare, e si chiuse nella sua
capanna pacificamente. Questo fu il primo, e il più
solenne, anzi quasi il solo esempio d’inospitalità, ch’io
abbia incontrato in Dalmazia: ma io vi sono stato così
sensibile, che non ho potuto a meno di farne particolare
memoria.
Guardivi il Cielo, o Signore, dall’incontrare così duri,
e scortesi uomini pelle montagne, che andate visitando,
e dalle quali recherete un gran numero d’importanti
notizie ed osservazioni francesi, e germaniche in
qualunque altro viaggio, da cui avrà sempre ragione
d’attendere la repubblica de’ naturalisti! Io aspetto
avidamente, il ritorno vostro a queste contrade, come
d’un soggetto a cui mi legano indissolubilmente la
venerazione, ch’io ho pella solida virtù, e il vincolo
300
degli studj comuni, per cui v’amo, ed ho in pregio fra
tutti gli orittologi a me noti, niuno de’ quali vi può stare
a fronte pell’acutezza della vista, pell’esattezza degli
esami, pella determinazione coraggiosa, e
pell’infaticabilità cui portate ne’ viaggi montani. [61]

301
Al chiarissimo signor
Giovanni Marsili
PROFESSORE DI BOTANICA NELL’UNIVERSITÀ
di Padova,
membro della Società reale
di Londra, ec.

DEL CORSO DELLA CETTINA, IL TILURUS


DEGLI ANTICHI.

D istraetevi un poco dalle indefesse occupazioni


vostre botaniche, dottissimo ed amatissimo amico,
e viaggiate meco lungo le sponde mal conosciute d’un
fiume in altri tempi frequentato da valorosi soldati
romani trasportativisi in colonia. Io v’invito a valicare le
aspre montagne, che separano dal mare le belle contrade
interiori della Dalmazia nell’età nostra dai Morlacchi
abitate: ma con assai meno disagio di quello, ch’io ho
pur alcuna volta sofferto in varcandole. Amatore come
Voi siete d’ogni genere di studj, non leggerete forse
senza qualche diletto i varj dettagli, che dalle fonti alle
foci del Tiluro anderete a destra e a sinistra del cammino
vostro incontrando; né vorrete farmi una colpa di
qualche discreta digressione, alla quale dall’analogia
delle materie mi sono lasciato talvolta condurre. Ho
studiato di non riuscire stucchevole: [62] ma se lo fossi
divenuto a mio dispetto, e senz’avvedermene, non avrò
302
per male che gettiate questa mia lettera lungi da Voi. Io
intendo pienamente quanto ingiusta cosa sarebbe che
fosse procurata noja, e perdita di tempo prezioso ad un
uomo di merito qual Voi siete veramente per comune
consenso riconosciuto in Italia, e ne’ più colti, e da noi
rimoti oltramontani paesi. Le vostre ore sono preziose
alla repubblica dei dotti; quindi è ch’io non aspiro ad
occuparle, e ve ne chiedo soltanto i ritagli.

§. 1. Delle fonti della Cettina.


Contigue al picciolo casale di Jarebiza, tre miglia
lontano da Verlika, trovansi appiè d’un colle marmoreo
le quattro principali fonti del Tiluro, detto dagli abitanti
Cettina, che dopo breve corso si congiungono tutte in un
alveo, dando il nome di Vrilo-Cettine a quel luogo. Il
paese irrigato da questo fiume portò ne’ tempi andati il
titolo di Contea o Zupania, e dipendè da un picciolo
principe particolare; non v’ebbe però mai città, che
avesse il nome di Cettina, e molto meno v’è adesso,
quantunque da parecchi geografi, e segnatamente dal
signor Busching sia nominata, coll’aggiunta anche d’un
lago, che non esiste. Il Porfirogenito chiamò Tzentzena
la Zupania di Cettina. Sin dalla prima volta, ch’io mi
portai alle fonti di questo fiume in compagnia di mylord
Hervey, due di esse mi sembrarono meritare una
particolar attenzione. I colli, che stendonsi fra le
montagne di Kozjak, e Dinara, e che fanno colle radici
loro corona alle belle campagne della Cettina, alzandosi
a misura che s’internano, vanno a congiungersi col
303
monte Hersovaz. Le apparenze esteriori mostrando
sovente delle irregolarità negli strati, che compongono
que’ colli, potrebbero [63] far sospettare ch’essi fossero
rovine d’antichi monti; ma io non ardirei d’asserirlo
positivamente quantunque v’abbia fatto replicate
osservazioni; sarebbe d’uopo vedere dall’alto, e a nudo
quelle rovine. La fonte, che fu la prima visitata da noi, è
a cento passi dal casale; le radici del colle vi formano un
mezzo cerchio all’intorno. Il laghetto limpidissimo, che
giace colà quasi nascoso fra’ dirupi, e fra l’ombre degli
alberi, ha intorno a trenta piedi di diametro; pretendono
quegli abitanti che il fondo non vi si trovi; noi vi
gettammo parecchie pietre bianche di varia mole, e le
perdemmo di vista prima che si fermassero. L’acqua non
vi si muove quasi, o per meglio dire, sembra al di fuori
che la non vi si muova gran fatto. Ella profitta però del
declivio per uscire dal lago in gran copia, e formare un
fiume considerabile due tiri di moschetto più sotto. Un
infinito numero di trote, alcune delle quali pesano sino a
venticinque libre, esce coll’acqua insieme dall’interiora
del monte, e varie altre spezie di pesci volgari fluviatili
vi si veggono; ma l’apertura, che serve al loro passaggio
non è accessibile, né si vede al di fuori da chi vi guarda
orizzontalmente. Fa d’uopo per iscoprirla mettersi su
d’una dell’estremità dirupate del semicircolo, e
guardarvi dall’alto. Intorno a sei piedi sotto la superficie
del lago scopresi attraverso dell’acqua un ciglione di
marmo in forma di grand’arco irregolare, che sporge
molto all’infuori. Per di sotto a questo esce l’acqua; e ’l
304
di lei moto vorticoso, che sulla superficie poco, o nulla
apparisce, scopresi pella inclinazione, che prendono
nell’atto di scendere le pietre gettatevi. L’altra fonte, che
non è molto distante dal casale all’opposta parte,
s’estende un po’ più considerabilmente pur in forma di
lago abbracciato a ferro di cavallo dalle radici marmoree
del monte. [64] Le di lei sponde non sono così fresche
ed ombrose come quelle della prima: dicono abbia
uguale profondità nel mezzo; e anche da questa un
fiumicello si forma dopo brevissimo corso, che sarebbe
considerabile da per sé solo, e lo diviene molto più
allora, che si congiunge coll’altro, e co’ due rivi e
parecchi ruscelli minori, che dalle radici del monte
medesimo scorrono verso la pianura.

§. 2. Viaggio sotterraneo.
L’abbondanza dell’acqua, che da questi laghi, e dalle
altre men ragguardevoli fonti concorre a formare il
fiume Cettina; il vedere ch’egli esce tutto da un monte
assai più picciolo di quelli, che sono soliti a dar origine
ai fiumi nobili; il ricordare i marmi brecciati, da’ quali le
sommità delle montagne illiriche sono occupate, ci fece
sospettare gagliardamente, che non fossero le sorgenti
vere della Cettina quelle, presso alle quali ci trovavamo,
ma sibbene diramazioni d’un fiume sotterraneo, di cui
antico letto furono per avventura in rimotissimi secoli le
alte pianure continue, che poi divennero dopo una lunga
serie di squarciamenti sommità di montagne. Venuto di
fresco dall’avere visitato il Bellunese, e que’ luoghi
305
particolarmente, ne’ quali gli sfaldamenti delle
montagne interrompono di sovente il corso de’ fiumi,
mylord Hervey riconobbe i vestigj pendenti delle rovine
su le falde di Kozjak, di Gnat, e della Dinara, che
apertamente mostrano l’interruzione degli strati loro
essere stata cagionata da un vasto sobbissamento
improvviso, e forse da una successione di
sobbissamenti. Questa ragionevole, e sì ben appoggiata
congettura ci determinò a penetrare nelle caverne, che
serpeggiano pell’interno [65] del monte fra i due laghi
sopraddescritti. Alcune di esse ad onta della loro
asprezza, ed oscurità furono in altri tempi frequentate da
uomini selvaggi, e forse anche feroci al paro degli orsi;
e vi si vedono tuttora de’ vestigj di muro fabbricatovi
rozzamente per vieppiù renderne forte, ed angusto
l’ingresso. È veramente fatica da selvaggi indurati alla
vita ferrea l’aggrapparsi in quegli orridi ripostigli; io mi
v’introdussi però replicatamente per esaminare a mio
senno, non a mio agio, la struttura di que’ monti
marmorei. S’insinuano colà fra’ pezzi di strati
disequilibrati angustissime fenditure e tane, dove fa
d’uopo ascendere strascinandosi a quattro gambe, non
essendo per lunghi tratti possibile d’alzarvi il capo. In
una di queste tane da marmotte, vicino all’apertura
esterna, la superficie del masso inferiore come quella
del superiore, che serve di volta all’angusto passaggio,
sono tutte sparse di durissime, ed acute punte di
stalattite: più su è reso così liscio il marmo dal frequente
praticarvi degli antichi ladri, o selvaggi, che dopo
306
d’avere sofferto molto, per trarmivi innanzi, io
sdrucciolai addietro mio malgrado più volte. Da quelle
angustie si passa in luoghi meno impraticabili, ma
sempr’egualmente orrendi, e resi più tetri là dove sono
più spaziosi dalla negrezza delle pareti affumicate. I
barbari, che abitarono que’ baratri ne’ secoli passati,
dovettero bene spesso arrischiare di fiaccarsi il collo, o
d’affogarsi pel calore, e pel denso fumo, cui tramandano
le scheggie di sapino accese, che servono di fiaccole in
quelle bolge infernali.
Voi sapete quanto deggia servire a somministrare idee
giuste sopra la struttura interiore della parte del nostro
globo più vicina alla superficie questo insinuarsi or colle
mani a terra, e col capo in giù, ora di sasso in sasso
arrampicando pelle più tortuose, ingombre, malagevoli
[66] cavità de’ monti. Colà si può scoprire la natura sul
fatto, e raccogliere abbondanti materiali per fabbricare
buone teorie, o almeno buoni stromenti per distruggere
le mal architettate. Io sono stato poco fortunato sino ad
ora; tutte le caverne naturali de’ monti calcarei, nelle
quali mi sono internato, si somigliarono; ma spero
ancora di trovare un dì o l’altro qualche cosa, che si
tragga dall’ordinaria monotonia, visitando montagne
minerali non ancora sviscerate dagli uomini. Che belle
lezioni di chimica naturale denno trovarsi scritte nelle
loro cieche spelonche! Dopo l’esame, ch’io ho fatto
talvolta de’ sistemi, e classificazioni ordinate da’ più
rinomati orittologi, confrontando i fossili colle
descrizioni risguardanti la loro genesi, mi è sembrato di
307
trovare, che la natura fosse stata mal interpretata da’
principali suoi sacerdoti. Ardirei quindi asserire, che la
parte sotterranea della scienza naturale ha d’uopo tuttora
di grandi ajuti, e di osservazioni ben istituite da uomini
non prevenuti, per essere tollerabilmente piantata.
Fra le peregrinazioni di sotterra, che ponno recar
piacere agli amatori della geografia fisica, merita
d’essere contata quella, che noi fecimo nella più estesa
caverna delle fonti di Cettina. Ella ci ha dato qualche
cosa più che gli altri viaggi sotterranei, per le viscere de’
monti calcarei. Poco cammino vi si può far in piedi
presso la bocca. Noi dovemmo curvarci di molto, poi
metterci a terra, e strascinarci sul ventre per uno stretto,
aspro, e limaccioso sentiero, atto a far cangiare
d’opinione la maggior parte de’ curiosi. I lavori comuni
degli stillicidj, ne’ quali c’incontrammo sovente, sono
colaggiù tanto varj, e moltiplicati quanto si può
desiderare in angusti luoghi, dove non ponno essere
magnifici come nelle grotte d’Antiparo, e nella caverna
[67] baumanniana. Il più curioso, non il più frequente
scherzo che vi si vegga, sono certe vasche fatte a foggia
di gran conche embricate, una delle quali, ch’io ho
particolarmente osservata, ha gli embrici oltre mezzo
piede larghi, ed assai ben configurati. Questi non posano
già sul suolo, ma dal centro della conca partono
curvandosi all’infuori; la conca non ha grossezza
maggiore di quattro dita, ed è capace di molt’acqua,
imperocché ha oltre due piedi, e mezzo di lunghezza.
Non si potrebbe dall’arte eseguire pezzo più bello per
308
decorarne una fonte, o una grotta di giardino; dall’arte
dico, che la natura volesse imitare, non adornarla.
Quelle medesime acque, che da poco più di due piedi
d’altezza cadendo la gran conca embricata lavorarono
assai regolarmente, formano de’ modelli di
fortificazione molto ben intesi, vuoti nel mezzo, e
circondati da bastioncini, e muraglie non più alte di tre
in quattro pollici. Né vi crediate, che l’immaginazione ci
abbia fatto in que’ lavori trovare una perfezione, che
non vi sia poi veramente; la natura gli ha architettati in
modo sì maestrevole, che merita una particolar
attenzione. Ella vi è stata ancora più esatta, che nel
lavorare la pietra matematica, che trovasi nel
Martignone, poco lontano da Bologna. Mentre noi
andavamo carponi pella caverna, incontrammo anche
qualche picciola piscina, in cui gran quantità di
laminette saline candidissime calcareo-spatose erano
ammucchiate, stesesi durante una lunga successione di
tempi su la superficie dell’acqua come un velo petroso;
e poi successivamente calate a fondo, per dar luogo alla
formazione d’un’altra lamina salina; curiosità 105, che io
avea già [68] parecchie volte veduto, errando pelle
sotterranee vastissime petraje di Costoggia nel

105 V. Arduini, Lettere orittografiche nel t. VI della Nuova


raccolta d’opuscoli, che si pubblica periodicamente, in
Venezia da Simone Occhi. Queste lettere, e parecchi altri
pezzi di varj autori italiani, che appartengono alla storia
naturale fossile, meriterebbero d’essere ripubblicati, e resi più
universalmente noti, ed utili.
309
Vicentino. D’egual candore, e lucidezza splendono
molti torsi, che qua, e colà s’alzano immediatamente
sotto le gocciaje più provvedute di parti pseudo-
alabastrine, e che pajono veramente a prima vista nati
fuor della terra come gli asparagi. La rilucente
bianchezza loro, è ancora più paragonabile alla neve,
che allo zucchero in pani. L’apparenza di vegetazione,
che ingannò il celebre Tournefort, e più recentemente il
dottissimo autore della Storia fossile del Pesarese, non
ci sedusse però. Il naturalista francese, non era
egualmente profondo nella litologia, come nella
botanica, e quindi non gli si vuole fare un delitto d’aver
creduto vero ciò, ch’era soltanto apparente: ma molto
più è scusabile il nostro italiano, che fidandosi
d’osservatori assai meno oculati di lui, piantò le sue
deduzioni su fatti poco dimostrati. Egli è ben lontano
da’ pregiudizj delle scuole, che seguendo troppo
letteralmente il buon vecchio Plinio, accordarono anche
alle pietre la facoltà di vegetare. Fra tutti i marmi,
questa spezie d’alabastro, stillatizio, calcareo gli parve
la sola, a cui dovess’essere accordata la vegetazione,
chiaramente, ed espressamente da lui medesimo negata
alle altre. Il forellino, cui sogliono avere nel centro le
colonne, e i torsi che sorgono dal suolo delle caverne;
l’essergli stato asserito, che non istillava acqua dalle
volte delle grotte; e qualche altra simile inesattezza
d’osservazione lo fé pensare ad esporre, [69] con
somma modestia però, quanto gli venne suggerito dal
proprio felicissimo ingegno per spiegare la genesi di
310
que’ torsi isolati. Io ho letto con piacer vero le
ingegnose congetture dell’ottimo filosofo, cui amo, e
venero: ma le mie osservazioni contrarie a quelle, che
gli furono comunicate, non mi permisero d’essere in
opinione con lui. Il canale longitudinale si osserva
egualmente ne’ torsi, che sorgono da’ pavimenti, e nelle
strie stalattitiche pendenti dalle volte delle caverne,
l’origine delle quali si vede ben chiaramente. Se l’acqua
non istillava dalle volte allorché i corrispondenti del
dotto scrittore furono a far osservazioni nelle grotte
sotterranee, il che avranno eseguito in giornate serene,
essi l’avrebbono sentita stillare in giorni piovosi. Così
anche in Venezia dalla volta del Ponte di Rialto, e dalla
facciata della Chiesa de’ Gesuiti pendono le strie, lungo
le quali scorre l’acqua, e le accresce dopo le pioggie.
Le frequenti manifestissime disequilibrazioni, e
rovine parziali di strati antichi ora di pietra dolce, ora di
marmo calcareo, che in quelle profondità s’incontrano,
ci confermavano ad ogni passo nell’opinione, che un
fiume sotterraneo rodesse le loro basi. Dopo lungo
cammino giunsimo a un ponte naturale, formato da un
arco di strato rimasto in aria, e per di sotto al quale
scaricansi le acque eventuali delle vicine montagne, che
un ampio canale sotterraneo fra strato e strato si sono
scavato. Colà volle, allorché vi fummo insieme,
riposarsi alquanto Mylord; e con una presenza di spirito,
ch’è ben rara anche presso i filosofi, restato solo fra
quelle densissime tenebre, mandò addietro per far
provvisione di scheggie di sapino il Morlacco, che gli
311
serviva di guida, onde aver fiaccole che bastassero a
proseguire il viaggio. Quel ponte non ha più [70] che
dieci in dodici piedi di corda, e circa altrettanti di saetta.
Egli sembra un modello del ponte di Veja già descritto
dal chiarissimo signor Betti, e bene o male ridescritto da
me106; e serve a dimostrare che il mio illustre amico
signor brigadiere Lorgna, oggimai celebre fra’
matematici d’Europa, spiegò meglio d’ogn’altro il
modo, col quale si formano per opera delle acque
rodenti sì fatti lavori d’architettura naturale. Forse anche
questo vorrebbero far passare per uno scherzo della
natura coloro, che da un di lei cappriccio stimarono fatto
di getto tutto ad un tratto quello che vedesi ne’ monti
veronesi; poiché non v’è stravaganza, che non si giunga
a dire quando si vuol sostenerne una prima: e avrebbe
per certo il torto chi si volesse prendere il fastidio di far
intendere ragione a questa strana razza di filosofanti.
Noi giunsimo al ponte sotterraneo, saltando di rovina in
rovina, e trovammovi assiso l’amico nostro. Nessun
vescovo dell’antica chiesa penetrò certamente giammai
in catacombe più nere, e malagevoli di quelle, cui prima
d’ogni altro portossi ad osservare il Vescovo di Derry. Il
luogo, dov’egli ci attendeva è un vero tratto dell’Inferno
di Dante, molto opportuno per chi volesse ruminarvi Le
notti di Young, ed annerirle ancora di più.
Non eravamo contenti affatto dell’alveo
manifestamente scoperto, per lo quale le acque piovane
106 Giornale d’Italia t. II. n. LI. pag. 401. Vedi Descrizione del
Ponte di Veja di Zaccaria Betti. Verona. in 4º. fig.
312
scaricavansi, passando di sotto al rustico ponte
marmoreo; noi chiedevamo di più, e ci dolevamo che un
maggior grado solamente di probabilità fosse
accresciuto al sospetto, cui [71] avevamo concepito
d’un fiume sotterraneo, e non piuttosto si fosse il vero, e
perenne fiume trovato. Pareva che non si potesse
scendere più oltre, così ripidi ed alti erano i fianchi del
ponte. Questa difficoltà non ci trattenne però; noi ci
calammo ad uno ad uno giù pel sasso, che sporge in
fuori rendendo più difficile la discesa, e ci posimo in
istato di proseguire le indagini. Il marmo, su del quale ci
trovammo, è di quel precisamente medesimo impasto,
che forma la base della Liburnia, e dell’isole
aggiacentivi, del quale ho fatto incidere un esemplare
nelle mie Osservazioni sopra l’isola di Cherso ed
Osero107. Que’ corpi tubulosi, osteomorfi, cangiati in
spato calcareo, resistono colaggiù precisamente come
fanno sul lido del mare all’erosione dell’acque, piucché
non fa il cemento petroso, che gli unisce, e quindi sono
assai prominenti. Fecimo pochi passi scendendo
alquanto pella schiena di quello strato inclinato, che
c’incontrammo in parecchi laghetti, e pozzi. Egli è
manifesto, che questi si sono aperti nello strato
medesimo per isprofondamenti cagionati dal gran
volume delle acque superiori, che non aveano sfogo, e
che nel tempo dello squagliamento delle nevi, deggiono
aver fatto violenza da tutti i lati in quelle caverne per
107 Saggio d’osservazioni su l’isola di Cherso, ed Osero.
Venezia. 1771. fig. I. pag. 106.
313
agevolarsi l’uscita. Questi pozzi ci fecero intendere che
noi stavamo su d’una volta, e che sotto di essa tutto era
occupato dall’acqua; gli orli loro marmorei non
mostravano in quel baratro grossezza maggiore di due
piedi, ch’è la solita de’ corsi di quell’impasto, anche su
le sponde del Quarnaro. [72] Gettammo varj pezzi di
sassi bianchi nell’acqua limpidissima de’ laghetti, e per
quasi un minuto gli accompagnammo coll’occhio, poi li
perdemmo di vista senza che avessero toccato il fondo.
Vollimo anche assicurarci del corso di quelle acque, che
pella scrupea ineguaglianza de’ luoghi, dai quali
passano, deggiono necessariamente perdere l’impeto del
corso loro naturale, e sembrano quasi stagnanti. Alcuni
pezzuoli di carta ci chiarirono però del vero, lentamente
movendosi secondo la direzione dell’acqua ne’ pozzi,
che sono pur chiusi tutto all’intorno. Io sperava di
vedere qualche pesce in que’ luoghi sino allora intentati:
ma non potei scoprirne veruno, sia perché non ve
n’abbiano veramente, sia perché il comparire de’ lumi, o
piuttosto il romore delle voci alte, e numerose gli avesse
spaventati, e fatti fuggire più addentro.
Uscito dalle caverne contentissimo d’esservi entrato
sì la prima che la seconda volta non mi potei trattenere
dal dare un’occhiata alle alte montagne, che
fiancheggiano il corso attuale della Cettina, le vette
delle quali attraversò indubitabilmente un fiume ne’
secoli antichi, e, second’ogni probabilità, quel
medesimo, che ora parte sotterraneamente, parte alla
scoperta per nuovo cammino portasi al mare, lasciando
314
abbandonati per sempre i vasti letti di sassi fluitati, fra’
quali errando liberamente scavavasi gli alvei temporarj
a cappriccio ne’ tempi più lontani da noi.
Gli abitanti delle campagne bagnate dal fiume
Cettina, ch’erano ne’ tempi andati soggetti al governo
ottomano, e più frequentemente trovavansi a portata
d’esaminare gli accrescimenti del fiume, osservarono
che questi aveano una costante analogia
coll’escrescenza del lago di Busco-Blato, venti buone
miglia lontano dalle sorgenti di Jarebiza di là dalle
montagne. Eglino [73] ne conchiusero, che v’era una
comunicazione sotterranea fra il Busco-Blato, e ’l
fiume; né la distanza, e l’altezza de’ monti intermedj
gl’impedì dal formare una congettura sì ragionevole.
Quel lago è così abbondante di pesci, che
nell’abbassarsi delle acque i porci se ne nodriscono; e
questo cibo li rende enormemente obesi. I Morlacchi
sudditi ottomani, che abitano le sponde del Busco-Blato
profittano della quantità, e grassezza del pesce per farne
oglio. Eglino lo traggono col semplice metodo di
friggere il pesce nelle padelle; il grasso che vi si disfà
colano, e ripongono in giarre pegli usi domestici di tutto
l’anno. Non ho potuto rilevare se abbiano un costante
periodo le acque del Busco-Blato, come quelle del
celebre lago di Czirkniz: ma un qualche periodo hanno
certamente, su di cui contano gli abitanti de’ vicini
luoghi.

315
§. 3. Pranzo morlacco in un sepolcreto.
Era allestito il nostro pranzo in poca distanza. Il luogo
scelto a questo effetto fu l’antico cimiterio, che sta
vicino alle rovine d’una chiesa dedicata all’Ascensione.
Fra le sepolture sono piantati moltissimi alberi, che
fannovi un’ombra aggradevole. I gran sassi, sotto a’
quali dormono le ossa degli antichi valorosi, sono degni
d’attenzione sì pel numero, che per la mole loro; dico
degli antichi valorosi, perché le armi, che si trovano
sovente in quel luogo, mostrano, che furono guerrieri.
Vi saranno sotto quegli alberi oltre dugento masse
pesantissime, ciascuna d’un solo pezzo di marmo, che
potrebbono a ragione esser dette sepolcri di giganti.
Alcuna di esse ha otto piedi, e mezzo di lunghezza,
quattro, e mezzo di largo, e quasi lo stesso d’altezza.
Giacciono lontane dal monte di modo, che non è
possibile l’immaginarsi, che senza molto ben intese [74]
macchine gli antichi abitatori di quelle contrade abbiano
potuto condurle sino a quel luogo. Per la maggior parte
sono que’ massi enormi di figura parallelepipeda, e assai
bene spianati; ve n’hanno parecchi di forma più barbara,
e manierata; nessuno ha iscrizione, ma quasi tutti degli
stemmi a bassorilievo.
Il pranzo era imbandito alle spese del morlacco
Vukovich, con tutta la profusione di vivande, che si
poteva desiderare. Quel cortese galantuomo non intende
parola d’italiano, ma intende perfettamente l’ospitalità.
Uno di que’ sepolcri ci servì di mensa; ma mense ancor

316
più curiose erano poste dinanzi a noi, e sostenevano due
agnelli arrosto, che ci furono arrecati. Erano queste
focaccie d’azzimo stiacciate, destinate ad un tempo a
servire di piatti, e di pane. Noi mangiammo d’alcuni de’
varj cibi apportatici con molto appetito; d’altri, ch’erano
appunto i raffinamenti e le delizie della cucina
morlacca, non potemmo gustare. Divorammo le
focaccie, che ci sembrarono squisite; e Mylord alzò la
voce verso di me, dicendo molto opportunamente:
Heus, etiam mensas consumpsimus!
Il mangiare morlacco rassomiglia di molto al tartaro,
come si somigliano le due nazioni; e quindi non
piacerebbe a tutti quelli, che sono avvezzi alle tavole
francesi e italiane. La tovaglia suol essere un tappeto di
lana; salvietti usano di raro; e se ne hanno, sono di lana
ancor essi. Con quel lungo e pesante coltello, cui
ciascun Morlacco tiene alla cintola, fanno le parti;
forchette non usano molto, e al più ne ha una il padrone
di casa; di cucchiaj di legno, ed hanno ricchezza, e
ponno provvederne (quando non ecceda il numero) tutta
la compagnia; di bicchieri nella purità nazionale non si
fa uso, poiché un vaso ragionevolmente grande di legno
chiamato bukkàra, in cui si [75] mesce acqua, e vino, va
girando all’intorno di bocca in bocca per sino a tanto
ch’è vuoto. Spesso vi si mettono in fusione le basette de’
convitati: ma il vino non si guasta per così poca cosa.
Qualche convitato più assetato degli altri si traeva di
capo il berretto, e bevea con esso. Tutte le porcellane, e
majoliche di que’ buoni selvaggi consisteano in due o
317
tre scodelle di legno, nelle quali avevano posto varie
qualità, e manipolazioni di latte; ogni galantuomo della
brigata v’attingeva col suo cucchiajo; così fecimo noi,
un uffiziale morlacco, il Vukovich, e le nostre guide ad
un tempo, con santa uguaglianza. Il degno, e dotto
Vescovo era tanto contento quanto qualche altro
potrebb’esserlo a tavola co’ suoi canonici.
La loro maniera d’arrostire i castrati, e gli agnelli è
semplicissima. Sventrato e scorticato l’animale,
sfrondano un grosso ramo d’albero, e ve lo infilzano
tutto intiero; s’accende un gran fuoco dinanzi ad esso di
modo, che prima dall’una parte, poi dall’altra si cuoce
bene. Negl’intingoli loro entra sempre l’aglio come
droga principale; e hanno delle detestabili torte di latte,
e farina, nelle quali entra pur l’aglio. Io mi sono in
seguito così ben accomodato ai cibi morlacchi, che non
di raro m’è accaduto di mangiare di buon appetito il
latte inacidito, l’aglio, e le scalogne col pane d’orzo, che
sono le loro vivande ordinarie. Vagando pella campagna
vicina al sepolcreto trovansi delle rovine d’antiche
abitazioni affatto distrutte, che mostrano d’essere state
di qualche stabilimento romano.

§. 4. Pianura di Pascopoglie, Fonte salsa, isola


d’Otok. Rovine della Colonia Equense.
La Cettina ingrossata dal concorso de’ varj rami
provenienti dalle sorgenti di Jarebiza, attraversa con
[76] dignità la piana campagna di Pascopoglie, che negli
autunni piovosi è soggetta alle inondazioni, perché il
318
fiume non ha argini di sorta alcuna, e il di lui corso in
più d’un luogo è impedito da’ mulini, e mal intese roste
artificiali, o da isole, e banchi di fanghiglia, che
ingombrano l’alveo abbandonato intieramente
all’eventualità. Per questa, e per molte altre ragioni, che
fatalmente vi si combinano, la pianura di Pascopoglie, e
generalmente tutte le belle, e pingui valli della
Morlacchia sono quasi affatto incolte. Noi non
seguimmo il corso della Cettina; ma abbandonatolo per
qualche tempo, lo rividimo al passo di Han, dove non
lungi dal fiume havvi una fonte d’acqua salata, cui gli
abitanti chiamano Zlane-stine (pietre salse). Noi non
visitammo questa fontana, quantunque vi siamo passati
assai da presso, perché non ce n’era per anche stato
parlato, e proseguimmo il viaggio sino a Otok108,
picciola isoletta in mezzo al fiume, celebre fra gli
abitanti de’ vicini luoghi pella strage di parecchie
famiglie morlacche, che vi s’erano ritirate, e
valorosamente difese per qualche tempo nell’ultima
guerra. I varj rami della Cettina sono considerabilmente
profondi in quel sito, ed occupano troppo spazio di
terreno impaludandolo, il che non avverrebbe se fossero
uniti, e ben arginati incominciando dalle sorgenti loro,
di modo, che le acque incassate s’internassero fra le
montagne a Trigl con impeto e volume maggiore, e di là
precipitassero poi a lor piacimento di balza in balza
108 Otok, isola. Non essendovi occasione d’equivoco, questa
della Cettina porta il nome generico invece d’averne uno di
proprio.
319
come fanno sino al piè della picciola rocca [77] di
Duare, d’onde per un alveo men impraticabile portansi
al mare sotto Almissa.
Fa d’uopo che anticamente non fosse così
abbandonato a sé medesimo, e negletto questo fiume, da
che in poca lontananza dal passo di Han fioriva il
Municipio Equense, di cui non resta quasi più vestigio
riconoscibile a prima vista. Sorgeva la città d’Æquum su
d’una collina pochissimo elevata, ma ragionevolmente
estesa, che domina le belle pianure della Cettina, e si
vede correre poco lungi dalle radici quel considerabile
fiume. Delle antiche fabbriche romane nessun residuo
rimane oggimai più sopra terra; e solamente scavando in
quel luogo per trarne pietrame squadrato gli abitatori di
Scign incontrano de’ bei pezzi di fregi, di cornicioni, e
d’altre tali cose con ottimo gusto lavorate. Noi vidimo
qualche avanzo d’iscrizione in lettere cubitali su d’un
gran masso cubico di pietra: ma il tempo l’avea corrosa
di modo, che pochi elementi vi potemmo ben rilevare.
Dalle macerie, sopra le quali nascono l’erbe, e i
cespugli, trassero ultimamente scavando i Morlacchi un
bel monumento di quella città distrutta, che ne porta
anche il nome. La barbara ignoranza degli scavatori lo
ha rotto per trasportarlo a Scign con minor fatica, ond’è
che di tre pezzi ne manchi uno, nel quale appunto era
contenuto il nome del ragguardevole uomo, a cui
l’onorifica lapida fu eretta.
Su d’un fianco della collina d’Æquum fu anticamente
un anfiteatro, non molto grande per quanto apparisce
320
dalle di lui rovine circolarmente disposte, e ricoperte di
terra, e d’erba. Si veggono ancora i canali, che
servivano a condur l’acqua nella di lui arena, scavati nel
vivo della collina, non fatti altrimenti di fabbricato.
Sembra che innanzi di scavarli gli Equensi abbiano
appianato il luogo destinato all’edificio;
imperocch’eglino [78] sono lavorati a scalpello nella
pietra, che forma il picciolo colle, poi ricoperti di lastre
di marmo, e serpeggiano sotto le rovine. Un uomo può
entrarvi a quattro mani senza molto disagio; il maggiore
di essi ha due piedi d’imboccatura; il minore poco più
d’un piede. La pietra, in cui lavorarono gli Equensi, è
oltremodo tenera, e quasi farinosa. Io ne ho raccolto un
esemplare appunto vicino alla bocca dell’acquedotto
minore; ella ha qualche analogia colla pietra scissile di
Bolca della spezie meno compatta; non vi si vedono
frantumi, o reliquie d’animali marini; contiene però
alcuna fogliuzza d’alga, o almeno qualche cosa che
all’alga somiglia di molto. Questa spezie di pietra non
soffre il freddo, e credo che si sfogli al calore del sole
dopo la pioggia; quindi si è perduta l’iscrizione, cui
trovammo esposta all’intemperie. Il padre Coronelli
nomina questo luogo Nojac, segnando che fu preso a’
Turchi dal generale Valiero del 1685. Il Lucio nelle
Memorie di Traù lo chiama Chgliucich. Il Luccari,
annalista raguseo, non ricordandosi che ’l dittongo
mette alcuna volta delle gran differenze ne’ significati
delle parole, né avendo consultati gli antichi geografi,
pretese, che la Colonia Equense fosse intorno a sei
321
miglia lontana dall’antica Epidauro, in un luogo che
adesso chiamasi Cogniz: ma egli non avea badato
agl’itinerarj antichi, da’ quali poteva essere chiarito
dell’error suo. Cogniz poteva essere il sostituito a un
Equilium, se in que’ contorni vi fosse anticamente stato
un luogo di questo nome tratto da’ cavalli. Kogn in
islavo significa equus, cavallo, non cosa che abbia
relazione alla giustizia, come significa Æquum.
Andando da Æquum verso Scign trovasi un
considerabile numero di colline sparse con amenissima
maestria, e coperte di grandi alberi, appresso i quali le
capanne loro sogliono [79] fabbricare i Morlacchi. La
base di queste protuberanze del terreno talora è d’argilla
conchifera cenerognola.

