ANALISI DEL TESTO “NOI SIÀN LE TRISTE PENNE ISBIGOTITE”
Guido Cavalcanti, in questo suo sonetto, composto da quattro strofe (due
quartine e due terzine), presenta la sua tipica concezione dell’amore; una
concezione negativa di questo sentimento che porta l’uomo innamorato a un
vero e proprio struggimento dell’anima che culmina con morte della persona
stessa. Questa concezione dell’amore è tipicamente cavalcantiana ed è in
contrapposizione con il pensiero stilnovista classico dell’argomento: per il
nostro poeta, infatti, i prodotti dell’amore sono per lo più negativi (pensieri,
sospiri, angoscia, morte, pianto e dolore) mentre invece, per gli altri stilnovisti,
il sentimento amoroso perfeziona l’animo del poeta. Analogie di questo
concetto le ritroviamo nei testi Voi che per li occhi mi passaste ‘l core e Perch’i’
no spero di tornar giammai. In Voi che per li occhi mi passaste ‘l core
ritroviamo questa immagine nei versi 8, (“e voce alquanta, che parla dolor”), 11
dove viene espressa un’immagine di dolore fisico, (“un dardo mi gittò dentro
dal fianco”) e 14 (“veggendo morto ‘l cor nel lato manco”), rimandando sempre
ad un’immagine simile a quella del verso 11. Nonostante tutte queste
differenze dal punto di vista concettuale, Guido Cavalcanti mantiene il tipico
stile stilnovista del componimento: molto artificioso e ricco di figure retoriche,
sia di suono che di significato (come assonanze, perifrasi, apostrofi e
personificazioni).
Una differenza rispetto agli altri componimenti di Cavalcanti riguarda il tipo di
narratore: mentre nel Perch’i’ no spero di tornar giammai il poeta si rivolge con
un vocativo alla sua ballatetta, incaricata di portare sue nuove alla donna
amata, qui la poesia si apre con una vera e propria presentazione (noi siàn le
penne isbigotite). In questo modo il poeta vuole farci capire che non sarà lui il
narratore per il resto del componimento, bensì saranno direttamente i suoi
oggetti da lavoro: penne, cesoiuzze e coltellin. Sceglie come narratori queste
cose probabilmente perché sono gli attrezzi con cui il poeta ha più familiarità.
Essi, infatti, conoscono talmente bene il loro padrone che si permettono di
parlare e narrare di cose molto intime, come il dolore, che riguardano il poeta
stesso. Questa scelta ha uno scopo ben preciso: permette al poeta di
distaccarsi dal componimento. In questo modo permette al lettore di esplorare
la situazione di struggimento del poeta da un punto di vista che non sia il suo,
contribuendo inoltre ad aumentare la pena che il lettore prova nei suoi
confronti in quanto creatura turbata e sofferente. Egli, infatti, non si trova
nemmeno nelle condizioni adatte a scrivere un componimento, tanto che, ad
assolvere questo compito sono degli oggetti tipicamente inanimati. Anche
l’utilizzo dei vezzeggiativi e diminutivi dati agli oggetti (v. 2) hanno lo scopo di
spingere il lettore a compatire le penne, le cesoiuzze e il coleltellin vista la loro
situazione: questi attrezzi, data l’infermità e l’agonia dello scrittore,
probabilmente verranno abbandonati. Proprio per questo motivo sono proprio
gli oggetti, nell’ultimo verso, a pregare la pietà del lettore e la sua
compassione parlando direttamente al lettore per mezzo di due apostrofi (v. 6
e v. 14).
Nonostante questa sostanziale differenza rispetto al resto della produzione
poetica di Cavalcanti, notiamo anche molte caratteristiche tipiche dei suoi
componimenti. Una di queste è la personificazione dell’oggetto a cui ruota
intorno l’intero componimento (nei testi Voi che per li occhi mi passaste ‘l core
e Perch’i’ no spero di tornar giammai erano rispettivamente l’Amore e la
ballatetta). Un altro elemento caratteristico dei sonetti di Cavalcanti è la
divisione delle strofe secondo uno schema logico. In questo caso lo schema
unisce le prime due quartine (in particolare i primi 6 versi), che riguardano
principalmente la presentazione degli oggetti narranti, e le ultime due terzine,
che trattano dello struggimento del poeta (v.7-11) e della ricerca di pietà del
lettore per suoi attrezzi (v.12-14). Le due parti sono connesse per mezzo del
nesso presente nei versi 5 e 6 (“or vi diciàn perché noi siàn partite e siàn
venute a voi qui di presente”).