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Paolo Sulla Via Di Damasco - Conversione o Vocazione - La Civiltà Cattolica

Il documento discute se l'incontro di Paolo con Gesù sulla via di Damasco possa essere considerato una conversione o una vocazione. Descrive come Paolo si riferisca a questo evento nelle sue lettere usando termini come vocazione o chiamata piuttosto che conversione. Inoltre analizza come la testimonianza delle lettere di Paolo sia la fonte primaria per comprendere questo episodio.

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Paolo Sulla Via Di Damasco - Conversione o Vocazione - La Civiltà Cattolica

Il documento discute se l'incontro di Paolo con Gesù sulla via di Damasco possa essere considerato una conversione o una vocazione. Descrive come Paolo si riferisca a questo evento nelle sue lettere usando termini come vocazione o chiamata piuttosto che conversione. Inoltre analizza come la testimonianza delle lettere di Paolo sia la fonte primaria per comprendere questo episodio.

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Paolo sulla via di Damasco: conversione

o vocazione?
Giancarlo Pani
4 Gennaio 2014
QUADERNO 3925

Istock/bperry

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All’Angelus
Informativa del 25 gennaio 2009, festa della Conversione di san Paolo e conclusione
della Settimana di preghiere per l’unità dei cristiani, Benedetto XVI si riferiva ad
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Puoi liberamente «perché
prestare, rifiutare [Paolo]
o revocare era già incredente,
il tuo consenso, anzi ebreo
qualsiasi momento. Il rifiutofervente, e può
del consenso
rendere non disponibili le relative funzioni.
perciò non passò dalla non-fede alla fede, dagli idoli a Dio, né dovette abbandonare
Usa il pulsante “Accetta” per acconsentire. Usa il pulsante “Rifiuta” per continuare senza accettare.
la fede ebraica per aderire a Cristo». Il Papa concludeva: «In realtà, l’esperienza
dell’Apostolo può essere modello di ogni autentica conversione
Scopri di più e personalizza
cristiana». Accetta
Rifiuta
Certo, nell’incontro del Risorto con Paolo si può parlare di «conversione»[1]. L’evento
tuttavia ha una certa varietà di denominazioni: «vocazione»[2], «rivelazione»[3],
«illuminazione»[4], «folgorazione sulla via di Damasco»[5], «rivoluzione,
trasformazione»[6], «trasfigurazione di Paolo»[7]. Di fatto, almeno nella lingua italiana,
il termine «conversione» è quello ormai consacrato dall’uso. Moltissimi — è quasi
impossibile contarli — sono gli studi dedicati a tale argomento, e alcuni hanno visto
la luce in questi ultimi anni[8].

Nella liturgia latina la festa dedicata allaConversione di san Paolonon è


antichissima, poiché non se ne ha testimonianza prima del secolo X. L’antica liturgia
romana conosce, nel martirologio geronimiano, la Translatio Sancti Pauli apostoli
che, solo molto più tardi, diviene — forse perché si era perduto il significato della
festa — Translatio et Conversio Sancti Pauli in Damasco[9],o più semplicemente
Conversio Sancti Pauli[10]. Così si trova, per la prima volta, alla data del 25 gennaio,
nel calendario della corte papale compilato nel 1227; poi nel Messale dei Minoriti e in
quello di Pio V; e infine nell’attuale Messale liturgico.

Che nella vicenda di Paolo sulla via di Damasco si tratti anche di «conversione», non
c’è alcun dubbio. In essa si ha un aspetto esteriore e spettacolare, raccontato
soprattutto negli Atti degli Apostoli (9,1-19; 22,1-21; 26,4-18),ma presente anche nelle
Lettere di Paolo: quello di Paolo che da persecutore dei cristiani diventa apostolo di
Cristo (1 Cor 15,9; Gal 1,13-14.23; Fil 3,6). E si può distinguere anche un aspetto
puramente interiore, che traccia un itinerario conseguente al primo, sebbene
diverso: quello del rabbino, del maestro nella Legge, dello specialista nella
tradizione mosaica, dello zelante per il giudaismo, che da cultore della Legge si
trasforma in avversario della Legge. Ed è avversario su un piano pratico, nei rapporti
umani (l’azione pastorale di molti anni è dominata dalla polemica con i giudaizzanti),
e ancor più sul piano dogmatico: la Legge mosaica, che pure viene da Dio ed è
principio di salvezza, diventa nella Lettera ai Romani l’arma di cui il Peccato —
personificazione demoniaca[11] — si serve per condurre alla rovina.

Informativa
Quest’ultimo aspetto rivela il modo esistenziale in cui Paolo esprime i suoi
approfondimenti teologici.
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per acconsentire. poiché
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per continuare direttamente
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attraverso la sua esperienza personale. È il caso noto di quella pagina di Rm 7, dove
l’«io» che parla in prima persona non è l’io del credente, il quale, dopo il battesimo, è
ancora in balìa della concupiscenza e del peccato, e nemmeno l’io di Paolo che
evoca il suo passato di giudeo, ma è il protagonista di una storia in atto, proiet­tata
come figura assoluta dell’esperienza della giustificazione[12].