§. 5. Delle colline vulcaniche, e de’ laghi di Krin.


Gesso di Scign.
Noi ci fermammo a Krin, dove ci arrecò cortesemente
dei favi di miele il povero abitatore d’un tugurio più
deliziosamente situato, che molti palazzi di ricchi
signori nol sono. Egli non s’era in alcun modo riparato
dalla vendetta delle api per estrarli; e non so come niuna
di esse lo abbia ferito, benché con molta flemma facesse
il fatto suo frugando nell’alveare. Il miele, cui ci pose
dinanzi, era d’una qualità oltre ogni espressione
perfetta; mentre stavamo mangiandolo all’ombra degli
alberi, la maggiore delle figlie del poveruomo venne ad
offerire a ciascuno di noi un mazzolino d’erbe odorose.
Non è possibile, cred’io, d’essere insensibili a questi
322
tratti di semplice ospitalità rusticana. La sommità del
monticello di Krin è di pietra simile a quella d’Æquum,
il piede sembra vulcanico; e quindi una sorte di poro
igneo, e terra ferruginosa pesante indurata dal fuoco,
trovasi fra esso monticello, e i laghi contigui, che ne
portano il nome. Questi laghetti sono popolati da poca
varietà di pesci, fra’ quali pretendono quegli abitanti ve
n’abbia una spezie irsuta. Alcuno di essi molto sul serio
ce la descrisse; aggiungendo, che di rado se ne potea
prendere senz’avvelenar l’acque, perché abitavano nel
fondo. Io non sono disposto a credere in fatto di
stravaganze fisiche se non quello che vedo; e quindi
avrei voluto vedere il pesce peloso per credere che vi
fosse. I due laghi di Krin sono divisi da un picciolo
ismo, per di sotto al quale comunicano; la terra
intermedia trema sotto i piedi di chi vi cammina. Nella
prateria di Margude, ove [80] sono situati, non di raro se
ne formano di nuovi per sobbissamenti di terreno
improvvisi. Uno di questi accadde non ha molto sotto
gli occhi del morlacco Bilonoski. Il suolo gli si
sprofondò dinanzi tutto ad un tratto per trentacinque
passi di circuito, e la voragine si riempì d’acqua torbida.
Queste sommersioni improvvise de’ suoli erbosi nelle
basse campagne di Scign ricordano le cuore del
Polesine, del Dogado, del Bolognese, e d’altre contrade
allagate, che galleggiano sull’acqua delle paludi, e si
ponno a buon diritto chiamare isole nuotanti. Della loro
genesi ha dottamente scritto il celeberrimo conte
Girolamo Silvestri canonico di Rovigo. Merita d’essere
323
letta la di lui bella dissertazione che trovasi inserita nel
Giornale d’Italia (1771. 21. dicembre). L’indole de’
terreni di Krin, e di Margude è analoga a quella delle
cuore d’Italia, vale a dire che sono composti, e sostenuti
da radici d’erbe palustri strettamente intrecciate; gli
aratri sciogliendole fanno che l’acqua guadagni sopra di
essi. Non v’era per anche pesce nel nuovo laghetto
quando noi vi fummo sopra; e la profondità di esso, per
quanto potemmo esaminarla, ci parve considerabile. Le
di lui sponde perpendicolari mostravano, che la caduta
fosse veramente nata poco prima.
La prateria di Margude è circondata da collinette, ad
alcune delle quali ella si congiunge col mezzo d’un
agevolissimo pendio. Queste sono tutte, poco più, poco
meno, vulcaniche, verso la base particolarmente. Che
anche i colli situati più addentro sieno della medesima
pasta, almeno in parte, lo prova il rivolo di Caracasiza,
che conduce lave ferruginose, nere, ed altre pietre ora
grigie, ora rossiccie di natura vulcanica. Il povero casale
di Caracasiza è quasi totalmente abitato da Zingari,
nazione errante, come ognun sa, ed infesta oltremodo
[81] allorché va errando. Nella Morlacchia veneta
v’hanno di molte famiglie zingare, che vi si occupano
pacificamente del lavoro della terra, e più comunemente
delle manifatture di ferro, arte che sembra loro propria,
e in cui riescono a meraviglia, se si guardi alla
semplicità degli stromenti che adoprano. Alcuni Zingari
fanno anche il mestiere di scozzoni; e i Turchi nostri
confinanti li detestano perché sono da essi
324
frequentemente ingannati colle più sottili malizie. Il
linguaggio zingaresco è differente dall’illirico usato in
Bosna, e in Dalmazia; egli dovrebbe rassomigliarsi
all’armeno, e al mingreliano, da che in buona parte gli
Zingari sonosi sparsi pell’Europa e in Boemia
segnatamente vegnendo da quei paesi. Varcato
Caracasiza, che va a metter capo in Cettina sotto
Æquum, e lasciata addietro la villetta, che gli dà il
nome, trovasi una collina di gesso da presa, che sorge a
mano sinistra di chi va verso Scign. Questo gesso è di
molto migliore qualità, che quello della Marca, di cui si
fa uso in Venezia. Non so se tornasse in vantaggio de’
mercadanti l’averlo di Morlacchia, perché condotto al
mare costerebbe tre piccioli la libra, vale a dire un soldo
veneziano per ogni quattro: mi sembra però, che anche
il poco denaro, che si spende in gesso nello Stato del
Papa sarebbe meglio, e più utilmente impiegato in
Dalmazia, dove dovrebb’essere forse a preferenza
comprato questo prodotto, anche a prezzo un poco più
alto.

§. 6. Della fortezza di Scign, e della campagna


vicina.
La fortezza di Scign, dove i petti di poche centinaja di
Morlacchi servirono di bastioni contro trenta mille [82]
Turchi nell’ultima guerra, non è mai stato un gran pezzo
d’architettura militare. V’ha chi vuole fosse in quel
medesimo sito Aleta. Una sola iscrizione ben conservata
in marmo greco vi si trova, non di fresco incassata nella
325
muraglia d’una casa; ma potrebb’essere stata portata,
come qualche altra delle rovine d’Æquum non più che
cinque brevi miglia lontane, o forse da qualche altra
città più antica, di cui anche il nome, e le rovine sonosi
perdute. Lo stesso però non convien dire d’un’altra
iscrizione, e di qualche bassorilievo mal conservato, che
vedesi nel luogo detto Le fontane, poco distante da
Scign, d’onde furono disotterrate parecchie fiate delle
cose antiche. Il sito è per se bellissimo, né sarà stato
trascurato dai Romani, che si piantarono sempre ne’
migliori luoghi de’ paesi conquistati. I Turchi vi
fortificarono un ripido masso alla barbara usanza loro,
vale a dire senza veruna intelligenza, ed astraendo
dall’uso del cannone. Le loro fortificazioni si sono quasi
affatto sfasciate, quantunque il Busching descriva
questo luogo come assai ben tenuto. A Scign risiede un
nobile veneziano con titolo di Provveditore, e v’hanno
de’ quartieri pella cavalleria, le di cui occupazioni
principali sono il somministrare scorte alle caravane
provenienti dal paese turco, dirette alla scala di Spalatro.
Il colle di Scign è di breccia disposta irregolarmente
di maniera, che sembra piuttosto di vedervi rovine di
strati, che strati. Egli è situato nel fondo della pianura,
che va sino alla Cettina, ed è spesso allagata dagli
straripamenti di esso fiume. Sotto la borgata il piano è
angustissimo, e circoscritto da monti, che attaccano col
Cucuzu Clanaz. V’hanno degli strati di argilla
azzurrognola, che scopronsi alle radici di essi monti, ne’
quali sono prese varie spezie di corpi marini [83]
326
327
calcinati; e su di quest’argilla riposano gran massi di
breccia marmorea, caduti dall’alto.
La bella ed ampia campagna di Cettina, o di Scign, è,
come ho detto, soggetta alle inondazioni del fiume, che
le serve di confine scorrendo appiè delle colline di Rude
e di Trigl; ella è anche resa insalubre dall’acqua di
Sutina, che vi si perde impaludando, e che forse diè
motivo ai geografi di creare un lago in quel luogo. I varj
rivi, e torrentelli, che senza veruna regola od
incassamento scendono da quella parte ad unir le loro
torbide colla Cettina, vi producono per dire il vero de’
ristagni: ma questi non sono assai considerabili né
pell’estensione, né pella durata. Le acque, che fannovi il
maggior danno sono quelle di Rude, che si spandono
vicino a Trigl, ne’ di cui contorni molti residui di romani
monumenti si trovano, e forse altre volte sorgeva
Tilurium. L’angustie, nelle quali internasi colà il fiume
per portarsi al mare, fendendo la gran montagna, che ne
tien separato il Contado di Cettina, sono forse anche una
delle principali cagioni della tardanza, e
impaludamento. Sarebbe utile, e degna cosa il cercare
un rimedio a questo male, che porta seco l’infecondità, e
l’insalubrità d’una bella provincia; né si cercherebbe
forse inutilmente nell’arginare, come ho accennato, il
principal alveo del fiume, nell’impedirlo dal vagare in
diramazioni pella pianura, nel regolare le acque che vi
concorrono. I Morlacchi del distretto di Scign intendono
benissimo l’utilità cui trarrebbe il pubblico, e ’l privato
interesse da questa operazione, che dovrebb’esser fatta
328
da essi medesimi a forza di braccia, e vi si presterebbero
volontieri. Questo frugale, e robusto popolo, ch’è pur
troppo sovente distratto dal lavoro delle proprie terre
con apparenza di servizio, e colla sostanza di vero
detrimento pubblico, [84] esulterebbe trovandosi
impiegato alla gloria, e al vantaggio reale del Principe
ch’egli adora, quando però anche in questa fatta d’opere
non trovasse il segreto d’avvelenargli ogni contentezza
la malizia, e avidità di pochi.

§. 7. Corso della Cettina fra’ precipizj; sue


cateratte.
Da Trigl sino a Duare precipita la Cettina di balza in
balza scorrendo sedici buone miglia per un alveo quasi
sempre scavato a piombo nelle profonde viscere della
montagna. Ella incontra un tratto di campagna sotto
Novasella, che sarebbe men orrido del resto, se le acque
abbandonate all’impeto loro non lo tenessero pressoché
sempre allagato. Un breve miglio lontano dalla rocca di
Duare (importantissimo posto, che trae seco il destino di
tutto il paese aggiacente al mare da Almissa sino a
Narenta) la Cettina fa una cascata magnifica detta
Velika Gubaviza dagli abitanti, per distinguerla da una
minore, ch’è un po’ più sotto. Io ho voluto andar a
vederla di buon mattino, e vi discesi da Duare, dove
avea passato la notte accolto con ospitale cordialità dal
signor Furiosi, gentiluomo d’Almissa, che n’è il
sopraintendente, i di cui valorosi antenati ne
agevolarono la conquista sopra il Turco.
329
Per arrivare ad un luogo, d’onde potessi osservarla
vantaggiosamente, mi fu d’uopo abbandonarmi sovente
colle gambe addietro, e più spesso saltare da un masso
all’altro. Lasciatevi pur dire de’ precipizj del monte
Pilato negli Svizzeri; non è possibile, che ve ne siano di
più impraticabili. Si veggono ciò non pertanto colà i
pastori carichi d’otri pieni d’acqua arrampicarsi con
sorprendente destrezza dalla profondità di quegli abissi
sino alle sommità piane de’ monti, ove hanno le loro
greggie, che patiscono la sete. Io non [85] vorrei
assicurare, che alcuno di essi non rovini dall’alto al
basso talvolta, e dia un buon pranzo agli avoltoj: ma
questo caso non viene frequentemente. Gli avoltoj delle
contrade vicine alle foci della Cettina sono terribili
animali, che hanno dodici piedi di largo dalla punta
d’un’ala all’altra, e che co’ loro unghioni levano di peso
e portano al nido gli agnelli, e talvolta le pecore, i
montoni, o i fanciulli de’ pastori; io ne ho veduto uno, e
misurato colle mie mani le di lui ali109.
La riva destra del fiume, che alzavasi a piombo sino
alle nuvole sopra il mio capo, allorché io mi trovai a
portata di ben vedere di prospetto la caduta, ha intorno a
quattrocento piedi d’altezza; la sinistra, pella quale io
109 Non è da meravigliarsi della gigantesca statura degli avoltoj
di queste contrade, e tenere il fatto per difficilmente credibile;
gli avoltoj delle montagne svizzere sono della razza
medesima, e non solo portano in aria capretti, agnelli,
camozzi, e fanciulli, ma (se a’ viaggiatori debbasi prestar
fede) fanno talvolta il medesimo brutto scherzo agli uomini
adulti.
330
era disceso, è così ripida, che senza le ineguaglianze
delle roccie prominenti, onde si ha qualche punto
d’appoggio, non sarebbe possibile il calarvisi.
L’alveo non ha forse ottanta piè di larghezza in quel
luogo; profonda angustia, che combinandosi coll’orrore
di molti massi minaccevolmente pendenti basterebbe
per opprimere qualunque anima lieta. L’acqua del fiume
non precipita però da così enorme altezza; ma il salto,
che fa cadendo, è per qualche modo paragonabile a
quello del Velino presso Terni nell’Umbria. Non è però
alla valle di Pepigne, ch’è anche nell’orrido deliziosa,
per alcun riguardo somigliante questo [86] selvaggio ed
alpestre precipizio sotto Duare. Colà potrebbe aver
dimora un uomo abitualmente melanconico, e che
avesse cara la propria mestizia; ma nell’orrore romoroso
della Cettina sepolta fra profondissimi dirupi, non
potrebbe stare che un disperato, nemico della luce, degli
uomini, di sé medesimo. Le acque, che piombano da più
di cencinquanta piedi d’altezza fannovi un rimbombo
cupo e maestoso, ch’è reso ancora più grave dall’eco,
che lo ripete fra quelle ripide, e nude sponde marmoree.
Varj massi rovesciati, che impacciano il cammino al
fiume caduto dall’alto, rompono i flutti, e rendonli
ancora più orgogliosi, e mugghianti. Le spume loro
ripercosse violentemente si sminuzzano in istille
candide, e sollevansi a nugoli successivi, cui l’aria
agitata va spingendo pell’umido vallone, ove di raro
penetrano a diradarli i raggi del sole. Quando questi
nugoli s’alzano direttamente verso il cielo gli abitanti
331
aspettano lo scirocco, che non manca di sopravvenire.
Due gran pilastri sono piantati come a guardia laddove
cade il fiume nell’alveo inferiore; l’uno di essi è
attaccato di fianco alla sponda dirupata, ed ha la
sommità coperta di terra ove allignano alberi, ed erbe;
l’altro è di marmo, ignudo, isolato. Mentre il mio
compagno disegnava questo pezzo magnifico (Tav. XI.)
io lo descrissi a mio grand’agio, e non trascurai
d’esaminare le materie, che compongono quell’alte rive
scoscese. Vi trovai una spezie d’oolito molto
osservabile, i di cui granelli sono connessi da un forte
cemento spatoso, propagantesi a foggia di reticella, e
una bella pasta di breccia, pezzata di bianco, angolosa, e
vergata di vivacissimo rosso, che sarebbe atta a
qualunque opera nobile. I Morlacchi, che mi servivano
di scorta, mi sembrarono più riflessivi degli altri, ch’io
avea conosciuti sino a quel giorno. Eglino esaminavano
[87] con molta attenzione i progressi del lavoro, cui
stava facendo il mio disegnatore; e tanto erano lungi dal
mostrare stupore o disprezzo, come usano di fare i nostri
contadini, perché io raccogliessi le pietre, che anzi
davano a divedere un’onesta curiosità d’esaminarle
anch’essi. Lusingò non poco il mio selvaggio amor
proprio la sorpresa di quegli uomini nati, e indurati alla
fatica pella mia agilità nell’arrampicarmi, e nello
scendermi fra le balze; io mi sentii dire con estrema
compiacenza da uno di essi esclamando: Gospodine, ti
nissi Lanzmanin, tissi Vlàh! «Signore, tu non se’ un
Italiano-poltrone, tu se’ un Morlacco!». Vi confesso che
332
sono stato più sensibile a questo epifonema, di quello
potrò mai esserlo agli elogj per lo più non sinceri degli
uomini del gran mondo. Il mio buon Morlacco erasi
sfiatato nel seguirmi fra quelle balze, e parlava ben di
cuore.
Poco più di mezzo miglio sotto la Velika Gubaviza,
ricade il fiume da un’altezza di venti piedi, poco più,
poco meno, e forma la Mala Gubaviza, o sia la picciola
cascata. Questa è un colpo d’occhio meno magnifico ma
più teatrale. Il fiume cade fra dirupati massi appiè del
monte; egli spandesi poscia pella valle spaziosa
fiancheggiata da colli selvosi, e dominata dalla
montagna di Duare. L’ossatura di questa non è
marmorea, benché ne sia marmorea la cima; nello
scendere al fiume io vi osservai molte varietà di terre
marine, ora più, ora meno indurate: la dominante è
l’argilla cenerognola, priva di sabbia110. Dal piè del
monte [88] di Duare corre un vallone alpestre da
tramontana al mezzogiorno, sino alle rive del mare sette
miglia lontano, e conserva riconoscibili vestigj d’alveo
di fiume abbandonato, e forse interrotto dal
rovesciamento di qualche gran falda di montagna, che
ha deviato le acque. Esaminando l’indole di que’
ciglioni smantellati si potrebbe trovar possibile, che da
nuove rovine dovessero nascere nuovi intoppi, e
deviamenti alla Cettina.
110 Argilla humido cærulescens, ustione rufescens. Linn. 52. 9.
Argilla vitrescens, rudis Wall.
Argilla rudis sabulo destituta. Woltersdorff.
333
§. 8. Corso della Cettina da Duare, sino alle
foci.
Scendendo lungo il fiume da Duare verso le foci, che
ne sono dodici lunghe miglia lontane a ponente, io mi
sono confermato nella già concepita opinione, che le
maggiori montagne della Dalmazia litorale abbiano
bensì le sommità marmoree, ma non il corpo, e le radici.
Com’è marmorea la cima di Duare, così lo sono le vette
del monte Dinara111, che s’erge fra la Cettina e ’l mare; e
come le parti inferiori di quello sono di terra più o meno
rassodata, così le falde di questo sono composte di varie
modificazioni non marmoree di materie marine. Quattro
brevi miglia sotto Duare lungo la strada comune
veggonsi de’ filoni degnissimi d’attenzione, che
rassomigliano, anche ben esaminati davvicino, a una
muraglia di pietre diligentemente riquadrate112. Questi
filoni sono in apparenza [89] quasi verticali, e la loro
formazione è analoga alla genesi di quelli, che si
veggono presso Spalatro, vale a dire, che deggiono il
loro induramento alle acque filtratesi pelle fenditure.
Nel rendervi conto di qualche osservazione fatta lungo i

111 Questo monte Dinara non deve confondersi coll’altro del


medesimo nome, che sorge ai confini de’ Distretti di Knin, e
di Scign. È comunissima cosa in Dalmazia il trovare
uniformità di nome in luoghi diversi.
112 Cos. 4. particulis impalpabilibus, effervescens, mollis,
cædua. Quadrum. Specim. Wall. 84.
Quadratum. Alberti.
Quadrum. Cæsalp.
334
lidi del vicino mare, che formano la parte esteriore del
monte Dinara, io vi descriverò un pezzo di
stratificazione simile a questa, che vi si vede scoperto, e
cui ho fatto disegnare come istruttiva, e singolar cosa.
Nel tenere di Slime, proseguendo il cammino, trovansi
in gran quantità, e varietà d’impasti le focaje di varj
colori, e curiosi impasti marmorei di corpi marini,
suscettibili di bel pulimento. Io ne conservo qualche
esemplare, che occuperebbe degnamente un luogo in
qualunque museo. Fra questi merita d’essere distinto un
marmo aggregato, composto di lenticolari, con
frammenti d’altri corpi marini lapidefatti, e di sassolini
bianchi, angolosi. Fra le picciole lenticolari presevi
dentro, e petrificatevisi, ve n’hanno anche di quelle, che
mostrano le concamerazioni loro al di fuori. Scorrendo
pella superficie lisciata di questo marmo, coll’occhio
nudo si veggono moltissime varietà di sezioni delle
lenticolari prese; e non v’ha poi quasi alcuna delle
particelle, che lo compongono, nell’esame di cui non
prenda diletto l’occhio armato di lenti. Il fiume, lungo le
rive del quale ho sempre cavalcato, è per ogni dove
ingombro di tofi, che di giorno in giorno più crescono, e
lo rendono innavigabile, ad onta della gran quantità
d’acqua perenne ch’egli conduce, e del gran vantaggio
che dal navigarlo sino a Duare ne ritrarrebbe la nazione.
I monti di Pogliza, che sorgono a destra della Cettina,
non meno che quelli di Slime, di Svinischie, e di
Cuccichie sono assai abbondanti di quercie, i tronchi
delle quali potrebbono allora con poco dispendio esser
335
tradotti [90] al mare; eglino costerebbono
incomparabilmente meno, che le quercie d’Istria, e
darebbono un eccellente stortame. È anche probabile,
che i legni di questi monti riuscissero meglio che
gl’istriani tolti da boschi di fondo umido. Per aprire un
canale diritto al loro passaggio, non si tratterebbe già di
lavorare ne’ macigni, ma di tagliare colle mannaje il
tofo, ond’è tratto tratto ingombro il letto del fiume ne’
piccioli e frequenti salti, che trovansi pel di lui alveo.
Scendendo dal tenere di Svinischie verso Miriz,
trovansi molte varietà di cote, ora grigia, or cilestra, e
nelle breccie rovinate dall’alto de’ monti gran quantità
di picciole focaje angolose, e frammenti di corpi marini.
A Miriz restano tuttora in piedi, e particolarmente sulla
sinistra riva del fiume, i vestigj d’una gran muraglia
naturale, in cui le acque dovettero far breccia per aprirsi
un passaggio, che loro avrà costato lunga fatica. La
veduta di quell’ammasso di scogli è un colpo d’occhio
teatrale, che rompe l’uniformità monotona de’ selvaggi
luoghi vicini. Chi sa a quanto antiche ed intime viscere
di montagne abbia appartenuto quel muraglione, che fu
rassodato in pietra dalle acque, che in altri secoli
passarono pella verticale apertura, di cui coll’andare del
tempo restò un così strano vestigio! L’indole de’ monti
interiori della Dalmazia, e d’alcuni anche litorali
argillosi porta con sé quasi costantemente ch’eglino
siano tratto tratto attraversati da filoni di pietra arenaria,
o arenario-concacea. La gran muraglia di Miriz sarà
stata dall’uno, e dall’altro lato anticamente
336
fiancheggiata dagli strati d’argilla, onde i contigui monti
sono anch’essi internamente composti, e quelli in
particolare, nelle viscere de’ quali essa muraglia
s’interna a destra, e a sinistra del fiume, che
rovesciandone una parte s’aprì il [91] passaggio.
L’ampia rovina, che vedesi in quel luogo, e l’altezza
rigogliosa de’ massi ad onta de’ quali il fiume si fece
strada squarciando le viscere della montagna di cui
formavano l’ossatura, sono oggetti ben atti a far
intendere quali, e quanto continue alterazioni soffra
dalle acque montane la superficie del nostro globo.
Questa lezione non è propria del solo fiume Cettina, o
della Kerka, ma di tutti anche i più piccioli torrenti: né
solamente è applicabile alle regioni montuose, ma
eziandio alle basse pianure soggette ad allagamenti che
le alzano, ed ai paesi litorali vicini alle foci, che si
trovano come Ravenna, e Adria, in breve giro di secoli
allontanati dal mare.
La Cettina all’uscire dalle angustie di Miriz si spande
ampiamente pel vallone, e diramasi fra’ banchi di
ghiaja, e gl’intoppi tofacei. Un breve miglio più sotto
ponno arrivare le barche; e vi faceano scala altre volte
cariche di sale al piè della fortezza di Vissech, sin da
quasi un secolo smantellata come inutile. Il padre Farlati
nell’Illirico sacro pochi anni sono dato alla luce parla di
Vissech, come d’un luogo fortificatissimo, e ben
guardato. Il signor Busching ne fa una città; ciò che dee
credersene si è, che non solo non v’hanno abitanti, ma
nemmen vestigj d’abitazioni. Da questo sito al mare
337
scorre per tre miglia liberamente il fiume senza trovar
intoppi, quantunque faccia un viaggio tortuoso fra dirupi
d’una spaventevole altezza, che gli formano per lunghi
tratti argini perpendicolari. La varietà de’ punti di vista,
che s’incontrano nel breve corso della Cettina da
Vissech ad Almissa, è veramente deliziosa; i naviganti
passano da strettissimi canali ad aperti valloncini ben
coltivati, e sparsi di animali che vi pascolano: indi
s’internano fra le rupi senza che si possa prevedere
come faranno ad uscirne; ed alternando [92] in tal guisa
le vedute, e le angustie giungono alle foci
senz’avvedersene, e con dispiacere d’aver goduto poco
d’uno spettacolo così magnifico, e dilettevole.

§. 9. Della provincia di Pogliza, e suo governo.


Le appendici del monte Mossor si prolungano a
destra del fiume, seguendone il corso tortuoso dalla villa
di Gardun, che giace rimpetto a Trigl, sino al mare.
Questo tratto di montagne, che sorge fra Clissa, e Duare
stendendosi fra le foci della Xarnovniza, e della Cettina,
è conosciuto sotto il nome di Pogliza. Il corso del fiume
serve di confine a’ Poglizani per trenta buone miglia,
interrotto soltanto da una picciola porzione del territorio
di Duare. La provincia di Pogliza non racchiude alcuna
città, né si sa che ve ne siano state ne’ tempi antichi.
Ella si è data spontaneamente alla protezione del
Serenissimo Governo nello scuotere la dipendenza dalla
Porta, sotto di cui viveva governandosi co’ proprj
statuti. Questa picciola Repubblica merita d’essere
338
conosciuta. Tre ordini di persone vi compongono un
popolo di circa quindicimila abitanti. V’hanno venti
famiglie, che pretendono discendere da nobili ungheri
ritiratisi colassù ne’ tempi di turbolenze; ve n’ha un altro
maggior numero, che vantano d’essere nobili di Bosna;
e finalmente v’ha la plebaglia de’ contadini. Ogni anno
nel giorno di s. Giorgio si radunano i Poglizani alla
Dieta, cui chiamano in loro lingua Zbor; ciascuno de’ tre
ordini forma un accampamento separato nella pianura di
Gatta. Colà si eleggono di nuovo i magistrati, o si
confermano. Il Veliki Knès, o sia Gran Conte, è la prima
figura dello Stato, ed è sempre tratto dalle famiglie
nobili d’Ungheria. I di lui elettori sono i Conti Piccioli,
[93] cioè i governatori de’ villaggi, che sono tratti dalla
nobiltà bosniaca, e vanno alla Dieta col voto della loro
comunità. Intanto che i Conti Piccioli eleggono il Gran
Conte, il popolo diviso in varie assemblee
rappresentanti gli abitanti de’ villaggi elegge i Conti
Piccioli pell’anno nuovo, o conferma quelli che lo
meritano. Il prim’ordine dello Stato procede
contemporaneamente all’elezione d’un Capitano, e di
due Procuratori. Rare volte accade, che il Conte Grande
sia eletto senza violenza; perché avviene di raro, che
non vi sia più d’un partito. In questo caso, dopo d’aver
provato invano la via del voto segreto, alcuno de’ più
zelanti partigiani usa rapire la cassetta de’ Privilegj del
Paese, ch’è il deposito, cui la nazione affida
annualmente al Conte Grande. Il rapitore fugge verso la
casa di colui, pel quale trovasi impegnato; ogni membro
339
del Consiglio ha diritto di dargli dietro con sassi,
schioppi, coltella; e molti usano del loro diritto
pienamente. Se il galantuomo ha ben prese le sue
misure, e giunga sano alla casa propostasi, il Gran
Conte è bello ed eletto, né v’è chi ardisca di opporsi. Le
leggi de’ Poglizani, e le loro procedure si risentono un
poco del secolo barbaro, in cui furono compilate; ve
n’hanno però di molto ragionevoli. Se v’ha qualche lite
in proposito di terreni, il giudice si porta sopra luogo, ed
ascolta le ragioni delle due parti sedendo in terra sul
proprio mantello disteso; egli pronunzia la sentenza
prima di sorgere, e pell’ordinario con totale sopimento
del litigio. Quando un Poglizano viene ammazzato da
un suo concittadino, il Conte o governatore del villaggio
si trasporta co’ notabili nella casa dell’omicida, e vi
beve, mangia, e saccheggia quanto v’ha di meglio. Si
avverte dopo questa cerimonia il Conte Grande, il quale
portasi tosto anch’egli sopra luogo, e [94] distrugge il
resto. Se l’omicidio non è accompagnato da circostanze
atroci, la pena dell’omicida è di quaranta tolleri,
ch’equivalgono, poco più, poco meno a otto zecchini;
questa contribuzione chiamasi karvarina, cioè sangue
sparso, o prezzo di sangue. Ne’ tempi addietro gli
omicidi erano condannati ad essere lapidati; adesso
eglino subiscono pene pecuniarie, perché il Gran Conte
non vuol esporre la propria sentenza all’appellazione.
Accade però talvolta, che un condannato sia lapidato sul
fatto, perché non abbia il tempo d’appellarsene al
Provveditore Generale della Dalmazia. È ancora in uso
340
fra questa gente la prova del fuoco, e dell’acqua
bollente, lo che fa che v’abbiano talvolta degl’innocenti
mezzo arrosti, e stroppiati. I Poglizani hanno un’altra
sorte di tortura, che per lo meno equivale a tutte le belle
invenzioni analoghe de’ popoli colti; eglino mettono
agl’indiziati di qualche delitto delle scheggie di sapino
fra carne ed unghia. E non si servirebbero certamente
d’altro legno per non fare innovazione, perché il loro
statuto prescrive nominatamente l’uso di questa spezie.
Ad onta di questi tratti di barbarie legale i Poglizani
sono umani, ospitali, e buoni amici, se non abbiano
motivo di sospettare della persona, cui frequentano.
L’ignoranza li rende ombrosi; e riesce quindi
impossibile il ricavar da essi lume veruno, e l’esaminare
carte antiche, od altra cosa degna della curiosità de’
viaggiatori; eglino temono sempre che il forastiere che
sa leggere sia uno scava-tesori. I pastori di Pogliza
hanno una particolar divozione a s. Vito, e ne
solennizzano la festa accendendo dinanzi alle loro
capanne fascj di legni odorosi. Ne’ tempi andati le
nazioni slavoniche aveano divozione al dio Vid.
Credono, che l’estrarre il diaccio dalle profondità delle
loro montagne, [95] dove si conserva tutto l’anno, sia un
far sorgere il vento Borea distruggitore delle loro
piantagioni; e quindi non permettono a chi che sia
l’asportarne. Eglino trattano le donne poco civilmente;
né mai le nominano senza premettere una frase di scusa,
appunto come i Morlacchi. Questo dee bastare per
saggio della loro rozzezza rugginosa. La robustezza, la
341
bellezza della statura, la sobrietà, l’abitudine al lavoro
formano de’ Poglizani un popolo di soldati al bisogno.
Eglino abitano un paese inaccessibile a grossi corpi di
truppe: ma ponno discenderne in formidabile numero.
Lo spirito di vendetta li condusse non ha molti anni a
minacciare la città d’Almissa, scendendo in grosso
corpo da’ loro monti sino alla riva del fiume, e fu
d’uopo del cannone per farli rientrare in se stessi. Nel
tenere de’ Poglizani è un casale detto Pirun Dubrava, il
di cui nome significa la Selva di Pirun. Forse vi si
adorava anticamente l’idolo Perun, che occupava gli
altari slavonici anche a Novogorod, prima che Giovanni
Basilio gran duca di Moscovia avesse conquistato quella
famosa città, e le provincie che ne dipendono.

