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Gianfranco Ravasi - Particolari Sulla Bibbia - Approfondimenti - Anno 2002 Pt2

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Gianfranco Ravasi - Particolari Sulla Bibbia - Approfondimenti - Anno 2002 Pt2

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Io, Paolo, anziano e in catene

Accanto a Pietro nella liturgia del 29 giugno è associato Paolo, l’altra colonna della Chiesa di
Roma, come diceva san Clemente agli inizi del II secolo. Ci siamo spesso interessati delle Lettere
dell’Apostolo perché esse costituiscono un patrimonio fondamentale non solo della fede cristiana
ma anche della stessa cultura dell’Occidente. Ora, però, vorremmo presentare un documento
molto personale e fin curioso di Paolo, forse il suo ultimo scritto. Si tratta di un commovente
biglietto che egli, ormai «anziano e in catene», indirizza a Filemone, un amico ricco e generoso,
«collaboratore» nell’annunzio del Vangelo, nella cui casa si radunava una comunità di cristiani,
anche se ci è ignota la città (versetti 1-2).
A lui l’Apostolo chiede un favore piuttosto inatteso. Durante la sua carcerazione — forse si tratta
degli arresti domiciliari a Roma agli inizi degli anni ‘60, descritti nella finale degli Atti degli Apostoli
(28,30-31) — Paolo aveva avuto l’occasione di incontrare e «generare» alla fede e quindi
battezzare uno schiavo di nome Onesimo (versetti 10-11). Costui era fuggito proprio dalla casa di
Filemone: secondo il diritto romano, egli doveva essere restituito al padrone che ne avrebbe
deciso la sorte come meglio gli fosse gradito.
La proposta che, invece, Paolo avanza è significativa per illustrare la nuova visione che il
cristianesimo stava introducendo nelle relazioni sociali. Ascoltiamo l’Apostolo in un brano di questa
Lettera a Filemone: «Ti rimando Onesimo, lui che è il mio cuore (in greco si ha splànchna, cioè
«viscere», segno di amore «viscerale»)... È stato separato da te per un momento perché tu lo
riavessi per sempre, non più come schiavo, ma come fratello amato tanto da me ancor più da te,
sia secondo la natura umana sia per la fede nel Signore. Se, dunque, mi consideri come amico,
accoglilo come me stesso... Sì, fratello, che io possa ottenere da te favore nel Signore. Dà questo
sollievo al mio cuore in Cristo! Ti scrivo fiducioso nella tua docilità, sapendo che farai anche più di
quanto chiedo...» (versetti 12-21).
Tra l’altro, è suggestivo notare che Paolo si permette di aggiungere anche un tocco di ironia,
quando scrive: «Se in qualcosa Onesimo ti ha offeso o ti è debitore, metti tutto sul mio conto.
Scrivo questo di mio pugno, io, Paolo: io stesso pagherò! Anche se vorrei dirti che mi sei debitore
e proprio di te stesso!» (versetti 18-19). La tradizione popolare posteriore farà di Filemone un
vescovo della città di Colossi nell’Asia Minore, alla cui Chiesa — come è noto — Paolo aveva già
indirizzato una lettera, e naturalmente lo farà anche santo.
Ciò che affiora in queste righe è, comunque, la dimensione umana di Paolo, sensibile all’amicizia e
lontano dallo stereotipo del freddo teorico, dell’arido teologo, privo di relazioni profonde e intime.
L’Apostolo esce di scena, invece, proprio con un delizioso biglietto molto personale, segno di
amore e di libertà. C’è nel saluto finale un bagliore di attesa riguardo al futuro: « Intanto preparami
un alloggio perché spero — grazie alle vostre preghiere — di esservi felicemente restituito»
(versetto 22).
Chissà se il desiderio di Paolo si realizzò prima della sua morte sotto Nerone imperatore!

La "Casta Meretrice" che salva Israele

Apriamo un libro biblico che ha registrato un enorme successo nella storia dell’arte e della
tradizione.
Esso porta il nome del successore di Mosè nella guida dell’Israele in marcia verso la terra
promessa, Giosuè, un nome che è affine ad altri nomi celebri della Bibbia, cioè Isaia, Osea, Gesù:
tutti, infatti, contengono la stessa radice verbale ebraica (jasha) che significa «salvare».
Naturalmente non possiamo seguire l’intera trama di questo libro che è sostanzialmente scandito
in due tappe: la prima, dedicata agli eventi clamorosi della conquista della terra di Canaan; la
seconda, concentrata sulla ripartizione della terra tra le varie tribù ebraiche.
L’intera vicenda di Giosuè è, invece, seguita dall’oratorio omonimo musicato dal grande Georg
Friedrich Haendel nel 1748 su libretto di T. Moreil: il passaggio del Giordano, il sole e la luna che
s’arrestano in cielo, la caduta delle mura di Gerico, la sconfitta delle popolazioni indigene, la
spartizione della terra e, dopo quest’opera grandiosa, Giosuè accolto trionfalmente dal coro che
intona l’acclamazione: «Ecco, avanza incoronato di gloria...!».
Noi ci accontenteremo di sfogliare qualche pagina di questo testo narrativamente molto intrigante,
pieno com’è di colpi di scena e di eventi grandiosi e gloriosi.
Faremo oggi avanzare un personaggio un po’ particolare, la prostituta Rahab di Gerico. La storia

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dell’ospitalità che essa offre agli esploratori ebrei, infiltratisi nei territorio nemico e da lei nascosti
tra le cataste degli steli di lino messi sulla terrazza della sua casa ad essiccare, è troppo nota per
essere raccontata. Bisognerebbe rileggerla nella vivacissima narrazione del capitolo 2 del libro di
Giosuè. Naturalmente la tradizione giudaica successiva annovera Rahab tra le donne più belle del
mondo.
Curiosa è, Invece, la raffigurazione cristiana di questa donna, che tra l’altro entra nella genealogia
stessa di Gesù (Matteo 1,5). Essa diventa agli occhi dell’autore di quella solenne omelia che è la
Lettera agli Ebrei un’eroina della fede:
«Per fede Rahab, la prostituta, non perì con gli increduli, avendo accolto con benevolenza gli
esploratori» (11,31).
Per la Lettera di Giacomo, che è invece un’omelia giudeo-cristiana, essa diviene un’eroina delle
opere, dell’impegno caritativo: «Rahab, la meretrice, non venne forse giustificata in base alle opere
per aver dato ospitalità agli esploratori e averli mandati per altra via?» (2,25).
Il fascino «teologico» di questo racconto è dilagato nella letteratura patristica. Per sant’Ambrogio,
ad esempio, Rahab diventa un emblema della Chiesa, sulla scia di un’immagine già diffusa. Essa,
infatti, è casta meretrix, «una prostituta casta», perché accoglie le spie ebraiche senza avere con
loro rapporti sessuali e li salva. La Chiesa è simile a una meretrix, si dice arditamente, perché
accoglie tutti, anche chi è inseguito e ostile (come gli esploratori); ma è casta perché la sua
missione è quella di offrire la purezza della fede e dell’amore. Persino la «cordicella di filo
scarlatto» (2,18) — la cui funzione dovrà essere scoperta leggendo il racconto — diventa per la
tradizione cristiana il rivolo del sangue di Cristo che scorre dalla croce del Golgota...

Antiche mura di Gerico

C'è solo l’imbarazzo della scelta. Si può entrare nella basilica romana di S. Maria Maggiore e
alzare gli occhi verso i suoi mosaici del IV sec. per scoprire la scena del crollo delle mura di
Gerico. Oppure mettersi davanti alla “Porta del paradiso” del Battistero di Firenze e in una formella
in bronzo del Ghiberti (1425 -1452) ritrovare la stessa scena. O ritornare a Roma, e nelle Logge
Vaticane ammirare questo e gli altri eventi del libro di Giosuè raffigurati da Raffaello negli affreschi
eseguiti coi suoi discepoli tra il 1516 e il 1518.
O ancora affidarsi alla melodia forte ed evocativa di uno “spiritual” degli afroamericani,
Joshuafought the battie of Jericho (“Giosuè combatté la battaglia di Gerico”).
Effettivamente la presa di Gerico così com’è descritta nel capitolo 6 del libro di Giosuè costituisce
un classico nella storia dell’arte. Essa è descritta nella cornice di una liturgia processionale con un
apparato di sacerdoti, di fedeli, di trombe e di corni, con l’arca dell’alleanza, il palladio delle vittorie
sacre di Israele, con un settenario di giri rituali. Alla fine la città più antica del mondo non è
conquistata, ma è ricevuta in dono. Un dono divino, spiegato da alcuni con un terremoto o più
semplicemente col fatto — che sembrerebbe attestato dall’archeologia — che Gerico era in quel
periodo distrutta e abitata solo da qualche clan seminomade (si spiegherebbe, così, la presenza di
Rahab, la cui storia abbiamo evocata la scorsa settimana).
Ma c’è un’altra pagina indimenticabile del libro di Giosuè: è quella della battaglia di Gabaon che
tanti guai creò, secoli dopo, anche a Galileo. Giosuè, infatti, in quell’occasione intona un canto
epico che di sua natura è trionfale e quindi da non leggere letteralisticamente, come purtroppo
fecero i giudici di Galileo: «Sole, fermati in Gabaon! / E tu, o luna, sulla valle di Aialon. / Il sole si
fermò / e la luna ristette immobile / finché il popolo non si fu vendicato dei suoi nemici» (10,12-13).
Con questa immagine, che è simile a quella delle acque del Mar Rosso, bloccate su ordine di
Mosè, si vuole evocare qualcosa di simile al “giorno più lungo”, il titolo del libro di N. Ryan che
descrive lo sbarco degli Alleati in Normandia durante l’ultima guerra mondiale. Il giorno della
vittoria sembra non finire mai ed è visto dall’autore sacro come un’irruzione gloriosa di Dio che
combatte a fianco del suo popolo con le armi cosmiche. Infatti a siglare la sconfitta della coalizione
antisraelitica dei cinque re di Gabaon c’è una terribile grandinata: «il Signore lanciò dal cielo su di
essi come grosse pietre e molti morirono» (10,11).
Certo, questo Dio guerriero e “partigiano”, che origina anche una lunga serie di eccidi — chiamati
in ebraico herem, strage santa, anatema —, crea imbarazzo al lettore cristiano e semplicemente al
lettore. È, quindi, necessario comprendere correttamente il libro di Giosuè, al di là della sua
retorica marziale. Non si deve mai dimenticare che la Rivelazione biblica è storica: è, quindi, un
lento manifestarsi di Dio anche attraverso i limiti e le miserie umane, la violenza e gli scandali della

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storia e l’ottusità della comprensione dell’uomo.

