Segni Del Mondo Segni Del Tempo
Segni Del Mondo Segni Del Tempo
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più nobili (vista, udito) e quelli che sono ritenuti esserlo meno (olfat-
to, tatto). Qualcosa che uso in un certo modo, innanzitutto per il
modo in cui è fatto. È un aspetto piuttosto singolare, a pensarci bene,
quanto trascurato. Non volendo considerare qui – per motivi di eco-
nomia – il fumetto come forma d’arte, ma volendoci soffermare sulle
sue qualità di medium 1, non possiamo evitare di fare dei confronti. Il
fumetto è quindi da considerarsi alla stregua di un libro? Da un certo
punto di vista sì, gli somiglia abbastanza, per lo meno in ciò che
riguarda il suo supporto. Se pensiamo a un film, non abbiamo nessun
rapporto con il suo supporto, la pellicola, per lo meno non di natura
tattile, idem con la radio o la televisione. Non si tratta di media che
possiamo manipolare, nel senso letterale del termine. La fruizione
avviene nella distanza di un canale immateriale, quello visivo o auditivo.
E per mezzo di dispositivi tecnici che devono essere attivati per con-
sentire la fruizione 2. Il fumetto, invece, lo teniamo in mano, interagiamo
con il supporto e, proprio per questo motivo primitivo, siamo noi
stessi a condizionare i tempi della fruizione e lo spazio in cui questa
avviene 3. Un film in pellicola lo vediamo per forza di cose in una sala
cinematografica, luogo specializzato per la fruizione di quel tipo di
espressione che è il cinema. Un luogo in cui delle persone stanno
sedute in silenzio di fronte a uno schermo e guardano un film che
scorre4. Si tratta di un medium fortemente prescrittivo (se non coattivo)
1
Queste riflessioni prendono dunque la piega di un’analisi linguistica più che
estetica, volendo descrivere i criteri di funzionamento delle tecniche utilizzate dal
fumetto per comunicare anziché i criteri con cui a esso (e in esso) si attribuisco-
no (e fruiscono) valori estetici.
2
Per vedere un film in pellicola mi servono un proiettore e uno schermo, o
un dvd player collegato a un monitor (se si tratta di un dvd), così come per un
programma radiofonico ho bisogno di una radio e la televisione mi servirà per
i programmi televisivi. Per le opere veicolate da questi supporti sono necessari
dei dispositivi – dei player, direbbero gli inglesi – senza i quali l’opera non
potrebbe “operare” (sul fruitore), cioè darsi alla fruizione. Nel caso del libro, il
player coincide con il fruitore che manipola il supporto, la fruizione avviene
nell’immediatezza del rapporto tra i sensi del fruitore e il supporto sul quale
l’opera è depositata.
3
A parte i condizionamenti derivanti dalle caratteristiche linguistiche del
fumetto stesso, di cui parleremo più avanti.
4
Ripeto ed esagero, per rendere immediatamente evidenti i condizionamenti:
delle persone (non una sola, normalmente) stanno sedute (non in piedi o giron-
zolando per la sala) in silenzio (senza parlare tra sé e sé o con il vicino di poltrona
o, peggio, al cellulare) di fronte (e non di fianco, o di dietro) a uno schermo (una
8
che ci obbliga a una fruizione passiva, costringendoci a un tempo della
fruizione che è stabilito dalla durata reale del film stesso, ovvero il
tempo che impiega una certa quantità di pellicola a scorrere davanti
all’obiettivo del proiettore. E, trattandosi di una velocità di scorrimen-
to costante, la durata della proiezione (del film, dell’opera) sarà pro-
porzionale alla lunghezza della pellicola. Nel fumetto, o in un libro,
invece difficilmente leggerete venti pagine nel doppio del tempo in cui
ne leggete dieci. Ci potreste stare di più, o anche di meno. E io,
probabilmente, per la stessa quantità di pagine, impiegherò più o meno
tempo di Tizio o di Caio. E la radio? In questo senso somiglia un po’
alla televisione. Entrambe hanno qualcosa di diverso dal cinema. Nel
senso che, con le dovute e ragguardevoli differenze, condividono un
aspetto che le avvicina al fumetto: la fruizione avviene usualmente in
un luogo privato anziché collettivo. Da questo aspetto ne consegue,
come corollario, un altro: il tempo della fruizione, nonostante riguar-
di, come nel film, un medium la cui temporalità di manifestazione è
indipendente dalle nostre scelte, è tuttavia sottoposto a una forma di
controllo dell’utente, attraverso una sorta di interazione con il (dispo-
sitivo tecnico del) medium. Quando facciamo zapping (televisivo o
radiofonico) selezioniamo da un flusso preordinato di comunicati pre-
senti nei diversi canali tv o stazioni radio; in questo modo interrom-
piamo volontariamente il flusso temporale della trasmissione. Certo,
non stiamo intervenendo sulla struttura temporale di quel determina-
to telegiornale, ad esempio, così come non intervenivamo su quella
del film in sala. Cioè, non stiamo modificando la “storia” di quel film.
Non interveniamo sulla loro articolazione temporale, né sulla loro
durata. Abbiamo però “addomesticato” sia il luogo della fruizione, ora
sicuramente più personale, privato, che il tempo in cui questa fruizione
avviene, ora “assoggettato” alla nostra competenza, disposizione d’ani-
mo, interesse, disponibilità… Il fumetto, che è un tipo particolare di
libro nelle mie mani, ha appunto questa caratteristica significativa: è
inscritto nel dominio del soggetto fruitore che lo “abita” come fosse
un’architettura. Entro i limiti di possibili derive di senso 5, il fruitore è
sorta di “grande” pagina, distante da noi) e guardano un film che scorre (ineso-
rabilmente, anche in assenza di pubblico, anche se qualcuno arriva in ritardo o
se va via prima della fine).
5
UMBERTO ECO, I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Milano 1990, risvol-
to di copertina: «Se le interpretazioni di un testo possono essere infinite, ciò non
significa che tutte siano “buone”. E, se quelle “buone” sono indecidibili, è però
possibile dire quali siano quelle inaccettabili».
9
libero di decidere quanto adeguarsi alla concezione dell’opera e agli
obblighi che questa gli impone (formato, ritmo…) avendo però la
possibilità di soffermarsi, tornare indietro, saltare da una pagina all’al-
tra, guardare le sole immagini tralasciando i testi, insomma padroneg-
giare la durata e la modalità della fruizione 6. Ancora, l’affinità con il
libro è ovviamente presente già per l’evidente affinità del supporto: un
insieme di pagine disposte in successione e scorse seguendo un percor-
so di lettura standardizzato dall’alfabetizzazione. Ma l’affinità tra fu-
metto e libro è ancora più marcata dalla presenza di un testo che,
insieme alle immagini, forma quello che comunemente intendiamo
per fumetto: una sequenza di immagini e testi disposti narrativamen-
te. Il fumetto si guarda (e poi vedremo in che modo si fa guardare) e
si legge, come è ovvio. Due pratiche congiunte. Si potrà far notare che
anche il cinema o i programmi televisivi contengono a vario titolo
elementi testuali, sia intra che extra-diegetici 7. È vero. Non è questo
infatti l’elemento che distingue il fumetto dagli altri due. A mio avviso
la differenza sostanziale consiste nell’atto della lettura, nel modo in cui
questa avviene. Prima abbiamo detto che è il fruitore a decidere quan-
do, quanto e quanto velocemente leggere, ma direi soprattutto che,
nel caso del fumetto, chi legge è un fruitore particolare: io, tu, lei, non
qualcuno in astratto. A differenza del cinema/tv, in cui l’attività della
lettura è normalmente evitata 8 e la costruzione della narrazione poggia
fondamentalmente su elementi audiovisivi di cui noi siamo gli spetta-
tori, nel fumetto il testo è usualmente elemento fondamentale della
narrazione. Un testo che viene letto dalla mia voce. Così, la voce dei
personaggi o del narratore esterno non è quella di qualcuno che io
ascolto, è la mia voce interiore declinata in modi diversi. Le voci della
narrazione, nelle loro diverse attualizzazioni, vivono della/nella voce
del fruitore. E questo è uno dei modi particolari e significativi con cui
6
Nei limiti consentiti, ovviamente, dalla natura del medium. Tornando alla
metafora architettonica, io posso decidere quanto tempo passare in una stanza
piuttosto che in un’altra, quanta luce fare entrare dalle finestre, come disporre
i mobili e così via, ma certamente non potrò attraversare i muri o camminare
sul soffitto a testa in giù.
7
Per le definizioni di diegetico, extra-diegetico e di altri termini mutuati dal
linguaggio cinematografico cfr. ALESSANDRO DE FILIPPO, Ombre, Aitnaion, Cata-
nia 2004.
8
O relegata a un ruolo secondario (come nel caso di didascalie e testi intra-
diegetici) o esterno (titoli di coda e di testa) alla costruzione della narrazione
dell’opera, sia essa un film, quiz televisivo, spot pubblicitario o altro.
10
il fumetto si relaziona al suo lettore: con cura e passione, dandogli
tempo e chiedendogli di essere assoggettato, non solo con uno sguar-
do, ma anche con delle mani e una voce. Chiedendogli di partecipare
e di soffiare sulle pagine per dar loro vita.
fig. 1
9
La femme 100 têtes (1929), Rêve d’une petite fille qui voulut entrer au Carmel
(1930) e Une semaine de bonté ou le Sept élément capitaux (1934), ora raccolti in
MAX ERNST, Una settimana di bontà. Tre romanzi per immagini, a cura di Giu-
seppe Montesano, Adelphi, Milano 2007.