§. 10. Della città d’Almissa. Ingiustizia fatta dal


padre Farlati a quegli abitanti. Errori geografici
dello stesso.
Almissa, detta Omish dagli Slavi, è per avventura
l’Onæum degli antichi geografi, non il Peguntium come
volgarmente si crede. Ella giace appiè di rupi altissime
su d’una punta di terreno piano bagnata dalla Cettina, e
dal mare. Il Busching, perché goda di miglior aria, l’ha
collocata su d’un alto scoglio, e il padre Farlati più volte
citato francamente asserisce, ch’ella è fabbricata sul
monte, come anche aggiunge con egual esattezza, ch’è
cinque miglia lontana dalle rovine [96] di Epezio,
mentre la distanza fra questi due luoghi è di tredici

342
buone miglia. Vestigj di nobile antichità non vi si
veggono, quantunque d’un’antica popolazione romana
facciano fede i rottami de’ vasi, e di tegole, e qualche
frammento d’iscrizione, che veggonsi sotto ’l luogo
detto Starigrad, cioè Città-Vecchia. Il solo monumento
d’antichità, che si conservi in Almissa, è una picciola
lapida dedicatoria incastrata nelle mura. Questa città ha
titolo di Vescovado, ma non residenza; nel che è simile
a Knin, dove però il Busching ha messo un Vescovo
residente. Almissa col suo territorio forma parte della
diocesi di Spalatro; v’è un Seminario di preti glagolitici
destinati a coprire le parrocchie di Pogliza, e dell’isole,
dove sussiste la liturgia slavonica.
Fu Almissa un nido di pirati in que’ secoli di ferro, e
di sangue, ne’ quali le circostanze formavano un
carattere temporario alle nazioni, e dall’umanità alla
ferocia potevano agevolmente condurle. Il corso del
fiume nascoso fra le rupi, e la difficoltà d’essere
inseguiti nelle di lui foci ingombrate da pericolosi
banchi di sabbia dovette possentemente tentare gli
Almissani ne’ tempi d’anarchia, ed allora ch’erano
sudditi od alleati de’ Narentini, e più tardi ancora
quando viveano sotto l’Herceg di S. Sabba. Eglino sono
ben cangiati a’ dì nostri; ed ha avuto il torto lo scrittore
delle cose illiriche, dal quale furono rimproverati
acerbamente quasi che fossero eredi della mala indole
de’ loro antenati. Questo peraltro rispettabile autore
sembra, che siasi contro il costume del suo ceto
proposto d’irritare una intera popolazione. Egli ha poi
343
344
accumulato tanti sbagli, e sì madornali in pochi versi,
che non si può perdonarglieli. Perché di questo celebre,
e dotto uomo, che fu mal servito da’ suoi corrispondenti
in Dalmazia, [97] non si fidino ciecamente i leggitori,
credo a proposito d’accennare alcune inesattezze, che si
trovano agglomerate nel I. volume della sua opera dalla
pagina 155. sino alla 161. Dice che Scardona è una città
forte; e Scardona è una città rinascente, che non ha
peranche né porte, né mura di sorte alcuna 113. A pag.
156. parla della Vrana, su la fede del topografo del
Regno d’Ungheria, come d’una città o castello tuttora
esistente; e la Vrana è un monte di sassi disabitato, ed
orrendo. Scign, che a pag. 158. è detto equidistante da
Clissa e dalla Cettina, sta cinque miglia lontano dal
113 Scardona.. civitas exigui circuitus, sed mœnibus cincta, et
propugnaculis ad hostiles aggressiones sustinendas, et
propulsandas non invalidis... Vrana modica civitas loco satis
amœno... fortalitii non invalidi... formam accepit... suburbana
late diffundit ut sexcentas facile domos complectantur...
Singum... a Tiluro in occasum, et a Clissa in boream spatio
propemodum æquali disjunctum... assurgit mons Massaron ab
Clissa ad Tilurum perductus... Prope fontibus Tiluri, seu
Cettinæ, loco arduo, et prærupto insidet Livnum... unde, haud
longo spatio interposito, abest in occasum Verlica, castellum
neque infrequens, et satis validum... Oppidum, cui nomen est
Dumno... cui finitimus est pagus... qui Clivnus dicitur...
Almissa, sive Peguntium. Glodovi cujusdam castelli supra
Almissam meminit Palladius. Citclutum nunc imperio subest
Venetorum... Opus.. arx firmissimis mœnibus, ac munitionibus
septa. Farlati, Illyr. Sacr. Proleg. P. 2. a pag. 155. ad 159.
Degli strani errori, che riguardano Mostar, v. pag. 161.
345
fiume, e venti da Clissa. Non vi è monte presso
Spalatro, che si chiami Massaron, ma sì bene il Mossor,
che stendesi da Clissa sino alle foci della Cettina.
Hlivno non è, com’egli scrive, posto alle sorgenti di
questo fiume, che nasce poco lungi da Verlika sulle terre
della Serenissima Repubblica: ma n’è lontano ben trenta
miglia, e più di venti dalle sponde. Verlika [98] non ha
un castellum validum: ma è un povero borgo di
Morlacchi, assai minore d’una villetta in Italia. Dumno,
o Duvno non è vicino al fiume Cettina, ma ben quaranta
montuose miglia a cammin francese lontano da esso, e
intorno a ventisette da Hlivno. Almissa non è il
Peguntium degli Antichi, non ha vicino monte, o
castello che si chiami Glodov, ma giace ai piè d’una
cima della montagna Dinara, che si chiama Borak.
Citluc (p. 159.) è de’ Turchi non de’ Veneziani. Il forte
d’Opus non ha muraglie che lo cingano, ma solamente
terrapieni. Mostàr è sul fiume Narenta, che non può
esser confuso col paese di Montenegro settanta buone
miglia discosto; non è in luogo aspro, non è lontano
venti, ma sessanta miglia da Clobuk.
Io ho ricevuto in Almissa tratti di ospitalità cordiale
da parecchi, e segnatamente dal conte Pietro Caralipeo,
cui pella integrità del costume, e pelle nobili maniere
vuolsi nominare distintamente. L’aria di questo paese
dovrebb’essere infelice, perché la Cettina ha foci
paludose: ma la natura vi ha provveduto, e desta verso
la metà della notte in qualunque stagione un vento
fresco, che uscendo dalle ripide ed anguste sponde del
346
fiume viene a purgare il luogo dall’esalazioni insalubri.
Ad ogni modo però gli Almissani sono molto soggetti
alle terzane nella stagione calda.
La pesca dentro le foci della Cettina è malissimo
trattata, quantunque v’abbiano luoghi opportuni a farla
con vantaggio nazionale. I privati Almissani si
contentano d’avere de’ vivaj pel bisogno giornaliero, e
non si curano di trar vantaggi più estesi da un prodotto,
cui hanno sotto le mani. I pesci di quelle acque sono di
squisito sapore, e di riguardevole mole, come sogliono
essere in tutti i luoghi dove il mare si mescola co’ fiumi.
Così nel Mar Nero crescono i pesci [99] in poco tempo
anche oltre all’indole del genere; e il buon naturalista
Plinio ne dà il merito alla quantità de’ fiumi che vi
mettono foce114. Il mare non è battuto assai da’ pescatori
di questo paese, che lasciano il prodotto delle loro acque
agl’isolani vicini, da’ quali poi comprano il pesce.
Il territorio d’Almissa stendesi per quindici miglia
lungo il mare sino a Brella. Quantunque non sia
coltivato con molta intelligenza produce squisito vino: e
la bontà de’ fondi vince la poco buona coltura. Il
moscadello, e ’l prosecco vecchio d’Almissa, e
generalmente tutto il vino, che vi si fa con diligenza
d’uve ben mature, e riposate, merita d’aver luogo in
qualunque banchetto. S’egli fosse più conosciuto, lo
vedremmo certamente preferito a molti vini stranieri,
114 Piscium genus omne præcipua celeritate adolescit maxime
in Ponto; caussa multitudo amnium dulces inferentium aquas.
Plin. Hist Nat.
347
che costano una riguardevole annua somma di denaro
alla nazione. Lungo il litorale degli Almissani v’hanno
dei poderi, il fondo de’ quali è bituminoso; il vino, che
si ritrae da questi, porta l’odore del terreno.

§. 11. Della muraglia naturale di Rogosniza, e


della Vrullia, il Peguntium degli Antichi.
Il litorale dipendente d’Almissa è costantemente
composto di strati marmorei nella parte più alta, e dalle
spalle in giù di varie terre argillose, o di cote. In un
picciolo seno, sotto la villa di Rogosniza, vedesi allo
scoperto una muraglia naturale (Tav. XII.), simile a
quella, ch’io ho incontrata dalla parte opposta del monte
Dinara, lungo il corso del fiume, nel tenere di Slime.
[100] La punta A del promontorio è di cote rovesciata.
La muraglia B è pur di pietra arenaria. Le rovine
segnate C sono prodotte dallo scioglimento della terra
semipetrosa D, a cui sta appoggiata la muraglia tutta.
Un’altra costa di muro naturale vedesi alla lettera E,
come alla F nuovi filoni di terra azzurrognola. GGG
sono pur muraglie biancastre; ed HHHH altri ammassi
di argilla marina indurata senza vestigio di testacei. Le
acque, che scendono giù pel dorso del monte formano la
crosta tartarosa IIII, alcuni gran pezzi della quale
veggonsi giacere al lido del mare caduti dall’alto. Il
sasso K è uno di quelli, che compongono la muraglia B,
lungo due piedi. Queste muraglie naturali sono così ben
connesse, che a prima vista potrebbono esser prese in
iscambio, e sembrare residui di fabbriche antiche.
348
Quattro miglia a levante del picciolo seno, dove mi
sono fermato per far disegnare le muraglie naturali,
trovasi la Vrullia. Questo nome è ad un tratto comune ad
una montagna, ad un vallone, e alle fonti submarine, che
vi si veggono. Il vallone è quel medesimo, di cui ho
parlato al §. 7. Egli sembra essere stato scavato da un
fiume antico; le fonti che gorgogliano per di sotto il
mare, sono tanto considerabili, che ad un risorgimento
di fiume sobbissato potrebbono convenire. Vrullia ha
radice comune colla voce vril, che significa in islavo
fontana; e questa etimologia rendendo il nome di Vrullia
(ch’è la Berullia del Porfirogenito) analogo a quello di
Peguntium, da che πηγή, e vril sono sinonimi, mi
conduce a credere che in questo luogo, non già alle foci
della Cettina fosse il castello Pegunzio degli antichi
geografi. Vestigj riguardevoli d’antichità non sussistono
in que’ contorni: ma ben si conosce dalla quantità di
frantumi [101] di vasi, e tegole, e dalle lapide sepolcrali,
che tratto tratto vi scappano fuori, essere stato quel lido
a’ tempi romani ben abitato. La principal ragione, per
cui non si veggono intorno alla Vrullia molti vestigj di
abitazioni antiche si è la ripidezza del monte superiore,
e la quantità di sassi, che ne scendono insieme colle
acque. La bocca del vallone della Vrullia è temuta da’
naviganti pell’impetuosa subitaneità de’ venti che
talvolta vi soffiano, e in un momento mettono a
soqquadro quel canal di mare, ch’è fra il Primorie e
l’isola della Brazza, con grandissimo pericolo delle
barche sorprese.
349
Poco lontano da questo luogo il Cantelio, la di cui
carta della Dalmazia è adottata come una delle migliori,
mette le foci d’un fiume, cui fa derivare dal lago di
Prolosaz, da lui chiamato Brestolaz. Chi conosce la
continuità, e l’altezza della montagna Dinara non può
ammettere nemmeno la possibilità d’un tal fiume. Molti
scrittori di cose illiriche, e varj geografi ricopiarono
questo errore, come anche la pretesa isola del fiume
Cettina verso le foci, e innumerabili altre storpiature di
nomi, e distanze.

§. 12. Della paklara, o remora de’ Latini.


Io chiuderò questa mia lettera col raccontarvi un
fatto, al quale darete il valore che merita. Voi avrete più
e più volte letto negli antichi naturalisti qualche
miracolo della remora, o echeneide; e non senza
scandalezzarvene un poco vi sarete incontrato nel
racconto di Plinio, che dopo d’aver riferito sull’altrui
fede un ritardo per questo pesce accaduto ad Antonio,
positivamente asserisce una nave montata da Caligola,
equipaggiata di quattrocento rematori, essere stata
fermata, mentre il resto della flotta se ne andava a [102]
buon viaggio, da uno di questi pesci. Io l’ho letto, e mi
sono contentato di stringermi nelle spalle, senza
rompermi il capo a pensare qual principio naturale, e di
fatto potesse aver avuto un’opinione così generalmente
ricevuta, che anche un uomo di spirito, come per certo

350
era Plinio, ne parlava asseverantemente115. Il caso me lo
fece scoprire. Noi facevamo vela fra la Vrullia ed
Almissa portati da un vento fresco, ed uguale dopo il
mezzogiorno. Tutti i marinaj stavano in riposo, e ’l solo
timoniere vegliava in silenzio alla direzione della barca;
quando all’improvviso lo udimmo chiamare ad alta voce
uno de’ compagni, e comandargli, che venisse ad
uccidere la paklara. Trovavasi meco il nostro dotto
amico signor Giulio Bajamonti; egli sospettò di che si
trattava, e chiese di vedere il pesce, cui ’l nostro
timoniere volea morto: ma il pesce se n’era fuggito.
Interrogato il timoniere, uomo assai ragionevole, e
pescatore di professione, del perché voleva che fosse
uccisa la paklara, e che male gli avea fatto, egli rispose
con positivissima asseveranza, “che la paklara usava di
prendere il timone [103] co’ denti, e ritardava il corso
115 Ruant venti licet, et sæviant procellæ (echeneis), imperat
furori, viresque tantas compescit, et cogit stare navigia...
Fertur Actiaco Marte tenuisse prætoriam navim Antonii
properantis circumire, et exhortari suos, donec transiret in
aliam. Ideoque et cæsariana classis impetu maiore protinus
venit. Tenuit et nostra memoria Caji principis ab Astura
Antium remigantis.... Nec longa fuit illius moræ admiratio,
statim caussa intellecta, quum e tota classe quinqueremis sola
non proficeret. Exilientibus protinus qui id quærerent circa
navim invenerunt adhærentem gubernaculo, ostenderuntque
Cajo indignanti hoc fuisse quod se revocaret
quadringentorumque remigum obsequio contra se
intercederet.... Qui tunc, posteaque videre eum limaci magnæ
similem esse dicunt.... E nostris quidam Latinis remoram
appellavere eum. C. Plin. Sec. Nat. Hist. l. XXXII. c. I.
351
delle barche tanto sensibilmente, ch’egli non solo, ma
tutti i pescatori timonieri usavano d’accorgersi ch’ella vi
era, senza vederla”. Aggiunse, “che molte e molte volte,
egli medesimo l’avea colta sul fatto; che avea preso, e
mangiato sovente di questo pesce; che frequentemente
usava trovarlo nelle acque di Lissa; che la di lui figura
rassomiglia al congro, e la lunghezza non suol eccedere
un piede, e mezzo; e che s’io avessi voluto vederne, e
sorprenderne bastava, che alla buona stagione andassi
colle peschereccie a far qualche viaggio fra l’isole di
Lesina e Lissa, dove ogni anno egli ne aveva trovato”.
Io non voglio, che crediate totalmente al mio pilota: ma
vi confesso, che ho una gran voglia di cogliere la
paklara attaccata al timone d’una barca, che vada a vela.
La resistenza meravigliosa de’ muscoli d’alcuni piccioli
viventi marini come sono le lepadi, che resistono così
pervicacemente alla forza, che le vorrebbe staccare da’
loro scogli; il colpo che parte rapidamente dalla
torpedine, conosciuta in Venezia sotto il nome di pesce
tremolo, e nel mare di Dalmazia sotto quello di trnak; il
vigore che mostrano i dentici ne’ loro divincolamenti
convulsivi, quando anche si trovano fuori del loro
elemento (per lasciar da parte quelli de’ pesci maggiori,
come sono i tonni, i delfini, i capidogli) mi fa sospettare
che se non può essere vero alla lettera quanto della
remora ci lasciarono scritto gli Antichi, tutto non possa
esser falso. È certamente cosa degna di qualche riflesso,
che Plinio parli così a lungo di questo fenomeno come
d’un fatto noto, e non rivocabile in dubbio: e che i Greci
352
abbiano fabbricato sul fondamento della facoltà
remorante di questo pesce la superstizione di appenderlo
alle donne gravide, talora per fermare i parti [104] sino
al tempo della maturità, e talora per promuoverne l’esito
coll’idea che dovesse tener ferme nella buona positura
le partorienti. Io non sono però così facile a credere le
cose stravaganti, che della forza remorante d’un picciolo
pesce sia persuaso; e tengo soltanto il nome di paklara
come più prudentemente usato, che quello di remora.
La differenza, che passa fra la remora, o l’echeneide
degli Antichi, e la paklara de’ nostri si è, che la prima
quasi costantemente trovasi descritta come un testaceo,
la seconda è del genere delle murene. Amatemi,
pregiatissimo amico; e pregatemi dal Cielo lunghi
viaggi, e buona salute. [105]

353
A Sua Eccellenza mylord
Federico Hervey
vescovo di Londonderry, pari d’Irlanda, ec. ec.

DEL PRIMORIE, O SIA REGIONE


PARATALASSIA DEGLI ANTICHI.

A l genio vostro infaticabile ricercatore de’ segreti


della natura, che vi il conduce sovente per vie
rimote ed alpestri, non mai, o molto di raro calcate da’
grandi, e a quell’amicizia, cui generosamente donate a
coloro, che non risparmiano fatiche o disagj per
aggrapparsi a leggere nelle più aspre, e dirupate
montagne, l’antica istoria fisica del nostro globo, io
dovetti, Mylord, la mia prima escursione in Dalmazia, e
’l vivissimo desiderio di ritornarvi. Nel momento, in cui
sembrava ch’io dovessi rinunziare a questo pensiere, ed
abbracciando le generose proposizioni vostre passare
alla contemplazione d’oggetti maggiori in più rimote, e
peranche sconosciute terre, prevalsero combinazioni,
pelle quali io rivarcai l’Adriatico invece di navigare in
Oceano. Rivisitai quella parte della Dalmazia, ch’io
avev’avuto l’onore di scorrere rapidamente in
compagnia vostra; e contando di dover passare altri due
anni in quel regno mi procurai delle notizie preliminari
[106] inoltrandomi anche in quelle contrade, alle quali
non vi permisero d’andare i pressanti affari vostri. Il

354
piano della mia spedizione soffrì una non prevedibile
alterazione; e quindi del poco che ho veduto dovendo
contentarmi, e in necessità di provare al mondo, ch’io
non sono stato ozioso, diedi alle osservazioni mie quella
forma, di cui poterono essere suscettibili, non quella che
avrei voluto dar loro se le avessi a dovere compiute.
Io conto sì fattamente, Mylord, su la bontà dell’animo
vostro, che mi lusingo non isdegnerete di vedervene
dirette alcune, e vorrete pazientemente occuparvene,
come d’una prova della costante memoria, gratitudine, e
tenerezza che a Voi mi congiunge, e mi terrà unito a
dispetto della lontananza mai sempre.

§. 1. Della città di Macarska.


Quel tratto di litorale, che stendesi fra i due fiumi
Cettina, e Narenta, il primo de’ quali Nestus, e Tilurus, il
secondo Naro dagli Antichi fu detto, dove racchiudevasi
due secoli prima dell’era nostra la propriamente detta
Dalmazia, è stato da’ Greci de’ bassi tempi conosciuto
sotto il nome di Paratalassia, e quindi dagli Slavi con
denominazione equivalente fu chiamato Primorie. Dai
racconti d’Appiano rilevasi, che gran numero di città
v’ebbero gli Ardiei, o Vardei, parte proprie, parte tolte
per forza alle nazioni vicine da loro domate, prima
dell’invasione de’ Romani; e dalla Tavola peutingeriana
apparisce, che parecchie ve ne rimasero dopo la
conquista, nelle quali stabilironsi i vincitori, che vi
fondarono anche de’ nuovi municipj. Di questa verità se
ci mancassero le prove manifesto indizio darebbono le
355
frequenti iscrizioni, che svolgendo la terra [107]
s’incontrano per que’ luoghi vicini al mare, ed anche ne’
più internati fra’ monti.
L’amenità della piaggia, la fecondità de’ terreni,
l’opportunità della situazione rispettivamente al
commercio delle provincie interiori col mare, la ricca
pescagione di quelle acque deggiono aver invitato le
antiche nazioni quantunque barbare a stabilirvisi, e dalla
coltura sconsigliata de’ vicini monti, e dal taglio de’
boschi, che que’ popoli si saranno trovati in necessità di
fare per provvedere a’ bisogni loro, deesi per avventura
ripetere il deterioramento della contrada,
l’inghiajamento de’ fondi litorali, e la sfrenatezza
furiosa delle acque montane, che ne rendono inabitabile
qualche porzione.
Macarska è a’ giorni nostri la sola città, che vi
s’incontri, e dalla situazione sua si puote arguire, che sia
sorta dalle rovine dell’antico Rataneum di Plinio il quale
dev’essere stato la cosa medesima, che ’l Retino di
Dione116. Le grotte sotterranee, che in que’ contorni
assai moltiplicate si trovano, sono analoghe a quelle,
che a detta dello storico intorno a Retino s’internavano
nelle viscere de’ monti, e nelle quali ritiraronsi i
Retinesi dopo d’avere incendiato la città loro con dentro
i Romani, che l’aveano presa d’assalto. La totale
distruzione di Retino non fece però abbandonare
totalmente quel sito; da Procopio trovasi detto
Muchirum e nel VI secolo trovasi chiamato Mucarum.
116 Dio. Cass. lib. LVI.
356
Dal Concilio salonitano conservatoci da Tommaso
arcidiacono si rileva che in quella età fu istituito un
Vescovo mucarense. La lapida sepolcrale di Stefano,
che il primo occupò quella sede, fu disotterrata a’ dì
nostri. [108] Poco dopo vennero gli Avari, ed
occuparono il Primorie e le campagne di Narenta, che
acquistarono allora il nome di Pagania, perché questi
nuovi ospiti erano idolatri, e s’usava di già nell’Illirio il
nome di Pogànini per qualificarli. È congetturabile che
l’Inaronia della Peutingeriana sia un’altra
denominazione di questo tratto di paese marittimo tolta
da Narona, che n’era la capitale; se però non sembrasse
più ragionevole il leggere Maronia con Tommaso
arcidiacono: nel qual caso il vocabolo barbaro
equivarrebbe a Paratalassia, e a Primorie. L’Anonimo
Ravennate prende in iscambio Mucaro per Inaronia, che
nella Tavola viene nominata dodici miglia in oriente
d’Oneo, o sia Almissa; Mucaro starebbe bene sette
miglia più oltre, dove si vedono disegnate fabbriche
senza titolo. Il Porfirogenito dà il nome di Mocros a
Macarska, facendone la capitale d’una delle tre Zupanie
comprese ne’ confini della Pagania, vale a dire fra le
foci de’ soprannominati fiumi lungo il lido del mare.
Come il nome di Pagania da Pogànin è derivato, così
Mocros, e i corrotti Mucarum, Muchirum e Muichirum
probabilmente discendono dalla voce mokar ch’equivale
a umido, e innaffiato, e quindi conviene moltissimo al
sito di Macarska bagnato da rivoli d’acqua perenne.
Dopo d’aver formato parte dello stato de’ Narentani per
357
varj secoli, distrutti que’ pirati, passò Macarska col resto
del Primorie sotto l’obbedienza di varj Principi cristiani
ora piccioli, or grandi ne’ bassi tempi, indi obbedì alla
Porta ottomana, e finalmente nel 1646 si diede
volontariamente alla Serenissima Repubblica, che
l’accolse, e colmò di privilegj.
Qualunque opinione sia da tenersi del primiero nome,
e stato di Macarska, egli è certo che niente d’antico le
rimane più a’ giorni nostri. Ella è fabbricata tutta [109]
di nuovo, ed è la sola fra le città della Dalmazia in cui
non si vedano case rovinose e macerie. La sua
estensione è picciola, poco numerosa la popolazione;
non ha fortificazioni di sorte alcuna, anzi è del tutto
priva di porte, e di mura, checché ne dicano i geografi
moderni, e segnatamente il Busching, che prende anche
un grosso abbaglio mettendola su la cima d’un monte.
Ella è al piè d’una gran montagna, e stendesi lungo le
rive del suo picciolo, e non ottimo 117 porto, in sito piano.
L’aria di questo paese non era granfatto salubre nell’età
passate; una palude salmastra le tramandava nel tempo
di state aliti pestilenziali. Gli abitanti vennero in
deliberazione di farla comunicare col mare, ben
intendendo che un picciolo tratto di basso terreno
allagato da fetide acque corrompe l’atmosfera ad una
estensione molto maggiore; ed infatti l’esito corrispose
perfettamente alle loro patriotiche mire, imperocché la
popolazione vi va crescendo, e vi gode molto miglior
117 Il Maty, e La Martiniere, danno ne’ loro dizionarj un gran
porto a Macarska.
358
salute, che negli anni addietro.
I Macherani sono di svegliatissimo ingegno, e
particolarmente addetti al mercanteggiare. Riescono
felicemente anche nella letteratura; e quant’oltre
possano arrivare nella coltura dello spirito col proprio
esempio lo provava il conte abate Clemente Grubbisich,
nato in Macarska d’antica, e nobile famiglia, che nello
scaduto anno 1773 immaturamente fu tolto dalla morte
alla repubblica letteraria, alla patria di cui era lo
splendore, ai viaggiatori che ne ritraevano lumi, ed
ospitalità nobilissima, a tutti i buoni che [110] lo
amavano giustamente. Egli dee aver lasciato delle
pregevoli cose manoscritte, fra le quali meritano
particolar menzione una Storia narentina condotta a
buon termine, e un Trattato delle origini, ed analogie
della lingua slavonica, pieno di laboriosa erudizione.
Quest’uomo dotto, e di costume aureo s’era ritirato in
una casa di campagna, dove coll’esempio avea
intrapreso di riformare la rozza agricoltura de’
Primoriani, e attendeva da tranquillo filosofo agli studj
gustando delle vere delizie d’una solitudine, ch’egli
aveasi resa piacevole, ed amena. Come la sua famiglia
nobilissima fra le altre, così si distinse fra i letterati
cittadini di Macarska monsignore Kadcich, arcivescovo
di Spalatro, che diè alla luce una Teologia morale in
islavo ad uso del clero illirico glagolitico, che ne
mancava totalmente, e lasciò la sua biblioteca
provveduta di buoni libri ecclesiastici a beneficio della
patria, con esempio commendabilissimo. Né si vuol fra
359
gli scrittori macherani lasciar di nominare F. Andrea
Cadcich Miossich, del quale fu pubblicata una raccolta
di canzoni eroiche nazionali; quantunque egli n’abbia
fatto la scelta con poco buon gusto, e con meno criterio
v’abbia introdotto una quantità di cose inutili, ed
apocrife.
Il suolo, su di cui sta fabbricata Macarska, è attissimo
a produrre olio, vino, mandorle, mori, miele, e qualche
poco di grani. L’indole del terreno è leggiera, e ghiajosa,
né manca d’umidità come pell’ordinario gli altri paesi
litorali della Dalmazia. Si riconosce manifestamente,
che da’ piccioli torrenti n’è stata formata la superficie
esteriore; e i torrenti medesimi nelle materie, che
triturarono anticamente, sonosi scavati gli alvei. Un
ruscelletto d’acqua detto Vrutak, attraversa la piazza
della città; non è però così dolce [111] che possa servire
a bevanda salubre, quantunque sorga da luogo elevato di
molto sopra il livello del mare. Il popolo attinge acqua
leggiera, e purissima dal ruscello Budiçeviza, che
scende dalla villetta di Cotisina, e mette in mare vicino
a Macarska.
Sembra che ad onta delle ghiaje portate al lido dalle
acque montane il mare abbia guadagnato, e guadagni
continuamente, in quelle vicinanze. Nel tempo di calma
vedesi sott’acqua nell’imboccatura del porto un pezzo di
muraglia, che non dovett’essere fabbricato certamente
sotto l’onde ne’ tempi antichi; e lo scoglio detto di S.
Pietro, che copre il porto medesimo, soffre uno
smantellamento assiduo, quantunque non rapido, dalla
360
violenza de’ flutti, come gli altri promontorj di quel
litorale. La palude contigua, dove l’acque stagnavano
negli ultimi tempi per non poter avere libero corso in
mare, somministrò anch’essa una prova di questo
alzamento del livello. Nello scavarvi la comunicazione,
di cui vi ho già fatto cenno, si trovarono i residui d’un
magnifico sepolcro, e pezzi di nobili colonne. Io ho
veduto a Macarska una bellissima medaglia di Marco
Giulio Filippo in oro tratta da queste fondamenta, che
non saranno state originariamente piantate in un sito
allagato.

§. 2. Del monte Biocova, o Biocovo, che domina


Macarska.
Il più alto monte che sorga lungo le rive del Primorie
si è il Biocova, alle radici del quale giace la città di
Macarska. Egli apparisce di lontano bianco, e spoglio
d’alberi, e ben gli convengono ad un tratto ambedue i
nomi d’Albio, e d’Adrio che portò anticamente.
L’aspetto nudo, sassoso, e scosceso di questa montagna
disabitata presenta tutte le male qualità bastevoli [112] a
dissuaderne il viaggio. Non è possibile l’andarvi con
cavalcature di sorte alcuna: e riesce per conseguenza
malagevole anche l’arrampicarvisi co’ piedi, e colle
mani. La curiosità d’andar a vedere le ledenizze, o
conserve naturali di ghiaccio, che nell’ardente bollore
della state mantiensi nelle caverne della più alta parte
della montagna, mi spinse ad intraprenderne la scalata.
Il soavissimo amico mio signor Giulio Bajamonti
361
acconsentì a tenermi compagnia. Noi partimmo allo
spuntare del giorno da Macarska, con due Primoriani
per guide, senza de’ quali non sarebbe venuto il mio
prudente compagno, che non istimava ben fatto
d’esporsi a qualche incontro di Haiduci, molti de’ quali
assicurati dall’asprezza del sito abitano come lupi pelle
grotte del Biocovo. Io più inconsiderato, o più disposto
a contare su la probità di que’ banditi, i quali pur troppo
spesso lo sono pell’avarizia d’un rapace ministro, più
che per un vero delitto commesso, sarei andato
volontieri anche solo. Il dorso della montagna è tutto
rovinoso, e i sentieri meno impraticabili a’ quali
dovemmo determinarci furono quelli pe’ quali scendono
le piovane; le ghiaje, e i sassi rotti ci mancavano sotto i
piedi, e ricordavanmi la faticosa salita del Vesuvio, nella
quale io ebbi l’onore d’accompagnarvi, dove pur troppo
a lungo ci accadde di mettere un piede innanzi, per
trovarci un passo addietro.
La bella vista del mare, de’ promontorj, e dell’isole,
che di lassù si gode perfettamente, fu quasi il solo
compenso della nostra fatica. Le diacciaje, alle quali per
un ben lungo, e disastroso cammino saltando di roccia
in roccia vollimo portarci, non aveano più ghiaccio sul
principio d’ottobre. Noi discesimo in una profondissima
voragine, che riceve lume dall’alto, e di fianco poi
diramasi chissà quanto addentro le viscere [113] della
montagna; vi trovammo un freddo acutissimo. Al di
fuori vidimo degli abbeveratoj di legno, dove i pastori
sogliono squagliare il diaccio, e la neve pelle loro
362
greggie. La montagna è quasi del tutto spoglia d’alberi
anche nelle profondità più impraticabili; molto di raro,
in proporzione della sua estensione, vi si vedono residui
di selva antica, i quali pur vi si dovrebbono ritrovare
lontano dall’abitato, e in luoghi inaccessibili, d’ond’è
fisicamente impossibile il trasporto de’ gran tronchi. Ma
il fuoco acceso da’ pastori talora per riscaldarsi, e talor
anche per procurarsi uno spettacolo selvaggio ha
distrutto anche questi. Dicono, che gl’incendj cagionati
da sì tenui principj durarono alcuna volta de’ mesi interi.
La parte alta del Biocovo è composta di breccia, e di
marmo biancastro volgare. Così ne’ massi della prima
come in quelli della seconda pasta trovansi erranti de’
pezzi di selce angolosa, screpolosa al di fuori, piena di
corpicelli marini, e che nell’interno è poi dura, unita,
semidiafana, e capace di lucidissimo, ed uguale
pulimento. Le radici di questa montagna stendonsi
lungo il mare da un capo all’altro del territorio di
Macarska, e quindi alla litografia di essa appartengono
tutti i fossili, de’ quali m’accaderà di farvi parola in
questa mia lunga diceria a misura che anderò toccandovi
i varj luoghi, dove gli ho osservati, e raccolti.
Prima però di finir di parlare del mio viaggio al
Biocovo, per darvi un saggio del carattere de’
Primoriani contadini voglio aggiungere una picciola
avventura, che abbiamo incontrato nello scendere da
quella montagna. I due uomini che ci precedevano
armati, secondo il solito della nazione, incontrarono una
vipera lungo il sentiero, che se ne andava
363
tranquillamente pe’ fatti suoi. L’uno, e l’altro a gara
eccitaronsi ad [114] ucciderla a colpi di pietra, e
malgrado alle intercessioni nostre si ostinarono a farlo,
dicendo ch’ella era un demone malefico nascosto sotto
quell’aspetto; eglino deviarono anche pell’orrore dalla
strada, per cui ella poteva avere strisciato. Il signor
Bajamonti avendo detto loro molte cose affinché
conoscessero la stravaganza di questo pensare, tolse di
terra la morta bestia, ch’era da essi ancora guardata di
lontano con occhio pauroso, e andò verso di loro perché
vedessero, che veramente ell’era morta. Que’ due brutali
ad un tempo si posero in istato di scaricare due armi da
fuoco contro di lui, prorompendo nell’ingiurie, e nelle
minaccie più decisive: e fu veramente un tratto di buona
fortuna che l’amico nostro non gettasse la morta biscia,
come avea accennato di fare, verso di loro; nel qual caso
indubitatamente sarebbe restato ucciso sul momento. Or
non ebb’egli il torto di voler delle guide primoriane per
difesa della persona? Fu detto per iscusarli che la
superstizione è causa di tutto questo; tanto peggio
affedidieci! Io troverei questa gente orribile se fosse
capace di tanto, anche mossa dallo spirito di buona
religione.

§. 3. Delle meteore del Primorie.