Una Terra Promessa di latte e miele

Metteremo questa volta insieme tre scene bibliche differenti ma parallele. Eccoci di fronte alla
prima.
È giunta, terminato l’inverno oscuro, la primavera sospirata. Nelle campagne sono sbocciate le
primizie.
Un ebreo ne ha raccolte alcune dal suo campo e, in una cesta, le ha portate per offrirle al
sacerdote.
Costui le riceve, le depone sull’altare e invita il fedele a pronunziare una specie di Credo. L’ebreo
comincia a recitare: «Mio padre era un arameo nomade; scese in Egitto... Gli Egiziani ci imposero
una dura schiavitù. Allora noi gridammo al Signore, Dio dei nostri padri... Il Signore ci fece uscire
dall’Egitto con mano possente e braccio teso... e ci guidò in questo luogo, donandoci questa terra
dove scorre latte e miele» (Deuteronomio 26, 5-9).
Questo brano, da noi citato frammentariamente, è forse una delle più antiche professioni di fede di
Israele: Dio, come è evidente, si rivela il Signore Salvatore dell’esodo e della conquista della terra
promessa.
Ma passiamo ora alla seconda scena. Siamo a Sichem, sede di un antico santuario di Israele.
Giosuè, che ha guidato l’ingresso del popolo ebraico in questa terra, ha convocato tutte le tribù e
davanti a esse proclama anch’egli un Credo che ricalca quello pronunziato dall’antico contadino,
anche se è più ampio e articolato: «I vostri padri abitavano dai tempi antichi oltre il fiume
(Eufrate)... Io li presi e gli feci percorrere tutto il paese di Canaan..., moltiplicai la loro discendenza
che scese in Egitto. Mandai Mosè e Aronne e colpii l’Egitto e li feci uscire... Dimoraste lungo tempo
nel deserto... Poi passaste il Giordano... e vi diedi una terra...».
È questa la parte dominante dell’ultimo capitolo del libro di Giosuè (24, 1-13) e anch’essa rivela le
azioni divine nella storia della salvezza: la chiamata dei patriarchi, l’esodo dall’Egitto, la terra
promessa e conquistata. Il popolo si impegnerà di fronte a questi doni a «servire» il Signore: per
21 volte (3 x 7, numeri perfetti) si ripete nel capitolo (24,14-27) proprio quel verbo (in ebraico
‘abad) che attesta l’adesione operosa del popolo eletto e il suo culto fedele in onore del Signore.
Eccoci, così, alla terza scena. Nell’assemblea del tempio di Gerusalemme si alza un solista e
intona un cantico, il «grande Hallel», cioè la Lode per eccellenza, il Salmo 136: «Lodate il Signore:
egli è buono!... I cieli ha fatto con sapienza, la terra ha stabilito sulle acque... Percosse l’Egitto nei
suoi primogeniti e da loro liberò Israele... Divise il Mar Rosso in due parti e in mezzo fece passare
Israele... Guidò il suo popolo nel deserto... Diede in eredità la loro terra...».
Ancora una volta, in questo Credo cantato, si fanno sfilare i gesti salvifici di Dio: l’esodo dall’Egitto
e il dono della terra di Canaan, ai quali si premette la creazione del mondo. E il popolo a ogni
verso risponde: Ki le òlam hasdò «perché è eterno il suo amore». Il Dio della Bibbia esce dai suoi
cieli dorati e penetra nel groviglio delle vicende umane.
Egli è il Dio della storia e la Bibbia è la storia di un Dio che non teme di impolverarsi camminando
per le vie del nostro tempo e del nostro spazio.

L'ex voto del marinaio ebreo

La nave oneraria romana avanzava nel Mediterraneo col suo carico di derrate alimentari e di
uomini (c’erano anche carcerati trasferiti a Roma), spinta da un leggero scirocco, Costeggiando
l’isola di Creta. Ma all’improvviso, «ecco scatenarsi un vento d’uragano, detto allora Euroaquilone.
La nave è travolta dal turbine e, non potendo più resistere al vento, va alla deriva...».
Comincia più o meno così uno dei più vivaci racconti di tempesta marina e di naufragio che
l’antichità ci abbia tramandato.
Esso è presente nel capitolo 27 degli Atti degli Apostoli e narra il trasbordo di Paolo sotto custodia
da Cesarea Marittima a Roma, ove l’attendeva il processo presso la Cassazione imperiale a cui
egli aveva appellato nella sua qualità di cittadino romano.
Abbiamo voluto invitare a rileggere questo racconto di mare proprio mentre molti lettori stanno
migrando verso le spiagge o sono forse già di fronte all’immensa distesa delle acque marine. Il
mare nella Bibbia esercita un’attrazione quasi morbosa perché è il simbolo del caos e del nulla che
attentano alla terraferma corrodendola.

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In Giobbe 38,10-11 il Creatore fissa proprio sulla battigia del litorale il confine invalicabile del mare:
«Fin qui giungerai e non oltre. Qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde». Che il mare abbia questo
fascino oscuro è suggerito anche nel celebre romanzo Moby Dick dello scrittore americano
Herman Melville (1819-1891) o nei molti romanzi marinati dello scrittore inglese di origine polacca
Joseph Conrad (1857-1924): pensiamo solo a Lord Jim, a Tifone e Nosfrotno.
Nell’Antico Testamento, oltre alla deliziosa parabola di Giona e del misterioso cetaceo che lo
inghiottisce per tre giorni, c’è un movimentato quadretto di tempesta nel Salmo 107.
Si tratta di una specie di ex voto di un marinaio ebreo che dice il suo grazie a Dio per essere
scampato a un fortunale (e lo fa dopo un viaggiatore, un carcerato e un malato). Ecco la sostanza
della sua descrizione del pericolo scampato:
«Il Signore parlò e fece levare un vento tempestoso che sollevò le onde. Salivano al cielo,
scendevano negli abissi, il respiro veniva meno per il pericolo. Ballavano e barcollavano come
ubriachi, tutta la loro perizia era svanita. Nell’angustia gridarono al Signore.., che ridusse la
tempesta alla calma; s’acquietarono le onde del mare. Gioirono per la bonaccia ed egli li guidò al
porto sospirato» (vedi Salmo 107, 23-32).
Uno studioso, Otto Loretz, ha ipotizzato che si tratti di un antico canto di marinai fenici salvati dal
loro dio durante una tempesta e poi ripreso da un poeta ebreo. Certo è che, a differenza dei
Fenici, gli Ebrei non furono mai un popolo di navigatori, anche a causa della loro costa con rare
insenature.
Il mare rimase così un segno tenebroso e negativo, adatto però a descrivere anche l’effetto del
vino in un ubriaco: «Ti parrà di giacere in alto mare o di dormire in cima all’albero maestro»
(Proverbi 23, 34).

Donna e Proverbi Seduzione e Idolatria

C'è nell’Antico Testamento un libro delizioso, detto in ebraico Meshaltm, cioè Proverbi (ma anche
detti, parabole, aforismi e persino poemi).
Il musicista francese Darius Milhaud nel 1951 su alcuni passi di quest’opera ha intessuto una
Cantata dei Proverbi Il filosofo inglese Francesco Bacone (1561-1626) era convinto che «il genio,
la saggezza e lo spirito di una nazione si scoprono nei suoi proverbi».
In verità si scoprono anche i suoi difetti, i suoi luoghi comuni e i pregiudizi.
È il caso della questione femminile che in tutte le tradizioni proverbiali popolari è affrontata sempre
in chiave maschilista (si pensi solo alle barzellette salaci...).
La Bibbia, che — non ci stancheremo mai di ripeterlo — è Parola di Dio, sì, ma incarnata nella
storia, nelle vicende, nelle concezioni ma anche nei preconcetti e nei limiti di una cultura e di una
società, non è aliena da questa impostazione. Basti solo leggere questo “proverbio”: «Una donna
bella ma senza cervello è come un anello d’oro al naso di un porco» (11, 22).
O, peggio, sentire un “sapiente” come il Qohelet dichiarare senza batter ciglio che «più amara
della morte è la donna; essa è una rete, il suo cuore è un laccio e le sue mani una catena. Chi è
caro a Dio da lei fuggirà via...» (7,26). E un altro “sapiente”, il Siracide, non esita a scrivere che «è
meglio la cattiveria di un uomo che la bontà di una donna» (42,14).
La tipologia della donna “tentatrice”, peraltro, appare già con Eva e ha la sua straordinaria
rappresentazione in una pagina deliziosa proprio dei Proverbi, il capitolo 7, che ha al centro una
“pittorica” scena di adescamento.
Bisogna, tuttavia, essere cauti nel giudicare subito in chiave antifemminile questo e altri brani di
seduzione. Nella Bibbia spesso la seduttrice non è una laica” e laica prostituta o un’adultera in
senso stretto, bensì una “straniera”, con un rimando agli indigeni cananei e alle loro sacerdotesse
dedite ai culti della fertilità. È, allora, il fascino dell’idolatria a entrare in scena, uno dei temi
teologici più generali e insistiti della Bibbia.
Ma per un momento torniamo al quadretto di Proverbi 7. Il sapiente all’imbrunire sta quietamente
osservando la vita della piazza dalla sua finestra schermata dalle grate di legno che proteggono
dal caldo. «Ed ecco un giovane stupido che si lascia irretire da una donna in vesti di prostituta...
che lo afferra, lo bacia... e gli dice: ho messo coperte soffici sul mio letto, tela fine d’Egitto, ho
profumato il mio giaciglio di mirra e cinnamomo.
Vieni, inebriamoci d’amore fino al mattino, godiamoci insieme i piaceri amorosi...!».
Il giudizio del sapiente è lapidario: quel giovane sedotto è «come un bue che va al macello, un
cervo preso al laccio con una freccia che gli lacera il fegato, un uccello piombato in una rete».

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Donna Straordinaria - per umanità e spiritualità