Ecco dunque il problema: è esatto parlare di «conversione» sulla via di Damasco? O


si tratta propriamente di un incontro reale con il Risorto, e quindi di una chiamata in
senso stretto, a cui Paolo risponde? In definitiva, si tratta di una vocazione che si
lascia localizzare in circostanze determinate di spazio e di tempo?

La testimonianza delle «Lettere»


La testimonianza delle Lettere rimane la fonte di prima mano, la più valida e più
attendibile per affacciarsi sulla storia di Pao­lo. Essa comporta il tono riservato di
un’esperienza nuova, e degli approfondimenti esistenziali e teologici che l’hanno
accompagnata. Ebbene, ogni volta che Paolo si riferisce a quell’incontro con il
Signore che sta alle origini della propria identità di apostolo, non usa mai il termine
«conversione»[13].

I vocaboli con cui nel greco si esprime una simile esperienza non gli sono ignoti, ma
ricorrono poco nel suo epistolario. Si trovano, per esempio, in 1 Ts 1,9,dove Paolo
ricorda ai destinatari la loro conversione dagli idoli per servire il Dio vivente. Poi in 2
Cor 3,16, dove si caratterizzano mediante una citazione dell’Antico Testamento
coloro che si convertono al Signore Gesù[14]. Paolo, tuttavia, non usa quel termine in
riferimento a se stesso: parla piuttosto di vocazione, di chiamata improvvisa,
misteriosa, che lo ha afferrato e coinvolto[15].

A dire il vero, qui si deve mettere in conto anche un termine squisitamente


neotestamentario: metanoia[16]. Di fatto non pochi usi di questo termine riguardano il
ravvedimento da situazioni di peccato intervenute dopo la giustificazione piuttosto
che l’evento radicale che l’ha preceduta. Inoltre, si deve notare la scarsa rilevanza
che i termini «pentimento» e «conversione» hanno nelle Lettere di Paolo[17].

La «Lettera ai Galati»
Informativa

La
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contemporanea, sono le testimonianze più antiche che alludono all’evento di
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Damasco. Di fronte
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le relative Paolo afferma con forza, fin dall’apertura della
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Lettera,e di “Accetta”
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senza accettare.
autorità apostolica, che non ha origine dagli uomini, ma direttamente da Dio (cfr 1,1),
con un chiaro riferimento a quanto è accaduto sulla via di Damasco. L’affermazione
ha tanta forza, e tanta compiutezza ed esaustività, da saldare insieme missione
apostolica e vocazione alla fede, e da riflettersi in un prolungamento più generale
circa l’immediatezza della vocazione cristiana di ogni credente.

Qui interessa notare soprattutto che Paolo è apostolo in vista di un annuncio


evangelico manifestatogli direttamente da Gesù Cristo (cfr 1,11-12)[18]. Le circostanze
di tale rivelazione vengono precisate in seguito. Paolo perseguitava la Chiesa di Dio
fino al parossismo: era animato da uno zelo estremo per la tradizione dei padri (1,13-
14). La chiamata di Dio avviene all’interno di tale contesto, e ribadisce la sua misura
singolare nella vita di Paolo, oltre che il primato dell’immediatezza: «Ma quando Dio,
che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si
compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunciassi in mezzo alle genti,
subito, senza chiedere consiglio a nessuno, senza andare a Gerusalemme da coloro
che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco» (1,15-17).

Il linguaggio riecheggia l’Antico Testamento greco: la scelta e la chiamata degli


uomini di Dio fin dal grembo materno, a cominciare da Sansone (cfr Gdc 16,17), ma
pure di Geremia (cfr Ger 1,5) e del Servo del Deuteroisaia (cfr Is 49,1)[19]; e dà un
particolare rilievo al verbo kaleo, fino ad assumerlo come termine tecnico per
l’azione efficace di Dio, il Vangelo della salvezza e della santità. La chiamata, la
rivelazione del Figlio e la missione di annunciare il Vangelo sono momenti collegati
tra loro e costituiscono il fondo originario della vocazione di Paolo.

A questo proposito, lo Schlier fa notare la concordanza delle Lettere di Paolocon gli


Atti: nonostante la loro forte diversità letteraria, le due serie di testi conoscono un
unico evento per cui Paolo è divenuto apostolo; e ne parlano come di una
«vocazione», non già propriamente di una «conversione»[20].

La «Prima Lettera ai Corinzi»


La Prima Lettera ai Corinzi ha numerosi accenni a questo evento. Una prima chiara
affermazione è già nel saluto della Lettera: «Paolo, chiamato a essere apostolo di
Cristo Gesù per volontà di Dio» (1,1). Nella comunità di Corinto alcuni sembrano
Informativa
mettere in dubbio l’autorità apostolica di Paolo, ma egli la ribadisce così, fin
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le relative quesiti pastorali. Nel rispondere se sia lecito o no
funzioni.
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mangiare carni immolate agli idoli (cfr 1 Cor 8), si rifà alla sua situazione personale.
Tutto è lecito, ma non tutto è opportuno e conveniente; quindi, bisogna saper
rinunciare alla propria libertà, se è di scandalo per i deboli nella fede (8,9). Nel dire
questo, Paolo invita i Corinzi a seguire il suo esempio; egli infatti, «pur essendo libero
da tutti», ha rinunciato a essere libero e si è fatto «servo di tutti» (9,19) per la loro
salvezza.