Il monte Biocova manda al dire de’ Primoriani i venti,
le grandini, le pioggie, e ogni cangiamento dell’aria. Il
vero è, che questa montagna è il loro teatro
meteorologico. I venti boreali sono quelli, intorno ai
364
quali hanno fatto le più diligenti osservazioni; ed io
credo che meritino d’esservi riferite, da che il mio
defunto amico conte abate Grubbisich mi assicurò, che
dando loro la prova colla sperienza le avea trovate ben
fatte.
Prima che il vento di borea prorompa, se v’ha nebbia
[115] sul Biocovo questa sollevasi in alto, stracciata in
mille guise; l’interno della montagna mugge, poi mena
romore grandissimo; l’aria s’irrigidisce. Se il Biocovo
non ha nebbie, annunziano borea le nubi egualmente
distese per quel tratto di cielo, e il rigore insolito
dell’aria. Dicono i pastori, e sembra il fatto lo mostri,
che il vento borea esce dalle voragini della montagna.
Certa cosa è che dalla sommità egli scende verso il mare
come un torrente impetuosissimo, ed improvviso. Gli
antri d’Eolo situati nelle alte montagne, e le procelle,
che rovinando calano dalle altezze presso i poeti antichi,
mostrano che queste osservazioni sono state fatte
anticamente da nazioni più colte. Anche Seneca pensò
che i venti si scatenassero dagli abissi sotterranei, e si
facessero strada pelle aperture della terra. Allorché per
qualunque cagione si accendono i boschi dell’interno
della montagna regnano i venti boreali di mediocre
forza (come sono mediocremente sprofondate le
convalli selvose accese) finché dura l’incendio: ma
cagionano lunghe siccità. A questo proposito è da
ricordare ciò, che si legge de’ Segnani nella storia della
guerra de’ Veneziani contro gli Uscocchi. Asseriscono
gli scrittori, che que’ ladroni accendendo gran fuochi pe’
365
boschi, o cacciando gran quantità di rami accesi nelle
voragini destavano il vento, che impediva ai legni
nemici l’approdare alle loro spiagge, e talvolta li faceva
perire in quel pericolosissimo Canale della Morlacca.
Quando il monte è assai bagnato dalle pioggie, o non fa
vento boreale, o se spira per qualche poco di tempo, non
prende forza se non a misura, che il monte va
rasciugandosi. Alzasi però il vento di borea se dopo
lunga siccità cada in iscarsa dose la pioggia; se non fa
borea in questo caso, è segno di vicino scirocco. Se
dopo ventiquattr’ore di borea il [116] cielo non trovasi
perfettamente sereno è indizio che il vento medesimo
durerà a lungo, o si cangierà in scirocco. La durata di
borea suol essere di giorni dispari, vale a dire d’uno, di
tre, cinque, sette, nove, e persino a tredici, e quindici di
seguito. S’alza pell’ordinario questo vento coll’alzarsi
del sole e della luna, o col tramontare di essi; verso
l’aurora, e il mezzogiorno si rallenta, e cede talvolta: ma
se non lo fa è segno manifesto che deve imperversare
lungamente. V’ha un vento di borea periodico, il quale
si fa sentire ordinariamente intorno a’ sette, diciasette, e
ventisette di marzo: ma il più costante si è quello, che
spira intorno alle feste di Pentecoste, che quindi ha il
nome di duhovçiza. Pretendono, che se intorno a quel
tempo borea è mite lo debba anch’essere per tutto il
restante della state. Questo vento se spiri
moderatamente credesi utile, ed anche necessario dopo
la fiorita delle viti, e degli ulivi, perché trae seco
sollecitamente i fiori disseccati: così giova quando le
366
viti per troppa umidità sono ammalate di rubedine. Ma
per lo più è micidiale portando mali di petto, e febbri
maligne agli uomini, e morte a ghiado agli animali
minuti, che sono sparsi pei pascoli della montagna.
Allontana da que’ lidi, per quanto dicono i pescatori,
anche le masse, o stormi de’ pesci emigranti; e
finalmente quando inferocisce lacera, fracassa, e
sbarbica le piantagioni, inaridisce, e polverizza la terra,
indi la porta seco pell’aria, o la lascia snervata, e senza
forza vegetatrice. I naviganti non si fidano a impegnarsi
di notte nel canale ch’è fra ’l Primorie, e l’isole di
Brazza, e Lesina, temendo il furore subitaneo di questo
vento, che precipita dalle montagne, o sbocca dal
vallone della Vrullia; e quindi il commercio soffre
moltissimi ritardi e pregiudizj. [117]
Lo scirocco, e il maestrale dominano anch’essi
alternativamente in Primorie; quindi all’osservazione
de’ pescatori, e marinaj furono soggetti. Le acque alte
presagiscono lo scirocco, come le basse
straordinariamente indicano vicinanza di venti
settentrionali; così la straordinaria rapidità delle
correnti. Lo scirocco periodico si fa sentire ogni anno
verso Pasqua; questo non conduce pioggie, ma bensì
caldo; il suo periodo ordinario è di venti giorni, e suol
cessare al calar del sole. L’anno, in cui questo vento
manca di spirare ne’ modi e al tempo accennato, si ha la
state quasi priva di venti maestrali, e di turbini, o nembi.
Questo scirocco asciutto è dannoso perché abbrustola i
germogli delle piante; agli uomini non apporta altre
367
malattie che stanchezza, e svogliatezza, incomodi ben
compensati dall’abbondante pescagione, cui si crede
dovergli in particolare allorquando è piovoso di
frequente, e dal buon raccolto de’ grani seminati pel
monte. In tempo di state quando il maestrale si posa per
un giorno, è segno di scirocco nel dì seguente; lo
scirocco poi sciogliesi con qualche turbine. Anche i
turbini somigliano alla febbre; se non sono efimeri,
ritornano a farsi sentire nel dì seguente, intorno all’ora
medesima. Forse potrebbonsi pronosticare facendo
riflesso alle anticipazioni, o posticipazioni de’
movimenti dell’aria. Dicesi che nell’interno della Bosna
qualche tempo fa cadde una pioggia di sardelle, con
grande spavento, e contrizione di que’ poveri Turchi;
s’egli è vero, se ne dee dar la colpa a qualche tifone, de’
quali sono frequenti gli esempj.
I lampi d’estate se si mostrano a ciel sereno
predicono lunga siccità, ma se vengono da qualche nube
carica annunziano l’aggruppamento d’un qualche
turbine, e pioggia impetuosa. Nel tempo d’inverno i
lampi, che sono frequenti al di là del nostro Adriatico,
[118] presagiscono comunemente che il vento dee
venire dalla parte opposta. Il romore straordinario di
molti tuoni non promette pioggia abbondante, e v’è di
questo un proverbio illirico: «Kad vechie garmì magna
dasgia pade»: Quando più tuona minor pioggia casca.
La stagione delle pioggie in Primorie è sul principio
d’autunno, e sul finire d’inverno. Se l’inverno, o la state
sono piovosi di molto è uno sconcerto; così hanno
368
osservato che l’inverno mite dà una state procellosa. La
state piovosa dà buon raccolto d’oglio, ma poco vino, e
viceversa: ma se l’inverno è stato piovoso, la primavera,
e la state asciutta, v’ha carestia d’ogni prodotto. Quando
la stagione è troppo piovosa suol cadere nelle notti
serene una rugiada rossiccia, ch’è osservabilissima
spezialmente da chi viaggia per mare; pretendono che
da questa venga la rubedine delle viti.
Verso Natale, e in primavera si fanno sentire le
provenze lungo que’ litorali; e queste per lo più la
finiscono con qualche burrasca. I venti australi, e il
garbino vi sono poco frequenti a paragone de’ boreali,
de’ maestrali, e dello scirocco; quindi non se ne hanno
regole dettagliate.
La neve, e il diaccio non durano molto in Primorie, e
nemmeno su la cima del Biocovo; quantunque al di là di
essa, e fra’ dirupi del monte Mossor si conservino
talvolta da un anno all’altro. L’abbondanza della neve
porta abbondanza d’ogni prodotto, ma spezialmente
d’oglio, e tanto più quando anticipi a cadere. Il freddo,
che si faccia sentire troppo tardi, è dannosissimo, perché
sorprende il succhio delle piante in moto. Anche gli
animali minuti ne patiscono gravissimi danni. Non è
però mai molto acuto il freddo in quelle contrade
marittime, quando il vento di borea non lo conduca; e,
senza di questo, il mese di gennajo [119] vi è come
l’aprile fra noi. La state vi si sente quasi da per tutto
calda all’eccesso; e nel mese di settembre io vi ho
sofferto tanto dall’ardore dell’aria, che in Puglia non ho
369
certamente provato di peggio. Le grandini vi sono meno
frequenti, e più minute che nella nostra parte d’Italia.

§. 4. Del mare che bagna il Primorie; del suo


livello; della pesca.
Nel viaggio, ch’io ho avuto l’onore di fare con Voi,
ho in varj luoghi creduto di ritrovare costanti, e chiari
indizj dell’alzamento del livello del nostro Adriatico,
del quale alzamento da’ tempi romani a’ nostri
convennero il Manfredi, e ’l Zendrini, e che adesso da
alcuni si nega senza verun ragionevole fondamento, anzi
in opposizione de’ fatti, da altri non si calcola punto
nelle occasioni, che pur chiederebbono si calcolasse.
Non è del momento il raccogliere tutte le osservazioni
di fatto, che in favore di questo alzamento di livello
somministra la città di Venezia, dove il Governo è in
necessità d’anno in anno d’alzare le piazze, che danno
acqua alle pubbliche cisterne, perché dal XVI secolo, in
cui per la maggior parte furono riparate, sino a’ dì
nostri, il mare ha guadagnato sopra i pavimenti nelle
piene sciroccali; dove l’acque entrano in parecchi tempj,
che saranno certamente stati fabbricati in modo da
contenervi i fedeli all’asciutto; dove la gran Piazza di S.
Marco, ad onta del nuovo pavimento, e de’ rialzamenti
che vi si son fatti, è tratto tratto inondata: dove ne’
magazzini de’ mercatanti l’acqua oltrepassa nelle piene
le prevedute misure con danno, e deperimento
grandissimo di merci. E questi danni urbani, e gli
smantellamenti delle dighe, i pregiudizj cui soffrono le
370
nostre valli, e quelle de’ Comacchiesi, [120] che si
lamentano giornalmente del mare sopraffattore; la
rovina parlante del non oggimai per qualunque
dispendio che vi si faccia ben riparabile porto
d’Ancona, e del monte vicino, che vien rovinato a occhi
veggenti; la città di Conca sommersa poco lontano da
Rimino; le fondamenta subacquee di Ciparum in Istria,
che pur fu distrutta del 800, e tante altre osservazioni
corrispondenti sono estranee al mio proposito. Io vi
deggio parlare di ciò, che ha rapporto al livello del mare
lungo il litorale primoriano.
In tutta la spiaggia dalle foci di Cettina sino a quelle
di Narenta il mare ha visibilmente perduto della sua
antica estensione in superficie. Le ghiaje, le terre, le
sabbie portate giù da’ monti pell’impeto de’ torrenti
hanno colmato le valli, e d’un lido, che anticamente sarà
stato second’ogni apparenza portuoso, hanno fatto una
spiaggia esposta ai venti, e totalmente priva di seni. Il
mare infuria adesso contro questi nuovi terreni, e li va
rodendo tanto più agevolmente, quanto ch’e’ non hanno
gran connessione di parti. Per quanto s’abbassi la marea
in que’ luoghi, dove il lido corroso sorge a perpendicolo
non si discuopre però mai altra materia che lo
componga se non se ghiaje montane. I promontorj, che
in varj luoghi sporgono in mare dal continente, invece di
ricevere aumento, o fiancheggio, come dovrebbe
accadere se il mare (come ad alcuno potrebbe venir in
pensiero) cacciasse al lido le proprie ghiaje, perdono di
giorno in giorno della loro estensione, e divengono
371
scogli subacquei, capovolti, e staccati dal monte.
A queste osservazioni generali due di particolari ho
potuto viaggiando pel Primorie congiungerne. L’una mi
è stata dettata dall’iscrizione scolpita nel vivo dello
scoglio lungo il lido di Xivogoschie, nella quale è
parlato non solo d’una fonte che non vi sgorga più, ma
[121] anche d’un tratto di podere ch’ella irrigava.
Adesso il mare batte violentemente contro la rupe
scritta, e di già colla reiterata percussione delle ghiaje
litorali ne ha pregiudicato di molto il pregevole
monumento, che non si legge più intero. Il podere, il
giardino, il viale ameno, per cui s’andava a questa fonte,
che apparteneva, secondo il chiarissimo signor
Girolamo Zanetti a Liciniano imperadore, è tutto stato
sommerso con essa insieme dal rialzato mare.
Il fiume Narenta, e la campagna da lui allagata, in cui
trovansi sepolti i resti dell’Emporio Narona, mi
somministrarono l’altra, che pur troppo è applicabile
anche alla parte nostra, dove Adria, e Ravenna subirono
la medesima sorte. Le acque ritardate nel loro corso
dall’opposta crescente altezza de’ flutti, deposero
intorno alle foci di Narenta un gran numero di banchi
d’arena, d’alcuni de’ quali formaronsi dell’isole basse, e
paludose: ma di questo apparente prolungamento delle
terre, ben si vendica il mare giornalmente, rimontando
sempre più addentro nell’alveo del fiume medesimo, e
costringendone le acque impedite dallo scaricarsi
liberamente a spandersi pell’aggiacente pianura. Quel
tratto di paese, ch’era una volta fecondissimo produttore
372
di biade, e dominato da una florida città, è adesso una
vasta, e insalubre palude, dove appena trae la vita
languendo una miserabile, e scarsa popolazione. Non
sarebbe però difficile impresa il ridurre abitabile e
fruttifera quella pianura; e vi s’incontrerebbero meno
difficoltà che nel basso Polesine, poste le differenti
combinazioni del sito: ma stando le cose in istato
naturale il mare vi ha fatto ritrocedere il fiume, ed
allagate le terre. Il Lago scardonitano sarà forse stato
anch’egli una pianura irrigata dal Tizio, prima che il
mare ne rispingesse il corso. [122]
Il canale, che separa la penisola di Sabbioncello dal
continente, ha tutta l’apparenza d’essere stato in tempi
rimotissimi l’alveo del fiume Narenta. Il monte, che
forma quel promontorio, non è d’origine vulcanica,
onde possa dirsi sorto di sotterra o di sott’acqua tal qual
si vede; egli è manifestamente stato separato dalla
continuità della gran massa, che forma il continente,
come le vicine isole lo furono senz’alcun dubbio.
Torcola, ignobile isoletta abitata da pastori soltanto, ha
una cava di tofo fluviatile, il quale non d’altronde che
da un fiume tartaroso può aver l’antica sua origine; e
nella struttura della medesima isola restano degli altri
segni riconoscibili d’antichi alvei. Così ne rimangono
sull’isola di Lesina, de’ quali farò parola a suo tempo.
I fondi del mare primoriano sono ineguali; la
profondità dell’acqua vi è però sempre considerabile nel
mezzo del canale, che separa il continente dall’isole, e
dovrebbe oltrepassare le cencinquanta passa. Nel seno
373
di Narenta, come fra Sabbioncello, e Lesina è molto
minore, a segno che sovente si vede il fondo.
M’accadde di vedere nelle acque del capo S. Giorgio di
Lesina cosa, che può dar idea dell’accrescimento de’
fondi marini pell’accessione de’ testacei, e poliparj, che
vi formano la crosta, di cui parla il Donati nel suo
Saggio di storia naturale dell’Adriatico. Questo
scrittore si credette dopo lunghe osservazioni subacquee
di poter concludere, che l’acque del mare s’alzassero di
livello in qualche ragione coll’alzamento de’ fondi
prodotto dalle importate de’ fiumi, e da questa crosta,
ch’egli avea in varj luoghi, e spezialmente nelle
maggiori profondità ritrovata. Io tralascio d’esaminare
se infatti deggia contribuire l’alzamento del fondo
all’alzamento dell’acque in un seno di mare, nel quale
l’acque [123] vengono dall’Oceano, d’onde tanto meno
probabilmente dovrà venirne, quanto meno pel
riempimento, ed interramento de’ fondi ne potrà il
recipiente contenere; e vi parlerò soltanto di ciò che
riguarda la crosta. Questa sembra ben lungi dal formarsi
in ogni luogo; in alcuni fondi non si vede affatto, né si
trae di sott’acqua con veruno stromento: in altri è
picciolissima cosa. Fuor del capo S. Giorgio suddetto
vedesi in poco fondo d’acqua un gran mucchio di urne
antiche, che denno avere una dimora in quel sito di
quattordici secoli per lo meno; molte di queste urne
trovansi anche sparse a quattro, a due, a tre, colcate
lontano dal maggior cumulo. Non sono sepolte, che anzi
si vede loro più della metà del corpo; con mediocre
374
spesa, e fatica si può trarne dal mare qualcheduna.
Elleno hanno poco più d’un piede di diametro, e intorno
a tre d’altezza; portano sovente il nome del fabbricatore
in belle, e riconoscibili lettere romane. Sembra che il
naufragio di qualche vascello carico di stoviglie le abbia
colà depositate. Ora il giro di tanti secoli né le ha
nascose sotto la crosta di recrementi marini osservata
dal Donati, né questa crosta ha ingrossato più di mezzo
pollice su di esse, che ne sono e al di dentro, e al di fuori
intonacate. Fa dunque d’uopo che la non sia così
universale come per avventura egli si credette, o mostrò
di credere, e che la non si formi sì presto come altri
potrebbe forse pensare, e quindi che il sollevamento del
fondo marino non sia tanto quanto si crede. Egli è poi
probabile, e consentaneo alle leggi della fisica, che le
deposizioni de’ fiumi, e quelle de’ torrenti molto più, si
decantino in poca distanza dalle foci, d’onde ne segue
piuttosto un prolungamento de’ continenti, che altro
cangiamento nella vasca del mare118. [124] Questi
prolungamenti de’ terreni litorali produrrebbero non
v’ha dubbio egualmente, che gl’interramenti de’ fondi,
118 «Quanto più li testacei, crostacei, e poliparj sopra una tal
crosta si propagano, tanto più ella si riempie delle spoglie, e
degli scheletri de’ medesimi, ed accresce la propria mole, e
perciò s’inalza il letto del mare, al quale accrescimento però
viene, e fu assai più somministrato dal disfacimento di
qualche isola, che alcuna volta avvenne nel nostro Adriatico;
dalle ruine ec... Vedete come sia necessario, che il fondo del
mare s’accresca, ed accrescendosi questo, come l’acque
debbano inalzarsi, ec». Donati p. XI. XII.
375
un alzamento di livello in qualche lago: ma non pare che
debbano farlo nel nostro mare, che comunica, e livellasi
colle acque esteriori. L’alzamento di livello da’ secoli
romani a’ dì nostri essendo però un fatto incontrastabile,
di cui oltre alle sopraccennate da me anche il Donati
arreca molte prove, fa d’uopo da qualche altra più
grande, e universale cagione ripeterlo. La subsidenza
delle terre, colla quale alcun ingegnoso uomo si è
studiato di spiegarlo, non può così ben quadrare a’
luoghi di fondo palustre, e a’ fondi sassosi che ne risulti
un eguale effetto: vi vorrebbe poi un miracolo continuo
perché a Venezia in grazia d’esempio tutte le fabbriche
s’abbassassero d’accordo, quantunque non tutte sieno
della stessa data, o piantate nella stessa indole di suolo.
Io non so come si porti il mare intorno a codesta
vostr’isola ne’ luoghi lontani dalle imboccature de’
torrenti, o de’ fiumi, da’ quali non si vuol trarre alcuna
regola, per esservi troppo visibilmente parziale il
prolungamento delle terre. So bene, che nel Baltico (se
alle attestazioni de’ signori Celsius, e Dalin si voglia
credere, e al celebre signor Linneo) la [125] terra
abitabile s’accresce, e il mare ritirasi manifestamente
abbassandosi di livello: ma per una strana fatalità, anche
in questo vollersi mescolare i teologi del Nord (che
dicono poi male de’ nostri) e ruppero talmente la testa
alle persone negando ad alte grida quanto da’
sunnominati osservatori venne asserito, che non se ne sa
più che cosa credere.
Ma io mi sono lasciato ire ben lontano dal Primorie
376
senz’avvedermene; lasciamoli contendere a loro piacere,
e torniamocene alle nostre acque.
La pescagione delle sardelle, e degli sgomberi è la più
ricca, che soglia farsi lungo le rive del Primorie. Il
tempo di eseguirla è nelle notti oscure; il pesce viene
ingannato dalle barche dette illuminatrici, che portando
su la prua un fuoco di ginepro, o di sapino acceso, lo
conducono a numerosi stuoli nelle reti vicino a terra.
Ciascuna di queste reti, che chiamansi da tratta, ricerca
tre barche; una maggiore, in cui giace la tratta
medesima, e due minori fornite di legna, che servono di
guida al pesce allettato dal loro lume a seguirle sin
dentro alle reti. Tredici uomini sono impiegati per
ciascheduna tratta, e questi divengono eccellenti marinaj
dopo pochi anni d’un tal esercizio, che gli espone
sovente a combattere con improvvise nembate, o a
vincere a forza di remi l’ostinazione or delle calme, ora
de’ venti contrarj. L’arte pescatoria fiorì altre volte in
Dalmazia: ma dappoiché ai di lei prodotti, che
spacciavansi felicemente pella terra ferma, sono stati a
poco a poco maliziosamente da privati interessi
surrogati gli stranieri, invece di perfezionarsi e dilatarsi
ha perduto molte delle antiche industrie, ed è assai meno
estesa a’ giorni nostri di quello fosse nell’età passata.
Uno degl’impedimenti alla propagazione della pesca è
anche divenuto il prezzo delle resinose [126] scheggie
di ginepro, e sapino, di cui quegli abitanti
esclusivamente si servono nell’illuminare: queste due
spezie d’alberi sono oggimai quasi sterminate da’ monti
377
litorali, e dagli scogli. Sarebbe facile il superare
quest’obbietto colla sostituzione d’un ben inteso fanale
simile a quelli, che si usano da’ pescatori francesi del
Mediterraneo, che vanno di notte in cerca degli
sgomberi, e delle sardelle; questo ripiego farebbe
scansare una riflessibile parte delle spese, che
abbisognano per una tratta, e risparmierebbe anche
l’opera di qualche uomo, ch’è un animale da tener caro
in un paese poco popolato come la Dalmazia.
La pesca delle sardelle, e degli sgomberi s’incomincia
all’aprire di primavera, e dura tutta la state, e buona
parte d’autunno, eccettuandone le notti vicine a’
plenilunj, che sono troppo chiare. Pretendono i pescatori
d’aver osservato, che gli stuoli di queste due spezie di
pesci vengano dal mezzo del golfo, e si perdano pel
canale del Primorie cercando pastura; eglino dicono
ancora, che la pastura, di cui si compiacciono
particolarmente, sono varie spezie d’ortiche marine,
chiamate nel dialetto pescatorio klobuci, o sia
cappelletti, che cacciate dal vento vengono galleggiando
a quelle rive. Gli sgomberi, e le sardelle gl’inseguono,
mostrandosi avidissime di questi, e d’altri animali
gelatinosi congeneri, de’ quali gran varietà ritrovasi
presa nelle reti sovente, ma che sono difficilissimi da
osservare, perché fuor d’acqua scompongonsi
facilmente, e si dileguano. È anche cibo appetito da’
pesci emigranti l’insetto detto morska buha, o sia pulce
marina, che rassomiglierebbe all’onisco assillo di
Linneo, e trovasi nuotando a sciami pell’acque: come lo
378
sono certe scolopendre lunghe poco più d’un pollice e
mezzo, conosciute da’ pescatori sotto la generale [127]
denominazione di glistine, o sia vermi, e da taluno col
nome di glistine stonoghe, cioè vermi da cento piedi.
Questi poveri insetti in tempo di notte sogliono dare
anche nell’acqua tranquilla una vivissima luce argentea,
che dev’essere la loro rovina. Io ne ho veduto talvolta
camminare ne’ luoghi di poco fondo con grandissima
compiacenza mia nell’oscurità delle notti estive; e fu
loro ventura che non fossi uno sgombero.
Oltre la pesca de’ due accennati generi, e le reti da
tratta che vi si adoperano, altre reti soglionsi usare per
far preda di ghìrize, o smaride, ignobile e picciolo
pesce, che s’insala a beneficio del minuto popolo, e per
cogliere i muggini detti chiffle da’ pescatori. La pesca
delle ghirize è quasi d’ogni stagione; quella de’ muggini
si suol fare unicamente in autunno lungo i lidi del
Primorie. Questi s’aggirano in occasione di gran
pioggie, o di venti boreali intorno alle foci del fiume
Narenta, dove vanno a far le ceremonie loro
matrimoniali. I Primoriani escono con una sola barca
equipaggiata di nove uomini alla pesca de’ muggini, che
si fa di chiaro giorno; due sentinelle occupano qualche
luogo eminente del lido per conoscere dal movimento
dell’acqua da qual parte vengano gli stuoli, ed
avvertirne quei della barca, da’ quali destramente sono
calate le tratte ne’ siti, e ne’ momenti opportuni. A
questa pesca, che dura poco tempo, è spesso congiunta
quasi per compenso una favorevole fortuna, per cui
379
dopo poche ore di viaggio le barche ritornano cariche di
preda. I muggini sogliono essere da’ Primoriani
spaccati, e messi in sale, come s’usa di fare a
Comacchio: ma questi pesci sono più grandi in
Dalmazia; i pescatori specialmente di Macarska
n’estraggono le bottarghe, che seccate al sole
conservansi lungamente, e riescono d’uno squisito
sapore. I ghiotti le trovano più delicate, [128] che quelle
del mar di Grecia, quantunque sieno molto minori di
mole.
Non è facile il calcolare quanto pesce insalato metta
in commercio annualmente il Primorie; questa materia è
malissimo sistemata per tutta la Dalmazia, ed anche ne’
luoghi, dove i risultati della pesca sono molto più degni
di riflessione. Certa cosa è, che i Macherani
(quantunque in premio della spontanea dedizione
abbiano molte esenzioni nel portare alla scala di Venezia
i loro prodotti) si contentano pell’ordinario di vendere il
salume agli stranieri. Pretendono d’essere stati
addottrinati dalla sperienza, e d’aver trovato maggior
vantaggio nel contrattare co’ mercatanti regnicoli, o
papalini, che co’ nostri. Da vent’anni in poi dicono, che
la pescagione è diminuita, e che appena si ritraggono
dall’esercitarla profitti che compensino le spese. Io non
crederei però, che il pesce n’avesse colpa, e che meno
abbondanza ne venisse in cerca di pascolo pel canale del
Primorie; quantunque anche questo possa esser vero, e
forse sia da accusarne il deterioramento de’ fondi vicini
ai lidi, ne’ quali precipitano coll’acque insieme da’
380
monti spogliati di boschi terre d’ingrato sapore, e sterili
ghiaje. Mi sembra però probabile, che l’impoverimento
generale, e progressivo della popolazione dalmatina sia
la principal cagione dell’infelicità delle pesche;
l’impotenza fa scemare d’anno in anno il numero delle
barche peschereccie, e per conseguenza va mancando il
numero de’ pescatori coraggiosi, che battano il mare, e
ne traggano ricche prede, anche nelle notti nuvolose,
come altre volte facevano. Sarebbe necessario, non che
utile, il promuovere con adattati incoraggimenti
l’esercizio, e la moltiplicazione di quest’arte a segno,
che i pescatori s’incomodassero gli uni cogli altri. La
marina nazionale vi guadagnerebbe [129] moltissimo,
lasciando anche da parte l’aumento del prodotto, e i
comodi di commercio, che se ne potrebbono trarre. La
vostra nobilissima nazione, Mylord, somministra un
esempio luminoso dell’influenza dell’arte pescatoria
nelle forze marittime. È vero che noi non abbiamo
nell’Adriatico balene da combattere, né la gran quantità
de’ pesci polari, che inondano i mari del Nord: ma egli è
vero altresì, che la nostra navigazione non è
ordinariamente diretta all’America, né alla China, e
quindi il pescatore uso a battere il nostro mare in
qualunque stato diviene attissimo marinajo pe’ bisogni
che abbiamo.
De’ pesci inquilini erranti da per sé soli come a dire
dentici, gongri, orate, e simili usano andar a caccia pur
di notte con barche illuminate, e sono
meravigliosamente destri nel coglierli colla foscina,
381
ch’è una lunga lancia di legno armata all’estremità d’un
pettine di ferro, che ha i denti fatti in foggia d’amo. I
tonni, le palamide, le lizze, i pesci spada, e i goffi non di
raro si trovano anch’essi alle mense di Macarska.
Il delfino, e i tursioni congeneri ad esso vagano
liberamente per quelle acque; né vi fu sino ad ora chi
abbia volto il pensiero a trar partito da questa picciola
specie di cetacei del nostro mare. I pescatori dalmatini
hanno una sorte d’amicizia, e di gratitudine ai delfini,
facendo loro un merito del cacciar il pesce alle barche
illuminate, o sia che peschino colle tratte, o colla
foscina; in quest’ultimo caso i pescatori non mancano di
gettare dalla barca al delfino qualche grosso pesce come
per dividere la preda con esso. S’io avessi avuto l’agio,
ed opportunità necessaria, mi sarei provato a far toccare
con mano a qualche pescatore men irragionevole degli
altri il danno, che apportano questi [130] animali voraci
alla pescagione, e il vantaggio che dalle loro carni
messe in sale, e dal loro grasso squagliato può ricavarsi.
I vitelli marini rare volte si mostrano nel canale del
Primorie, ma non infrequentemente si vedono presso le
foci di Narenta. Eglino amano i fondi interrotti da scogli
ed isolette, per uscire all’aria sovente; e quindi spesse
volte se ne incontrano lungo le coste dell’Istria, e fra
l’isole del Quarnaro. Gli abitanti del litorale
attribuiscono a questo anfibio una grandissima
propensione alle uve, e protestano asseverantemente,
che in tempo di notte egli esce a succhiare i grappoli
pendenti dalle viti, nella stagione opportuna.
382
Tre sorte di pesci velenosi, o dannosi trovansi sovente
nelle reti de’ pescatori; il pesce colombo, detto xutuglia,
o xutizza, pella giallezza del suo colore, ch’è la
pastinaca marina; il pesce pauk, o ragno; e la scarpena,
o pesce scorpione. Il veleno di questi tre pesci consiste
nella puntura della spina, che hanno sul capo, da cui
diligentissimamente si guardano i pescatori. Se però ad
onta delle precauzioni si trovano trafitti, alla ferita della
scarpena applicano il fiele dell’animale medesimo; a
quella del ragno, e del colombo rimediano col
fielebianco (dicon essi) della loligine, detta in loro
dialetto quasi latinamente lighgna, od oligagn. Il
migliore però di tutti i rimedj si è un forte strettojo alla
parte affetta, e un taglio, per cui scorra fuori il sangue
avvelenato. La torpedine vi è comunissima, e si chiama
trnak; l’irrigidimento del piede che la preme, o del
braccio che la tocca non suole aver mai lunga durata, o
conseguenze.
Le conchiglie di questo mare non sono gran cosa, né
rispetto alla varietà loro, né rispetto alla bellezza. Le
pinne, che in alcun luogo di fondo fangoso vi crescono
[131] sino all’altezza di due piedi, danno una cattiva
sorta di perle di colore piombato, e quella spezie di seta,
di cui Voi avete veduto in Dalmazia de’ lavori. Un
naturalista, che volesse intieramente occuparsi di
ricerche conchiliologiche, e zoofitologiche troverebbe
però certamente ampio pascolo alla sua curiosità ne’
fondi dell’Adriatico, e potrebbe unire un gran numero
d’osservazioni curiose; da che si può dire francamente
383
che Marsigli, e Donati appena sfiorarono questa messe
vastissima. I lavori petrosi, e legnosi de’ polipi deggiono
essere moltiplicatissimi nelle profondità subacquee, e
non di raro qualche pezzo di madrepore, o di corallo dà
fuori. La pesca di quest’ultimo genere è a’ dì nostri
trattata con un po’ d’oscitanza, perché forse qualche
serie di combinazioni disfavorevoli ne ha disgustato il
fermiere.