11
realizzate facendo un po’
di collage dalle fonti più
disparate, tra cui illustra-
zioni popolari del XVIII
secolo, tavole anatomiche,
disegni tecnici, immagini
votìve; fonti ritoccate ad
hoc per poter comporre un
quadro unitario, seppur
discordante proprio per la
natura disomogenea delle
fonti utilizzate. Ernst, nel
decennio precedente, ave-
va realizzato anche nu-
merosi foto-collage in cui
si era divertito ad assem-
blare elementi disparati
dando vita a nuove figure
che oscillavano tra la rico-
noscibilità delle figure
d’insieme e quella dei sin-
fig. 2 goli elementi, di natura
fig. 3
12
differente, che le componevano: un qua-
drupede smagrito (un cavallo “un po’
malato”, come titola Ernst) messo in-
sieme con pezzi meccanici e frammenti
di illustrazioni botaniche [fig. 3]; op-
pure un essere misterioso composto con
delle gambe di donna, un gomitolo e
dei merletti [fig. 4]. Questa accozzaglia
di elementi differenti risultava veramen-
te stridente, molto di più delle illustra-
zioni dei romanzi, proprio per l’uso del
collage fotografico. Il gomitolo era pur
sempre un gomitolo, pur essendo, allo
stesso tempo, anche il busto della nuo-
va figura assemblata 10. I dipinti di Ernst,
fig. 4
che pure riprendevano in alcuni casi la
stessa tecnica dell’accostamento di ele-
menti eterogenei, avevano un effetto
assai differente: surreale, certo, ma in
confronto risultava più surreale il foto-
collage del suo cavallo o dell’anatomia,
frutto di una tecnica che sfruttava la
capacità realistica propria del medium
fotografico per creare chimere (in)vero-
simili. Ecco, la foto ha questo potere:
reifica e individua 11. Attribuisce incon-
futabilmente l’esistenza di quella cosa
e, nello stesso tempo, ci dice che è quella
cosa e non un’altra 12.
Chiudo questa breve digressione po- fig. 5
nendomi una domanda: cosa succede-
10
Come in quelle immagini, dette “ambivalenti”, in cui alternativamente
possiamo vedere una figura o un’altra. In fig. 5, quasi in un ammiccamento
all’inesorabile appassimento della bellezza muliebre, il profilo di una donna anziana
nasconde il busto di una donna giovane girata di tre quarti.
11
Secondo Peirce, la fotografia è indexicale, un indice, un segno la cui
esistenza è emanazione diretta del suo concreto referente, senza il quale il segno
non potrebbe darsi. Un esempio di indice è l’impronta lasciata sul terreno dal
piede che l’ha impressa: niente piede, niente impronta.
12
ROLAND BARTHES, La camera chiara, Einaudi, Torino 1980, p. 7: «La tale
13
rebbe se i fumetti utilizzassero la fotografia anziché il disegno 13? Bene, se
cerco di immaginare un fumetto fatto con fotografie e testi e cerco di
capire cosa me ne sembra, mi viene subito in mente qualcosa di già vi-
sto e che somiglia non a un fumetto, neanche il più sperimentale, ma
piuttosto a un fotoromanzo. In realtà il fumetto, per lo meno nelle sue
più “classiche” espressioni, e il fotoromanzo condividono un modo molto
simile di narrare le storie, un principio di “montaggio” apparentabile e,
spesso, un simile procedimento di “regìa” dei personaggi e di scelta del-
le inquadrature. La differenza quindi non sta tanto nel linguaggio usa-
to quanto nella tecnica di produzione della rappresentazione. La fotogra-
fia, per forza di cose, mi riporta a dei luoghi reali, a delle persone in carne
e ossa. Quel luogo nella foto esiste davvero, da qualche parte sarà; quel
personaggio è interpretato dall’attore Tal dei Tali e senza il suo corpo non
potrebbe esistere (se non sulla carta, o in maniera pirandelliana). Al fu-
metto la realtà non serve, la crea invece di riprodurla; coloro che fanno
vivere la storia parlando, muovendosi tra scene di ogni genere e in ogni
tempo, sono puri personaggi. Qui stiamo parlando del rapporto gene-
rativo tra immagine e realtà, ovvero del rapporto arbitrario che, nella ge-
nerazione dell’immagine, sussiste tra fumetto e realtà che esso rappresen-
ta, al contrario del rapporto necessario che sussiste in fotografia.
I soliti provvidenziali amici informatissimi e fornitissimi (sante
manìe!), sapendo che avrei scritto questo saggio, mi prestarono Torso 14,
una graphic novel ambientata nella Cleeveland degli anni Trenta e ispi-
rata a fatti lì realmente accaduti. Atmosfere da film noir in un bianco e
nero contrastatissimo, dialoghi sincopati, una narrazione tesa e avvin-
cente, un uso sperimentale delle vignette e dell’impaginazione della ta-
vola… L’aspetto che però mi colpì maggiormente, provocando una sorta
di corto circuito della fruizione, fu l’uso della fotografia all’interno del
foto, in effetti, non si distingue mai dal suo referente (da ciò che rappresenta),
o per lo meno non se ne distingue subito o per tutti (ciò che invece fa qualsiasi
altra immagine, ingombra com’è, sin dal primo momento e per sua stessa con-
dizione, della maniera in cui l’oggetto è simulato). […] Per sua natura, la foto-
grafia ha qualcosa di tautologico: nella foto, la pipa è sempre una pipa, ineso-
rabilmente». André Bazin sosteneva che l’immagine fotografica è ontologicamen-
te realistica, non perché non vi intervenga il soggetto creatore, ma per il rapporto
che intrattiene con la realtà: quella cosa, per poter essere fotografata, deve esi-
stere; di conseguenza la fotografia è una sorta di impronta della realtà (cfr.
ANDRÉ BAZIN, Che cos’è il cinema, Garzanti, Milano 1973).
13
Intendo qui un fumetto le cui immagini sono esclusivamente fotografiche.
Mix tra immagini grafiche e fotografiche sono stati più volte realizzati.
14
BRIAN MICHAEL BENDIS, MARC ANDREYKO, Torso, Black Velvet, Bologna 2004.
14
fumetto. In alcuni frangenti era affiancata al disegno, fornendo a que-
st’ultimo il supporto dimostrativo di una storia che si voleva basata su
fatti realmente accaduti; fatti che, in questo modo, erano precisamen-
te ambientati e testimoniati [fig. 6]. Una strategia di costruzione del
fig. 6
15
fig. 7
16
Il fumetto, proprio per questa sua capacità di riferirsi a una realtà
possibile ma non necessariamente esistente, ha la grande opportunità
di rappresentare modelli, ovvero connotazioni ideali di elementi reali,
entità che racchiudono in sé le sole qualità distintive di un certo
valore o concetto e non altre. Torniamo un attimo al fotoromanzo,
ma il discorso vale anche per il cinema: il personaggio è definito da
un insieme di caratteristiche estetiche e morali che prendono vita
attraverso il corpo dell’attore, cioè qualcuno in carne e ossa che vive
nella realtà in cui noi stessi viviamo e che è scelto in base alle sue
caratteristiche “attoriali” (fisiche, performative, etc.). Nel caso del
fumetto le caratteristiche del personaggio sono “calate” in un corpo
irreale e creato dal nulla. In questo caso l’attore (di penna) e il
personaggio coincidono, la “parte” nasce assieme alla sua “maschera”.
E questa entità visibile può assumere le forme più svariate, ossia le
forme più adatte a esprimere quel personaggio. Pippo, scemotto in-
genuo e sbadato, non potrebbe essere disegnato come Archimede
pitagorico! In questo senso diciamo che Pippo è il modello ideale
delle caratteristiche del suo personaggio, e lo è perché somiglia più
di ogni altra possibile figura (nel senso di personaggio disegnato) al
“tipo” scemotto ingenuo e sbadato, per lo meno come ce lo imma-
gineremmo 17. Volendoci spingere ancora più in là in questo discorso,
diciamo che il fumetto ha la grande opportunità di operare su segni
di carattere iconico e simbolico, segni che con la realtà hanno un
rapporto di similitudine o totalmente convenzionale 18. Questo im-
17
Nel cinema spesso succede che a un attore calzi a pennello la parte del
personaggio che interpreta, diventando quasi una “icona” di quel personaggio e
delle qualità che lo identificano: Jerry Lewis è (fa la parte dello) stupido mattac-
chione e difficilmente riusciremmo a immaginarcelo vestire i panni di un ruolo
drammatico e introspettivo. Questa corrispondenza univoca tra quell’attore e quel
tipo di personaggio è ancora più evidente nei film di genere in cui i personaggi
hanno spesso ruoli e caratteristiche stereotipati e definiti quasi in modo manicheo:
il cattivo, la prostituta, l’eroe… Nel teatro di molte tradizioni orientali (e non
solo) il volto dell’attore è coperto dalla maschera, espressione concreta e totale del
personaggio che rappresenta: la maschera è il personaggio. E chiede all’attore un
corpo in movimento, non un volto (e, spesso, neanche una voce).
18
Secondo Peirce, i segni possono essere classificati rispetto al rapporto che
hanno con il loro oggetto e si distinguono in Indici, Icone e Simboli. Dell’Indice
ne abbiamo già accennato. Le Icone sono segni in rapporto di (qualche) somi-
glianza con il proprio oggetto, di cui selezionano e riproducono alcuni tratti o
qualità essenziali: il disegno di una casa, per esempio, può essere un quadrato
con un triangolo sopra. Il Simbolo, invece, è un segno che si riferisce all’oggetto
17
plica una libertà notevolissima di invenzione nella rappresentazione.
Nei media riprovisivi, al contrario, siamo ancorati alla realtà che,
seppur manipolabile in modo ormai estremo e inverosimile, resta pur
sempre la matrice della nostra rappresentazione. E tanto più la rap-
presentazione si discosterà dalla verosimiglianza, diciamo dalla paren-
tela con il realismo fotografico, tanto più si avvicinerà alla malleabilità
del simbolo, all’astrazione di forme che diventano modelli, forme
ideali. È il principio alla base dei cartoon e dell’illustrazione per
l’infanzia, in cui i personaggi (e in genere gli oggetti, gli animali, i
paesaggi) sono ridotti a forme essenziali espresse tramite disegni sem-
plici, senza ombreggiature, gradienti o textures. Forme idealmente
vuote da riempire con la fantasia, da reificare “a piacere” e “secondo
disponibilità” (delle proprie competenze cognitive e conoscenze cul-
turali). E questo garantisce una flessibilità della rappresentazione più
ampia che se usassimo i media riprovisivi. Vi immaginate un attore
bambino che interpreta Charlie Brown? A parte il fatto che un bam-
bino vero con quelle proporzioni e quella testa enorme e sferica ci
sembrerebbe un mostro, riuscirebbe mai a esprimere quello smarri-
mento esistenziale che tutti riconosciamo al personaggio disegnato da
Schulz? Voglio dire, riuscirebbe a esprimerlo nel modo così efficace
in cui vi riesce il Charlie Brown disegnato [fig. 8]? Non credo che
fig. 8
18
fig. 9
fig. 10a
19
fig. 10b
fig. 10c
20
tutti morti. E Fiocco di Neve, la capretta dal vello candido, puzzava
di sicuro, come tutte le vere capre.