Da dove viene a Paolo tanta autorevolezza? La risposta è una serie di interrogativi


con cui egli rivendica la dignità apostolica: «Non sono forse libero, io? Non sono
forse un apostolo? Non ho veduto Gesù, Signore nostro?» (9,1). Fondamento e
presupposto della dignità di apostolo è, per Paolo, come per i Dodici[21], l’esperienza
diretta del Signore: o diluita nel tempo, come è accaduto ai Dodici; o condensata in
un’apparizione folgorante del Signore risorto, a cui è congiunta la missione di
annunciare il Vangelo[22]. Gesù nella sua gloria è intervenuto con forza nella vita di
Paolo, mutandone bruscamente il corso, poiché lo ha «chiamato a essere apostolo
per volontà di Dio» (1,1).

A proposito di questa pagina (1 Cor 9,7-14), il Munck ha richiamato l’attenzione su un


particolare che di solito viene trascurato[23]: Paolo ribadisce il proprio diritto a essere
mantenuto dalla comunità, come accade per Kefa, per gli altri apostoli e per i fratelli
del Signore. Ma dopo un’argomentazione ampia e particolareggiata, egli rinuncia in
maniera recisa a ogni diritto, dicendo: «Preferirei piuttosto morire» (9,15) che essere a
carico della comunità. E termina con una considerazione essenziale: «Annunciare il
Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone[24]: guai a
me se non annunciassi il Vangelo! Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla
ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato
affidato. Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il
Vangelo senza usare del diritto conferitomi dal Vangelo» (9,16-18).

L’accento è posto tutto sull’incarico che gli è stato affidato: un compito impostogli
autenticamente dal Signore, che rende la sua situazione diversa da quella degli altri
apostoli. La peculiarità sta nel fatto che per Kefa, per gli altri apostoli e per i fratelli
del Signore l’annuncio del Vangelo è il frutto finale di una catena di scelte, del
Signore e di loro stessi, che li ha gradualmente e liberamente coinvolti. Essi sono
Informativa
operai chiamati a impegnarsi nella vigna del Signore, con un rapporto che può
apparire come
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dare. Per Paolo, invece, il mandato nasce da un’irruzione improvvisa venuta da fuori
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l’accoglienza è stata libera e
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incondizionata. Un rapporto, dunque, in cui la ricompensa sta nella predicazione
stessa del Vangelo, e manifesta così la gratuità della salvezza di cui esso è
proclamazione. Pertanto non ha analogie con nessuna condizione di servizio reso a
un signore qualsiasi[25].

Così si vede perché Paolo considera l’evento capitale della sua vita un imprevedibile
mandato che ha per protagonista il Risorto: l’esercizio della missione di
evangelizzare è gratuito, in quanto parte costitutiva di una salvezza su cui nessuno
degli uomini ai quali il Vangelo è rivolto può rivendicare alcun diritto.

Un’allusione alla vocazione si ha ancora al termine della Lettera, là dove Paolo


ricorda alla comunità dei Corinzi il contenuto essenziale dell’annuncio evangelico: il
mistero pasquale della risurrezione di Cristo e dei credenti. Per una reazione istintiva
comune alla religiosità greca, a Corinto si sottovalutava l’attesa della risurrezione
dei morti (cfr 1 Cor 15,16.35), con la conseguenza di mettere in ombra la stessa
risurrezione del Signore, momento determinante della salvezza cristiana (cfr 15,14).

Di qui una professione di fede che rievoca le principali tappe della certezza
apostolica: la morte del Signore e la sua sepoltura, come premessa della sua
risurrezione; la conformità della risurrezione con le Scritture; le apparizioni di Pasqua
ai discepoli, poi le altre, e l’ultima, che si distingue dalle precedenti, a un estraneo e
un avversario come Paolo: «[Vi ho trasmesso che] Cristo morì per i nostri peccati
secondo le Scritture, e che fu sepolto, e che è risorto il terzo giorno secondo le
Scritture, e che apparve a Kefa, e quindi ai Dodici; […] a Giacomo, e quindi a tutti gli
apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto» (15,3-5.7-8).

Paolo dunque si annovera tra quelli ai quali si è comunicato il Risorto, e si è messo in


linea con loro: apostolo come i Dodici, perché l’apparizione del Signore era nei suoi
confronti un mandato apostolico[26]. Perciò riconosce di essere «l’ultimo fra tutti gli
apostoli», indegno di chiamarsi apostolo, perché era un persecutore della Chiesa di
Dio.

«Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana.
Informativa
Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me.
Dunque, sia io
Noi e terze parti che loro,
selezionate così predichiamo
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per finalità tecniche e,(15,10-11).
con il tuo Paolo quindi
consenso,
è apostolo
anche non dimeno
per le finalità dei Dodici:
esperienza identico
e misurazione è il messaggio;
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manda lui e loro: con un carico diverso, per lui più oneroso. Perciò il Vangelo
rendere non disponibili le relative funzioni.
predicato
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Corinto perèacconsentire.
lo stesso che Usa ilviene annunciato
pulsante da Pietro
“Rifiuta” per continuare e dai
senza Dodici, e ha per
accettare.
fondamento operativo e per contenuto primo la risurrezione di Gesù il Cristo.
Pertanto, anche la breve e preziosa enumerazione dell’incontro del Risorto con gli
apostoli conferma l’identità del Vangelo e della missione di annunciarlo, per Paolo
come per gli altri apostoli. Si menziona, sì, con partecipazione vivissima, l’indegnità
di Paolo, persecutore della Chiesa di Dio, a essere chiamato apostolo (cfr 15,8-9), ma
solo come occasione per magnificare quanto la grazia divina ha compiuto in lui, il
capovolgimento improvviso dalla condizione di persecutore a quella di testimone
del Vangelo.

Tuttavia qui non si parla di «conversione» per indicare tale capovolgimento,


destinato a essere vissuto, e a rimanere vissuto più che raccontato, perché lo
sguardo è rivolto a Dio che salva e lascia da parte le emozioni interiori di chi è
salvato.

La «Lettera ai Filippesi»
Nella Lettera ai Filippesi,il terzo capitolo, polemico contro chi vorrebbe indurre i
cristiani di Filippi alla circoncisione, ha il suo acme in un accenno alla vocazione di
Paolo. Questa consiste «nell’essere stato conquistato da Cristo» (3,12) e lanciato in
una corsa che ha come meta «il premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo
Gesù» (3,14). È chiaro che qui si allude all’incontro sulla via di Damasco.

Con un discorso molto personalizzato, Paolo contrappone agli avversari, orgogliosi


della loro circoncisione, i propri titoli di nobiltà giudaica. Ma dopo averli enumerati
ed esaltati uno per uno, li rifiuta sprezzantemente, come perdita e spazzatura (cfr
3,4-8), se rapportati a ciò che conta e che vale incomparabilmente più di tutto, «la
sublimità della conoscenza di Cristo Gesù» (3,8).

Avere esperienza di Cristo è un atto di conquista, è un «guadagnare Cristo» (3,8),


aperto sempre a nuovi approfondimenti. Ma è anche la condizione di chi, essendo
diventato intimo a Cristo, si lascia trovare in lui, e non più in se stesso, nella sua
storia, nei suoi meriti, nei suoi atti di fedeltà alla Legge; la condizione di chi non ha
nulla di suo, ma, privo di qualsiasi positività, è stato accolto nella santità del suo
Informativa
Signore e ne partecipa (cfr 3,9).
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Un
Puoisimile stato
liberamente di appartenenza
prestare, reciproca
rifiutare o revocare ha avuto
il tuo consenso, un momento
in qualsiasi iniziale:
momento. Il rifiuto quellopuò
del consenso in
cui Cristo
rendere ha afferrato
non disponibili Paolo.
le relative Da allora Paolo cerca di afferrare — katalambanein —
funzioni. a
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sua volta il Signore, di conoscerne l’animo e condividerne i sentimenti, di non
perderlo mai di vista e di avere il cuore occupato da lui: questa è la condizione di chi
afferra e insieme è afferrato. Né l’atto di conquista, né l’atto di venire conquistato,
che materialmente coincidono, dicono mai un possesso concluso: chiedono sempre
di venire completati, di andare più in là (cfr 3,12). Si caratterizzano infatti come
«chiamata dall’alto» (3,14), a cui Paolo risponde con quella corsa senza posa che è la
sua vita di apostolo (cfr 3,14).

La tensione spirituale di Paolo verso la meta ha come ragion d’essere l’iniziativa di


Cristo: «Mi sforzo di correre per conquistare [la meta], perché anch’io sono stato
conquistato da Cristo Gesù» (3,12). Con l’immagine di una gara in cui, per conseguire
il premio, gli atleti impegnano tutte le loro forze, il Signore Gesù si spende fino in
fondo per conquistare Paolo; e Paolo cerca a sua volta di conquistare il suo Signore.
Questa corsa in vista del premio non si consuma in un attimo, ma ha una sua durata,
in cui si è chiamati a intensificare la reciprocità del possesso.

Al di là della metafora della corsa, il testo parla realisticamente di chiamata:


l’iniziativa di Dio per la salvezza, manifestata e portata a compimento nel Cristo, e
ora diventata la meta per la vita di Paolo. Non si menziona l’evento di Damasco, ma
c’è un chiaro riferimento ad esso: quello è il momento in cui l’iniziativa di Dio si fa
Parola che interpella e che attende per risposta un’intera vita. Per i destinatari della
Lettera quell’incontro è presentato come esemplare: i Filippesi sono stati anch’essi
chiamati da Cristo, e il loro battesimo equivale alla Damasco di Paolo.

Questa pagina presenta una particolarità: l’uso del verbo greco dioko, con tre
significati vicini tra loro e diversi. Il verbo significa «affrettarsi verso una meta»,
«perseguire», ma assume sfumature proprie secondo il contesto. Là dove Paolo parla
di sé (cfr 3,6), ha senso attivo: Paolo ha perseguitato la Chiesa in ragione del proprio
zelo. Poi è intransitivo: «corro dietro, se mai lo afferri» (3,12)[27]. Più avanti, al culmine
del discorso, ha il significato di «mi sforzo in vista di un premio», che è una chiamata
dall’alto da parte di Dio in Cristo Gesù (cfr 3,14), l’atto con cui Dio innalza l’uomo
verso di sé per farlo simile a Cristo Signore.