La scorsa settimana avevamo introdotto il nostro lettore nell'antifemminismo che pervade alcune
pagine bibliche e che, come per i testi "violenti", è il segno di una Rivelazione divina non astratta,
ma incarnata nei limiti e nelle catene della storia dalle quali vorrebbe lentamente liberarci. In
questo mese - che ha al centro la solennità dell'Assunzione di Maria, cioè una figura femminile
concreta ("corpo e anima"), ma gloriosa - vorremmo però mostrare come in realtà nello stesso
Antico Testamento brillino personaggi femminili straordinari sia per umanità sia per spiritualità (già,
mesi fa, presentammo la "profetessa e giudice" Debora).
Cominceremo con la vicenda di una straniera entrata nella comunità. di Israele così intimamente
da divenire antenata di Davide e dello stesso Gesù (Matteo 1,1-6): è Rut del popolo di Moab, in
Transgiordania. Il libretto che ne narra la vicenda è un gioiello letterario, steso in un ebraico
perfetto e raffinato, "un poema di pace biblica, patriarcale, notturna", come diceva lo scrittore
francese Victor Hugo, che su un versetto del testo biblico (3,7) aveva costruito nel 1859 un poema
in 22 quartine (tante quante sono le lettere dell'alfabeto ebraico), intitolato Booz endormi.
La scena, infatti, più emozionante è appunto quella in cui Rut si accosta al suo futuro sposo Booz,
addormentato sull'aia dove si era celebrata la festa della mietitura dell'orzo... "Verso mezzanotte
quell'uomo si svegliò, con un brivido, si guardò attorno ed ecco una donna gli giaceva ai piedi. Le
disse: chi sei? Rispose: sono Rut, tua serva; stendi il lembo del tuo mantello sulla tua serva,
perché tu hai il diritto del riscatto" (3, 8-9). Per comprendere la scena bisogna risalire alla storia
originaria di questa donna.
Essa - il cui nome significa "amica, compagna" - aveva sposato il figlio di un ebreo di Betlemme,
emigrato a Moab in cerca di lavoro con sua moglie Noemi (“graziosa”, "dolcezza mia") e due figli.
Alla morte del marito, Rut aveva deciso di seguire sua suocera Noemi, anch'essa vedova, che
ritornava a Betlemme dicendole: "il tuo popolo sarà il mio popolo, il tuo Dio sarà il mio Dio; dove tu
morrai, morrò anch'io e là sarò sepolta" (1,17). A Betlemme, ove le due donne vivono in miseria
spigolando nei campi, risiede però un ricco proprietario terriero, Booz appunto, che è parente
prossimo del marito defunto di Rut.
Ora, per la legge ebraica detta del levirato, egli avrebbe il dovere del "riscatto", cioè del prendere
in moglie la vedova del parente. Ma un ostacolo si frappone: c'è un parente più "prossimo" a cui
spetta questo diritto. Booz lo farà rinunziare formalmente e, così, in quella notte sarà Rut stessa a
prendere l'iniziativa per il matrimonio. Quel matrimonio da cui si originerà la dinastia davidica. Ma il
libretto di Rut è meraviglioso soprattutto perché è pervaso dalla tenerezza dei sentimenti d'amore
e anche perché la narrazione è tutta immersa nella serenità e nella nostalgia di un "piccolo mondo
antico", sullo sfondo semplice e pittoresco della vita della campagna e dei villaggi.

Come fiume d'acqua - e luce che illumina

« Sono così nemico del libro di Ester che vorrei che non esistesse affatto perché è troppo giudaico
e contiene molta malvagità pagana». A questo durissimo giudizio di Lutero nei suoi Discorsi a
tavola, motivato dalla vendetta degli ebrei che eliminano chi voleva eliminarli, si oppone
ovviamente l’entusiastica accoglienza della Sinagoga che ha collocato il libro tra i cinque “Rotoli”
della lettura liturgica (oltre a Rut, Cantico dei Cantici, Qohelet, Lamentazioni), accanto ai cinque
libri fondamentali della Torah, cioè Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio.
Anche la cristianità ha amato Ester, facendone una prefigurazione di Maria, la madre di Gesù.
Così, l’ha raffigurata mille volte nell’arte (Lippi, Botticelli, Tintoretto, Veronese, Rembrandt, Tiepo-
lo...). Luminosa è la hermosa Ester, dramma del grande Lope de Vega (1610), potente l’Ester di
Racine (1689), simbolo di virtù, pietà e amore per il suo popolo, mentre nel nostro tempo Max Brod
col dramma Una regina di nome Ester (1918) esalta il contributo offerto dal giudaismo sull’evolu-
zione dei costumi e dei sentimenti dell’umanità. E non sono mancati neppure oratori musicali dedi-
cati all’eroina, come quelli di Stradella, Hàndel, Malipiero (Esther d’Engaddi) e di Mario Castel-
nuovo Tedesco (Il libro di Ester 1962). C’è persino un film, Ester e il re di Raoul Walsh (1960).
Lo sfondo storico dello scritto biblico è fittizio: ci riporta all’epoca del re Assuero, il persiano Serse,
morto nel 465 a.C. In realtà, il libro riflette un periodo più recente di persecuzioni antisemite, quello
siro-ellenistico del II secolo a.C. che vide la rivolta dei Maccabei. Ester, «donna di presenza
bellissima e di aspetto affascinante» (2,7), vive col cugino Mardocheo che l’ha adottata durante il

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terrore di una strage di ebrei ordinata da un editto reale, voluto da un primo ministro, Aman,
fieramente avverso a Israele.
Nella scena centrale del libro, Ester si presenta davanti al re Assuero, affascinato dalla sua
bellezza, e tenta una rischiosa missione di ambasciatrice per la giustizia e la salvezza del suo
popolo. Sostenuta dalla preghiera, essa riesce a ribaltare le sorti della comunità ebraica e la festa
dei Purim (delle «sorti» appunto) — che è quasi il carnevale di Israele — suggellerà nella gioia il
successo della missione e dell’intercessione di Ester.
Questa donna diventa, quindi, come una testimone di vita e di felicità.
È ciò che afferma il padre adottivo Mardocheo quando, nella versione greca antica del libro (giunta
a noi oltre all’originale ebraico e dotata di brani ulteriori), ne traccia la fisionomia interiore. Ester è
simile a un fiume d’acqua fresca che tutto feconda, fa fiorire e verdeggiare. «Mardocheo disse:
tutte queste cose sono accadute per opera di Dio. Mi ricordo di un sogno: c’era una piccola
sorgente che si trasformava in fiume; spuntava una luce, brillava il sole e l’acqua era abbondante.
Questo fiume è Ester...! Attraverso lei il Signore ha salvato il suo popolo, ci ha liberati da tutti i mali
e ha operato segni e prodigi grandiosi» (dal capitolo 10 del testo greco).

Fiducia in dio - e fedeltà alla legge

Tu gloria Jerusalem, tu laetitia Israel, tu honorificentia populi nostri... Molti ricorderanno anche la
melodia che accompagna questo canto mariano, ma non tutti sapranno che è la versione latina
della benedizione che gli Israeliti indirizzano a Giuditta, dopo la sua vittoria sul generale Oloferne, il
nemico del popolo ebraico (15,9).
Il racconto è quasi simile a una parabola: non per nulla l’eroina si chiama Giuditta, cioè «la
giudea»; la sua città Betulia, «casa del Signore Dio»; esemplare è anche la tesi centrale dell’opera,
il ribaltamento delle sorti per cui la vittima è esaltata e l’oppressore umiliato (tesi che dominava
anche nel libro di Ester, presentato la scorsa settimana).
Modello molto caro all’arte cristiana — vorrei citare solo la tela di un’artista, Artemisia Gentileschi,
che in Giuditta proietta tutta la reazione della sua esperienza di donna violentata (al contrario di
Botticelli che ci offre una Giuditta dolce e malinconica) —, questa ebrea è nella mente di tutti per il
suo gesto ardito e fin truculento. Nella notte che avvolge il disordine e i segni del banchetto
consumato nella tenda del generale balena la lama della scimitarra che Giuditta cala sul collo di
Oloferne ubriaco e addormentato.
Il suo gesto vuole incarnare quasi l’azione della mano divina che piega i prepotenti. L’eroina prega,
infatti, così: «La tua forza, Signore, non sta nel numero né il tuo regno si regge sugli armati. Tu sei,
invece, il Dio degli umili, il salvatore dei disperati» (9,11).
La fiducia in Dio e la fedeltà alla Legge e all’Alleanza sono lo scudo di Israele e la vera spada di
Giuditta. Non per nulla il libro è costellato di inni, di suppliche, di invocazioni e di esaltazioni del
Signore come Dio altissimo, Dio del cielo, creatore del cielo e della terra, Re del creato, Vincitore
delle battaglie, Dio dei padri, e così via.
Questa volta vorremmo solo segnalare un fenomeno culturale curioso. L’opera biblica ha avuto
grande successo in musica, anche per il simbolismo mariano applicato a essa. Hanno composto
oratori Carissimi, Scarlatti, Benedetto Marcello, Galuppi, Vivaldi, Cimarosa, Honegger e persino
Mozart con la Betulia liberata su libretto di Metastasio (1771). Successo avrà anche nel teatro,
considerata la suspence che pervade il testo. Ma, a partire dall’Ottocento, l’opera biblica viene
“laicizzata”.
Così nel dramma di F. Hebbel (1840) Giuditta, vedova verginale, è catturata dalla passione per
Oloferne che ucciderà per vendetta, quando si sentirà offesa nella sua dignità, giungendo al punto
di chiedere al popolo la sua eliminazione qualora risultasse incinta del generale. Per J. Giraudoux
(1931) Giuditta è costretta poi dalle pressioni pubbliche ad attribuire un valore religioso al suo
gesto che, in realtà, era solo legato al desiderio di conservare intatta la bellezza di un incontro
unico e impossibile. E per R. Hochhuth (1984) Giuditta è una giornalista che compie un attentato
contro il presidente americano che ha deciso la produzione di armi chimiche micidiali... Come è
ovvio, siamo ormai lontanissimi dall’originale biblico e dal suo significato basilare.

Chi può scagliare la prima pietra?

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Ancora una volta scegliamo una donna a protagonista della nostra rubrica dedicata alle pagine più
belle e indimenticabili della Bibbia. E questa volta possiamo letteralmente parlare di pagina
indimenticabile perché su di essa si è persino coniato un nuovo modo di dire comune, quello dello
«scagliare la prima pietra». Penso che tutti sappiano a questo punto a quale testo mi voglio riferire,
al racconto dell’adultera, posto in apertura al capitolo 8 deI Vangelo di Giovanni.
In realtà gli studiosi discutono su questa collocazione, perché il brano è assente nei migliori e più
antichi manoscritti che ci hanno tramandato il quarto Vangelo. Anzi, per tema e tonalità
sembrerebbe essere più adatto a Luca e al suo Vangelo della misericordia e della tenerezza di
Cristo nei confronti dei peccatori e degli emarginati. Sta di fatto che la pagina è molto suggestiva
letterariamente ed è “ispirata” e “canonica” teologicamente parlando. Essa fu ripresa spesso
dall’arte: citerò solo come esempio Il Cristo e l’adultera di Pieter Bruegel, conservato alla National
Galiery di Londra.
La scena è visiva: al centro di un cerchio di curiosi c’è una donna «sorpresa in flagrante adulterio»
e quindi passibile della pena della lapidazione secondo l’antica legge ebraica (Deuteronomio 22,
22-24). Scribi e farisei dall’alto del loro professato e conclamato rigore morale invocano a gran
voce questo giudizio popolare che — come accadrà per il caso di Stefano — potrebbe avere i
colori di un linciaggio.
In quell’area, che è situata negli spazi del tempio di Gerusalemme, si trova fin dall’alba anche
Gesù.
È un’occasione ghiotta per i suoi avversari per coinvolgerlo in un caso spinoso.
Ma, a prima vista Cristo sembra distratto e silenzioso: «chinatosi, scriveva per terra col dito» (8,6).
Si è molto ricamato (anche di fantasia) su questo gesto.
Lo si è portato a prova della capacità di Gesù di scrivere. Alcuni hanno immaginato che stesse
scrivendo proprio la frase che poi avrebbe pronunziato. Altri, invece, sono convinti che scrivesse
un versetto della Bibbia come questo: «Non presterai mano al colpevole per essere testimone in
favore di un’ingiustizia» (Esodo 23,1). O come quest’altro del profeta Geremia: «Quanti si
allontanano da te, Signore, saranno scritti nella polvere, perché hanno abbandonato la fonte di
acqua viva, il Signore» (17,13).
In realtà, come suggerisce il verbo greco piuttosto generico (katagràfò, cioè “scrivo giù”), e come
nota un importante commentatore del quarto Vangelo, Raymond Brown, «la possibilità di gran
lunga più semplice è che Gesù stesse solo tracciando linee per terra, per mostrare il suo
disinteresse e disgusto per lo zelo di quegli accusatori».
La scrittrice svedese Selma Lagerlòf ha intitolato un racconto della raccolta L’anello del peccatore
(1939) evocando proprio il gesto di Gesù, “L’iscrizione sul suolo”.
Ma l’apice del testo evangelico — come indicherà anche il poeta francese Alfred de Vigny nella
“Moglie adultera”, uno dei Poemi antichi e moderni (1837) — è in quelle due indimenticabili frasi:
«Chi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei»; «Io non ti condanno: va’ e d’ora in
poi non peccare più» (8, 7.11).