Torniamo alla rappresentazione. Se abbiamo un volto (ma il di-
scorso vale ovviamente anche per un albero, una casa, un paesaggio,
insomma un’entità fisica del mondo reale) e vogliamo tracciare ideal-
mente il percorso sul quale potrebbero stare le sue possibili rappresen-
tazioni, andando da quella più verosimile a quella più astratta, da un
lato avremo la fotografia di questo volto (il segno indexicale) e al-
l’estremo opposto avremo la sua più perfetta icona, esemplata nella
riduzione a “smile”: due puntini che stanno per gli occhi, una linea
che rappresenta la bocca e un tondo che sta per il contorno del viso.
Tutto qui. E si potrebbe ridurre ulteriormente 19. Guardare i disegni
dei bambini è molte volte illuminante di questa capacità di astrazione
tipicamente umana che procede per sottrazione dalla complessità (for-
male) dell’esistente. Per me è sempre stato sorprendente vedere come
quattro o cinque lineette e un tondo formassero un uomo, che una
casa fosse disegnata come il più semplice dei parallelepipedi e la mamma,
o la maestra, fossero sempre le figure più grandi accanto a quelle di
altre persone. E come, a parte l’attività di imitazione tra i vari bam-
bini, tuttavia ci fossero delle evidenti invarianti tra i vari disegni di
volti, case, alberi e mamme fatti da milioni di bambini. Chi completa
il lavoro interpretando questi sparuti elementi vedendoci un volto, un
albero, una casa, una macchina è proprio il fruitore. A lui viene chie-
sto di tramutare la vista in visione, il segno in immaginario.
Il bel libro di Regis Debray, Vita e morte dell’immagine 20, si apre con
un suggestivo doppio aneddoto. Nel primo si narra di un imperatore
cinese che chiedeva al suo pittore di corte di cancellare una cascata che
questi aveva affrescato sulla parete della sua camera da letto perché lo
scroscio dell’acqua gli disturbava il sonno; nel secondo si riporta che
19
Il volto umano è uno dei pattern che si presta all’astrazione più estrema.
Togliete più che potete, trasfigurate in qualsiasi modo e vi basteranno sempre
giusto un paio di infinitesimali dettagli per vedere pur sempre un volto. Come
quello che scorgete tra due punti piazzati sopra una linea o nelle macchie di
muffa o tra i profili delle nuvole.
20
REGIS DEBRAY, Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in Oc-
cidente, Il Castoro, Milano 1999.
21
Leon Battista Alberti, il grande architetto rinascimentale, raccomandava
di porre dipinti di sorgenti e ruscelli nella stanza di coloro che erano
febbricitanti o sofferenti d’insonnia. Potere dell’immagine: ciò che in-
quietava l’uno, curava gli altri. Questi aneddoti mi portano a pensare
non solo al differente modo di percepire la rappresentazione pittorica
(e il suo oggetto) nella Cina imperiale o nell’Italia dei Medici, ma a
rilevare anche qualcosa che, oggi, tendiamo a trascurare: il tipo parti-
colare di rapporto che si instaura tra noi e il mondo attraverso le im-
magini. Quella che crediamo essere muta rappresentazione, materia
inerte del colore sulla tela o sulla parete, in realtà è sostanza che parla,
vive di vita propria, evoca il fiume facendolo scorrere dinanzi a noi,
piaccia o non piaccia. Siamo normalmente portati a pensare che l’im-
magine sia qualcosa che si riferisce a qualcos’altro, pensando fondamen-
talmente al suo aspetto visibile, alle sue qualità materiali, tangibili. Una
questione di cose nello spazio. Non pensiamo quasi mai all’altra possi-
bile dimensione, non crediamo che quel dipinto rappresenti anche il
tempo: l’evento, l’avvenire (e divenire) della realtà, la manifestazione di
uno svolgimento che diventa materia dell’esperienza. Un tempo di tal
genere non è misurabile quantitativamente, non si sottopone al regi-
me cartesiano della linearità perché i rapporti razionali saltano. Un tem-
po che non si può misurare con il “metro” dell’orologio perché le equi-
valenze non reggono più: in questo nuovo dominio sessanta secondi non
sono più un minuto, potrebbero essere meno, o di più. È il soggetto
che fa esperienza del tempo ad attribuirgli la fondamentale qualità di
cui stiamo parlando: la durata. Questa esperienza qualitativa (anziché
quantitativa) del tempo è quella che proviamo, ad esempio, quando
siamo “presi” nell’estasi del sesso, della contemplazione di un’opera
d’arte o di qualsiasi altra esperienza estetica 21.
L’immagine pittorica, ma il discorso vale per qualsiasi costruzione
“iconica”, è quindi una rappresentazione dello spazio e del tempo,
insieme. Si noti, ho detto rappresentazione e non riproduzione. Se
fossimo di fronte a una fotografia, medium riprovisivo, avremmo una
riproduzione di una data porzione di spazio e dell’istante in cui quella
scena si presentava ai nostri (anzi, della fotocamera) occhi. Saremmo
nel dominio del quantitativo, dell’oggettivazione dell’esperienza. Nel
caso del cinema avremmo aggiunto la quarta dimensione, quella del
tempo appunto, ma si tratterebbe di un tempo lineare, in “presa di-
retta” con la realtà tout court, non con la realtà della nostra esperien-
21
Ed è proprio l’essere “presi” a farci perdere l’orientamento temporale.
22
za. Se teniamo momentaneamente da parte gli effetti di manipolazio-
ne tipici del linguaggio cinematografico (di carattere tecnico, come il
ralenti, lo stop-motion, il reverse-playback, o di carattere narrativo, come
il flashback, il flashforward, l’ellissi, etc.) e ci concentriamo a un livello
basilare delle proprietà del medium, constatiamo che il cinema, in ag-
giunta alla fotografia, riproduce il tempo “tale e quale”. La rappresen-
tazione, cioè, viene dopo: è l’effetto di una manipolazione possibile,
la cui possibilità poggia (e si fonda) proprio sulla caratteristica fonda-
mentale della linearità del medium cinematografico, della riproduzio-
ne meccanica del tempo. Nell’immagine pittorica, come nell’illustra-
zione o nella vignetta, spazio e tempo sono invece inscritti in modo
particolare. Il tempo si dispiega come un lenzuolo al vento, ora sten-
dendosi piatto, ora arricciandosi repentinamente. Cerco di spiegarmi
con un esempio. Se mi trovo di fronte a una fotografia, so per certo
che in quella porzione di realtà riprodotta che sto osservando ogni
cosa e ogni persona lì incluse erano compresenti nello stesso istante.
Ogni punto della fotografia appartiene a un tempo x che è uguale per
tutti i punti. Se mi trovo, invece, di fronte alla stessa scena dipinta (o
disegnata, in qualsiasi modo) posso avanzare il legittimo sospetto che
questa compresenza e contemporaneità possano essere state interpre-
tate in maniera differente, più “libera”, se non create arbitrariamente.
Questo, come abbiamo già detto, dipende dalla differente natura
semiotica dei due tipi di immagine. Ma c’è di più, questa differenza
genera un vero e proprio scarto, quasi in senso algebrico; e se nel
rapporto tra spazio e tempo riprodotti nella foto la differenza è nulla
e non c’è “resto”, nel mondo della rappresentazione i conti non tor-
nano più, il tempo “avanza” (ma potrebbe anche “mancare”). Paul Gsell,
discutendo con Rodin, gli chiese perché il suo Giovanni Battista [fig.
11], con la sua mole pesante forgiata nel bronzo, sembrasse avanzare
nello spazio dando un’impressione dinamica del movimento ben più
convincente di quella riscontrabile nell’osservazione di una fotografia
di un soggetto simile preso nell’incedere del passo. Rodin sostenne
che in realtà la fotografia mentiva e la verità poteva dirla solo l’arte.
Gsell trasalì: come poteva mentire la fotografia, emanazione diretta
della realtà, sua impronta meccanica? Rodin allora fece notare che,
mentre la fotografia poteva solo cogliere attimi del movimento, isolati
gli uni dagli altri da una percezione meccanica, analitica e distintiva22,
22
Come nelle indagini crono-fotografiche di Marey e Muybridge, dove ven-
gono proposte scomposizioni del movimento in sequenze di istanti successivi.
23
la scultura poteva rappresentare il
movimento così come noi lo co-
nosciamo, al di là del dato crudo
della percezione meccanica, ri-cre-
ando in maniera verosimile l’espe-
rienza che ne abbiamo, un’espe-
rienza che avviene nel tempo. La
scultura aveva insomma il potere
di “imprigionare” diversi momen-
ti del movimento entro la “posa”
fatta assumere alla materia, al con-
trario della fotografia in cui il rap-
porto tra spazio e tempo era fissa-
to nell’unità dell’istante, un’astra-
zione della scienza (se rapportata
al mondo della nostra esperienza).
L’illusione del movimento era data
fig. 11 quindi non dalla riproduzione
oggettiva di un suo momento,
come nella fotografia istantanea, né ovviamente dalla riproduzione
sequenziale di questi istanti, come fa il cinema scomponendo il tem-
po in quelle unità discrete che sono i fotogrammi, ma dalla sollecita-
zione di uno sguardo, quello del fruitore, che conosce il movimento
nel suo divenire e fa esperienza del mondo attraverso la sua durata e
non attraverso l’astrazione di uno spazio euclideo e di un tempo as-
soluto (ab-soluto, cioè indipendente, che non ha relazione con alcun-
ché, in questo caso con il soggetto dell’esperienza, l’uomo) 23.