Nei tre usi di questo verbo (passato, presente e futuro della meta finale) la vita viene
Informativa
colta da Paolo come una corsa verso il traguardo; perfino il suo zelo di persecutore
era
Noi euna
terzecorsa agitatautilizziamo
parti selezionate e scomposta, ma sempre
cookie o tecnologie similirivolta alla
per finalità meta.
tecniche Nessuno
e, con il tuo consenso,
stravolgimento,
anche per le finalità didunque,
esperienzanel suo modo
e misurazione di specificato
come essere onelladi agire,
cookie bensì
policy. la continuità di
Puoi liberamente prestare, rifiutare o revocare il tuo consenso, in qualsiasi momento. Il rifiuto del consenso può
un’unica corsa che il Signore, sulla via di Damasco, solleva a un livello infinitamente
rendere non disponibili le relative funzioni.
più
Usa ilalto. Tuttavia
pulsante “Accetta”non
per si può negare
acconsentire. Usa ilche tra «perseguitare
pulsante la Chiesa»
“Rifiuta” per continuare (3,6) e
senza accettare.
«perseguire il premio» (3,12.14) ci sia stata una inversione di marcia. L’elemento
comune è il temperamento focoso di Paolo, sia pure in un opposto orientamento.
La «Prima Lettera a Timoteo»
Nella nostra analisi dobbiamo tener presente anche un passo della Prima Lettera a
Timoteo. Sebbene si tratti di una delle Lettere pastorali,più tardive, vi compare un
accenno al ministero di Paolo che conferma indirettamente quanto è stato già
detto.

Paolo, prima della missione affidatagli, era «un bestemmiatore, un persecutore, un


oltraggiatore» (1,13). Il termine «bestemmiatore» rinvia alla negazione di Cristo come
Messia, Figlio di Dio e Dio stesso[28]. Poi dalle parole si passa ai fatti: Paolo è anche
persecutore. E qui ritorna il verbo dioko, che abbiamo già visto[29]. Infine, Paolo è «un
oltraggiatore», ybristes[30]. Questo termine può significare un oltraggio fisico o
morale: negli Atti l’azione di Paolo è espressa in termini di oltraggio fisico[31], mentre
in Gal 1,13, che è un parallelo di 1 Tm 1,13, si ha di mira soprattutto l’oltraggio morale,
come appunto in questo passo.

Subito dopo, nel testo della Lettera, Paolo dice che agiva così «per ignoranza,
lontano dalla fede» (1,13); ma Dio gli ha usato ugualmente misericordia, facendolo
«apostolo di Gesù Cristo» (1,1).

Anche nella Prima Lettera a Timoteo, dunque, la vocazione di Paolo non è


presentata come conversione: l’iniziativa di Dio lo ha chiamato a essere apostolo
mentre egli era bestemmiatore, persecutore e oltraggiatore, e peccava contro la
fede. Si dà un cambiamento radicale, ma visto non come esperienza di Paolo, bensì
come intervento di Dio a definire il nuovo status di Paolo nei confronti di Cristo.

Gli «Atti degli Apostoli»


La testimonianza di Paolo nelle Lettere parla dunque inequivocabilmente di
«vocazione», e non di «conversione». Una conferma di ciò si ha anche negli Atti degli
Apostoli. Le notizie date da questo libro hanno un valore diverso da quelle
dell’epistolario paolino. Se non si può parlare di «narrazione tendenziosa»[32],
Informativa
certamente dobbiamo riconoscere che Luca interpreta teologicamente gli
avvenimenti che racconta.
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utilizziamo rapporto al tema
o tecnologie similiinper
esame, l’evento
finalità tecniche di Damasco
e, con è
il tuo consenso,
anche per le finalità di esperienza e misurazione come specificato nella cookie policy. [33]
raccontato in questo libro ben tre volte, con significative differenze , che sono
Puoi liberamente prestare, rifiutare o revocare il tuo consenso, in qualsiasi momento. Il rifiuto del consenso può
state
rendereaccuratamente studiate.
non disponibili le relative funzioni.L’intenzione del racconto è sensibilmente diversa nei
tre
Usa casi, e subordina
il pulsante “Accetta” peraacconsentire.
sé la materialità dei particolari
Usa il pulsante narrativi:
“Rifiuta” per continuare neiaccettare.
senza tre testi si ha un
crescendo che mira a mettere in rilievo la missione di Paolo verso i gentili.
Il primo racconto (9,1-19) riferisce i fatti, mettendo l’accento sulla vocazione
improvvisa di Paolo all’apostolato. Al culmine del suo ufficio di persecutore di Gesù
Cristo (9,4) e di quanti sono su quella «Via» (cfr 9,2), una rivelazione divina gli
annuncia che è stato scelto per proclamare[34] il nome di Gesù pubblicamente
davanti ai gentili e ai figli di Israele (cfr 9,15). Con molta acutezza, l’edizione critica
del Merk intitola il capitolo 9, Sauli vocatio[35].

