Giulio Bedeschi
Centomila gavette di ghiaccio
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Testimonianze
fra cronaca e storia
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Copyright 1963
Mursia & C.
Ventitreesima edizione: ottobre 1964
- epub by Kissimo -
Centomila gavette di ghiaccio è la
rievocazione della ritirata di Russia durante
la quale ben centomila soldati italiani
perirono o combattendo o soccombendo al
freddo e alla fame. L'Autore, sottotenente
medico nell'ultima guerra, ha preso parte
alle campagne di Grecia e di Russia,
partecipando a tutta la ritirata con la
Divisione Julia. Attualmente vive e lavora a
Milano.
La richiesta di quest'opera è in continuo
crescendo, e il consenso dei lettori l'ha
inserita in primissima linea fra i best-sellers
del 1963.
All'eccezionale consenso di pubblico fa
riscontro il giudizio della critica: riviste e
quotidiani di ogni livello, orientamento e
impegno, si sono manifestati concordi nel
riconoscere al libro il suo altissimo valore
sul piano umano, morale, documentario e
letterario, che lo pone di diritto fra i
capolavori della letteratura di guerra d'ogni
paese.
Opera composita, originale sì da non
essere facilmente riducibile a schemi,
traduce mirabilmente in termini di
semplicità ciò che in effetti è essenzialità e
verità.
Quanto più il lettore si addentra nel
testo, tanto più avverte il richiamo degli
universali toni di fondo che costituiscono
l'intimo tessuto del libro, vive di pagina in
pagina la propria immedesimazione nei
personaggi e nella vicenda; quanto più sia
provveduto, divide con gli alpini le
sofferenze nella tragica sacca e nel contempo
subisce il fascino e il contagio degli eterni
valori che vivono in quelle vite; e al termine
s'avvede che il significato e l'appello della
narrazione sono perenni e fuori d'ogni
contingenza, sono validi anche per la vita
d'oggi, per l'umanità attuale imprigionata
anch'essa in una enorme sacca: il conflitto
d'idee armate che accerchia il mondo, e lo
rinserra nella minaccia d'un incombente
conflitto atomico.
L'Autore ha affidato alle pagine del libro
il suo appassionato messaggio: sull'esempio
degli alpini, superstiti invitti perfino in una
allucinante disfatta, abbattere ogni folle
strettoia e superarla mediante il disperato
voler mantenere in vita il senso della dignità
individuale, il rafforzamento della
solidarietà umana, l'apertura alla speranza
intesa come attivo anelito al bene; in una
parola, mediante una redentrice e più civile
spinta d'amore fra gli uomini.
In memoria di mio Padre
A tutti i Caduti.
A Scudrèra, conducente di mulo.
A tutti gli Alpini, miei fratelli.
A quanti non vogliono essere oggi i
futuri Caduti.
Il male non è soltanto di chi lo fa:
è anche di chi,
potendo impedire che lo si faccia,
non lo impedisce.
Tucidide
Le generazioni che hanno vissuto e sofferto
la guerra e i giovani affacciatisi alla vita negli
ultimi anni respirano ancora ai giorni nostri
un clima d'angosciosa tensione: da un capo
all'altro della terra odono ogni poco levarsi a
minaccia l'antico urlo: guerra! Tacciono,
implorando che l'ala nera sfiori soltanto e
non si posi sugli animi, sulle carni, sui figli, o
gridano il loro diritto e la loro volontà di non
dovere ancora una volta morire a comando.
Nessuna voce sarà bastevole o superflua,
se tende a respingere la dissennata minaccia,
oggi più che mai poiché si delineano nei cieli
gli spettri atomici. L'analisi degli errori
compiuti nel passato e la conoscenza d'ogni
strazio sofferto impongono una civiltà
finalmente monda dalla barbarie della
guerra.
Questa è una voce che si unisce al coro di
quanti, col ricordo del recente passato,
tendono a far divenire realtà un avvenire
privo di paura.
Questa è una storia di alpini e di fanti,
poiché l'autore ha vissuto la guerra con essi
sui fronti d'Albania e di Russia, ma se anche i
personaggi qui descritti si ritraessero nello
sfondo e in loro vece avanzassero al
proscenio le madri, i padri, le spose e i figli,
la tragedia urgerebbe con pari violenza,
perché l'intero popolo ne ha patito l'orrore e
condiviso il dolore.
In questa storia la guerra è vista, per così
dire, dalla parte dei morti, che non hanno
conti da rendere e posizioni da sostenere;
perciò il libro, per quanto possibile, non
rispecchia passioni o impegni contingenti: il
suo significato prorompe direttamente dai
fatti vissuti e narrati.
Le vicende degli alpini nelle battaglie
invernali sul Don, i combattimenti durante il
ripiegamento per aprirsi un varco nelle
sacche sulla neve di Russia nell'inverno
1942-1943 attinsero tali vertici e somme di
patimenti da sfiorare l'indescrivibile;
raggiunsero senz'altro, e spesso varcarono, i
limiti estremi della capacità di sopportazione
umana oltre i quali s'affaccia, quasi a
sollievo, la morte. Ne risultava giorno per
giorno un quadro allucinante, che a distanza
di vent'anni si staglia per vita propria, unico,
tra le vicende della guerra.
La storia ormai ne ha delineato il disegno
nella sua paurosa vastità, ne è tuttavia poco
nota ancora l'intera sottile trama di tragici
eventi.
L'autore affida al lettore la storia vissuta
da un esiguo reparto; omettendo gli autentici
nomi ha voluto deliberatamente trascendere
le singole persone, perché questa è stata
davvero la storia di tutti gli alpini, e perché in
essa tutte le madri possano intravvedere il
volto dei loro figli e riviverne la storia di
dolore e di morte. L'affida, ancora, ai
compagni sopravvissuti, a testimonianza del
loro inaudito patire; l'affida a quanti vogliano
tenere vivo il ricordo di coloro che non
tornarono.
G. B.
Tempo primo
Erano portatori d'armi, per ciò soffrivano
I
La tradotta si avvicinava al mare.
I soldati sedevano quieti e silenziosi,
fumavano, guardavano dal finestrino; molti
stavano addentando con tranquilla costanza
polli e ciambelle, metodici nel tributo
d'omaggio alla cucina materna; tenendo a
mezz'aria una fetta d'arrosto o di salame
casalingo, masticavano lentamente
guardando a occhi socchiusi la campagna
placida.
Da qualche vagone veniva la voce di
piccoli gruppi che s'ostinavano a cantare
qualche vecchio ritornello militare, ma senza
entusiasmo.
Come ragazzi, i soldati ad un tratto
s'accalcarono ai finestrini: il mare!
Nell'imminenza della sera l'Adriatico
s'acquetava nella pace dell'ora, ondulando
qua e là, respiro più che moto; trapassava a
tinte scure, acquistando grado a grado
compattezza e immobilità.
I paesi rivieraschi passavano ad uno ad
uno, salutati dal fischio della locomotiva; ad
ogni successivo incontro, nonostante gli
ordini di oscuramento, le luci delle case
apparivano infittite quanto più la sera
s'incupiva e rivelavano la tranquillità delle
famiglie riunite attorno al lume e alla tavola.
Nel treno in corsa le voci allora
diradavano e cadevano, da nessuno raccolte;
ognuno, tranquillo al proprio posto,
affondava nel pensiero di casa sua.
Il sottotenente medico Italo Serri, seduto
su un cumulo di zaini ammonticchiati nel
corridoio del vagone, fumava in silenzio,
solo.
L'ordine di partenza della divisione era
giunto improvviso, e per due giorni era stato
tutto un correre, apprestare, acquistare,
affannarsi per racimolare un minimo
d'equipaggiamento. Nell'ora ultima aveva
abbracciato Bruna, la sorella sedicenne; e la
mamma, che si sforzava di reprimere ogni
manifestazione di dolore, e si limitava a
ripetere - nel suo infinito amore - le ultime
raccomandazioni, semplici care uguali a
quelle che gli faceva quando abbottonava il
cappottino e allacciava la sciarpa a lui
scolaretto in procinto di uscire, d'inverno,
per andare a scuola.
- E tienti sempre coperto, mi raccomando.
Scambiato il saluto con la sentinella,
all'ingresso della caserma si era trovato in un
mondo diverso. In ogni direzione, fra
porticati, cortili, uffici e stanzoni
s'intersecava, si confondeva un affaccendarsi
frenetico.
Dovunque schiere di soldati correvano,
litigavano, trasportavano le cose più
eterogenee, intralciati da gruppetti di altri
soldati che sostavano a fumare e a
chiacchierare nei punti di maggior passaggio.
Nello stanzino adibito ad infermeria
l'aiutante di sanità e gli infermieri
attendevano seduti sul tavolo e sugli zaini.
No, non era giunto ancora nessun ordine. Sì,
il materiale sanitario era già stato caricato.
Dal magazzino avevano portato la maschera
antigas e l'elmetto del signor tenente: eccoli.
Serri aveva soppesato l'elmetto e se l'era
posto in testa: era più grande del necessario,
gli ciondolava sul capo.
- No, signor tenente, non si può
cambiarlo; nel magazzino sono rimasti solo
gli elmetti grandissimi o piccolissimi;
quando siete venuto voi al battaglione la
distribuzione era già stata fatta da una
settimana.
- E la mia gavetta?
- Per gli ufficiali sono state spedite con il
materiale di battaglione, assieme con le
coperte.
In quel punto la tromba aveva suonato
l'adunata.
Nello stambugio dell'infermeria, in un
improvviso trepestio ciascuno si era
addossato le armi e l'equipaggiamento. Il
soldato Prati, attendente di Italo, aveva
aiutato l'ufficiale ad affibbiare lo zaino, poi la
maschera antigas che andava portata a
tracolla, infine quel ridicolo elmetto
traballante ad ogni movimento; lo si sarebbe
cambiato alla prima occasione propizia.
Era l'ora della partenza. Per ignota
destinazione, diceva l'ordine; ma una voce
corrente assicurava che il reggimento
sarebbe andato in Albania.
Per la guerra, comunque, per il fronte:
divisione di linea. Il battaglione al completo,
suddiviso in compagnie e plotoni, si era
schierato nell'ampio cortile. I soldati
attendevano che il reparto di testa iniziasse
la marcia per raggiungere la stazione
ferroviaria.
Ma ecco una schiera di ufficiali superiori
che entra nel cortile con piglio marziale ben
diverso dal loro atteggiamento consueto;
dinanzi a tutti sta un ufficiale ancor giovane,
con i gradi di generale di Corpo d'Armata.
Passa in rivista rapidamente il
battaglione, sale su una pedana e parla ai
soldati, subito attentissimi.
- Avete l'onore di far parte di una
Divisione che fra breve tempo sarà in linea.
Sono certo che ciascuno di voi sente che la
patria lo guarda... In questo momento
combattere è un privilegio cui tutti
ambiscono... So che tutti voi compirete il
vostro dovere... che siete pronti anche
all'estremo sacrificio... Ho il rimpianto di
dovervi dare qui il mio saluto... Le
responsabilità che mi legano... compiti di alto
impegno... Ma il mio cuore...
Potrebbe smettere, i soldati non lo
ascoltano più. Perché non lo capisce?
Non sa che i soldati che partono
ascoltano soltanto chi va con loro, e non
danno credito a chi resta? Non vede il viso
dei fanti?
- Ho la speranza... fra non molto tempo...
scendere sul campo di battaglia... Sarebbe il
mio più alto desiderio... Condurre i soldati
alla vittoria.
Finito. Ora è la volta della fanfara
reggimentale giunta in punta di piedi mentre
il generale parlava.
Quindi il generale se ne va, abbastanza in
fretta. Rimangono i soldati allineati, in
assetto di guerra.
E a un comando partono davvero per la
guerra, muovendo dalla compagnia di testa;
con un «per fila sinistr'», a tre a tre svoltano
all'angolo del cortile, raggiungono l'ingresso
della caserma ove la sentinella è sul
«presentat-arm» e guarda le terziglie a
salutare con un'ultima immobile occhiata i
compagni che vanno al fronte.
Ecco, passano i fanti del battaglione,
ragazzi dai venti ai venticinque anni, in
prevalenza di media statura, asciutti e non
troppo marziali sotto il peso dello zaino,
della coperta arrotolata e delle armi; il passo
è ritmato qua e là da rumore di chincaglieria,
sono cucchiai che sbattono contro le gavette
mal fissate. L'uscita dalla caserma non si può
dire che avvenga in perfetta simmetria, le file
si scompigliano un poco ma subito la
formazione riprende ordine, ché sulla strada
s'è raccolta una parte della popolazione e i
soldati sono stimolati da quella presenza.
All'improvviso, come per una tacita
parola d'ordine, sono tutti presi dalla volontà
dì sfilare in perfetto stile. La fanfara
imboccando il corso ha attaccato una marcia
militare e sulla cadenza ben ritmata s'adegua
il passo di ognuno, solenne, preciso. I volti
dei soldati acquistano un'espressione seria,
quasi dura; i corpi s'irrigidiscono un poco,
procedono ben eretti mentre gli occhi, senza
che il capo si muova, sfiorano la folla
immobile ai lati; ma gli sguardi dei soldati
intenti a marciare non indugiano su nessuno
e pare non vedano nulla.
La musica lontana è sopraffatta dal
rimbombo ferrigno degli scarponi
sull'asfalto, unico rumore che solca, ritmico,
il silenzio che grava sulle migliaia di persone
assiepate.
Sui marciapiedi sta il popolo; multiforme,
composto, sospinto in alterno moto da
entusiasmo e pena.
Sono donne grigie che sotto ogni elmetto
vedono il volto del figlio già partito o
dell'adolescente che, se la guerra non
termina presto, dovrà certamente partire;
l'angoscia materna tempera di tristezza e
d'affetto lo sguardo che vorrebbe essere fiero
e che si posa a carezzare tutti quei fanti, tutti
quei figli.
Sono uomini, maturi e vecchi, ai quali
altri tempi e altre guerre hanno impresso un
brivido che ora risorge, suscitando
un'infinità di ricordi di lotte, di entusiasmi e
di pene; memorie di ore atroci ed eroiche,
mai potute narrare o rivivere perché legate
soltanto all'ora di chi le visse, sacre a chi le
patì; per gli altri, ormai disperse da decenni
nella sfocata immagine di lontane guerre
patrie.
Infine, il reparto era entrato in stazione; i
soldati avevano occupato i loro posti nel
treno già in attesa, ridiscendendo fra la calca
dei parenti formicolanti sotto la pensilina. Le
lacrime di qualche mamma cadevano e
scomparivano silenziose, disperse in
un'atmosfera di continuo avvivata da voci,
canti, saluti traboccanti d'effusione, offerte
di fiori, sigarette, dolciumi. Cento gruppetti
si formavano e si scioglievano per riformarsi
tre passi più in là; e al centro era sempre un
giovanotto in grigioverde che riceveva
ridendo baci, raccomandazioni, caramelle.
Nel frastuono, Serri stava in silenzio
accanto a suo padre, felice di essere ancora
una volta vicino al gran cuore paterno. I due
uomini non sentivano il bisogno di parlarsi;
da lungo tempo li univa una forte
comprensione, una virile solidarietà di
sentimenti e di pensieri, di cui quel distacco
era una conseguenza inevitabile perché
logica, e bella perché disinteressata, anzi
opposta a ogni egoismo. Quel sentirsi ancora
vicini offriva la gioia di far vibrare,
potenziato dal momento, il perfetto vincolo
d'affetto. Entrambi in quella vicinanza
estrema si scambiavano pegno di fiduciosa
forza, pane per i giorni venturi da distribuire
alla famiglia quando il terrore di inspiegati
silenzi immiserisse d'un tratto la casa.
Ma la locomotiva aveva fischiato; e nello
sguardo con cui si erano abbracciati si era
trasfusa intera la loro umanità, assai più che
nella stretta in cui subito si erano uniti.
Bari. A una banchina del porto gli uomini
del battaglione stavano a far la guardia ai
loro zaini. I soldati parlottavano a crocchi o
sedevano isolati, volti a guardare l'acqua e le
navi, intirizziti dal vento marino.
La giornata era trascorsa nella noia, con
l'unica variante di un mestolo di minestra.
Era incerto se sarebbero partiti per l'Albania
o per la Libia. In Albania era un continuo
macello, il fronte ingoiava reggimenti su
reggimenti, il mare era infestato da
sottomarini nemici; si poteva navigare solo
in convogli scortati e ad ogni traversata
qualche nave affondava.
All'improvviso giunse una colonna di
autoambulanze che si allinearono sulla
banchina a ridosso d'una nave dalla quale
vennero subito calati, in barelle, uomini
giacenti.
E' un lavoro monotono, meccanico.
Dal piano inclinato vengono guidate a
terra sagome umane avvolte in coperte,
subito sospinte nell'autoambulanza che
riparte traballando, mentre avanza già la
macchina successiva pronta a gravarsi del
doloroso carico.
I soldati a qualche passo di distanza
osservano in silenzio quella processione di
barelle che esce dalla fiancata della nave.
Passano uomini immobilizzati dal dolore,
paiono salme. Sono i feriti, i congelati, gli
ammalati che vengono dal fronte greco-
albanese. Sguardi vitrei, spenti, senza luce di
gioia nel rivedere la patria, tanto la
sofferenza disamora e smemora. Tutti
uguali, inerti nel bianco avvolgimento di
bende e coperte.
Ma sotto il velame, sconosciuto e segreto,
innumerevole per forme e torture, brulica il
dolore fra le dita mozze, nei moncherini
scarnati e cuciti a rinserrare ossa infrante.
I fanti osservavano silenziosi,
nell'atteggiamento di chi per via s'imbatte in
un corteo funebre; e pensavano alla causa
prima di quello spettacolo, al nastro
fiammeggiante del fronte, verso il quale
erano diretti.
Su quello spettacolo, sul mare,
sull'accolta d'uomini muti calava la sera.
A notte venne l'ordine d'imbarco; la nave
di piccolo tonnellaggio in breve rigurgitò di
grigioverde.
Salpò silenziosa e a lumi spenti, volgendo
al mare illune. In un pulsa re sordo di
motori, in un procedere lento tutto tonfi e
vibrazioni, altre navi allacciarono le proprie
scie e legate in un unico nastro
s'avventurarono sul mare.
A più riprese, nella notte, concitati ordini
sferzarono gli equipaggi; le navi ansimanti
arrancavano ad allentare i contatti, a diradare
la formazione per poi ricomporla serrata, si
disperdevano a tutto vapore per ritrovarsi più
innanzi a sostare quasi immobili in un
tempo di pausa; erravano a nord e a sud,
avanzavano, ritornavano, mosse da un
giocatore invisibile su un'immane scacchiera
distesa sull'acqua per un giuoco mortale.
Spesso i fanti si svegliavano di
soprassalto per un'accostata violenta o per
un improvviso più alto ritmo impresso ai
motori; sussurri inquieti formicolavano fra i
branchi d'uomini giacenti nel freddo intenso,
allarmati dal marinaio che scavalcava i corpi
per correre a eseguire un ordine e lasciava
cadere frettoloso e cupo la parola che fuga il
sonno: «sottomarini...» Ombre e ricordi
gravavano sugli uomini distesi, precise
parole di bollettini s'accavallavano e davano
realtà a lugubri fantasie d'affondamenti.
Il gelo non era il maggior tormento per i
fanti accovacciati fra gli zaini, impotenti
contro ogni evento e sottomessi a un solo
ordine: non muoversi. Ma all'indomani notte
i fanti, in fila indiana, scendevano dalla
scaletta di bordo e raggiungevano, attraverso
passerelle di legno gettate trasversalmente
su due barconi affiancati, il suolo d'Albania.
Due o tre militari comparsi nella
solitudine del piccolo porto attendevano che
il battaglione sbarcasse al completo; si
misero in testa al reparto, a guidarlo, quando
questo si mosse.
Infreddoliti dalla sosta e dal vento
marino, carichi e silenziosi i fanti
camminavano guardandosi attorno.
La luna rischiarava le vie, le case di
Durazzo, lasciando distinguere ogni
particolare. Casupole silenziose, biancastre,
muricciuoli sgretolati, una moschea
musulmana; un paese qualunque con
qualche abitazione sbrecciata da bombe
d'aereo.
Presto la colonna superò l'abitato,
procedendo lungo una strada campagnola
bianca sotto la luna. Ad ogni ronzio
d'aeroplani le guide scrutavano il cielo e
consigliavano attenzione, poiché altre volte
si erano verificati mitragliamenti notturni su
colonne in marcia. Il movimento non
dissipava il freddo penetrante che intirizziva
il volto e le mani dei soldati.
Le compagnie procedevano in silenzio.
Indubbiamente tutto respingeva in quella
terra che sembrava disabitata. Dov'era la
linea? Dov'erano le altre divisioni? Perché
quella solitudine? Dove si andava? Ad Italo
Serri pareva di toccare i nervi a fior di pelle
dei suoi soldati.
All'una di notte venne ordinato l'alt in un
punto qualsiasi. Quale altra novità? Niente,
dormire.
- Dormire, signor capitano? Va bene, ma
dove?
- Dove? Per terra, no? Non siamo in
guerra?
- Sì, ma... con questo freddo...!
In breve i teli da tenda issati su paletti di
fortuna cominciarono a costellare il prato di
piccole piramidi.
Ogni soldato aveva il suo telo, con quattro
teli sorgeva la tenda per quattro soldati,
stretta sì, ma sufficiente.
Italo Serri, scaricato dalle spalle il proprio
zaino, osservava in silenzio il fervore degli
uomini che affrontavano la novità di passare
una gelida notte sotto tenda. L'aria diaccia
tormentava l'ufficiale mal riparato dal
cappotto regolamentare di cattiva stoffa
grigioverde. Serri pensava che ognuno si
preparava la propria tenda e che egli non
aveva nulla da prepararsi, giacché non aveva
il telo necessario. All'atto del suo frettoloso
inserimento nel reparto in partenza non
esistevano da tempo teli disponibili. Agli
ufficiali non erano state distribuite coperte
ed egli ne aveva scelta una, a casa sua,
piccola e brutta. La mamma aveva insistito
perché ne prendesse almeno un'altra, ma egli
aveva risposto - le parole gli ritornavano
ancora all'orecchio - che non voleva avere
nulla più dei semplici soldati. Sennonché,
ora i soldati si disponevano a ricoverarsi e
dormire, mentr'egli guardava le stelle e
quella copertina lisa.
Avrebbe potuto domandare ospitalità a
quattro soldati, inducendoli a raggomitolarsi
e a fargli posto, ma sentiva che non lo
avrebbe mai chiesto, preferendo attendere la
mattina sotto un qualche albero o
camminando. Prospettiva poco allegra dato
che sul campo occhieggiavano qua e là, nel
terreno duro, pozze ghiacciate.
Una violenta manata sulla spalla lo
distolse dai suoi pensieri e una voce cordiale
e sonora lo fece volgere:
- Cosa stai qui a fare, come un palo sotto
la luna? Una poesia forse? O reciti Leopardi
ai grilli morti di freddo?
Il sottotenente Faravelli, secondo medico
del battaglione, gli rideva in faccia
allungandogli tre o quattro pugni scherzosi
sul petto. Sotto la bustina a sghimbescio, due
occhi vivi ammiccavano nel chiarore lunare.
Non più alto di Serri, ma più membruto e
atticciato portava quadratissime spalle su un
torace potente. Era un campione d'atletica,
celebrato dai soldati che lo segnavano a dito
indicandolo ai commilitoni degli altri reparti.
- Tu sei senza telo - disse Faravelli - e
senza coperte, no? Lo so, e m'immagino che
avrai deciso di dormire in piedi all'aperto,
come i muli. Ti conosco ormai! E sono sicuro
che non ti sei portato nemmeno la brandina
e neanche il materassino, per avere la
soddisfazione morale di dormire per terra, da
quel vero fesso che sei, e dare il buon
esempio ai soldati, così che possano dire
anche loro: «guarda che fesso, lui che
potrebbe starsene un po' comodo... guardate
che roba...!».
Sempre ridendo, ma cessando di
canzonare, aveva abbassato il tono di voce e
avvicinandosi all'amico gli sussurrava:
- Fin qui è ancora niente; il male è che
queste fesserie le ho fatte anch'io e mi
sbatterei la testa contro un muro, se non mi
prendessero per autolesionista. Per fortuna
di tutti e due c'è qui Faravelli, che s'è già
messo d'accordo coi soldati. Vedi là, sotto
quell'albero? Stanno facendo in dodici una
tenda grande di dodici teli, così è più facile
starci in due di più. I soldati non ci badano,
due fessi su quattordici persone li prendono
volentieri. Andiamo, la tenda è quasi pronta;
tirati dietro il tuo zaino, o lo vuoi lasciare in
beneficenza a chi lo trova, signor idealista?
Mezz'ora dopo, la stanchezza premeva
sulle palpebre dei quattordici uomini. Il
mozzicone di candela era stato spento e più
nessuno parlava. I soldati, allineati a terra
sotto la tenda lunga e stretta, cercavano la
posizione migliore. Ogni poco, dopo aver
goduto per cinque minuti l'impressione
d'essere steso su un piano, ciascuno scopriva
ancora sotto di sé un sasso, un ramo
contorto, un cardo spinoso, un nonnulla che
non concedeva tregua. E quando, dopo
lunghi sforzi, anche l'ultimo ostacolo al
riposo pareva rimosso, in breve veniva dal
campo e attraversava le vesti, come una
nebbia che sale, il freddo della terra.
I corpi rabbrividivano nell'oscurità, in
silenzio, mentre dalle ampie fessure delle
tende fra terra e telo il vento alitava
gelidamente su quegli uomini. Ciascuno
teneva il suo tormento per sé, senza
lamentele, per non disturbare i vicini forse
assopiti. Il mostro della guerra che già alla
prima zannata stende gli uomini sulla terra
nuda, cominciava ormai ad adoprare la sua
unghia che ciascuno in silenzio sentiva
affondare, presentendo ben altri supplizi e
lacerazioni.
Una sera, oltre Valona, i fanti furono fatti
salire su autocarri che mossero verso est.
Nelle prime ombre serali, giunti all'imbocco
di una valle, un ticchettio luminoso coronò i
contorni d'una montagna per ripetersi poco
dopo sul monte vicino.
- Segnalazioni, signor tenente? - chiese
un soldato a Serri.
- Granate, figliolo; là c'è la linea - disse la
voce di un capitano anziano, reduce della
guerra 1915-18.
Nonostante il fronte fosse ancora
lontano, tutte le misure di sicurezza furono
per incanto scrupolosamente osservate,
neppure una brace di sigaretta punteggiò più
la colonna.
Ad aumentare la tensione, alcuni
riflettori iniziarono a frugare il cielo,
indicando presenza di aerei; e poco dopo
salivano veloci a perdersi nel nero notturno
le faville rossigne delle mitragliere
contraeree. In breve l'oscurità pullulò di
fiammelle e vampate.
Ad un tratto gli automezzi si arrestarono,
gli autisti comunicarono allegramente che il
reparto era giunto a destinazione.
Ormai tranquilli, nel chiarore lunare i
soldati montarono le tende e si sdraiarono a
terra per dormire. Giacendo in attesa del
sonno, i più allungavano una mano ai teli da
tenda per aprirsi uno spiraglio, e vedevano ad
intermittenza una serie di luminarie: si
accendevano e si smorzavano, qui e là, vivide
e deboli, avvampanti o discrete. Prendevano
vita dall'esplodere del ferro nel suo fulmineo
cozzo sul pietrame di una montagna vicina,
chiamata Golik dagli albanesi; Golico dagli
alpini che in quell'inverno l'abitavano, ed era
per essi baluardo, abitazione, giaciglio,
ghiacciaia, calvario e anche cimitero.
Ora il campo sorgeva sui declivi di colline
che limitavano una vallata tutta arbusti e
pietre. Sui monti circostanti scintillava la
neve; l'acqua del fiume, a fondo valle,
scorreva rapida e gelida.
Le tende si aggrappavano qui e là alla
terra e alla roccia, senza ordine, addossate
agli arbusti per l'occultamento, ché gli aerei
nemici scendevano volentieri a mitragliare la
zona.
Fra quei sassi aveva sostato la divisione
alpina Julia per un breve periodo di riposo;
da qualche giorno era ritornata in linea. Il
suo nome era pronunciato dai fanti con un
senso di reverenza, perché attorno ad essa
aleggiava ormai una fama leggendaria.
Quegli alpini, combattenti indomabili e
semplici, avevano lasciato dovunque tracce
della loro povera vita: vecchie corrose suole
da scarpe bruciate dal gelo, brandelli di
maglie finalmente gettate, bende
insanguinate, pezze da piedi fuori uso; e si
erano certo impegnati in quella fatica di
Sisifo che nelle giornate di sole trova sempre
dei volontari fra i soldati in guerra: lo
spidocchiamento. Dalla terra, nelle gelide
notti, i pidocchi alpini salivano ora a
rintanarsi nelle tepide maglie dei fanti,
vagabondavano fra le pieghe e le cuciture
delle camicie, dei colletti, delle mutande.
Tutto il reggimento era concentrato nella
zona e poco distante erano accampati gli altri
due reggimenti della divisione. I soldati
affluivano sempre più numerosi; i materiali
di equipaggiamento e da guerra, invece, non
giungevano.
- Non giungeranno mai - diceva il
sottotenente Baldassari, un nobile di Parma -
come non giungono ai soldati in linea, lo
sapete. Marciscono a Valona, a Durazzo, a
Bari, in tutti i magazzini d'Italia, ma ai
soldati non arrivano. Chissà poi se ce ne
sono, in Italia. Io mi farò scannare, tutti noi
ci faremo scannare, ma il risultato sarà
quello di sempre: avremo il danno e le beffe.
C'è troppo marcio nell'esercito, ai ministeri,
nel partito. Non si può vincere una guerra in
queste condizioni.