Questo è uno dei principî che anima la rappresentazione, in cui la
falsificazione conduce a un massimo di verità. Quella cosa sembra vera
(per noi) perché riflette (si con-forma a) il nostro modo di vederla.
Se del fiume ci fosse stata una foto, forse l’imperatore avrebbe
dormito sonni tranquilli.
23
Più tardi, quando il cinema diverrà il medium elettivo per la restituzione
della realtà in movimento, il processo di pretesa oggettivazione della fotografia
giungerà a compimento. Avviene un cambio di paradigma: se prima lo sguardo
era il concorso tra qualcuno che percepiva e qualcosa da percepire, ma nella
cornice di una pratica fortemente individuale e soggettiva, ora l’oggetto della
percezione, attraverso le caratteristiche del dispositivo tecnico di riproduzione,
incornicia in un sol colpo lo sguardo e il soggetto, quest’ultimo ridotto a spet-
tatore di un processo che avviene per lui ma al di fuori del suo controllo.
24
1.3 LE FORME DEL TEMPO, OVVERO I (DI)SEGNI DEL MOVIMENTO
fig. 12a
25
fatti i cavalli che corrono non si trovano mai in quella posizione,
ma nella realtà della nostra coscienza (nell’idea che abbiamo dei
cavalli lanciati al galoppo) ci sembra che invece siano rappresentati
nel massimo slancio della corsa. All’epoca, tuttavia, molti rimprove-
rarono a Géricault che i cavalli, più che correre, sembravano “vo-
lare”. In effetti il pittore si spinse un po’ oltre i limiti della credi-
bilità (e mi scusi Géricault se oso criticarlo). I cavalli sembrano
volare perché, come dissero allora i suoi detrattori, sono rappresen-
tati sospesi in aria, senza alcuna parte del corpo che tocca terra; ma
sopratutto, e questo mi pare il vero “eccesso”, sono rappresentati
come se fossero immobili in un contesto anch’esso immobile, cioè
come se tutta la scena – cavalli, fantini e paesaggio insieme – fosse
stata raggelata da una brevissima istantanea fotografica che non
restituisce assolutamente alcuna impressione dinamica del movimento.
La riprova? Provate a guardare la manipolazione che ne ho fatto
fig. 12b
[fig. 12b] 24. Ora la scena sembra più realistica semplicemente per-
ché ricalca la nostra esperienza di qualcosa che è in rapido movi-
mento: la nostra attenzione si focalizza sull’oggetto che il nostro
sguardo segue e, di conseguenza, lo sfondo (ovvero, tutto il resto)
tende a diventare indistinto, con-fuso dal movimento che lo fa
sfuggire alla nostra capacità di fissazione. Se avessimo fissato lo
sguardo sul paesaggio e i cavalli ipoteticamente ci fossero passati
24
Applicando allo sfondo il filtro di Photoshop che si chiama, guarda caso,
motion blur.
26
rapidamente davanti, allora sarebbero stati proprio i cavalli ad ap-
parirci confusi 25 [fig. 13]. Questa tecnica di rappresentazione del
fig. 13
fig. 14
25
Mi viene da pensare, parallelamente, al modo in cui Leonardo o Turner
cercarono di rappresentare le tempeste. Entrambi erano perfettamente coscienti
che il turbinio del vento, l’accanirsi della pioggia o il sollevarsi impetuoso delle
acque marine non potevano essere rappresentati che in modo da apparire come
un caos dinamico in cui tutto si confondeva in un’impressione totalizzante. La
Tempesta di neve – battello fuori dall’imboccatura del porto (1842) di Turner ne
è un esempio straordinario [fig. 13].
26
KATSUHIRO OTOMO, Sogni di bambini, collana Best comics, n° 27, Comic
Art, Roma 1994.
27
sorta di “carrello a precedere”27, con le macchine della polizia che
avanzano verso di noi, ben definite, e lo sfondo che si sfrangia in
una moltitudine di linee cinetiche, tanto che le luci della strada, da
puntiformi che sono nella realtà, divengono trattini, quasi a voler
sottolineare, attraverso la traccia della loro persistenza sulla nostra
rètina, la velocità della scena ripresa (lapsus: dovrei dire “disegna-
ta”). Idem per le vignette di fig. 15 tratte da Ayako di Osamu
Tezuka 28. La scena si svolge qui all’interno di un appartamento,
fig. 15
28
mentre sta caricando le sue forze sul pugno che sferrerà ad Hanao,
il ragazzo con i capelli chiari che si vede nelle due vignette succes-
sive. Per esprimere in maniera evidente la tensione di questa forza
che si scaglierà su Hanao, Tezuka disegna in maniera definita solo
la figura di Jiro e, invece, dissolve lo sfondo nelle striature che
vediamo, come se Jiro fosse stato ripreso mentre correva a velocità
folle (e noi con lui). Le striature delle linee cinetiche sono ovvia-
mente concordi alla direzione in cui si muoverà il pugno e questo
è l’espediente attraverso il quale Tezuka imprime maggior forza visiva
alla sua vignetta. La tensione è supportata anche dalla posa di Jiro
e dal taglio dell’inquadratura. L’impressione di qualcosa che si muove
con gran forza da destra verso sinistra è notevole. Sarà un gran
cazzotto! Lo stesso procedimento è utilizzato anche nelle due vi-
gnette successive, pur se con qualche differenza. Nella seconda, Hanao
anticipa il cazzotto di Jiro e gli assesta un bel pugno nello stomaco.
Qui osserviamo un’azione che potrebbe essere divisa in due mo-
menti: nel primo Hanao sferra il suo destro, con il braccio che si
dissolve man mano nel disegno delle linee cinetiche; nel secondo
Jiro accusa il colpo cadendo verso il basso, come suggerito dalle
linee cinetiche oblique che lo contornano. Mi sembra interessante
notare come l’onomatopea, qui, funzioni quasi da congiunzione tra
i due momenti, essendo al tempo stesso il termine del primo
momento, sancito dal suono prodotto dall’impatto del pugno di
Hanao arrivato “a destinazione”, e l’anticipazione della caduta di
Jiro, il cui movimento viene suggerito anche dalla disposizione ver-
ticale delle lettere dell’onomatopea stessa. Un bell’esempio di
“condensazione”. Nella terza vignetta è di nuovo Hanao che assesta
il colpo. Qui, come nella vignetta precedente, le linee cinetiche
sottolineano sia la direzione del movimento dei personaggi rispetto
all’ambiente, tramite il “mosso” dello sfondo, che il movimento di
un particolare dell’azione, il pugno di Hanao. Ora però il pugno
non è dissolto dalle linee cinetiche, come nella vignetta precedente,
e la sua presenza è resa attraverso la scia del suo movimento, una
scia inspessita tanto da voler rendere fisicamente visibile la forza del
pugno che l’ha generata. Sparisce la causa del movimento, il pugno-
forza, ma rimane un segno a rendercelo visibile, la sua scia.
diamo che manga è il termine che si usa generalmente in Giappone per definire i
fumetti che si sviluppano in serie di episodi. Definizione che prescinde dal forma-
to o dal genere, così come dall’età dei lettori cui i manga si rivolgono.
29
Otomo e altri autori giapponesi utilizzano le linee cinetiche
anche in un altro modo piuttosto particolare. In fig. 16 sono ri-
portate due vignette adiacenti tratte, anch’esse, da Sogni di bambi-
ni 30: in quella di sinistra Yoshikawa è raggelato da ciò che sta
vedendo di fronte a lui (e che noi vedremo subito dopo, in con-
trocampo); nell’altra il papà di Yoshikawa ha la pistola in mano ed
Etsuko è in pigiama, e anche qui non si muove nessuno. Entrambe
fig. 16
30
delle figg. 17a e 17b 31. Ecco due vignette al posto di una: due
tempi distinti in due spazi distinti, con un effetto dinamico di
minore intensità. Ancora una volta la “condensazione” temporale
possibile nella rappresentazione iconica dimostra le sue potenzialità.
fig. 17a
fig. 17b
31
Si tratta della vignetta di destra di fig. 16, discussa poco sopra, alla quale
ho cancellato le linee cinetiche di cui parlavamo, ritagliando una porzione della
parte centrale per farne una vignetta a parte.
31
Le linee cinetiche sono solitamente utilizzate, come dicevamo prima,
per rappresentare il movimento di ciò che viene inquadrato, non
tanto il movimento dello sguardo. Nel fumetto statunitense si è sem-
pre fatto largo uso di questa particolare tecnica espressiva, arrivando
alla sua apoteosi nel cosiddetto fumetto di “super eroi”. Jack Kirby,
John Buscema e altri della Marvel e della DC Comics hanno creato
delle figure mitiche mettendo in bocca ai loro personaggi discorsi
roboanti quanto semplici e dando forza alle loro gesta con l’uso di
linee cinetiche praticamente “fisiche” (al contrario di quelle che po-
tremmo definire “percettive”, sin ora esaminate). Silver Surfer, dise-
gnato da John Buscema 32, mi sembra un esempio molto interessante
per rendere immediatamente evidente il ruolo delle linee cinetiche
nell’espressione del movimento e, con esso, nello sviluppo della tem-
poralità dell’azione rappresentata. Silver Surfer, per chi non lo cono-
scesse, è un supereroe positivo ma incompreso, proveniente da un’al-
tra galassia e dotato di super poteri che gli consentono di essere
immortale, fortissimo e di sfrecciare a grandissima velocità nei cieli
sulla sua inseparabile tavola da surf interstellare. Un personaggio molto
“west-coast”, diremmo. In fig. 18 vediamo il nostro in difficoltà,
tallonato da un razzo che vuole fargli la pelle argentea. Qui ci inte-
resseremo alla prima e alla quarta vignetta. Nella prima Silver Surfer
è nello spazio interplanetare, collocato a sinistra dell’inquadratura,
mentre tenta di sfuggire al razzo che lo insegue, raffigurato al centro
della vignetta. L’attenzione è tutta puntata sul razzo e sul mirabolante
inseguimento in corso. La performance del razzo è rappresentata at-
traverso la scia che questo si lascia dietro, sinuosa come il nastro in
un esercizio di ginnastica acrobatica. Una traccia gialla che percorre
pressoché l’intero spazio della vignetta, oltrepassandone i confini stes-
si per poi rientrarvi, per ben due volte. Una traccia spessa, il cui
spessore è direttamente proporzionale alla potenza del razzo, la lun-
ghezza ne è la misura della velocità e la forma è espressione della sua
traiettoria. Rispetto a Silver Surfer, dotato solo di poche e modeste
linee cinetiche attorno al suo surf, il razzo sembra andare sicuramente
più veloce. O quanto meno si dimostra essere (ci si manifesta come)
un avversario temibile. Nella quarta vignetta, l’astuzia dell’eroe neo-
mercuriano riesce però a superare la velocità del razzo. Si tratta in
32
JOHN BUSCEMA, STAN LEE, Silver Surfer. L’araldo delle stelle, a cura di Luca
Raffaelli, collana I Classici del Fumetto di Repubblica, serie oro, n° 36, Gruppo
Editoriale L’Espresso, Roma 2005.