Il secondo racconto (cfr 22,3-16) è fatto dallo stesso Paolo, in una circostanza
diversa, drammatica: il tribuno romano lo ha arrestato per sottrarlo alla folla dei
giudei che volevano linciarlo; e ancora sotto la minaccia di morte e carico di
percosse, Paolo testimonia a voce alta ai suoi persecutori la propria missione nei
confronti dei gentili (cfr 22,21).

La terza volta è di nuovo Paolo che parla, nella pace di una rispettosa prigionia a
Cesarea, alla presenza del tribuno romano Festo e di due suoi ospiti giudei, che sono
il re Agrippa II e la sorella di lui, Berenice. In questo momento egli è, ufficialmente,
l’avvocato di se stesso (cfr 26,1); e il senso di quello che dice è di rendere conto della
sua posizione giuridica nei confronti dei giudei e dell’autorità romana, mettendo in
evidenza la ragione direttamente religiosa — una visione celeste in vista di un
mandato — della sua prigionia e del suo appello a Cesare. Egli è inviato ai giudei e ai
gentili, «per aprire i loro occhi, perché si convertano dalle tenebre alla luce» (26,18).

Per ben tre volte, sebbene sotto aspetti sensibilmente diversi, il racconto degli Atti
esprime la missione di Paolo come vocazione profetica, non come conversione.
Nelle ultime parole citate si usa il verbo «convertirsi»[36], ma non riferito a Paolo,
bensì ai gentili e ai giudei. L’iniziativa di Cristo nei confronti di Paolo è indicata
invece da lui con il verbo apostellein, «inviare in missione» (cfr 22,21; 26,17).

Si deve anche notare che gli Atti non usano per Paolo il termine «apostolo»[37], che è
riservato ai Dodici scelti da Gesù nel Vangelo (cfr Lc 6,13). Questa è una singolare
diversità rispetto alle Lettere:per Luca, infatti, il termine «apostolo» esprime la
Informativa
comunione di vita e di missione che lega Gesù al gruppo dei Dodici.
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da una rivelazione di Cristo risorto (cfr Gal 1,1.11-12).
Un’ultima differenza riguarda Paolo «persecutore» dei cristiani. Stando ad At 8,3,egli
ha perseguitato la Chiesa a Gerusalemme. Risulta così attenuata l’affermazione
della Lettera ai Galati, secondo la quale, alcuni anni dopo, molti cristiani della
Giudea non lo conoscevano di persona come antico persecutore della Chiesa e
avevano sentito parlare di lui in questi termini quando ormai era noto come
apostolo[38], L’ampiezza dell’attività anticristiana di Paolo a Gerusalemme va
probabilmente ridimensionata: gli Atti ne parlano sobriamente e di sfuggita (cfr 8,3;
9,13.21), e soltanto in relazione con quanto accadrà dopo[39].

D’altra parte, si è visto che tutte queste differenze sono interne ai diversi livelli
teologici e narrativi degli Atti: non contrastano con il punto centrale della
rivendicazione di Paolo, che è apostolo perché chiamato immediatamente da
Cristo.

La fede di un ebreo
Nel formulare un discorso sulla fede di un ebreo che passa alla fede cristiana, non si
può dimenticare un’altra considerazione che convalida, da un punto di vista storico-
religioso, la testimonianza autobiografica di Paolo e la narrazione degli Atti. Se è
vero che per qualsiasi persona la vocazione alla fede cristiana può includere anche
la conversione, questo non è esplicitato nel caso di Paolo: la ragione sta nel fatto
che egli è un ebreo, e quindi appartiene già al popolo di Dio.

Sia nell’Antico, sia nel Nuovo Testamento il termine «conversione» indica il passaggio
dal male al bene, il rigetto dell’idolatria per riconoscere il «vero» Dio, o almeno quel
cambiamento sostanziale di chi rinnega il peccato per seguire i comandamenti di
Dio. Nel caso di Paolo, innegabilmente un cambiamento c’è, perché cessa
un’opposizione: ma questa cessa per ragioni completamente interne all’opposizione
stessa. Per un ebreo riconoscere il Messia significava rimanere rivolto allo stesso Dio
di prima, sia pure a un livello diverso: la sua nuova fede è il perfezionamento e la
pienezza del proprio itinerario precedente. Ecco perché non è esatto parlare di
«conversione»,
Informativa in riferimento al passato oppure al presente, per un ebreo che, per
fedeltà alla Torah e ai profeti, riconosca Gesù come Messia: si tratta piuttosto della
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fede
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Conclusione
La testimonianza diretta delle grandi Lettere, la documentazione che risulta dagli
Atti, ma pure queste ultime considerazioni sulla fede di un ebreo cristiano mostrano
che non è esatto parlare di «conversione» per l’evento di Damasco. Il termine
appropriato è quello a cui ricorre lo stesso Paolo: una «vocazione», o forse meglio, in
rapporto alla tradizione biblica, un’elezione e una vocazione.