Altri ufficiali avevano pareri diversi, li
esponevano, la conversazione prendeva altre
pieghe. Qualche soldato ascoltava, taceva, si
allontanava in silenzio, strascinando le
scarpe sul pietrisco.
La sola realtà indiscutibile balenava agli
occhi di tutti, di notte, sulle vette,
sottolineata da vampe e boati.
II
- Signor dottore, è velenosa la tartaruga? -
E il cuoco del battaglione, sudato, rosso nel
freddo del primovmattino, con aria
interdetta, aspettava il responso.
- Perché me lo chiedi?
- Sapete, avevamo scavato nella collina
una buca per fare fuoco, e poco fa una
tartaruga è caduta nella marmitta e s'è bollita
col caffè. E' velenosa?
- Ma no, certe specie di tartaruga sono
anzi prelibate. Hai assaggiato il caffè?
- Io no, signor tenente: è tutto pieno di
bolle di un grasso giallo che fa schifo a
vederlo. Il guaio è che proprio oggi non
abbiamo riserve, bisognerebbe far saltare la
colazione al reparto; va a finire che i soldati
mi menano, con la fame che c'è in giro...
Dopo breve consiglio, i soldati decidono
di bere quel caffè, e imprecando all'Albania,
spezzano il pane nelle gavette, dalle quali
sghignazzano gialli e molli occhi di grasso
galleggiante.
Serri depose la maglia sugli altri
indumenti, si assestò le mutandine da bagno
e con un piede lambì l'acqua della Vojussa.
Era fredda, più di quanto potesse far pensare
la splendida giornata. Da tempo fra le
massime aspirazioni dell'ufficiale stava
quella di un bagno.
Si tuffò nel fiume, subito lottando contro
la forte corrente. La sensazione che la brusca
carezza dell'acqua lo detergesse era deliziosa.
L'ampio fiume non tentava i soldati, era
deserto: un solo uomo cento metri più a valle
stava nell'acqua dove la corrente era meno
forte, presso riva, in un'ansa del fiume. Serri
non riconobbe quella testa emergente
dall'acqua e pensò d'avvicinarsi lasciandosi
portare dalla corrente, per scambiare due
parole con chi aveva avuto la sua stessa idea.
Nuotava con lentezza, quasi sdraiato sul
fianco sinistro, guardando innanzi ogni tanto
per mantenere la direzione voluta,
scivolando sull'acqua liscia verso il
compagno. Con tanta esattezza si era
orientato che, sospinto dalla corrente con più
velocità di quanto credesse, cozzò ad un
tratto col capo contro il petto del soldato; per
un attimo ebbe la testa sott'acqua, portò le
mani innanzi e avvertì con sorpresa che
l'uomo era vestito.
Mentre la forza dell'acqua lo sospingeva
contro quello, sentì l'uomo sollevarsi
lentamente, leggero. In brevi istanti
l'ufficiale si portò in posizione verticale
nell'acqua, tentando di toccare fondo per
scostarsi dall'uomo contro cui premeva. -
Scusa – gli disse ridendo, annaspando con i
piedi.
L'acqua del fiume gli irritava gli occhi, ma
riuscì alfine ad aprirli e vederlo, stando
ancora con le mani appoggiate al petto
dell'uomo, unico appiglio fermo nel moto
dell'acqua.
L'altro emergeva con tutto il torace,
ricoperto - con gran sorpresa del medico - da
una regolamentare giubba dell'esercito greco.
Serri, che spuntava appena col capo
dall'acqua, guardò il volto di quell'uomo e
con un sobbalzo lasciò l'appoggio
riprendendo i movimenti di nuoto per
restare a galla. Resistette alla corrente, il suo
piede si ancorò alfine a un grosso ramo
affondato che tratteneva anche il greco.
Questi aveva gli occhi sbarrati, come
scoppianti, diversamente aperti in un viso
turgido e chiazzato, giallo e violaceo; la bocca
e una parte del naso erano ricoperti da un
ammasso di schiuma bianca e compatta.
Allora quel cadavere d'annegato, col petto
contro corrente, si levò un poco sulla
superficie dell'acqua come vivo, volse verso il
cielo il volto sfigurato mentre ricadeva con
estrema lentezza all'indietro; toccò con le
spalle l'acqua, il capo affondò mentre
emergeva il gran ventre; si rovesciò senza
scosse, a faccia in giù nell'acqua, confuso
ormai con il destino del fiume.
Serri lo vide andare, lento,
semisommerso: ondulò, la schiena emerse
per intero, massiccia sotto il panno militare;
a vederla così, non pareva forma umana ma
era simile invece a una sella marcita, a un
inservibile basto da mulo di cui il conducente
si fosse alfine disfatto.
Quali creature umane, in quale casa,
avrebbero pianto per quella carne dispersa?
Sobbalzò, la rapida la ghermì e le diede
abbrivo; insinuante all'inizio e subito
violenta l'abbracciò in corsa, la trascinò giù,
più a fondo.
Intorno, l'acqua s'era fatta
intollerabilmente gelida.
Una notte, Serri venne svegliato da un
fante che richiedeva l'intervento medico per
un compagno in preda a dolori atroci.
L'ufficiale si precipitò fuori della tenda.
Indossava soltanto una canottiera e un paio
di mutandine, ma non volle perder tempo a
rivestirsi.
Di corsa s'inerpicò sulla collina, si infilò
nella tenda dalla quale uscivano fiochi
lamenti.
Il comandante della compagnia,
preoccupatissimo, stava già accanto al
malato. La fiammella di una candela
illuminava un uomo che si torceva su un
pagliericcio. Serri si rese rapidamente conto
che il soldato era in preda a una violenta ma
non preoccupante colica addominale.
Somministrati i medicamenti e già certo
della favorevole risoluzione del male,
l'ufficiale tuttavia rimase a lungo accanto al
malato che ancora si lamentava, ben sapendo
quanto i soldati fossero sensibili alla
presenza del medico e come tale presenza
dovesse costituire, purtroppo, il nucleo
centrale della terapia consentita presso i
reparti operanti.
La notte era fredda e in breve Serri, tolto
all'improvviso dal tepore della coperta e
accaldato per la corsa in salita, sentì il freddo
alitargli sul corpo seminudo.
Non era mai stato ammalato in vita sua e
all'indomani si meravigliò nel sentire la testa
e i muscoli appesantiti da un senso di
malessere. Gli dava fastidio la luce e verso
sera fu colto da capogiri, aveva la febbre alta,
di probabile origine reumatica.
Il colonnello Vezzi, comandante del
battaglione, insistette per il ricovero a un
vicino ospedaletto, ma Serri riuscì a
convincere il superiore a lasciarlo in tenda,
dove il dottor Faravelli lo curava con infiniti
lazzi e con qualche pastiglia.
Due giorni dopo il termometro segnava
ancora trentotto, quando Faravelli entrò
nella tenda e s'accucciò accanto a Serri,
brontolando:
- L'ho sempre sentito che avremmo
dovuto separarci sul più bello, accidenti!
- Cosa dici?
- Te ne accorgerai subito: fra qualche
minuto questa tenda ti verrà sul naso. Si
spianta il campo. Fra poco saremo in ballo,
capisci? Ma sul serio, questa volta!
- Si va? - disse Serri ponendosi a sedere.
- Si va, sì. Cioè, noi andiamo da una parte
e tu vai dall'altra, all'ospedale, finché starai
bene. Ordine mio, che sono il tuo medico
curante.
Il colonnello ha già approvato.
E facendo un viso duro accarezzava con lo
sguardo l'amico, contento di poter farlo
sostare per un poco in un angolo tranquillo.
Serri sollevò la coperta e s'infilò una
scarpa.
- Non farti illusioni - disse allacciando il
legaccio - io non vi lascio, lo sai già.
- Sei peggio di un mulo - rispose l'altro -
vedrai dove andrai a finire col tuo spirito di
dovere!
Serri alzò il capo, i due ufficiali
incrociarono lo sguardo ed un secondo dopo
esplosero in una risata d'intesa.
- La partenza è alle tredici - concluse
Faravelli.
Piovigginava, quando il battaglione si
mosse.
Dopo qualche ora la pioggia crebbe
d'intensità, rovesci d'acqua sospinti dal vento
intridevano le giubbe e i pantaloni sotto le
mantelline che sventagliavano l'aria ad ogni
folata. Il greve peso degli zaini sulle spalle di
ufficiali e soldati attardava il passo, facendo
affondare le scarpe nel fango rossiccio. I
corpi dei fanti, nelle divise diacce, perdevano
calore e con la stanchezza accumulavano
fame.
Le gocce d'acqua battevano sull'elmetto,
scendevano a rivoli lungo il collo e
diffondendosi sull'epidermide della schiena
ne disperdevano il residuo tepore, traendo
dal profondo dei corpi brividi sottili e segreti,
i muti lamenti della carne.
Gli acquazzoni si succedevano l'un l'altro,
senza sosta; da ore il vento scagliava moleste
punte d'acqua sui volti madidi. La strada era
simile ormai ad un fossato scarso d'acqua nel
cui motoso fondale uomini camminassero in
un giuoco sciocco. Nel passo la scarpa
affondava intera, il fango si rinserrava
attorno alla caviglia; quando il peso del corpo
si equilibrava su un piede per consentire
movimento all'altro, il fango saliva al
polpaccio abbracciando l'arto con una viscida
e tenace mollezza che richiedeva uno strappo
violento, a volersi liberare. Spesso una suola
restava infissa nel fango e al soldato
rimaneva la tomaia; o era l'intera scarpa che
si sfilava dal piede e restava preda del fango;
più d'uno camminava pertanto scalzo, ché
l'inesorabile premere dei sopravvenienti
impediva il ricupero; altri, temendo di dover
donare al fango le preziose scarpe, si
scalzavano e le legavano al collo, all'usanza
contadina, per preservarle ai bisogni venturi.
Qualcuno ancora, incespicando in una pietra
sprofondata nel fango e squilibrato dal peso
dello zaino finiva col viso nella mota,
annaspava in questa con le braccia a trovare
il fondo solido, si rialzava, grottesca
maschera imprecante, si riassettava la soma
e riprendeva l'andare, sospinto dagli altri.
Su quel brulicare d'uomini e d'animali
scendevano la pioggia e il tramonto.
Serri, dopo un'ora di marcia aveva sentito
le gambe diventare estranee alla volontà,
scoordinate nei movimenti; aveva marciato
per una seconda ora sentendo il cervello farsi
pesante, mentre negli occhi percepiva uno
sconosciuto martellare. Brividi intensi gli
squassavano le membra, si reggeva a stento,
certo aveva la febbre alta, ma poneva tutta la
volontà nel portare a termine la marcia,
come aveva sempre fatto senza sforzo.
- Non vedi come dondoli, Serri?
Non puoi proseguire, sei bianco come un
lenzuolo!
Questa era la voce del tenente Fabrini, il
comandante della compagnia Comando del
battaglione. Fabrini ora lo aveva preso a
braccetto, amichevole.
- Perché ti sei intestato a voler fare la
marcia? Adesso non puoi più continuare.
Sopraggiunsero due autocarrette vuote,
annaspanti anch'esse nel fango, Fabrini parlò
all'autista della prima, Serri salì nel cassone
ch'era ricoperto da un telo.
I veicoli procedevano a passo d'uomo,
affondando spesso a mezza ruota,
procedendo fra i soldati; il medico sedeva
all'estremità posteriore dell'autocarretta. La
seconda arrancava a una decina di metri
addietro, e con i fari accesi illuminava il
gruppo di fanti che marciava fra un veicolo e
l'altro.
Era mezzanotte ormai. Le luminose lame
dei fari parallele alla strada facevano brillare
la pioggia fittissima che pareva levarsi da
terra in innumerevoli righe lucenti.
Tratteggiavano, come in un chiaroscuro a
penna, le ombre degli uomini che
emergevano dall'oscurità circostante.
Fra i sobbalzi dell'autocarretta, levato su
quell'affollamento d'uomini, Serri vedeva
come in una allucinazione l'agitarsi
incomposto della schiera taciturna. I fanti si
muovevano a tentoni sul terreno infido,
curvi sotto il peso che da undici ore inarcava
le schiene; camminavano protesi in avanti,
gli elmetti luccicavano nella cruda luce dei
fari e ondulavano secondo l'alterno moto del
passo, in movimento lento, penoso. Il fango
era salito dalle scarpe alle gambe, ai
pantaloni, alle mantelle impastate di mota,
grevi d'acqua, ricoprenti in un sudario gelido
i corpi intirizziti.
Gemeva la carne percossa, raggelata,
pungolata da infiniti assilli di tortura, come
sospinta da un crudele verdetto che forzasse
ad arte i limiti dell'umana sopportazione per
la voluttà di infierire, attraverso la carne
esasperata, sulle anime spoglie di quei
condannati.
Volgevano essi il piede verso altro fango,
altra acqua, altra stanchezza, con passo
d'automa, barcollanti, incuranti di schivare
una pozza più profonda, una pietra
emergente; da tergo i due coni di luce
radente rischiaravano tutto il fradiciume nel
quale sguazzavano. Intorno era solo buio
d'inferno e ululare di vento fra scrosci
d'acqua. Non era più Albania, intorno a
quegli uomini; non era più vita umana nei
loro cuori, ma sofferenza assurda come un
incubo e vera come il dolore.
E innanzi e indietro alla luminosità
oscillante altri uomini camminavano, vaganti
nel buio, tutti volti a una stessa sconosciuta
meta, fantasmi ciechi brancolanti a plotoni, a
compagnie, a battaglioni, a reggimenti.
Erano portatori d'armi, per ciò soffrivano:
sotto le mantelle ciascuno reggeva il ferro e il
legno d'un fucile, attorno alla vita portava sei
caricatori con trentasei pallottole e sulla
coscia penzolava, fra giubba e pantaloni, un
fodero di cuoio; dentro adesso, unta e lucida,
fatta per lotte primitive, perfezionato coltello
da selvaggi, stava la baionetta.
Col corpo sdraiato e inarcato,
puntellandosi con spalle e piedi alle sponde
dell'autocarretta per attutire i sobbalzi, Serri
delirando guardava la luce, gli uomini e
l'immensa tenebra entro cui, sulle montagne
e nei valloni, altri uomini più mortalmente
soffrivano.
- Temperatura quaranta e cinque - disse a
Fabrini il medico di guardia all'ospedale di
Sinanai.
- E' una cosa grave, dottore?
- Non si può dire, vedremo domattina,
bisogna visitarlo con cura. Per ora lo farò
mettere in una tenda per la truppa, in questo
momento non abbiamo posto in quelle degli
ufficiali.
All'indomani Serri venne visitato, la
febbre permaneva altissima, la polmonite
sovrastava come una minaccia, ma non era
in atto. Era evidente invece una forma
reumatica acuta. Venne il colonnello Vezzi,
tranquillizzò Serri: il battaglione aveva
piantato le tende a poche centinaia di metri,
era stata annunciata una sosta di vari giorni,
si curasse senza preoccuparsi d'altro. Gli
ufficiali sarebbero venuti ogni giorno a fargli
visita e a portargli le notizie del reparto.
Sotto il telone a campana stavano
addossate le brande, una ventina; su
ciascuna giaceva un soldato: fanti, artiglieri,
bersaglieri, alpini, camicie nere. Quasi tutti
venivano dal fronte. Feriti, congelati, malati.
Capelli lunghi, barbe irsute, visi smunti.
Bende, febbre, sete. Voci roche, esauste.
Ricordi, invettive, lamenti.
Serri ascoltava, guardava quelle labbra
che pronunciavano con semplicità nomi
paurosi, abituali a quei soldati che fino a
poco innanzi avevano calpestato la neve e le
pietre del Gòlico, del Tomòri, del
Trebescìnes, dello Scindèli; gli pareva quasi
d'essere un intruso se ripensava al proprio
reparto sempre in attesa d'impiego, quando
passavano sulle brande i nomi delle
leggendarie divisioni.
- No le par vere, no le par vere, -
brontolava un ispido alpinaccio della Julia; -
In Italia non se podarà contàr 'sta roba, se
no i dirà che se conta bàle... - Guardava a
lungo verso l'avambraccio destro ricoperto di
bende, lo rigirava lentamente, con dolore,
come per valutarne la futura efficienza e
concludeva, tra il pelame della barba
immane: - Ma mi ghe spaco el muso...
- Con quàla man, sergente? - chiedeva un
altro.
L'alpino fissava ancora le bende, con
sprezzo; un sorriso pallido gli compariva tra
barba e occhi, fuggevole, triste:
- Con la destra no de sicuro, i me la ga
magnà i grechi...
Durante la notte successiva gli infermieri
avevano collocato nella tenda già stipata altre
brande per due feriti appena giunti e subito
operati d'amputazione d'un braccio.
Giacevano in due brande vicine, il primo
silenzioso e cupo; il secondo, nervoso e
insonne, era un alpino della Julia.
All'indomani, quando l'alba filtrò un po'
di luce sotto la tenda, alcuni soldati notarono
che l'alpino aveva cominciato a guardare in
malo modo l'altro ferito, che se ne stava
rinchiuso in sé e pareva molto sofferente.
Col passare del tempo i due si fissavano con
maggiore insistenza, quasi si tenessero
d'occhio a vicenda. Per più di un'ora si
scambiarono sguardi carichi di sempre più
evidente avversione; finirono col piantarsi
addosso reciprocamente gli occhi sbarrati, a
guisa di cane e gatto pronti al balzo, fra lo
spasso dei compagni stupiti. Con estrema
lentezza si rizzarono a sedere sul letto
tenendosi avvinti con lo sguardo, e un
secondo dopo si slanciarono davvero uno
contro l'altro, picchiandosi col braccio
superstite, azzannandosi in qualche modo. I
loro informi camiciotti regolamentari di tela
bianca ballonzolavano fra i due lettini,
mentre la vuota manica sembrava segnare il
tempo alla danza grottesca, interrotta alle
prime battute poiché i degenti più vicini,
vinto il primo sconcerto, provvidero a
dividere i lottatori subito trasferiti in altre
tende.
L'alpino poco dopo tornò, ma per quanto
sollecitato dai compagni non disse parola.
Soltanto durante la visita medica, quando
entrò il direttore dell'ospedaletto e l'alpino fu
interrogato, si conobbe il motivo della rissa:
il giorno prima, durante un assalto, si era
trovato corpo a corpo con l'altro, che era un
greco. Mentre erano avvinghiati nella
contesa mortale un colpo di mortaio esploso
a pochi passi, forse un'unica scheggia, li
aveva divisi stroncando a uno il braccio
destro e all'altro il sinistro. Raccolti svenuti
dai portaferiti, trasportati allo stesso
ospedale, ricoverati per caso in due brande
vicine, colla prima luce si erano riconosciuti:
ancora una volta di fronte, non avevano
saputo fare altro che riprendere come
potevano, col braccio superstite, il
combattimento interrotto...
La linea era tanto vicina, che nelle tende
dell'ospedaletto se ne respirava l'aria.
La tragedia era nell'aria, non nel cuore
degli uomini: questi accettavano la realtà
senza drammatizzarla, sminuzzandola anzi e
limitandola ai singoli episodi riguardanti
ciascuno. A un occhio osservatore, non quel
senso di morte avrebbe fatto impressione,
ma quella giovinezza vivente nel
dominio della morte, perché era evidente che
il potere della morte dilagava. Bastava
guardare certi ruolini di presenza nelle
tende, irti di nomi cancellati, sovrascritti,
nuovamente cancellati: corrispondeva ad essi
il movimento fra le brande e il cimitero da
campo.
Quando i ricoverati uscivano dalla tenda e
sguazzavano nel fango per raggiungere, ai
limiti del recinto, due pali e un'asse sopra
una fossa chiamata gabinetto, bastava che
volgessero lo sguardo oltre le tende per
vedere la distesa di croci bianche.
S'era cominciato con lo scavare le fosse
lontano, al limite d'un ciglione; ma poi i
morti, che pure hanno diritto a un po' di
posto, avevano respinto a poco a poco gli
affossatori verso l'area dei ricoveri, tanto che
ora le ultime fosse aperte e ancor vuote
aspettavano a pochi passi dalle tende; e
bisognava usare attenzione, di notte, per non
cadervi dentro, anche perché il gran piovere
le riempiva di acqua. E invero, a osservare i
poveri cristi dalle gambe gialle e nude che
usciti dalle tende s'arrabattavano nel fango,
una mano a sostenere il camicione
rimboccato e l'altra a trattenere sul capo e
sulle spalle una coperta, tremanti di febbre e
lividi di freddo sotto la pioggia che frustava,
c'era da chiedersi verso quale fossa in realtà
si dirigessero.
E non era raro il caso di vedere i loro
occhi seguire come calamitati un infermiere
che portava un fastello di gambe e braccia
alla fossa comune: il contributo della
baracchetta operatoria alla terra d'Albania.
Eppure quegli stessi, tornati alle proprie
brande, non davano segno di sentirsi attori o
almeno comparse in una tragedia
allucinante; contro il cielo fosco mai la loro
immagine si sarebbe stagliata a disegnare un
controluce di tragedia; più semplicemente,
nelle ventate e nel tenebrore d'un destino
impazzito ciascuno teneva accesa la
fiammella della propria giovinezza.
Ogni ferito, ogni malato sembrava
riparare con la mano la sua esigua fiammella
vitale dalla parte da cui il vento più
impetuosamente soffiava, col gesto della
vecchietta che nottetempo sale a lume di
candela la scala di casa.
Steso a fianco di quei soldati, pareva a
Serri di vederli emergere come quel primo
visto nella Vojussa, ma aggrappati ciascuno a
un proprio relitto galleggiante.
Nella gran pioggia sotto un'unica immane
nuvola bassa, opprimente comevuna coltre
stillante sospesa a mezz'aria, l'arco del fronte
ribolliva nella battaglia. Le armate italiane
tentavano di scardinare i pilastri della
resistenza greca. Era venuto il Natale, stava
per giungere la Pasqua; e sempre gli uomini
si uccidevano in duelli all'ultimo sangue.
Ormai i greci, che da oltre cinque mesi
combattevano con accanimento feroce e con
valore indomito, davano segni d'esaurimento
di fronte al rinnovarsi degli attacchi italiani.
Lungo le linee contrapposte infiniti episodi,
disperate resistenze, inumane sofferenze,
puntiglio d'uomini, amor proprio di reparti,
eroismi da emulare, tradizioni da sostenere,
morti da vendicare, le stesse pietre contese
già bagnate di sangue, la necessità di porre
fine ad una lotta di durata non prevista, tutto
contribuiva a rendere asperrima la battaglia.
Nel fango del retrofronte italiano le
ambulanze e i carriaggi rotolavano verso gli
ospedali, trasportando i feriti già portati a
braccia dai costoni e dalle trincee della linea.
Era un deflusso costante: i folgorati dalla
battaglia terminavano la loro via crucis nella
prima fossa libera, o più fortunati la
proseguivano fino alle infermerie di
smistamento e agli ospedaletti avanzati,
quindi agli ospedali arretrati e spesso sulle
navi ospedale; infine in Italia, negli ospedali
territoriali. L'onda sanguigna si diffondeva a
rivoli su tutta l'Italia, sgorgando dal
pietrame, dalla neve, dal fango d'Albania.
- Serri - disse il medico di guardia, chino
sulla branda nella penombra della tenda.
L'ufficiale si svegliò, sentì la mano del
collega che gli scuoteva il braccio, aprì gli
occhi.
- Sì; cosa c'è? Che ora è?
- E' quasi mezzanotte. Senti: tu sei
malato, bisognerebbe lasciarti in pace. Ma il
capitano medico mi ha detto di svegliarti.
Senti: da più di un'ora continuano a venire
soldati in condizioni tremende, lassù c'è un
massacro. L'ospedale di Turano è
sovrasaturo, li avviano tutti qui. Quelli che
arrivano dicono che i più sono ancora per la
strada; i medici dell'ospedale non bastano,
sono tutti interventi d'urgenza. Il capitano
medico chiede se ti senti di venire a dare una
mano in sala d'operazione.
- Un minuto... di' che fra un minuto sarò
là.
Senza aggiungere parola il collega corse
via.
Nel rialzarsi, un capogiro costrinse Serri a
sedersi per qualche secondo sulla branda. A
occhi chiusi calzò le scarpe e il lieve sforzo di
vincere l'attrito del cuoio bagnato contro i
piedi nudi gl'imperlò di sudore la fronte.
Dinanzi alla baracca che accoglieva i feriti
in arrivo, una luce rossigna illuminava
l'andirivieni. Mentre gli ultimi arrivati si
trascinavano dentro, l'autocarro vuoto
ripartiva e si faceva avanti il successivo,
stracarico di dolore. Quando Serri si avvicinò,
due infermieri stavano appunto ribaltando la
fiancata posteriore del cassone e tendevano
poi le braccia ad aiutare i primi due feriti a
scendere.
Gli altri seguivano, muti, o urlanti,
ciascuno proteggendo nella ressa e nel
movimento la parte del corpo colpita.
Qualcuno rimaneva sdraiato sul piano
dell'autocarro, incapace a muoversi, o morto.
Un soldato con i piedi congelati, sospinto dai
compagni da retro fu costretto a saltare giù:
toccò terra con un gemito, cadde prono nel
fango e là giacque in silenzio finché mani
pietose lo risollevarono.
Erano tutti stracciati, fradici; le divise a
brandelli, le camicie strappate, le fasce
penzolanti e disfatte li facevano sembrare
mendicanti, vagabondi cenciosi. Quasi
nessuno aveva scarpe, i piedi erano avvolti in
stracci tenuti insieme con spaghi, con ritagli
di coperte, con brandelli di maglie.
Qualcuno aveva infilato i piedi in
maniche di cappotto serrate anch'esse oltre
le dita e all'altezza della caviglia con
cordelline, cinghiette, lembi di camicia; un
soldato aveva un piede chiuso in un
tascapane e l'altro piede nudo.
S'avvicinavano alla baracca zoppicando,
gemendo, o trasportati a braccia dagli
infermieri; o saltellando sul piede ancor
sano, agitavano l'altro a mezz'aria, violaceo e
nudo o ferito o già morto. Entravano nella
baracca, giunti alla prima stazione del loro
calvario.
Serri affrettò il passo verso la baracchetta
operatoria. Nell'angusto spazio di questa,
sotto la cruda luce non c'erano né la calma
né l'ordine necessari. Troppe persone
s'avvicendavano, feriti infermieri medici,
troppo lavoro ferveva sotto l'imperativo del
dover fare presto, ché da troppe ferite fluiva
sangue. Serri indossò un camice, immerse le
mani nell'alcool e si chinò sul rosso d'uno
squarcio.
Si fece innanzi, al proprio turno, un
soldato dal torace racchiuso in un enorme
viluppo di cenci multicolori, dal quale la
testa emergeva come da una balla di stracci.
Solo il braccio destro era libero. L'insieme
suggeriva l'idea d'una statua a metà
imballata per il trasporto.
- Dove sei ferito? - chiese il medico,
mentre l'infermiere tagliava il viluppo.
- Braccio sinistro.
- Chi ti ha fasciato così?
- I portaferiti. Il nostro medico è morto.
- Guarda, hanno adoperato anche una
calza.
- Sì, c'erano anche delle calze.
Dicevano che bisognava tener fissato il
braccio al corpo. Per impacchettarmi hanno
adoperato tutto quello che c'era nello zaino
di due nostri compagni.
- Sono rimasti senza niente?
- Sì.
- Generosi.
- Erano morti.
Caduto un ultimo straccio di tela
grigioverde, apparve il torso nudo.
Qualcosa nel cuore di Serri trasalì nel
vedere ciò che la serenità del soldato non
aveva fatto supporre. Alcune cordicelle
tenevano aderente al torace l'avambraccio
sinistro, violaceo sino al polso ed enfiato fino
ad essere difforme; la mano invece, cerea,
stranamente piccola al confronto della
tumefazione sovrastante, pareva aggiunta al
suo naturale sostegno per uno scherzo
disgustoso. Sopra al gomito il braccio
s'espandeva, come se da un orrido stelo si
fosse dischiuso un putrido fiore; s'espandeva
carnoso ancora e con qualche rimembranza
d'umano, ma più simile ormai a un velluto
gettato e ricoperto di muffe. Era quasi
completamente reciso, il braccio dilacerato;
solo qualche lacerto di muscolo e pelle - una
fettuccia - lo congiungeva alla spalla: due
centimetri di tessuto cutaneo e una
cordicella tenevano innaturalmente avvinto
l'arto al corpo. Attorno al moncherino girava
un laccio emostatico approfondito in un
solco, i tessuti circostanti erano tumefatti e
tesi; dal moncherino, come una canna di
bambù spezzata, ma bianco, lucido,
fuoriusciva l'osso.
Serri guardò quello sfacelo, attento a
rilevare dalla devastazione le indicazioni per
l'intervento. Anche il soldato osservava la
propria carne.
Il medico sentì quello sguardo sul
tritume sanguinolento e pensò al cuore del
soldato, ai suoi occhi che avevano, sotto la
crudissima luce, la rivelazione di tanta
rovina, definitiva, soggiogatrice di un'intera
esistenza.
Volle vedere quegli occhi, esprimere in
quell'unico modo al soldato una fraternità
che soffriva con lui; sollevò lo sguardo dalla
ferita al volto del giovane, lo fissò nelle
pupille. Erano serene, grandi. Parevano quasi
inconsapevoli, tanto lo sguardo era fermo e
forte. Ma proprio allora un nulla si mosse in
quegli occhi fermi, un nulla che accennava a
un'angoscia muta, sepolta nell'anima; lo
sguardo si addolcì, infantile ora, di persona
che supplica o teme; qualcosa esitò, palpitò,
perse luce nel nero delle pupille; e subito fu
chiara, da quei trapassi, la nota finale e
dominante: un'umiltà che si discopriva a se
stessa e inginocchiava la forza, ogni forza, al
rivelarsi d'una inferiorità da allora in poi
perenne. Quel palpito era accorato e
struggente come ogni debolezza che langue
sino a morire, come il battito ultimo di un'ala
un tempo possente. E già gli occhi del
soldato imploravano, smarriti alla vista della
carne percossa: un tenebrore nuovo si
distendeva su un'intera vita, un legame
d'impotenza s'attorceva nelle membra a
vincolarle per sempre; l'uomo s'irrigidì nello
sguardo, nel torace, nei muscoli, come a
resistere ancora per istinto a una spinta
verso l'abisso nel quale sapeva ormai di
dover fatalmente cadere; infine, a palpebre
abbassate, disse in un soffio le prime parole
umili della sua rinuncia:
- Dottore... Si può sperare...?