32
fig. 18
33
surfista è rientrato nella vignetta ed è ben saldo sulla sua tavola.
Anche qui, tutto in una vignetta.
Occorre ora fare una breve parentesi per aprire l’analisi a una breve
digressione sulla rappresentazione del movimento; digressione che ci
consente di evidenziare come, attraverso la rappresentazione di un
determinato motivo figurativo – in questo caso il movimento –
emergano differenze piuttosto significative che riguardano non solo lo
stile visivo ma anche i motivi culturali soggiacenti a livello profondo.
Finora abbiamo parlato del movimento come fenomeno assoluto; ma,
come sappiamo dalla cinematica, oltre che dall’esperienza personale,
il movimento di qualsiasi cosa è unicamente definibile in rapporto a
un punto di riferimento e questo riferimento, nel nostro caso, non
può che essere il punto di vista dell’osservatore, giocoforza implicito
(o meglio implicato) nella rappresentazione 33. È a partire da questa
considerazione relazionale che dobbiamo porre i nostri interrogativi.
Qualcosa si muove in relazione a qualcos’altro e quel qualcos’altro
siamo noi che stiamo guardando il fumetto. Quello che andremo ora
a vedere è il modo in cui noi siamo implicati nella rappresentazione
del movimento, il modo in cui lo sguardo è in rapporto con il sog-
getto dell’azione e il contesto in cui questa avviene. L’aspetto che
utilizzeremo come cartina di tornasole, mettendo a confronto Silver
Surfer con quanto visto per Otomo e Tezuka, è il differente uso delle
linee cinetiche 34. In Silver Surfer il movimento è rappresentato attra-
verso delle linee equiparabili a delle vere e proprie scie, una reificazione
delle traiettorie dei corpi in movimento. Sono entità che non hanno
a che fare con la percezione ottica del movimento, cioè con l’impres-
sione che ne può avere il nostro occhio; sono entità concettuali,
proiezioni reali di un mondo concettuale, quello della scienza dei
corpi in movimento. Qui la rappresentazione del movimento non
comprende l’osservatore, non è formata a partire dal suo sguardo;
appartiene invece al dominio dell’oggettivo, alla registrazione di uno
sguardo sovra-umano, strumentale, uno sguardo che possiede una
permanenza assoluta, ideale, non più limitata dalla fisiologia della
rètina. Nei manga la dinamica dell’azione era invece rappresentata
attraverso la movimentazione dello sfondo sul quale i personaggi e gli
oggetti in movimento si stagliavano. Il soggetto dell’azione era immo-
33
Così come in qualsiasi testo è implicito un fruitore/lettore modello.
34
Qui si è voluto considerare Silver Surfer come modello esemplare cui si può
ricondurre molta produzione fumettistica occidentale, mentre si sono considerati
i due manga come modelli della controparte orientale.
34
bile e ben definito, al contrario dello sfondo che, attraverso le linee
cinetiche, rappresentava la direzione del movimento del soggetto. Le
linee cinetiche erano quindi una proprietà visiva che riguardava so-
prattutto (anche se non esclusivamente o prevalentemente) lo sfondo,
non la figura in movimento. Se consideriamo ora il punto di vista
dell’osservatore, diremmo che questo si muove insieme al soggetto
dell’azione, entrambi in un movimento che li unisce, mentre, per
differenza, tutto il resto scorre attorno a loro e risulta mosso. Io corro
insieme alla macchina della polizia, mi muovo assieme a Jiro che
sferra il pugno, concentro improvvisamente l’attenzione su Etsuko e
il papà di Yoshikawa. Mi sembra che questo tipo di rappresentazione
dimostri in maniera discreta ed efficace la presenza e la centralità
dell’osservatore, come se l’azione fosse da lui partecipata e la tempo-
ralità della rappresentazione fosse assoggettata al suo sguardo. Il
movimento è soggettivo. Forse l’esempio delle due vignette di fig. 16
è quello che più profondamente ci pone di fronte all’aspetto della
soggettività perché sottilmente ne raddoppia il senso: nella prima
Yoshikawa guarda Etsuko, guardando però “in camera”, cioè guardan-
do l’osservatore. Le linee cinetiche che convergono verso Yoshikawa
rappresentano il movimento del nostro sguardo ma, allo stesso tem-
po, rappresentano il movimento dello sguardo di Etsuko, che lo guarda
dal controcampo della vignetta successiva. Lì Etsuko guarda anch’essa
“in camera”, guarda Yoshikawa e noi insieme; e così, magicamente, si
crea un gioco di soggettività, un triangolo in cui noi siamo allo stesso
tempo osservatori esterni alla scena e, alternativamente, siamo anche
lo sguardo di Yoshikawa o Etsuko, coinvolti in questo pericoloso
gioco di sguardi in cui ci sono di mezzo un pigiama, una pistola e
delle identità sull’orlo del baratro della follia.
Il tempo, nella rappresentazione visiva, non si dispiega solo nel
modo particolare che abbiamo appena descritto e che abbiamo defi-
nito “condensazione”. Alcuni fumettisti utilizzano una tecnica di rap-
presentazione che, invece di far uso delle linee cinetiche, mostra di-
versi stadi del movimento, come se si trattasse di una sorta di espo-
sizione prolungata o multipla sullo stesso fotogramma. Faccio volu-
tamente un esempio di carattere fotografico perché si tratta di una
modalità di rappresentazione che ha forti legami con la tecnica del-
l’impressione fotografica, quasi un vero e proprio retaggio. Nella
fattispecie ci riferiamo agli effetti fotografici che si ottengono con
lunghi tempi di otturazione o con l’addizione di diversi scatti (cioè di
diversi istanti dell’esposizione) sullo stesso fotogramma. In entrambi
35
i casi abbiamo comunque una “rottura” del rapporto istantaneo tra
spazio e tempo nell’unità del fotogramma, istantaneità che conside-
riamo come connaturata al medium fotografico. Abbiamo, nel primo
caso, una sedimentazione continua (senza interruzioni) del tempo
dell’azione; nel secondo questa sedimentazione è relativa solo ad al-
cuni istanti dell’azione. Tutti, nelle occasioni più disparate, abbiamo
fatto una foto mossa. A parte il dispiacere di avere tra le mani una
foto rovinata (così crediamo), ciò che abbiamo davanti ai nostri occhi
è la registrazione di una porzione continua di tempo di ciò che stava
succedendo di fronte all’obiettivo, non semplicemente un istante. Chi
si muoveva ha lasciato di sé una scia fantasmatica, la sua figura si è
dissolta nella testimonianza del suo movimento. Questa possibilità di
intervento sul tempo che la tecnica fotografica consente è stata uti-
lizzata con intenzioni estetiche da diversi artisti delle avanguardie
novecentesche. Anton Giulio Bragaglia, che si mosse nelle fila del
Futurismo, scrivendo il manifesto del Fotodinamismo, realizzò Vio-
loncellista [fig. 19]. La foto, che riprende l’esecutore mentre suona lo
fig. 19
36
strumento, mostra le diverse posizioni che la mano sinistra ha occu-
pato lungo la tastiera dello strumento e la falcata coperta dal braccio
destro nel muovere l’arco sulle corde. Ma, oltre a fornire delle indi-
cazioni spaziali, come le posizioni della mano sul manico e il percorso
seguito dall’arco, la foto ne fornisce anche di temporali. La mano
sinistra viene “fissata” in alcune configurazioni confuse ma comunque
intellegibili che rivelano le posizioni in cui questa si è soffermata per
qualche istante sulla tastiera del violoncello, mentre il braccio destro
viene ripreso in una scia continua e omogenea perché continuo e
omogeneo è il movimento che è stato effettuato durante l’esposizione
della foto. Ciò che qui viene esposto, pur in una singola immagine,
è quindi il particolare divenire (la dinamica) di un’azione nel tempo
e nello spazio, è il movimento assieme al suo movente (il violoncel-
lista). Un altro esempio, che forse manifesta in maniera più chiara il
rapporto tra spazio, tempo e movimento, è quello di Dattilografa [fig.
20], in cui evidente è il contrasto tra la nebulosa animata dalle linee
di forza delle dita che battono veloci sui tasti e la fissità della mac-
china da scrivere che rimane invece immobile come corpo inanimato.