Già nel passato erano stati formulati dubbi sull’uso del termine «conversione». Nel
1942, Eduard Pfaff, esaminando con cura circa trecento studi sul tema della
conversione di Paolo, usciti tra il 1900 e il 1940, giunse alla conclusione, per lui nuova
e degna di nota, che «Paolo non parla mai di una sua conversione, ma parla quasi
sempre di vocazione, collegando quell’evento con la sua missione di apostolo»[40].
Intorno agli anni Cinquanta, Johannes Munck chiamava l’evento di Damasco la
vocation de l’Apôtre Paul.Nel 1963, lo studio di Krister Stendhal sulla coscienza
introspettiva nell’Occidente[41],esaminando il problema nell’epistolario paolino,
sottolineava che per Paolo non si dà prima una conversione e poi un mandato
apostolico, ma soltanto una vocazione al ministero tra i pagani. Questa è una
vocazione propriamente profetica, in quanto a lui e non ad altri spetta di chiarire
teologicamente quale sia il posto d’Israele, e perfino della sua transitoria infedeltà,
nella salvezza cristiana; o, se si vuole, il valore culminante dei capitoli 9–11 della
Lettera ai Romani, che non sono una semplice appendice dei primi otto.

Simon Légasse, nel saggio di biografia critica Paul apôtre, scrive a questo riguardo:
«Se dunque, per ragioni di comodo, si conserva il termine “conversione” per Paolo,
occorre sapere che esso acquista in tal caso un senso specifico e, a dire il vero,
senza paralleli veri e propri»[42].

Ma allora, in conclusione, se si tratta di dare un senso specifico a un termine che ha


già un significato proprio, tanto vale adottare quello di «vocazione», che Paolo
stesso ha scelto per indicare la sua missione di apostolo.

Copyright © La Civiltà Cattolica 2014


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[1]
. G.
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come Brescia,
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. A. F. Segal, Paul
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the Convert. The Apostolate, and Apostasy of Saul the Pharisee,New Haven-London,
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Yale University
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acconsentire. La conversione
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“Rifiuta” per continuare senza Esegesi,
accettare. storia,
teologia, Roma, Dehoniane, 1992.
[2]
. J. Munck, «La vocation de l’Apôtre Paul», in Studia Theologica 1 (1947) 131; F.
Manns, Saulo di Tarso. La chiamata all’universalità, Milano, Terra Santa, 2008.

[3]
. C. M. Martini, Le confessioni di Paolo,Milano, Àncora, 1983, 43. Paolo usa il
verbo «rivelare» in Gal 2,13-24.

[4].D. Marguerat, Paolo di Tarso. Un uomo alle prese con Dio,Torino, Claudiana,
2004, 26 s.

[5]. A. Omodeo, Paolo di Tarso. Apostolo delle genti, Napoli, Edizioni Scientifiche
Italiane, 1956, 125.

[6]
. L. Baeck, Paulus, die Pharisäer und das Neue Testament, Frankfurt am M., Ner-
Tamid, 1961, 10.

[7]
. F. Rossi de Gasperis, Paolo di Tarso evangelo di Gesù. Messia crocefisso, fatto
Signore glorioso mediante la risurrezione dai morti (At 2,36; Rm 1,1-4), Roma, Lipa,
20082, 61-104.

[8]
. Cfr E. Pfaff, Die Bekehrung des H. Paulus in der Exegese des 20. Jahrhunderts,
Roma, PUG, 1942, 148-169; J. D. G. Dunn, Gli albori del Cristianesimo, II, 2. Gli inizi a
Gerusalemme. Paolo apostolo dei gentili, Brescia, Paideia, 2012; A. Vanhoye, La
vocazione e il pensiero di san Paolo, Roma, Adp, 2013.

[9]
. M. Righetti, Manuale di Storia liturgica, II. L’anno liturgico nella storia, nella
Messa, nell’Ufficio, Milano, Àncora, 19693, 462.

[10].
L. Duchesne, Origines du culte chrétien. Étude sur la liturgie latine avant
Charlemagne, Paris, Boccard, 1920, 298.

[11]
. Cfr S. Lyonnet, «Peché», in DBS 7, Paris, Letouzey et Ané, 1964, 503-509.
Informativa
[12]
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Si veda l’esegesi utilizziamo
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Puoi liberamente prestare, rifiutare o revocare il tuo consenso, in qualsiasi momento. Il rifiuto del consenso può
Penna, La Lettera ai Romani, Bologna, Edb, 2010, 480-523.
rendere non disponibili le relative funzioni.
Usa il pulsante “Accetta” per acconsentire. Usa il pulsante “Rifiuta” per continuare senza accettare.
[13]
. Cfr C. J. den Heyer, Paul. A Man of two Worlds, London, SCM Press, 2000, 51. I
termini e i verbi con i quali si esprime l’esperienza della conversione sono noti:
metanoia, metanoein, oppure strepho, epistrephein.
[14]
. Paolo cita Es 34,34: all’interno del rinvio ricorre epistrephein.

[15]
. Così pure negli Atti degli Apostoli viene usato più volte il termine «conversione» e
il verbo corrispondente, ma non in riferimento a Paolo.

[16].
Il termine ricorre in Paolo quattro volte: Rm 2,4; 2 Cor 7,9.10; 2 Tm 2,25. Nel
Nuovo Testamento ricorre invece 24 volte.