Davide Piange Gionata e Saul

In ebraico viene definita qìnah, cioè "lamentazione", e questo titolo ben s’attaglia (nonostante il
ritmo del brano sia diverso) a un piccolo capolavoro poetico di forte impatto sentimentale. È il
canto che Davide intona appena apprende la notizia della morte suicida di Saul, il primo re di
Israele, sconfitto dai Filistei sui monti di Gelboe, e della fine di suo figlio Gionata, legato a Davide
da profonda amicizia. Colui che sarà il successore di Saul si abbandona al flusso delle emozioni e
le sue parole, riferite dal secondo Libro di Samuele (1,19-27), sono per tre volte scandite da
quell’eterno «Perché?» che i sofferenti levano al cielo quando si trovano di fronte a una tragedia:
«Perché sono caduti gli eroi?» (1,19.25.27).
Sul panorama verdeggiante dei monti di Gelboe, che orlano a sud-est la pianura settentrionale
della Galilea, sull’esultanza frenetica delle donne dei vincitori filistei, che per le vie delle loro città
(Gat e Ascalona) sono pronte a danzare, Davide fa scendere il velo delle sue lacrime che tutto
annebbia e offusca. Anzi, egli lancia una maledizione simbolica su quei monti che furono spettatori
indifferenti di quel dramma nazionale: «O monti di Gelboe, mai più rugiada né pioggia scenda su di
voi, né mai si distendano campi di primizie!» (1,21). È curioso notare che lo Stato ebraico moderno

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ha idealmente raccolto l’appello di Davide, lasciando incolti quei colli ed evitando che su di essi si
piantassero alberi o coltivassero campi.
Il ritmo del lamento per quel re, che pure aveva perseguitato il giovane Davide, ma che l’aveva
anche accolto a corte quand’era ancora un ignoto pastorello, è tutto scandito da una serie di
coppie di sostantivi: Gat e Ascalon, le città nemiche, rugiada e pioggia dei monti, sangue e grasso
dei corpi delle vittime, arco e spada che esse impugnavano, aquile e leoni, simboli della loro forza,
porpora e gioielli delle loro donne. Ma soprattutto echeggiano due nomi, Saul e Gionata, in modo
appassionato, spasmodicamente invocati per quattro volte.
Ma l’ultimo nome a risuonare, solitario, è quello di Gionata, l’amico carissimo, la cui «amicizia era
più preziosa che l’amore di donna» (1,26), come confessa Davide, dando così corpo a chi ha
voluto banalizzare questa relazione leggendola in chiave sessuale. In realtà, i rapporti tra i due
nella Bibbia sono descritti spesso con connotati politici (che in Oriente si esprimono anche
attraverso il linguaggio amoroso). Gionata, andando contro le ragioni del sangue e il suo stesso
interesse di erede al trono, aveva lucidamente compreso che il futuro sarebbe stato luminoso solo
per Davide, amico e alleato. E questa vicenda interiore e sociale stimolerà sant’Ambrogio, che
esalterà la straordinaria forza dell’amicizia, capace di andare oltre gli stessi vincoli di sangue,
pronta anche a «dare la vita per il proprio amico» (Giovanni 15,13).

Le due colpe del re

Anche al centro di questa pagina, come abbiamo fatto la scorsa settimana, poniamo una delle
figure più affascinanti e celebrate dall’Antico Testamento, quella di Davide. Per lui tutto era
cominciato quel giorno in cui su di lui, pastorello «fulvo, con begli occhi e di aspetto gentile» (1
Samuele 16,1-13), il profeta Samuele aveva versato da un corno l’olio sacro, avviandolo così a
essere l’antagonista di Saul, l’eletto ormai reietto. L’indimenticabile duello col corpulento eroe
filisteo Golia, vinto col sasso di fionda scagliato nel nome del Signore (1 Samuele 17), l’ingresso a
corte prima come musico e poi come genero del re Saul, l’amicizia profonda (a noi già nota nei
suoi risvolti anche politici) con Gionata, figlio del sovrano in carica, la vita partigiana nel deserto
sotto la pressione costante dell’esercito regolare ebraico segnano la prima fase della vita di
Davide, racchiusa nel primo Libro di Samuele.
Davide risaliva forse a questo suo passato, mentre cantava la morte tragica in guerra di Saul e
Gionata in quella lamentazione da noi già presentata. Ora egli aveva di fronte un regno ebraico
allo sfascio, premuto dai vittoriosi Filistei e diviso all’interno da dissidi socio-politici. Eletto dalla sua
tribù, Giuda, come re, Davide aveva compreso subito la necessità di trovare una nuova capitale,
libera da legami tribali. Aveva, allora, conquistato Gerusalemme, strappandola con uno
stratagemma al dan indigeno cananeo dei Gebusei che l’occupavano. Vi aveva trasferito l’arca,
emblema delle origini sinaitiche e vessillo dell’unità religiosa e nazionale di Israele, e aveva avviato
la costituzione di uno Stato in senso stretto.
Eppure, nel racconto del secondo Libro di Samuele, si delinea una diversa figura di Davide,
tratteggiata secondo una dolente e spesso debole umanità. È questo il Davide storico, differente
dal Davide della fede, segno luminoso della speranza messianica e di quello stesso Cristo che
sarà interpellato come “figlio di Davide”. Basterebbe la carnale e solare Betsabea al bagno di
Rembrandt conservata al Louvre o la vitale e fatale Betsabea di uno dei maggiori romanzieri
svedesi contemporanei, Torgny Lindgren (ed. Iperborea, 1988), o quella, più angelica ma non
meno intrigante, di Chagallal Museo del messaggio biblico di Nizza per evocare la storia di amore
e morte, di passione e delitto che lega il re a questa donna, moglie di un suo ufficiale, Uria.
Il sovrano la intravede nuda su una terrazza di Gerusalemme, mentre egli riposa nel palazzo reale
in un caldo pomeriggio estivo. Sarà per Davide una vera e propria passione che non conosce limiti,
neppure quelli morali, come è descritto in due pagine strepitose per finezza narrativa, i capitoli 11 e
12 del secondo Libro di Samuele. Eliminato fisicamente con un falso alibi morale il marito Uria,
Davide sposerà Betsabea. Ma nel silenzio complice dei sudditi, che fingono di non vedere
l’adulterio e l’assassinio perpetrato dal re, si leva alta e impavida la voce del profeta Natan che
punta l’indice contro Davide: «Sei tu quell’uomo!», l’uomo che ha strappato a un povero la
pecorella piccina e unica, come dice la trasparente parabola usata dal profeta per denunziare la
colpa del re.

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Figlio mio! Assalonne, Figlio Mio!

Ancora una volta ritorniamo sulla figura di Davide. L’abbiamo lasciato sotto l’indice d’accusa del
profeta Natan che denuncia il delitto dell’adulterio con Betsabea e dell’assassinio di suo marito
Uria. Espiata la colpa, sposata regolarmente la donna che gli darà il futuro erede al trono,
Salomone, su Davide s’abbatte un’ulteriore tempesta, il colpo di stato ordito da un altro suo figlio, il
bell’Assalonne.
È una vicenda che vede stupri, balenare di lame, tradimenti, violenze e inganni e persino
l’umiliazione della fuga di Davide da Gerusalemme per colpa di questo figlio dall’animo ribelle e fin
parricida.
Ma l’impressionante e mirabile racconto dei capitoli 13-19 del Secondo libro di Samuele, un
racconto tutto da leggere, sbocca in tragedia. Nonostante l’ordine del re, il ministro delle forze
armate, Ioab, nipote di Davide, uccide Assalonne in battaglia.
Allora risuona di stanza in stanza, nella residenza provvisoria del re esule in Transgiordania, un
grido disperato: «Figlio mio! Assalonne, figlio mio!». Eppure loab, implacabile, costringe questo
padre, che non può odiare il figlio anche se ribelle, a presiedere la parata militare per la vittoria sui
rivoltosi.
Davide appare, dunque, nella narrazione biblica in tutta la sua umanità.
È questo il Davide amato dalla letteratura contemporanea: pensiamo al Pianto del figlio di Lais di
Bacchelli, al Davide di Coccioli, al tormentato e un po’ tenebroso personaggio che emerge nel
Resoconto sul re Davide dello scrittore tedesco Heym (1972) o alla figura un po’ Canagliesca
proposta dall’americano Heller che nel suo romanzo Lo sa Dio gli attribuisce fantasiosamente il
Cantico dei cantici; come canto carnale in onore dell’amata Betsabea.
Un Davide che cade in disgrazia anche presso Dio quando ordina il censimento come atto di
orgoglio politico-religioso, sollevando la dura reazione divina, placata dall’altare votivo che sarà
quasi la prima pietra di quel tempio di Sion che solo suo figlio Salomone riuscirà a erigere.
E, alla fine, ecco il vecchio Davide dalle membra aride e quasi cadaveriche, vanamente riscaldate
da una vergine, mentre si stanno consumando gli intrighi di una successione difficile che vedrà
ancora uno spargimento di sangue.
Alle sue spalle scorreva, dunque, un fiume di ricordi spesso tristi.
Un ritratto sconcertante e quasi scandaloso quello davidico dei libri biblici di Samuele.
A partire da quel pomeriggio, quando i suoi occhi si erano fissati sulla pelle folgorante di Betsabea,
era stata per Davide una specie di discesa agli inferi i cui gironi erano fatti di delitti, di passione, di
dolori, di rivolte, di morti. Eppure egli rimarrà nella memoria come l’anticipazione del volto glorioso
del Messia, trasfigurato come il David di Donatello, di Michelangelo, di Raffaello, del Bernini, del
Reni e di tanti altri scultori e pittori.
Sarà solo il pittore francese Rouault a offrirci l’amara realtà finale di Vecchio re (1936), quella del
Davide della storia e non solo della speranza ideale.