Due differenti ordini temporali: da una parte il mondo senza tempo
dell’oggetto e, dall’altra, quello in continuo divenire, dinamico, di
colei che freneticamente picchietta sui tasti35. Nello stesso periodo
fig. 20
35
ANTON GIULIO BRAGAGLIA, Fotodinamismo futurista, 1911 Torino: «Noi
vogliamo realizzare una rivoluzione, per un progresso, nella fotografia: e questo
37
Giacomo Balla realizzava un dipinto che, già nel taglio dell’inquadra-
tura, svelava il suo apparentamento con l’estetica fotografica, un di-
pinto che mi ha sempre divertito e affascinato: Dinamismo di un cane
al guinzaglio [fig. 21]. Un tema così banale e poco “fotogenico” – un
cane a passeggio – viene trasformato con arguzia e ironia in una
sintesi dinamica efficacissima che esprime con immediatezza l’anda-
mento trotterellante del bassotto contento di andare a zampettare per
la strada. La padroncina viene descritta unicamente attraverso il
movimento delle gambe e dei piedi, mentre il bassotto è tutto un
frullare di zampe, orecchie e codina; un subbuglio che rende il guin-
fig. 21
38
zaglio quasi un elastico teso in vibrazione 36. In questi casi appena visti
la rappresentazione del movimento è data non più attraverso le linee
dinamiche, che sono un’astrazione della direzione del movimento, ma
attraverso dei volumi che visivamente descrivono lo spazio occupato
da un corpo in movimento. Nel fumetto questa pratica viene utiliz-
zata abbastanza di rado, tuttavia molto efficacemente quando si vuole
proprio rappresentare il “volume” di un corpo in movimento, o quan-
do si concentra l’attenzione sulla fisicità di ciò che è in movimento
più che sulla sua traiettoria. Bill Watterson, autore delle strip Calvin
and Hobbes 37, nella terza vignetta di fig. 22, ci dà una prova perfetta
fig. 22
39
fig. 23
fig. 24
40
Come possiamo intuire, la rappresentazione del movimento attra-
verso i volumi dinamici consente malamente di raffigurare al contem-
po il movimento e il soggetto. Mentre con le linee dinamiche il
soggetto rimane distinto, raffigurato nettamente e quindi pienamente
riconoscibile, con i volumi dinamici il rischio è quello di avere davan-
ti agli occhi una nuova entità che poco ha a che fare con quella del
soggetto visto nella vignetta precedente. La nuova configurazione del
soggetto in movimento – il suo nuovo aspetto “dinamico” – rischia
insomma di creare discontinuità nella comprensione del testo visivo.
Ecco emergere un’ulteriore modalità di rappresentazione – già antici-
pata dalla vignetta di Popeye – che costituisce una sorta di interme-
diazione tra le linee dinamiche e i volumi dinamici. In questa vignet-
ta di Schulz, tratta da una delle innumerevoli strip dei Peanuts 40,
Snoopy fa ginnastica sulla sua famosa cuccia [fig. 25a]. Il movimento
delle zampe non è raffigurato attraverso delle linee dinamiche (altri-
menti apparirebbe come nell’elaborazione di fig. 25b), né per mezzo
fig. 25a
fig. 25b
40
CHARLES SCHULZ, Peanuts, a cura di Luca Raffaelli, collana I Classici del
Fumetto di Repubblica, n° 6, Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma 2003.
41
di volumi dinamici (il risultato sarebbe altrimenti quello dell’elabo-
razione di fig. 25c). Il movimento viene suggerito invece attraverso la
portata della sua ampiezza, ovvero attraverso quelli che potrebbero
essere considerati i contorni del volume dinamico che le zampe de-
scriverebbero muovendosi. Ancora meglio, osservando alla sinistra del
capo quei tre trattini che potremmo ora definire “linee di conteni-
fig. 25c
fig. 26
42
come fosse un pupazzo, forse rende maggiormente evidente quanto
appena detto. Snoopy qui è raffigurato attraverso un volume dinami-
co ed è al contempo contornato da una copiosa serie di linee di
contenimento del movimento che amplificano la rappresentazione
dinamica dello scuotimento cui egli è sottoposto. L’una modalità di
rappresentazione supporta l’altra e, insieme, rendono maggiormente
pregnante l’impressione dinamica.
A proposito del volume dinamico notiamo che, mentre nella
fotografia di Bragaglia questo era un’entità spazialmente continua,
quasi un bozzolo plasmatico, nelle vignette dei Peanuts lo stesso
viene raffigurato in maniera discontinua (come nell’elaborazione di
fig. 25c o, in maniera ancor più evidente, nella vignetta di Braccio
di Ferro). Qui il disegno mostra i suoi limiti perché non può ope-
rare sul continuum della realtà che attraverso una cospicua riduzio-
ne fenomenologica. Detto in altre parole: il disegno opera prelevan-
do dalla realtà alcune proprietà che consentono di crearne una rap-
presentazione riconoscibile. In questo senso, ogni disegno è astratto,
proprio perché “trae fuori” dalla realtà solo alcuni tratti pertinenti
alla rappresentazione. Un volto, come osservavamo qualche pagina
addietro, può essere al limite rappresentato con due puntini all’in-
terno di un tondo, mentre una fotografia restituirà un’immagine
analogica 41. Proprio per questo suo “limite”, il disegno solitamente
rappresenta il volume attraverso i suoi contorni, suggerendone la
forma attraverso le curvature, gli spigoli e, eventualmente, la texture
dell’ombreggiatura, utilizzando cioè tutto un insieme di linee e trat-
ti per rappresentare quello che, nella realtà, ha una continuità spa-
ziale. Nel disegno noi ricostruiamo la superficie e la forma degli
oggetti attraverso quei pochi elementi che ci consentono di imma-
ginarle. Non è un caso quindi che nel fumetto, in cui regna l’arte
del disegno, difficilmente venga utilizzato il volume dinamico e gli
si preferiscano le linee di contenimento che, potremmo dire, ne
sono il suggerimento. Il fumettista si trova così di fronte al carattere
discreto della tecnica del disegno e, come nel caso di Schulz, rap-
presenta il volume dinamico attraverso una sua segmentazione, rap-
presentando cioè la continuità del volume, che è continuità spaziale
e temporale insieme, attraverso una sequenza di istanti del movi-
41
Qui, è bene precisarlo, stiamo intendendo analogico nel senso di indexicale,
“analogo” del reale. Pertanto, all’interno di questo discorso, una fotografia “di-
gitale”, cioè scattata con una fotocamera digitale, rimane pur sempre un segno
di tipo analogico.
43
mento 42. Daniel Clowes, in
queste due vignette di Ice
Haven 43 [fig. 28], ci consente
di vedere all’opera questo pro-
cesso, facendo un po’ il rias-
sunto di quanto qui detto ri-
guardo alle varie modalità di
rappresentazione. Nella prima
vignetta le linee dinamiche ci
consentono di immaginare la
traiettoria della palla da base-
ball che rimbalza sull’avam-
fig. 27
braccio del bambino biondo.
Nella seconda vignetta il mo-
vimento della mano che fa rimbalzare la palla è suggerito dalle linee
di contenimento, mentre il movimento della palla è rappresentato
attraverso la raffigurazione di suoi diversi istanti. La moltiplicazione
delle raffigurazioni suggerisce così il movimento.
fig. 28
42
La pittura, da questo punto di vista, che opera stendendo masse di colore
e non linee, ha il vantaggio di poter ricreare quel continuum dei volumi dina-
mici che vedevamo all’opera nella fotodinamica bragagliana. Si pensi ai corpi
“trasfigurati” di Francis Bacon come, ad esempio, i suoi autoritratti o Studio di
due figure distese allo specchio [fig. 27]. Qui gli unici elementi riconoscibili sono
un capezzolo e l’ansa di un’ascella pelosa, indizi di un eros suggerito ma ancora
a venire e che si manifesta nella brutalità di un corpo in movimento, in divenire,
reso attraverso la rappresentazione di un volume plastico, una sorta di bozzolo
che è al contempo carne e tempo, lo sviluppo volumetrico di una massa attraver-
so la permanenza visibile del movimento, la memoria offuscata dal desiderio.
43
DANIEL CLOWES, Ice Haven, Coconino, Bologna 2007.
44
Questa breve parentesi sulla discontinuità ci consente di specificare
meglio quella che è un’ulteriore modalità di rappresentazione dello svol-
gimento temporale di un’azione all’interno dell’immagine. Si tratta quasi
di una logica conseguenza del volume dinamico44. Per rendere imme-
diatamente visibile ciò di cui stiamo parlando, riporto due immagini che
ho scelto per la loro incredibile somiglianza. Nella prima [fig. 29], tratta
da Le straordinarie avventure di Pentothal di Andrea Pazienza 45, Andrea
si guarda intorno cercando l’amico Gigi. Non ci sono né linee o volu-
fig. 29
45
fig. 30
46
questo stato cambia fino al punto di diventare altro e rivendicare
un’autonomia differente, passando insomma a un altro stato, si arriva
al punto di dover esprimere questa nuova condizione concretamente
con un’altra figurazione. Non più quindi attraverso delle linee cineti-
che – che rappresentano le variazioni di quello stato all’interno di uno
schema comprensibile – ma attraverso un altro disegno 47. Per essere
maggiormente chiari: il razzo che segue Silver Surfer può essere de-
scritto dalla sua lunghissima scia – che indica una certa durata del-
l’azione – solo perché lo stato del razzo non cambia nel contesto delle
relazioni che intrattiene con Silver Surfer e l’ambiente in cui entrambi
si trovano. Fondamentalmente, qualcosa insegue qualcuno a una folle
velocità seguendo una traiettoria piroettante. Qualora dovessimo
mostrare una trasformazione, cioè qualcosa che modifica la narrazio-
ne, ad esempio che alla guida del razzo siede un mostro tricefalo rico-
perto di squame verdi che a un certo punto impugna il comando di
un laser per fare fuoco sull’eroe surfista, allora occorrerebbe realizzare
un’altra immagine che rappresenti la differente situazione, pur nel
contesto di un’azione – l’inseguimento – che magari continua ad avere
il suo svolgimento. Si tratta quindi di capire quando la rappresentazio-
ne di un’azione “chiede” di passare da un’immagine all’altra. Ovvero,
quando questa operazione diventa necessaria, come rappresentiamo lo
svolgersi dell’azione? Come proseguiamo nella rappresentazione degli
eventi? Si capisce che qui inizia a emergere quello che è uno degli
aspetti fondamentali nella costruzione di una narrazione per immagi-
ni: il montaggio 48. Ma, mentre nel montaggio cinematografico lavo-
riamo nel dominio di un medium riprovisivo, nel caso del fumetto
abbiamo a che fare con delle immagini che ci consentono di giocare
con i rapporti tra tempo e spazio della rappresentazione. Quindi re-
entro i quali può muoversi e oltre i quali non può andare, pena il rischio di
perdere le proprietà che lo definiscono. Ci sono insomma delle leggi che se, da
un lato, garantiscono una certa libertà all’interno del dominio cui si applicano,
dall’altro, esigono il rispetto delle sue regole.