§. 5. De’ luoghi abitati lungo il litorale del


Primorie a ponente, e a levante di Macarska.
Dalla picciola villa di Brella, che sorge su d’un’altura
in riva del mare presso la Vrullia, dove second’ogni
probabilità il Pegunzio degli Antichi, e la Berullia del
Porfirogenito si dee cercare, incomincia il territorio di
Macarska. I pochi terreni, che dalle radici della
montagna stendonsi lungo il mare formando qualche
striscia di litorale piano, e le colline contigue sono assai
mal coltivate; buona parte di esse giace abbandonata al
pascolo degli animali, quantunque fosse ragionevole
cosa il ridurre a vigne tutto quel tratto. La nudezza però
della montagna superiore giustifica l’uso delle terre
litorali. A onta delle troppo frequenti visite di borea,
tutto il Primorie macherano è attissimo a portare ulivi, e
viti, e frutta gentili; queste ultime vi si vanno
introducendo sull’esempio de’ [132] Poglizani, che ne
coltivano lungo il loro litorale con felicità, e ne fanno un
commercio lucroso, quantunque non sieno peranche
arrivati a migliorare le spezie col mezzo degl’innesti. Vi
384
fanno eccellente riuscita le marasche, spezie di ciriegie,
dal nocciuolo delle quali particolarmente si dà il sapore
al rosolio conosciuto sotto il nome di maraschino, di cui
molte fabbriche esistono in Dalmazia, e a Zara
principalmente una d’assai rinomata presso i signori
Carseniga.
Oltre gli ulivi, e le viti, i più considerabili prodotti
degli alberi fruttiferi sono in quel distretto i fichi, e le
mandorle. La coltura delle due prime spezie non vi è
generalmente ben intesa; si trovano nel medesimo
picciolo podere alla rinfusa ulivi, fichi, e mandorli in
mezzo alle viti; queste sono piantate in distanza di due
piedi l’una dall’altra, e si lasciano vagare per terra co’
sarmenti. Il prodotto annuo delle vigne non ascende a
rendita media sino al quattro per cento, computando le
spese che vi si richiedono. L’età della vite è di trent’anni
al più: ma l’associazione de’ tanti alberi, che succhiano
il terreno medesimo fa che la vecchiaja loro si scopra
assai presto, e tanto più quanto che il paese manca di
concimi, in conseguenza del metodo barbaro di lasciar
vagare gli animali anche in tempo di notte, e dell’aver
pochissimo foraggio. Al finire delle viti d’un podere
riesce svantaggioso il ripiantarne fra l’ombra; né
dall’altro canto l’interesse consiglia che si sradichino gli
alberi fruttiferi. Il partito, cui prendono in questo caso i
Primoriani, si è di seminare quelle terre, nel che
spendono sudore, e tempo fuor di proporzione col
raccolto, quantunque i loro aratri adattati alla
picciolezza de’ buoi poco si profondino nel campo.
385
Questi vizj d’agricoltura convengono poco più poco
meno a tutta la provincia, ed in conseguenza di [133]
essi il popolo dopo d’essersi ben affaticato trovasi
ridotto a vivere di radici salvatiche per qualche mese,
mancando d’ogni altro alimento.
Tutte le villette del Primorie sono ben situate, e
godono d’ottim’aria, e di buon’acqua. Bast, ch’è
fabbricata su d’una collina, attinge a una fonte vicina al
mare, che dà il nome di Baska-Voda ad un picciolo
gruppo di case litorali. Colà si traggono di sotterra
iscrizioni, ed altre pietre lavorate anticamente. Un
pilastro, ch’eravi stato trovato di fresco, mi somministrò
materie d’osservazione. Egli è di pietra calcarea
composta di frantumi marini, e particolarmente di
petrobrj, e spine, o croste d’echini lapidefatte; un fluore
bituminoso, che vi si è insinuato probabilmente prima
del suo induramento, le ha dato un colore grigio fosco.
Coloro, che trassero di sotterra il pilastro, nel percuoter
colle zappe sentirono alzarsi un forte odore di pece;
quindi mi condussero a vederlo come una curiosità. Io
ne feci staccare parecchie scheggie, che nell’atto di
separarsi diedero una fortissima graveolenza, ed
attualmente ancora la cacciano fuori, allorché voglio
confricarle l’una contro l’altra.
Le colline di Bast fiancheggiano le radici del
Biocova, e prolungandosi passano dietro alla città di
Macarska sempre appoggiate alla montagna. Su d’esse
veggonsi i casali di Velo-berdo, di Macar, di Cotisina,
dai due ultimi de’ quali scendono piccioli rivoletti di
386
buon’acqua, che dopo breve viaggio mettono in mare.
Le carte della Dalmazia confondono in questi contorni
tutte le posizioni, e stroppiano i nomi de’ luoghi così
stranamente, che lunga e nojosa cosa sarebbe il parlarne
in dettaglio; sarà più agevole per Voi di farne il
confronto colla mia carta topografica rettificata, per così
dire, a palmo a palmo lungo quel litorale. [134]
Nel tenere della picciola villetta di Tucepi sul mare
abitava in un delizioso casino fabbricato col gusto de’
nostri della Brenta il conte abate Grubbisich dotto, ed
utile, ed ospitale filosofo, della di cui morte immatura
sarò mai sempre dolentissimo. Egli avea concepito il
progetto di riformare col proprio esempio la malintesa
agricoltura de’ Primoriani; e vi sarebbe infallibilmente
riuscito se avesse avuto lunghezza di vita proporzionata
al suo merito. Il conte Grubbisich avea incominciato
dallo studiare il clima dei paese, e l’indole de’ terreni: e
in conseguenza di lunghe, e ragionate osservazioni s’era
determinato ad un nuovo piano di coltivazione. Le viti
de’ di lui poderi a Tucepi sul pendio delle colline erano
alzate da terra tre piedi, e legate a picciole pertiche, e
pali longitudinalmente in guisa di siepi piantate a
traverso del vento dominante, ch’è il grand’obbietto alle
piantagioni elevate in quella contrada. Fra l’una, e
l’altra siepe restavano convenienti spazj per le
seminagioni, onde si traessero ad un tempo due prodotti
dallo stesso terreno, senza spossarlo. Le uve maturavano
meglio, erano più abbondanti, e di miglior qualità; le
viti potate alla maniera de’ colli d’Italia promettevano
387
più lunga vita. Gli alberi da frutto, e i mori veggonsi
disposti anch’essi intorno a’ campi coltivati per modo,
che non gl’ingombrino incomodando i seminati, o le
viti. Studiavasi poi particolarmente il riflessivo uomo di
piantare gli ulivi lungo i sentieri, dopo che aveva
osservato una differenza notabilissima fra gli alberi di
questa spezie piantati nel centro de’ poderi, e quelli che
trovansi vicini a’ luoghi di passaggio, ne’ quali riescono
più fruttiferi, e meno soggetti all’aridezza. Le muraglie
a secco, dalle quali sono sostenuti i terreni di Tucepi,
somigliano alle meglio intese de’ Toscani, e de’ [135]
Vicentini, dai quali il Conte abate avea preso anche
l’aratro da monte con quattro ruote, e tirato da quattro
buoi, che non si usava da’ Primoriani avvezzi a graffiare
la terra con un leggierissimo aratro senza ruote, e tirato
da due piccioli animali.
Per mettere le sue sperienze al coperto da ogni
eccezione, egli avea scelto il luogo più dominato dal
vento, il più soggetto agli altri incomodi del clima, e del
più laborioso fondo; sapendo benissimo, che de’
tentativi fatti in luoghi vicini all’acque, coperti da’ venti,
e di terreno pastoso non si suol dare il merito
all’intelligenza del coltivatore se riescano bene, ma solo
alle favorevoli circostanze. Il saggio amico mio avrebbe
voluto, che la georgica fosse trattata piuttosto per via di
fatto dai possessori di terreni, che per deduzioni, e
congetture, e compilazioni da gente, che non ha un
campo in proprio; quindi egli era poco divoto de’ fogli
periodici, che trattano di questa materia; delle sperienze
388
poi non faceva il menomo conto se le non erano fatte
all’aperto. Secondo il di lui modo di pensare, come non
si dovrebbono scegliere pegli usi medicinali le piante
alpine trasportate in un giardino botanico a preferenza di
quelle, che si colgono su’ monti, così non si dovrebbe
far caso delle prove eseguite ne’ terreni chiusi, preparati,
irrigati, se non dopo d’averle vedute riuscire nelle vaste
tenute, o su i monti.
Le colline del Primorie sono in parte sassose, e in
parte coltivabili; è però necessario usare dell’industria e
della fatica per ridurre queste ultime, che non sempre
sono naturalmente docili. Oltre alle terre cretose, e
argillose, che s’incontrano in istato trattabile, v’hanno
degli strati della natura medesima, semipetrosi, ne’ quali
scavando, dopo che le glebe hanno sofferto l’azione
delle pioggie, e del sole per qualche tempo, si ritrae
[136] un fondo buono per le viti, ma che non è punto
atto a nodrire ulivi, né a produr grano. Questa spezie di
terra, che sciogliesi in minime parti romboidali, è detta
bigar da’ Primoriani. Le crete azzurrognole sono
talvolta mescolate con minutissima sabbia di torrenti, o
con terre bianchiccie provenienti dalla dissoluzione di
marmi calcarei, ed in quel caso portano sufficiente
raccolta di grani, purché la secchezza della state non le
renda sterili. La pietra dominante in queste colline è la
cote, detta brusniza dagli abitanti, nella quale talvolta si
scoprono frantumi di corpi marini, e talvolta no. È
osservabile la qualità di questa pietra, che al di fuori per
lo più è rugginosa, e nell’interno quasi sempre azzurra;
389
coloro, che deggiono fabbricare in riva del mare, la
scelgono a preferenza d’ogni altra pelle fondamenta. Vi
si trovano anche degli strati d’alberese, e varie paste di
marmi, fra’ quali un banco di nobilissima breccia rossa
ne’ poderi de’ conti Grubbisich. Rimontando i letti de’
torrenti vicini al delizioso casino, dov’io era alloggiato
fra’ libri dell’ottimo amico, io raccolsi parecchie varietà
di pietre aggregate. Le fenditure fatte da quelle acque
eventuali non sono così profondamente scavate, che si
possa trarne idee precise dell’interna struttura de’ colli,
per lo pendio de’ quali si fanno strada, essendo
pell’ordinario gli alvei loro fiancheggiati da materie più
anticamente trasportate dall’alto della montagna, prima
che gli uomini vi fissassero un cammino costante ai
torrenti. Presso la chiesa della Madonna di Tucepi io ho
raccolto una spezie curiosissima di marmo bianco, tutto
scritto di lineette serpeggianti, rosse, che corrono quasi
sempre regolarmente colla medesima direzione.
Vicino a questa chiesa campestre, ch’è circondata dal
suo bosco sacro, trovansi molte sepolture antiche
slavoniche, [137] senza iscrizione alcuna, ma con varj
bassorilievi. La lapida d’una di queste ha un guerriero
stranamente vestito, che porta in capo una spezie di
berretto, sul quale s’alza un cono acutissimo; al qual
ornamento forse è appoggiata la tradizione, che sotto di
quella pietra sieno state sepolte le interiora d’un Doge di
Venezia morto in guerra contro i Narentani. Questo
Doge potrebb’essere stato Pietro Candiano, che morì in
una spedizione narentana vicino ad un luogo detto
390
Miculo. La sepoltura, però, ch’io ho fatto disegnare per
curiosità, mostra d’essere slavonica, ed è anche
slavonico il berretto acuminato, come si vede in un
sigillo pendente da un diploma del re Dabiscia, che dee
trovarsi fra le carte del mio amico defunto.
Nel tenere della villa di Tucepi sono state trovate
delle iscrizioni romane, e greche, le quali passarono in
Italia. È probabile che nella contrada detta Javorac fosse
il Laurentum di Procopio, dacché il significato delle due
voci indica egualmente luogo piantato di lauri. Le
caverne naturali sono comunissime in que’ contorni, e se
ne trovano anche quasi in ogni villa di fortificate con
muraglie, e talvolta con piccioli castellucci di secoli, e
architettura barbara. È probabile, che ne’ più rimoti
tempi servissero di ritiro ai pirati, come ne’ più vicini a
noi servirono di ricovero agli abitanti spaventati dalle
ruberie degli Uscocchi.
Tre fonti submarine si veggono presso il litorale di
Tucepi, a’ quali senz’alcun dubbio somministrano acque
i gran serbatoj, che sono al di là della montagna, o
alcuno di que’ fiumi, che non potendo venirsene al mare
si sprofondano nelle voragini. Uno di questi tre fonti è
detto Smerdegliac, cioè puzzolente, pel fetore, che (al
dire degli abitanti) suol tramandare; le terre vicine sono
chiamate Pakline, o sia luoghi [138] abbondanti di pece.
Dicono, che il fetore della fonte non è costante, nel che
fa d’uopo di stare alla loro asserzione. È fatto di verità,
che non sempre il fonte Smerdegliac si vede gorgogliare
mettendo in movimento la superficie del mare; egli
391
suole starsi cheto qualche giorno: ma non di raro anche
nel dì medesimo si fa replicatamente vedere, e sparisce.
Le pioggie copiose al di là della montagna, e gli anfratti
sotterranei, pe’ quali deggiono farsi luogo le acque
assorbite dalle voragini per venir al mare, saranno per
avventura le ragioni di queste incostanze; il fetore poi di
bitume chissà che non venga da qualche accensione, o
fermentazione sotterranea, ora più, ora meno violenta?
In poca distanza da Tucepi sorge su d’una collina la
villa di Podgora, che domina un bellissimo tratto di
litorale il più fertile, e coltivato di que’ contorni. Il
picciolo promontorio di Dracevaz, che sporge in mare
nel tenere di questa villa, merita d’essere osservato. Gli
strati superiori che lo formano sono di breccia,
gl’inferiori composti di cote hanno de’ filoni fabbricati
di pezzi cubici, e disposti a foggia di muraglia. Due di
queste muraglie sporgono in fuori racchiudendo una
spezie di terrapieno nel mezzo; gli ordini de’ pezzi
cubici è inclinato verso il mare. Sotto Podgora nasce un
ruscello, che nell’atto di finire il suo brevissimo corso fa
girare de’ mulini a Jarìchine. Forse da questa picciola
acqua indiscretamente marcata su qualche carta
corografica, prese motivo il Cantelio di segnare fra
Podgora, e Drasnize un fiume, che scende dalle
vicinanze d’Imoski, d’onde non è possibile che l’acque
volino al disopra del Biocova. È ben probabile che di là
venga la fonte submarina chiamata Vrugliza, o Mala
Vrullia, che nel vallone contiguo a Drasnize si fa vedere.
Ella sorge con impeto appiè [139] d’una ripida falda di
392
monte, dal fondo del mare, che in quel sito è
considerabile, e chiama a sé un gran numero di pesci.
Noi discesimo a Drasnize per vedervi una lapida
romana, che vi debb’essere, ma che dallo scortese
curato del luogo ci fu tenuta nascosa pelle solite ragioni
di sospetto, e d’ignoranza, che militano in quelle
contrade a danno del forastiere. Fu d’uopo contentarci
di ricopiare due iscrizioni slavoniche, l’una pella
singolarità di qualche carattere, l’altra perché indica
l’epoca d’un passaggio dell’herceg Stefano per quel
paese.
È celebre in Primorie l’acqua d’una picciola fonte,
che scaturisce da un masso elevato poco lontano dalla
chiesa di Drasnize, e scorrendo giù pella rupe portasi al
mare, dopo poche braccia di viaggio. Dicono ch’ella sia
tanto leggiera, e perfetta quanto quella di Nocera; e vi fu
chi ne conservò per molti anni in fiaschi senza che si
guastasse; nella loro semplice medicina quegli abitanti
ne fanno uso frequente, e fortunato. Ell’ha veramente le
qualità volute da Ippocrate, ed è κουφοτάτη, καὶ
γλυκυτάτη, καὶ λεπτοτάτη, καὶ λαµπροτάτη. Sarebbe da
farne de’ confronti più precisi per la via dell’analisi, e
delle sperienze replicate ne’ nostri spedali; da che anche
l’articolo dell’acqua di Nocera porta fuori dello stato
una somma di denaro non affatto spregevole. È vero che
questo nome d’acqua di Dalmazia durerebbe qualche
fatica a venir in moda: ma l’appoggio d’un qualche
barbassoro in medicina potrebbe operare anche questo
miracolo sollecitamente.
393
Vicino a questa fonte io ho raccolto de’ pezzi erranti
di marmo finissimo statuario visibilmente staccati da
strati superiori non molto lontani dal mare, e un marmo
rosso gentile d’unitissima, e fina grana, degno d’essere
impiegato in qualunque ornamento di sacri luoghi, o di
[140] nobili stanze119. Se il viaggiatore naturalista avesse
sempre i modi necessarj per riportare alla patria delle
prove parlanti dell’utilità delle sue osservazioni, io sarei
ritornato a Venezia con tavole, o pezzi de’ più bei marmi
litorali, che avessero potuto innamorare delle produzioni
nostrali di questo genere gli scultori, e gli scalpellini.
Avrei voluto anche portare una buona quantità
dell’acqua di Drasnize in adattati vasi custodita perché i
dotti, e onesti medici nostri ne facessero gli esami e le
sperienze opportune. Ma non essendo possibile con
privati appoggi di far tutto ciò che anderebbe fatto, io
mi dovetti contentare di dar indicazioni d’utili ritrovati,
lasciando al tempo, e alle combinazioni fortunate la cura
di far il resto.
Non molto lontano dalla fonte di Drasnize havvi una
cappella dedicata a s. Rocco, dove per lungo tempo fu
onorato un bassorilievo antico, che poi passò a Venezia
non ha molti anni. Egli rappresenta un satiro mezzo
coperto d’un mantello di pelle di capra, col suo bastone
in mano, e ’l cane dappresso; qualche parte del di lui
corpo è da Custode d’orti. Una inferriata, che gli era
stata posta dinanzi difendealo dalle mani troppo
119 Calcareus micans, ruber. Waller. §. 41. 2. (c), ed anche cal-
careus æquabilis, incarnatus. Waller. §. 41. 1. (c).
394
profane, ma non impediva che le buone donne, e le
fanciulle del vicinato vi avessero una gran divozione,
come a una rappresentazione di s. Rocco. Fu questo
sconvenevole oggetto di superstizione levato di notte
dalla sua nicchia: il popolo di Drasnize ebbe a sollevarsi
quando se n’avvide, ed appena fu tenuto in dovere
dall’aver rilevato che il preteso santo era stato [141]
asportato per comando d’una rispettabile magistratura.
Quasi tutte le ville del Primorie hanno delle fonti di
buon’acqua, e parecchie di queste godono molta
riputazione di salubrità. Questo titolo non si avrebbe
potuto negare alle fonte di Xivogoschie, in di cui lode
stanno scolpiti nel vivo della rupe sul mare i due
epigrammi accennati più addietro, uno de’ quali la
chiama salutifera: ma da quel sito non iscaturisce più
acqua. Rimane però ancora una fonte perenne alla villa,
e trovasi un po’ più addentro sul pendio della collina,
presso al convento de’ buoni, e cortesi padri Minori
osservanti. Così ha la sua acqua sorgente Dervenich,
dove anticamente fu un castello, di cui veggonsi tuttora
le muraglie rovinose, e dove ricopiò un’antica iscrizione
slavonica in carattere cirilliano compostissimo l’amico
mio conte Grubbisich. Non molto lungi da questo
castello trovasi a sinistra del cammino della montagna
una gran pietra sepolcrale in piedi, piantata su d’una
base proporzionata, adorna di addentellature gotiche
tutto all’intorno, e d’un bassorilievo nel mezzo, in cui si
veggono varie figure rozzamente disegnate, e fra le altre
quella d’un guerriero, che uccide una belva. Questa
395
sepolcrale isolata, contro l’uso delle altre slavoniche,
appartiene all’antica famiglia Costagnich, attualmente
stabilita in Macarska. A poco più d’un miglio da
Dervenich trovasi Zaostrog, ch’è ’l Ῥασῶτζα del
Porfirogenito, dove si veggono due iscrizioni romane
nella chiesa di S. Barbara. Al lido del mare v’è un
convento di Minori osservanti, che nella fabbrica della
chiesa loro fatta di fresco, impiegarono una quantità
grandissima di lapide antiche, dalle quali ebbero
l’attenzione di scancellare i caratteri. Eglino le
raccolsero da’ vicini luoghi, e dalle rovine di Narenta
[142] in particolare; e chi sa di quante belle memorie
dobbiamo la perdita al loro zelo! Lungo il lido di
Zaostrog, ch’è importuoso, e battuto da tutti i venti, io
ho raccolto de’ pezzi di stalattite cretaceo, fluviatile, con
impressioni di foglie d’alno, similissimo a quello, che
trovasi presso Roma alle falde del monte Pincio, dove
altre volte corse per avventura il Tevere. Vi si trovano
anche erranti pella ghiaja ricacciata su dal mare, e
portata originariamente da’ torrenti montani, molti pezzi
di pietra bituminosa, scissile, di sottili lamine parallele,
di grana impalpabile, fetidissima nella confricazione, e
che corrisponde perfettamente alla pietra porcina de’
naturalisti120, e non male somiglia al bitume marmoreo,

120 Calcareus fissilis, unicolor, fuscus, Wall.


Schistus fusco-cinereus, lapis fœtidus dictus, Dacosta 170. 9.
Lapis fuilli particulis granulatis (piuttosto impalpabilibus)
Cronst. 23.
Bitumen marmoreum, fœtidum, compactum. Linn.
396
compatto, fetido, del Linneo. La superficie esteriore de’
pezzi esposti all’aria è cenerognola, e conviene colla
descrizione del Dacosta: ma l’interno è nero. Lungo il
lido medesimo ho raccolto delle nummali lapidefatte.
Da Zaostrog alle foci del fiume Narenta trovansi alle
radici della montagna i casali di Brist, e Lapçagn; e
dietro al promontorio fra terra deesi aggiungere alle
migliori carte il lago di Bachina. I monti, che lo
circondano, sono più aspri, e sassosi che ’l resto del
Primorie: ma nulladimeno furono abitati anticamente
più di quello lo sieno adesso. Il rovinoso castello di
Gradaz, e il sepolcreto di Slavinaz, dove probabilmente
fu la Labienitza del Porfirogenito, ne fanno [143] buona
testimonianza. Dicesi che il Bachinsko-Blato, o sia lago
paludoso di Bachina, oltre alle anguille, che gli sono
comuni cogli altri laghi di quelle contrade, abbia de’
pesci proprj: ma sarebbe d’uopo pescarvi replicatamente
per assicurarsene.

§. 6. Delle voragini di Coccorich; de’ laghi di


Rastok, di Jezero, di Desna; e del fiume Trebisat.
Dal convento di Zaostrog volli portarmi a vedere il
lago temporario di Rastok, dal quale avea letto in varj
geografi, che nasce il fiume Norin, asserzione a cui gli
abitanti del Primorie non s’accordavano. Presi la strada
di Dervenich per costeggiare il Biocova a cavallo: ma
non fu possibile di proseguire il viaggio così
comodamente. I sentieri della più alta parte del monte
passano sovente fra massi dirupati, e talora sono al
397
margine di qualche precipizio. Varcata la cima del
Biocova, proseguii il mio cammino parte a piedi, parte
in sella, preceduto dalle scorte, che ’l cortese voivoda
Pervan di Coccorich m’aveva mandate. Il cammino de’
pedoni morlacchi da Zaostrog a questa villa interna è di
cinque brevi miglia: ma eglino vanno con meravigliosa
destrezza aggrappandosi su le balze più ripide, e si
calano agilmente da’ più scoscesi greppi, dove parrebbe
che gli uccelli soltanto potessero far viaggio. Io
impiegai sei grosse ore nel varcare la montagna per la
strada de’ quadrupedi; e giunsi finalmente all’albergo
del buon voivoda, che mi ricevette con una cordialità
sincera. Le case di questo galantuomo sono fabbricate in
forma di torre alla turchesca; io ebbi una torre appartata,
dalla quale passava a pranzo, e a cena in quella della
famiglia. La moglie, e la nuora del mio albergatore
comparivano a baciarmi la mano [144] allorch’io
entrava, e non si vedeano più sino al momento del mio
uscire dopo mangiato. Le fanciulle di casa metteansi
alle fessure delle porte per guardare me, e il mio
disegnatore come due strani animali, sì nel vestito, che
nelle maniere. A tavola sedeva con noi l’onorato
vecchio, e le vivande preparate alla turchesca erano
portate dal di lui figlio. Questo voivoda è ragguardevole
personaggio nel picciolo paese, ed ha veramente de’
talenti, senza che gli si sieno sviluppati nelle città; in
gioventù compose molte poesie amorose, ed eroiche.
Egli mi parlò d’alcune voragini, dalle quali esce
talvolta in tempo d’autunno, e di primavera l’acqua con
398
estrema violenza, e in così grand’abbondanza, che la
valle di Coccorich, che avrà tre buone miglia di
lunghezza, trovasi cangiata nello spazio di pochi giorni
in un profondissimo lago. Le case del Pervan sono
piantate sul dorso d’una collina, di modo che fa d’uopo
discendere per un considerabile tratto prima di trovarsi
al basso della valle; ma ad onta di questa elevatezza
l’acqua s’alzò in una notte all’improvviso così
straordinariamente, che guadagnò il secondo piano della
torre, in cui abitava il buon vecchio, al quale poco
mancò che non impedisse l’uscire dalla porta, che dà su
la scala di fuori. Io volli andar a vedere una, o due di
queste voragini, che si somigliano tutte. I cespugli che
le circondano sono vestiti di muschi, e conserve
annerite, il che dà loro un aspetto triste. La maggiore ha
venti piè di diametro nell’apertura, e centoventi di
profondità; nel fondo v’è sempre acqua, e parecchi anni
sono v’ebbe chi volle assicurarsi della quantità, e del
livello di essa. Si trovarono dodici piedi d’acqua, il di
cui livello corrispondeva a quello del lago di Jezero
poche miglia lontano. Dopo le gran [145] pioggie
nell’interno della Bossina queste voragini, o jame, come
gli Slavi dicono, gettano colonne d’acqua sino
all’altezza di venti piedi. In quindici giorni il lago di
Coccorich suol arrivare alla massima altezza, che
qualche volta eccede all’improvviso le solite misure per
nuove pioggie, o squagliamenti di nevi nel paese
interiore; nel tempo di due mesi la campagna resta a
secco. Una grandissima quantità di pesce sorge dalle
399
400
viscere della terra insieme con queste fonti gigantesche;
ed al calare dell’acque gli abitanti ne pigliano assai colle
nasse, o con reti adattate alla bocca delle voragini. Il
poco fondo di terreno, che ha la valle di Coccorich, fa
che non vi resti aria cattiva dopo il risprofondamento
delle acque.
Un breve miglio lontano dalle case del voivoda
trovasi una miniera di pissasfalto similissima
identicamente a quella di Bua. I Turchi vi lavorarono,
per quanto si vede, innanzi che l’armi venete
occupassero questo paese: ma non sembra che se ne
possa ritrarre molto profitto, a cagione della sua
distanza dal mare, e della scabrosità del cammino.
L’impasto del marmo, che forma la superficie esteriore
de’ monti di Coccorich, e di Vergoraz, è
alternativamente brecciato, e pieno or di corpi
ceratomorfi, ora di lenticolari, e nummali.
Vergoraz è una cattiva rocca, che copriva in altri
tempi un borgo ben popolato da’ Turchi, perché ad onta
della montagna intermedia passava come luogo
opportuno al commercio, e a portata del mare; adesso è
un aggregato di macerie popolato da poche, e povere
famiglie. Le campagne dominate dal monte di Vergoraz
sono tutte soggette all’acqua, il che riduce sovente gli
abitanti all’inedia, e per conseguenza alla necessità di
rubare, o di lavorare su le terre turchesche. Un
soprintendente vi amministra la picciola giustizia, [146]
e suol essere della famiglia Furiosi d’Almissa, che ha
principalmente contribuito alla presa di questo luogo. Al
401
piè di Vergoraz giace la valle di Rastok pianissima, ed
assai ragionevolmente estesa in lunghezza, e in
larghezza; quella parte, che s’insinua fra la giogana di
Vergoraz, e gli aspri colli del confine ottomano, è
attraversata da un ramo del fiume Trebisat, che invece di
portarsi verso levante devia per un cammino totalmente
opposto, e viene ad incontrare le radici de’ monti
laddove formano un arco. Trovando l’opposizione di
essi, e le ghiaje d’un torrente eventuale, il picciolo
Trebisat gira a sinistra: ma invece di ritornare verso il
naturale suo corso, dividesi in più rami, e si sprofonda
in parecchie voragini che stanno aperte in quella
pianura. Nel tempo, ch’io mi vi portai, le acque che
sogliono riempiere la campagna di Rastok, e farne un
lago incostante, se n’erano tutte partite; quindi potei
esaminare da vicino il fiume, che si sprofondava in varj
luoghi. I Vergorzani hanno fatto de’ ripari di muro a
secco nelle bocche delle voragini di Rastok, e adattano
all’aperture che vi restano delle nasse per prendere il
pesce, che anderebbe a nascondersi sotterra. È
dimostrato che la sconsigliata avidità d’ottenere questo
picciolo vantaggio pescatorio facilita l’otturamento di
questi scoli, e quindi ritarda l’asciugamento de’ campi
allagati con gravissimo danno della popolazione di
Vergoraz. Dove se ne vada per le vie tenebrose delle
caverne il ramo sobbissato del Trebisat io nol saprei
dire; ma forse non hanno ragione quelli, che lo mandano
a far nascere il fiume Norin venti buone miglia lontano,
senza nemmeno avvertirci, che le acque fanno questo
402
viaggio per vie sotterranee. Così trovo ne’ Prolegomeni
del Farlati un’altra falsa asserzione risguardante il fiume
Lika, che [147] fa uno scherzo simile a questo del
Trebisat. Il dotto autore lo fa metter in mare presso
Carlobago; mentre è di fatto che il fiume Lika, nato
presso Graççaz, si perde sprofondandosi appiè della
montagna morlacca nella valle di Cozigne, una giornata
lontano dal mare, come il fiumicello Gaschiza, o
Guschiza dopo d’esser passato sotto Ottoçaz cade in
buche voraginose a Suizza. È ben vero che si dice alcuni
vasi di legno portati via dal fiume a Suizza si sieno
trovati in mare presso alla villa di S. Giorgio sul Canale
della Morlacca, dove sono delle fonti submarine, come
si vuole che le sorgenti pur submarine presso Starigrad
vengano dallo sprofondato fiume Lika: ma ciò non
pertanto un geografo ha il torto di segnare le foci de’
fiumi in sì fatti luoghi. Anche il Cantelio potrebbe aver
a questo modo ragione di metter le foci di due fiumi
provenienti dai laghi di Prolosaz, e d’Imoski, là dove le
due Vrullie si fanno vedere in mare; quantunque fra i
laghi, e le Vrullie v’abbiano venti miglia di monti
intermedj.
La catena dei colli aspri di Vergoraz stendesi verso
levante sino alle fonti del Norin, e divide le campagne
turchesche di Gliubuski dai laghi di Jesero, Jeseraz,
Delna, e Bachinsko-Blato. Il primo di questi, ch’io ho
visitato, stendesi per dieci buone miglia in lunghezza, ed
è sparso di piccioli scoglietti, ed isole coperte di bosco,
che danno uno spettacolo delizioso a chi le osserva
403
dall’alto. Tutto il circondario del Jezero è montuoso; io
lo vidi dal Prologh, dove fui a ricopiare delle iscrizioni
slave. L’acqua di questo lago, ch’è detto Jezero per
eccellenza, come il maggiore di que’ contorni, è
purissima, e limpida. In alcuni luoghi si vedono nel
fondo delle rovine di case: il che potrebbe accreditare
ciò, che ne raccontano gli abitanti vicini, [148] vale a
dire, che ne’ tempi andati quel lago era una campagna
coltivabile, le di cui acque scolavano per voragini, o
jame sotterranee, otturate da’ Turchi nell’abbandonare il
paese. Gli resta però ancora un’uscita verso
mezzogiorno, dove s’insinua nella caverna di Czernivir;
e per quanto dice quella gente, dopo un viaggio coperto
di due miglia forma il lago di Desna, poi si scarica nel
Canal nero, che mette foce nel fiume Narenta due miglia
lontano dal mare. Il lago di Jezero s’asciuga pur qualche
volta, e presenta pinguissimi terreni ai coltivatori
morlacchi, che ne profittano alla loro maniera, come
sogliono fare anche della campagna di Rastok, quando
resta libera dalle acque in istagione opportuna. Jeseraz è
un laghetto, come appunto il suo nome lo indica, il
quale ha poco fondo, e quindi resta asciutto quasi ogni
anno, quando però le pioggie non sieno state
strabocchevoli.
Il paese, che giace fra Vergoraz, le paludi narentine, e
il mare, generalmente parlando, è poco atto a coltura,
perché alternativamente coperto d’acqua, e di
sassosissimi monti: ma sono ben altra cosa le campagne
irrigate dal Trebisat al di là del nostro confine. La poca
404
cura, però, che ne hanno i Turchi, fa che sieno gran
parte dell’anno inondate; quel fiume non ha veruna sorte
d’argini, anzi tratto tratto incontra degl’intoppi nel bel
mezzo della pianura. Le acque del Trebisat sono
tartarose; e ne’ luoghi, dov’egli spandesi, sovente lo
strato esteriore del terreno è composto di picciole
pagliuzze, frammenti d’erbe, e neriti intonacate di tofo
cretaceo. Io ne ho raccolto per curiosità, nel mentre che
le mie guide si ristoravano mangiando. Lungo questo
fiume hannovi de’ gran tratti di macchia, per mezzo alla
quale passa l’antica via militare, che manteneva la
communicazione fra Salona, e Narona. Io vi discesi per
[149] esaminare alcuni monumenti antichi slavonici
d’un sepolcreto, che vi si trova: ma non potei cercarvi
iscrizioni sì perché la macchia era oltremodo fitta, sì
perché le mie guide non mi assicuravano, che i Turchi,
de’ quali poteva sopravvenire qualche brigata,
guardassero senza sospetto la mia curiosità. La maggior
parte delle sepolture sono enormi pezzi di marmo,
somiglianti a quelli, su’ quali ebbi l’onore di pranzare in
compagnia vostra poco lontano dalle fonti di Cettina,
colla numerosa compagnia de’ nostri buoni Morlacchi. I
bassorilievi del sepolcreto, che giace lungo le rive del
Trebisat nel bosco, sono però assai più curiosi che quelli
di Vrilo-Cettine.