L'Arcangelo Michele sconfigge Satana

Se non cadesse come quest’anno di domenica, il 29 settembre è la festa liturgica dei santi
arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele, figure ben note alle Scritture. Ad attribuire a questa data la
celebrazione è il fatto che in questo giorno si commemorava la dedicazione della chiesa in onore di
san Michele eretta sulla via Salaria a Roma nel V secolo. Ebbene, la figura di questo arcangelo ci
permette di presentare un curioso e suggestivo scritto neotestamentario di solito poco menzionato,
la Lettera di Giuda, nome di due apostoli (uno fu il traditore) e di un "fratello" di Gesù. È probabile,
però, che l’autore sia in realtà un predicatore giudeo-cristiano anonimo, che si è riferito a uno di
questi due personaggi come a maestro e ad "autorità”.
Ora, l’elemento forse più strano di questo testo neotestamentario, che è come un breve messaggio
(25 versetti in tutto), è l’uso, accanto all’Antico Testamento, di scritti apocrifi, in particolare il
popolare e importante Libro di Enoch («Profetò Enoch, settimo dopo Adamo...», vedi versetti 14-
15). Ma il nostro predicatore cita anche un altro apocrifo, L’assunzione di Mose, e qui entra in
scena Michele: «L’arcangelo Michele, quando — contendendo col diavolo — disputava per avere il
corpo di Mosè, non ardì accusarlo con parole offensive, ma disse soltanto: Ti condanni il Signore!»
(versetto 9).
In quell’apocrifo, infatti, si immaginava una lotta tra Satana e Michele — l’angelo che nel libro del

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profeta Daniele (10,13) difende la causa di Dio e del suo popolo — per ottenere il cadavere di
Mosè: bastò un semplice ordine a strappare al diavolo il corpo santo della guida di Israele nel
deserto. Ma Giuda combatte contro una più attuale pretesa demoniaca, quella dei falsi maestri che
s’infìltrarono nella comunità cristiana. Gli epiteti che riserva loro sono coloriti (tra l’altro, l’autore
scrive in un buon greco): empi e dissoluti, impuri, ribelli, infami, sobillatori, svergognati, adulatori,
superbi, impostori.
Basterebbe solo leggere questo brano vivacissimo e fin pittoresco: «Essi sono la sozzura dei vostri
banchetti ove siedono a mensa senza vergogna, pascendo sé stessi; sono come nubi senza
pioggia spazzate via dai venti, alberi di fine stagione privi di frutti, due volte morti e sradicati, onde
selvagge del mare che schiumano le loro infamie, astri erranti ai quali è destinata la caligine della
tenebra eterna» (versetti 12-13).
La Lettera di Giuda (che, se fosse l’apostolo, forse aveva il secondo nome o il soprannome di
Taddeo, dato che così lo citano Marco 3,18 e Matteo 10,3) è, allora, un monito severo e brillante al
tempo stesso contro una piaga costante della cristianità, quella delle degenerazioni religiose,
capaci di far impallidire «la fede santissima» e di disgregare «l’edificio spirituale» della Chiesa
(versetto 20).
Il filosofo inglese del’600 David Hume ricordava che «gli errori dei filosofi sono ridicoli, ma quelli
della religione sono sempre pericolosi».

Le ammonizioni dell'apostolo Giacomo

Si può leggere il Nuovo Testamento con la matita rosso-blu dell’insegnante di greco? Anche se
non è il massimo, lo si può fare e si avrebbe anche qualche sorpresa: la Lettera agli Ebrei usa un
greco molto sofisticato; elegante è quello dell’evangelista Luca, raffinata è la Prima Lettera di
Pietro, buona — sempre a livello linguistico — è la Lettera di Giuda che abbiamo presentato la
scorsa settimana. Per finire l’elenco degli scrittori migliori del Nuovo Testamento manca ancora un
nome, Giacomo, autore dell’omonima Lettera (in realtà ha la tonalità dell’omelia), che, pur essendo
di chiara matrice giudeo-cristiana, riflette anche forme espressive della cultura ellenistica (ad
esempio, la “diatriba” stoica).
Noi, però, ci interesseremo di un’altra bellezza di questa Lettera, bellezza che, comunque, è
sostenuta da quella esteriore: si tratta, cioè, della sua dottrina che è formulata con intensità e
passione. Facciamo subito un esempio che, tra l’altro, ci permette di illustrare una tesi a prima
vista in contrasto con la teologia paolina, quella delle opere giuste (in realtà, si tratta di prospettive
differenti, anche se molto marcate).
Il predicatore rappresenta quasi visivamente una scenetta che sembra ripresa dal vivo. Siamo in
un’assemblea liturgica cristiana: all’improvviso, un mormorio segnala l’ingresso di un magnate
«con tanto di anello d’oro al dito e con uno splendido abbigliamento».
Nella confusione, dietro di lui, s’insinua furtivo un poveraccio in abiti logori. Il presidente
dell’assemblea si rivolge con rispetto al primo e lo fa subito accomodare su un seggio di prestigio.
Scoprendo, però, anche il misero che si era intrufolato, lo invita brutalmente ad accucciarsi a terra.
Il nostro predicatore (Giacomo il maggiore o il minore, entrambi apostoli, o Giacomo, “fratello” del
Signore e vescovo di Gerusalemme?) a questo punto si lascia conquistare dallo sdegno e con foga
oratoria denuncia l’ingiustizia e successivamente, con maggior pacatezza, passa appunto al
discorso sulla fede che «se non ha le opere, è morta in sé stessa» (si legga l’intero capitolo 2).
Ancora, si provi a leggere l’attacco veemente del capitolo 5: «Ora a voi, o ricchi: piangete e urlate
per le sciagure che vi sovrastano! La vostra ricchezza è marcita, il vostro abbigliamento è preda
delle tarme... il salario frodato ai lavoratori che hanno mietuto i vostri campi grida e le proteste dei
mietitori sono giunte alle orecchie del Signore degli eserciti!...» (5,1-5). Un ultimo esempio.
Stupenda è la pagina del capitolo 3, interamente costellata di immagini folgoranti: il morso dei
cavalli, il timone che regge la rotta delle navi nelle bufere, il fuoco di pochi sterpi che dilaga nella
foresta, la dose minima di veleno che insidia la vita dell’intero corpo, la sorgente inquinata, i
"mostri" biologici (un fico che produce olive o una vite che germoglia fichi!). Il tutto per mettere in
guardia contro quel “piccolo organo” che è la lingua, capace di enormi danni, di generare
benedizione e maledizione, dolcezza e veleno.

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Il Signore guarisce tutte le tue malattie

«Vi salutano Luca, il caro medico, e Dema». Così si legge nella finale della Lettera di Paolo ai
Colossesi. Ed è da questo brevissimo inciso che la figura del terzo evangelista è entrata nella
tradizione anche come quella di un medico.
Un prologo greco premesso al suo Vangelo nel II secolo ci offre una specie di carta d’identità così
concepita:
«Luca, siro-antiocheno, di arte medico, divenuto discepolo degli apostoli, seguì Paolo sino al suo
martirio e il Signore senza distrazione.
Non fu sposato, non ebbe figli, morì in Beozia (Grecia) all’età di 84 anni, pieno di Spirito Santo».
Noi non vogliamo, però, parlare di Luca — di cui ricorre la festa liturgica il prossimo 18 ottobre e il
cui Vangelo è stato spesso da noi evocato nelle sue pagine più belle —, bensì fermarci sulla sua
prima professione, legata alla medicina. Questo ci porta a interessarci di una suggestiva pagina di
un sapiente biblico del II secolo a.C., il Siracide, nella quale si ha un ritratto del medico (e un
cenno anche al farmacista).
Poiché non possiamo qui citarla integralmente, ne suggeriamo la lettura nel capitolo 38 di quel
libro biblico, ai versetti 1-14.
È, però, necessaria una premessa. Nell’Antico Testamento domina una tesi che vede un nesso
intimo tra malattia e peccato. Se tu soffri, è perché stai espiando un peccato: anche i discepoli di
Gesù condividono questa teoria quando, davanti al cieco nato, s’interrogano su chi mai abbia
peccato perché quel misero sia venuto al mondo con quel terribile handicap (Giovanni 9, 1-2).
È naturale che in questa prospettiva il primo medico è Dio che deve perdonare il peccato.
Ripetutamente nell’Antico Testamento si leggono frasi di questo genere:
«Il Signore perdona tutte le colpe, guarisce tutte le tue malattie» (Salmo 103,3).
Anche il Siracide nel suo profilo del medico tiene conto di questa tesi quando, ad esempio, scrive:
«Figlio mio, nella tua malattia..., prega il Signore ed egli ti guarirà... Offri incenso e un sacrificio di
fior di farina e vittime grasse secondo le tue possibilità» (38, 9.11).
Ma c’è una svolta, che sicuramente è influenzata dalla cultura ellenistica respirata dal nostro
autore. Egli, infatti, dichiara senza esitazioni che Dio ha creato anche il medico e le varie terapie
farmacologiche.
Ecco le sue parole: «Onora il medico perché hai bisogno di lui, anche lui è stato creato da Dio, dal
quale riceve sapienza... La scienza del medico lo fa stare a testa alta... Dio dalla terra produce
medicamenti e l’uomo assennato non li disprezza... Con essi il medico lenisce il dolore e il
farmacista prepara i suoi composti... (Dopo aver pregato) Fa’ posto al medico, non ti abbandoni,
perché ti è necessario. Ci sono occasioni in cui il successo è nella sua mano: anch’egli infatti
prega Dio perché la sua diagnosi abbia buon esito e la terapia possa salvare la vita».
La versione che abbiamo proposta, pur tenendo talora conto della traduzione greca — che
conserva integralmente lo scritto dal Siracide — si basa sull’originale ebraico scoperto nel secolo
scorso. In esso è evidente come preziosa sia l’opera del medico, senza per questo dimenticare la
visione religiosa globale della vita umana offerta in quella pagina.