[17]. Cfr R. Penna, «Pentimento e conversione nelle Lettere di san Paolo: la loro
scarsa rilevanza soteriologica confrontata con lo sfondo religioso», in Vangelo,
religioni, cultura. Miscellanea di studi in memoria di mons. Pietro Rossano, Cinisello
Balsamo (Mi), San Paolo, 1993, 57-103.

[18]
. H. Schlier, La Lettera ai Galati, Brescia, Morcelliana, 1963, 46-51; F. Mussner, La
Lettera ai Galati, Brescia, Queriniana, 1987, 126-138; B. Corsani, Lettera ai Galati,
Genova, Marietti, 1990, 81-84; A. Vanhoye, La Lettera ai Galati, Milano, Paoline, 2000,
42.

[19]
. Così pure il Sal 22 (21),10-11 e il Sal 71 (70),6.

[20]
. H. Schlier, La Lettera ai Galati, cit.,58, nota 11. Lo Schlier aggiunge anche che le
Lettere e gli Atti non distinguono neppure tra la vocazione di Paolo e una rivelazione
di Cristo che gli trasmise il Vangelo (ivi). Cfr S. Sabugal, La conversione…, cit., 27;
l’autore rileva anche che nel contesto non appare il termine «conversione»; per lui
sarebbe «implicito nel fatto della trasformazione radicale di Paolo, nella rottura
totale con la sua condotta anteriore, espressa dal netto contrasto fra il prima (1,13-14)
e il dopo la vocazione, rivelazione e missione divina (1,15-16a-b), tra il suo passato
giudaico e il suo presente cristiano» (ivi). Il Sabugal forse sottovaluta il fatto che la
transizione tra giudaico e cristiano è un compimento. D’altra parte, è vero che il
«giudaico» comprende ostilità alla fede cristiana e la «transizione» comprende un
aspetto della conversione.
Informativa
[21]
Noi. e terze
Cfr At
parti1,21-22: il criterio
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[22]
. Cfr 1 Cor 9,16: «Guai a me se non annuncio il Vangelo!». Cfr G. Barbaglio, La
rendere non disponibili le relative funzioni.
prima Lettera
Usa il pulsante ai Corinzi,
“Accetta” Bologna,
per acconsentire. UsaEdb, 1996,“Rifiuta”
il pulsante 440. per continuare senza accettare.

[23]
. J. Munck, «La vocation de l’Apôtre Paul», cit., 134 s.
[24]
. Si noti il testo greco, dove appare ananke, e che si dovrebbe tradurre: «un
destino che mi sovrasta»; cfr E. Käsemann, «Eine paulinische Variation des “amor
fati”», in Id., Exegetische Versuche und Besinnungen, II, Göttingen, Vandenhoeck,
1965, 237.

[25]. G. D. Fee, The First Epistle to the Corinthians, Grand Rapids (Mich.), Eerdmans,
1991, 416 s.

[26].Ophthe kamoi: il passivo ha significato intransitivo: «diventò visibile, si rivelò,


apparve anche a me», e distingue l’evento di 1 Cor 15,8 dalle altre visioni che ha
avuto Paolo.

[27]
. Oppure si può tradurre: «aspiro a prenderlo, se mai lo afferri».

[28]
. Blasphemos: cfr At 6,11; Mc 2,7; 14,64; Mt 26,65; Gv 10,33-36.

[29]
. Il verbo è lo stesso che indica la persecuzione nelle Beatitudini (Mt 5,11-12).

[30]
. Il termine ritorna solo in Rm 1,30.

[31]
. Cfr At 8,3: «Saulo devastava la chiesa, entrando di casa in casa; e trascinando
via uomini e donne li metteva in prigione»; si veda pure At 9,1-2.13; 22,4.19; 26,10-11.

[32]
. Cfr G. Bornkamm, Paolo…, cit., 36.

[33]. B. Corsani, Lettera ai Galati,cit., 102 s.

[34]. G. LohFink, La conversione…, cit., 100. Lohfink fa notare il significato letterale


del testo; «portare il nome» di Cristo (At 9,15) indica che Paolo lo confesserà
pubblicamente. L’annuncio qui non è fatto a Paolo, ma ad Anania.

Informativa
[35]
. A. Merk, Novum Testamentum graece et latine apparatu critico
instructum,Roma, 19445, 425.
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[36]
. At 26,18: epistrephein, che propriamente significa «riconvertirsi»; cfr Gal 4,9.
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[37]
. Tuttavia si dà una eccezione in At 14,14.

[38]
. Gal 1,23.
[39]
. Cfr Ph. H. Menoud, «Le sens du verbe πορθει̃ν (Gal 1,13.23; Act 9,21)», in Foi et
salut selon S. Paul (Epître aux Romains 1,16), Rome, PIB, 1970, 89 s.

[40]
. Cfr E. PfaFF, Die Bekehrung…, cit.,169.

[41]. Cfr K. Stendhal, Paolo tra ebrei e pagani e altri saggi,Torino, Claudiana, 1995
(orig. ingl. 1963), 55-76.

[42]. S. Légasse, Paolo apostolo. Biografia critica, Roma, Città Nuova, 1994, 74.

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