47
Come le variazioni rispetto a un tema musicale: se le variazioni “variano”
troppo rispetto al tema originario, al punto da farlo dimenticare, non si capisce
più quali siano l’articolazione e lo sviluppo della composizione.
48
Utilizzo qui il termine correntemente utilizzato per il cinema per motivi di
convenienza. In entrambi i casi, cinema e fumetto, siamo comunque in presenza
di una pratica che conferisce significato al rapporto tra unità distinte (inquadra-
ture da una parte e vignette dall’altra) che si conseguono nel tempo della nar-
razione, contribuendo anzi a formarlo.
47
stiamo ancora nel dominio della rappresentazione che si poggia su un
medium statico. Parliamo ancora del tempo nell’immagine, dentro,
non tra le immagini. E, prima di arrivare al fumetto, torniamo ancora
una volta alla pittura.
C’è un affresco che esemplarmente, a mio avviso, rende visibile
la possibilità di rappresentare diversi momenti di un evento entro
l’unità dello spazio della rappresentazione. Si tratta di un’opera che
mi rapì profondamente sin dal momento in cui la vidi per la prima
volta: si tratta del grande affresco con le Storie di Santa Barbara che
Lorenzo Lotto dipinse nel 1524 su una delle pareti dell’oratorio
Suardi a Trescore, vicino Bergamo. La cosa che inizialmente notai fu
la grande figura del Cristo che campeggiava enorme al centro del-
l’affresco e dalle cui dita si partivano tralci che formavano poi dei
tondi in cui erano inscritte delle figure di santi. Soluzione originale
ed efficace, sicuramente. Quello che però catturò più lungamente il
mio interesse fu la raffigurazione di vari episodi del martirio della
Santa entro quello che era uno spazio unitario. Dico unitario perché
si trattava comunque di uno spazio “incorniciato”, cioè individuato
da un confine (i limiti della superficie della parete) che lo separava
da altri spazi (le altre pareti, la volta, etc.); e, a maggior ragione,
perché unitario era lo spazio rappresentato entro questa “cornice”.
Non c’erano, cioè, elementi che suddividessero lo spazio “contenito-
re”, cioè la parete, in altri spazi più piccoli 49. Vi era raffigurato un
paesaggio che comprendeva alcune case e, sullo sfondo, la campagna
degli immediati dintorni. Lotto, come tutti i grandi artisti che co-
noscono la techné del loro mestiere di affabulatori per immagini,
sapeva che occorreva guidare lo sguardo del pubblico per non farlo
perdere in quella sorta di racconto illustrato a episodi che egli pro-
poneva davanti ai suoi occhi. Cosa fece allora? Da una parte, sapeva
quello che più o meno tutti sanno e a cui ciecamente obbediscono,
ovvero che la lettura procede da sinistra verso destra, e quindi or-
ganizzò i vari episodi del martirio in maniera tale da metterli in
sequenza temporale lungo la direzione sinistra-destra; in secondo
luogo, sapeva che i raggruppamenti di figure (persone, oggetti)
focalizzano l’attenzione, divenendo degli insiemi in qualche modo
49
Si pensi alle vetrate delle cattedrali gotiche: entro lo spazio della vetrata
sono riuniti tanti riquadri più piccoli che hanno una loro unità e indipendenza
formale rispetto agli altri adiacenti. Sono spazi separati gli uni dagli altri, raffigu-
razioni poi ricomprese all’interno di un “quadro” più ampio (la vetrata) che le
mette in rapporto rendendole parti di un insieme (figurativo e, spesso, narrativo).
48
autonomi; e, ancora, in modo veramente particolare, utilizzò gli
edifici e le loro mura per articolare lo spazio della rappresentazione
in maniera da suddividerlo in unità più piccole, come a voler “in-
quadrare” (cioè mettere in quadro, circoscrivere entro un campo
definito) i singoli episodi contenuti nello spazio ampio del grande
affresco. In questo modo si poté permettere di raffigurare molti
episodi differenti (e in successione temporale) pur separandoli con
uno spazio ridottissimo (l’interno di una casa e il suo spazio esterno
adiacente, ad esempio) e rimanendo comunque perfettamente intel-
legibile. Se guardiamo la fig.
31, piccola porzione del to- fig. 31
tale dell’affresco, vediamo che
Santa Barbara vi è raffigura-
ta ben quattro volte 50: dap-
prima all’esterno dell’edificio
del tribunale, inseguita dal
padre Dioscuro (qui fuori-
campo), mentre fugge in di-
rezione dell’edificio stesso;
successivamente, mentre vie-
ne trascinata per i capelli in
giudizio; poi ancora, un po’
più vicina a noi, mentre vie-
ne martirizzata seminuda; in-
fine, di nuovo all’esterno e
ancora più vicina a noi,
mentre viene presa a martel-
late, appesa per i piedi 51. Per
certi versi, Lotto, moltiplicando i momenti dell’azione (episodi del
martirio) entro lo stesso quadro, ha anticipato una tecnica che sarà
utilizzata più di cinquecento anni dopo nel fumetto. Una rappresen-
tazione simile, seppur semplificata, è quella che ritroviamo nella
vignetta di Gianni De Luca tratta da una storia de Il Commissario
Spada 52 [fig. 32]. Qui, all’interno di uno spazio unitario e coerente,
50
In tutto l’affresco la Santa appare circa una ventina di volte.
51
Potremmo considerare lo spazio dell’affresco di Lotto come una scena
teatrale. La scenografia rimane immobile (il paesaggio e le case dell’affresco) e,
nel tempo, i personaggi si muovono sul palco o entrano ed escono di scena per
recitare i diversi momenti dell’opera.
52
GIANLUIGI GONANO, GIANNI DE LUCA, Il Commissario Spada. Milano cri-
49
fig. 32
50
camente l’azione servendosi maggiormente della tecnica “cinemato-
grafica” del cambio di focale (la variazione di piano), tecnica sulla
quale Lotto aveva agìto in misura minore. Lo stesso De Luca, autore
purtroppo poco conosciuto ma molto interessante per la sua capa-
cità di stabilire insoliti modi di interpretare il rapporto tra tempo-
ralità della narrazione e spazio della rappresentazione nel fumetto, ci
offre l’occasione di proporre anche un’altra vignetta, sempre tratta
dalle vicende di Spada [fig. 33]. L’antefatto: un camionista rapisce
fig. 33
un ragazzo che con sé porta delle sacche di denaro e, per non averlo
d’intralcio, nasconde il ragazzo con tutte le sacche in una delle casse
che stava trasportando sul suo camion. Successivamente, rimessosi
alla guida del mezzo, si fa assalire dalla paura di essere scoperto e di
non riuscire a gestire la situazione. Come nella vignetta precedente,
qui De Luca riesce a presentare contemporaneamente il susseguirsi
dei momenti dell’azione in cui il camionista nasconde il ragazzo
nella cassa. E fa anche di più: presenta insieme due momenti distinti
della narrazione, un prima e un dopo, il passato e il presente. Se
fossimo di fronte a un film, diremmo che vediamo il flashback e il
presente della narrazione, i due momenti congiunti. Ma se fossimo
veramente di fronte a un film, i due momenti sarebbero disgiunti,
collocati uno dopo l’altro nel tempo (nel corso del film) e uno di
fianco all’altro nello spazio (in inquadrature separate). Per forza di
cose, o meglio, di medium.
Lo spazio in cui De Luca colloca le azioni di Spada è comunque
uno spazio internamente coerente, cioè un tipo di spazio che potrem-
mo assimilare a quello che otterremmo da qualsiasi dispositivo ottico,
come ad esempio una macchina fotografica. Un tipo di spazio in cui
il fuoricampo viene dedotto dal campo. Mi spiego: se abbiamo la
fotografia di un palazzo che inquadra solo una porzione della facciata,
ci immaginiamo che il palazzo continui oltre i margini dell’inquadra-
51
tura. E ci immaginiamo che, nello spazio oltre l’inquadratura, sussi-
stano gli stessi rapporti di grandezza che erano presenti nello spazio
entro l’inquadratura: se davanti al palazzo vedo un uomo di una certa
grandezza, quell’uomo sarà della stessa grandezza anche fuoricampo,
oltre l’inquadratura. Inoltre, se nella mia inquadratura vedo frontal-
mente la facciata, vuol dire che nel fuoricampo di fianco all’inquadra-
tura non potrà che esserci il resto della facciata, cioè non immagino
che possa esserci il retro della casa o una vista dall’alto, questo perché
entrambi gli spazi, quello entro e l’altro fuoricampo, condividono
anche la proprietà di appartenere allo stesso punto di vista. Se voles-
simo vedere la facciata frontalmente e i tetti dall’alto, avremmo biso-
gno di due foto. Allo stesso modo, se volessimo avere il totale della
facciata e però fossimo interessati anche a vedere meglio se quel vaso
lì, sul davanzale della finestra della signora del quarto piano, è di
garofani o di azalee, allora avremmo bisogno di due foto scattate con
due obiettivi di focale differente. Ma attenzione, abbiamo parlato di
dispositivi ottici. Aggiungiamo che si tratta di dispositivi di riprodu-
zione. Fotografia e cinema vi appartengono entrambi. E ricordiamo
che, invece, nel caso del fumetto e di tutte le altre immagini ottenute
da tecniche pittoriche o grafiche, insomma di tutte le immagini di
carattere iconico, non siamo sottoposti per forza di cose al vincolo
dell’ottica, né rientriamo nell’ambito della riproduzione. Siamo nel
dominio della rappresentazione. Se pensiamo alla poetica della pittura
cubista, che voleva rappresentare all’interno della stessa immagine i
molteplici punti di vista dell’oggetto rappresentato, comprendiamo
subito il senso di questo discorso. Nel Ritratto di Nush Eluard [fig.