Scorrano come acqua Diritto e Giustizia

C'è un uomo che sta fuggendo su una strada. Alle spalle egli sente l’ansito di un leone che lo
insegue. Con terrore vede che da una pista del deserto sta avanzando verso la strada un orso. Ma
ecco, più in là, un casolare. Il fuggiasco vi si precipita, sbarra la porta e s’appoggia con una mano
alla parete: una serpe velenosa gli si attorciglia alla mano e lo morde.
Così, con questa scena vivacissima ma anche tragica, il primo dei profeti di cui ci sia giunto il
messaggio scritto, Amos, descrive l’inesorabile giudizio divino sul male dell’umanità (5,19-20).
Egli era pecoraio e coltivatore di sicomori, nato nell’VIII secolo a.C. a Teqoa, un villaggio contadino
a 20 chilometri a sud di Gerusalemme. A quell’orizzonte campestre e agricolo egli attingerà per dar
colore e calore alla sua predicazione, centrata soprattutto sulla giustizia. Come egli dirà al sacer-
dote ufficiale del santuario del re di Israele Amasia, la sua era stata una vocazione né cercata né
attesa: «Non ero profeta, né figlio di profeta; ero un pastore e raccoglitore di sicomori; il Signore mi
prese mentre ero dietro al bestiame e mi disse: va’, profetizza al mio popolo Israele» (7,14-15).
Era stato, così, costretto a recarsi nella capitale del regno ebraico del nord, Samana, a entrare nei
palazzi, provando disgusto per la dolce vita delle classi alte, per le nobildonne pasciute ed eccitate

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come “vacche”, le cui labbra carminio egli vede già sanguinanti quando saranno arpionate con ami
da pesca, secondo la crudele prassi dei vincitori (4,1-2). Dio non accetta l’alibi di un culto esteriore
e dichiara: «Io detesto, rigetto le vostre feste, non gradisco le vostre assemblee. Anche se voi mi
offrite olocausti, io non accetto le vostre offerte e le vittime grasse dei sacrifici neppure le guardo.
Lontano da me il fracasso dei tuoi canti, il suono delle tue arpe non lo sopporto! Piuttosto scorra
come acqua il diritto e la giustizia come un torrente perenne!» (5,21-24).
L’ironia è sferzante: Dio volge lo sguardo altrove e non accoglie i riti; musiche e inni sono per lui
solo fracasso quando — come accade a Samaria — fuori del santuario, sul mercato «si vende
come schiavo il giusto per denaro e il povero per un paio di sandali e si calpesta come polvere la
testa dei poveri» (2,6-7).
A più riprese, allora, Amos dipinge l’irruzione divina della storia: icastiche sono le cinque visioni
finali del suo libro (capitoli 7-9), un libretto che è comunque tutto da leggere. il giudizio di Dio è
raffigurato anche in queste visioni con immagini campestri.
Ecco le cavallette che piombano come uno stormo di cavalieri sulle coltivazioni riducendole a
terreno bruciato. Ecco la siccità che è simile a un fuoco che dissecca le sorgenti e la vegetazione.
Ecco poi il filo a piombo che un muratore sta tirando su una parete storta che dev’essere perciò
demolita e, infine, un canestro di fichi maturi.
Qui il profeta gioca su due parole ebraiche affini nella pronuncia antica, qais, “fico o frutto maturo”,
e qes, “fine”.
Ormai incombe la fine e un sudario di morte si stenderà sulle orge, sulle feste, sulle prevaricazioni
e sulle ingiustizie. Eppure il filo verde della speranza non si spezza. Dio «rialzerà la capanna
caduta di Davide, ne riparerà le brecce e ne risolleverà le rovine, ricostruendola come ai tempi
antichi» (9,11). Allora «manderò la fame nel paese, ma non sarà fame di pane né sete di acqua,
bensì di ascoltare la parola del Signore!» (8,11).

La fede dei martiri precristiani

Un bel morir tutta la vita onora», così cantava Francesco Petrarca in una delle sue “canzoni”. Ed
era ancora lo stesso poeta nelle sue Familiari a dichiarare: «Affrontare lietamente la morte è segno
di profondissima felicità; affrontarla tremando è segno di intima fragilità». Una lezione di questo
genere ci viene offerta da una pagina di grande intensità, il capitolo 7 del secondo Libro dei
Maccabei, un’opera non priva di enfasi e di passione destinata a esaltare le gesta di Giuda
Maccabeo e dei suoi seguaci, che si ribellarono al potere siro-ellenistico dando il via a una vera e
propria epopea nazionale (167-164 a.C.). All’eroe ebraico il grande musicista Georg F. Hàndel
dedicò nel 1745 un oratorio intitolato appunto Giuda Maccabeo.
Ma nell’interno della narrazione, piena di pathos, delle gesta del protagonista, l’autore del secondo
Libro dei Maccabei — che non è la continuazione ma la libera e autonoma ripresa dei temi del
primo Libro — incastona alcuni episodi emblematici.
È il caso, ad esempio, del martirio di Eleazaro, uno scriba novantenne che rinunzia alla vita pur di
non violare la tradizione di Israele (6,18.31). È il caso della madre di sette figli che è al centro del
brano a cui accennavamo. Essa resiste, come una presenza statuaria, di fronte alla crudeltà
implacabile dell’oppressore, in una scena che sembra l’anticipazione delle infamie innominabili ed
efferate del nazismo.
Il racconto appartiene al genere delle “Passioni dei martiri” e, proprio perché assomiglia alle
analoghe descrizioni della fine dei martiri cristiani, ha fatto sì che anche queste giovani vittime
entrassero nel calendario e nel culto cristiano.
Noi, però, vorremmo porre l’attenzione — in questa narrazione ritmata sulle torture e sulla morte di
ciascuno dei sette fratelli, dal maggiore al più piccolo — su un messaggio che la madre eroica
cerca di istillare nelle menti dei figli e che vorremmo riproporre: «Non so come siete apparsi nel
mio grembo; non sono stata io a darvi spirito e vita, né ho formato le membra di ognuno di voi.
Senza dubbio il Creatore del mondo, che all’origine ha plasmato l’uomo e ha provveduto alla
generazione di tutti, per la sua misericordia vi restituirà di nuovo spirito e vita» (7,22-23).
Su questa speranza nell’oltrevita si regge la costanza dei giovani martiri.
Così, il secondogenito reagisce al tiranno con queste parole: «Tu, o scellerato, ci elimini dalla vita
presente, ma il re del mondo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed
eterna» (7,9). Similmente il quarto dichiara senza esitazione: «È bello morire a causa degli uomini,
per attendere da Dio l’adempimento delle speranze di essere da lui di nuovo risuscitati; ma per te

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la risurrezione non sarà per la vita» (7,14).
La stessa madre, uccisa per ultima, confesserà la sua speranza di fronte al martirio del più piccolo:
«Non temere il carnefice — gli dirà—, accetta la morte, perché io ti possa riavere insieme coi tuoi
fratelli nel giorno della misericordia» (7, 29).
Ormai, dopo le esitazioni di alcuni scritti anticotestamentari, si levava luminosa anche in Israele la
fede nella risurrezione e nell’eterna comunione del giusto con Dio e in Dio.

Nessuno consola un simile dolore

Col grido lacerante e interrogante “Come?" (in ebraico ‘ekah) si apre un poema corale che la
tradizione ha attribuito al profeta Geremia, le Lamentazioni, care alla liturgia giudaica e cristiana
(Venerdì santo).
Quel “Come?” esprime tutto l’attonito stupore di Israele di fronte al tempio diroccato e devastato, in
seguito alla conquista babilonese di Gerusalemme, avvenuta nel 586 a.C. il poema è composto da
cinque suppliche: le prime quattro sono ritmate dall’acrostico alfabetico ebraico in successione,
mentre la quinta si compone di 22 versetti, tanti quante sono le lettere dello stesso alfabeto.
Questo stampo stilistico esteriore non riesce, però, a raggelare l’incandescenza dei sentimenti,
l’ardore del dolore, la veemenza delle immagini tant’è vero che le Lamentazioni hanno ispirato due
partiture musicali importanti del Novecento, la Jeremiah Symphony per mezzosoprano e orchestra
del musicista americano Leonard Bernstein (1949) e i Threni (termine greco usato per tradurre la
parola “Lamentazioni”), composizione per coro e orchestra di Igor Stravinskij (1958).
Naturalmente non possiamo neppure far balenare nelle nostre poche righe la fragranza poetica e
l’intensità appassionata di questi canti sconsolati ma non disperati (nella prima si ripete per cinque
volte il grido: «Nessuno consola!»).
Ci fermeremo, allora, solo sul primo di questi lamenti che introduce Sion personificata come una
vedova desolata e umiliata: «quanti passano per la via fischiano e scrollano il capo sulla figlia di
Gerusalemme: è questa la città che dicevano bellezza perfetta e gioia di tutta la terra?» (si dirà poi
in 2,15). La ragione di questa obiezione è formulata col linguaggio d’amore: Sion ha tradito il suo
Dio lasciandosi affascinare da amanti che l’hanno illusa e abbandonata (gli idoli). Ecco, allora, una
sequenza quasi filmica di scene drammatiche.
Da un lato, l’ebreo errante sotto cieli ignoti; dall’altro, le strade di Sion non più animate dalle voci e
dai canti; in un’altra scena i nemici spavaldi allineano i deportati; più in là, i capi ebraici fuggono,
inseguiti come in una scena di caccia; su un immenso cumulo di macerie «i nemici guardano e
ridono della rovina» della città; un’armata si dà al saccheggio di quanto resta, varcando anche lo
spazio sacro e invalicabile del tempio per sequestrarvi i tesori; tra le rovine gli ultimi ebrei cercano
un tozzo di pane al mercato nero.
Su questa serie di scene tragiche si leva il grido della “vedova” Gerusalemme: «Voi tutti che
passate per la via, considerate e osservate se c’è un dolore simile al mio dolore...» (1,12). Ed è a
questo punto che entra in scena il Signore che è stato il “vendemmiatore” che pigia l’uva
facendone uscire il mosto rosso come il sangue (1,15). L’immagine, che sarà ripresa anche
dall’Apocalisse (14, 18-20), è la sintesi simbolica del giudizio divino sul peccato di Israele. È
questa la ragione ultima della tragedia di Sion e il lamento diventa allora un canto di pentimento,
ma anche di sottile speranza: «Guarda, Signore, quanto sono in angoscia..., perché sono stata
veramente ribelle... Senti come sospiro, nessuno mi consola...!» (1, 20-21).

La voce che risuscita i morti

La pietà popolare riserva questo mese alla memoria dei defunti. Noi vorremmo evocare il tema
della morte dall’angolo di visuale cristiano attraverso una pagina giovannea di straordinaria
potenza narrativa e teologica, quella che descrive la risurrezione di Lazzaro (capitolo 11).
Non vogliamo né possiamo esaurire la densità di quei versetti che al centro hanno un grandioso
“segno” (così Giovanni chiama i sette miracoli di Gesù da lui descritti).
In sintesi, potremmo collegare a questo racconto ambientato nel paese dell’amico di Cristo,
Betania, una frase pronunziata tempo prima da Gesù a Gerusalemme: «I morti udranno la voce del
Figlio di Dio, e quelli che l’avranno ascoltata vivranno» (5,25).
Infatti, al suono imperioso della voce di Cristo, «Lazzaro, vieni fuori!», l’amico esce dalla tomba
rupestre «coi piedi e le mani avvolti in bende e il viso coperto da un sudano».