Serri portò una mano al braccio
incolume, glielo strinse come altre volte suo
padre aveva fatto quando voleva infondergli
forza o fargli intendere un consenso
profondo; sorrise al mutilato diritto, aperto,
fratello; strinse ancor più forte il braccio,
sentì fra le dita il bicipite rispondere con un
guizzo; il soldato si rinfrancò, respirò
profondamente, si raddrizzò sul solido
tronco, rispose al sorriso con un ampio
sorriso.
- Ho ancora quest'altro - disse.
- E' il destro, per fortuna.
III
Nessuno che in quei tempi sia passato per
la valle angusta sovrastata dal Golico
dimenticherà mai Tepeleni. Il Golico
incombeva, nudo e feroce, con i soldati morti
e distesi a macerarsi sui costoni, poiché la
montagna tutta sasso rifiutava anche la
sepoltura.
Il paese, in posizione-chiave dalla quale
dipendeva la stabilità di tutto il settore, era
stato martoriato dai tentativi greci di
sfondamento. Ma la serratura, da mesi
sforzata, non era mai stata aperta. Prezzo
della resistenza, le sentinelle italiane a quella
porta costituivano montagne di cadaveri.
Quando Serri raggiunse il battaglione,
questo era fermo a qualche chilometro oltre
Tepeleni, sulla strada che portava ad
Argirocastro. I greci avevano fatto saltare un
ponte, non si poteva proseguire.
I soldati salutavano il loro medico con
cordiale effusione.
- Lo sapevamo, signor tenente, che
sareste venuto! - esclamavano compiaciuti;
ma lo guardavano preoccupati, trovandolo
pallidissimo.
Il tenente colonnello Vezzi, raggrinzando
il viso in cento sottilissime rughe per
distendere le labbra in un paterno sorriso
luccicante da ogni dente d'oro, rimbrottò il
medico per la fuga dall'ospedale e gli batté
sulle spalle con le grandi mani, bonario e
soddisfatto. Erano diventati silenziosamente
amici dal giorno in cui, a sedere su un prato e
parlando dell'Italia il colonnello aveva tolto
dal portafogli una fotografia, guardandola a
lungo. L'aveva porta infine al medico.
- La mia bambina - aveva detto.
- Ha quasi tre anni.
E poi, più sommesso:
- Si chiama Maria.
- Abbiamo un compito duro - diceva in
quel momento, guardando l'acqua del Drin
che scorreva nella strettissima valle -
saranno giorni aspri, dottore.
I greci sono costretti a cedere terreno
sotto il nostro urto, ma arretrano passo per
passo. Noi avanziamo nel fondo valle, loro
impegnano battaglia dove il terreno è
favorevole. Lasciano nei punti più adatti
schieramenti di artiglierie mobili che ci
contrastano l'avanzata per tutto il giorno
successivo. Si ritirano bene, fanno saltare i
ponti, ci troviamo in crisi di viveri e
rifornimenti, temo che dovremo procedere
senza appoggio di artiglierie. Dovremo
ballare. Adesso però facciamo sosta qui sulla
strada.
Tu sembri un cadavere, sono sicuro che
hai ancora la febbre: riposati un po', devi
guarire al più presto. E' un ordine. Capito?
- Signorsì.
Serri sentiva ora la stanchezza e il sonno.
Si stese a terra vicino a Fabrini.
Sotto il firmamento di stelle chiuse gli
occhi, rilassò le membra, affondò in ombre
informi, pesanti di sonno, mentre dal capo
poggiato sull'erba gli penetrava nel cervello
la cadenza del passo dei soldati che a un
metro da lui, sulla strada, avanzavano.
In capo a forse mezz'ora, la voce del
colonnello Vezzi si levava alta nel buio, irosa
e cordiale. Minacciava fulmini all'aiutante
maggiore del battaglione, accusato in quel
momento di aver sottratto la bustina del
colonnello per costringerlo a portare
l'elmetto. Non aveva mai portato quell'arnese
- diceva Vezzi - era inutile che insistessero,
non l'avrebbe portato mai; le pallottole, poi,
era evidente che passavano alte. Venisse
trasmesso piuttosto l'ordine di marcia,
bisognava agganciarsi al battaglione che
stava sfilando. Accendendo una sigaretta,
riconobbe Serri che si levava dalla proda del
fossato.
- Come stiamo a materiale sanitario,
dottore?
- Abbiamo solo gli zaini e le tasche di
sanità, poche cose. Il più, il materiale
someggiato, è rimasto con le salmerie dietro
ai ponti interrotti.
- Naturalmente, al solito. Non ci sarà
pane, non ci saranno bende. E dovremo
combattere come se avessimo tutto.
Quando aspirava una boccata di fumo, nel
piccolo alone rossastro diffuso dalla brace
della sigaretta gli occhi chiari riflettevano
uno sguardo intenso che concitava
l'espressione dei fermi lineamenti del viso;
imperioso, lo sguardo indugiava sugli uomini
che si scrollavano dal sonno sul ciglio della
strada, ma nell'atto di passare dall'uno
all'altro quei lampi si smorzavano per un
istante nei toni caldi di una paternità trepida.
Le compagnie ripresero la marcia.
Era necessario procedere in silenzio e ciò
rendeva più lungo il cammino.
Ormai il sonno gravava sugli uomini
come una malattia cronica, un malessere che
appesantiva le membra e intrideva ogni
pensiero. Anche le gambe erano infiacchite
dal lungo andare e dalla mancanza di cibo.
Non si udiva tuttavia un lamento.
Chilometri.
Venne l'aurora, fredda, a indicare con i
suoi tenui richiami di luce il cammino: la
strada, poi la valle, larga, coi monti a lato; qui
e là piccoli gruppi di case, un pozzo. Su i
campi, nessuno.
Da un campanile minimo, una piccola
campana tintinnava. Il suono era acuto,
querulo, ma i rintocchi tuttavia erano lenti,
mesti: nell'abbandono, nella mancanza di
vita di quella zona ricordavano qualcosa di
vivo, ma morente.
Ormai stava spuntando il sole, il sereno
giorno di un venti aprile.
Il sottotenente medico Serri guardava in
viso i compagni, come ogni mattina, a tacita
visita medica. Erano volti segnati:
l'espressione immobile, dura, tradiva lo
sforzo. In due giorni non erano state
concesse due ore di sonno, i soldati avevano
sempre camminato, anche Argirocastro era
stata superata.
I fanti parlavano di acqua, di pane, di
minestroni, di polli arrosto, di bei prosciutti
casalinghi, sapide e vacue larve con cui
amavano combattere il fantasma della fame.
Qualche parsimonioso era riuscito a serbare
un tozzo di pane secco, residuo di lontane
distribuzioni, ma la gran maggioranza non
aveva più nulla. Milleduecento uomini da
quattro giorni pativano la fame.
Poco dopo il battaglione si mosse, ma
appena superò una curva fu avvertito un
sibilo alto: una granata esplose a lato della
strada. Passò un comando: giù dalla strada,
in ordine sparso avanzare ancora. I fanti
procedevano carponi fra l'erba bassa. Si
trovavano in una valle larga quattro o cinque
chilometri, la strada in quel tratto procedeva
sul limite destro della valle, a ridosso dei
primi salienti delle colline pietrose.
In breve il battaglione si trovò sotto un
fuoco nutrito: varie batterie sparavano
contemporaneamente dall'altro lato della
valle, evidentemente ancora tenuto dai greci.
Le granate cadevano qua e là,
disordinatamente; il battaglione non
appoggiato dall'artiglieria divisionale,
rimasta addietro, non poteva rispondere. I
pochi reparti che lo precedevano erano stati
sparsi sulla collina, mimetizzati fra le pietre.
Il battaglione ricevette l'ordine di fare
altrettanto, ma il colonnello Vezzi ottenne
dal Comando divisionale, dislocato nei
pressi, di poter stendere gli uomini non sulla
destra della strada, fra i cespugli e le pietre,
ma sulla sinistra, sui campi a lato della
strada.
Cinque minuti dopo i fanti erano stesi a
terra, sotto il sole, completamente allo
scoperto.
Lassù, alle batterie nemiche invisibili, un
ufficiale doveva aver trasmesso a qualche
pezzo nuovi dati per accorciare il tiro, e
subito le prime granate caddero sul
battaglione così bene esposto al tiro e del
tutto indifeso.
Gli uomini avevano sentito i sibili
scendere su loro, precipitosi; avevano calcato
l'elmetto sul capo, abbassato il viso fino a
toccare la terra.
Serri pensò al suo elmetto che a quell'ora
penzolava inutile sul basto di un mulo, dietro
chissà quale ponte interrotto. Strano, era
ancora possibile pensare a qualcosa, in
quelle frazioni di secondo durante le quali
pendeva sul capo la minaccia fischiante: anzi,
sembrava che la granata non giungesse mai a
terra.
Venga, se deve venire, ma si sbrighi...
Viene, questa è proprio per loro, il sibilo
scende, l'aria vibra come frustata, si presente
la vicinanza, l'immediatezza dell'esplosione:
il bolide giunge, sono tre, quattro, si avverte
lo scuotimento dell'aria e del terreno. Serri
ode un rumore strano, come se qualcosa
cominciasse a friggergli vicino; lo sfrigolio
dura un secondo, poi si smorza. E
l'esplosione?
L'ufficiale si accorge d'aver gli occhi
chiusi, li riapre. Vede, cinque metri innanzi,
una granata; è lucida, per niente sporca di
terra, non pare possa ferire e uccidere, pare
una cosa morta. S'accorge però che sta
fissandola da forse un minuto, non riesce a
distoglierne lo sguardo. Non esplode?
Ora fa ribrezzo, a guardarla.
Altri quattro colpi in partenza e quattro
granate cadono fra gli uomini.
I compagni intorno tentano di farsi più
piccoli, in un gesto convulso, fissano
ipnotizzati gli orridi arnesi che friggono. Una
è qui, l'altra là; ma non scoppiano, neppure
una è scoppiata. E a cento metri, sulla collina
pietrosa, ad ogni sibilo fa eco il dirompere
dello schianto. Si intendono ora le parole del
colonnello Vezzi: «Chiedo di poter
disseminare gli uomini sui campi». Aveva
notato il terreno molle, sul quale le granate
forse esplodevano raramente.
Dov'è il colonnello? Eccolo, è a trenta
metri, presso un albero sul bordo della
strada. Se le granate cadono sulla strada
esplodono indubbiamente, egli lo sa meglio
di tutti, e resta.
Serri gira per i campi accostando i soldati
sparsi fra i solchi. Pare impossibile, ma non
c'è un ferito. Non una granata è scoppiata,
mentre è continua la serie di esplosioni al di
là della strada. I fanti sono tranquillizzati,
qualcuno dorme folgorato dal sonno; altri
tengono l'occhio sospettoso sulle granate
sparse sul terreno; c'è chi già scherza su
quegli arnesi in apparenza innocui. Purché
qualcuna non cada direttamente su qualche
uomo...
Il bombardamento continua ancora,
implacabile. Dopo aver picchiato a lungo,
l'artiglieria nemica desiste dal battere quel
terreno molliccio su cui le granate non
esplodono, tutti i pezzi riprendono a sparare
oltre la strada.
Serri va a fare rapporto, come d'uso, al
colonnello Vezzi che in azione vuol essere
sempre informato sulla situazione sanitaria
del battaglione.
Il medico passa tra i soldati sempre stesi
a terra. Sono calmi, duri; ragazzi in gamba.
Il comandante è sempre là, sul ciglio della
strada.
- Non abbiamo avuto neppure un ferito,
signor colonnello - dice l'ufficiale medico.
- Vedi? - risponde; e gli occhi gli ridono, la
bocca dai denti d'oro gli ride, le mille sottili
rughe del viso gli ridono.
E' giusto dare una soddisfazione a
quell'uomo rude, semplice, che a più di
quarant'anni fa la vita di un fantaccino di
venti. Perciò il medico aggiunge:
- I soldati lo sanno.
Diventa serio d'improvviso, il colonnello,
e fissa Serri con uno sguardo impossibile a
dimenticare; quell'uomo si sente davvero
padre dei suoi soldati, freme al pensiero
d'avere bene vigilato su di loro. In questo
momento, a continuare il discorso o
s'arrabbierebbe o nei suoi occhi
azzurri s'addenserebbe l'inammissibile
pericolo d'un umidore per nulla soldatesco.
Il medico distoglie lo sguardo dal
comandante. A percorrere cento metri sulla
strada si può raggiungere una casupola che,
col suo pozzo, sorge al margine della strada
verso la collina.
Si vede una piccola bandiera della croce
rossa penzolare a ridosso del muro: è un
posto di medicazione di qualche altro
reparto.
- Vado a vedere se c'è qualcosa da fare, là
dentro, signor colonnello?
- Te lo volevo dire, ma non è compito tuo:
è un posto di soccorso dell'altro reggimento.
Però se ci vai fai bene, hanno portato diversi
feriti. Sta' attento anche tu, è un brutto posto
e io non posso restare privo di un medico.
Capito?
- Signorsì.
In quel momento non tirano, l'ufficiale
medico raggiunge la casupola. E' costruita
con fango, assi e sassi. Entra, per qualche
momento non vede, tanto è buia. Gli
vengono incontro due medici, sono esausti e
sconvolti.
Serri si offre di sostituirli, quelli
ringraziano e se ne vanno.
S'intravvedono i contorni di due stanzette
comunicanti, in una ci sono due banconi di
vendita, l'altra è vuota: una osteriola di
campagna. Ma in terra... sì, ci sono degli
uomini.
Serri ormai s'è abituato alla penombra. Si
china su un soldato: è senza giacca, ha un
braccio stroncato, gli occhi chiusi. Un
secondo, accovacciato contro la parete, ha un
triangolo di tela sul capo. Il medico solleva la
tela arrossata di sangue: una scheggia ha
aperto la cute e il cranio dalla fronte
all'occipite, un liquido grigiastro misto a
sangue cola a gocce sul collo, scende a
inzuppare la camicia. L'uomo, dagli occhi
semiaperti e spenti, respira gemendo.
Serri guarda ad uno ad uno i feriti; no,
nessuno è del suo battaglione.
Ogni poco giunge qualche altro ferito, il
da fare aumenta. Sono le tredici, i greci
sparano da quattro ore e ne hanno almeno
altre sei da utilizzare prima di intraprendere
il consueto ripiegamento notturno. Le
batterie battono sempre la collina; la pioggia
di granate si avvicina gradualmente, poi
sovrasta, più tardi si allontana di qualche
centinaio di metri per riavvicinarsi poco
dopo. E' un lavoro metodico, tranquillo
quello che i greci ai pezzi svolgono dai colli
opposti, un lavoro simile a quello del
giardiniere che con la pipa in bocca e il tubo
in mano innaffia l'aiuola.
Nella casupola ferve il lavoro fra il
rintronare dei colpi; intorno c'è tutta pietra,
dietro prende subito attacco la collina tutta
rupi, ed ogni granata esplode.
Già da un'ora Serri fa del suo meglio per
essere d'aiuto a quei poveri ragazzi. Tutti
hanno sete, le ghirbe e le borracce sono
vuote da un pezzo, ma i feriti chiedono
l'acqua come se invocassero la Madonna.
Fuori c'è un pozzo, chissà che non sia
asciutto.
Il medico esce, al pozzo c'è una latta da
benzina mezzo sfondata congiunta a una
cordicella, la cala nel pozzo.
Il bidone rugginoso risale, Serri riempie
la borraccia, rientra nella casa. E' putrida
quell'acqua, limacciosa; si può darla ai feriti?
L'assaggia: è disgustosa. Ci si può arrischiare
a berla? E il tifo? E le circolari? Ha un po' di
steridrolo, ne versa nella borraccia; però non
c'è anasteridrolo, sarà imbevibile. Il medico
riassaggia: ora è nauseante, letteralmente
schifosa con quel sapore di cloro.
- Acqua... acqua...! - dicono, gridano,
gemono i feriti. Il ferito alla testa, che delira,
canticchia quella parola di continuo, in modo
macabro.
Serri ha ancora la scatoletta di latte
condensato che forse può correggere un poco
quel sapore. Versa il latte nell'acqua, agita,
sperando, mentre agli occhi dei feriti non
sfugge un movimento.
- Dottore, muoio, datemi da bere... - dice
in un soffio un fante, ai piedi di Serri.
L'ufficiale prende la borraccia, si china
sul ferito, gli solleva la testa. L'assetato beve
avidamente qualche sorso, ma
improvvisamente ritrae il capo e lascia uscire
dalla bocca l'ultima sorsata, disgustato. Il
rivolo di latte gli scende sul petto, scorre più
rapido sul sangue rappreso che intride la
camicia - latte sul sangue è uno spettacolo
orrendo - cade sul pavimento argilloso.
- Anche a me! Anche a me! - invoca
qualcuno che ha visto il gesto del medico.
Egli passa fra quei poveri corpi, offrendo il
miserabile dono. Qualcuno beve ingordo,
quasi tutti lo respingono alla prima sorsata,
ma prima vogliono provare.
- Non ho altro, ragazzi; non c'è altro.
Si avvertono all'improvviso due sibili
vicini, due schianti di là dal muro, dal lato
della collina; l'atmosfera nell'interno della
casupola vibra, la capanna sembra crollare,
qualcosa cade dal soffitto, l'aria s'imbianca di
polvere. La porta si spalanca e un gruppo
urlante irrompe nella stanza schizzando
attorno sangue e terrore.
Un fante sostiene con un braccio l'altro
braccio del tutto aperto; dalle vene recise il
sangue fluisce continuo, nero, dall'arteria
beante fuoriesce a fiotti e il ragazzo alla vista
impazzisce. Non ci sono lacci emostatici, il
medico gli strappa la cinghia delle giberne e
con quella frena l'emorragia, più tardi
interverrà più accuratamente; fa
inginocchiare il ferito dinanzi al banco di
vendita, gli stende il braccio sul piano, il
braccio è una poltiglia.
- Sta' fermissimo, non aver paura, non ti
faccio più male di quanto già senti, ti fascio.
Corre da un secondo: è a terra, con una
coscia sfracellata, la rotula arrovesciata
pende fra una gamba e l'altra, tutta
l'articolazione del ginocchio è in pezzi, una
scheggia grossa come un pugno è piantata
nella carne, il sangue fluisce.
- Faccio bene a levare la scheggia senza
poi disporre di mezzi adatti?
Non aprirò una nuova porta
all'emorragia? - Il medico deve decidere
subito, ma sa che dalle sue decisioni dipende
la sorte degli uomini che lo invocano.
Divarica la ferita, con l'occhio ne fruga i
recessi.
- Meno male, la femorale è salva, quasi
del tutto scoperta, eccola lì; posso levare la
scheggia.
La scheggia rotola sul pavimento.
Bene, l'emorragia non aumenta; ma
l'estremità del troncone inferiore del femore
spezzato preme sulla safèna ancora intatta,
se il ferito muove il bacino probabilmente la
lede, bisogna scongiurare quel pericolo.
Perché i portaferiti che hanno trasportato
questo poveretto restano impalati?
- Portaferiti aiutatemi un poco, slacciate
almeno le vesti a quell'altro ragazzo, non
vedete che soffoca? Fra un minuto vengo io.
- Così, da bravi! Sollevategli intanto la
camicia, adagio, guardate dove è ferito, se gli
esce sangue.
- Che? la ferita soffia?
Il medico si precipita sul ferito, guarda: è
vero, la ferita «soffia», le pleure
evidentemente sono perforate, la scheggia è
penetrata nel polmone ed ha aperto un
tragitto fino ai bronchi: quando il ferito
inspira, l'aria entra anche dalla ferita:
enfisema traumatico.
- Dio Madonna! respira con la ferita... -
mormora un portaferiti; un sorriso ebete
stira le sue labbra esangui.
- Là, sul banco! - dice concitato il medico.
- Trovato? Sì, un rotolo rosa, cerotto,
cerotto, non lo conoscete? Oh, finalmente!
Date qui. - Riavvicina i bordi della ferita
toracica, stende su questa uno strato di
cerotto, un secondo, un terzo, bisogna che ne
risulti un tampone impermeabile. Quella
volta in clinica il chirurgo...
- Portaferiti, mentre finisco qui, fate
un'iniezione di canfora a questo... a questo...
e a questo. Là sopra c'è ago, siringa e fiale.
- Ma noi... non siamo portaferiti.
- Come? Anche questa... Correte allora,
andate a dire ai vostri ufficiali che mandino a
darmi una mano, se no qui qualcuno mi
muore. Fate presto...
Corrono fuori, tutt'e quattro, non
vedevano l'ora di andarsene.
Il ferito al torace, che sembrava morisse,
ha ripreso a respirare con una certa
regolarità; il medico può occuparsi di altri
due fanti.
- Ora a voi due, scusate, non vi avevo
visto. Niente di grave spero, se state in piedi.
Siete amiconi sembra, anche qui vi tenete
per mano.
E' forzato però questo tono scherzoso,
nell'aspetto dei due c'è qualcosa che non lo
convince. Poggia una mano sul braccio di
uno.
- Cos'hai che non va, tu?
- Signor dottore io sono... sono... cieco -
balbetta quello.
- Ma no, ma no, non dire parole grosse. E
a te invece cosa è successo? - Il secondo non
risponde, trema tutto.
- Vieni qui da me, avvicinati.
Fa un passo, due passi incerti; se il
medico non lo ferma calpesta un ferito. Non
vede, non vedono. Li guida in un angolo, li fa
sedere a terra.
- Non muovetevi, state tranquilli, lo
scoppio vi ha fatto uno scherzo, ma presto
vedrete di nuovo.
Ora che ha constatato la gravità di
ciascun ferito ed è ricorso agli immediati
ripari, bisogna medicarli tutti questi figlioli,
fissare opportunamente i lacci, scongiurare il
dissanguamento senza avviarli al pericolo
della cancrena.
Il colpito al polmone non presenta
forame d'uscita, i cerotti hanno servito e
servono, la respirazione è riattivata; ma la
vita viene meno, a poco a poco. Basta un
nonnulla per spegnerla, una complicazione
minima, un colpo di tosse, forse meno. Il
polso è filiforme. Potrà davvero giovare il
cardiocinetico che il dottore gli sta
iniettando?
La siringa non è svuotata e già Serri tende
l'orecchio per individuare l'origine del nuovo
rumore che da vari secondi si è inserito fra
gli altri: un brusio che gradualmente s'è
trasformato in un rumore di ferraglia
smossa. Carri armati, non c'è più dubbio;
sono due, ora procedono sulla strada,
passano dinanzi alla casa...
Ma no, hanno girato attorno all'angolo
della casa, si sono fermati...
Nell'istante stesso, due tre cinque granate
scendono fischiando sui carri, sulla casa,
tutto si scuote intorno, una parte del soffitto
crolla, il tugurio sembra sprofondare. Gli urli
attorno alla casa si rinnovano moltiplicati, il
polverone è tanto che il medico non vede più
nulla. La porta viene aperta d'impeto e una
decina di soldati urlanti irrompono
calpestando i giacenti che iniziano a urlare
anch'essi; i sopravvenuti invocano aiuto ad
altissima voce, resi folli dal gridare collettivo,
inorriditi nel vedere le proprie membra
squarciate; chi li sorregge urla di terrore.
Altre granate su quell'inferno esplodono, una
sembra sfondare il muro, nella violenza della
deflagrazione la porta richiusa viene
scardinata di schianto, si fa più luce nelle
stanzette dannate; e più alte d'ogni rumore,
d'ogni fragore, più disperate di quel destino
stesso sono le grida dei feriti, appelli
inferociti singhiozzanti di chi vede la morte
frugare tra le carni aperte.
Il medico riesce a far tacere il folle coro;
fra il pianto sommesso, contagioso, in cui si
è disciolto il collettivo farneticare, s'accosta a
ciascuno e lavora con fervore, sospinto dalla
tragica necessità di far presto, di vincere in
rapidità il flusso del sangue che da tutte
quelle creature fuoriesce a fiotti. Ancora
granate sul suo lavoro, le conta, sono sei
tutte a ridosso di quella «sua» casa; hanno
puntato ormai maledettamente bene su quel
bersaglio. Nuovi calcinacci precipitano, nuovi
urli rintronano.
Ancora tre fanti ne portano un quarto, lo
depongono, guardano, fuggono.
Il fante ha una gamba sfracellata sopra il
ginocchio, mostruoso impasto di muscoli
dilaniati, filacci di panno grigioverde,
frammenti d'osso, lembi di tela, coaguli di
sangue, pietrisco e terra; tutti i grossi vasi
sono recisi, il sangue affiora dallo sfacelo
come acqua da una polla sorgiva.
Con la cinghia dei pantaloni il medico gli
frena l'emorragia, la gamba è attaccata al
corpo con brani di pelle.
- Non muoverti così, figliolo, ché sfreghi
l'osso per terra, ti fascio subito.
- Ma bisogna liberare il corpo da questa
gamba ormai perduta - pensa; - non ho un
bisturi, una forbice, nulla. Adoprerò il mio
coltello da caccia, perdonami.
Leva dalla cintola il coltellaccio.
- Macellaio! - La parola che gli attraversa
la mente sibila come una frusta.
La cadenza di fuoco è un po' rallentata,
ora.
Il medico lavora rapido, appassionato. Ha
senso comune il suo lavoro, servirà a
qualcosa, o una granata particolarmente
precisa risolverà ogni ulteriore problema
travolgendo e seppellendo tutti in quella
bicocca? Disinfetta, sbriglia, ricompone,
taglia, fascia. Iniezioni, garze; il coltello da
caccia dalla larga lama che finora serviva
ottimamente per tagliare a fette la pagnotta e
ad aprire le scatolette, ora sprofonda nella
carne, perdonino Iddio e queste creature!
Muscoli squarciati, ossa infrante. Bisogna
tener d'occhio i lacci, i cuori, il respiro. Il
medico lavora febbrile. Mai la vita di tanti
uomini si è abbarbicata così disperatamente
alle sue mani, né queste sono state più
spoglie. S'accorge di non aver mai pensato a
sé, fino a quel momento. Ha nel cuore una
calma meravigliosa, una serenità assoluta.
- Questa arriva qui, eccola... - pensa il
medico. Il tetto sembra rovinare, con gran
fracasso un angolo del soffitto precipita, nel
polverone che si diffonde s'intravvede
l'apertura che s'è formata, ampia come una
botola; il materiale crollato è caduto tra il
banco di vendita e il muro, dove non era
stato posto nessun ferito. Il medico ha un
sospetto, si porta dietro il banco, guarda fra
le macerie, vede ciò che temeva: la granata si
è infissa a metà nel pavimento senza
esplodere. E' di medio calibro, se esplode in
quel piccolo ambiente chiuso è in grado di
finire tutti col solo spostamento d'aria.
Permetterai anche questo, Signore, in una
simile fossa di dolore?
Il medico passa fra i feriti. Sono molti
ormai, una trentina, addossati uno all'altro
nello spazio ristretto.
Bisogna scavalcarli per raggiungere gli
altri. Qui e là c'è qualche spazio libero, nei
punti declivi del pavimento ove sono raccolte
pozze nerastre: il terreno argilloso non
assorbe il sangue che ristagna perciò a grandi
chiazze, come olio denso. Nell'aria c'è l'odore
graveolente, grasso, dolciastro, nauseabondo
del sangue umano.
Muovendosi bisogna stare attenti a non
scivolare su questo sangue sparso a pozze
sull'argilla. E' lì per terra, nero, sta
coagulando lentamente, gli uomini che lo
hanno perduto sono intorno, ogni tanto il
medico è costretto ad allentare qualche
laccio e farne perdere ancora, per evitare la
cancrena.
- Dottore, non vedo... - geme un fante,
tendendo la mano in aria; nel gesto ha già il
tratto del cieco.
- Davvero non vedi ancora? E' uno choc
nervoso, passerà presto. - Sarà così davvero?
Il medico volge l'occhio al più vicino, in
tempo a vedere che sta strappandosi la benda
che gli copre la testa. E' il fratturato cranico. -
Fermo tu! - Ma quello non ascolta, non può,
è in delirio. Non si può fissare saldamente la
fascia perché comprimerebbe il cervello. Il
medico gli lega le braccia, non può fare di
meglio.
Anche un altro bendaggio si è allentato,
sulla coscia del ragazzo al quale ha amputato
la gamba sfracellata: smaniando e
torcendosi, a poco a poco il ferito ha messo a
nudo lo squarcio e nell'incoscienza della
febbre inarca il corpo poggiando a terra con
le spalle, con un piede e col residuo del
femore che è fuoriuscito nuovamente dai
muscoli della coscia. Il troncone d'osso,
puntato contro la terra, fruga orrendamente
nell'argilla e va scavandola ad ogni
movimento che il ferito imprime al bacino. Il
medico si è precipitato a impedire quello
strazio.
Il sole sta tramontando, le artiglierie
nemiche tacciono, fra poco dovranno
arretrare.
Una granata, solitaria, alta nel cielo passa
sibilando in una nuova traiettoria. Qualche
attimo, e nella zona delle batterie nemiche si
avverte una modesta, nitida esplosione. La
granata proviene dalle linee italiane, è
evidente.
- E' un pezzo di piccolo calibro - pensa
Serri; - per sparare su un obiettivo a cinque
chilometri, il cannone è stato spinto quasi
alle nostre spalle. La strada è perciò
praticabile, potrà giungere un automezzo. - Il
medico sente che i suoi feriti saranno posti
in salvo, non moriranno in quella tana
sanguinolenta.