34], come in molti suoi altri, Picasso rende evidente questo processo
raffigurando la moglie di Paul Eluard sia di profilo che di fronte 53. In
questo modo si superava la limitazione della visione ottica/prospettica
e si rendevano visibili nella stessa immagine (anzi, nella stessa figura)
aspetti appartenenti a punti di vista differenti e altrimenti inconcilia-
bili. Ma anche altri artisti visivi hanno sperimentato la possibilità di
uno spazio della rappresentazione non coerente otticamente. Imme-
diatamente viene da pensare a Escher e ai suoi spazi ambivalenti,
come Relatività (1953), in cui la compresenza di punti di vista (e
53
Coprendo la bocca abbiamo la visione frontale; coprendo la porzione
destra del volto, seguendo la linea d’ombra che corre dalla fronte alle narici,
otteniamo il profilo. Inoltre, osservando i seni si nota che sono uno di profilo
e l’altro di fronte.
52
quindi di prospettive) diffe- fig. 34
renti nella stessa immagine
genera un equilibrio precario
della rappresentazione, teso
tra verosimiglianza e impos-
sibilità [fig. 35]. Paul Klee,
in Veduta della città di Pinz
gravemente minacciata [fig.
36], contiene nella stessa im-
magine sia una visione pae-
saggistica (il profilo delle
montagne e quello della città
di Pinz, vista da lontano, al
centro del disegno) che una
visione azimutale (cioè dall’al-
to, come nella porzione ove
si trova la scritta “Weylau”),
e anche una visione con una
inclinazione del punto di vi-
sta intermedia tra le due pre-
fig. 35
cedenti (si veda la parte nel
quarto inferiore destro del-
l’immagine). Oltre il differen-
te punto di vista, Klee utiliz-
za anche almeno due diversi
modelli di rappresentazione:
quello del paesaggio, comu-
nemente inteso, e quello del-
la mappa, come si può vede-
re dalla porzione di disegno
in cui il territorio è visto dal-
l’alto: le strade diventano dei
tracciati e le case sono ridot-
te a quadratini neri, come nelle mappe militari 54. Poi, inserisce anche
54
Del resto, le due scritte con i nomi delle località rimarcano questo aspetto
“cartografico”, mentre le frecce, elementi dal forte valore simbolico (bombe che
precipitano? fiamme che si sollevano al cielo?) dotano il disegno di una dimen-
sione temporale (il prima e il dopo?) e rendono il disegno quasi uno schizzo
proveniente da un tavolo di pianificazione tattica militare. L’opera è del 1915 e
Klee farà diversi altri disegni sulla Grande Guerra. Come dice il titolo, la città
53
fig. 36
54
dello spazio della rappresen-
tazione, ci spingono a rivede-
re le nostre aspettative circa la
natura di questo spazio. Non
ci sono vignette che separano
le tre figure e che quindi, lo-
gicamente, ci renderebbero
plausibile la differente gran-
dezza dei tre uomini. Tutto è
nello stesso spazio, legato abil-
mente in una configurazione
che riesce a circoscrivere la
figura in alto a destra entro la
foggia circolare del bastone del
dignitario; cerchio che, in
questo modo, diventa quasi il
contorno di una vignetta e fig. 37
suggerisce una certa autono-
mia di quella porzione di spazio entro la quale la piccola figura d’uo-
mo si trova ora “inquadrata”. Una configurazione che riesce pure,
sempre visivamente, a trasformare quello che poteva essere un para-
vento orlato, steso al fianco del grande dignitario, in una grande
parete oscura nella quale si apre la porta dalla quale esce in controluce
l’altra figura d’uomo. Lo spazio di Toppi non è come quello di Escher.
Lì l’ambivalenza poggiava sull’ambiguità di uno spazio multiprospet-
tico, uno spazio in cui agivano contemporaneamente diversi punti di
vista che però si applicavano a uno spazio della rappresentazione in
cui tutto ciò che vi era raffigurato apparteneva allo stesso ordine di
grandezza. Gli omini, per intenderci, erano tutti della stessa dimen-
sione, rappresentati in maniera proporzionata alle scale che percorre-
vano. Nello spazio di Toppi il punto di vista ha diverse inclinazioni,
come già in Escher, ma si colloca anche a diverse distanze dall’oggetto
rappresentato, per cui abbiamo insieme figure molto grandi in rela-
zione ad altre molto piccole 56. Ma l’aspetto più interessante di questo
56
Qui stiamo sostenendo che il punto di vista si pone a distanze differenti
dal soggetto, ovvero che gli oggetti, rispetto allo sguardo dell’osservatore esterno
(io, che guardo il fumetto, come lettore modello), si pongono a distanze diffe-
renti dal punto di vista. Per cui la grande figura del dignitario risulta inquadrata
in un totale (secondo il linguaggio cinematografico), mentre le due figure sareb-
bero quantomeno in campi lunghissimi. Ma queste determinazioni, è importan-
55
spazio tròpico è che a cambiare è anche la natura di ciò che è rap-
presentato. La realtà transita da uno stato all’altro senza soluzione di
continuità: il paravento diventa un muro, il “cerchio nefasto” della
malevolenza del dignitario diventa un cerchio vero e proprio, realiz-
zando una doppia trasformazione: non solo quella appartenente al-
l’ordine del visivo, per cui la volùta del bastone si trasforma nel
contorno di una sorta di vignetta, ma anche quella per cui una
te comprenderlo, sono stabilite sulla base della relazione che le singole configu-
razioni (le tre “scene” che comprendono i tre uomini) trattengono nei confronti
dei limiti esterni della tavola, cioè considerando la tavola come inquadratura che
contiene le tre configurazioni e considerando il tutto come percepito da un
unico punto di vista. Avremmo potuto adottare un’altra strada, ovvero quella di
considerare non tanto il punto di vista ma il punto di sguardo (se mi passate
l’espressione). Così avremmo la tavola come inquadratura della grande figura del
dignitario, il cerchio del bastone come inquadratura della figura da questo in-
quadrata e la grande campitura scura come area che individua un’ulteriore in-
quadratura entro la quale si inscrive la porta dalla quale esce il terzo uomo. In
questo modo il valore delle inquadrature muta. Infatti avremmo un totale (il
dignitario), un altro totale (la figura inquadrata nel cerchio) e un campo lungo
(la figura che esce dalla porta). In questo secondo modo abbiamo considerato
l’inquadratura come proprietà derivante dalla configurazione stessa e non deter-
minata esclusivamente dal limite unico della tavola. A questo punto, sembra si
debba scegliere. E allora, delle due una? Direi di no. Si tratta di determinazioni
che agiscono contemporaneamente (consecutivamente, in realtà), il cui risultato
emerge da una negoziazione tra la sovradeterminazione (la tavola, in questo caso)
e le “spinte” dall’interno (le singole configurazioni che modellano da sé l’inqua-
dratura entro la quale si collocano). Mi spiego. Nella complessa pagina di Toppi,
se consideriamo la tavola come contenitore unico, sovradeterminante, assogget-
tiamo a un singolo principio formale (e a un singolo punto di vista) tutte le
configurazioni contenute. E del resto è pur vero che esiste una tavola ed è lì
dentro che noi, innanzitutto, vediamo contenute le tre configurazioni, percepen-
do tutto ciò che è collocato entro la tavola come un’unica composizione. Poi ci
rendiamo conto che ogni configurazione ha una sua autonomia: iniziamo a
individuare (cioè riconoscere e separare) i tre gruppi, comprendendo che l’arti-
colazione della composizione è più complessa di quanto ci sembrasse inizialmen-
te e che la presenza delle due figure di uomini piccoli in realtà ci spinge a
collocarli in uno spazio che, oltre a essere quello della tavola, è anche un altro
spazio che si addensa loro intorno e assume significato e forme differenti rispetto
allo spazio che prima li conteneva. Si tratta di uno spazio dinamico, che muta
man mano che ci addentriamo nell’osservazione (e nella narrazione) e focalizziamo
l’attenzione passando dall’intera tavola alla prima, poi alla seconda e infine alla
terza figura. Una rappresentazione instabile eppure di un’efficacia pregnante, la
cui articolazione è in dialogo con il nostro sguardo.
56
metafora, appunto quella del collocamento “nel cerchio nefasto della
malevolenza”, assume una forma fisica visibile che racchiude il mal-
capitato destinatario di tale risentimento. Lo spazio in cui vengono
rappresentate le storie fantastiche di Sharaz-de è anch’esso uno spazio
fantastico, uno spazio “tenuto insieme” e regolato dalla narrazione,
non dalle leggi dell’ottica fisica. Del resto, il testo articola da subito
la rappresentazione in tre momenti distinti che corrispondono alle tre
configurazioni individuate: «C’era, al seguito del re, un grande digni-
tario che molto già aveva ottenuto dalla benevolenza del sovrano. /
Roso da invidia per le fortune del sapiente, lo collocò nel cerchio
nefasto della sua malevolenza. / Così si recò dal re…». Toppi, qui
come in altri numerosi esempi della sua produzione, riesce straordi-
nariamente ad adeguare la rappresentazione al mondo della narrazio-
ne, creando uno spazio che, come nel sogno, ha determinazioni flui-
de, evolve in se stesso, per via di suggestioni e trasformazioni che
coinvolgono il fruitore in un processo di lettura che spinge all’imma-
ginazione più che al riconoscimento 57.
CONCLUSIONE
57
Il passo successivo credo che potrebbe essere solo quello di un
racconto che procede separando i suoi momenti in vignette. Un rac-
conto in cui il tempo scorre tra le vignette, oltre che al loro interno,
come abbiamo visto sin ora. E come avrete notato, più volte glissando,
abbiamo evitato di parlare del testo all’interno delle vignette e, quin-
di, della sua lettura, attività che di per sé si svolge nel tempo e,
insieme alle immagini, contribuisce a formare il ritmo particolare del
racconto. Ma questioni del genere diventerebbero il terreno per una
trattazione ulteriore, non prevista in questa sede e ben più ampia di
quella che ho cercato qui di circoscrivere e rendere, spero, quantome-
no accettabile.
58
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