§. 7. De’ fiumi Norin, e Narenta, e della pianura


allagata da essi.
Verso la fine della faticosa giornata mi trovai rientrato
405
nell’angolo del confine veneziano, che passa fra gli
aspri colli marmorei, da piè de’ quali scaturisce il fiume
Norin abbandonato a se stesso sin dalle sorgenti, e che
impaluda quindi un vasto tratto di campagna
ingombrato di canne, di salci, e d’alni spontanei.
Picciolo spazio di terreno rimane asciutto fra le radici
de’ colli, e la palude nel luogo chiamato Prud: ed egli è
tutto seminato di pietrame antico riquadrato, di
frammenti d’iscrizioni, di colonne rotte, di capitelli, di
bassorilievi d’ottima età stritolati, per così dire, e
deformati dal tempo, e dalla barbarie de’ popoli
settentrionali, che di là incominciarono a distruggere
Narona. Gli abitanti, che vanno a tagliar canne sovente
nella palude, assicurano che sott’acqua vi si veggono
ancora vestigj della vasta città. Ella dovette stendersi chi
sa quanto nella pianura, e certamente più di tre miglia in
lunghezza appiè de’ monti. Il cammino antico [150] è
sommerso: e noi dovemmo salire per una strada dirupata
onde varcare la punta del colle asprissimo, su di cui
sorgevano probabilmente prima de’ tempi romani le
fortificazioni, che dierono tanto da sudare a Vatinio.
Lungo quel sentiere si vedono nelle rupi le traccie
d’antiche iscrizioni, che vi furono scolpite. La povera
villa di Vido è adesso nel luogo dov’erano i tempj, e i
palagj de’ Romani conquistatori; vi si riconoscono gran
vestigj di bagni, d’acquedotti, di nobili edificj, di mura;
e i miserabili alloggi di que’ Morlacchi che v’abitano
sono tutti fabbricati di bel pietrame antico. Poche lapide
vi restano sopra terra attualmente, essendone stata
406
trasportata una gran quantità in Italia per adornarne i
musei degli amatori. Io ve ne ho ricopiato due sole: ma
è probabile, che ve ne sieno dell’altre ricopiabili, alle
quali la maliziosa pigrizia di quegli abitanti non mi avrà
voluto condurre. Della formidabile popolazione di
pirati, che nell’età di mezzo dominava in questo paese, e
che finalmente dopo lunghissime guerre fu da’
Veneziani estirpata, non rimane monumento veruno.
Sarebbe forse stato inutile il cercarne anche se avessero
occupato un luogo difeso dalle inondazioni, imperocché
que’ rapaci corsari probabilmente saranno stati privi
d’arti, e disprezzatori de’ posteri, come degli antenati
loro.
Alcuni geografi, fra’ quali il signor Busching, dicono
che l’antica Narona sorgeva precisamente sul colle dove
ora è Citluc, picciolo luogo fortificato, e posseduto da’
Turchi; ma il fatto prova in contrario. Citluc è intorno a
otto miglia lontano dalle rovine di Narona: e se v’hanno
delle pietre antiche impiegate nel fabbricarlo, si dee
credere che vi sieno state trasportate da Vido. La
Martiniere, e varj autori di carte segnano col nome di
Narenta una città, che [151] non esiste. Il Norin dopo il
breve corso di sei miglia mette nel fiume Narenta, detto
dal solo Porfirogenito Oronzio, che ingrossato dalle di
lui acque, e da quelle, che dai monti di Xaxabie
concorrono ad ingrandirlo, allargasi in forma di lago,
indi facendo due gran rami prende in mezzo l’isola
d’Opus, tre miglia più sotto. Le acque della Narenta
sono salmastre intorno a quest’isola, e non di raro
407
l’amarezza marina rimonta sino a dodici miglia fra terra,
e va al di là delle foci del Norin. Gli abitanti bevono
però indifferentemente queste acque, dal che forse
denno ripetersi come da principalissima cagione i
malori, a’ quali vanno soggetti. Sull’isola d’Opus è un
picciolo luogo fortificato con arginature di terra, al
quale sono vicini due casali di Morlacchi, che portano il
nome di borghi; uno di questi due casali è de’ Morlacchi
di rito greco. Gli uomini vestono come tutti gli altri
Morlacchi; le femmine, quando sono nella loro maggior
gala, portano un caftan, o sopravvesta all’uso delle
Turche (Tav. XIII. Fig. II.).
Io mi sono fermato parecchi giorni in Opus
cortesemente sofferto dalla nobile famiglia Noncovich,
colla speranza di poter penetrare addentro sino a Mostar,
e farvi disegnare il ponte antico, che dà il nome a quella
città mercantile de’ Turchi bossinesi121: ma un ufiziale
della craina narentina, dopo d’avermi dato
solennemente parola di scortarmivi mi mancò in un
modo vergognoso, e impudente. Potete ben credere,
Mylord, ch’io sono stato tanto più sensibile al di lui mal
tratto, quanto più mi stava a cuore in questo affare il
piacere, e servigio vostro. [152]
Sembra, che gli antichi geografi non abbiano ben
conosciuto questa parte della Dalmazia, come non ben
la conoscono i nostri, che prendono tanti sbagli sì nel
derivarne i fiumi, come nel situarne, e nominarne i
luoghi abitati. Scilace Cariandeno, che dal Farlati viene
121 Most stari, ponte vecchio.
408
censurato come poco esatto nel descrivere il paese di
Narenta, mi sembra che ne avesse un’idea più giusta di
tutti gli altri antichi scrittori, e infinitamente più che tutti
i moderni. Egli probabilmente non pensò mai a dire, che
il fiume Narone uscisse dal lago d’Imoski, come pende
a credere il Farlati: ma sì bene dalla pianura allagata
detta di Narenta a’ giorni nostri. Ecco le di lui parole
tradotte alla lettera: «Dopo i Nestei (abitanti delle rive
del fiume Cettina, e del Primorie) è il fiume Narone. La
navigazione in esso non è angusta, imperocché lo
rimontano le galere, ed altri navigli sino all’Emporio,
ch’è situato addentro, ottanta stadj lontano dal mare.
Colà abitano i Manii, razza di gente illirica. Al di là di
questo emporio è un vasto lago, che arriva sino ai
confini degli Autariati, nazione pur illirica, ed in esso
lago è un’isola di centoventi stadj, i di cui campi son
ottimi da coltivare. Da questo lago esce il fiume
Narone»122. Se si volesse dire che il testo di Scilace è
corrotto là dove leggesi τὸ εἴσω τοῦ ἐµπορίου, e che
doverebbesi sostituire una lezione di senso contrario,
ogni cosa si troverebbe accomodata. L’isola da lui
mentovata sarebbe quella d’Opus, la di cui grandezza
quadra sufficientemente co’ centoventi stadj; il lago
rinverrebbesi nell’ampia estensione [153] del fiume,
laddove dividesi per abbracciarla. L’Emporio Narona
non era poi più d’ottanta stadj lontano dal mare a dritta
linea; e Plinio ebbe il torto nel metterlo a maggiore
distanza. Non volendo però punto alterare il testo di
122 Scyl. Cariand. inter Geograph. min. Hudsoni. pag. 9.
409
Scilace, si può credere, che il lago di cui egli parla fosse
la pianura di Rastok123, e del Trebisat, che ben merita
questa denominazione nella stagione delle inondazioni,
e da cui resta prominente un gran tratto di coltivabile
campagna, che forma adesso il midollo del territorio di
Gliubuski. In questo caso Scilace avrebbe preso pel
Narone il Trebisat, che da quelle pianure discende a
metter foce in Narenta. Forse anche l’isola, di cui
quell’antico scrittore vanta la fecondità, è il tratto di
campagna narentina, che stendesi fra il Norin, e la
Narenta, e che poté benissimo essere isolato
anticamente per una regolata comunicazione de’ due
fiumi, che passasse appiè del colle di Citluc, dove
adesso è un terreno paludoso, e un canale mal
navigabile. Volendo andare un po’ più addentro, sarebbe
da esaminare le terre elevate del Mostarsko-Blato, vale
a dire del lago paludoso di Mostar, da cui si può assai
giustamente asserire che il fiume di Narenta si parta per
venirne a scaricarsi maestosamente in mare pel mezzo
di tre ampie foci.
Le rive di questo fiume furono negli andati tempi
famose presso i professori di farmacia, a’ quali Nicandro
[154] nella Teriaca, prescrive di raccogliervi l’iride.
Teofrasto, citato da Ateneo, dà il vanto sopra tutti gli

123 Potrebbe alcuno condotto dalla maggior analogia de’ nomi


credere che Ῥασῶτζα del Porfirogenito fosse Rastok, e non
Zaostrog: ma dovendo Rastotza essere al mare come Mocros,
ed esercitare la pescagione, non si può ragionevolmente
confonderla con Rastok fra terra.
410
altri paesi produttori di questa pianta ai monti illirici
lontani dal mare, il che potrebbe accordarsi benissimo
con Nicandro, intendendo de’ monti, da’ quali esce la
Narenta124. E giacché sono a ricordare gli Antichi, credo
opportuno d’aggiungervi, che a Mostar, e nel resto della
Bossina si prepara ancora dai Turchi coll’infusione de’
favi nell’acqua, e pel mezzo della fermentazione una
sorte d’idromele da essi chiamata scerbèt, che
corrisponde a quella, che usavano gli antichi Taulanzj
abitatori del paese medesimo, della quale trovasi riferita
per esteso la manipolazione dall’autore dell’opuscolo
Περὶ θαυµασίων ἀκουσµάτων, attribuito ad Aristotele125.
I nostri vicini, che avrebbono un rimorso grandissimo se
bevessero un bicchiere di vino, non hanno poi gran
difficoltà d’ubbriacarsi collo scerbèt. Eglino cioncano
anche de’ buoni bicchieri di rakia, ch’è l’acquavite fatta
di graspi; ed hanno inoltre varie preparazioni di mosto
cotto, delle quali si servono senza veruno scrupolo. Il
muscelez, e la tussìa sono bevande di questa fatta, che
riescono attissime ad ubbriacare: ma i [155] probabilisti
124 Athen. Dipnosoph. lib. XV. cap. VIII.
125 «Narrasi che gl’Illiri detti Taulanzj fanno vino del miele;
imperocché spremono i favi dopo d’avervi gettato sopra
acqua, e questa cuociono fino a che ne resti la metà, poi la
mettono in vasi di creta ch’ella è di già dolcissima al bere;
indi ripongonla in botti di legno, e la conservano per molto
tempo sino a che contragga il sapore di perfetto vino, Questa
bevanda poi è dolce, e salubre. Raccontasi che qualche volta
ne sia stato fatto anche in Grecia, e che non distingueasi dal
vino vecchio», Aris. Περὶ θαυµ(ασίων) ἀκουσµ(άτων).
411
turchi hanno facilitato su questo articolo. La proprietà
del muscelez invecchiato, che ha bisogno d’essere
sciolto in qualche altro liquore per divenire bevibile,
ricorda i vini degli Antichi.
L’ampio fiume di Narenta non è navigabile oltre alla
villa di Metkovich da grosse barche; le picciole vanno
sino a Pocitegl, e non più oltre, per quanto me ne fu
detto dagli abitanti. Fa d’uopo fossero stati mal
informati quegli scrittori, che lo credettero atto a portare
navigli sino a Mostar: d’onde certamente
discenderebbono, se lo potessero fare, gli zopoli carichi
di merci turchesche, con molto minor incomodo, e
dispendio di quello richiedano i viaggi di terra.
La pesca delle anguille è la più considerabile, che si
faccia nelle paludi narentine, dove questo pesce ascende
in gran copia dal mare vicino. Non v’è forse luogo in
Dalmazia più opportuno all’istituzione di valli chiuse, e
regolate come le comacchiesi; ed è certa cosa, che il
prodotto delle anguille da mettere in sale, e da marinare
in breve giro d’anni avvicinerebbesi a quella quantità,
per acquistare la quale dalla nazione profondesi
annualmente un tesoro, che passa in estero Stato.
Adesso questo prodotto di Narenta non ascende a gran
cosa, perché vi si esercita la pesca con un metodo
rozzissimo; i fondi non sono disposti come dovrebbono,
né le valli regolarmente piantate. Nello stato poi attuale
di quelle paludi il pesce, che vi si prende, ha poco
concetto di salubrità, quando si voglia mangiarlo appena
uscito dell’acqua: purgato però ne’ vivaj diviene usabile
412
senza pericolo veruno, come lo è quando sia messo in
sale.
Oltre alle anguille della valle, si prendono varie
spezie di pesci fluviatili nella Narenta, e di quelli che
hanno maggior pregio nelle mense de’ ghiotti. Le trote
[156] vengono frequentemente dalla parte superiore del
fiume, e vi si prendono anche de’ salmoni. Verso le foci,
e ne’ contorni dell’isola d’Opus frequentano i muggini
nella stagione opportuna alla fecondazioe dell’uova; ed
anche di questi vi si farebbe gran preda da un popolo
mediocremente industrioso. Le barchette, colle quali i
Narentini vanno pel fiume loro, sono picciolissime, e
leggerissime. Essi le chiamano ciopule col medesimo
nome, ch’è usato dai Morlacchi della Kerka, e della
Cettina per le loro canoe. Le ciopule, o zopoli di
Narenta non sono d’un solo tronco d’albero, ma
d’assiccelle ben sottili, unite insieme da costole
interiori. Questi zopoli non hanno differenza dalla
poppa alla prua, né orlo, o banda veruna; sono
acuminati dalle due estremità. La loro estrema
picciolezza, e la poca distanza dall’acqua, in cui si
ritrova chi naviga con essi, fa raccappricciare. Gli
zopolieri non hanno remi, e spingono avanti il loro
barchetto con certe palette lunghe intorno a quattro
piedi, le quali maneggiano stando a sedere su le proprie
gambe incrocicchiate.
Il suolo di Narenta ne’ luoghi non ricoperti dalle
acque permanenti è arenoso, come dev’essere il terreno
frequentemente inondato da un fiume totalmente privo
413
d’argini, e che si gonfia co’ torrenti de’ luoghi montuosi.
A queste alluvioni l’isola d’Opus, che vi soggiace
tuttora, deve un alzamento di dieci piedi da’ tempi
romani ai nostri. Uno scavo fatto colà nell’orto de’
signori Noncovich mi ha mostrato le differenti
stratificazioni che hanno successivamente coperto il
terreno antico campestre, nel quale si trovano alla detta
profondità rottami di vetri, e di stoviglie romane. L’isola
ad onta di questo alzamento non è coltivabile in ogni
sua parte, restandovene grandissimi tratti paludosi, i
quali però si potrebbono facilmente ritrarre, e mettere
[157] a profitto. L’abbondanza d’ogni genere di
prodotto, che si mette nelle campagne narentine,
dovrebb’eccitare quella popolazione, s’ella non fosse
d’un inerzia ineccitabile, ch’è probabilmente una
conseguenza dell’aria crassa, che la preme, e circonda.
Gli erbaggi d’ogni sorta, il grano turchesco, il frumento,
e gli ulivi poi singolarmente vi fanno meravigliosa
riuscita; i mori vi si alzano in breve giro d’anni a una
procerità sorprendente, e i bachi che se ne pascono
fanno una bellissima seta. Le viti non vi danno assai
buona rendita; ed è un prodigio che vi si conservino
restando per lungo tempo ogni anno sott’acqua,
spezialmente nella pianura, che stendesi fra’ due fiumi
rimpetto a Metkovich, villa ben abitata da gente sana,
laboriosa, e coraggiosa.
Ad onta del terreno ubertoso, e della situazione più
che ogni altra felice rapporto al commercio colla
Turchia, il paese di Narenta è pochissimo popolato, e
414
meno ancora frequentato da’ naviganti, che temono gli
effetti di quell’aria, da cui forse dee ripetersi la
qualificazione di Neretva od Boga procleta, Narenta
maladetta da Dio, ch’è passata in proverbio presso i
Dalmatini. Il celebre dottor Giuseppe Pujati, che morì
pubblico professore a Padova dopo d’avervi con somma
lode per varj anni insegnato la medicina, diede alla luce
un trattato De morbo Naroniano, atto a spaventare
qualunque avesse voglia di colà portarsi spezialmente in
autunno. Io però vi fui d’ottobre, vi restai quindici
giorni, e la mercé di semplicissime precauzioni ne uscii
sano con tutti i miei marinaj, che aveano fatto di molte
difficoltà prima di venirvi. L’acqua, che stagna in alcuni
luoghi, vi diventa pestilenziale a segno d’uccidere il
pesce che vi nuota; il Pujati assicura che gli uccelli
palustri, de’ quali v’è un’immensa [158] abbondanza,
cadono sovente avvelenati dalle micidiali esalazioni.
Egli qualifica le febbri autunnali narentine come una
spezie di peste, da cui è difficilissimo il liberarsi.
Ogni abitante di quella contrada ha il suo picciolo
padiglione per ripararsi dalle zanzare, e insetti congeneri
nel tempo del sonno; le persone più comode stanno
sotto il padiglione di velo anche il giorno, durante la
stagione calda. Il numero di queste incomode bestiuole
nel tempo ch’io mi trovava colà era ancora sì grande,
ch’ebbi a disperarmi. Un ecclesiastico mi mostrò una
picciola escrescenza, o natta, che avea in fronte, e mi
assicurò che la gli era venuta dalla puntura d’una
zanzara. Egli è uomo d’ingegno acuto anzicché no; e mi
415
disse, che sospettava le febbri, dalle quali erano
tormentati i Narentini, potessero essere occasionate
dalle punture di quest’insetti, che dopo d’aver succhiato
un pesce, o un quadrupede fracido, o forse un’erba
malefica passano a succhiare gli uomini. Veramente non
sembra impossibile la comunicazione d’un qualche
miasma anche per questa via; ed il sospetto è per lo
meno ingegnoso. L’insalubrità del paese di Narenta non
è però irrimediabile; alcune porzioni vi si sono rese
abitabili dopo la coltivazione de’ terreni contigui. Il
cercare d’incoraggirvi l’agricoltura, e i ritratti in
particolare, potrebbe ancora farlo divenire un territorio
ricco, e ridente, come dovette essere stato ne’ tempi
antichi.
I colli, che circondano quella contrada, sono per la
maggior parte marmorei: non v’ha differenza
dagl’impasti delle loro pietre a quelle dell’isole. Né
curiosità fossili, né cose utili vi si osservano, se una
miniera di pissasfalto se ne voglia eccettuare, che
trovasi appiè del monte Rabba, nel tenere di Slivno, in
Xaxabie. [159] Io non ho visitato quel sito, come
nemmeno una cava di marmo bianco nel luogo detto
Comin, che m’era stata indicata. La regione montuosa
v’è tutta piena d’antri, e di voragini, delle quali si
raccontano gran meraviglie. Io ebbi nella mia barca un
frate, da cui m’era stato fatto sperare che avrei ritratto
qualche buona notizia, il quale mi raccontò le più matte
fole, che possano formarsi in un capo guasto dalla
superstizione. Questo strano vivente giurava su le strida
416
de’ bambini nelle voragini, e su le danze delle fate nelle
caverne, come s’egli ne avesse veduto le mille volte.
Egli mi assicurò che avea in un suo libro particolare una
benedizione, contro la quale nessuna febbre poteva
resistere. Interrogato del perché non guariva tutta quella
meschina popolazione, e non faceasi così un merito
presso Dio e gli uomini? rispose ingenuamente, che
voleva essere ben pagato per fare di questi miracoli, e
non si curava di operarli per gente meschina, e spilorcia.
Io restai poco edificato, come potete ben credere, di
questa sincerità: e tanto più mi parve mostruosa, quanto
che gli altri di lui confratelli sono pieni d’umanità, e di
carità verso i poveri Morlacchi. Sarebbe lunga cosa, ed
inutile il ridirvi tutte le pazzie, e le falsità dettemi dal
fantastico uomo sul proposito dell’antica estensione, de’
monumenti, e delle lapide, che si ritrovano in quelle
paludi. Io mi sono fidato delle di lui parole una sola
volta; ed ebbi da pentirmene. V’è anche un libriccino
stampato, nel quale si leggono molte cose mattamente
apocrife del paese di Narenta; io non voglio sapere se il
mio frate ne sia l’autore; ma, comunque siasi, è lavoro
che non merita d’essere letto, né censurato.
Io abbandonai il paese di Narenta penetrato da un
intimo sentimento d’obbligazione inestinguibile verso i
[160] cortesi miei ospiti, ma nel tempo medesimo
stomacato dell’impudenza, dello spirito bugiardo,
mancatore, scompiacente di qualche altro, che ho avuto
la disgrazia di conoscere a prova. Mi resta
l’esacerbazione ancora nell’animo pel progetto, che mi
417
vi fu guastato, dell’andata al ponte di Mostar. Spero ciò
non pertanto ancora, Mylord, di potervi servire in
questo, se mai ritorno a internarmi nella Dalmazia, e di
darvi così una prova di quel giusto, ed inalterabile
attaccamento, cui la continuazione della bontà vostra
per me rende vieppiù forte ad onta del tempo, e della
distanza, che mi allontana da Voi. [161]

418
Al chiarissimo signor
abbate
Lazzero Spallanzani
pubblico professore di storia naturale
nell’Università di Pavia,
membro della Società reale di Londra,
dell’Istituto di Bologna, e
d’altre celebri accademie d’Europa.

DELL’ISOLE DI LISSA, PELAGOSA,


LESINA, E BRAZZA NEL MARE
DALMATICO, E DELL’ISOLA D’ARBE NEL
QUARNARO.

Quantunque io sappia al pari d’ogni altro, che le cose


incominciate, e abbandonate a mezzo viaggio non
meritano pell’ordinario d’essere offerte al pubblico, né a
qualche dotto uomo in particolare; e sia intimamente
convinto che difettose, e mutile sono le osservazioni,
ch’io vado scrivendo della Dalmazia, e delle numerose
isole sparse nel vicino mare, perché incomode
combinazioni m’impedirono il [162] perfezionarle,
ardisco ciò non ostante d’indirizzarne una parte anche a
Voi, dottissimo, e pregiatissimo amico, senza timor
d’incontrare la taccia di temerità, o disprezzo del mio
dono qualunque siasi. La sperienza dee avervi insegnato
419
quante difficoltà, e remore non prevedibili sovente
incontrino i viaggiatori naturalisti, anche allora che sono
scortati dall’autorità del Governo, pelle montagne; e
quindi più che i sedentarj letterati sarete in istato di
calcolare quanto tempo m’abbiano rubato in contrade
poco abitate, e lontane dalla coltura italiana i
cangiamenti dell’aria, le incostanze del mare,
l’ignoranza, o la diffidenza degli uomini rozzi. I giorni
perduti indispensabilmente occuparono forse più che la
metà de’ dieci mesi da me consumati nelle replicate gite
fatte in quel regno; ed io mi sarei forse risarcito del
danno, se dopo d’aver superato una buona parte delle
difficoltà non mi fosse cessata l’occasione di ritornarvi.
Ad ogni modo, non essendovi stato sinora chi abbia dato
di quel vasto paese notizie dettagliate, credo anche il
poco ch’io ne ho osservato possa piacere ai naturalisti.

§. 1. Dell’isole Lissa, e Pelagosa.


L’isola che a’ giorni nostri è chiamata Lissa, fu dagli
Antichi conosciuta sotto il poco dissimile nome d’Ἴσσα,
Issa. I geografi greci, e latini ne fanno menzione
onoratissima come d’una colonia di Siracusani; e le
danno quasi unanimemente il primato fra l’isole del
Mare Illirico, quantunque il di lei breve circuito non la
faccia essere una delle maggiori. Scimno Chio dovendo
parlare dell’isole illiriche incomincia da Lissa,
quantunque sia la più lontana dal continente; Strabone
fra le notissime l’annovera in principal luogo; ed
Agatemero la mette alla testa delle [163] più nobili; non
420
v’è poi geografo, che non la nomini distintamente. Fra’
poeti greci Apollonio Rodiano nell’Argonautica la
nomina colla qualificazione di δυσκέλαδος, romorosa, o
malsonante, congiungendovi la «desiderabile Pitiea»,
che debb’essere non Lesina, come alcuni riputatissimi
geografi vollero, ma l’isoletta di S. Andrea coperta
anche a’ giorni nostri di boschi, da’ quali si fa colare la
resina pel mezzo dell’incisione. Da Licofrone, nella
Cassandra, rilevasi che Cadmo v’abbia per qualche
tempo abitato, e generatovi un figliuolo:
O! così nella d’acque circondata
Lissa Cadmo prodotto non avesse
Te, condottiero di nemici, quarto
Germe del seme misero d’Atlante,
De’ tuoi congiunti ultimo eccidio, Prilo,
Veridico indovin d’ottime cose!126
Quasi tutti gli antichi storici greci, e latini del primo
ordine parlano a lungo di quest’isola, che sin da’ tempi
rimotissimi era considerabile pelle forze marittime, e pel
commercio. De’ Liburni, e de’ loro alleati gli Etruschi
adriesi, che vi si erano stabiliti, e di là davano la legge a
tutto l’Adriatico, non ci conservarono assai distinte

126
Ὡς µή σε Κάδµος ὤφελ’ ἐν περιρρύτῳ
Ἴσσῃ φυτεύσαι δυσµενῶν ποδηγέτην,
τέταρτον ἐξ Ἄτλαντος ἀθλίου σπόρον,
τῶν αὐθοµαίµων συγκατασκάπτην Πρύλιν,
τόµουρε πρòς τὰ λῷστα νηµερτέστατε.
Λυκοφρ. Κασσάνδρα.
421
notizie le storie; ed appena incominciamo a saper
qualche cosa de’ fatti de’ Lissani nella XCIII Olimpiade,
vale a dire nel tempo che [164] Dionisio il Vecchio se
ne impadronì, e vi trapiantò una colonia di Siracusani,
divenuta coll’andar del tempo indipendente dalla patria
madre, e formidabile della estensione de’ suoi dominj, e
pel numero delle sue navi. I Lissani fecero la guerra
sovente ai re dell’Illirio, e furono alleati de’ Romani
così tenuti in pregio, che per cagion d’essi mandarono
un’ambascieria alla regina Teuta, onde cessasse dal
molestarli. L’esito sanguinoso di questa legazione servì
di pretesto alla prima guerra illirica, che condusse tutte
le altre, dalle quali ne risultò la conquista di quel vasto
paese. Il commercio, e la navigazione de’ Lissani
decaderono, e per conseguenza il loro potere si ridusse a
nulla, dopo il fine delle guerre illiriche. Gli storici non
parlano più di essi per una lunga serie di secoli; e solo si
trova che ne’ tempi di mezzo appartenevano ai pirati
narentani. Nell’età più vicine a noi l’isola di Lissa
divenne dipendente da quella di Lesina; e non si trovò
mai in caso di formare un corpo da sé. Essa non ha più
che trenta miglia di circuito; è montuosa, ma non manca
di valli coltivabili; gode d’una felicissima temperatura
d’aria, e sarebbe compiutamente felice se avesse
abbondanza d’acqua dolce.
Anticamente ebbe due città, una delle quali portava il
nome dell’isola, l’altra chiamavasi Meo. Della prima
restano de’ vestigj miserabili sul porto veramente
teatrale, ch’è a’ dì nostri dominato dal borgo di Lissa; e
422
segnatamente de’ pavimenti a mosaico, che vengono
coperti dal mare quando le acque si alzano; dell’altra è
probabile rimangano le rovine a Comisa, luogo
popolato, e colto, che sorge al mare dalla parte orientale
dell’isola. Si trovano due monete degl’Issei, l’una delle
quali ha il capo di Pallade armata dal dritto, e un’anfora
dal rovescio; l’altra porta in luogo [165] dell’anfora una
capra. Frugando sotterra si trovano colà de’ vasi antichi
somiglianti nella forma, e nelle inverniciature agli
etruschi, e qualche lapida greca, o latina. Vi fiorì in
questo secolo un erudito uomo della famiglia
Caramaneo, che lasciò molte pregevoli schede
appartenenti spezialmente all’illustrazione della sua
patria. Questo valentuomo ebbe dei dispiaceri per aver
voluto provare in una dissertazione, che le reliquie di s.
Doimo venerate a Spalatro con sommo fervore non
erano legittime. Io non fui che una sola volta sull’isola
di Lissa in compagnia di mylord Hervey, infaticabile
indagatore de’ segreti orittologici; noi vi sbarcammo per
così dire alla ventura, privi d’appoggi, e di chi ci potesse
dirigere utilmente. Quindi pochissimo vi potemmo
osservare, tormentati anche dall’eccessivo calore della
stagione, a cui però poco avrebbe badato Mylord, se
avessimo avuto buone indicazioni.
L’ossatura dell’isola di Lissa è per la maggior parte
marmorea; v’hanno degli ortoceratiti nel marmo
volgare, che vi si trova ne’ più bassi strati, e delle
nummali ne’ più elevati. Questa legge non è però così
costante, che non si vegga alcuna volta rovesciata. Fra
423
le spezie di pietra, che si osservano lungo il lido del
porto di Lissa, v’è un marmo tegolare di sottilissimi
strati, e una pietra scissile biancastra, calcarea, poco atta
agli usi economici per essere di lamine irregolari, e
fragili. Le ossa fossili vi si trovano petrefatte
nell’impasto medesimo, che si vede in varj luoghi
dell’isola d’Osero, e in quella di Rogosniza. Se ne
incontrano abbondantemente fra le fenditure verticali
degli strati nella picciola Valle di Ruda; e gli abitanti ci
dissero, che n’è ancora più ricco uno scoglio poco
lontano detto Budicovaz, e che in altri angoli dell’isola
medesima di Lissa ne avressimo rinvenuto. [166]
Il Donati nel suo Saggio d’istoria naturale
dell’Adriatico scrive d’aver pescato ne’ contorni di
Lissa una spezie di serpentino; ma non rende conto se
potess’essere qualche pezzo errante, o se fosse
veramente di cava locale. In quella parte d’isola, ch’io
ho veduto, non trovasi indizio veruno di eruzioni
vulcaniche, da cui si possa trar probabilità che nelle
vicinanze di essa trovinsi serpentini, o altri marmi
prodotti dal fuoco. Varj rottami di lava trovammo sparsi
sul porto di Lissa, e, venuti di fresco dal Vesuvio ci
lusingavamo di poter iscoprire su di quest’isola qualche
vulcano spento. Gli abitanti ci dissero, che in un luogo
chiamato Porto-Manica il mare non cacciava su altro
che pietre nere; noi v’andammo attraversando l’isola a
cavallo, e trovammo falsissimo quanto c’era stato
raccontato. Conchiusimo, che le pietre vulcaniche da
noi vedute a Lissa non erano indigene; si volle poi farci
424
credere, che uno scoglietto poco lontano dal Porto-
Manica fosse tutto impastato di pietra nera, simile ai
pezzi erranti che avevamo veduto: ma non si trovò barca
che vi ci tragittasse, e quindi restammo colla sola
probabilità che il racconto fosse una seconda bugia. Di
marmi nobili, o di pietre fine non vidimo alcun indizio
nella traversata che fecimo: ma vi dovrebbono essere
delle breccie compatte nell’interno de’ monti, come
all’esterno se ne trovano di madrose, ed ignobili. Il
terreno vi è rossiccio, e tenace come le crete saturate
d’ocra di ferro; ne’ luoghi elevati è arenoso, e
ghiajuoloso.
Il prodotto più celebre di quest’isola ne’ tempi antichi
fu il vino. Ateneo ne fa onorata menzione sulla fede
d’Agatarchide, che diede il primato sopra tutti i vini a
quello di Lissa. «In Lissa isola dell’Adriatico dice
Agatarchide che nasce un vino, [167] il quale
paragonato a qualunque altro ritrovasi migliore» 127. A’
giorni nostri il vino di Lissa non è gran cosa sia perché
vi manchi l’arte di farlo, sia perché il tempo abbia fatto
perire le antiche spezie dell’uve. Il terreno, e la
situazione sono attissimi a portare qualunque prodotto;
le viti, gli ulivi, i mori, i mandorli, i fichi vi allignano
volontieri. La quantità d’erbe odorose, che si trovano
pe’ monti di Lissa, ne rende il miele d’un eccellente
sapore: ma le api dell’isola sono accusate di dar poco
127 Ἐν δὲ Ἴσσῃ τῇ κατὰ τὸν Ἀδρίαν νήσῳ Ἀγαθαρχίδης φησὶν
οἶνον γίνεσθαι ὃν πᾶσι συγκρινόµενον καλλίω εὑρίσκεσθαι.
Athen. Δειπνο. α.
425
lavoro, il che dee forse ripetersi dalla mancanza
d’acque. Le carni degli agnelli, de’ capretti, il latte, il
cacio vi sono d’ottima qualità; non così le lane, pella
poca cura che vi si ha delle greggie. La raccolta di grani
è lieve cosa, né basta ad alimentare quella picciola
popolazione.
Il più riflessibile oggetto del commerzio de’ Lissani
viene loro somministrato dalla pesca. Una sola barca da
tratta vi prende talvolta in poche ore d’oscura notte
sessanta, cento, e cencinquanta migliaja di sardelle. In
questi casi però l’abbondanza soverchia diviene un
oggetto d’afflizione. Per una di quelle picciole ragioni,
che sovente traggono seco per conseguenze danni
riflessibili, l’isola di Lissa, situata nel più opportuno
luogo all’esercitare una ricchissima pescagione, non ha
magazzini di sale. Que’ pescatori colti all’improvviso da
un’abbondante preda si trovano in necessità di ricorrer
trenta, e quaranta miglia lontano per aver di che
conservarla da’ magazzini di Lesina. Eglino
intraprendono talvolta di questi viaggi se un vento
determinato [168] gl’inviti a tentare la fortuna: ma
pell’ordinario, disperando di poter andare, e ritornare
colla necessaria sollecitudine, gettano al mare le
cinquanta, e anche le cento migliaja di pesce, per non
essere appestati dal puzzo. Ogni migliajo di sardelle si
calcola intorno a uno zecchino di valore; gli sgomberi in
ragione della loro mole vagliono di più. Sarebbe un
tratto di benintesa economia nazionale il piantare
sull’isola di Lissa un magazzino di sale, onde que’
426
poveri abitanti non dovesser pur troppo sovente perdere
il frutto delle loro fatiche. La pesca de’ Lissani non è
circoscritta solamente alle notti oscure de’ mesi estivi; il
clima dolce di quell’isola permette a’ pescatori
l’esercitarsi anche nel verno. L’affluenza de’ pesci, che
amano di ritirarsi a svernare fra gli scogli contigui,
somministra de’ compensi ai disagj inseparabili
dall’arte. Tutte le spezie acquatiche crescono ne’
contorni di Lissa a maggior grandezza che ne’ luoghi
più vicini al continente; le orate, e i dentici presi nel
verno soglionvisi mettere in gelatina, ed entrano in
commercio così preparati. Fra i pesci curiosi, che si
prendono in quelle acque, deesi annoverare
principalmente la paklara, ch’io non ho veduto, ma di
cui la descrizione fattami da’ marinaj corrisponde
all’echeneide d’Artedi, e di Gouan; non però
all’echeneide, o remora degli Antichi, secondo la mia
opinione 128.
I Lissani pella situazione loro lontana dalle altrui
acque messi fuori del pericolo di far danno alle tratte de’
vicini, dovrebbono potersi liberamente servire delle reti,
che stimassero più adattate ai fondi, ne’ quali [169]
pescano: essi non sono però liberi quanto farebbe
d’uopo su di questo articolo. Quindi ne avviene, che si
allontanino di frequente dalle acque loro, e vadano a
pescare intorno all’isola Pelagosa, ch’è sessanta miglia
lontana da Lissa, e, poco più, poco meno, dal
promontorio di S. Angelo in Puglia. Le loro prede non
128 Artedi Syn. pag. 28. Gouan Hist. pisc. Gen. XXXVII.
427
passano a Venezia, dove pretendono d’incontrare
gravissimi discapiti: ma si diffondono pel Regno di
Napoli, le di cui spiaggie, che guardano l’Adriatico,
sono mal provvedute di pescatori. Sarebbe desiderabile,
che ne’ luoghi abbondanti di pesci com’è l’isola di Lissa
fosse introdotta una polizia pescatoria, che si estendesse
anche sopra le insalazioni; e se ne potrebbe prendere il
modello da’ Francesi accomodandolo ai generi, e alle
circostanze nostre.
L’isola Pelagosa, e varj scoglietti, che spuntano dal
mare nelle vicinanze di essa, sono residui d’un antico
vulcano. Io non vorrei assicurarvi, che fosse sorta
dall’acque come tante altre isole dell’arcipelago,
quantunque possa farcelo sospettare il non trovarne
memoria precisa ne’ geografi più antichi. Sembrerebbe,
che non dovess’essere stata confusa colle Diomedee,
dalle quali è trenta miglia distante; ad ogni modo però si
può dare che l’abbiano fatto. La lava, che forma
l’ossatura di quest’isola, è similissima alla più comune
che getta il Vesuvio, per quanto abbiamo potuto vedere
passandovi dappresso. Se qualche naturalista vi
discendesse, e ne visitasse di proposito i luoghi più
elevati, potrebbe darsi che sapessimo s’ella è stata
cacciata fuori da un vulcano submarino, come nel
secolo nostro l’isola vicina a Santerini, o se debba
credersi la cima di qualche antica montagna vulcanica,
le di cui radici, e le falde sono state coperte dalle acque,
che divisero l’Africa dalla Spagna formando lo Stretto
di Gibilterra, [170] invasione, di cui non può dubitare
428
chi ha esaminato i fondi, e i lidi del nostro mare. I
pescatori lissani assicurano, che il tremuoto vi si fa
sentire frequentemente, e con molta violenza; l’aspetto
dell’isola prova anche agli occhi meno prevenuti, che vi
accadono sovente delle rivoluzioni; ella è scabrosa,
rovinosa, e sconquassata. Avrei avuto voglia di visitare
anche l’isole Diomedee, dette di Tremiti da’ nostri
geografi, alle quali forse dalla frequenza de’ tremuoti è
venuto il nome, perché secondo le mie congetture
dovrebbono avere de’ segni vulcanici: ma vado
disanimandomi di giorno in giorno. Io vi confesserò,
pregiatissimo amico, che dopo le scoperte degli antichi
vulcani fatte dalla dotta compagnia del cavaliere Banks
nell’isole di Scozia, nell’Islanda, nelle terre nuovamente
trovate; dopo le osservazioni dell’oculatissimo Vescovo
di Londonderry in Irlanda, pel Valese, pell’Alvernia; e
dopo i viaggi orittologici pe’ monti degli Svizzeri, della
Francia, della Germania fatti di fresco dal celeberrimo
naturalista signor Giovanni Strange, tutte le cose nostre
mi sembrano oggetti microscopici. Il solo vantaggio che
ci dà la loro picciolezza, e che m’impedisce dal
disgustarmene del tutto, si è, che possono essere più
diligentemente esaminati che gli spettacoli maggiori. La
natura è sempre ingegnosa, e grande egualmente; né agli
occhi dell’osservatore le picciole cristallizzazioni
basaltine delle lave volgari, e i piccioli cristalli de’ Colli
Euganei deggiono provar meno, che le meravigliose
colonne prismatiche di Staffa, o le grotte cristalline
degli Svizzeri. Egli è però d’uopo di fare sforzi per
429
tenersi presente questa verità; ed allora particolarmente,
che cadono sotto gli occhi le descrizioni, o i disegni di
quelle magnificenze naturali. [171]