- Ragazzi, coraggio! - Egli stesso ascolta la
propria voce fatta gioiosa; - presto verrà
l'autolettiga, dovrà fare due o tre viaggi.
Stabilisco io i turni, non ammetto proteste
sulle precedenze di partenza. Comando io,
intesi?
I soldati annuiscono, rianimati.
Il medico sa che con la speranza si
acuiscono gli egoismi e l'istinto di salvezza,
non vorrebbe dover essere duro quando starà
per separarsi dai suoi feriti.
- Sento un motore! - grida uno.
- E' vero! - gridano altri.
- Ferma! Ferma! - gridano tutti.
I più vicini all'ingresso si trascinano verso
l'uscita.
Come nelle favole, quando lo spasimo
pare spezzi l'ultima resistenza, s'avvera il
miracolo. Dinanzi alla porta s'arresta una
brutta, tozza, tarda autolettiga dell'esercito
italiano. Cessati per incanto gli urli dei feriti,
s'ode la voce dell'autista:
- Feriti, qui?
- Eh, sì. Quanti ne puoi caricare?
Ne ho otto che devono assolutamente
stare sdraiati. Parti tu... tu... tu... e questi.
Basta, ho detto basta.
I portaferiti dell'ambulanza vanno e
vengono con la barella, i feriti passano
dinanzi a Serri nell'uscire dalla catapecchia,
gli tendono la mano fatti ridenti e ciarlieri.
- Grazie, signor dottore...
- Veniteci a trovare all'ospedale.
Uno dei partenti, il fante dalla gamba
fracassata dice passando:
- Dottore, voi non avete l'elmetto, il mio
vi deve andar bene, io non lo porterò più,
prendetelo, vi potrà servire. - E glielo tende
dalla barella in movimento, volgendosi
penosamente col capo per vedere se il dono è
gradito.
L'elmetto è stillante di sangue, lurido:
Serri vi aveva infilato la coscia monca,
quando il fante in delirio la premeva in terra.
- Grazie, mi va benissimo, mi ricorderò di
te... - E come il fante guarda ancora in attesa
di un gesto, Serri mette in capo l'elmetto.
Qualche goccia gli scende subito lungo il
collo: sangue di quel poveretto, che sorride.
Poco dopo torna l'autolettiga: i feriti
partono tutti in un unico viaggio, la casupola
si vuota.
Il medico ora dà un'occhiata in giro, è
ormai tutta buia; gli uomini hanno concluso
il loro episodio e cedono il campo ad altre
vite: questa notte i topi nelle loro
scorribande sul pavimento si tingeranno le
zampette di rosso; altri animali di campagna
entreranno, e nell'oscurità lambiranno con le
avide lingue quelle pozze così bene odoranti
e gustose.
IV
Dopo mezz'ora di marcia i fanti
raggiungono un punto della strada ove il
generale Ferrazzini, comandante la divisione,
fra qualche sacco e qualche aiutante procede
personalmente alla distribuzione di viveri
gettati da un aereo. I soldati passando
tendono la mano verso il generale e ricevono
una scatoletta di carne. Nulla più; ma è già
qualcosa per gente affamata e digiuna da vari
giorni. Il colonnello Vezzi, gli ufficiali, i
soldati aprono alla bell'e meglio la scatoletta
marciando nel buio pesto, attenti a non
lasciarsi sfuggire dalle dita i pezzettini di
carne che riescono ad estrarre.
Non è agevole aprire una scatoletta di
latta con una baionetta camminando nella
notte; Serri è costretto ad adoperare il suo
coltello da caccia, non ancora lavato dal
sangue. Non ha avuto fortuna, la sua razione
di carne è immangiabile.
Il battaglione è il reparto di testa, secondo
il turno; per ventiquattro ore sarà il reparto
italiano più avanzato nella valle del Drin,
lungo la strada che da Argirocastro porta a
Kakavija, raggiunge il Kalibàki su cui si
snoda la linea Metaxas e scende alfine
direttamente a Gianina, nel cuore dell'Epiro.
Avanzare per quest'arteria significa
aprirsi le porte della Grecia non solo, ma
bloccare la migliore via di deflusso dello
schieramento greco fra il mare e il lago di
Ochrida.
I reparti italiani in avanzata stanno per
entrare in territorio greco, la stabilità del
fronte greco è stata scardinata, è imminente
il crollo di tutto lo schieramento. La
resistenza nemica è tuttavia tenacissima,
ogni appiglio di terreno è sfruttato fino
all'estrema possibilità, concentramenti di
artiglieria interdicono il passo agli italiani
durante il giorno. Sono poderose formazioni
di retroguardia che si avvicendano nello
sforzo di attardare l'avanzata italiana: ma il
grosso dell'esercito greco ripiega
sistematicamente, celermente nel continuo
sforzo di non farsi travolgere dalle divisioni
italiane incalzanti e trasformare la ritirata in
rotta.
Il soldato italiano durante questa
campagna ha valutato esattamente le
eccellenti doti del combattente greco; avverte
però che la macchina bellica nemica ora sta
per sfasciarsi. Da qualche giorno corre anche
voce che i tedeschi abbiano attaccato dal
nord le truppe greche di copertura che
presidiano i confini settentrionali.
Il battaglione del colonnello Vezzi sta
avanzando nel fondo valle ed è prossimo al
confine; la borgata di Kakavija che lo
delimita è a tre o quattro chilometri. Gli
abitanti di Argirocastro sono stati concordi
nell'affermare che i greci abbandonando la
città hanno lasciato incarico di annunciare
agli italiani che al confine avrebbero trovato
filo da torcere e pane per i loro denti.
Ogni tanto qualche colpo d'artiglieria in
partenza dalle colline verso cui il reparto è
diretto indica che il nemico, contrariamente
al solito, questa sera s'è fermato ed attende.
Faravelli e Serri, nuovamente ricongiunti,
forse meglio di ogni altro percepiscono la
tensione di volontà che sostiene il reparto:
loro perpetuo compito è infatti quello di
riassestare, talvolta con un medicamento ma
assai più spesso con la parola, il bagaglio di
piccoli e grandi dolori che il reparto trascina
con sé.
Zoppicando, il tenente Fabrini cammina
dinanzi a Serri. Si appoggia a un bastone e
incede faticosamente; da Sinanai in poi ha
marciato poggiando ad ogni passo su una
caviglia distorta, sì che questa s'è tumefatta
fino a diventare più grossa del polpaccio: il
dolore infierisce da una settimana.
Fabrini cammina in silenzio, solitario.
Serri da tempo lo tiene d'occhio, poiché
l'amico nell'ombra sembra spesso sul punto
di perdere l'equilibrio; lo avvicina e sostiene
d'un tratto mentre sta per cadere sul ciglio
della strada.
- Hai... hai un po' d'acqua? - chiede
Fabrini.
- Ho un intruglio d'acqua latte e cloro,
non riuscirai a bere, lo respingevano perfino
i feriti, oggi. Vuoi assaggiarlo?
- Sì.
Beve, vuota la borraccia fino all'ultima
goccia con un'avidità animalesca. Il medico
torce la bocca, nel buio.
Il tenente si riattacca al braccio di Serri e
la coppia riprende il cammino fino a che il
medico è costretto ad arrestarsi dinanzi a un
uomo afflosciato a terra. Molti ormai sono
gli sfiniti dalla fame e dalla stanchezza.
A un tratto la colonna si ferma.
Avanza da tergo un carro armato, dall'orlo
della torretta spunta la testa del colonnello
Rebellin, lo si riconosce dalla voce arrochita
con cui chiede ai soldati in marcia,
superandoli, se c'è fra loro il colonnello
Vezzi.
- E' in testa. Sempre in testa, signor
colonnello...! - rispondono i soldati.
Serri, ponendosi nella scia del carro che
fende la calca raggiunge agevolmente la testa
del battaglione.
Qualcosa di grave evidentemente matura.
I primi uomini del reparto sono fermi
dinanzi a un massiccio ponte; un'arcata è
stata fatta saltare, ma il cemento armato
caduto in blocco nell'acqua ne emerge e
consente il passaggio.
Il tenente colonnello Vezzi si avvicina al
carro armato; dalla torretta il comandante
del reggimento gli dice con voce eccitata: -
Vezzi, ti porto personalmente un ordine
importantissimo giunto poco fa: sorpassare il
confine entro domani, a qualunque costo.
Obiettivo: Kakavija. Il fonogramma dice
testualmente «a prezzo di qualunque
sacrificio».
Il tuo battaglione è di testa fino a domani.
Sono contento che tocchi a voi perché so
quanto valete tu e il tuo battaglione. Mi
raccomando, è un compito eccezionalmente
importante quello che ti affido - conclude
agitatissimo Rebellin - conto su di te, mi
raccomando; si prevede che incontrerete
resistenza accanita.
- Andremo di là del confine, comandante -
risponde tranquillo e sommesso Vezzi. - Ma
è bene che tu non lo preannunzi ai greci -
aggiunge, evidentemente seccato che il
comandante di reggimento abbia trasmesso
un così duro ordine senza alcuna
riservatezza.
Col perdersi del rumore del carro armato,
Vezzi rimane con nelle mani la sorte del suo
battaglione. Socchiude le palpebre per acuire
lo sguardo puntato al di là del fiume, nelle
tenebre. Non si vede nulla, non si
sente niente, salvo il consueto gracidare delle
rane.
Mille duecento soldati.
- Avanti, attenti - dice dopo un minuto di
silenzio, facendo il primo passo sulle macerie
del ponte.
Appena superato il ponte, una
mitragliatrice nemica spara, ritmica.
- Giù dalla strada; avanti.
Il colonnello cammina ora su un secondo
ponte, il battaglione segue.
Perché il comandante precede tutti?
Non fa male, in un momento in cui tutto
dipende dai suoi comandi?
Un'altra mitragliatrice spara, più precisa,
più vicina.
- Avanti svelti, senza rumore. Nessuno
spari.
Quando il battaglione ha superato i ponti
e procede sui campi parallelo alla strada,
diverse mitragliatrici greche aprono il fuoco.
Il reparto è stato avvistato, le pallottole
passano fischiando sopra gli uomini subito
distesi a terra.
- Qui due mitragliatrici, rispondiamo.
Il tiro delle armi ora s'incrocia, una
scarica coglie un fante che s'era alzato per
spostarsi.
- Guardalo, dottore, ma non far luce.
Il soldato è ferito alle due gambe e al
braccio destro, ulna e radio sono fratturati.
Serri taglia la manica della giubba. Vene e
arterie per fortuna sono illese, il ferito perde
poco sangue. Con due baionette il medico
fissa l'avambraccio. Giù i calzoni, adesso. Il
buio è quasi completo.
Cerca le lesioni a caso, strisciando le dita
sulle cosce denudate, risalendo i rivoletti di
sangue fino alle loro sorgenti, le ferite. Sono
tre, una ampia e due più piccole. Non
sembrano ferite gravi. Le tampona con i
pacchetti di medicazione che i due porta-
feriti gli porgono. C'è anche una barella.
- Portàtelo indietro, appena cessano di
sparare qui. Io vado avanti.
Avanza nuovamente solo, il battaglione
nel frattempo ha proceduto.
Rompono il silenzio due colpi in partenza
di mortaio da 45. Attende gli scoppi:
esplodono più lontano, verso il nemico: ha
sparato il battaglione.
Avanti in quella direzione, allora.
Ecco un colpo di cannone greco, tiro alto,
il cannone ha sparato da vicino.
Serri dopo un quarto d'ora di cammino a
casaccio raggiunge il battaglione.
Il colonnello studia ora una carta
topografica chino in una fossa, al lume di
una pila. I due ufficiali guardano l'ora: le due
e venticinque.
Serri viene avvertito che due soldati sono
stati feriti, nel prato sotto la strada. Quando
risale, gli uomini hanno ripreso ad avanzare.
L'ottava e la quinta compagnia sono già
passate, guidate dal colonnello, il medico si
unisce alla compagnia Comando che sta
sfilando. Per uno, massimo silenzio.
La strada si snoda in salita tra le ultime
balze del colle assai scosceso che sta sulla
sinistra. A destra il pendio digrada più
dolcemente per un centinaio di metri
perdendosi infine nel pianeggiare della valle
solcata dal fiume.
- Serri, siamo nella zona di Kakavija, fra
due minuti passiamo il confine - sussurra
Fabrini.
Le mitragliatrici greche frugano la notte,
incessanti. La strada è del tutto scoperta, gli
uomini procedono curvi sul ciglio della via,
addossati al monte. Il fuoco nemico si
intensifica, si fa più preciso, la fila d'uomini
s'arresta. L'artiglieria greca batte la strada; i
cannoni sono vicinissimi, forse neppure a un
chilometro innanzi, piazzati all'altezza della
strada che ora continua diritta e
pianeggiante. Tirano a zero, si sente lo
scoppio di partenza, subito dopo il proietto
passa fischiando parallelo alla strada - se ne
avverte lo spostamento d'aria - ed esplode
poco addietro, sui roccioni sovrastanti il
percorso già fatto. Ancora avanti, lenti,
fanteria contro artiglieria. Davanti agli
uomini, ad est, l'aurora segna l'orizzonte
staccando il colore del cielo da quello della
terra. Fra poco sarà chiaro, la situazione
diventerà durissima. Il nemico sfrutta subito
i primi albori, intensifica il fuoco; tre,
quattro granate al minuto frustano l'aria e
s'infrangono contro il monte.
Dinanzi alla compagnia Comando la
strada è ancora rettilinea per una
cinquantina di metri, poi forma una lieve
curva verso valle: dev'essere un punto
terribilmente esposto. L'ottava e la quinta
compagnia col colonnello Vezzi sono passate
al buio, la compagnia Comando dovrà
passare col chiaro. La curva è raggiunta; i
cannoni la spazzano d'infilata, le
mitragliatrici la dominano; si sentono le
pallottole sibilare e le granate sfrecciare
sonore. Il tiro è perfetto, i proietti creano un
vortice d'aria al centro della strada
sfiorandone il piano a due metri dai soldati
che avanzano curvi lungo il ciglio a ridosso
del monte.
Altri cannoni greci fanno un tiro più
lungo, battono tutta la valle, in ogni senso, a
un chilometro, a due, a cinque, dietro il
battaglione per sbarrare la strada agli altri
reparti avanzanti. Dovunque la valle è
punteggiata dalle vampe delle esplosioni.
Il battaglione ha superato il confine, il
colonnello Vezzi ha eseguito l'ordine
ricevuto; ma anche i greci hanno fatto una
promessa: mantengono la parola, sparano
con decine di cannoni, circa sessanta si saprà
poi.
I primi fanti della compagnia Comando,
fra i quali è Serri, strisciano ventre a terra.
Essendo proni è possibile vedere qualcosa
della valle sulla destra; davanti, nulla. Gli
uomini procedono silenziosi, intenti, sotto
un discontinuo tetto di invisibili fili mortali
che sovrastano la strada.
Il fante che precede Serri ha raggiunto la
curva. E' sdraiato a terra, solleva il capo,
indeciso; lo abbassa.
- Forza! - gli dice il medico.
- Non si vede nessuno; non si capisce
dove andare... - borbotta l'altro.
I greci tirano maledettamente. Il medico
guarda indietro verso i roccioni contro i quali
le granate esplodono. Eccone una che passa,
l'ufficiale quasi non crede a se stesso; è un
disco infuocato quello che vede. Eccone
un'altra; non c'è dubbio, è un disco rosso che
a velocità incredibile sorvola i fanti
stagliandosi netto nel chiarore incerto. Il
segno luminoso del proietto che svela la
traiettoria rende percepibile anche agli occhi
la presenza del ferro rovente.
- Ti decidi? Bisogna sbrigarsi.
- Vado.
Il fante si alza scattando, corre avanti,
oltrepassa la curva, scompare.
Ora è il turno del medico. Striscia,
raggiunge la curva, guarda. Avanti c'è un
rettilineo, saranno cento metri, al termine di
questo stanno due casette sulla strada. Di
fianco alle case, sulla destra, termina il prato
e s'eleva una serie di collinette. I cannoni
sono nascosti fra gli alberi di quelle colline,
ecco una vampa di colpo in partenza, ecco la
granata; stando sulla curva pare che il bolide
strisci vicino al corpo. Sulla sinistra della
strada la collina s'innalza petrosa, scoscesa. I
sibili delle pallottole di mitragliatrice, al
confronto della violenza strapotente delle
granate non fanno quasi impressione.
Bisogna muoversi. E' evidente la
necessità di lasciar passare una granata e
subito dopo scattare, nei secondi d'intervallo
fra una granata e l'altra. Ma dove sono andati
quelli che sono passati? Non si vede
nessuno, è chiaro che soltanto quando si è in
piedi in corsa potrà apparire la via di scampo.
Sui sensi del medico passano ondate di
concitazione: a scattare nella corsa in un
tempo sbagliato c'è da saltare per aria in
pezzi, centrati da una granata.
- Devo andare a caso, deciderò correndo -
pensa il medico.
E' già in piedi, si slancia in corsa allo
sbaraglio, le sue carni gli urlano il terrore di
venire dilaniate; ma finalmente vede una
cinquantina di uomini sdraiati a terra sul
prato in prossimità della strada; un ultimo
balzo a capofitto, ed è fra quelli, illeso.
Ora può guardarsi intorno: Iddio ha posto
in quel punto una gibbosità del terreno, un
lieve rialzo a semicerchio, pochi metri cubi di
terra in rilievo sulla conca del prato: è la vita
per tanti uomini, defilati al tiro nemico e
pigiati dietro la difesa naturale.
- Ci sono feriti? - chiede.
Sì, no, nessuno lo sa, ma nessuno si
lamenta.
Fra granata e granata scendono ancora un
soldato, un secondo e infine un ufficiale; poi
più nessuno, è giorno fatto. La visibilità
consente ormai ai greci un controllo perfetto,
non avanzerà più nessuno per tutto il giorno.
Nel gruppo di gente ammucchiata c'è
qualche ufficiale, il tenente Fabrini, vari
soldati della compagnia Comando.
- E il colonnello Vezzi? Gli uomini
dell'ottava?
- C'era ancor buio, hanno potuto
avanzare, portarsi sul lato sinistro della
strada e salire in diagonale per qualche
centinaio di metri sulla collina. Sono bloccati
là.
Nessuna illusione su un intervento
dell'artiglieria italiana che controbatta il tiro
nemico: pezzi e munizioni sono certamente
addietro di troppi chilometri. I greci sparano
da cento metri con le armi automatiche e
addirittura con i pezzi contro le due prime
compagnie del battaglione che si sono spinte
presso i cannoni ellenici, ma sono inchiodate
al terreno. Il nemico li ha visti giungere e al
riparo da ogni sorpresa può concedersi la
soddisfazione di far subire la propria
iniziativa, pur essendo in ritirata, all'esercito
avanzante.
I soldati addossati con Serri dietro
l'esiguo cercine di terra sentono le granate
esplodere senza tregua contro il bastione:
sembra quasi che il nemico lo voglia
sgretolare metro per metro per togliere
l'ultimo riparo agli uomini retrostanti; le
mitragliatrici ne mordono la cresta
smangiandola con un lavorio simile al
rosicare del topo. Sul punto più alto, quasi a
livello della strada, s'innalza un capitello
rustico, una colonnina tozza portante
un'immagine sacra. Quanto resisterai, povera
madonnina? E i fanti, ai tuoi piedi? Se i greci
sono in grado di iniziare il tiro curvo facendo
entrare in funzione qualche mortaio, con
pochi colpi massacrano tutti.
- Fabrini, senti come sparano contro la
quota del colonnello... - dice Serri; - là stanno
peggio di noi.
- Non hanno sospeso per un istante il
tiro. Qui siamo troppo ammucchiati, bisogna
diradarsi. Sotto la strada c'è un'opera in
muratura, forse un imbocco d'uno scolo
d'acqua.
- Pare anche a me, ma bisogna passare
allo scoperto.
- Vengo con voi, signor dottore - dice
Prati, l'attendente fedelissimo.
Una breve corsa allo scoperto, a sbalzi
successivi, e raggiungono il punto voluto. Il
piano stradale della curva è sostenuto da
blocchi squadrati di cemento e ghiaia; sotto
la curva si apre veramente uno scolo per
l'acqua piovana, una specie di fognatura con
un metro di lato, lunga quanto è larga la
strada, sette o otto metri: a stare seduti e
rannicchiati, molti uomini possono trovarvi
riparo almeno fino a quando i greci non
piazzino mitragliatrici di lato, dalla parte del
fiume.
Ai cenni di richiamo altri
soldati azzardano la corsa allo scoperto e
s'infilano nel condotto; altri ancora giungono
alla spicciolata e vi si stipano.
Con tiro a zero le granate scoppiano
contro il bastione della madonnina, con tiro
allungato battono tutto il terreno nelle
posizioni retrostanti, nella zona dei tre ponti
interrotti superati nella notte, esplodono più
lontano, più di lato, fra gli alberi dei boschi,
sulle pietre, sui prati; tutta la valle è rigata
dalle traiettorie infuocate. Nel grande ordito
dei cannoni le mitragliatrici lavorano più
minutamente, assidue; ricamano, collegano i
grossi punti dell'opera con refe sottile,
dipanato in fretta dai nastri saltellanti
attorno ai castelli delle mitragliatrici.
Ore di fuoco passano rapide nel cielo,
eterne nel cuore dei soldati. I fanti hanno
sonno, nonostante tutto.
Nella conduttura rigurgitante di corpi
l'aria è irrespirabile, molti si lamentano.
Serri, accosciato all'imbocco, per non cedere
al sonno decide di muoversi. Salta a sbalzi
verso gli altri uomini sul prato dietro al
ciglione.
- Da soli non si può far niente, siamo
troppo pochi, qualche decina, non abbiamo
armi adeguate, non possiamo prendere
iniziative, non ci sono ordini, siamo isolati;
finché dura questo fuoco è impossibile
inviare una sola staffetta, sarebbe uccisa
dopo trenta passi - dicono gli ufficiali.
- Venissero almeno le nostre artiglierie...
Chissà dove saranno, con tutte le
interruzioni...
- Sulla quota del colonnello i greci hanno
smesso di tirare, crederanno inutile
continuare, chissà che sconquasso hanno
fatto...
Il tempo passa lento, scandito dagli
scoppi.
A un tratto una voce si diffonde: i greci
tentano d'avanzare. Gli ufficiali guardano
oltre il piccolo bastione: sì, divise kaki
strisciano sull'erba venendo verso il rilievo
della madonnina.
- Inastare le baionette, pronte le bombe a
mano - è l'ordine. Non c'è una mitragliatrice
per tentare di fermarli.
Nel silenzio che s'è steso sulle primissime
linee s'ode un crepitio di mitragliatrici dalla
quota del colonnello Vezzi; sì, sono proprio
le due «Breda»: scopre se stesso al nemico
per difendere gli altri.
Momenti di ansia. Subito riprendono le
raffiche rabbiose delle armi automatiche
greche; ma sotto il tiro delle mitragliatrici
aperto dalla quota del colonnello neppure i
greci possono avanzare né restare dove sono:
ripiegano infatti veloci sulle posizioni di
partenza. Ora purtroppo pongono ogni
impegno nel far tacere per sempre la quota di
Vezzi.
Serri ritorna all'imboccatura del condotto,
richiamato dai soldati. Ci sono due feriti,
colpiti da una scheggia. Per chissà quale
miracolo, non c'è ancora nessun morto.
Il sole è alto nel cielo, s'avvicina il
mezzogiorno, la situazione è immutata, non
è possibile fare altro che aspettare.
Un grosso cane nero corre ora a perdifiato
sulla strada, proveniente dalle linee greche.
E' un cane da pastore, impazzito dalla paura.
S'avvicina abbaiando alla curva, i mitraglieri
greci sospendono per pietà il tiro.
All'improvviso un soldato sfruttando la
sosta e l'imprevisto di quella apparizione,
dopo un disperato balzo si precipita sul prato
letteralmente rotolando dalla strada. Viene
dalla quota del colonnello. E' ferito,
stravolto, balbetta. Lassù la situazione è
infernale. Moltissimi i morti, molti i feriti: il
colonnello Vezzi è morto, un capitano e un
tenente morti, un macello. I greci hanno
cessato di sparare sulla quota, forse credendo
morti tutti. Il soldato non parla più, soffocato
da un convulso di pianto s'accascia a terra.
Sono quasi le tredici. Ormai soltanto il
sole, tramontando, può mutare la situazione.
La sete è tormentosa, i soldati cercano di
far scolare qualche goccia d'acqua dalle
borracce vuote, ne leccano l'orlo all'ingiro, in
silenzio.
Dopo un quarto d'ora di bombardamento
furioso i greci si concedono una sosta. S'ode
allora un sibilo alto provenire dalla zona
italiana.
- I nostri! - grida un soldato.
Ma la granata scoppia sulla strada a dieci
metri dal condotto. Da dove è venuta? Ma sì,
è l'artiglieria italiana, questo che s'ode è un
secondo colpo in partenza dai tre ponti
interrotti: ancora un attimo d'attesa e la
granata esplode sulla strada, esattamente
sopra il rifugio dei fanti. E allora? La risposta
è semplice: l'artiglieria italiana è entrata
finalmente in azione, ma purtroppo il tiro è
corto e batte l'estremo schieramento italiano.
A giudicare dall'esplosione sono pezzi di
piccolo calibro, a fondo valle se ne vede la
vampa. I soldati si guardano l'un l'altro,
ammutoliti, per la prima volta si legge lo
scoramento sui loro volti.
Le granate ora si succedono frequenti,
laggiù credono di aver aggiustato il tiro, solo
qualche colpo più lungo giunge sulle linee
greche. Il nemico individua subito la batteria
italiana del tutto esposta nella pianura e apre
un violentissimo fuoco di controbatteria.
In breve nella zona dei pezzi italiani
s'elevano alte colonne di fumo, salta una
riservetta di munizioni, la batteria è
annientata e ridotta al silenzio.
- Per fortuna! - esclama sospirando un
fante.
- Come, per fortuna? - rimbecca un
secondo.
- Cosa vuoi che dica, mondo cane! - grida
il primo agitando le braccia; - cosa vuoi che
dica?
I quarti d'ora si succedono estenuanti
fino a quando un rombo di motori viene
dalle linee italiane. Alla nuova voce che entra
di prepotenza nella battaglia, tutte le armi
greche tacciono istantaneamente. Spuntano
sopra i monti le sagome degli aerei e
avanzano basse, dominatrici. Sotto il
galleggiare delle carlinghe la valle è in
silenzio, migliaia di uomini abbarbicati al
terreno fissano quel volo lento.
Quattro, cinque, sei aerei passano al
centro della valle, descrivono un largo
cerchio spingendosi sulle linee greche,
bellissimi. Sulla carlinga spiccano i segni
dell'Italia, un senso d'orgoglio e di speranza
anima i soldati.
Ora gli aeroplani ritornano, sono in fila,
sorvolano ancora una volta i fanti,
oltrepassano i tre ponti saltati, scaricano ad
uno ad uno le proprie bombe sulle seconde
linee italiane, s'allontanano.
- Mondo cane, mondo cane! - urla
mordendosi i pugni chiusi il fante, unica
voce nello sgomento silenzio degli altri.
Un altro soldato, quasi a compimento dei
propri pensieri dice a voce alta, secca: - La
nostra artiglieria spara su di noi, la nostra
aviazione sgancia le bombe sull'artiglieria. E
noi disgraziati su chi dovremmo sparare?
Le armi greche, che in presenza degli
aerei hanno taciuto riprendono ora il
bombardamento con furore rinnovato, che
agli italiani sembra irridente.
- E' qui il tenente Serri? - chiede Prati
sbucando carponi da un cespuglio.
- Sono qui, cosa vuoi?
L'attendente supera strisciando i pochi
metri che lo dividono dall'ufficiale e gli si
sdraia accanto, trafelato.
- Cosa succede, Prati?
- Niente, volevo darvi una cosa. - Si
solleva poggiando sui gomiti, sfila da tracolla
una borraccia, la stappa e la porge con finta
indifferenza al suo ufficiale. E' piena d'acqua.
- Dove hai trovato l'acqua?
- Al fiume.
- Disgraziato! Sei andato... - Il fiume è a
fondo valle, per raggiungerlo bisogna
percorrere almeno mezzo chilometro di
terreno scoperto e battutissimo.
- Signorsì. - Guarda di sottecchi l'ufficiale
e gli dice: - Per la prima volta mi avete
parlato d'acqua, oggi. Ho pensato che
finalmente dovevate essere morto di sete, e...
Non sa dire altro, ma guarda ora
l'ufficiale come se questi fosse suo figlio.
Serri finge un'indignazione che non ha.
- Da chi hai avuto il permesso?
Non sai che potevi farti uccidere cento
volte? Bella figura avresti fatto a startene
adesso a gambe all'aria in mezzo al prato, per
una borraccia d'acqua. Bel soldato! Fatica
sprecata, perché io l'acqua presa a quel modo
non la voglio, dalla a chi vuoi.
Il fante fissa l'ufficiale con sguardo serio,
quasi di rimprovero.
Dice con accento deciso, quale mai il
medico ha sentito nella voce dell'attendente:
- Dovete berla, perché io ho sete.
- Bevila tu, allora, se non ti sei riempito
abbastanza al fiume.
- Al fiume stavo per bere, ma i greci mi
hanno scoperto e hanno cominciato a tirare.
Avevo tanta sete, al ritorno, ma ho voluto
portarvi la borraccia piena. Eccola - dice
tendendola al medico - adesso dovete bere
voi per primo, poi tocca a me. Fate presto
signor tenente, muoio di sete.
L'ufficiale sorride all'uomo che in quel
punto vorrebbe abbracciare, e mentre l'acqua
gli scende nella gola lo guarda senza staccare
mai gli occhi da quel viso sul quale una gioia
profonda, fanciullesca, dissipa per un
momento i segni della fatica.