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È un duplice “segno” pasquale: si fa balenare la futura e gloriosa Pasqua di Cristo, ma si delinea
anche la futura e gloriosa risurrezione del cristiano che ha creduto nelle parole che Gesù in quel
giorno di dolore e di lacrime aveva rivolto a Marta, una delle due sorelle del defunto: «Io sono la
risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non
morrà in eterno» (11, 25-26).
Noi vorremmo ora dare solo uno sguardo al misterioso fascino che ha esercitato questo racconto
giovanneo nei secoli. Nel 1985 uno studioso austriaco, Jacob Kremer, ha pubblicato a Stoccarda
un volume, Lazarus, in cui cercava di inseguire in tutto l’arco della letteratura, dell’arte, della
musica, della teologia e della tradizione popolare la presenza di Lazzaro.
La lista sarebbe sterminata perché andrebbe dalle catacombe di San Callisto a Roma fino a Giotto,
Rubens, Rembrandt, tanto per fare qualche nome di pittori; da Bossuet a Hugo, Tennyson,
Dostoevskij, Wilde, Yeats, Dùrrenmatt, Malraux, Morris West e così via per decine e decine di
scrittori; per non parlare dell’oratorio musicale Risurrezione di Lazzaro di Schubert (1820).
Ci fermeremo brevemente solo su un poco noto dramma di Pirandello, Lazzaro, scritto attorno al
1930. Protagonista è Diego Spina, un fanatico religioso che muore clinicamente per alcune ore,
ma poi ritorna in vita. Con una differenza radicale: egli ora sospetta che oltre quella frontiera ultima
non ci sia nulla.
Il messaggio di Spina diventa, allora, quello di una fede assoluta e cieca: «Tu devi credere e non
sapere». Tuttavia, nello svolgimento del dramma è presente un personaggio vestito come Cristo,
testimone muto del mistero in cui si dibatte l’uomo, implicito rimando a un "oltre" offerto al
credente.
Questa parabola pirandelliana riflette le riserve e le attese dello scrittore siciliano, ma forse
potrebbe stimolarci a comprendere quel miracolo evangelico.
Esso ha, sì, un’incidenza concreta nella storia di un uomo, di una famiglia e di un villaggio.
Ma vuole condurci oltre ciò che incarna: c’è una vita trascendente che non è quella riacquistata da
Lazzaro (vita destinata ancora a finire), ma una “vita eterna”, cioè divina, che è offerta a chi crede
in Cristo e di cui la vita rinnovata di Lazzaro è solo un “segno”.

Svuotò sé stesso facendosi schiavo

Nelle nostre memorie scolastiche la città macedone di Filippi — che portava il nome del suo
fondatore, Filippo II, il padre di Alessandro Magno (IV sec. a.C.) — forse ritorna per la battuta: «Ci
rivedremo a Filippi», riferita dallo storico Plutarco nella sua Vita di Giulio Cesare. Là si era svolta
nel 42 a.C. la battaglia di Ottaviano e Marco Antonio contro Bruto e Cassio. Là si era recato Paolo
ad annunziare il Vangelo di Cristo nel 50 d.C. e a quei cristiani a lui tanto cari aveva indirizzato nel
55-56 una lettera serena e molto affettuosa, pur essendo scritta da un carcere duro, col rischio
della morte: «Anche se il mio sangue dev’essere versato in libagione..., io sono felice e lo sono
con voi... Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che muoia. Per me, infatti, il
vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Filippesi 2,17; ,20-21).
Di questo scritto — in cui, come ha detto uno studioso, Jerome Murphy O’Connor, «si sente
battere il cuore di Paolo» — noi ora sceglieremo solo una pagina celebre.
Si tratta di un inno incastonato nel capitolo 2 (vv. 6-11), forse citazione di un canto battesimale,
ritrascritto e adattato dall’Apostolo.
L’elemento fondamentale di questo testo, denso teologicamente e vigoroso poeticamente, è in un
contrasto.
Da un lato, c’è la discesa umiliante del Figlio di Dio quando s’incarna: egli precipita fino allo
“svuotamento” (in greco c’è una parola divenuta significativa nella teologia, kénosis) di tutta la sua
gloria divina nella morte in croce, il supplizio dello schiavo, cioè l’ultimo degli uomini, per poter
essere in tal modo vicino e fratello dell’intera umanità. D’altro lato, però, ecco l’ascesa trionfale che
si compie nella Pasqua, quando Cristo si presenta nello splendore della sua divinità,
nell’esaltazione gloriosa che è celebrata da tutto il cosmo e da tutta la storia ormai redenti. Si ha
così, attraverso questo contrasto discensionale - ascensionale, la rappresentazione della morte e
della risurrezione, dell’umanità e della divinità di Gesù Cristo. Possiamo a questo punto seguire i
due movimenti dell’inno.
Il primo è quello dello “svuotarsi” che Cristo fa della sua gloria divina, divenendo povero e debole
uomo ebreo, votato alla crocifissione, considerata allora come una morte infamante. Ecco le parole
dell’inno: «Gesù Cristo, pur avendo la condizione di Dio, non volle approfittare dell’essere uguale a

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Dio, ma svuotò sé stesso, assumendo la condizione di schiavo. Divenuto simile agli uomini e pre-
entatosi in forma umana, umiliò sé stesso, facendosi obbediente fino alla morte di croce» (2, 6-8).
Il secondo movimento di questo canto — che, a distanza di due millenni, è ancor oggi usato dalla
liturgia — dipinge invece la grande svolta pasquale che parte da quella tragica morte sul Golgota.
Per tre volte si ripete il termine “nome” che, nel mondo biblico, designa la persona e la sua dignità.
Ebbene, il Cristo glorioso riottiene il suo “nome” divino che lo rivela Signore di tutto l’essere,
luminoso nello splendore della divinità.
Ecco le parole dell’inno: «Dio lo ha sovraesaltato, gratificandolo con un nome che supera ogni altro
nome, affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio degli esseri celesti, terrestri e sotterranei
e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore a gloria di Dio Padre» (2, 9-11).

Il primato di Cristo unico mediatore

Chi va oggi a cercare l’antica Colossi, «città grande, fiorente, con molti abitanti», come la definiva
lo storico greco Senofonte, s’imbatte in una ristretta area archeologica nei pressi del villaggio di
Honez, nella Turchia centrale. È solo un cumulo di pietre su cui regna il silenzio; eppure il nome
antico di questa ex città risuona ancor oggi per merito di san Paolo, che però mai si recò a Colossi
di Frigia, la cui Chiesa fu fondata da un suo discepolo, Epafra, originario di quella regione. A quei
cristiani, infatti, l’Apostolo inviò una lettera, così originale per stile e contenuti da aver fatto
ipotizzare a molti studiosi una mano diversa, quella di un suo discepolo.
Noi scegliamo di fermarci sulla pagina d’apertura di questo scritto. Reagendo a certe stravaganze
dei cristiani colossesi che erano tentati da forme rischiose di fede (si condanna in 2,18
un’eccessiva «venerazione degli angeli», ma anche si denunciano varie degenerazioni religiose),
l’autore della Lettera vuole quasi operare una bonifica spirituale, riproponendo l’unicità della figura
di Gesù Cristo come Salvatore. E lo faceva evocando o creando un inno solenne che è posto
appunto all’inizio dello scritto. Forse è da considerarsi — come quello di Filippesi 2, presentato la
scorsa settimana, e come quello che apre la Lettera agli Efesini (1,3-14) — la citazione di un canto
in uso nelle Chiese dell’Asia Minore, sia pure con qualche ritocco e aggiunta.
Nei versi che ora leggeremo, scanditi dalla ripetizione del termine greco che indica la totalità,
panta, emerge grandiosa la figura di Cristo, Signore di tutto l’essere cosmico e storico, Sapienza
creatrice e pienezza di ogni vita e salvezza, sorgente di armonia e di pace universale. Questo inno,
perciò, ben s’adatta alla solennità di Cristo re che celebriamo questa domenica e ben esorcizza le
tentazioni dei Colossesi di ridurre Gesù forse al primo degli angeli, una specie di guida preminente
in mezzo ad altri mediatori tra l’umanità e Dio. Egli, invece, è l’unico mediatore tra terra e cielo e
non ci sono salvatori concorrenti.
L’inno si svolge in due movimenti. Il primo, in modo molto nitido, esalta il primato di Cristo come
creatore dell’essere. Ascoltiamo questi versi potenti e incisivi. «Cristo è immagine del Dio invisibile,
primogenito di ogni creazione poiché in lui sono state create tutte le realtà, quelle nei cieli e quelle
sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili... Tutto è stato creato per mezzo di lui e in vista di lui.
Egli è prima di tutto e tutto in lui sussiste» (1, 15-17).
Al secondo movimento del canto è assegnato, invece, il compito di delineare la funzione storica di
Cristo, cioè quella di Salvatore dell’umanità, attraverso la Chiesa che è il suo corpo continuamente
presente e operante nel tempo e nello spazio, del quale egli costituisce il capo. Con questa azione
di salvezza egli riesce a riconciliare l’umanità in sé stessa e con Dio. Lasciamo la parola all’inno:
«Cristo è il capo del corpo, cioè la Chiesa, il principio, il primogenito dei risorti dai morti, così da
primeggiare su tutti. Poiché piacque a Dio di far abitare in lui ogni pienezza e per mezzo suo di
riconciliare tutta la realtà in lui, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui,
sia le realtà della terra sia quelle del cielo» (1,18-20).

Rapito in estasi dalla terra al cielo

Siamo nell’anno 51. San Paolo è a Corinto. Alle spalle ha il ricordo delle settimane trascorse a
Tessalonica, capitale della Macedonia, dell’accoglienza festosa dei pagani, della dura reazione
degli Ebrei là residenti, della sommossa da loro ordita e della fuga a cui è stato costretto, il
discepolo Timoteo gli reca ora notizie della neonata Chiesa tessalonicese e delle sue prime
incertezze.
Paolo decide, allora, di inviare un messaggio a quella comunità, «da leggersi a tutti i fratelli»: è la

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prima Lettera ai Tessalonicesi, il primo scritto paolino a noi giunto, quasi certamente il primo testo
del Nuovo Testamento.
Proponiamo ora questa Lettera anche perché ben s’adatta al clima dell’Avvento che sta iniziando.
Serpeggia, infatti, nelle pagine di quest’opera una specie di brivido d’attesa: la Chiesa di quella
città sentiva come imminente la nuova e definitiva venuta del Signore per suggellare la storia.
L’Apostolo cerca di contrastare questa tensione eccessiva che, come si vedrà, svaluta l’impegno
nel presente e, usando un’immagine introdotta da Gesù, elimina ogni tentazione di avere oroscopi
sulla fine del mondo: «Il giorno del Signore verrà come un ladro nella notte» (5,2).
È, certo, necessaria la vigilanza e la veglia, senza però fanatismi e ossessioni perché «Dio non ci
ha destinati all’ira ma a ottenere la salvezza per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo» (5,9).
Anzi, contro l’eccitazione di coloro che si dimettono dalle responsabilità quotidiane per decollare
idealmente verso quell’alba eterna di luce, Paolo raccomanda come «punto d’onore quello di
vivere in pace, di attendere ai propri impegni, di lavorare con le proprie mani così da condurre una
vita dignitosa di fronte agli estranei e da non aver bisogno di nessuno» (4,11-12).
Tuttavia anche l’Apostolo vuole gettare uno sguardo su quell’orizzonte atteso ma ignoto, forse per
non sembrare troppo evasivo. Egli cerca, però, di risolvere solo un quesito secondario avanzato
dai cristiani di Tessalonica: nell’istante supremo, coloro che saranno ancora in vita alla seconda
venuta del Cristo quale sorte avranno? Ecco la risposta paolina intrisa del linguaggio simbolico
apocalittico, linguaggio che abbiamo già imparato a conoscere a suo tempo leggendo il libro
dell’Apocalisse: «I morti in Cristo risorgeranno. Poi, noi ancor vivi e superstiti, saremo rapiti
insieme con loro nella morte per andare incontro al Signore nell’aria; e così saremo sempre con il
Signore» (4,16-17).
Scenari cosmici, dunque, per un passaggio indolore dal tempo all’eterno, dallo spazio terreno
all’infinito celeste. Una visione che l’Apostolo nella prima Lettera ai Corinzi in qualche modo
varierà, introducendo la necessità di una metamorfosi radicale anche dei viventi in quel transito
estremo: «Non tutti moriremo, ma tutti saremo trasformati» (15,51). La risposta di Paolo, a quanto
pare, non basterà a calmare i Tessalonicesi. Ci sarà una seconda Lettera a loro indirizzata, più
tesa e di più ardua lettura, segno comunque di un cristianesimo che non si perde e disperde nelle
pieghe della storia, ma che neppure migra verso i cieli mitici e mistici dell’alienazione religiosa.