§. 2. Dell’isola di Lesina.
Del nome, che portava quest’isola nel tempo della sua
dipendenza dai Liburni, non resta per quanto io so più
memoria né presso ai geografi, né presso agli storici
antichi. Scilace la nomina Φάρος, né si ferma a parlare
di essa. Scimno (s’egli è così antico come alcuno de’
suoi illustratori lo vorrebbe) è il primo a dirci, ch’ella
era una colonia di Parj129, nel che s’accorda con
Strabone, il quale aggiunge, che da’ nuovi venuti fu
primamente detta Πάρος, Paro. Tolommeo chiama
Φάρια, Faria, tanto l’isola, che la città capitale di essa; e
i geografi più bassi s’accordano quasi tutti nel darle
questo nome, da cui non s’allontanarono gli Slavi
chiamandola Hvar nella lingua loro, che nella
pronunzia sua primitiva sostituisce alla lettera f le due
hv, o talora la lettera p. Adesso è detta Lesina, dalla sua
figura somigliante a quello stromento de’ calzolaj. I
Parj, che secondo Diodoro Siculo furono dall’oracolo
mandati a stabilirsi nell’Adriatico, vi fondarono Faria, e
si eressero in picciola repubblica, di cui ci resta una
moneta. Eglino vissero in libertà più tranquilla che
gloriosa sino al tempo d’Agrone, dal quale furono vinti
129
Φάρος δὲ τούτων oὐκ ἅποθεν κειµένη
Νῆσος, Παρίων κτίσις ἐστίν. Σκύµν. 425.
430
forse insieme con molti popoli del continente, e tutti gli
altri isolani, trattone quei di Lissa. Nelle storie romane
si parla assai più che de’ Farj di Demetrio loro
concittadino, che divenuto potente alla corte d’Agrone,
e di Teuta tradì la sua sovrana, e diede ai Romani varie
piazze, [172] fra le quali anche Faria sua patria, di cui
era stato fatto governatore da Agrone; egli ne divenne
poi signore in premio del tradimento. Come costui abbia
abusato dell’amicizia de’ Romani si ha da Polibio, da
Dione, da Appiano. Faria portò la pena delle di lui male
azioni, e fu dai Romani medesimi replicatamente
distrutta nella guerra, ch’ebbero contro Filippo re di
Macedonia. Egli è un danno che la celebrità de’ Farj
incominci, e finisca da un traditore; dopo la morte di
Demetrio non si sente più parlare di essi presso agli
antichi scrittori profani. Ne’ tempi della decadenza
dell’Impero cangiò padroni sovente, e rimase
lungamente nelle mani de’ Narentani; poi ebbe signori
particolari, l’ultimo de’ quali Aliota Capenna la cedette
alla Serenissima Repubblica nel 1424.
La lunghezza di quest’isola è di circa quarantaquattro
miglia, la maggior larghezza di otto. La sua capitale
porta il nome di Lesina, ed è situata verso l’estremità
occidentale in un luogo bastevolmente bene scelto, ma
non paragonabile per verun conto alla situazione, in cui
la città loro aveano piantato gli antichi Parj. È
mediocremente abitata, e vi risiede il nobil uomo
Provveditore, e un Vescovo; il castello, che la domina,
fabbricato sulla cima d’un monte marmoreo, e le altre
431
fabbriche militari vi sono mal tenute. Il porto,
quantunque ben coperto, e spazioso, è poco frequentato
presentemente: com’è poca, e povera cosa la
popolazione della città. I Lesignani sono amici del
forastiere; ma non hanno fama d’essere molto amici fra
di loro.
Ne’ pochi momenti ch’io mi fermai ne’ contorni della
città di Lesina, raccolsi parecchie varietà di pietre. Il più
vago è un marmo di grana finissima salina, color [173]
di carne, listato: questo non trovasi a strati molto estesi,
ma sibbene a gruppi, come i marmi stalattitici, che vi
sono anch’essi comuni. Vi si estende in vaste
stratificazioni una spezie di marmo lumachella, oggetto
più curioso agli occhi dell’orittologo, che aggradevole al
marmorajo: il suo fondo di colore è bianco sudicio;
l’impasto rigido; i frantumi di corpi marini, che vi si
veggono disposti orizzontalmente, sono cangiati in
ispato biondiccio. Quella spezie di pietra marmorea di
color rosso fosco, che noi conosciamo a Venezia sotto il
nome di rosso da Cattaro (perché dalle vicinanze di
quella città ce ne viene portato in quantità), vi si trova
comunemente; e vi è frequente la breccia corallata, nelle
di cui macchie predomina il colore avvinato, e ’l
pagonazzo; i sassi, onde quest’ultima spezie è
composta, sono scantonati, e conservano i caratteri
d’una lunga fluitazione. Questa breccia occupa
pell’ordinario la sommità de’ monti; e rende così più
evidente l’antica adesione dell’isole col continente
vicino, nelle di cui altezze osservasi il medesimo
432
impasto. Voi intendete bene, come intendo anch’io, che
perch’esistessero delle ghiaje da rotolare fu d’uopo
avessero preesistito delle alte montagne, dalle quali
dovettero staccarle, e trasportarle i torrenti; e che
veggendosi ne’ sassi fluitati delle breccie, che si trovano
su’ monti dell’isola, de’ corpi marini lapidefatti, diviene
indispensabile il mettere la sede d’un antico mare su
quelle montagne ora distrutte, dalle quali le ghiaje
discesero. Questa picciola faccenda di fabbricamento, e
distruzione porta qualche lunghezza di tempo, è vero:
ma noi non ne abbiamo colpa. Come poi gl’immensi
letti di ghiaje seminate con prodigalità da’ fiumi, da’
torrenti, o trasportate, e rimescolate dalle onde marine
sieno stati abbandonati dal mare, ed invasi da nuovi
[174] fiumi, e torrenti, che le pianure continue
trasformarono in montagne, e in colli trinciati, e
suddivisi da valloni; come ai fiumi, e ai torrenti sieno
mancate le acque col mancare de’ monti più antichi, da’
quali erano discese le ghiaje; come nelle gran fenditure,
e ne’ valloni siasi un nuovo mare introdotto io non lo
saprei dire; quantunque assai vicini all’età nostra
deggiano essere stati questi ultimi avvenimenti, in
confronto de’ primi. Sarebbe davvero un’occupazione
pessima quella di chi volesse mettersi di proposito a
spiegare i come, e i quando di tutte le rivoluzioni
sofferte dalla sola corteccia esteriore del nostro
miserabile globo. Il loro numero provato delle
osservazioni di orittologi diligenti, e oculati metterebbe
in allarma migliaja di Brovallj, che non vorrebbero forse
433
venire a patti, e contentarsi di farle accadere
rapidamente l’una dopo l’altra in un breve giro di secoli:
sul qual ripiego un amico della pace non troverebbe che
dire. Lungo il lido del porto di Lesina io ho raccolto
selci gialle, verdi, e rosse tutte compenetrate di fluore
piriticoso dendromorfo. Nel picciolo scoglio di Borovaz
trovansi degli ammassi d’ossa fossili.
Parecchi uomini dotti produsse la città di Lesina nel
secolo XV, i nomi de’ quali sono riferiti da Vincenzo
Pribevio nella sua orazione De origine et successibus
Sclavorum, colà recitata nell’anno 1525. Fra questi due
si distinsero nella poesia, e furono Annibale Lucio, e
Pietro Ettoreo, del primo de’ quali sono stampate alcune
cose poetiche130, [175] del secondo forse anche ha il
pubblico qualche opera, e molte ne restano manoscritte.
Fra queste contasi una traduzione del Rimedio d’Amore
d’Ovidio in versi illirici, e varie egloghe.
L’isola di Lesina, quantunque sassosa, e sterile nella
più alta parte, ha però de’ tratti di buone terre, atte non
solo a portar alberi fruttiferi ma biade eziandio. Quindi
n’avviene ch’ella è la meglio abitata dell’altre del Mare
Illirico, e che alcuni de’ suoi villaggi meritino il nome di
grossi borghi, e superino nel numero degli abitanti molte
picciole città. Fra questi si vuol dare indubitabilmente il
primo luogo a quello, che sorse dalle rovine dell’antica
Faria, e però chiamasi Città-vecchia. Egli è posto al
mare su d’un bello, e comodo porto, appiè d’una
130 Robigna Gospodina Anibala Lucia, Hvarskoga Vlasteline.
Venezia 1627. in 8º.
434
campagna amenissima. In questo solo luogo il mare
visibilmente cede alla prolungazione del terreno: e la
ragione manifesta n’è il declivio della campagna
superiore, che si stende in costa del monte dolcemente
ascendendo, ed è fiancheggiata verso l’estremità più alta
da terreni molto elevati. Le acque, che ne discendono
torbide dopo le pioggie, depongono sulla spiaggia le
terre, ond’erano saturate, e la fanno così a poco a poco
crescere. Mi parve di riconoscere anche dalle poche
rovine antiche rimaste sopra terra, che Faria fosse quasi
due miglia più addentro di quello è attualmente Città-
vecchia; e i dettagli avuti dagli abitanti mi
confermarono in questa opinione. Due soli pezzi antichi
io ho veduto in questo luogo, il più pregevole de’ quali è
un bassorilievo sufficientemente ben conservato in
marmo greco, che rappresenta una barca a vela, col
timone alla destra della poppa, e il piloto che lo
governa; l’altro è pur un bassorilievo sepolcrale di
cattivo scalpello. Mi fu d’uopo andar a cercare il primo
sino alla sommità [176] del campanile, nella di cui
fabbrica probabilmente molti monumenti de’ Farj
saranno periti. D’iscrizioni greche non vi ho trovato
vestigio; e una sola sepolcrale latina ho ricopiato forse
un miglio fuori della borgata, pentitissimo d’esser
andato a cercarla così lontano. Gli abitanti di questo
paese sono di bella statura, coraggiosi, e d’ingegno
svegliato; eglino si danno molto alla navigazione
padroneggiando vascelli; il minuto popolo s’occupa
della pesca, e del costruirne.
435
Da Città-vecchia io mi portai a cavallo sino al
picciolo seno di Zukova, dove trovano porto
bastevolmente sicuro le barche de’ pescatori. Colà si
cavano in riva del mare le lastre di marmo tegolare
biancastro, di cui sogliono usare generalmente gl’isolani
della Dalmazia per coprire le loro case. Accade sovente,
che nel fendere le più grosse lamine di questa spezie di
pietra si scoprano impressioni di piante marine, e di
pesci non conosciuti ne’ nostri mari; ma il caso di
trovare le impressioni, e le spine lapidefatte de’ pesci è
assai raro, quello delle piante comunissimo: le spezie
però di queste non sono assai moltiplicate. È raro il
rinvenirvi delle impressioni di coralline: e la sola
benissimo espressa ch’io v’abbia incontrato, è passata in
Inghilterra per aver luogo in una ricchissima collezione,
come vi passarono i pochi pesci di quel sito, che mi
venne fatto d’avere. Vi si trovano anche de’ mituli
cangiati in pietra, maltrattati, e sfigurati. Il mare, che
non ha ragioni topiche di allontanarsene, guadagna sulla
costa di Zukova, e risommerge a poco a poco gli strati
curvi del marmo tegolare, in cui gli scheletri de’ pesci
stanno sepolti. Essi resteranno coll’andare del tempo
coperti dalle ghiaje, e dalla rena mescolata co’ testacei
dell’Adriatico; e daranno da pensare a’ naturalisti de’
secoli venturi, se mai ne anderà alcuno ad esaminare
quel [177] luogo divenuto subacqueo, o riabbandonato
dall’acque. Non sarebb’egli difatti da compatire un
naturalista, che su le prime traendo da qualche strato
lapidoso del fondo del mare una petrificazione, la
436
credesse formata dalle acque sotto le quali giaceva? Il
fatto però prova ad evidenza, che la non è pell’ordinario
così; e i gran pezzi di marmi lenticolari, e ortoceratitici,
che si traggono coll’ordigno de’ corallaj dagli abbissi
del nostro Adriatico, lo dimostrano chiaramente. Gli
scheletri de’ pesci di Zukova, che vanno a gran passi
risommergendosi insieme cogli strati ne’ quali
giacciono, non appartengono certamente al nostro mare,
posteriore di molto alla loro deposizione. Io non me ne
ritrovo attualmente alle mani per descrivervene le parti
riconoscibilissime, e determinare a qual genere
appartengano, e a quale delle spezie conosciute
s’accostino.
Un picciolo casale lontano dal mare, detto Verbagn,
ha un’altra cava di marmo tegolare, dove pur trovansi
de’ pesci: ma per averne fa d’uopo aspettare delle
settimane intere, e far lavorare a proprio conto gli
scavatori, che non si curano di queste curiosità. Questo
Verbagn è due miglia lontano da Varboska, villaggio
assai popolato due secoli addietro, come lo provano le
case ben fabbricate che vi si vedono adesso rovinose.
Gli abitanti del luogo, come anche generalmente di tutta
la costa, sono ospitali, e cortesi. La principale
occupazione delle femmine vi è la coltura delle terre: gli
uomini sono addetti alla pesca, quando abbiano modi, e
salute per esercitarvisi. Da Varboska a Gelsa per terra è
un viaggio di quattro miglia. Io trovai nel farlo una
curiosità fossile, che mi parve meritare tutta la mia
attenzione. Buona parte del cammino, e tutto quasi un
437
colle intermedio è di tofo fluviatile, abbandonato colà
da qualche antico fiume che si è perduto, ovvero ha
[178] raccorciato il proprio corso, direttolo forse per
altra via, o trasformatolo irriconoscibilmente, Questo
tofo posteriore di molto alla formazione degli strati
marino-marmorei, che costituiscono l’ossatura
dell’isola, è certamente di non poco anteriore
all’irruzione del nuovo mare fra le nostre terre, che non
è poi affare di data recente; imperocché l’isole della
Dalmazia doveano già essere dallo stato d’antiche
pianure ridotte a quello di montagne intersecate da
valloni, allora quando il mare venne a visitarle.
L’interiore della Dalmazia guardato dall’alto del monte
Biocova a confronto dell’isole, che da quella sommità si
veggono tutte unite, presenta uno spettacolo similissimo
ad esse, quando si tolga loro col pensiero il mare
d’intorno. Io ho vuotato colla fantasia pelle valli della
Bossina fiancheggiate ora da colli, ora da montagne,
quel mare che circonda Lesina, Lissa, la Brazza, e le
numerose altre isole illiriche, ed ho queste lasciate a
secco. La Bossina avea cangiato situazione, ed era
venuta a far una continuazione del Primorie; e
l’arcipelago illirico trovavasi quasi senz’alterazione
riconoscibile trasportato al di là del monte Adrio. Il
picciolo lago di Jezero, che pieno d’isolette, e scogli
selvosi giace nel continente, appiè del Biocova, che lo
separa dal mare, mostra nel breve giro di poche miglia
ciò, che sarebbe tutta quella contrada transalpina, se
venisse inondata, e ciò che furono l’isole prima d’essere
438
circondate dal mare.
Gelsa è un grosso villaggio ben situato, su d’un porto,
ricco di ruscelli perenni, che menano buon’acqua, ed
assai popolato. Egli è alle radici di colli marmorei, che
con dolce pendio si perdono in mare. Vi si vede il più
bel marmo brecciato sparso pelle strade ne’ rozzi
pavimenti, e messo in opera nelle fabbriche più ignobili.
Generalmente la breccia di Gelsa è composta [179] di
pezzi angolosi di marmo bianco suscettibile di
pulimento ugualissimo, legati insieme da un cemento di
terra rossa lapidefatta; non vi è rara la breccia di color
pavonazzo, irregolarissima nelle sue macchie, e degna
d’adornare qualunque edificio nobile. Monsignor
Blascovich, vescovo di Macarska, fece cavare tutte le
colonne della nuova sua cattedrale, e tutti i gradini degli
altari da questo luogo. Il solo difetto, che vi si osserva,
dipende dalla cattiva scelta che hanno fatto gli
scalpellini, condotti forse da uno spirito di malintesa
economia a prescegliere la materia, che prima venne
loro alle mani, come la più comoda all’imbarco. Nel
caso di voler mettere in opera il marmo d’una nuova
cava non si dee contare su lo strato esteriore,
danneggiato pell’ordinario dall’ingiurie dell’aria, e dal
salso se trovisi in riva del mare: ma scoprirne più
addentro un altro, e servirsi di quello. Le paste de’
marmi di Gelsa impiegate a Macarska sono bellissime,
il pulimento loro acceso quanto quello delle più belle
breccie, che veggonsi impiegate a Roma, e che
probabilmente vi furono trasportate dalla Dalmazia; ma
439
il cemento, che forma l’aggregazione de’ pezzi, ha
sofferto un grado di deterioramento dall’essere esposto
per lunga serie di secoli alle acque del cielo, e del mare,
al calore del sole, all’azione dell’aria: d’onde n’avviene,
che la levigatura di que’ lavori non ha tutta la continuità,
e perfezione, che se ne doveva aspettare. Farebbe
d’uopo prendere le breccie di Gelsa qualche centinajo di
passi lontano dal lido, e da una cava mediocremente
profonda; la riuscita non mancherebbe di compensare
ampiamente il picciolo accrescimento di dispendio. Per
la città di Venezia, che fa un consumo annuo di marmi
riflessibilissimo, non sarebb’ella importante cosa
l’averne piuttosto dall’isole della Dalmazia con
pochissime spese, [180] che dalla terraferma, o dagli
esteri stati a prezzo esorbitante? Oltre a’ marmi brecciati
io ho veduto a Gelsa de’ pezzi erranti di lumachella
bianco, e nero, composto di terra bituminosa marina
indurata, e di piccioli ortocerati, trasformatisi al solito in
spato calcareo di grana salina.
Quantunque a Gelsa v’abbiano di molte case, e buon
numero di persone vestite alla francese vi vada a
villeggiare, io non ho potuto trovarvi col mio denaro
provvigioni per me, né pe’ miei marinaj, ed ho passato
la notte a bordo della mia barca. Il paese abbonda di
pescatori; ma questi erano forse all’esercizio dell’arte
loro quando io giunsi colà, e quindi non vi trovai quella
cortesia, che suole abitare colla povera gente.
La villa di S. Giorgio, situata sulla punta orientale
dell’isola, è per sé un poco osservabile luogo popolato
440
mediocremente. La sola cosa, che possa condurvi un
viaggiatore, si è la quantità di urne romane, che vi si
veggono a poca distanza dal lido ammonticchiate, e
sparse pel fondo del mare, dove giacciono da quattordici
secoli per lo meno. In alcune di esse leggesi il nome del
fabbricatore, dopo d’averle spogliate della crosta poco
resistente, di cui l’hanno ricoperte nel giro di tanti anni
l’escare, ed altri poliparj: i caratteri mostrano d’essere
de’ buoni tempi.
L’isola di Lesina com’è la men povera d’abitatori,
così è la più ricca di varietà di prodotti, che sia
nell’Adriatico, ed ogni prodotto vi è di buona qualità. Vi
si raccoglie vino, oglio, fichi, mandorle, zafferano,
miele in osservabile quantità; i luoghi piani danno anche
biade, ma in misura non proporzionata al numero degli
abitanti. Il clima dolce vi fa moltiplicare gli aloe, del
refe de’ quali si può far uso utilmente all’esempio degli
Americani, e de’ Francesi nella pesca. Le [181] palme,
gli aranci, i carrubj vi allignano volontieri, e sarebbe da
incoraggirvi la moltiplicazione de’ mori come in tutte
l’isole, e il litorale della Dalmazia, dove il terreno ha
fondo opportuno ad essi. Le legna è ancora un oggetto
di commercio de’ Lesignani: ma va d’anno in anno
scemando per la poca economia usata ne’ tagli de’
boschi, e pe’ novali che vi si sono moltiplicati. Le lane,
gli animali pecorini, e il cacio portano qualche picciola
somma di denaro annualmente nell’isola: ma il prodotto
più considerabile, che n’esce, si è quello del salume, che
meriterebbe d’essere protetto, e sollevato dagli aggravj
441
pubblici, e dalle avanie de’ particolari, onde si
moltiplicassero i pescatori dell’isola, e trovassero il loro
vantaggio nel portare il pesce a Venezia, che dal
principio di questo secolo in poi si è fatta ogni anno più
gravemente tributaria de’ pescatori del Nord. Se la metà
sola del denaro, che la nazione spende annualmente
negl’insalubri cospettoni, si difondesse in Dalmazia,
tutta quella provincia ne risentirebbe un vantaggio
considerabilissimo, del quale tanto maggior conto si
dovrebbe fare quanto maggior utilità recherebbe al
pubblico erario, che oggimai non ritrae più dal pesce
della Dalmazia diritti degni di riflesso. La pescagione di
Lesina era più florida ne’ tempi andati perché da
maggior numero di barche veniva esercitata; e fu forse
vero che provvedevasi l’Italia tutta, e buona parte del
Levante colle sardelle di questa, e della dipendente isola
di Lissa, come dice il signor Busching: ma adesso,
quantunque il mare sia egualmente popolato di pesci, il
commercio di salumi de’ Lesignani è scemato di molto.
La rakia è un prodotto non dispregevole di Lesina,
come di tutto il litorale, e dell’isole illiriche: ma la
Dominante anche da questo ritrae poco vantaggio, per
esserne l’economia [182] per lo meno egualmente mal
sistemata, che quella degli altri generi somministrati da
una sì vasta, e fruttifera provincia.

§. 3. Dell’isola di Brazza.
Quest’isola non è mai stata, per quanto si può
congetturare, abitata da un popolo riguardevole: Scilace
442
la nomina appena col nome di Κράτια, Crazia; Polibio
con quello di Βρέκτια, Brezzia; Licofrone la chiama
Κρᾶθις, Crati; Plinio Brattia, e così Antonino, e
l’odografo peutingeriano; il Porfirogenito, Βάρτζω,
Barzo; e dessa e Lesina qualifica come καλλίστας, καὶ
εὐφορώτατας, bellissime, e fertilissime. La sua
estensione è di trentadue miglia in lunghezza sopra una
larghezza ineguale, che non oltrepassa mai le nove.
Asseriscono gli abitanti, che vi fosse anticamente una
città nel luogo ora detto Scrip: ma sembra strano, che
tutti i geografi greci, e latini l’abbiano passata sotto
silenzio, quantunque veramente vi sia stata. Il Busching
ha dato a quest’isola un borgo per capitale col nome di
Brazza, e vi ha posto anche un Vescovo a risiedere,
quantunque né borgo di questo nome, né residenza di
Vescovo attualmente abbia l’isola, e il luogo, che dee
considerarsene la capitale sia Neresi, dove il
Governatore che ha titolo di Conte suole abitare, come
nella più opportuna situazione pell’amministrazione
della giustizia agl’isolani. Il celebre geografo ha
accozzato un buon numero di piccioli sbagli nelle sole
pochissime parole, che dice di quest’isola. Eccole:
«Brazza, Bractia, denominata dal borgo Brazza, ove
risiede un Vescovo. Il Conte veneziano, o sia il
Governatore soggiorna a S. Pietro, luogo situato dalla
parte di ponente presso il porto di Milna». Agli errori di
fatto compresi nelle prime parole si dee aggiungere
[183] che S. Pietro non è a ponente, né presso al porto di

443
Milna131.
L’isola della Brazza è tutta montuosa, ed aspra.
V’hanno de’ gran tratti di paese nella parte più elevata
[184] di essa che sono affatto pietrosi, e anche poco atti
a portar ginepri, o simili alberi abitatori de’ luoghi
sterili. Costa molta fatica il farvi de’ novali: ma con

131 Fa d’uopo che il celebre signor Busching sia stato mal


servito da’ suoi corrispondenti, o abbia bevuto a cattive fonti
quando scrisse della Dalmazia. Io non ho avuto sotto gli occhi
il volume della sua opera, dov’è parlato di questa provincia, se
non tardi; e quindi non ho potuto accennarne le principali
inesattezze al luogo loro. Protesto, che nessuno spirito
d’ostilità mi anima contro il benemerito uomo; pur troppo
ciascuno è soggetto a scrivere delle cose poco esatte! Ma
credo di rendere un vero servigio ad esso non meno, che a’ di
lui leggitori, avvertendoli d’alcuni errori non sopportabili;
così vi fosse chi lo correggesse di provincia in provincia! La
di lui fatica diverrebbe utile. Non è vero, che i Dalmatini (nº
LI. p. 75. ed. di Firenze) sieno di nazione, e di religione greci;
v’ha una parte di essi, che segue il rito greco, ma non è la
maggiore. Nona è ancora un aggregato di rovine tanto lontano
dell’essere una buona fortezza (p. 76.) che appena si può più
chiamarla città murata. La Vrana (p. 77.) lungi dall’essere uno
de’ più deliziosi luoghi della Dalmazia, è un orrido monte di
macerie, disabitato, e inabitabile. Knin (p. 78.) è bagnato dal
fiume Butimschiza, non dalla Bolisniza, e non è sede d’un
vescovo. Dernis (p. 79.) non è una città di poco momento, ma
un povero villaggio; e la cattedrale di Sebenico non è nel
castello, quando non vi fosse stata portata di fresco. Così non
è una città Clissa (p. 80.); né la strada, che conduce in
Turchia, passa vicino a quella fortezza per una valle, ma sul
dorso della montagna. Salona non era situata in una bella
444
tutto questo i novali vi si moltiplicano, il che fa crescere
d’anno in anno il prodotto del vino, e scemare quello
delle legna, e delle greggie. L’indole del suolo petroso, e
la scarsezza di fontane rendono quest’isola soggetta a
fatali aridità.
Il principal luogo della Brazza è Neresi, così
chiamato con derivazione greca dai serbatoj d’acqua,
che ne sono poco discosti. Questa terra è la vera
residenza del Governatore, in cui si tengono i consigli; i
nobili brazzani vi si portano ne’ tempi determinati da’
varj luoghi marittimi, dove hanno le loro abitazioni. La
situazione di Neresi è poco felice, quantunque le sole
buone terre dell’isola gli sieno immediatamente appiedi.

pianura, ma alle radici, e sulle falde d’un monte; né era


traversata dal rivo Salona, ma bagnata esteriormente dal
fiume di questo nome. Tralascio molti altri minori sbagli,
stroppiamenti di nomi, errori di posizione, che farebbero una
lunga diceria. Mi sorprende però, che non solo in parlando
della Dalmazia, ma rendendo anche conto di città
ragguardevoli, e notissime d’Italia egli dica delle ridicole
stravaganze. Non è l’ultima quella, ch’egli scrive, fra le
innumerabili altre, di Venezia (p. 29.) garantita contro la
fame dai pesci, che gli abitanti possono prendere stando
sull’uscio delle loro case; è poi vergognosa cosa il non sapere
il valore del nostro ducato, e fissarlo a L. 7. ½, com’egli era
anticamente. Di Padova, di Vicenza, di Verona, e dell’altre
città di Lombardia il signor Busching parla colla medesima
esattezza, mettendo per esempio una catena di montagne fra
Vicenza, e Padova, dove abitano i Sette Comuni, che
coltivano le viti. Come se gli dovrà credere allora quando ei ci
parlerà delle terre australi?
445
Il cammino per portarvisi dalle rive del mare è
asprissimo, e selvaggio; l’aria vi si mantiene rigida oltre
la stagione di primavera, e l’inverno poi vi è, per quanto
dicono, crudele. Il paese gode d’alcuni punti di vista
bellissimi, ma il piacere, che possono dare, costa troppo
caro. Neresi sarà stato ne’ tempi delle incursioni, e
piraterie più ragguardevole; e quindi conserva una sorte
di primato, perché vi s’erano ritirati i principali isolani;
adesso però, che ponno essere abitati sicuramente i
luoghi vicini al mare, ha perduto molto della sua
popolazione; le case disabitate vi cadono in [185] rovina
da tutti i lati. Bol è una ragguardevole terra, S.
Giovanni, S. Pietro, e Pucischie sono grossi villaggi
popolati di gente industriosa, e commerciante. I monti
superiori a Neresi, che formano come la spinale
dell’isola, sono affatto sterili, e null’altro vi nasce che
qualche ginepro, e il pino silvestre, delle scheggie de’
quali si fa un picciolo commercio per l’uso della pesca
notturna. Sull’isola della Brazza trovansi molte varietà
di pietre. Le più universali sono il marmo volgare,
biancastro, il marmo ortoceratitico, il lenticolare, e le
breccie. Del primo veggonsi presso al porto di Spliska le
cave antiche, d’onde fu tratta la materia per costruire il
palazzo di Diocleziano. In quel medesimo luogo
ascendendo un poco verso i monti trovasi un marmo di
pasta nera, pieno di corpi marini cangiati in ispato
bianco, salino. Vi si lavora una vena di pietra bianca
poco resistente allo scalpello quando sia estratta di
fresco dal sito nativo, che indurasi poscia all’aria, e fa
446
molto migliore riuscita che le pietre troppo dolci, e
farinose di Costoggia, e di S. Gottardo nel Vicentino.
Questo medesimo impasto di pietra si trova a S.
Giovanni, e a Pucischie, vale a dire alle due estremità
opposte dell’isola. In altri tempi v’era conosciuta una
miniera di pissasfalto se si dee credere al Tomco
Marnavich; io non ho potuto trovarne vestigio, e solo il
mio dotto amico signor Giulio Bajamonti mi fece vedere
a Spalatro un pezzo di pietra calcarea grigia,
graveolente, piena di riconoscibili corpi marini,
differente da tutte le altre pietre bituminose, ch’io avea
veduto in Dalmazia, e mi disse ch’era conosciuta sotto il
nome di pietra pegolotta dagli scalpellini, e si trovava a
Pucischie. Ne’ contorni del villaggio di S. Pietro
trovansi presi nella pietra forte oltre le nummali, molti
echiniti, e pettiniti; sul porto [186] di Postire domina
una spezie di cote senza corpi marini, grigia, e
compatta, che scagliasi come le selci; a S. Giovanni
veggonsi fra le petrificazioni ceratomorfe delle fungiti, e
delle conche difie.
Il prodotto, per cui quest’isola era conosciuta presso
gli Antichi, le rimane tuttora nella sua primitiva
perfezione; Plinio la distingue dalle altre lodando i
capretti che vi nascono132. Difatto i capretti non solo, ma
gli agnelli ancora vi contraggono dalla perfezione de’
pascoli un sapore particolare, ed il latte del quale si
nodriscono supera di molto quello de’ vicini paesi.
Quindi ne avviene, che il cacio della Brazza sia
132 Capris laudata Brattia. Plin. l. III. c. XXVI.
447
riputatissimo in Dalmazia, e fuori. Le pecore sono state
però quasi universalmente sostituite alle capre da
quegl’isolani, come meno nocive ai boschi, de’ quali le
capre sono desolatrici. Generalmente parlando, le lane
della Brazza sono di poco pregevole qualità: ma fa
d’uopo eccettuarne buona parte delle greggie del conte
Giuseppe Evelio, che ha introdotto delle razze forastiere
ne’ suoi poderi di Pucischie, e le fa custodire con più
attenzione di quello porti l’uso della provincia. Questo
benemerito gentiluomo ha non solo migliorato di molto
le proprie rendite riformando gli abusi della mal intesa
veterinaria, ed agricoltura, ma è di già arrivato a
scuotere col proprio esempio qualche altro. Gli apiarj, le
vigne, gli oliveti, che ad esso appartengono, sono
altrettante prove delle di lui utili applicazioni agli studj
economici, ch’egli ha saputo accoppiare agli ameni. Gli
alveari dell’isola sono fabbricati di lastre di marmo
tegolare ben lotate o cementate [187] nelle
congiunzioni; la lastra superiore è mobile a piacere del
padrone, che vi tiene sopra un peso di sassi affinché il
vento non la sollevi allorché soffia con troppo impeto;
l’apertura della lastra anteriore, per cui le api entrano,
ed escono, è picciolissima. Questi alveari sono
moltiplicatissimi nel medesimo luogo; e il conte Evelio
ne possiede parecchie centinaja. Egli usa d’ogni
diligenza perché non manchino d’acqua, e di pascolo,
alle quali due disgrazie principalissime vanno soggetti
gli apiarj dell’isola.
Ad onta del suolo pietroso la Brazza fa gran quantità
448
di vino, il quale universalmente è tenuto pel migliore
della Dalmazia; questo articolo, le legna, e gli animali
pecorini sono il nerbo delle rendite de’ Brazzani. L’isola
produce anche oglio, fichi, mandorle, seta, zafferano, e
qualche poco di grani. V’è una quantità grandissima di
lentischi, dalle bacche de’ quali i poveri contadini fanno
oglio negli anni poco abbondanti d’ulive. Io ho avuto un
saggio di quell’oglio procuratomi da un gentiluomo del
paese, e mi sono provato a condirne le vivande, né m’è
sembrato difficile l’avvezzarmi al suo odore un poco
forte. Le provvigioni necessarie al sostentamento della
vita si comprano a bassissimo prezzo in quell’isola, e
con poco denaro si mangiano anche de’ bocconi ghiotti;
si hanno pell’ordinario tre beccafichi per un soldo
veneziano, e tutto il resto in proporzione. La pesca è
anch’essa un articolo non indifferente pell’isola: ma non
è così considerabile come quella di Lesina, e di Lissa;
né le acque della Brazza hanno pesci particolarmente
abitanti de’ loro fondi.
Si può quasi considerare come una continuazione
della Brazza l’isola vicina di Solta, Ὀλύνθα di Scilace,
detta Solentum nella Tavola peutingeriana, quantunque
[188] non dipenda dal medesimo Governatore, e sia
soggetta a Spalatro così nel civile, come
nell’ecclesiastico. Un solo picciolo scoglietto abitato da
conigli s’alza nel canal di mare, che la separa da essa.
Solta gira intorno a ventiquattro miglia; è pochissimo
abitata perché quasi tutta coperta di boschi, ne’ quali
propagansi molte vipere, come anche in quelli della
449
Brazza. Il suo miele è celebratissimo, e non cede a
quello di Spagna, o di Sicilia per verun titolo.