- Buona - dice il medico porgendo l'acqua
a Prati. - La migliore della mia vita.
La felicità ride dal volto del soldato.
La situazione è peggiorata: al fiume, sulla
destra, i greci sono riusciti a piazzare anche
le mitragliatrici; da quel lato i fanti non
hanno il più piccolo riparo dalle pallottole
delle armi automatiche. Raffiche di mitraglia
vengono a intaccare i blocchi di cemento un
metro sopra il condotto; Serri, seduto
all'imboccatura di questo è costretto a stare
curvo contro terra.
All'improvviso il prato è tempestato di
esplosioni, il terreno si sconvolge, le schegge
fischiano in ogni direzione, l'aria vibra, è
densa di fumo. Nella luce del tramonto le
vampe degli scoppi fanno livida la scena.
Terribili urli vengono dal prato fra
scoppio e scoppio.
Dai cespugli più vicini un gruppetto di
soldati si leva e corre verso il condotto,
raggiunge l'imboccatura; sospinti dall'istinto
di conservazione quegli uomini si gettano a
furia su Prati e su Serri che, seduti,
ostruiscono l'ingresso. Li calpestano,
s'inoltrano nell'interno sui corpi degli altri,
sospinti da quelli che ancora fanno ressa
all'imbocco. La tempesta di granate
s'infittisce, gli uomini ancora all'aperto
premono urlando, s'insinuano a lor volta,
procedono carponi sui già rannicchiati, si
stendono a strati.
Il bombardamento continua, feroce,
centrando la quota. Le ripercussioni degli
scoppi rintronano nel condotto, ove il
groviglio di corpi sussulta e si contorce come
un ammasso di vermi pungolati dalla
estremità d'un fuscello; ma dalla verminaia
voci d'uomini disumane e forsennate si
levano a chiedere aria e respiro.
L'impeto degli uomini che si sono
slanciati al riparo è stato così rapido che
Serri non ha neppure avuto il tempo
d'alzarsi. Al pari degli altri giacenti nello
strato inferiore il medico è sopraffatto dal
cumulo di uomini sovrastanti; sente che ogni
energia s'affievolisce, la costrizione che
s'oppone al respiro lo riduce a un essere
boccheggiante dal torace compresso in una
morsa d'uomini saldati l'uno all'altro.
A questo punto quattro, cinque colpi
secchi e potenti esplodono sulla curva, pare
che il condotto sottostante crolli; nello stesso
istante, nel pozzetto che separa il condotto
dalla montagna s'infila una grossa bomba da
mortaio ed esplode. Infinite scintille
turbinano negli occhi serrati dei fanti, la cui
prima sensazione è quella che il cervello
esploda e s'annienti.
Una mazzata d'inaudita violenza percuote
i crani, gli occhi, i timpani, forza le gole e i
petti degli uomini, in blocco scossi e sbattuti
contro le pareti. Serri sente una forza
implacabile che tenta di proiettarlo fuori,
come un'onda. Un fumo attossicante gli
penetra nei polmoni, si sente mancare, perde
il controllo del proprio corpo; solo la mente
avverte sprazzi di vita, del tutto sfocati e
irreali.
Ma tutti soffocano, le voci sì sono
affievolite, spente.
- I gas asfissianti...! - sono le inconsulte
parole che uno pronuncia, e che rintronano
ingigantite nei cervelli.
Nel groviglio, i corpi si smuovono
tentando di slacciare le membra attorte alle
membra altrui. L'ansare affannoso, bestiale
degli uomini che s'inarcano sugli altri
s'unisce ai colpi di tosse, agli urli, alle
bestemmie di quanti cercano di svincolarsi
da una sorte che li ingabbia fra le pareti di
cemento. I primi uomini riescono a sfilarsi, i
sottostanti possono alfine muoversi,
strisciare sui corpi degli ancora giacenti e
uscire.
Serri tenta di sollevarsi ma le gambe non
si muovono, non ne avverte addirittura la
dipendenza dal corpo; si trascina all'aria del
prato, raggiunge il capitello della madonnina
e guarda.
Intorno non ci sono che cadaveri ancora
abbrancati ai cespugli, all'erba, o riversi, con
gli occhi aperti.
Alcuni razzi salgono al cielo, si sente una
trombetta che suona, la famosa trombetta
dei greci. Che stiano per ritirarsi, i greci?
Incerto, il medico oltrepassa il capitello
della madonna, percorre tutto il prato e
giunge fin sotto il colle da dove i cannoni
greci hanno sparato durante il giorno. Ora
tutto è silenzio, non c'è segno di vita, anche
più innanzi non si ode alcun rumore,
nemmeno il crepitio delle mitragliatrici; sale
sulla strada, la dannata strada.
C'è qualche soldato a sedere per terra,
esausto.
- Avete visto passare reparti nostri? -
chiede il medico.
- No, non è venuto avanti ancora
nessuno.
- E' sceso qualcuno dalla quota del
colonnello Vezzi?
- No, ancora no.
- Andrò su io.
- Non fatelo signor dottore, due hanno
provato pochi minuti fa, uno è morto, ha
calpestato una bomba a mano; la collina è
seminata di bombe a mano senza sicura,
sono quelle dell'ottava che credeva di dover
sostenere un attacco. Invece li hanno
macellati da lontano con i mortai, e le bombe
sono sparse dappertutto.
- Avete visto feriti?
- Sì, indietro ce ne sono.
Il medico percorre a ritroso un centinaio
di metri sulla strada, raggiunge il capitello, la
maledetta curva.
Non c'è nessuno, ma poco addietro ode
un lamento.
V
Passa finalmente qualche compagnia
sulla strada, va a saggiare il terreno più
avanti. C'è molta confusione, non si sa da
quali cause derivi. Una compagnia del
battaglione Vezzi marcerà ancora in testa,
nonostante il turno sia scaduto.
Per due ore Serri passa da ferito a ferito,
nella notte. Ha ripreso collegamento con
Faravelli che, vivo per un caso, lavora
accanitamente a qualche centinaio di metri.
La zona su cui era spiegato il battaglione
viene rastrellata con l'aiuto degli infermieri. I
medici fanno portare i feriti dai prati alla
strada e appena giungono le prime barelle i
trasportabili sono avviati indietro.
Stabiliti i collegamenti, i servizi sanitari
man mano si riorganizzano e nella valle
l'incubo mortale si attenua nell'ordinato
lavoro degli uomini.
Disparate voci corrono fra i soldati e
prendono sempre maggiore consistenza: a
nord, sul fronte di Klisura e Coritza i greci
sarebbero in rotta, le armate sgretolate e in
fuga; il governo greco avrebbe fatto passi per
offrire la resa. Una colonna motorizzata
tedesca sarebbe a poca distanza.
Tutto ciò, ancora sotto l'impressione della
tempesta di fuoco scatenata dai greci, appare
inverosimile; tuttavia le voci si fanno sempre
più insistenti.
Sul ciglio della strada Serri intravvede un
gruppetto, c'è un uomo a terra. S'avvicina.
- C'è un ferito?
- Sì, signor dottore: il colonnello.
Quale colonnello? Serri sente il cuore
battere precipitoso, mentre s'inginocchia a
terra. Nel buio, chinandosi fino a venti
centimetri dal viso, riesce a scorgere i
lineamenti del colonnello Vezzi. Vorrebbe
chinarsi ancora e baciare la fronte al suo
colonnello. Ma il soldato ha parlato chiaro;
Serri ha chiesto: - C'è un ferito? - e quello ha
risposto: - Sì, signor dottore. - Vincendo
l'ultima esitazione, avanza una mano e tocca
la fronte dell'uomo disteso: brucia!
Qualcuno accende una pila e rivolge il
fascio di luce sul viso del comandante che
apre stentatamente gli occhi: ha lo sguardo
sbarrato, pare non veda; afferra tuttavia con
ambo le mani la testa del medico, se
l'avvicina al viso e lo fissa in volto con una
intensità d'allucinato. Serri lo chiama per
nome, sperando invano che l'ufficiale dia
segno d'intendere. Pare piuttosto che il
colonnello con uno sforzo d'intensità
inaudita tenti di richiamare i ricordi che il
viso del medico forse gli rinnovano. Il
dottore allora pronuncia il proprio cognome,
scandendolo. Il colonnello fa cenni convulsi
col capo, quindi con visibile sforzo ripete
sillabando il cognome del medico. Alla luce
della pila Serri lo visita rapidamente, con
attenzione febbrile.
- E' tutto inutile, signor dottore
- mormora un sergente con tristissima voce
all'orecchio del medico; - gli sono scoppiate
una dopo l'altra tre granate tanto vicine che
la vampa gli ha bruciato i capelli e il
cappotto. E' rimasto quattro ore morto,
morto vi dico. Gli avevano ordinato
d'entrare in Grecia entro oggi ad ogni costo...
Accidenti se ce l'ha fatta, anche se ha
dovuto buttarsi contro le mitragliatrici e i
cannoni...! S'è comportato come un leone,
ma ora se ne va...; dovevate vederlo già
colpito la prima volta, non stava più in piedi
e da terra dava ancora gli ordini con una voce
che noi...
- Taci! - lo interrompe Serri. Il
comandante, premendo con forza smaniosa
l'occipite contro la palma del medico che gli
regge la testa, muove la mandibola e le
labbra come in preda a un sogno tormentoso,
dal quale tenti di svincolarsi gridando.
Compie qualche movimento scomposto; poi,
a frammenti, roche, gli escono dalle labbra le
parole:
- Dottore... dottore... non badare... a me...
cura... Piombi...
Come illuminando quelle parole, il fante
che regge la pila dirige a lato il tenue fascio
luminoso e Serri scorge a terra un altro
uomo.
Ha il capo e il viso malamente fasciati con
strisce di camicia grigio-verde e dallo
sconnesso bendaggio esce il sangue e un
largo lembo della guancia destra. Il medico
leva la primitiva protezione per applicare un
bendaggio migliore, ma sfasciando
s'arrovescia e gli s'affloscia sulla mano la
metà destra del viso del ferito. Dall'orecchio
all'orbita, lungo il naso spappolato e la
mandibola, un'unica ferita ha fessurato quel
volto scollando completamente la guancia,
sicché la zona mostra il biancore del teschio;
i soprastanti piani muscolari e cutanei,
ridotti a una cotenna sanguinolenta unita al
corpo solamente nella regione del collo,
penzolano verso la spalla dell'uomo disteso e
poggiano sulla palma del medico. Il globo
oculare, senza più protezione di palpebre e
nudo nell'occhiaia, le ossa del naso
emergenti dal sangue raggrumato fra cui
scoppiettano orrendamente bollicine d'aria,
la metà del labbro superiore e inferiore
spaccati e l'intera guancia avulsa dalla sua
sede naturale, l'altra metà del viso
abbruciacchiata e contratta offrono
nell'insieme la visione d'una agghiacciante
maschera uscita da una fantasia demoniaca.
L'anatomia distrutta, i rilievi spettrali
sembrano palpitare per disumana vita sotto
il tremolante fascio di luce che la mano del
soldato non riesce più a dirigere con
fermezza.
- Dite che è il sergente Piombi, questo...?
- chiede il medico stendendo attorno alla
distruzione un primo giro di benda.
- Sì, dottore - risponde l'altro sergente
ritrovando fermezza man mano che parla. -
Era alla mitragliatrice, è stato ferito in
questo modo e non c'è stato verso di toglierlo
dall'arma per dieci ore, in quel finimondo.
Gli pendeva la guancia sul bavero del
cappotto ed è stato impossibile togliergli di
mano la mitragliatrice; non ha fatto altro che
sparare, perdere sangue, rialzarsi verso il
naso la mezza faccia che gli penzolava dal
collo come un tovagliolo; e gridava a noi di
tener duro, di non ritirarci di un metro, di
resistere sotto le granate...!
Piombi. Sergente Piombi. Mentre il
medico, attraverso i buchi lasciati dai denti
spezzati osserva il nero cavo orale, vede
schiudersi la doppia fila di denti e da quella
protendersi con un rigurgito di sangue la
lingua, tumefatta e ingrommata, che in uno
sberleffo sporge penzolando fuori dalla
chiostra dei molari infranti. Il ferito la
muove con torpidi moti inconsci, come
oppresso dalla molestia del dolore, o dalla
sete. Il medico pensa già di fissarla
all'esterno per impedirne la retroversione ed
evitare il soffocamento, quando la lingua
accentua il moto e dall'antro sanguinolento,
dalla ferita mostruosa esce una voce calma,
sommessa che biascica parole che il medico
ode, che tutti attoniti odono:
- Dottore... non è niente... curate... i
feriti...
E come nel timore che il borbottio non
possa essere inteso, la voce ripete fra lo
sbigottimento degli uomini ai quali sembra
d'ascoltare un morto: - Dottore... curate...
feriti...
Nessuno del gruppo ha coraggio bastevole
per far udire la propria voce, troncando la
sovrumana eco di quella voce. A lungo il
medico lavora in silenzio mentre gli sembra
di sentire poggiarsi sulle mani, nel breve
cerchio luminoso, il magnetico sguardo dei
presenti che in un amoroso sforzo di volontà
cerchi di guidarle e aiutarle ad esser lievi, più
lievi, a non dar dolore al compagno morente.
- Chi sono questi imbecilli che tengono la
luce accesa? Dio li maledica...! - grida da
dieci passi la voce roca del colonnello
Rebellin.
Nessuno risponde.
Il colonnello si avvicina, s'abbassa, vede
sangue, si ritrae.
- Chi è questo ferito? - chiede, ancora
burbanzoso.
- Il sergente Piombi - risponde Serri
riadagiando la testa del sottufficiale ormai
fasciata. - Gli è rimasto mezzo viso e un filo
di vita. Era sulla quota del colonnello Vezzi.
- Già, anche quello...! Un bel pasticcio,
andarsene così. Avete ritrovato il corpo,
almeno?
- E' vivo, è qui - dice il sergente.
Il fascio di luce ritorna sul colonnello
Vezzi.
- Vezzi! Vezzi! - grida Rebellin.
Improvvisamente fatto pietoso
s'inginocchia accanto al comandante di
battaglione, l'abbraccia, lo bacia, lo chiama
ancora.
- Dottore! - urla Rebellin - io ti ordino di
accompagnare all'ospedale il colonnello
Vezzi e di lasciarlo soltanto quando sei sicuro
che sia in buone mani e che abbia tutte le
cure necessarie. Non abbandonarlo un
minuto.
Il gruppetto s'incammina verso la
retrovia: tre uomini s'alternano nel sostenere
a braccia il colonnello che opponendosi a
farsi portare di peso annaspa con i piedi sulla
strada, sorretto ai fianchi dai soldati; Serri è
riuscito a trovare una barella per Piombi, il
drappello procede fra le buche della strada
verso i tre ponti, raggiunge faticosamente il
primo ponte interrotto, un fossato dalle rive
fangose e scoscese tra le cui sponde scorrono
cinque o sei metri d'acqua bassa. Difficoltoso
far passare i feriti. Il medico ferma un
gruppo d'uomini che stanno avanzando in
senso opposto, li dispone a catena sulle ripe
e nell'acqua; l'un l'altro si passano il doloroso
carico, a catena. Serri è nell'acqua che gli
giunge quasi al ginocchio, la sente frusciare
attorno ai pantaloni, non sa resistere
all'istintivo richiamo, immerge anche le
braccia appoggiando le mani al fondo e così
prono sul liquido, a quattro zampe,
rabbrividendo, fra lo sciacquio delle gambe
dei soldati con umiliazione beve, beve a
lungo, animalesco, come tante volte ha visto
fare i cavalli sul greto dei fiumi.
Raggiunge il gruppo, in tempo a litigare
per farsi consegnare da qualcuno che passa
una barella vuota su cui fa distendere il
colonnello. Il drappello procede più
speditamente, Serri incontra con gran
sollievo due medici del reggimento che
avanza e dai quali viene a sapere che il
battaglione Vezzi, troppo provato, pernotterà
poco innanzi a Kakavija. I barellieri superano
con grande stento il terzo ponte, su passaggi
improvvisati. Oltre quello la strada è
ingombra di soldati contro cui si cozza nel
buio; il piccolo gruppo non riesce a stare
unito, il caotico movimento d'uomini dà le
vertigini a Serri che cammina senza sapere
esattamente cosa fare; perde, ritrova, riperde
le barelle con i feriti, i soldati che
camminano in direzione opposta gli vengono
addosso e lo spingono a lato imprecando, ad
ogni passo gli sembra di dover stramazzare a
terra, non riesce più a tener aperti gli occhi.
Nelle orecchie, assordate per dodici ore da
fragori ininterrotti, gli rintronano senza
tregua gli scoppi di un bombardamento
inesistente. Da quanto non dorme, non
mangia?
E il colonnello, e Piombi? Perduti di vista,
ancora una volta. Si mette a correre, dopo
venti metri ha il cuore in gola, teme di non
poter più camminare a lungo, chissà dove
avranno impiantato un ospedale. A buon
punto ode venire da una carretta ferma una
voce che conosce. Grida, per vincere il
frastuono che gli ronza nel cervello: - Sei tu,
Parrelli?
- Olà, sei tu Serri? Sei vivo?
E' il tenente Parrelli, l'ufficiale di
vettovagliamento del battaglione.
- Hai visto due barelle portate verso le
retrovie?
- Sì, hanno caricato i feriti su una carretta
che tornava indietro, qualche minuto fa.
- Ti saluto, devo raggiungerli.
- Aspetta, ti accompagno io. Sto
scaricando i viveri per il battaglione,
tentiamo di farli arrivare con i muli
imbastati, io devo tornare indietro con
questa carretta; sali subito, se no vai a finire
sotto le zampe dei muli, rincitrullito come
sei - dice l'allegro toscano.
Tre minuti dopo la carretta sta rotolando
dietro il trotto bizzoso di un mulo, mentre
Serri ha l'impressione che il proprio cervello,
divenuto liquido, ondeggi nella scatola
cranica come l'acqua in un fiasco.
- Sai dov'è il primo ospedale, Parrelli?
- Sì, a trenta metri dal nostro magazzino.
- Bene. Devo condurre all'ospedale il
nostro colonnello, era su una barella, fammi
raggiungere l'altra carretta.
L'ufficiale prende di mano le redini al
conducente, spinge il mulo a gran carriera
sulla strada sconnessa, in breve i feriti sono
raggiunti e più tardi consegnati da Serri al
direttore della sezione di sanità.
- Saranno inviati senza dubbio in Italia -
dice questi.
- Vieni con me, adesso, dottore illustre -
ordina Parrelli uscendo dall'ospedaletto -
devi riposarti e dormire, penso io a te.
Nel magazzino Serri chiede da mangiare,
gli danno pagnotte e scatolette di carne.
Il medico intasca quanto può, chiede
ancora una borraccia di anice pensando agli
occhi tondi che farà Prati, prende altre tre
pagnotte da reggere fra le braccia e
masticando s'avvia all'uscita.
- Dove vai? - grida Parrelli.
- Al battaglione - risponde Serri aprendo
l'uscio.
- Sei matto? Non arriverai mai, col fiato
che ti resta. Domani devo tornare su con la
carretta, ti porto io. Ma dove vai? - gli grida
ancora Parrelli vedendo che il medico è
uscito.
- A Kakavija. Grazie di tutto, ci vediamo
domani - dice Serri avviandosi per il sentiero
che dal magazzino conduce alla strada.
- Sei il peggiore testardo che io abbia visto
in vita mia, santa la Madonna. Ma questa
asinata la paghi, te lo dice Parrelli.
Arrangiati, ma ricordati che a questo mondo
c'è remissione per tutti fuorché per i...
Lo sbattere della porta che Parrelli
irosamente richiude, copre l'ultima invettiva
toscana e lascia ancora una volta Serri solo, a
camminare nel buio.
- Quando finiremo di camminare...? - si
chiede il medico provando grande difficoltà a
mettere un piede innanzi all'altro.
Il viottolo è in discesa, ma gli pare che
salga. Non ha bevuto una goccia d'alcool e gli
sembra d'essere ubriaco. Forse fa male a
mangiare ancora quella carne in scatola e il
pane duro dopo essersi rimpinzato d'acqua.
O sarà il sonno, la fatica senza riposo...?
Quanto avrà dormito in una settimana? Tre,
quattro ore...? Ma non aveva tre pagnotte fra
le mani? Ora ne ha due. Dove è andata la
terza...? Il viottolo pare più lungo di quanto
sembrava, non si riesce mai a raggiungere la
strada... Toh, gli è caduta un'altra pagnotta,
rotonda com'è non si ferma più, continua a
rotolare sull'erba... Bisogna raccoglierla,
perché al battaglione la fame è tanta. Dove si
è fermata, che non si vede più, con questo
buio...? Sciocco, l'ha già in mano. No, questa
è la sola che non gli è mai caduta; bisogna
cercare l'altra... Si china, scruta fra l'erba, la
trova. Brutta idea aver poggiato un ginocchio
a terra, ora fa tanta fatica a rialzarsi. Troppa,
per un gesto così semplice. Forse la colpa è di
tutti quei viveri di cui s'è caricato; pesano, le
scatolette.
Ma che manna, quando arriverà fra i
compagni! Adesso però si rialzerà subito, ché
il tempo passa. Chissà come riderebbe
Faravelli se lo vedesse inginocchiato in
quelle condizioni sul prato! Forza, dunque,
su!
Ha ripreso finalmente a camminare;
almeno gli sembra, se vuol badare all'ansito e
allo sforzo dei muscoli.
Ma in realtà s'è afflosciato bocconi sul
prato e scalcia, in vani movimenti nervosi.
Ora poi è addirittura immobile, folgorato
dalla stanchezza: la resistenza di ogni uomo
ha un limite. Del resto, a vederlo
rannicchiato a quel modo per terra non
sembra neppure un uomo; con
l'impermeabile gialliccio addosso, pare
piuttosto un sacco di pagnotte caduto da una
carretta in transito.
Due pagnotte anzi sono rotolate fuori, e
giacciono tonde sull'erba, a mezzo metro.
Si intrideranno di guazza tutta la notte;
domattina all'alba, poi, qualcuno le
raccatterà.
- Lo sapevo benissimo che saresti finito
come un ubriaco che scivola nel fosso, mulo
testardo! - esclamò il tenente Parrelli,
rotolando su Serri assieme a una pila di
sacchi sulla quale era salito. Caduto addosso
al medico, l'aveva preso per il bavero e lo
scuoteva rudemente, deciso ormai a
svegliarlo del tutto.
Serri aprì gli occhi, semisommerso dai
sacchi caduti, dall'alto dei quali l'amico
ridanciano lo teneva abbrancato e lo
scrollava senza tregua.
- Cosa succede...? - chiese Serri
trasognato, guardando dal basso in alto le
cataste di materiali che ingombravano la
baracca nella quale si trovava.
- Cosa succede, eh? - proseguì l'altro,
scherzoso; - succede che se non c'ero io
questa notte a vegliare sull'illustre medico,
prima dell'alba vossignoria finiva i suoi
giorni sotto le ruote delle carrette partite a
fare la spesa viveri!
- Cosa, cosa? - ripeteva il medico incapace
a raccapezzarsi nell'improvviso risveglio. - Ti
ringrazio per quello che hai fatto, ma dimmi:
sei stato a sentire notizie del colonnello e di
Piombi?
- Certo, due ore fa - rispose Parrelli; -
Piombi è già stato avviato indietro, il
colonnello ha passato la notte delirando, ora
riposa; il direttore della sezione di sanità mi
ha detto di sperare che dopo il sonno
riprenda conoscenza.
- Lo spero anch'io, voglio salutarlo prima
di ritornare su - disse il medico alzandosi. -
Quando parte la tua carretta?
- Fra un'ora - rispose Parrelli.
Erano le nove di una splendente mattina,
Serri si sentiva bene dopo quel riposo.
Gli fu concessa la gioia di lavarsi con
sapone in un autentico catino, pensò
lietamente che se la guerra finiva presto si
sarebbe liberato perfino dai pidocchi;
mangiò, si recò alla sezione di sanità.
Il colonnello aveva ripreso conoscenza.
- Riesce a dire qualche parola - disse il
direttore accompagnando il medico verso
una brandina da campo.
- Ti do un minuto.
Il colonnello Vezzi guardava con occhi
sbarrati il soffitto di tela, aveva ancora
un'espressione stravolta, non riusciva ad
alzare la testa dal cuscino, ma il suo volto
s'increspò nelle sue mille piccole rughe
quando vide Serri. In altri tempi un balenio
d'occhi e denti d'oro avrebbe trasformato la
contrazione in sorriso; in quel momento, a
occhi fissi e bocca rigida, era una smorfia.
Serri gli toccò la fronte, lo guardò a
lungo.
- State bene, colonnello, curatevi; non
datevi pena per noi, vi aspetteremo sempre.
Vi lascio, ora torno al battaglione...
Il medico non aggiunse altro, non gli
riusciva.
Il colonnello levò dalle coltri le mani
tremanti, cercò e serrò quelle del suo
ufficiale; con voce rotta, esitante, tutta
affanno disse: - Serri, non ti dimenticherò
mai più... Non posso parlare, ma tu mi
capisci... Grazie per quello che hai fatto per il
battaglione e per me.
Di' a tutti che io so quello che ciascuno ha
fatto... e che tornerò appena posso al mio
battaglione... In cinque guerre non ho mai
lasciato il mio reparto... ma il colonnello
deve poter stare in piedi dinanzi ai suoi
uomini... sempre. E io...
E lui, che davvero era di ferro, piangeva
abbracciando l'ufficiale.
- Comandate, signor colonnello - disse
Serri.
- Serri... - disse ancora il colonnello
all'ufficiale che stava per partire - passando,
da' un saluto per me ai morti di Kakavija.
Tempo secondo
Portavano uno strano cappello ornato di una
penna nera
appiccicata a punta in su
VI
Risultò vero: un'automobile dell'esercito
greco scortata da una macchina italiana era
passata, diretta a un alto Comando per
chiedere la resa. Dai sentieri della montagna
scendevano sulla strada e deponevano le
armi interi reggimenti greci che l'avanzata
italiana aveva bloccato sulle montagne,
isolandoli dai loro Comandi.
Le strade dell'Epiro erano aperte, il fronte
greco-albanese era crollato.
Tra i fanti del battaglione un'allegria
semplice e primitiva di gente sopravvissuta
spumeggiava ritrovando vie e vene che fino a
quel punto parevano inaridite dalla
sofferenza.
Folate d'aria fresca alitavano tra il
frondame; era placida e bella primavera in
quel fondo valle, ricca di pace di luce e di
vento; e tutta nuova agli occhi, ai cuori, ai
sensi dei giovani soldati.
Era per essi, la vittoria, un infinito variare
di sensazioni appena percettibili, un placarsi
di sofferenze, una distensione di nervi
esasperati; non era ancora una clamorosa
notizia, ma solo un presagio aleggiante fra le
voci rese sonore, e più ancora tra i silenzi dai
quali si sentiva ormai stanata ogni insidia.
Saporito era nuovamente il pane, dolce il
riposo, buona a bere l'acqua, privo d'incubi il
sonno; bello, bellissimo era vivere ancora,
poter passare le mani sui polpacci, aderire
col cavo delle palme alle ossute rotondità dei
ginocchi, tentare con le dita i muscoli delle
cosce ben saldi, premere a piene mani sul
torace a misurarne il vigore e il respiro,
sentire entro di sé tutta viva e intatta la vita.
Al battaglione correva già voce che erano
in arrivo colonne di automezzi per il
trasporto verso il cuore della Grecia; fu dato
invece l'ordine di addentrarsi in un boschetto
a margine della strada per lasciare sgombro il
passaggio ad altri reparti.
Nuovamente senza viveri, senza teli per
innalzare le tende, in una località priva
d'acqua i fanti furono lasciati nell'abbandono
a gustare il sapore della vittoria.
- Non immaginavo così il giorno della
vittoria, senza poter neppure levarmi la sete -
diceva Prati ai compagni seduti sul margine
d'un fossato fangoso; s'era chinato sulla
melma del fondo e avendo immerso nella
mota il gavettino fino all'orlo attendeva che
dalla fanghiglia scolasse nel recipiente
qualche goccia d'acqua. Come n'ebbe raccolta
estrasse il gavettino, guardò il liquido torbido
e bevve facendo subito una smorfia di
ribrezzo.
- Devono aver fatto sostare dei cavalli, da
queste parti... - disse ai compagni che lo
guardavano indecisi se seguirne l'esempio.
Altri dormivano sulla terra; altri
scrivevano alle famiglie annunciando
d'essere ancora vivi.
Nei pressi del Kalibaki e della linea
Metaxas, attorno al fiume Kalamas l'acqua
pullulava da ogni roccia.
Piccole polle o getti impetuosi sgorgavano
fra l'erba dei prati, nelle anfrattuosità del
pietrame. Le valli verdi si allargavano
preannunciando la pianura. Vecchi conventi
abbandonati, dalle mura ricoperte d'edera,
solitari e tristi come vegliardi al sole
emergevano tra corone d'alberi.
- Vogliamo visitarne uno, Faravelli? -
disse Serri al collega. - Probabilmente sono
stati adibiti dai greci a ospedali di retrovia.
I due ufficiali si staccarono dalla colonna
in marcia e superarono il diroccato recinto di
un convento. In alcune sale erano allineate
ancora le brande, in altre v'erano residui di
materiali di medicazione; dovunque il
disordine degli ambienti abbandonati in tutta
fretta.
Serri socchiuse una porta e udì un
mormorio sommesso, concitato. Incuriosito
guardò attentamente nella sala semibuia e
vide un gruppo di persone inginocchiate sul
pavimento.
Erano donne dalle voci acute e dalle
ampie sottane che s'allargavano sul
pavimento celando i corpi genuflessi.
Sul capo avevano un velo nero; voltavano
le spalle a Serri in modo che l'ufficiale poteva
distinguere soltanto i contorni delle figure.