Il Signore ha risposto allo sfogo di Anna

Che il nome della madre di Maria di Nazaret fosse Anna a noi è noto solo attraverso un testo
apocrifo (cioè non “canonico” e “ispirato”), il Protovangelo di Giacomo.
Alla base di questa identificazione c’è forse uno spunto biblico.
Anna, infatti, è il nome della madre del grande profeta Samuele, colei che nel suo cantico per la
nascita prodigiosa del figlio (era, infatti, sterile) aveva offerto la base sulla quale Maria avrebbe poi
intessuto il suo Magnificat.
Noi ora vorremmo proprio offrire alla lettura quell’inno, citato nel primo Libro di Samuele (2,1-10).
In realtà gli studiosi sono convinti che il canto sia stato posto successivamente sulle labbra di Anna
perché esso ha le caratteristiche di un salmo regale in cui il sovrano ebraico, più debole rispetto al-
le grandi potenze, è sorretto ed esaltato dal Signore in cui egli confida. Questa è stata anche l’es-
perienza di Anna, donna umiliata perché sterile (in una civiltà agricola una donna che non genera
è considerata come un ramo secco), ma sostenuta e glorificata da Dio che le dona un tale figlio.
Il movimento del cantico — che in filigrana rivela molti rimandi ai Salmi biblici — è teso lungo due
traiettorie: da un lato il re ebreo debole, Israele povero, Anna sterile vincono i potenti, i ricchi e le
rivali feconde perché dalla loro parte si schiera Dio; dall’altro lato, la vittoria offerta dal Signore è
totale perché supera tutti i limiti umani, varcando anche la frontiera ultima, quella della morte.
Ascoltiamo, allora il cuore dell’inno, ove le due componenti appaiono nitidamente e ove si intuisce
di già il respiro del Magnificat: «L’arco dei forti s’è infranto, i deboli sono stati rivestiti di vigore. I
sazi sono andati a giornata per un pane, gli affamati hanno finito di faticare. La sterile ha partorito
sette volte, la ricca di figli è sfiorita. È il Signore che rende povero e arricchisce, abbassa ed esalta.
Dalla polvere solleva il misero, e il povero dall’immondizia, e li fa sedere coi capi del popolo,
assegnando loro un seggio di gloria» (2,4-8).
La finale del cantico è ugualmente significativa perché fa balenare il volto del re messia: «Il
Signore.., darà forza al suo re, eleverà la potenza del suo consacrato (in ebraico “messia”)» (2,10).
L’inno di Anna, allo stesso modo di quello che Maria intonerà davanti a Elisabetta, riaccende la

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fiducia e la speranza degli umili e degli umiliati. I “piccoli” del mondo si sentono rappresentati da
Anna e da Maria. Lo scrittore francese Georges Bernanos nel suo famoso romanzo Diario di un
curato di campagna (1936) affermava: «Lo sguardo della Vergine è il solo sguardo veramente
infantile, il solo sguardo da bambino che si sia mai elevato sulla nostra vergogna e sulla nostra
infelicità».
Questo sguardo “infantile” di fiducia era balenato anche negli occhi dell’antica donna ebrea Anna
che, come racconta il primo Libro di Samuele, nella sua amarezza era subito corsa davanti al
Signore nel santuario di Silo. E al sacerdote Eli, sconcertato perché — contro l’uso allora corrente
— pregava in silenzio, essa aveva risposto con semplicità: «Sto sfogandomi davanti al Signore»
(1,15). E il Signore era l’unico a sentire quella voce silenziosa.

La visione notturna del Re di Babilonia

Libro curioso per varie ragioni è quello biblico di Daniele. Prima di tutto è composto in tre lingue
diverse: aramaico nei capitoli 2-7, greco nei capitoli 13-14 (e in un’aggiunta del capitolo 3),
ebraico il resto. Strana è anche la sequenza delle sue visioni, popolate di belve mostruose, di cifre
mistiche, di catastrofi ed enigmi. Emozionanti i suoi racconti, divenuti un soggetto molto caro alla
storia dell’arte: pensiamo solo a Daniele nella fossa dei leoni o ai tre giovani nella fornace ardente.
Noi ora sceglieremo uno di questi racconti e una visione. Siamo nel capitolo 5. È un notturno:
l’ultimo re babilonese, Baldassar, sta celebrando un sontuoso banchetto. All’improvviso una mano
misteriosa traccia sulla parete della sala una scritta funesta e incomprensibile: mene, tekel, peres,
“misurato”, “siclo”, “metà”, in aramaico. Sarà Daniele, presentato come uno degli Ebrei esuli a
Babilonia, a interpretare quelle tre parole: «Mene Dio ha misurato tuo regno e gli ha posto fine.
Tekel: tu sei stato pesato (come un siclo, unità di peso) sulle bilance e sei stato trovato mancante.
Peres: il tuo regno sarà diviso a metà tra Medi e Persiani» (5,25-28).
In altri termini, è suonata la squilla dell’ultima ora per l’impero babilonese, che cadrà sotto il
giudizio divino. Un numero immenso di artisti, scrittori e musicisti resterà conquistato da questa
parabola sulla fragilità del potere. Lo spagnolo Calderén de la Barca nella Cena de Rey
Baltasar(1634) ne farà un dramma allegorico: Baldassar celebra le nozze con l’Idolatria, ma
incontra la Vanità e la Morte. Goethe si misurerà col personaggio, ritirandosi sconfitto (brucerà il
frammento teatrale, facendone scivolare una parte in un’opera minore). L’inglese Byron intitolerà A
Baldassar (1814) un carme sugli orgogliosi e riprenderà il tema nella Visione di Baldassar (1815).
Inquietante è la ballata Baldassar del tedesco Heine (1822): «Ed ecco, ecco, sulla candida parete /
una mano come d’uomo comparve. / Lettere di fuoco scrisse. / E scomparve».
La scena sarà riproposta in musica negli oratori di Carissimi, Haendel, Telemann, Spohr (Caduta
di Babilonia), fino al dramma musicale Il Banchetto di Baldassar del finlandese Sibeius e alla
ballata per solo e pianoforte Belsazar di Schumann sul testo citato di Heine. Per non parlare
dell’arte: basti citare Rembrandt con una cupa e tesa tela del 1635... Ben diversa è, invece,
l’atmosfera della visione del Libro di Daniele che vogliamo evocare. Nel capitolo 7 entra in scena
un misterioso e glorioso personaggio «simile a figlio di uomo»: a Dio affida un potere universale e
indefettibile. In un quadro di luce e di fulgore questa figura si accosta «sulle nubi del cielo» al
Vegliardo, simbolo di Dio, «che gli dà potere, gloria, regno; tutti i popoli, nazioni, lingue lo servono;
il suo è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto »
(7,13-14).
Queste righe verranno lette come una raffigurazione del Messia, visto ormai in una dimensione tra-
scendente e non più terrena. E Cristo, davanti al sommo sacerdote Caifa che lo sta processando,
oserà applicare a sé quel testo facendo scattare l’accusa di bestemmia: «D’ora innanzi vedrete il
Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio e venire sulle nubi del cielo!» (Matteo 26,64)

Dio si manifesta negli eventi umani

Nella Messa della vigilia di Natale si legge uno dei brani considerati tra i più rilevanti a livello
teologico dell’Antico Testamento. La troviamo nel capitolo 7 del secondo Libro di Samuele. Si tratta
di un oracolo pronunziato dal profeta Natan, la cui vita intersecherà quella del re Davide in alcuni
momenti decisivi della sua vicenda personale e pubblica. Al desiderio del sovrano di erigere un
tempio nella capitale appena costituita, Gerusalemme, così da avere come cittadino del suo regno
anche il Signore, Natan, dopo una personale adesione al progetto, è costretto a opporre

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un’inattesa scelta divina. Infatti il Signore, che era stato nomade con Israele pellegrino nel deserto,
risiedendo nella tenda santa che migrava di tappa in tappa con le altre tende del popolo, decide
ora di rendersi presente nella casa di Davide, cioè nella sua discendenza dinastica fatta di eventi e
persone.
Il Signore, più che essere inquadrato nello spazio sacro della “casa” materiale del tempio,
preferisce essere presente nella casa che egli eleverà a Davide, cioè nel suo casato: «Te il
Signore farà grande, poiché una casa farà a te il Signore» (7,11). In ebraico si gioca
sull’ambivalenza della parola bajit, che significa sia “casa” sia “casato”.
La “casa” dinastica, allora, con la sequenza delle sue generazioni, delle sue vicende, delle sue
date cronologiche, in altri termini, la storia umana è la sede privilegiata in cui Dio agisce e si rivela.
È per questo che si parla per la Bibbia di rivelazione “storica” ed è per questo che Dio è
“Emmanuele”, cioè “con noi”, camminando per le nostre strade e manifestandosi negli eventi
umani non sempre gloriosi. Ma c’è qualcosa da sottolineare ulteriormente nell’oracolo del profeta
Natan.
Dio annunzia una sua presenza speciale nella “casa” di Davide: all’interno di quel filo dinastico,
spesso contorto e aggrovigliato, si distende la promessa di un “figlio di Davide” perfetto, che sarà
presenza suprema di Dio e della sua parola nella storia. È quella che si chiamerà la speranza
messianica: mashiah, “messia”, significa “consacrato” ed è un titolo regale. Il “figlio di Davide”
perfetto sarà, perciò, il “Messia” per eccellenza. Tradotta in greco, questa parola, è christòs, una
designazione che non ha bisogno di essere spiegata perché a Gesù di Nazaret essa è applicata
dalla fede cristiana.
Ma ci sarà una differenza, il “Messia” ebraico rimane ancorato alla “casa” di Davide, sarà una
creatura, sia pure di alta caratura spirituale, essendo il latore del messaggio ultimo di Dio e
l’artefice del progetto divino di salvezza. Il “Cristo” del Nuovo Testamento, pur collegandosi alla
“casa” di Davide e alla storia, è Figlio di Dio. Egli unisce in sé in forma piena umanità e divinità,
presenza storica e manifestazione trascendente e sarà, così, il perfetto mediatore tra Dio e
umanità. È per questo che l’antico oracolo di Natan risuona alle soglie del Natale con una tonalità
medita: Dio in Gesù di Nazaret non ha solo un suo alto rappresentante né il Profeta per
eccellenza, ma ha la sua stessa natura, quella divina.

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