§. 4. Dell’isola d’Arbe, nel Golfo del Quarnaro.


Egli è un terribile salto geografico questo passare
tutto ad un tratto dall’isola della Brazza a quella d’Arbe,
che n’è ben centoventi miglia lontana. Ma che volete
ch’io dica? I viaggiatori di mare ne fanno di più belle.
Delle isole minori del mar di Sibenico, e di Zara, io ho
scritto quel poco che mi venne fatto d’osservarvi; di
quelle di Cherso, e d’Osero ho parlato forse anche più di
quello portasse la discrezione; nell’altre isole del
Quarnaro non mi sono fermato che momenti, e quella
d’Arbe è la sola, di cui possa dir qualche cosa di non
inutile
Quest’isola agli antichi geografi fu poco nota; si trova
però nominata da Plinio, dalla Peutingeriana, e dal
Porfirogenito; presso Tolommeo per qualche difetto de’
copisti, che avrà messo del disordine nel testo, l’isola è
detta Σκαρδοῦνα, Scarduna, e le sono attribuite due
città: Arba, e Colento. Gli Arbegiani, avendo delle
ragioni per credere che due città esistessero nell’isola
loro, tengono quasi per infallibile lo storpiato testo di
questo geografo, nel quale l’isola loro bella, e
nobilissima viene confusa coll’incolto, e disabitato
isolotto di Scarda, contiguo all’isola di Pago. [189] Città
di tempi romani non ebbero gli Arbegiani
probabilmente oltre quella, che porta il nome dell’isola,
dalle di cui vicinanze sovente si traggono lapide antiche
450
mallevadrici del vero. Io ho visitato le pretese rovine di
Colento, e non ho potuto riconoscervi altro che i residui
d’un ritiro, fabbricato dalla paura, e dalla debolezza
degl’isolani ne’ tempi barbari. Non è possibile che
uomini ragionevoli avessero colà stabilito una dimora
costante; imperciocché la situazione più aspra, e sterile,
e fredda, e ventosa anche nel cuor della state non può
trovarsi. È poi verità di fatto, che la costruzione delle
mura mostra d’essere stata tumultuaria; che i vestigj di
porte accusano un architetto rozzissimo; che non v’è
una sola pietra riquadrata sul gusto antico, né verun
frammento d’iscrizioni, o di pietrame nobile. Le piante
delle casipole, che vi erano cinte dalla muraglia
esteriore, non mostrano d’essere mai state destinate a
contenere famiglie: così sono anguste, e inabitabili. S’io
fossi Arbegiano vorrei cercare i vestigj d’un’altra città
in luogo che facesse più onore ai fondatori di essa.
Quantunque capitale d’una picciola isola, che non
eccede le trenta miglia di circuito, ed è incolta
totalmente ed inabitabile nella sua parte più elevata, che
guarda il Canale della Morlacca, la città d’Arbe si
mantenne con decoro mai sempre. Che fosse abitata da
persone colte ne’ tempi romani lo provano le iscrizioni,
che frequentemente vi furono scoperte, alcune delle
quali ora trovansi nella collezione dell’eccellentissimo
signor cavaliere Jacopo Nani, altre vi rimangono ancora.
Ne’ secoli bassi soffrì tutte le disgrazie dalle quali
furono afflitte le contrade vicine, ma si ristabilì sempre
con decoro anche dalle desolazioni. L’archivio della
451
comunità d’Arbe ha delle carte antiche [190]
pregevolissime, che vi sono ancora custodite con
somma gelosia, dalle quali rilevasi che nell’undecimo
secolo gli abitanti aveano della familiarità coll’oro, e
colla seta. Dall’obbedienza de’ re d’Ungheria passarono
alla dipendenza di feudatarj veneziani; indi direttamente
sotto il dominio della Serenissima Repubblica, che vi
tiene un patrizio col titolo di Conte, e Capitanio, dignità
ch’era coperta con sommo decoro, rettitudine e
prudenza nel tempo ch’io fui colà del nobil uomo signor
Tommaso Barozzi, di cui resterà lungamente il desiderio
ne’ cuori degli onesti cittadini.
La popolazione di tutta l’isola non oltrepassa di molto
le tremille anime distribuite in poche parrocchie, alle
quali con poca quantità di sacerdoti si può supplire. Per
una mostruosità insopportabile, e di gravosissime
conseguenze a questo picciolo numero d’abitanti, è
addossato il carico di tre conventi di frati, e tre di
monache, oltre al riflessibile aggravio di quasi sessenta
preti malissimo provveduti. Questo clero è governato da
monsignore Giannantonio dall’Ostia, ottimo, e dotto, ed
umanissimo prelato, adorno di tutte le qualità necessarie
al suo stato, e di tutte le virtù sociali, che costituiscono
il vero, e rispettabile filosofo.
Il clima d’Arbe non è de’ più costantemente felici; la
stagione invernale vi è orrida, e agitata da venti boreali
violentissimi, i quali non di raro trasformano in verno
anche le stagioni intermedie, e giungono talvolta a far
disparire la state. Gravissimi danni apportano all’isola
452
questi venti nella stagione rigida, e in primavera. Due
anni sono, intorno a dodicimila animali da lana vi
perirono di freddo in una sola notte pei pascoli comunali
della montagna, dove, secondo l’uso [191] universale
della Dalmazia sono lasciati allo scoperto in ogni
stagione. La nebbia salsa sollevata dalla commozione
orribile de’ flutti, che suole mugghiare fra la montagna
d’Arbe, e le opposte alpi nell’angusto Canale della
Morlacca, abbrucia tutti i germogli delle piante, e de’
seminati, se portata dal vento venga a cadere sull’isola;
ella è seguita da una crudele carestia d’ogni cosa. Di
questa disgrazia risentonsi anche le carni degli animali
abbandonati al pascolo, che riescono di cattivo sapore in
conseguenza dell’amaro, e poco nutritivo alimento.
Prescindendo da queste anomalie, l’aria d’Arbe è
salubre, né si può accusarla d’avere influenza costante
nelle febbri estive degli abitanti campagnuoli che
provengono, second’ogni probabilità, dai cibi poco bene
scelti, e da un regime di vita quasi ottentotto.
Il materiale dell’isola è amenissimo; né di quelle,
ch’io conosco in Dalmazia, alcuna può esserle
paragonata. Dalla parte orientale ha un’altissima
montagna della natura, e impasto medesimo che la
Morlacca, di cui fu anticamente una parte. Appiè di essa
prolungasi il resto dell’isola verso ponente, e si divide in
bellissime, e feconde valli piane, e di colline atte a
portare i più ricchi prodotti. All’estremità, che guarda
tramontana, stendesi in mare un delizioso promontorio
detto Loparo, coronato di colline, che racchiudono quasi
453
perfettamente una bella pianura coltivata. Da questo
sono poco distanti le due isolette di S. Gregorio, e di
Goli, utilissime a’ pastori, e a’ pescatori. La costa
d’Arbe, che guarda la montagna morlacca, è tutta ripida,
e inaccessibile; guai al naviglio che sia colto dal furore
de’ venti in quel canale privo di porti da entrambi i lati!
Il lungo, e angusto isolotto di Dolin prolungandosi
parallelamente all’isola d’Arbe lungo il lido detto di
Barbado, vi forma un canale meno pericoloso, ma [192]
non tanto sicuro quanto bello da vedersi. I porti sono
moltiplicati ne’ contorni della città, e facilitano il
commercio della parte migliore dell’isola girandone
l’estremità, che guarda fra ponente, e tramontana.
La città d’Arbe siede su d’una collina allungata fra
due porti, che ne formano una penisola, e raccoglie
intorno a mille abitanti, fra’ quali molte famiglie
riguardevoli pella loro nobiltà, e poche notabili pelle
loro finanze. Le principali sono i de Dominis da’ quali
uscì il celebre arcivescovo di Spalatro Marc’Antonio; i
Galzigna; i Nemira, ch’ebbero nel XV secolo un
Antonio lodato da Palladio Fosco come dottissimo nelle
matematiche imparate da lui senza maestro; gli Spalatini
che ricevono adesso un nuovo lustro da monsignor
Vescovo di Corzola, rispettabile pell’aureo costume, non
meno che pel suo sapere, e i Zudenighi.
Fra le cose loro più illustri vantano gli Arbegiani
molte insigni reliquie, e nominatamente il capo di s.
Cristofano, protettore dell’isola; ma gli amatori
dell’antichità sacra troveranno ben più singolari le tre
454
teste de’ fanciulli Sidrach, Misach, e Abdenago, che vi
si venerano con molta divozione. Il Santuario è
gelosamente custodito da quattro de’ principali
gentiluomini, alla cura de’ quali sono anche
raccomandati i preziosi antichi documenti della città.
Fra questi è una transazione del 1018, con cui la città
d’Arbe promette al doge di Venezia Ottone Orseolo un
tributo d’alcune libbre de seta serica, e al caso di
contravvenzione libbre de auro obrizo.
V’ebbe nella passata età un dotto vescovo d’Arbe,
che chiamavasi Ottavio Spaderi, a cui venne in capo di
non voler permettere che fossero esposte alla pubblica
venerazione nella solenne giornata di s. [193] Cristoforo
queste reliquie, sopra l’autenticità delle quali egli aveva
dei dubbj. Il popolo sollevato ebbe a precipitarlo in
mare dall’alto della collina, su di cui sorge la cattedrale;
né il tumulto s’acchetò passato il momento. Il Governo
mandò un legno armato per trarre il prelato dal pericolo;
e il Papa si credette in dovere di dargli una sposa più
docile in Italia.
L’indole del suolo d’Arbe non è la medesima in ogni
situazione; che anzi difficilmente io saprei trovar un
paese, dove in picciolo spazio tanta varietà si riunisse.
V’è una differenza sensibilissima fra lo stato
dell’estremità della montagna bagnata dal canale di
Barbado rimpetto a Dolin, e il dorso di essa, che
dall’una parte guarda l’interno dell’isola d’Arbe,
dall’altra le alpi della Morlacca. La sommità della
montagna medesima non è sempre della stessa
455
costituzione, e talvolta stendesi in bella ed eguale
pianura parte selvosa, e parte atta a seminagione,
talvolta è tutta scogliosa, e di nudi marmi composta. I
fondi situati appiè della montagna laddove s’avanza
verso il litorale opposto di Jablanaz, sono di vivo
marmo; nella contrada di Barbado sono ghiajuolosi, e di
fondo attissimo a trattenere le radici delle viti fresche
per lungo tempo. I sassolini vi sono angolosi perché
poco fluitati dall’acque che gli hanno deposti; i loro più
antichi strati vanno indurandosi sotterra pella filtrazione
delle piovane. Il vino di Barbado è d’ottima qualità, e
quindi riputatissimo; né quasi altro genere coltivasi
lungo quel litorale, dove così bene riescono le vigne
anche ad onta della negligente coltura. Appiè delle
pretese rovine di Colento il terreno porta oltre le viti
anche ulivi, mori, alberi da frutto, ed in qualche sito
basso è opportuno alle seminagioni. Tutta la parte
inferiore dell’isola alternativamente composta di colline,
e valli, è d’un impasto per lo [194] più differentissimo
da quello della montagna, e delle aggiacenze di essa.
Come l’ossatura della montagna è tutta marmorea, così
l’ossatura de’ colli è pell’ordinario arenosa. La cote vi
predomina, e spesso contiene ostraciti, e lenticolari; lo
strato esteriore suol esserne facilmente dissolvibile. Le
valli, che dovrebbono trovarvisi second’ogni apparenza
piene d’arena, sono provvedute d’un terreno eccellente,
che ha tanta porzione di minutissima sabbia quanta n’è
opportuna per tenerlo leggieri. Le acque sorgenti, assai
ben distribuite dalla natura pell’isola, vi mantengono
456
una ragionevole umidezza, quando la state non sia
eccessivamente arida; per modo che la cupa verdura de’
colli vestiti di bosco, la lussureggiante frondosità delle
viti, e la freschezza de’ seminati formano uno spettacolo
veramente consolante, ed ameno.
L’isola d’Arbe avrebbe tutto il necessario alla
sussistenza della sua picciola popolazione, se
l’agricoltura vi fosse esercitata da un popolo meno
stupido, e infingardo. Ad ogni modo però ella produce
legna da bruciare, di cui si fanno molti carichi
annualmente per Venezia, grani, oglio, vino eccellente,
acquavite, e seta da tempi antichissimi, dando per cibo
ai bachi le foglie del moro nero; manda fuori anche
cuoj, lane, ed animali pecorini, porci, e cavalli di buona
razza. Il mare incomincia ad esserle utile per le saline,
che si lavorano sull’isola, e danno abbondanza di buoni
sali minuti; la pescagione poi de’ tonni, degli sgomberi,
de’ lanzardi, e delle sardelle, ad onta dell’esservi
malissimo, e poltronamente trattata, fa un importante
articolo del commercio degli Arbegiani, i quali (come
tutto il resto della Dalmazia) trovano il loro conto nel
vendere questo genere a’ forastieri piuttosto che a’
Veneziani. Con tutti questi suoi prodotti naturali l’isola
[195] è ben lungi dall’essere ricca, o in uno stato di
sufficiente floridezza: perch’è troppo comune cosa il
vedervi terreni incolti, e contadini oziosi.
Facendo delle osservazioni intorno alla storia fossile
dell’isola d’Arbe mi sembrò di rinvenirvi qualche cosa
d’assai curioso. La sommità della montagna è quasi
457
piana, come vi ho accennato, ed in alcuni luoghi è
depressa a foggia di catino. Esaminando con diligenza i
massi di marmo, che vi sono sparsi dipendentemente
dagli strati, trovai senza punto restarne meravigliato
perché frequentemente incontrai cosa simile, che in
buona parte erano breccie; e mi compiacqui della
maggior forza, che acquistava la mia opinione sopra
l’antico stato delle montagne di quelle contrade. Ciò che
mi riuscì nuovo si fu l’incontrare su di quelle altezze
grandissimi tratti di minuta arena, mescolata con una
terra ocracea ferruginosa, deposta a strati regolarissimi,
come son quelli che si formano dalle alluvioni de’ nostri
fiumi reali. Volli esaminare sotto il microscopio
quest’arena così stranamente situata su la cima d’una
montagna in isola; e trovai ch’ella è quarzosa, e
manifestamente prodotta dal trituramento di materie
staccate da montagne minerali.
Voi non vi scandalezzerete certamente, dottissimo
amico, ch’io pronunzj con asseveranza, che l’arena
quarzosa viene dal trituramento de’ sassi montani portati
giù da’ torrenti, e sminuzzati dall’assidua confricazione
in seguendo il corso de’ fiumi. Le nostre acque di
Lombardia, e il Po particolarmente, non ci lasciano
dubitare di questo fatto, a cui la ragione sola potrebbe
condurre un uomo, che non avesse mai veduto le sponde
de’ gran fiumi lontane dalle sorgenti. I naturalisti del
Nord, e fra questi il Wallerio celebratissimo, e degno
certamente della celebrità sua, [196] per non
impegnarsi, cred’io, in ricerche, le conseguenze delle
458
quali potessero avere un’apparenza di contraddizione
colle opinioni rispettate intorno all’età del mondo, prese
il partito di accordare all’arena una strana preesistenza,
e far che da essa generalmente sieno state formate le
pietre; il che appunto è un dire, che la farina preesisté al
frumento133. Io ho trovato stranissimo, che il
grand’uomo dopo d’avere riferito sopra l’origine delle
arene il parere d’Aristotele, e d’altri Antichi, che la
ripetevano dalle montagne e dalle pietre distrutte: e
dopo d’aver per necessità accordato, che ad una parte di
esse altro nascimento non si può dare, siasi spaventato
della gran quantità, e della situazione delle arene così
sotterranee, come subacquee, ed abbiala creduta un
ostacolo allo stabilimento dell’antica ragionevole
opinione. Egli è ben vero, che le pietre aggregate (fra le
quali io metto anche le coti della più fina grana)
riconoscono immediatamente l’origine loro
dall’accozzamento delle sabbie, o delle arene minute:
ma questo non prova, che le sabbie non sieno nate dal
disgregamento delle pietre. Non sarebb’egli un
inconseguentissimo ragionatore colui, che prendendo in
mano della sabbia del Po si voltasse alle montagne,
133 Arenæ.. usum praestant æqualem ut aliæ terræ in eo quod
originem præbeant lapidibus, et montibus; unde et patet
arenam esse saxo priorem Wall. Syll. Mineral. 1772. pag. 101.
e alla pag. 107. Obs. 2. Vetat tamen ingens quantitas, nec non
situs arenæ tam subterraneus, quam subacquosus, ut hoc de
omni arena dici possit.... Plurimos montes ab arena concretos
facilius demonstrari potest quam arenam ab his destructis
esse ortam.
459
d’onde questo gran fiume discende, e dicesse «oh,
adesso sì, ch’io ho capito di che si formano le
montagne!» invece di dire «ho capito d’onde si [197]
formino le sabbie»? L’opinione del Wallerio intorno alla
generazione delle arene dee sembrare per lo meno
singolare a chi sa, ch’elleno corrispondono
perfettamente nella sostanza, e nell’estensione agli strati
di pietre calcaree, e quarzose, da’ quali naturalmente si
deggiono far derivare. Uditelo alla pag. 108.
Osservazione 5. Egli c’insegna che «probabilmente le
arene quarzose sono state sin dal principio generate da
una materia viscosa, o vogliamo dire gelatinosa,
generata dalle acque, e mescolata con esse, indi
successivamente divisa in granellini, poi condensata, e
indurata». Egli fa degli sforzi perché servano di prove a
questa genesi le fessure, che col microscopio si veggono
ne’ piccioli atometti d’arena, e l’adesione a questi
granellini medesimi delle particelle metalliche; come se
non fosse da una facile sperienza dimostrato, che un
pezzo di quarzo tolto da qualche minera, ben
polverizzato sotto il martello, indi lavato nell’acqua, dà
granellini d’arena, ne’ quali si osservano tutte le
crepature, e le particole metalliche, cui presentano
all’occhio armato le arene quarzose subacquee, e le
sotterranee da antiche acque depositate. Dopo tutto
questo non è quasi da trovare strano, ch’egli peni ad
accordare alle sabbie calcaree l’origine dalle pietre
spatose, e calcaree detrite (p. 109.) ed a fatica pronunzj,
che probabilmente vengono da esse. Se mettevasi a fare
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delle nuove teorie anche pella sabbia calcarea, il
grand’uomo avrebbe poi messo un giorno o l’altro in
questione l’origine delle più grosse ghiaje, e poi de’
massi, che rotolano qualche volta dalla sommità sino
alle radici de’ monti; e chi sa quante nuove cose ci
avrebbe detto!
Nella minuta arena della sommità della montagna, in
un luogo detto Crazzich trovansi de’ gruppi erranti, e
qualche filone perpendicolare di geode così compatta
[198] e pesante che merita d’essere riposta fra le non
povere miniere di ferro. Anticamente anche il dorso
della montagna era coperto di lecci, e dal fianco di essa
che guarda Loparo scendeva al mare lavata dalle
piovane l’arena minutissima quarzosa, conosciuta da’
marmoraj, e nelle officine vetrarie sotto il nome di
saldame. È probabile che Plinio134 abbia parlato di
questo sito laddove dice, che per segare i marmi «era
stata trovata una buona spezie d’arena in un fondo
vadoso dell’Adriatico, che restava scoperto nel recedere
della marea». La spiaggia, che giace appiè dell’aspro, e
sassoso monte detto ancora Verch od mela, il Colle della
sabbia, quantunque sabbia non vi sia più, è tutta di
saldame, come lo sono varj altri siti dell’isola, dove il
mare batte contro le radici de’ colli arenosi. Ecco il caso
d’imbrogliare i futuri orittologi; caso, che come vedrete
più sotto, accadde altre volte. L’arena, che occupava la
superficie della montagna, dove sopra strati di marmo
ortoceratitico, e di breccie d’antichissima origine fu
134 Plin. l. XXXVI. cap. VI.
461
deposta da mari, o da fiumi antichi (il che mi sembra più
probabile, perché non ha vestigj di corpi marini) adesso
è discesa colle piovane dalla sua residenza, e si mescola
co’ testacei d’un nuovo mare, che naturalmente non
produce arene simili distruggendo i monti litorali
calcarei. Chi sa dopo quanto tempo ella si petrificherà
insieme co’ corpi marini, e dopo quanto altro ella si
troverà nelle basi de’ monti nuovi! Sembra che questa
spezie d’arena sia venuta ben di lontano; imperocché
monti minerali non esistono lungo il nostro Adriatico: e
che [199] abbia poi anche subito delle rivoluzioni
anteriori a quella, che soffre presentemente. Nel colle,
su di cui sorge la città d’Arbe, la cote ha quest’arena per
base, e racchiude sovente una quantità grandissima di
lenticolari, che sono, come ognun sa, produzioni
d’ancora ignoto mare, non accordandosi con esse il
porpita descritto dal Linneo, pel loro originale nelle
Amenità accademiche135. Ne’ colli di Loparo trovansi
frequentemente le nummali lapidefatte erranti nella rena
appena rassodata, di modo che le acque eventuali ne le
staccano, e traggono seco. In questi colli arenosi, che
tutti vanno a poco a poco disfabbricandosi pegli urti del
mare contiguo, trovansi anche frequentemente degli
echiniti petrificati di varie spezie, e grandezze, esotici;
come se ne trovano anche sulle rive del porto d’Arbe
opposte alla città. Presso al porto di Campora, e al porto
135 Caroli Linnæi Amœn. Acad. t. I. p. 177. De Coralliis
Balthicis. Fig. V a. b. tomo IV. p. 257. Chinensia
Lagerstromiana. Fig. 7. 8. 9.
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Domich, la pietra arenario-quarzosa delle colline
racchiude in grandissima quantità ostraciti, e nummali
petrificate. Egli è evidente, che queste colline sono di
formazione posteriore a quella della montagna: ma
contuttociò deggiono essere ben antiche se contengono
petrificazioni straniere ai nostri mari, e climi presenti!
Nel colle, dove hanno l’ameno loro passeggio gli
Arbegiani, trovansi presi nella cote de’ pezzuoli
irregolari di selce, e diaspro, ne’ quali talora veggonsi
de’ frammenti marini. Io non vorrei però trarne la
conclusione del Wallerio (p. 305.): «Quindi è evidente,
che si danno anche [200] diaspri diluviani generati dalla
materia fluida, che può ricevere in sé, e racchiudere
corpi stranieri». Le osservazioni replicatamente fatte su’
cangiamenti, de’ quali sono suscettibili le pietre,
m’hanno chiarito che per la maggior parte le selci, e i
diaspri non si sono mai trovati in istato di fluidità; e
posseggo una picciola serie di produzioni fossili de’
monti Euganei, raccolta colle mie mani medesime, da
cui si ponno trarre di molti lumi pella genesi di questa
classe di pietre.
La breccia della montagna d’Arbe riceve bel
pulimento; ella è pell’ordinario macchiata di bianco, e
unita con un cemento rosso vivissimo; i pezzi che la
compongono sono angolosi, e di marmo fino. Giacché
vi ho detto audacemente qualche cosa contro le opinioni
del Wallerio, intorno alla generazione delle arene, non
tralascierò di confessarvi, che la sua teoria delle pietre
aggregate mi pare ancora più strana, ed opposta alle
463
osservazioni di fatto fisico. Io non intendo d’erigermi in
censore del sommo naturalista: ma desidero che Voi mi
dispensiate dall’ammirarlo su di questo proposito, come
lo ammiro su di tanti altri punti. Egli dice136 «che appena
gli sembra possibile, che i sassi, e le pietre componenti
gli strati aggregati avessero potuto vicendevolmente
conglutinarsi quando non fossero state di più molle
consistenza, non avendo ingresso per modo alcuno ne’
sassi perfettamente duri la materia conglutinante».
Quindi conclude: «1º Che la frattura delle pietre, e de’
sassi sia stata operata nel momento della diseccazione, e
indurazione, pell’attrazion [201] rispettiva delle
particole, pella compressione, per qualche
precipitazione, o simile altra causa. 2º Che questi sassi
aggregati si unirono a formare un corpo solo
mentr’erano ancora di pasta molle. 3º Che questa unione
fu per lo meno incominciata in luoghi sotterranei, dove
furono operate le fratture, non sembrando possibile, che
alcuna generazione, o conglutinazione petrosa possa
farsi all’aria aperta. 4º Che incominciata, o perfezionata
la conglutinazione, questi sassi sieno stati cacciati alla
superficie delle terre, e de’ monti da qualche forza
enorme.... In una parola, che la frattura de’ materiali, e
l’incominciamento della loro conglutinazione sia stato
antediluviano; e diluviana poi la presenza delle pietre, e
sassi conglutinati alla superficie della terra, e de’
monti». Io lascio per ora da parte l’improprietà delle
voci ricordanti glutine, di cui certamente non si tratta
136 Wall. Syst. Min. p. 431. Obs. 2. ed. cit.
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negli aggregati calcarei, o vitrescenti, operati dalla
cristallizzazione, o tartarizzazione, e dalla fusione ora
più, ora meno perfetta. Le quattro proposizioni del
Wallerio, sono contraddette dal fatto; e in quanto alla
prima è costantissima verità, che le pietruzze angolose,
di cui sono formate le breccie, veggonsi confuse, e
rimescolate assieme, e varie nell’impasto per modo che
non si può nemmeno sospettarle d’antica continuità. Le
breccie poi, che noi veggiamo sotto gli occhi nostri
formarsi appiè delle montagne, e lungo le sponde de’
torrenti, manifestamente ci mostrano il meccanismo, di
cui servesi la natura per accozzarle. Che sieno stati
molli i sassi componenti le breccie allorché furono
congesti assieme non è credibile. Basta rompere varj
pezzi di breccia per vedere, che ogni pietruzza vi sta da
sé; accade anche sovente che si possano separare ad
una, ad una, quando il cemento che le tiene unite non sia
[202] divenuto bastevolmente petroso. Se fossero state
molli nel momento di coagmentarsi, l’una avrebbe
compenetrato l’altra bene spesso, il che non si vede
giammai. La terza asserzione è inconsideratissima per
ogni riguardo; imperocché dall’esame delle pietre
aggregate dalle acque risulta precisamente, che non è
possibile sieno state unite sotterra, come possono
esserlo state quelle, che si riconoscono per produzioni
del fuoco vulcanico. È poi una solenne distrazione il
dire, che all’aria aperta non sembra possibile che si
generino, o indurino sostanze lapidose: mentre una
quantità di stalagmie formansi ne’ luoghi più esposti
465
all’aria; e le incrostazioni petrose delle acque termali
crescono di giorno in giorno all’aperto sotto gli occhi
dell’osservatore. La quarta è affatto lontana dal vero, e
dal buon senso orittologico; dacché le breccie trovansi
disposte a strati vastissimi, e regolari, sopra altri strati
d’impasto meno vario estesi ad eguale vastità; né può
mai essere concepibile, che una forza sotterranea gli
abbia espulsi dalle viscere della terra senza
scombussolarli, e sconnetterli in mille modi. La
distinzione de’ due tempi antediluviano, e diluviano,
relativamente a questo genere di pietre, non mi sembra
poi soddisfacente. Stando nel suo sistema diluviano
d’onde ripeterebbe il Wallerio le molte petrificazioni di
corpi marini esotici chiuse ne’ ciottoli componenti le
breccie?
Non è però la breccia il più interessante, e pregevole
marmo che diano l’isola d’Arbe, e le due isolette di S.
Gregorio, e di Goli contigue al capo di Loparo. Vi si
trova in grandissima abbondanza il marmo bianco
statuario, perfettamente simile nella grana a quello, di
cui si servirono gli antichi Romani, che non sempre,
come volgarmente credesi, era greco. Egli non ha quella
candidezza di neve, che passa per una buona qualità nel
marmo [203] di Carrara, e che inganna pur troppo
spesso lo statuario non meno, che i giudici de’ di lui
lavori. La perfetta rassomiglianza del marmo bianco
tolto dalle statue romane, e di quello che ritrovasi
egualmente al piè della montagna d’Arbe verso Loparo,
e nelle due isolette soprannominate; il nome antico di
466
Loparo, che per quanto mi fu detto rilevarsi da
documenti esistenti in Arbe, era Neoparos; la
probabilità, che le barche da carico romane, andando a
prendere della rena indicata da Plinio ne’ bassi fondi
vicini, avessero anche scoperto questo marmo, che in
abbondanza vi si ritrova; la gran quantità di rottami di
esso tuttora angolosi, ed irregolari, benché dal tempo
corrosi alla superfizie, che ritrovasi appiè del Monte
della Sabbia, sono ragioni che m’inducono a credere vi
fossero delle lapicidine antiche in questo luogo, dalle
quali una parte degli statuarj romani traesse la materia
de’ suoi lavori. L’impasto del marmo statuario d’Arbe è
un aggregato d’ortocerati, e nummali della maggior
mole: ma per avvedersene fa d’uopo esaminare di que’
rottami corrosi, ch’io v’ho indicato; allorché si guarda
lisciato dallo scalpellino, ogni vestigio de’ corpi estranei
sparisce: così egualmente si perfezionò la petrificazione
loro tanto nella sostanza, quanto nel colore. Rompendo
qualche pezzo di questo marmo statuario, si trova ch’è
internamente cristallizzato come gli altri marmi
compresi nella categoria de’ salini. Io mi trovai contento
di questa scoperta più che d’ogni altra mia osservazione,
perché mi parve la più immediatamente utile alla
Nazione, e la più atta a liberarci da un annuo dispendio
riflessibile, che si fa nell’acquisto di due gran carichi di
marmo carrarese. È anche tanto più opportuna la
scoperta, quanto che da Carrara non ce ne viene oggimai
portato di buona qualità, dopo che gl’Inglesi [204]
hanno stabilito a Massa un agente, che acquista per
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conto loro i pezzi più netti, e lascia pegl’Italiani il
venato, e macchiato di cenerognolo, che riesce
malissimo nelle statue, e in ogni altro lavoro nobile.
Nelle acque d’Arbe, e di Pago io ho fatto parecchie
osservazioni sulla luce fosforica marina, delle quali
prendo impegno di rendervi informato allora che le
averò ridotte a qualche grado di perfezione. Intanto
aggradite, valorosissimo amico, il poco ch’io vi posso
donare; e guardate questa lettera come una prova della
mia amicizia, e venerazione per Voi, che occupate un sì
eminente luogo fra i naturalisti, ed insegnate agli
oltramontani, che anche nell’età presente vive fra noi il
genio de’ Vallisnieri, e dei Redi, pe’ quali crebbe l’Italia
nostra in tanto onore altre volte.
F IN E DEL S ECON D O V OLU M E

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