Pregavano fervidamente, flettendosi ogni
poco secondo un loro ritmo fino a toccare la
terra con la fronte. Alcune si mantenevano
sempre chinate, altre avevano un
atteggiamento di maggior abbandono, quasi
accosciate.
Dal gruppo salmodiante e raccolto
emanava un qualcosa d'indistinto che
tuttavia incrinava le voci, le rendeva esitanti
e affannate, dando agli atteggiamenti e alla
preghiera un'unica intonazione dolorosa.
Evidentemente erano suore che non
avevano lasciato il convento all'allontanarsi
delle truppe greche. Serri stava per ritirarsi,
quando una delle genuflesse volse il capo,
vide l'ufficiale e alzando le mani congiunte al
cielo levò un altissimo grido.
Allora, come a un comando, il gruppo
delle monachelle si rigirò, la preghiera
s'interruppe all'istante: una ventata di follia
parve sconvolgere l'armoniosità del gruppo
di oranti che s'accasciarono a terra
nascondendo il viso tra le mani o torcendole
in un gesto di muto spasimo. Una seconda
gridò; e un coro di strilli e di pianti, uno
stridio implorante e frenetico, una
concitazione lamentosa e querula
s'intrecciarono sui corpi in sussulto.
- Soltanto a vedermi... - si disse Serri.
Provava un'umiliazione bruciante, come se si
sentisse tramutato in oggetto di orrore e
venisse accusato per una colpa non
commessa.
Un'angoscia nuova gli incupì i pensieri;
guardò con tristezza la propria divisa, che per
le sofferenze venute dalla guerra era indotto
ad amare.
Si rigirò lentamente, traendo la porta.
Uscì, respinto.
Dai colli, dalle forre, dai boschi la Grecia
rivelava gli antichi volti.
Immutabili forse, certo estranei alle
vicende umane. Una corona di monti cingeva
Gianina, occultando il lago alla vista dei
soldati; lo spirito d'una diversa terra
emanava dalle zolle, dai prati, dalle pietre,
dal variato armonizzare di linee, di colori,
d'ondulazioni nel paesaggio.
Più in alto, verso la sommità del colle su
cui saliva, Serri vide l'armento al pascolo, gli
animali tutti queti a brucar l'erba. Come fu
più vicino scorse anche una figura umana:
seduto su un sasso, badando alle bestie il
pastore andava intessendo un cestello di
giunchi.
Era un vecchio dalla barba fluente sul
petto; vide l'ufficiale di lontano e continuò il
lavoro; quando Serri gli fu da presso depose
il cestello e lentamente s'alzò.
Era altissimo, asciutto, ancora diritto; la
barba gialliccia contrastava col colore nero
delle vesti. Il tepore della primavera non
l'aveva ancora indotto a levare dalle spalle il
saio di lana grezza che gli scendeva alle
caviglie, trattenuto alla vita da un cordone e
orlato con una striscia di tessuto bianco.
Dalla piccola calotta nera sfuggivano ampie
ciocche di capelli bianchi a incorniciare il
viso pallido, austero. Non pareva un
mandriano, ma emanava piuttosto dalla sua
figura un'aura ieratica, patriarcale.
Per nulla turbato dalla presenza dello
straniero s'era alzato con mosse lente,
misurate e ricche di dignità; con sguardo
pacato fissava Serri, una assoluta serenità
trapelava dal suo sembiante. Come il medico,
giunto a pochi passi dal vecchio, fece un
cenno di saluto, il pastore rispose chinando il
capo in un gesto del tutto privo d'umiltà, ma
più simile invece a un'espressione di
benvenuto da non far mancare al forestiero,
in obbedienza a felici leggi d'ospitalità.
Pareva che, adusato alla perenne pace dei
monti, non fosse tocco dalle contese e dalle
passioni degli uomini. Sorrise anzi, e tra le
labbra dischiuse s'intravvedevano i forti
denti.
Non conoscendo il medico la lingua greca
moderna, fra i due uomini non corse parola.
E forse ancora per questo parve a Serri
d'avere dinanzi un'immagine di più antichi
tempi, testimone d'altre epoche e d'altri
costumi, dispersa epigone d'antico mito
ellenico.
Forse il vecchio sdegnava una diversa
vita, ignaro d'ogni sorte estranea alle cure del
pastore; forse dai più remoti tempi gli erano
venuti intatti gli usi e i modi d'altri pastori,
vissuti su quella terra allorché Odisseo
navigava, quando ancora il nemico brandiva
l'arma in campo aperto e l'amico giammai
tradiva; forse il vecchio intendeva le antiche
voci sepolte, l'originario linguaggio degli eroi
d'Omero...
Tentato, Italo Serri richiamò dal buio
della memoria primordiali parole;
affascinato dal magico incanto esitando
disse: - Hai del latte? Ekeis gala?
Il vegliardo rimase immobile per qualche
attimo, sorpreso: parve intento a condensare
in un concetto incerte parole presenti e
risonanze disperse nei tempi; sorrise infine,
trasse una ciotola, s'abbassò a un vicino
animale e la ritrasse pesante e spumosa,
offrendola.
Fu allora che il giovane portò alle labbra
la conca di legno; e si sentì esultare, come se
per prodigio d'antichi iddii pagani bevesse in
quel punto il latte degli armenti d'Ulisse.
I fanti constatavano, marciando, che la
famosa Gianina, oggetto di tanta aspettativa
nei mesi di guerra, più che città era un
grosso paese; e grosso stagno pareva il lago.
Notavano anche come al loro passaggio la
popolazione guardasse innanzi a sé e
sbrigasse le proprie faccende quasi che non
s'avvedesse dei reparti sulla strada.
Dalla conca di Gianina veniva indicata sui
monti circostanti la zona di Metzovo, ove gli
alpini della Julia s'erano spinti nei primi
giorni di guerra, per ritirarsi tosto essendo
venuti meno i rifornimenti e i rincalzi.
- Com'è stato possibile - si chiedevano i
fanti da terziglia a terziglia - far penetrare gli
alpini tanto profondamente in territorio
greco in pochi giorni, senza riuscire poi a
mandare altre truppe?
- O è stato un errore spingerli fin lassù, o
è stato un delitto metterli in condizione di
doversi ritirare.
- L'unica cosa certa è che per tornare da
queste parti ci sono voluti sei mesi di
massacri - concludevano i soldati.
Era nuovamente in marcia, il battaglione;
ordini frettolosi e incalzanti lo sospingevano
verso il sud. Assai prima del previsto giunse
a Missolungi, sul canale di Patrasso.
Col passare dei giorni e con l'afflusso di
altre truppe la situazione si era distesa, i
soldati nelle ore di libera uscita visitavano la
città prendendo contatto con la popolazione.
Per infinite vie una corrente di simpatia
si stabiliva fra gli abitanti della città e il
soldato italiano. La bonomia con la quale
questi si soffermava volentieri a parlare, ad
acquistare, a interessarsi di sofferenze e di
piccole cose locali; il sorriso con cui offriva
una sigaretta a un uomo, salutava una
donna, accarezzava un bimbo; il linguaggio
dolce, lo stesso incedere privo di rigidezze
superbe, tutto contribuiva a sciogliere negli
animi greci l'avversione che gli eventi bellici
e la propaganda avevano montato.
In breve le finestre non si serrarono più
al passaggio dei reparti italiani, ma
s'affacciavano le donne a guardare curiose;
per la strada gli uomini si fermavano
volentieri, senza preoccuparsi d'essere notati
dai compatrioti in compagnia d'un soldato
italiano; questi cominciò anzi ad essere
invitato nelle case, a ricevere cordiale
accoglienza, a stabilire rapporti di simpatia
attraverso i quali sfumava, dissolvendosi, la
primitiva figura dell'invasore.
Venne allora l'ordine tassativo: vietato
ogni contatto con la popolazione civile,
vietato accostare i greci, vietato persino
sedere nei caffè.
La conseguente contrazione dei naturali
rapporti produsse subito i suoi frutti: in
avanguardia si fece innanzi la parte deteriore
del mondo levantino, quella che non
disdegnava i rapporti negati ed oscuri; dalla
suburra e dagli angiporti sbucarono a coorti
le milizie dell'illecito, offerenti i doni della
resa al vincitore; s'aggrapparono al
grigioverde attendendo a tutti gli angoli e in
ogni ombra, supplicando, piangendo,
ridendo, rinnegando, proponendo tutti i
mercimoni, i baratti e le sozzure; allettando,
contaminando, tradendo; e levando alta, a
propria discolpa e sopra ogni pianto di dolore
e ogni sorriso di voluttà una parola sola,
veritiera e mendace, terribile e divina: psomì,
pane.
La vittoria invano attesa all'inizio della
campagna italo-greca, giunta all'improvviso
quando l'opinione generale non l'attendeva
più, caduta sul terreno greco e da nessuno
raccolta, marciva come un dimenticato frutto
maturato fuori stagione.
Grottescamente, pareva che sconosciuti
avessero atterrato la vittoria alata e
degradandola a pennuto da cortile ne
andassero spennando le ali auguste; i soldati
ne raccattavano le penne e le sparse piume;
ma che farne, come ricomporle?
- Sono gli stessi che facevano andar male
le cose al fronte - dicevano i soldati; - allora
non distribuivano le munizioni ammucchiate
nei depositi, adesso fanno andare a male i
viveri; basta fare un giro al porto per
convincersi.
Effettivamente, i piroscafi avevano
scaricato ingenti quantitativi di farina che
era stata man mano ammucchiata sulle
banchine; col trascorrere delle settimane i
sacchi ricolmi accatastati all'aria aperta
avevano costituito un enorme ammasso alto
e largo parecchi metri, lungo centinaia; col
passare del tempo le piogge avevano favorito
la fermentazione della farina e l'odore acre
che si sprigionava da quella grazia di Dio in
decomposizione era talmente repellente che
erano state tolte le inutili sentinelle: anche
l'avidità e la fame greche si tenevano distanti
per quel puzzo.
- Cosa devono dire di noi i greci?
C'è da vergognarsi a girare per le strade! -
gridavano i soldati. - Il più bello è che noi
facciamo il gesto di privarci di metà della
nostra razione di pane per darla alla
popolazione!
Era vero.
Succedevano strani fatti, in quel tempo.
La benzina giungeva dall'Italia, veniva
distribuita; ma quando gli autisti aprivano i
fusti ben spesso estraevano acqua.
- Gli aviatori dicono che succede la stessa
cosa anche in Africa settentrionale, come
accadeva sul nostro fronte - diceva
Baldassari. - C'è gente che tradisce, è chiaro;
e chi ci va di mezzo sono i soldati in linea.
- ...E l'Italia, pare - aggiungeva Fabrini.
Succedeva pure che i ragazzini greci che
giocavano e rubacchiavano da mattina a sera
al porto, indicando ai soldati la nave italiana
pronta a salpare dicevano: - Se parte stanotte
come dicono, non arriva in mare aperto
perché davanti alle isole stanno due
sottomarini inglesi ad aspettare.
- Come lo sapete?
- Lo sanno tutti...! - esclamavano con aria
furba i ragazzini.
Durante la notte la nave levava l'ancora e
all'indomani il mare gettava alle isole i primi
cadaveri.
Altre volte i monelli ripetevano il
pronostico e i militari allarmati correvano a
riferire agli uffici competenti.
- Sì, sappiamo, sappiamo... - era la
risposta tinta d'ironia per l'ingenuo zelo -
sono voci allarmistiche poste in circolazione
ad arte per intralciare la navigazione.
- Ma l'altra volta però...
- Una coincidenza senza costrutto.
Dopo di che le navi, con buona pace dei
soldati che si trovavano a bordo, affondavano
regolarmente.
Succedeva infine che i soldati dicevano,
quando uno sdegno disperato azzannava la
gola: - Di questo passo, la guerra è perduta.
Venne presto un giorno in cui Serri si
soffermò vedendo numerosi soldati italiani
che facevano ressa innanzi a un'osteria del
suburbio. L'ufficiale s'avvicinò e udì una
gutturale voce appena percettibile che a tratti
scompariva del tutto.
- Cosa c'è? - chiese al soldato più vicino.
- Hitler, alla radio - rispose quello.
- E' molto che parla?
- Io sono qui da un'ora, aspettiamo che
finisca per sentire la traduzione.
Quelli che sono dentro dicono che
sembra molto arrabbiato con la Russia.
- Se parla solamente da un'ora - pensò
Serri - faccio a tempo a tornare con comodo
al campo e ascoltare alla mensa la
traduzione.
Mentre camminava tranquillamente
verso l'accampamento, a tutto poteva
pensare meno che il soffio delle parole di
quell'uomo stesse voltando una pagina nel
libro del suo destino.
- E' il doppio fronte!
- E' una pazzia!
- Chi se l'aspettava?
- Colpo maestro!
- Cosa dicono gli ufficiali tedeschi?
- Era inevitabile, io l'ho sempre detto...
- La guerra comincia soltanto adesso.
- ...Se l'esercito finlandese ha potuto
resistere per tanto tempo...
- Senza questa decisione, niente si poteva
risolvere.
- Saranno la nostra rovina, questi
tedeschi!
- ...Nessuno mai è riuscito ad invadere la
Russia...
- Tuo mesi, trei mesi Russia kaputt!
- Un accidente che li spacchi!
- ...il soldato italiano non può resistere al
clima...
- Ricordatevi che ai laghi Masuri,
Hindenburg...
- E a Tsushima i giapponesi...
- Ho parlato con i tedeschi: sono
impassibili.
- ...Churchill... Roosewelt... Stalin...
- Heil Hitler!
- E' la fine del bolscevismo.
- ...Blitzkrieg...
- Faremo a tempo ad andare anche noi?
- L'Asse non reggerà.
- E' impazzito, quell'Hitler!
- E' sempre stato matto!
- E' un genio!
- Il Giappone attaccherà da oriente.
- ...ma Napoleone non aveva i carri
armati, mio caro.
- La Russia ha risorse inesauribili...
- I tedeschi sono già in piena avanzata!
- Mussolini... Hitler...
- Venti, trenta milioni di russi sotto le
armi!
- Io non potrei andare, morirei di freddo.
- Se Fuhrer comandato noi vincere!
- Quanti chilometri da Varsavia a Mosca?
- Staremo a vedere, ma ho i miei dubbi.
VII
L'inizio della campagna contro la Russia
apportò le inevitabili ripercussioni in
territorio greco. I servizi d'informazioni
segnalarono il riaccendersi di attività
clandestine antitaliane tra le popolazioni; i
comandanti trasmisero ordini atti ad
assicurare maggior disciplina nei reparti, i
soldati compresero che la situazione mutava
e si profilavano di nuovo per essi
all'orizzonte i tempi del sangue.
A Patrasso, dopo un mese giunse al
battaglione l'ordine di ricongiungersi agli
altri reparti del reggimento e della divisione
rimasti a Missolungi.
- Ci riuniscono. La divisione è decimata
dalla malaria. Si rimpatria - assicuravano i
fanti addetti al Comando del battaglione.
- Pare che si rimpatri davvero
- confermarono al Comando del reggimento
quando il battaglione ebbe oltrepassato lo
stretto. Fra una settimana inizieremo le
marce per ritornare in Albania e in Italia.
Missolungi. Dalle plaghe lagunari, dal
terreno saliva a saturare l'aria un umidore
nebbioso che intorbidiva l'azzurro del cielo;
in piena estate il sole appariva, oltre le
diffuse cortine grigiastre, come un disco
scialbo in un paesaggio invernale. Ma sulla
terra gli uomini boccheggiando traevano a
fatica nell'aria ferma il respiro per proseguire
a vivere nella calura soffocante.
I fanti del battaglione trascinavano la
propria stanchezza fra i cortili infuocati e le
asfissianti camerate della caserma. Già al
risveglio il solo portarsi dalla branda ai
lavatoi imperlava le fronti di sudore, che
giorno e notte si diffondeva sulla cute
attirando senza scampo il volo di sciami di
zanzare.
Lo stordimento dato dall'uso obbligatorio
del chinino aggravava l'apatia profonda che
disgregava la volontà degli uomini.
Fra i soldati serpeggiava una insofferenza
crescente. Sfumata da tempo l'eventualità del
rimpatrio, erano da un mese
ininterrottamente rinchiusi nella caserma.
Confinati nell'angusto recinto ne uscivano
soltanto per essere trasportati all'ospedale.
Ogni mattina decine di uomini facevano
ressa attorno a Faravelli e a Serri recando i
segni dell'insorgere del male: malaria.
Di notte, sui visi sudati, sulle braccia,
sulle gambe nude dei fanti addormentati le
zanzare calavano lievemente interrompendo
il tenue ronzio.
Puntavano sulla pelle madida il sottile
pungiglione e lo configgevano, suggendo
avide il sangue. Si levavano, passavano alla
branda vicina, ingorde, infaticabili.
Visitavano i plotoni, le compagnie; nel
sonno, i soldati avvertivano un leggero
prurito che la mano inconsciamente leniva;
nulla più.
Ma giorno per giorno i fanti venivano
trasportati via, deliranti per l'altissima
febbre; ed erano ormai più numerosi gli
uomini sparsi negli ospedali che quelli in
attesa, nelle camerate semivuote, della
puntura maledetta.
Il trenino, fatte le ultime violente
sbuffate s'impuntò a metà salita né volle più
saperne di proseguire. I ferrovieri si
provarono a rabbonirlo scendendo a tagliare
rami e alberelli che gli venivano dati in pasto
ogni qual volta si fermava sulle salite
voglioso di quel carbone che da tempo gli
mancava.
Serri guardava i compagni di viaggio, la
vettura sgangherata, il boschetto brullo e
sentiva un gran desiderio di tornare indietro.
Aveva lasciato il battaglione qualche ora
prima.
- E' venuto un ordine, mi dispiace - gli
aveva detto il comandante: - devi raggiungere
immediatamente l'Ospedale da Campo 840,
ad Agrinion. Gli ospedali sono rigurgitanti di
malati, siamo a fine estate ed è previsto che
in autunno la malaria farà una strage ancor
maggiore; c'è bisogno di medici più negli
ospedali che presso i reparti. Sei stato
aggregato all'840 per due o tre mesi, farai
ritorno fra noi all'inizio dell'inverno, te lo
assicuro - aveva aggiunto notando una
espressione di contrarietà sul viso del
medico. - La forza del battaglione è quasi
dimezzata, Faravelli se la sbrigherà bene
anche da solo. E' una lontananza
temporanea, ti aspettiamo presto.
Era stato gentile, il comandante di
battaglione; ma era nuovo, il quarto, non
poteva sapere. Si fa presto a dire tornerai; ma
come si fa a sostenere lo sguardo dei soldati
che si avvicinano facendo conto di nulla e poi
dicono parole accorate, con occhi tristi: - E'
vero che ve ne andate anche voi, signor
tenente? - E poi tacciono mantenendo nello
sguardo l'interrogazione desolata, poiché
sentono che ancora un altro se ne va.
- Pare che lo facciano apposta... - dicono
ancora quelli; - quando si è fatta la vitaccia
insieme e si è diventati come... come fratelli;
allora via, uno di qua e l'altro di là,
arrangiatevi!
- Ma questa volta non ce la fanno - era la
conclusione sottolineata da uno smorto
sorriso - di questo passo uno per uno
arriviamo all'ospedale con la malaria.
Abbiamo detto fra noi che dovete prepararci
un padiglione speciale, sarà un bello
spettacolo vedere il battaglione a letto...
Faravelli si era fatto pensieroso per un
istante passandosi lentamente una mano sul
cranio rapato di fresco, e fra i più affettuosi
improperî aveva esclamato: - Però, se
all'ospedale fanno servizio crocerossine
giovani, ricordati che pretendo il turno! - Ma
l'allegra forza di cui era impastato quel viso
s'intristiva, verso gli occhi, in un'ombra
d'amarezza. - No, non ci sono crocerossine, lo
so bene - aveva concluso appoggiando
affettuosamente la mano sulla spalla di Serri
- non vorrei vederti partire, ecco tutto.
L'amicizia è l'unica cosa che ci resti in questa
sciagurata vita.
E Fabrini, stecchito e verdognolo come
un olivo, da due mesi divorato da una febbre
inspiegabile, gli aveva stretto a lungo la
mano con mani fredde.
- Dovresti andare tu all'ospedale, Fabrini;
deciditi, ti rovini!
- Ho paura che dovrò rassegnarmi, un
giorno o l'altro; ma sai com'è.
E i soldati, fermi al sole e all'ombra,
girovaganti qua e là ad attendere la sera od
intenti alle umili fatiche, pareva di tradirli.
- Questo è un buon soldato... quello
poveretto non mi sta più in piedi... quello
durante l'avanzata ha fatto cose incredibili,
non gli hanno neppure detto bravo... -
Sembrava impossibile che la vita travagliata
avesse legato tanto, uno all'altro, quegli
uomini stanchi.
- E io, signor tenente? - aveva chiesto
Prati, impalato inopinatamente sull'attenti.
- Tu? Tu resti, hanno chiesto me, non te.
Cosa preferiresti, venire o restare?
- Quello che comandate voi.
- Allora va' in fureria a prendere il tuo
foglio di aggregazione all'ospedale, sono già
d'accordo col comandante.
- Così va bene, signor tenente - aveva
risposto Prati, ammiccando con gli occhi
furbi; - ho già portato la mia roba alla
stazione, con la vostra...
I sobbalzi del trenino, rimesso in moto,
scuotevano nel cervello i pensieri e le
nostalgie.
L'Ospedale da Campo 840 era allogato in
un grande caseggiato già adibito ad
essiccatoio per il tabacco.
- Meno male - disse giovialmente il
capitano medico direttore dell'ospedale,
quando si trovò dinanzi Serri; - avrei bisogno
di altri dieci medici, me ne mandano soltanto
uno, ma è meglio che niente.
- Non ti ho fatto un buon servizio a farti
venire qui, te ne accorgerai subito. Ti affido il
secondo e il terzo reparto; anzi, prendi anche
il quarto, è sullo stesso piano. Se ci
manderanno altri medici ti alleggerirò un
poco. Ti accompagno a vedere il tuo regno,
vieni.
Quattrocento malati, quattro medici.
Anche per Serri il lavoro s'era fatto subito
estenuante; in prevalenza malarici, i degenti
richiedevano cure assidue, intense.
Venendo la sera, giungevano sempre
nuovi malati deliranti di febbre, bisognevoli
di immediata visita e di pronte cure; una
ridda di necessità si accavallavano nella
giornata dei medici: uomini su cui non
avevano fatto presa i morsi del gelo, della
fame, della spaventosa guerra, abbattuti da
una punzecchiatura giacevano nelle corsie,
miserevoli come vecchietti moribondi.
Solamente vivendo nell'ospedale era
possibile valutare la vastità del disastro. Ad
ogni giorno il rigurgito di malati dava la
misura del crescente diffondersi del male,
era visibile e impressionante il progressivo
arrendersi dei reggimenti al grottesco assalto
delle zanzare; i battaglioni, le compagnie si
sfacevano notte per notte.
Serri assisteva a un incessante
avvicendarsi di fanti sui lettini allineati: dopo
un periodo di degenza molti venivano avviati
ai convalescenziari in montagna, i più erano
rimpatriati perché costretti ad ancor lunghe
cure; ma ai partenti si sostituivano in sempre
maggior numero i malati sopravvenuti, tanto
che le presenze giornaliere salirono
nell'autunno a cinquecento, a seicento,
sottoponendo i medici a un ritmo di lavoro
pressoché insostenibile.
Tristi notizie giungevano a Serri, recate
dai suoi soldati che arrivavano all'ospedale in
preda alla febbre: il battaglione portava
ancora il vecchio nome, ma non ne aveva più
il volto; i superstiti erano ridotti a poche
decine; erano giunti i complementi, centinaia
fra ufficiali e soldati arrivati dall'Italia, fra i
quali i pochi anziani del reparto s'aggiravano
malinconici e spaesati.
La malaria aveva aggredito e disfatto in
pochi mesi il battaglione, partito con tante
speranze dall'Italia e dissolto miseramente
nella fanghiglia di quell'autunno in terra
greca: il vecchio battaglione non sarebbe
risorto più.
VIII
- Se quest'ordine fosse venuto un mese fa
- disse a Serri il direttore dell'ospedale - avrei
fatto conto di non averlo ricevuto, non avrei
mai consentito di privarmi di un medico; ma
col novembre per fortuna il lavoro è molto
diminuito, posso darti la comunicazione: c'è
un ordine per te.
- Devo rientrare al mio battaglione? -
chiese Serri.
- No, sei trasferito a un reggimento di
un'altra divisione. Ma voglio dirti una cosa:
nell'organico di questo ospedale è vacante il
posto per un medico. Abbiamo fatto un duro
lavoro insieme, qui ti vogliamo bene e ti
stimiamo. Se vuoi, mi è facile far revocare il
trasferimento e farti assegnare
definitivamente a questo ospedale; ho amici
influenti ai comandi militari ad Atene.
In un ospedale nel complesso si sta bene,
avresti finito di marciare e fare una vita
disperata, andiamo incontro a tempi ancor
più duri di quelli passati. Al tuo battaglione
in ogni caso non potrai ritornare, trasferito
come sei. Sta a te decidere.
Nell'animo del medico s'alternavano due
tendenze: la vita d'ospedale liberava dal
freddo, dal marciare, dal combattimento,
dalla linea, da infiniti tormenti e privazioni;
ma staccava dai soldati in armi, allontanava
dalla strada percorsa ramingando con i
compagni che facevano la guerra.
- Che reggimento è? - chiese Serri.
- D'alpini - disse il capitano cercando un
foglio tra le carte sul tavolo; - ecco: decimo
reggimento d'artiglieria alpina.
- Di quale divisione?
- Julia.
- Julia? - ripeté Serri quasi in un grido.
Il nome enorme gli calò sulle spalle, gli
prese il cuore scuotendoglielo in cento
battiti.
- Ho capito; mi dispiace perderti
- concluse il capitano medico. Ma lasciandosi
sfuggire un sorriso aggiunse: - Però ti dico
che se fossi giovane farei come hai deciso tu:
la Julia è la Julia, sangue di Dio! E che Dio te
la mandi buona figliolo.
- Prati! Prati! - urlava un minuto dopo
Serri, affacciandosi alla stanza degli
attendenti - i bagagli, presto!
Facciamo i bagagli!
Nel piazzaletto antistante alla piccola
stazione di Argos, sotto una freccia un
cartello diceva: «3° Regg. Art. Alp. Julia».
- Tu resta qui a custodire i nostri bagagli -
disse Serri a Prati. - Io vado al Comando di
reggimento, cercherò di mandare qualcuno
ad aiutarti per il trasporto.
Seguendo la direzione indicata dalla
freccia, s'incamminò verso gli uomini della
leggenda.
Erano soldati al pari di ogni altro, gli
alpini della Julia; solamente, come tutti gli
alpini, portavano uno strano cappello di
feltro a larga tesa, all'indietro sollevata e in
avanti ricadente, ornato di una penna nera
appiccicata a punta in su sul lato sinistro del
cocuzzolo.
Nelle intenzioni allusive di chi la
prescrisse, la penna doveva essere d'aquila;
ma in effetto gli alpini, ignari d'ogni
complicazione e spregiatori d'ogni retorica,
collocavano sopra l'ala penne di corvo, di
gallina, di tacchino e di qualunque altro
pennuto in cui il buon Dio facesse imbattere
lungo le vie della guerra, nere o d'altro colore
purché fossero penne lunghe e diritte e
stessero a indicare da lontano che s'avanzava
un alpino.
In pratica, la penna sul cappello resisteva
rigida e lustra per poco tempo, ben presto si
riduceva a un mozzicone malconcio; e qui
cominciavano tutti i guai degli alpini che
facevano la guerra: perché, a osservarli da
vicino, si capiva subito che in pace e in
guerra gli alpini potevano distaccarsi da tutto
meno che dal loro cappello per sbilenco e
stravolto che fosse; anzi!
E' un tutt'uno con l'uomo, il cappello;
tanto che finite le guerre e deposto il
grigioverde, il cappello resta al posto d'onore
nelle baite alpestri come nelle case di città,
distaccato dal chiodo o levato dal cassetto
con mano gelosa nelle circostanze speciali,
ad esempio per ritrovarsi tra alpini o per
imporlo con ben mascherata commozione
sul capo del figlioletto o addirittura
dell'ultimo nipote, per vedere quanto gli
manca da crescere e se sarà un bell'alpino;
bello poi, a questo punto, significa
somigliante al padre o al nonno, che è il
padrone del cappello.
C'è una ragione, naturalmente per tutto
ciò; ce ne sono molte. La prima è che dal
momento in cui il magazziniere lo sbatte in
testa al bocia giunto dalla sua valle alla
caserma, il cappello fa la vita dell'alpino;
sembra una cosa da niente, a dirlo, ma
mettetevi in coda a un mulo e andate in giro
a fare la guerra, e poi saprete. Vi succede
allora di vedere che col sole, sia anche quello
del centro d'Africa, l'alpino non conosce
caschi di sughero o altri arnesi del genere,
ma tiene in testa il suo bravo cappello di
feltro bollente, rivoltandolo tutt'al più
all'indietro affinché l'ala ripari la nuca, e
l'ampia tesa dinanzi agli occhi non dia
l'impressione di soffocare; e con la pioggia
serve da ombrello e da grondaia; con la neve,
da tetto unico e solo per l'alpino che va su i
monti.
Posto in bilico fra naso e fronte quando
l'alpino è sdraiato a dormire al sole e all'aria
ed ha per letto le pietre o il fango, con la
piccola striscia d'ombra che fa schermo sugli
occhi è quanto resta dei ricordi di casa, è il
cubicolo minimo che protegge soltanto le
pupille, ma col raccolto tepore fa chiudere le
palpebre sul sogno del morbido letto
lontano, della stanza riparata e delle imposte
serrate a far più fondo il sonno.
E se l'alpino ha sete, una sapiente manata
sul cocuzzolo ne fa una coppa, buona per
attingere acqua quando c'è ressa attorno al
pozzo o si balza un istante fuori dei ranghi,
durante le marce, verso il vicino ruscello;
eccellente perfino a raccogliere, dicano quel
che vogliono il capitano e il medico, la pasta
asciutta e addirittura la minestra in brodo -
non si scandalizzi nessuno, succede, succede!
- nei casi in cui l'ultima latta finisce i suoi
servigi sotto una raffica di mitraglia.
E' tanto amico e compagno, il cappello,
che gli si farebbe un torto a sostituirlo con
l'elmetto, in trincea; nessuno dice che il
feltro ripari dalle pallottole più che l'acciaio,
siamo d'accordo, ma è proprio bello averlo in
testa a quattro salti dai nemici, ci si sente più
alpini, e pare che il fischio rabbioso debba
passare sempre due dita più in là, per non
bucarlo; è così che dall'altra parte il nemico
vede spuntare dalla trincea quel cappello
curioso e quella penna mal ridotta che, a
vederla riaffiorare sempre da capo per
quanto si spari e si tempesti, sembra che
venga a fare il solletico sotto il mento, e
viene voglia di scaraventarle addosso
l'inferno e farla finita una buona volta, ma fa
anche pensare: accidenti, non mollano
proprio mai, questi maledetti alpini!
E' tutto così, insomma; di cappelli e di
uomini ne esistono centomila tipi a questo
mondo, ma di alpini e di cappelli come il loro
ce n'è una specie sola, che nasce e resta unica
intorno ai monti d'Italia. Ci vuole pazienza,
bisogna prenderli come sono, come il buon
Dio li ha voluti, l'uno e l'altro; e se a volte
sembra che tutti e due si diano un po' troppe
arie per via di quella penna, bisogna
concludere che non è vero, prova ne sia che
spesso quel cappello lo si fa usare perfino da
paniere per metterci dentro le sei uova o
magari le patate ancora sporche di terra,
come se fosse la sporta della serva; bisogna
pensare che tante volte sta a galla su un
mucchio di bende e non calza più perché la
testa del padrone, sotto, s'è mezza sfasciata
per fare il suo dovere.
Bisogna anche sapere che quel cappello, a
guardarlo, dice giovinezza per tutto il tempo
della vita, e a calcarselo di nuovo un po' di
traverso fra i due orecchi col vecchio gesto
spavaldo, gli anni calano che è un piacere; e
alla fine, quando non è proprio più il caso di
piantarlo sulla testa, vuol dire che l'alpino
ormai è morto, poveretto; e quasi sempre,
mandriano o ministro che sia, se lo fa ancora
mettere sopra la cassa e sta a dire che chi c'è
dentro era, in fondo, un buon uomo, allegro,
in gamba, con un fegato sano e un cuore
così; sta a dire che, morto il padrone,
vorrebbe andargli dietro ma invece resta in
famiglia, per ricordo; e che ormai, se non
riesce neppure lui a ridestare l'alpino disteso,
non esiste più neppure un filo di speranza,
fino alla fanfara del giudizio universale non
lo risveglia e lo scuote più nessuno: c'è un
alpino di meno sulla terra.
A non voler contare il figlio che,
polpacciuto e tracagnotto, brontolone e
testardo com'è, vien su tal quale il suo padre
buonanima; e già al passo si vede che sta
crescendo giorno per giorno «penna nera»
senza fallo.
Come ai loro tempi erano suo padre e suo
nonno, e tutti i maschi di casa, in fin dei
conti; tutti alpini spaccati, figli della
montagna dura e selvosa che dà la vita e la
toglie a suo piacimento, o la regala al piano
per germinarne altra; inesauribile, essa che è
pietra e vento, impasta quindi i suoi uomini
di durezza e di sogno.
Nascono e crescono così dal suo grembo,
come gli abeti, le «penne nere»; che per la
loro terra e l'intero mondo sono poi gli
alpini; gli alpini d'Italia.
Dalla porta semiaperta che dall'ufficio
Comando introduceva a quello del
comandante di reggimento uscì una voce
robusta:
- Voglio vedere in faccia il nuovo
acquisto!
- Chiede di te, va' avanti - fece l'aiutante
maggiore.
Come Serri oltrepassò la soglia, il
colonnello si levò in piedi.
- Vieni, vieni - disse giovialmente al
medico squadrandolo con sveltezza da capo a
piedi e fermando lo sguardo diritto nelle
pupille. - Ti ho fatto attendere un poco, a
volte bisogna dare la precedenza alle
scartoffie sugli uomini, anche se ciò non è
lusinghiero per noi. Come ti chiami?
- Sottotenente medico Serri.
- Colonnello Garri. - E stese la mano. Era
ampia, solida, forte come il viso e tutta la
struttura dell'uomo. Alto, massiccio, a
guardarlo dava subito la sensazione di poter
disporre di una volontà ben difficilmente
flettibile. Alla carnosa plasticità delle labbra
s'opponeva negli occhi, in una luce di bonaria
cordialità, un sottinteso di possenti energie e
di svelti pensieri. Poteva avere
quarantacinque anni, nonostante dominasse
sovra le sopracciglia nere la specchiante
lucentezza del cranio.
- Non startene impalato sull'attenti -
proseguì sedendo - qui da noi si usa poco,
serve tutt'al più per tener ben fermo
qualcuno quando gli si vuole levare la pelle
con un cicchetto, ma succede di rado. Per il
resto, meglio lasciare agli uomini la loro
naturalezza, ci si intende meglio. Quanti anni
hai?
- Ventisei.
- Vieni dalla fanteria: bene, è un buon
allenamento, da noi si va a piedi ugualmente
e con più grossi pesi sulle spalle, per giunta.
Hai malattie?
- Nessuna.
- Meglio così, malati non si resiste. Ti
avverto che non ti aspetta un lavoro da poco,
se vorrai metterti all'altezza dei colleghi che
ti hanno preceduto. Hai fatto l'avanzata con
la tua divisione? Eri a Kakavija?
- Signorsì.
- Bene, ti sei fatto le ossa e ti sei reso
conto del significato dell'artiglieria. Ma
l'artiglieria alpina è una cosa diversa, i pezzi
spesso si schierano in prima linea, a volte
vanno difesi con la baionetta. Hai pratica di
neve?
- Sono sciatore da diversi anni, conosco
bene le Alpi.
- Ti chiedo questo perché non è
improbabile che andiamo a finire sulle
montagne della Russia, a quanto pare; e sulla
neve bisogna saperci vivere, per durare. Sai
cavalcare?
- No.
- In questo tempo d'attesa farai bene a
imparare, i soldati apprezzano un ufficiale
che sappia stare in sella; ti potrà anche
servire, almeno per andare a piedi con una
nostalgia di più. Ti assegno a una batteria
difficile, la ventisei. E' stata provatissima
durante la campagna; sono state richieste a
quel reparto, come agli altri del resto, cose
inaudite. Gli uomini sono in grande
maggioranza friulani, soldati che reggono a
qualunque confronto. Oh, t'avverto: se fai
tanto da dare a loro l'impressione d'essere un
medico condiscendente e credulone, in una
settimana mi trasformi la batteria in un
ospedale, perché i soldati se la spassano a far
fesso un ufficiale a cui non riconoscano
polso ed esperienza. Ma bisogna però che il
medico li tenga d'occhio, che scovi i loro mali
guardandoli vivere; perché loro sono fatti in
modo che, quando hanno capito d'aver a che
fare con un autentico uomo, se chiedi come
stanno ti rispondono d'essere in salute anche
se sono moribondi. Bisogna guardarli - disse
scendendo a un tono di voce basso, quasi
sommesso - con occhio un po' ... un po'
materno, ecco, non meravigliarti se un
colonnello alpino è costretto una volta tanto
a esprimersi così; ma in fondo per noi sono
giovani figli, anche se hanno una statura
gigantesca. Oh, intendiamoci: sono uomini di
ferro, ma qualcuno mi ha fatto un po' di
ruggine stando sulla neve quest'inverno; e
devi fare in modo di raschiarla via prima che
si ritorni in linea. Insomma, mi hai capito e
capirai meglio vivendo con loro. Dividendo la
loro vita ti renderai conto di tante cose che
costituiscono lo spirito di queste nostre
truppe, saprai un po' alla volta quello che
hanno fatto, come sono. Esistono uomini e
vite che non si possono descrivere: si resta
presi, ecco tutto, e ci si trova a condividerne
la passione; vivrai sempre più a tuo agio in
un mondo inimitabile, finché qualcuno ti
dirà che ormai sei diventato un vero alpino
anche tu; e tu che te lo sentivi dentro da un
pezzo avrai la sensazione d'essere
raddoppiato di statura, senza badare se chi
t'ha detto quelle parole è magari un semplice
conducente di mulo. E allora, e fino a quando
porterai la penna nera sentirai e farai cose
che mai t'erano passate per il cervello, umili
o grandi che siano, ma dense d'un segreto
ch'è tutto nostro, d'alpini.
Il colonnello si trattenne dal proseguire,
quasi pensasse d'aver parlato troppo. Aveva
una voce risonante, imperativa,
evidentemente avvezza ai comandi che non
ammettevano repliche, sostenuti da un
costante sentore di forza che emanava dalla
intera persona; ma un qualcosa di indefinito
tradiva ogni poco l'agitarsi d'un fremito
umano e commosso inutilmente mascherato
di ruvidità militaresca.
- Ora - disse il colonnello spiccando la
parola e fissando intenzionalmente il medico
come a dirgli: «ci siamo intesi bene, amico,
una volta per tutte?» - ora ti presenterai al
colonnello Verdotti, comandante del Gruppo
dal quale la ventisei dipende; e già avvertito
del tuo arrivo, ti metterà a contatto con la tua
batteria.
Sei fortunato, è un ufficiale in
gambissima, è un padre.
- Ti do il benvenuto fra noi - diceva poco
dopo a Serri il comandante del Gruppo a
conclusione di un cordiale colloquio.
Era un bell'uomo dal volto abbronzato,
maschio. Indossava una divisa irreprensibile,
elegante, in contrasto a quante se ne
vedevano attorno. - Il tuo comandante di
batteria deve essere ancora qui, ho tenuto
rapporto poco fa; voglio presentarvi, non è
un tipo comune, bisogna capirlo.
Entrò infatti un ufficiale, quasi subito.
- Tenente - disse il colonnello - ti
presento il nuovo medico della tua batteria.
I due ufficiali si guardarono negli occhi.
Serri vide un volto pallido, uno sguardo
dolce, due occhi nerissimi, due sopracciglia
nere, sottili e lunghe. Un naso finemente
modellato e due labbra serrate e ferme
completavano il delicato viso concluso dal
nobilissimo ovale della mandibola. Il corpo
alto e snello era rigido sull'attenti.
- Tenente Reitani - disse l'ufficiale
tendendo la mano, serissimo. Aveva una
mano sottile e nervosa.
- Potete andare insieme in batteria, ora
che vi siete conosciuti - disse il colonnello. -
Io credo che vi intenderete bene.
Era buio, sulla strada. I due ufficiali
camminarono a fianco per lungo tratto
scambiandosi ogni tanto qualche rara parola.
Il comandante di batteria per lo più taceva.
Ma giunto all'ingresso dell'accampamento si
soffermò al limite della zona illuminata,
esitò un istante e disse al medico: - Non ti ho
fatto l'accoglienza che forse ti attendevi, mi
devi scusare, ho un carattere poco espansivo.
Ma io spero sinceramente che col tempo
diverremo amici, come già vorrei.
All'incerta luce, gli si accennava fra labbra
e occhi un barlume di sorriso: timido, di
fanciullo che vorrebbe osare di più, ma non
s'azzarda.
In un mondo scatenato e ruggente nella
frenesia degli onnipotenti motori, gli alpini
andavano ancora tranquilli a fianco del tardo
mulo per le strade del basso Peloponneso,
alla maniera antica. Nessuno più calmo, più
benevolo, più sereno di loro. Andavano a
prendere l'acqua, la legna, tenevano pulite le
bestie, si facevano il rancio, imbullettavano
le loro scarpe che avevano perduto i chiodi
nel lungo andare, erano sempre seguiti da
frotte di ragazzini, naturali compagni coi
quali dividere il pasto e il giuoco.
Gli adulti del luogo avevano anche riso,
quando gli alpini erano giunti sulla piana
argolica; con cautela, si capisce, senza farsi
troppo notare, ma avevano anche riso specie
per quella buffa penna ritta sul cappello; ma
avevano ben presto smesso allorché erano
giunti, reduci della guerra, gli uomini giovani
del paese che già avevano conosciuto al
fronte quella penna e chi la portava.
Dovevano aver detto qualcosa ai compaesani,
perché in breve il più scalcagnato alpino s'era
visto attorniare da lunghe occhiate dalle
quali traspariva una nota di esitante
ammirazione, di tacito rispetto, di muta
interrogazione, come se chi guardava
tentasse di spiegare a se stesso, osservandoli
da vicino, come fossero veramente fatti
questi alpini.
Soltanto le ragazze sorridevano ancora,
ma di quel sorriso che vale quanto il
sornione strisciare del loro braccio contro il
braccio, quando passano vicino; e anche più.
Nessuno aveva bandito proclami o fatto
discorsi, ma le cose erano andate così: la
gente greca in breve tempo aveva finito col
nutrire una radicata considerazione per gli
alpini, li guardava volentieri senza
nascondere una ammirazione che trapelava
da mille segni.
E tutto ciò, forse, era dovuto a una sola
ragione, ed è che il coraggio e il valore degli
uomini, quando non puoi più negarlo per
partito preso, e nemmeno per scherzo o per
rabbia, qualunque sia la tua prevenzione o la
tua razza alla fine ti conquista e t'incanta.
Andavano quindi con i loro muli per le vie
di Argos, silenziosi e industri, pacifici e
infaticabili, lenti anche, per quel loro passo
lungo e pesante. Solo una parte d'essi aveva
vissuto tutta la campagna dall'entrata in
guerra alla resa dei greci, gli altri erano morti
strada facendo, sostituiti man mano dai
soldati che ora completavano i reparti, giunti
a rimpiazzare i caduti e diventati veci a loro
volta conquistandosi i galloni di anzianità tra
i pidocchi e il marciume delle trincee.
Non c'era verso di indurli a parlare di sé,
pareva non sapessero farlo.
A dare loro ascolto, sembrava che i muli
avessero storie incomparabilmente più
interessanti.
- Ciao, Scudrèra! E' il tuo mulo, questo?
Come si chiama? - domandava Serri,
accostandosi a un conducente gigantesco che
aveva notato fra i tanti della ventisei; irsuto
d'aspetto e con cipiglio sdegnoso costui stava
curvo a raspare coscienziosamente la pancia
dell'animale con la spazzola da brusca-e-
striglia.
- La xe una mula, signor tenente.
- Già. E come si chiama?
- Serapide, ma mi la ciàmo Gigia.
- Ha fatto la guerra con te?
- L'ultimo tòco. I primi tre mesi li go fàti
con Roverso.
- Chi è Roverso?
- El me mulo.
- Ah! E perché l'hai cambiato?
- El xe crepà, pòro can. Morto de fame.
- Di fame? Com'è andata?
- E' andata, signor tenente, - proseguiva
l'alpino drizzandosi a lisciare il pelame della
groppa - che il fieno marciva non si sa dove e
paglia in giro ce n'era poca e presto è sparita,
e noi cerca di qua e di là ma la musetta
restava vuota. Lo sapete anche voi come
sono quelle montagne albanesi, che Dio le
maledìssa. A leccar neve non stava in piedi
neanche Roverso, che non faccio per
vantarmi ma l'era un bel mulo. Andava
sempre in giro di giorno e di notte, dalla valle
su alla montagna, in linea, con dei basti da
non credere.
- E tu?
- Con lui, per forza; ma avrei potuto
anche star sdraiato ad aspettare che tornasse,
sapeva la strada come un cristiano. Poi ha
cominciato a metter fuori le ossa, per il gran
camminare senza mangiare e dormire. C'era
da star male a vederlo, pareva Antonio prima
che morisse.
- Chi era Antonio?
- Il mulo di Pilòn, l'altro alpino del mio
paese, nàto de càn più de mi.
- Ho capito. E poi?
- Poi il colonnello Garri ha detto che
dovevo andare per foglie, perché le
munizioni e i viveri dovevano arrivare in
linea a tutti i costi. Allora sono andato sugli
alberi.
- Sugli alberi?
- Sì; andavamo tutti, con i sacchi, a
raccogliere le foglie, se no i muli non
avevano da mangiare, morivano e la linea
veniva indietro. Invece è rimasta al suo posto
e i muli sono restati in piedi ancora un bel
po' anche se per terra c'era solo il fango e la
neve. Roverso però è morto, era troppo
grande per vivere di foglie. Ma non c'era
altro, aveva sempre freddo, faceva una vita
da cani.
- E tu?
- Io? Io, che cosa? - chiedeva Scudrèra,
tendendo lo sguardo a inseguire lo sfuggente
senso della domanda.
- Come te la sei cavata, voglio dire.
- Oh..., io allora ho dovuto prendere la
Gigia, 'sta mula qui.
Era tutto. Non si riusciva a spremere
qualcosa di più circa le loro vicende
personali. Parlando dei compagni, invece,
fiorivano i ricordi sulle labbra semplici. Serri
scoperse allora che tra i compagni i soldati
includevano anche i loro ufficiali, fossero
sottotenenti o colonnelli.
- Non fanno brusca-e-striglia, ma
lavorano con noi peggio dei muli - dicevano. -
Portano lo zaino a spalla come noi, :no ghe
xe santi.
- La guerra, qui negli alpini la facciamo
tutti allo stesso modo - dicevano.
Mentre nei reparti di ogni arma era
illimitata la fama delle imprese compiute
dalla divisione, in seno a questa nessuno ne
faceva vanto. Non nelle conversazioni, ma
soltanto qualche volta nei lenti canti corali, a
sera, passavano le ombre e gli echi delle
battaglie e delle gesta.
Era spesso soltanto un attimo a evocarle,
un brivido, una cadenza prolungata in un
incrociarsi di sguardi su cui pareva prendere
sostegno e guida lo stesso ritmo. Ciò
succedeva in momenti particolari, che gli
alpini sapevano scegliere senza alcun
accordo poiché soltanto l'ora e il luogo, non
la volontà e l'intesa, suggerivano il tono e
l'avvio. Imperscrutabili sensibilità, oscuri
richiami presiedevano al canto.
Accadeva, per dire le cose come
succedevano a quel tempo, che gli alpini
marciavano per giorni interi con gli zaini e i
muli attraverso le illustri terre montuose che
fanno cerchio intorno al golfo Argolico. Si
poteva garantire senza ombra di dubbio che
nulla essi sapevano di Giasone, del Vello
d'Oro e d'altre trovate antiche; né Ercole
aggirantesi nella foresta Nemèa era
personaggio da scomporli; come anche, ad
affacciarsi sulle balconate montane e a
indicare con un dito giù nella valle dell'Inaco
dicendo Micene o Atridi o parlando di tombe,
essi guardavano l'asciutto greto del fiume
calcinato dal sole e, senza intendere altro,
tutt'al più concludevano: «Si capisce, in un
posto come quello non si dura, non c'è acqua
né erba per i muli», e con frasi simili
seppellivano per sé e per i loro posteri i
grandi nomi e l'intera storia d'Argos, la
Sitibonda. Erano incorreggibili negatori
perfino di onorate memorie come d'ogni
altra astruseria, a quanto si vede.
Ma quegli stessi, girovagando attraverso i
boschi e i monti della Nemèa si guardavano
attorno, e all'insaputa coglievano qui e là non
il senso delle leggende eroiche gravitanti su
quella terra, ma addirittura assorbivano i
motivi naturali che millenni addietro
avevano generato le leggende. Con
prodigiose facoltà di ignara rielaborazione,
sospingendo il mulo per le asperità del
cammino, in beatissima ignoranza andavano
a ritroso nel corso dei secoli. Pastori,
mandriani, guerrieri e uomini dell'alpe ad un
tempo, con semplicità respiravano i fluidi
della terra prestigiosa serbandone in
cuore, silenziosi, l'occulta essenza.
Non dissimili per natura dagli
antichissimi abitatori, su quella terra senza
tempo cercavano quindi, a sera, secondo
usanze immutabili, l'angolo adatto al bivacco
che offrisse riparo alle bestie e agli uomini.
Contro i primi freddi invernali, contro i venti
marini era prezioso il bosco, anche stillante,
soffice di foglie cadute.
Sorgevano il filare per i muli, le tende per
gli uomini, al centro del bivacco il fuoco
all'aperto dall'alta colonna fumosa che si
disperdeva fra i rami. Era appunto dopo il
rancio serale che gli alpini, assestato il
giaciglio per la notte lasciavano le tende e,
magari con la coperta sulle spalle, si
facevano verso la luce fumigante a sedere
intorno al fuoco. Parlavano tranquilli del più
e del meno, del cammino da farsi
all'indomani, del mulo che sta perdendo un
ferro, guardavano in silenzio il fuoco, le
bizzarrie della vampa, gli arbusti gocciolanti,
la nebbiosa cupola arborea; i pensieri
abbandonati a se stessi riandavano ai passi
compiuti durante il giorno, alle cose viste,
alle sensazioni donate da quella vita randagia
e mai conclusa, cominciata tanto prima e per
quel giorno finita lì; senza scopo quasi, ma
vita loro; e meno dura, per fortuna, di quella
trascorsa con i vecchi compagni. Morti,
quelli. Morti... là.
Tra fiamma e fumo si vedevano tante
cose, a guardare con i loro occhi.
Il bosco però era umido e freddo, a
quell'ora; venivano i brividi, anche la coperta
s'era intrisa di brina.
Mancava ancora qualcosa in quel bosco
perché divenisse veramente ospitale.
Troppo silenzioso, forse; pareva d'essere
sepolti sotto la nebbia e i rami. Era in quei
momenti che gli alpini s'accorgevano che tra
fuoco e tenebre in mezzo a tanti alberi dalla
corteccia fradicia la cosa che mancava al
bosco era la voce, la voce del bosco; e allora
gli alpini gli prestavano la loro, come se fosse
una vecchia intesa, una cosa da nulla
scambiata fra amici.
Così nasceva il canto.
Mormorato all'inizio, quasi sèguito di
pensieri accorati, gonfio di contenuto
respiro, lamento più che grido poiché mai
dissociato dal rimpianto per coloro che non
cantano più attorno ai fuochi. Un'infinita
nostalgia di cose perdute piangeva fra gli
alpini immobili e gravi; pareva allora
veramente, nel tenebroso silenzio del bosco,
che innanzi alle rosse lingue guizzanti le
parole e le voci venissero a sciogliersi
grondando sangue e lacrime. Ma non
importava, si sentiva che il bosco era
diventato la casa, per gli alpini; c'era
qualcosa di loro, ormai, che s'era posato su
ogni foglia e aveva reso accogliente la coltre
muscosa.
La canzone si spegneva poi più tardi, nel
silenzio, mentre i volti palpitavano d'ombre
per la mobilità della fiamma, smemorati e
intenti; ma una voce intonava una seconda
canzone, allegra questa, e gli alpini cantando
caricavano le pipe perché sapevano che la
canzone, alla fine, lasciava fumare e ridere,
del queto e saggio riso di gente che si
contenta. Potevano ragliare allegri anche i
muli se erano in vena, non avrebbero dato
fastidio: nel bosco ormai si stava benone, si
poteva lasciar spegnere tranquillamente il
fuoco e infilarsi sotto la tenda, restarsene
sdraiati in pace fino all'alba.
IX
- Ugo Reitani è uno di quegli uomini che
rivelano le proprie qualità quanto più i tempi
si fanno duri - disse a Serri il tenente Brogli;
- è imminente il suo avanzamento a
capitano, anche per questo motivo è stato
nominato comandante di batteria; al fronte
aveva il posto che ora è affidato a me, era il
sottocomandante della ventisei. Puoi
credermi se ti dico che si è comportato in
modo raro; gli hanno affidato compiti che
sembravano assurdi tanto erano rischiosi, li
ha portati a termine senza batter ciglio.
I soldati gli vogliono un bene dell'anima,
te ne sarai accorto; ha ottenuto da loro
sacrifici enormi solamente con l'esempio che
dava: restavano trascinati. E' riuscito a
salvare più di una volta i pezzi allorché già
sembravano in mano ai greci; e faceva
impazzire i tiratori avversari quando gli è
riuscito d'issare in vetta al Golico un pezzo
ardito col quale sparava a perdifiato sul
nemico che era a quattro passi e gli tirava le
fucilate sullo scudo del pezzo. Non finirebbe
più se dovesse elencarti le sue imprese, ma è
difficile che tu sappia qualcosa da lui, non
sembra neppure un siciliano tanto parla
poco, ma se si decide a farlo ti apre il cuore e
lo vedi fino in fondo. Senti allora che è un
amico che non ti mancherà mai, qualunque
cosa succeda. Ha un senso quasi religioso del
dovere e della responsabilità, ha certe
delicatezze che non ti immagini neppure. Ti
faccio un esempio che ti riguarda: sai che
giorni fa il comando di Gruppo ha passato
alla nostra batteria una decina di cavalli e
ciascun ufficiale ha scelto quello che
preferiva; Reitani già da tempo aveva posto
l'occhio su un cavallo che gli piaceva
moltissimo, il colonnello Verdotti gliel'ha
incluso tra quelli mandati a noi e Reitani era
felice. Ma al momento della assegnazione,
quando io ho detto a Reitani «questo
naturalmente è per te», mi ha risposto: «no,
assegnalo a Serri».
«Ma come» gli ho chiesto «non piace a
te?». «Sì» mi ha risposto «ma piace anche a
Serri; è con noi da poco tempo, ha passione
per i cavalli, bisogna fargli sentire che gli
vogliamo bene».
- Comincio a conoscerlo - disse Serri; -
grazie d'avermi informato.
Ma come avrà saputo...?
- Mah? - rispose Brogli. - E' una sua
specialità, conosce tutta la vita della batteria,
forse avrà afferrato al volo una frase di
qualche soldato.
- Non credergli, Serri - esclamò il
sottotenente Perbellini, interrompendo di
scrivere la lettera a casa; - come tutti gli
avvocati, Brogli ti racconta delle storie: è
stato lui a mettere la pulce nell'orecchio al
comandante, ero presente io!
Era felice, Serri, di vivere fra gli uomini
della ventisei; dopo un rapido
ambientamento s'era trovato perfettamente a
proprio agio tra i nuovi compagni; correnti di
simpatia reciproca univano in una vita
concorde i componenti della batteria, dal
comandante al più ispido artigliere, tutti
affratellati da un unico legame. Ben presto la
sensibilità del medico si era affiancata a
quella degli altri, amalgamandolo alla vita
del reparto.
La batteria alpina con altre due costituiva
il gruppo d'artiglieria, due gruppi riuniti
formavano il reggimento: questa era
l'inquadratura dell'insieme di forze che al
comando del colonnello Garri operavano
instancabili. Il lavoro era poco
appariscente, ma il complesso organismo
ferveva come un corpo umano, perfetto di
armonia nel perenne lavorio d'ogni suo
organo.
Un'operosità senza fine impegnava gli
artiglieri, gli ufficiali, il comandante che
tutto coordinava. Dal colonnello Garri il
flusso d'una energia inflessibile scendeva a
rivoli tra le schiere dei suoi uomini, tremila
artiglieri alpini, blocco di roccia dell'Alpe.
- «Ordine del colonnello» - dicevano i
soldati, e pareva ogni volta che un
undicesimo versetto fosse aggiunto per
l'occasione ai Dieci Comandamenti, e il
Signore dall'alto dicesse di sì.
Troppi legami infatti esistevano tra il
comandante di reggimento e i suoi soldati, e
troppe situazioni tragiche in cui il reparto era
parso senza scampo travolto egli aveva
personalmente risolto, perché gli artiglieri
non lo riconoscessero loro inarrivabile capo.
Da due mesi Serri, collegando le sparse
confidenze dei soldati, andava ricostruendo
nell'animo la storia del reggimento e
dell'intera Julia, quale nessuno scritto mai
avrebbe potuto narrare, poiché le relazioni
ufficiali, come trasformano in schemi le
battaglie e in consuntivi il patimento e la
morte, come chiamano servizio ciò ch'è
offerta e passione, così annichiliscono spesso
l'intero senso dei fatti; talché i protagonisti
autentici - a voler dare ascolto agli altri - non
riconoscono più se stessi né l'opera propria.
Ma quelli invece erano, fra Argos e
Nauplia, gli uomini della Julia, ancor segnati
e smagriti dal lungo combattere.
Fu nella notte di Natale che Serri saldò
tacito patto di fratellanza col tenente Reitani.
Un ordine d'allarme aveva fatto
intensificare la vigilanza sulle coste del golfo
argolico e la ventisei improvvisamente aveva
dovuto spostarsi e schierare i pezzi sulla
spiaggia in un tratto lontano da ogni abitato.
Il vento freddo che da due giorni spazzava la
landa costiera ghiacciando le pozzanghere e
il fango aveva ceduto a una completa
tranquillità d'elementi: mare, cielo, terra
stagnavano in un immoto silenzio; e neppure
si percepiva voce o traccia degli uomini della
batteria, frazionati e spersi su oltre due
chilometri di costa.
Nelle prime ore del pomeriggio del
ventiquattro dicembre il medico aveva
percorso lo schieramento, soffermandosi ad
ogni piccolo gruppo di artiglieri che,
attendati, presidiavano lungo la costa il
cannone o la postazione d'arma automatica.
Era ritornato al Comando di batteria quando
il giorno declinava sulla notte di Natale; già
da qualche ora la neve scendeva a imbiancare
i teli delle tende.
La tenda di Reitani sorgeva a pochi metri
dal mare, isolata dalle tre o quattro del
Comando. Quando Serri s'avvicinò il
comandante era solo, a un passo dal mare
calmissimo. Sembrava guardare il buio
sull'acqua, era fermo senza dubbio da tempo
poiché le orme impresse sulla neve erano
quasi ricolmate.
- Siamo in Sicilia, Reitani? - chiese Serri.
- Già - rispose questi, volgendosi
lentamente e un po' trasognato - stavo
appunto pensando alla mia Catania.
Là la neve cade di rado, ma una volta a
Natale è venuta, e quella sera io stavo in riva
al mare come adesso a vederla scendere.
Bisogna essere molto soli per goderla.
- Hai ragione. Ho fatto male a venire qui,
ora me ne vado.
- No, ti prego, mi fai piacere se rimani. -
Tacque, ma era evidente che pensava a
qualcosa. Disse infatti: - Hai deciso in quale
tenda dormirai stanotte?
- Non ancora, ma probabilmente in quella
dell'infermeria, al solito.
- Cosa ne diresti, invece, se passiamo
insieme la notte di Natale, sotto la mia
tenda? Ho molta paglia, ce n'è anche per te.
- Volentieri, Reitani.
Si parlava bene nel silenzio che la neve
offriva: era sufficiente mormorare le parole e
queste si diffondevano armoniose e ovattate
al pari dei bianchi bioccoli.
I due ufficiali entrarono sotto la piccola
tenda, Reitani accese il lume a olio, la paglia
venne divisa in due mucchi sui quali i due
giovani sedettero. L'attendente portò il
rancio nelle gavette d'alluminio: minestrone
e manzo lesso.
- Come cena di Natale è un po' magra, mi
dispiace di non poter dare qualcosa di meglio
ai soldati - disse Reitani mangiando. -
Abbiamo dovuto partire troppo in fretta e
non è stato possibile fare migliori provviste.
Però saranno distribuiti i pacchi che il
colonnello Garri ci ha inviato come dono di
Natale. Meno male che c'è lui a pensare ai
suoi soldati: se dovessero aspettare che si
ricordino di loro in alto, starebbero freschi.
- E' davvero un gran comandante, come lo
dipingono i soldati? - chiese Serri.
- Il colonnello? Lo saprai solo quando lo
vedrai all'opera. Un giorno o l'altro ti
spiegherò ciò che ha fatto il colonnello. - E
tacque.
- Non c'è un filo di vento - disse più tardi;
- se alziamo un telo della tenda possiamo
veder nevicare. Vuoi?
Sollevarono un lembo di tela, tornarono a
sdraiarsi sulla paglia avvolgendosi nelle
coperte. Era notte calma, non si udiva
neppure lo sciabordio dell'acqua a riva.
Nell'oscurità circostante il fioco lume a olio
diffondeva una mite striscia di luce fino a
qualche metro oltre la tenda; la neve fitta
volteggiava un poco nel chiarore.
Discontinuo velo sempre cadente e
sempre sospeso, isolava in modo tale i due
uomini da dare la sensazione che oltre i
limiti della debole luminosità non esistesse
più nulla.
Ma Reitani chiese sottovoce, dopo un
lungo ascolto: - Hai il papà e la mamma?
- Sì. E tre fratelli.
- Anch'io: il papà, la mamma e tre fratelli.
Uno è ufficiale pilota. In famiglia lo
chiamiamo Uccio.
- Mio fratello Beppe invece è ufficiale del
genio radiotelegrafisti.
Voleva sposarsi con Anna, la sua
fidanzata, e invece è andato col C.S.I.R.
(Corpo Spedizione Italiana in Russia. ) sul
fronte russo.
Fa il Natale lassù.
- Certo noi stiamo meglio di loro, questa
notte. Volare o trovarsi in Russia non deve
essere piacevole, con questa neve.
- Pensa ai nostri genitori, poveretti, a non
sapere dove siamo.
- E' quello che stavo pensando anch'io.
Erano due ragazzi lontani da casa, in
fondo. Rimembranze e nostalgie
intercalavano silenziosi pensieri fra le parole.
Queste cadevano ad una ad una e parevano
battere e spiaccicarsi nel silenzio, simili a
rade gocce d'acqua che nella notte cadono da
una grondaia.
La neve s'affacciava alla zona luminosa,
frullava un poco, s'abbandonava infine come
stanca di giocare.
- Non la detestate, voi, dopo l'inverno che
avete passato? - chiese Serri.
- Che cosa?
- La neve.
- No, almeno io no. Questa è una neve
diversa, tiene compagnia. Quella invece...
- Invece?
- Uccideva.
Le montagne dell'Albania s'erano
misteriosamente avvicinate, ora; parevano
sorgere, immani bianchi fantasmi, subito al
di là della luce rossigna.
- Mi dici qualcosa dell'inverno della
Julia? - domandò Serri.
- E' da quando ha cominciato a nevicare
che penso ai nostri compagni dell'inverno
scorso - disse con emozione Reitani; - non so
dirmi se è bene o male... che nevichi su di
loro, adesso. Sulla terra che li ricopre, voglio
dire. Per questo non riesco a staccare gli
occhi dalla neve. Se li immagino tutti
insieme, caduti del reggimento, dico di sì; se
mi ricordo i loro nomi, i loro volti dico di no,
vorrei subito gridare di no.
- Sono stati molti?
Reitani, il taciturno, cominciò a narrare.
Supino sulla paglia, con ambo le mani
intrecciate a conca in sostegno della testa,
guardava fuori.
Intraprese a parlare con lentezza, con un
filo di voce, uno spiraglio di voce nel silenzio.
- Hanno cominciato a morire subito, nei
primi giorni di guerra; non numerosi, in
principio, perché i greci si ritiravano in fretta
e noi marciavamo sul loro territorio come se
stessimo vincendo; siamo infatti penetrati
per decine di chilometri nella catena del
Pindo, sospinti da ordini squillanti.
Eravamo una sola divisione incuneata nel
territorio nemico, ci si chiedeva dove
andavamo a finire, ma i Comandi superiori
rispondevano che stavano per giungere
potenti rincalzi. A un certo momento però,
dopo otto giorni di avanzata, venne l'ordine
di fermarci. Avevamo ormai pochi viveri,
poche munizioni. I rinforzi non giunsero. I
greci stavano a guardarci, non capivano
perché non riprendevamo ad avanzare.
Cominciarono poi ad attaccarci, guardinghi,
increduli. Reagivamo, sconcertati, soli, non
sapendo più cosa pensare, pareva che ci
avessero dimenticati. I greci cominciarono ad
avanzare ai nostri fianchi, attaccandoci alle
ali dello schieramento, prossimi a
circondarci. Venne allora l'ordine di
sganciarci immediatamente dal nemico e
rientrare con i nostri soli mezzi al confine
albanese, senza contare su alcun aiuto. Era
un ordine di ritirata, l'ultima cosa cui
pensavamo.
Ci muovemmo avviliti, disperati, ma
decisi a vendere cara la pelle. I greci presero
baldanza, si scagliarono in massa contro di
noi con l'intento di sterminarci. Non ti so
descrivere la nostra vita di allora, braccati
giorno e notte, fatti segno a continue insidie,
appesantiti dalla determinazione di
trascinarci al seguito i pezzi e le munizioni,
affamati, ben presto stracciati e indifesi
contro il freddo. I muli morivano, ci
distribuivamo le loro some e le portavamo a
spalla. Sfuggivamo i greci per vederceli
ripiombare addosso qualche ora dopo, ci
disperdevamo, ci ritrovavamo, riperdevamo i
collegamenti, colonne greche s'infiltravano
fra i nostri reparti. Non dormivamo,
procedevamo a marce forzate, vincendo i
greci in resistenza, tanto che a volte quelli ci
raggiungevano e non potevano impegnare
combattimento perché non avevano più forza
per stare in piedi. E' successo perfino che
dopo un inseguimento accanito riuscissero a
prendere contatto con nostri reparti, ma la
stanchezza era tale che italiani e greci
cadevano fulminati dal sonno, frammischiati
nello stesso bosco e solo ai primi risvegli
s'accendeva la lotta. Ci attendevano ai
valichi, costringendoci a deviazioni che
allungavano il nostro cammino. I feriti
continuavano la marcia con noi, incuranti
delle piaghe, nessuno si rassegnava a
rimanere in mano al nemico. La regione era
sconosciuta, avevamo imprecise carte
topografiche, ci aprivamo la via fra infinite
difficoltà, sotto la pioggia e nel fango, senza
vedere dove andavamo.
Ma era con noi il colonnello Garri,
sapevamo che ci avrebbe portato fuori da
quell'inferno, salvava ogni giorno il suo
reggimento, ecco tutto, e a volte ha salvato
l'intera divisione. Allora s'è visto che uomo
era, i soldati si sentivano vivi per la sua
immensa forza. Qualche ora fa ti parlavo di
lui e ho smesso subito per non darti
l'impressione di lustrare un superiore, ma
ormai sono sicuro che mi capisci. Sai com'è
quando vedi un uomo e senti che fino a
quando c'è lui con te non sei perduto; così
era il colonnello per noi. Sempre, allorché la
situazione ti sembrava disperata, ti arrivava
col suo cappotto corto, i suoi guanti, il suo
bastone dal puntale d'acciaio e quella sua
gran voce che ti drizzava subito le spalle.
Potevi essere fradicio, estenuato, senza
speranze, ma dopo cinque minuti la muraglia
insormontabile che ti sentivi dinanzi agli
occhi cadeva, e capivi che era ancora lui che
col suo bastone ti indicava la via di salvezza
che avevi perduto di vista. E ti buttavi avanti
rinfrancato, di nuovo deciso a non mollare
finché lui non avesse detto: «alt, ragazzi».
Teneva in pugno il reggimento, impediva
ogni debolezza, se ci fosse stato un vigliacco
fra noi si sarebbe vergognato di farlo
intendere e avrebbe compiuto ugualmente il
suo dovere. Il colonnello era instancabile,
presente dovunque, preveggente, sicuro,
deciso come se avendo a disposizione un
sesto senso sapesse sempre quello che si
doveva fare. Più i greci imperversavano e la
situazione si faceva insostenibile, più lui
induriva la volontà e il coraggio.
Una voce s'avvicinava dall'esterno,
accennando una cantilena natalizia assai
diffusa tra i ragazzetti dei paesi, cavallo di
battaglia di quanti zampognari e cantori
ambulanti Gesù Bambino lascia andare in
giro a intonare le sue lodi attraverso le
contrade italiane. La voce annunciava al
golfo argolico nella notte di Natale:
Tu scendi dalle stelle
o Re-e del Cie-e-elo
sei nato in una grotta
al fre-e-ddo e al ge-e-elo...
- E' il sergente Bartolan - disse Reitani
sorridendo nel riconoscere la voce.
Poco dopo infatti l'altissimo «capo-
pezzo» del primo pezzo s'affacciò all'ingresso
della tenda. Aveva occhi chiari, lucenti su un
fresco viso di fanciullo; ma il torace
possente, l'eccezionale larghezza delle spalle
issate sul perfetto a piombo della gigantesca
statura qualificavano l'uomo.
- Ecco, signor tenente - cominciò
impacciato - sono venuto a ringraziare per il
pacco vostro e del tenente Serri che ci avete
regalato. Non importava che vi disturbaste,
avevamo già il nostro. Gli artiglieri del primo
pezzo ringraziano - disse solennemente,
tentando di rizzarsi per quel poco che il
basso tetto consentiva. - Presento gli auguri
della batteria. Abbiamo già mangiato tutto,
ma nei pacchi c'era anche del cognac e
abbiamo pensato che un dito di cognac fa
bene anche a voi e allora sono qui con la
vostra parte, ho portato anche il gavettino.
- Bravo Bartolan, grazie, siediti, facciamo
un brindisi insieme - esclamarono gli
ufficiali.
Il capo-pezzo s'accoccolò sulla paglia, il
gavettino girò da mano a mano in rustico
silenzioso brindisi.
- L'anno scorso faceva più freddo - disse
Bartolan infilandosi le mani in tasca e
guardando nevicare; - vi ricordate, signor
tenente?
- Mi ricordo, mi ricordo. Stavo appunto
raccontando al dottore qualcosa del
reggimento e del colonnello Garri, durante la
ritirata.
- Ah, sì - annuì il sergente; - io dicevo dei
giorni di Natale. La ritirata è stata prima, in
novembre.
Freddo anche allora, si sa. Tempo da cani.
Vita da cani, anche. Eh, se non era per il
colonnello a quest'ora eravamo tutti terra da
pipe.
- Senti? - disse Reitani a Serri.
- Per forza! - esclamò il sergente.
- Certe cose sono vere una volta per
sempre e per tutti. Basta dire Briaza, per
esempio, e chi c'era non ha bisogno d'altro
per sapere che cosa deve pensare di un uomo
per tutta la vita.
- Briaza? - chiese il medico interrogando
con lo sguardo il tenente.
- Briaza... - rievocò Reitani.
- Figurati, Serri, che nella zona di Briaza,
sotto lo Smolika, dopo giornate tremende i
greci stavano per avere il sopravvento; a un
certo punto, in quella situazione infernale il
comando di divisione, uno dei due
reggimenti d'alpini e noi del nostro gruppo
che marciavamo con quelli ci siamo trovati
isolati tra i monti senza più collegamenti: la
divisione era perciò tagliata a metà, in balìa
dei greci; sembrava la fine, il nemico ci
stringeva già da vicino. Il comando del
reggimento alpini mandò una pattuglia con
qualche ufficiale per tentare di ristabilire il
collegamento, per trovare una via di salvezza.
Ritornarono senza speranze, dovunque i
passaggi erano ormai sbarrati dai greci, non
avevamo più via d'uscita. Il colonnello
taceva, guardava serio quella zona in cui
cinquemila soldati si dibattevano.
Sperare nell'esito favorevole di un
combattimento era nemmeno da pensarlo.
L'ansia di tutti cresceva, diveniva
spasimo, ma il colonnello non poteva ancora
darsi per vinto. Diede infatti tutte le
istruzioni possibili a due tra gli ufficiali più
in gamba, li mandò per la montagna col
compito di seguire uno strano itinerario
attraverso il quale pensava che si potesse
ancora defluire e porci in salvo. Ma anche
quegli ufficiali, dopo una giornata di
peripezie rientrarono sfiniti al Comando,
facendo cadere le ultime speranze: non
avevano potuto prendere contatto col resto
della divisione, era inutile insistere, i greci
controllavano tutta la zona, non restava che
riconoscere d'essere sopraffatti. Il colonnello
non disse più nulla, mandò a riposare i due
ufficiali, diede gli ordini per l'indomani. I
greci ormai stringevano il nodo. Ma
all'indomani gli addetti al comando di
reggimento non trovarono più il colonnello:
alle prime luci, senza aggiungere altro era
montato in sella e portando con sé un
sergente e due artiglieri se n'era andato.
Rimase fuori tutto il giorno, quando a notte
rientrò i greci s'erano infiltrati e noi avevamo
dovuto abbandonare le posizioni, la sede del
Comando era stata spostata e le fucilate
fischiavano da tutte le parti; ma egli ci
ritrovò, ci riordinò e ci sospinse lungo
l'itinerario che contro ogni speranza egli era
riuscito a percorrere; lui lo chiamava
«cordone ombelicale» e noi avanti per il
cordone ombelicale sperando di spuntare in
qualche modo alla vita. Seguimmo un
percorso d'inferno lungo la strada e in fondo
a vallette e burroni, disboscando e
spianando; ogni poco dovevamo lavorare di
badile e piccone per aprire la via ai muli che
non riuscivano a venire avanti; ma infine è
riuscito a strapparci all'accerchiamento e a
portarci in salvo, uomini, pezzi, munizioni e
muli; eravamo cinquemila uomini già dati
per perduti, non so se mi spiego - concluse
Reitani; - questo voleva significare Bartolan
poco fa, dicendo Briaza.
Il sergente annuì col capo, in silenzio. La
pipa gli si era spenta, la riaccese.
- Bisogna anche dire che aveva a
disposizione uomini come quelli della Julia -
continuò il comandante. Era diverso dal
solito in quella notte, Reitani. Immobile
sulla paglia, parlava con un fervore che Serri
mai gli aveva conosciuto. Guardava la neve,
pareva che quella gli risvegliasse i ricordi e lo
forzasse a parlare.
- Quando siamo rientrati in Albania dopo
giorni e giorni di ritirata, sembrava che
dovessimo essere distrutti da quella fatica
disumana. Invece in Albania da parte italiana
esisteva soltanto un accenno di resistenza, i
greci erano più minacciosi che mai; allora la
Julia è stata schierata immediatamente in
linea sulla catena dei Mali e la tragedia è
ricominciata.
Le poche truppe che affluivano dall'Italia
giungevano in linea già corrose dall'asprezza
di quella vita affrontata con mezzi
inadeguati, siamo giunti all'assurdo che il
nostro reggimento reduce dalla durissima
ritirata è riuscito a trascinare con sé le
munizioni ed è stato in grado di schierare
subito i pezzi e cominciare a sparare, mentre
i reparti che arrivavano freschi freschi al
fronte erano senza proiettili; tanto che il
colonnello una volta ha ceduto un migliaio di
colpi a una divisione giunta allora dall'Italia.
Costituivamo ancora perciò, nonostante
tutto, il nucleo più saldo, cui è stato richiesto
il massimo sforzo. Nessuno riuscirà mai a
dire quale vita ha fatto la Julia, abbarbicata
alla roccia e sprofondata nella neve; le divise
andavano a pezzi, nevicava sulla pelle nuda,
la neve si scioglieva sotto i piedi nudi. Non
giungevano rinforzi, il porto di Durazzo
consentiva al massimo lo sbarco di una
divisione ogni dieci giorni, nessuno veniva a
rendersi conto della situazione reale; ma la
linea doveva essere tenuta ad ogni costo. E la
Julia la teneva. La tenne allora e più tardi e
fino all'ultimo giorno di guerra, anche se gli
uomini morivano e dovette essere
ricostituita dopo la resistenza sopra la linea
dei Mali e una seconda volta dopo la
resistenza sullo Scindeli, il Becisti e il Golico;
sei medico, sai cosa significa ricostituire una
divisione due volte in sei mesi. Più i greci
infuriavano, più la resistenza si faceva
disperata; non c'era vento, neve, gelo che
bastasse, anche se le mani e i piedi andavano
in cancrena. Se la temperatura saliva un
poco, era il fango che diventava il nemico più
accanito: prendeva alle spalle il fronte e
bloccava i rifornimenti. I reparti in linea
restavano senza viveri e munizioni perché i
muli non potevano salire dalla valle,
morivano di fatica nello sforzo di svincolarsi
dal fango. Gli artiglieri lassù erano in prima
linea con gli alpini, difendevano i mortai e i
pezzi con le baionette. Ti ricordi, Bartolan,
quando l'altro gruppo del nostro reggimento
era isolato sul Becisti e aveva un disperato
bisogno di munizioni e noi eravamo rimasti
senza pezzi e non potevamo andare in aiuto?
Era una situazione da fare impazzire, Serri:
sapere che i nostri compagni stavano
morendo perché non avevano munizioni per
difendersi... Non c'era niente da fare, nel
fondo valle all'attacco delle salite
s'ammassava tanto fango che i muli venivano
letteralmente assorbiti, inghiottiti; bisognava
vedere con i propri occhi per poter credere...
Un mugolio prolungato partì dall'angolo
ov'era rannicchiato il sergente.
Bartolan stava da tempo immobile con le
braccia attorno alle gambe, la fronte poggiata
alle ginocchia; girò lentamente il capo verso
gli ufficiali e disse:
- Vi ricordate, signor tenente, come
abbiamo passato la notte di Natale, l'anno
scorso?
Reitani guardò a lungo fuori dalla tenda
la notte di Natale e mormorò: - Chi la può
dimenticare? - Il corpo dell'ufficiale si tese
per un istante sulla paglia come reggesse un
grave peso, poi s'acquetò. - Eravamo in mille,
Serri - proseguì Reitani - ad assistere
all'agonia dei mille uomini dell'altro gruppo
che combatteva sul Chiarista-Fratarit. Era la
notte di Natale. Senza le munizioni che i
muli non potevano portare lassù, il fronte
stava per crollare. Il colonnello Garri allora
radunò gli ufficiali del nostro gruppo e disse,
duro: «Il vostro gruppo non ha scarpe, siete
cenciosi e non sembrate in grado di
camminare. L'altro gruppo del nostro
reggimento è in linea e sta per essere
sopraffatto perché è senza munizioni, che
sono qui. I muli non possono portarle, lo
sapete. Bisogna salvare i compagni nostri e la
continuità del fronte. Se i greci sfondano
arrivano a Valona, sapete anche questo.
Ascoltatemi: ho fatto preparare molte
cordicelle di lunghezza opportuna. Una cosa
da nulla, d'accordo. Ma a ciascuna estremità
di ogni cordicella si può legare un proiettile;
tenendo a bilancia sulle spalle due cordicelle,
ogni uomo può portare quattro proiettili,
ventotto chili di ferro. E' molto, lo so; inoltre,
camminando, le corde segheranno le spalle.
Una terza cordicella legata attorno alla vita
impedirà l'eccessivo dondolare dei proiettili
appesi. Una cosa da pazzi, è inteso. Però
mille uomini possono portare quattromila
proiettili. Ho calcolato che la distanza, il
peso, la salita, il gelo e le altre avversità
imporranno una marcia di dieci, dodici ore.
Sono le diciotto. Entro domattina pertanto
sul Chiarista-Fratarit il gruppo in linea potrà
avere a disposizione quattromila granate,
quanto basta per scongiurare il pericolo
imminente. Mi rendo conto che un comando
come questo sembra ineseguibile, ma io
conosco i miei soldati. Ordino pertanto la
partenza fra due ore, con le modalità che ho
stabilito». Due ore dopo, i mille uomini
partivano sotto il peso di quel ferro legato
alle cordicelle, s'impastoiavano nel fango,
stracciati, ansanti, silenziosi sotto lo sforzo.
Le funi sottili, tese dalle granate, laceravano
la giubba, la camicia, penetravano nella pelle.
Sai quanto può essere lunga una notte
simile? Era impressionante, faceva piangere
il vedere quei mille uomini gialli di fango,
estenuati, salire tentennanti sulla montagna,
ciascuno con la sua cintura di granate come
aveva detto il colonnello. Affondavano, si
rialzavano, procedevano arrancando, passo
per passo, ora per ora. Tutta la notte.
Sembravano una colonna di pazzi. Ma a
mattina, sul Chiarista-Fratarit le quattromila
granate giacevano presso i cannoni; e la
situazione fu salva. Questa è stata la nostra
notte di Natale, l'anno scorso.
Reitani tacque.
- Già. Quel che è vero è vero - concluse
Bartolan alzandosi e raccogliendo il
gavettino. Cambiò tono e finì: - Sono le
undici, signor tenente, devo andare a dare il
cambio alle guardie al pezzo. Buon Natale,
vedremo come sarà il prossimo. Questo è già
migliore dell'altro.
- Non ti ho detto prima, per non farlo
bestemmiare nella notte di Natale - disse
Reitani a Serri, quando il capo-pezzo fu
uscito - che lui quella volta s'è portato sul
Chiarista sei granate, con la scusa che i
sergenti devono dare ogni tanto il buon
esempio.
Stettero a lungo in silenzio.
- S'è fatto tardi. Vuoi che chiudiamo la
tenda e spegniamo il lume? - chiese Reitani.
Il comandante calò il telo senza prendersi
la briga di abbottonarlo, il medico soffiò sul
lucignolo. Si distesero nuovamente sulla
paglia, accesero una sigaretta e rimasero a
fissare le braci nel buio senza scambiare
parola.
Serri poi disse:
- Hai sonno?
- No. Perché?
- Pensavo che si potrebbe fare un giro a
salutare i soldati. Sono sicuro che non
dormono...
- ...Non dormono di certo, è la Notte di
Natale. S'è fatto freddo, un po' di moto ci farà
bene e in un paio d'ore saremo di ritorno.
Sai, pensavo anch'io di fare il giro, non ho
abbottonato il telo apposta.
Quando si rizzarono fuori della tenda,
s'accorsero che anche senza la luce della
lampada ci si vedeva ugualmente. Infatti
s'avvidero subito che si sorridevano a
vicenda.
Incamminandosi a passo rapido,
sollevarono entrambi il bavero del cappotto
perché nevicava forte. Reitani prese a
braccetto Serri.
- M'appoggio - disse - per diritto d'età.
- Di che classe sei? - chiese Serri.
- Ho ventisei anni, sono del quindici.
- Anch'io!
Allora si guardarono in faccia ridendo,
come se avessero scoperto ad un tratto
d'essere vincolati da una vecchia, salda,
indistruttibile parentela di sangue.
X
La primavera tiepida aveva attirato fuori
dal magazzino di batteria un artigliere che
nell'ora calma del vespro se ne stava intento
a ricucire una sella sdruscita. Passò con
fretta insolita il sergente Bartolan e chiese: -
Hai sentito la novità, Pilòn?
- Grane, sergente?
- Una cosa grossa: la Julia va in Russia.
Pilòn, faccione rotondo e rosso, levò gli
occhi verso il sergente e meditò sulla notizia.
- Sacranòn de to nòna imbriàga! Se passa
da l'Italia, almànco, par andàr in Russia?
- Sì, ciò, se capìsse.
- Manco male, paìs; xe do àni che go vòja
de stravacàrme un poco i òssi sul stramàsso
de casa mia.
E aveva infilato nuovamente l'ago nel
cuoio, tirando poi lo spago con le grosse
mani.
Era stato in seguito indaffarato per più
giorni a imballare materiali, inchiodare casse
e disporre i carichi per i muli, poiché la
partenza era preannunciata imminente. Gli
era successo anche, una sera, di comprare
nel bazar un oggettino e regalarlo alla Sulla
piangente, in ricordo di Pilòn. Era rimasto
tutto confuso nel vedere le lacrime della
ragazza, non aveva mai supposto che una
donna greca potesse piangere proprio per lui,
Pilòn; le aveva perfino promesso, in piena
buona fede, lì per lì, che le avrebbe scritto,
senza neppure chiedersi come un artigliere
alpino possa soltanto pensare di scrivere in
greco.
Si capiva, girando per il paese e parlando
con la gente, quanto agli abitanti dispiaceva
che gli alpini se ne andassero; ma nessuno
supponeva che, quando davvero le lunghe
file di muli fossero uscite dalle caserme
assieme agli uomini delle batterie e tutto il
reggimento si fosse incamminato per la
strada di Corinto, la popolazione si sarebbe
riversata sulle vie a dare l'ultimo saluto ai
soldati. Invece successe proprio così, e più
ancora: molti fra gli abitanti e fra questi
moltissime ragazze accompagnarono i soldati
per diversi chilometri salutando e
allungando pacchetti di frutta secca agli
uomini che marciavano nei ranghi; e quando
alla fine si decisero a ritornare al paese, era
un gran sventolare di fazzoletti con
sgocciolare di lacrime.
E tutto ciò faceva pensare che la guerra è
una terribile dispensatrice di odii e
l'avversione ufficiale è una potente leva, ma
alla lunga è più potente ancora l'umile intesa
della buona gente che, al di sopra di ogni
contrasto comandato, si ritrova e lietamente
si riconosce in qualunque contrada del
mondo.
E di nuovo i soldati furono soli, alle prese
con la strada; avevano però il passo sciolto e
la parola allegra perché sapevano di
camminare, dopo un infinito tempo di
lontananza, verso l'Italia.
E i muli sfilavano, uno dietro l'altro,
giorno e notte, sulla riva del braccio di mare
che separa il Peloponneso dalla Grecia
continentale.
Quando poi gli alpini ebbero marciato per
centosessanta chilometri, giunsero un giorno
a Patrasso e solamente allora, vedendo il
porto e le navi, vedendo i muli issati a bordo,
furono certi del rimpatrio.
Dietro ai muli sulle navi salirono gli
alpini e dai ponti guardavano la terra allora
lasciata e il mare aperto verso l'Italia. Nei
giorni in cui le navi stavano sotto carico
erano anche giunti a più riprese gli aerei
inglesi a mitragliare e spezzonare, era venuto
perfino il terremoto, ma neppure ciò
impediva che gli alpini stessero per tornare
alle loro case.
Le navi salparono ad una ad una. Era il
trenta di marzo, ma il mare e il cielo
tempestosi troppo ricordavano l'autunno di
due anni innanzi perché gli alpini non
ritornassero col pensiero a quell'inizio di
guerra, a tutte le vicende sofferte e legate a
quella terra. A ricordarle, intessute di
patimento, fetide di morte, insinuavano un
senso di stanchezza ora che i nervi si
accingevano a distendersi nel presentimento
della casa ormai vicina, presto raggiungibile.
I profili delle montagne seppelliti nella
foschia tenessero pure con sé, se era
possibile, ogni dolorosa memoria, ogni segno
del tormento, affinché le madri in attesa
ritrovassero nei figli reduci i fanciulli di un
tempo. Se era possibile.
Le navi procedevano in convoglio,
faticosamente nel mare in tumulto.
Gli alpini sapevano che la notte
minacciava agguati, circondando di insidie la
Julia. Sapevano pure che la radio nemica
aveva minacciato di sterminio la Julia
quando fosse stata sul mare. Ma non
temevano, volevano solamente rivedere la
madre, la famiglia.
Le navi invece dirottavano spesso o si
fermavano a lasciarsi sospingere dai marosi
come gusci alla deriva, a volte perfino
invertivano la rotta, facevano il respiro
affannoso per lunghe corse qua e là sul
mare: segno che annusavano pericoli in quel
fittissimo buio.
Si riunivano, poi si distanziavano in gran
furia, frettolose e preoccupate. Allora gli
alpini su ogni nave si guardavano e si
chiedevano dove fossero andate le altre, se
fosse successa qualche disgrazia; tendevano
l'orecchio perché con i sibili del vento
sembrava ogni tanto che giungesse anche
l'ululato di una sirena, a dire che una nave
andava a fondo.
Stavano in pena perché sulle navi era
frazionata un'intera, una sola famiglia, d'un
unico ceppo, divisa a battaglioni e gruppi
sulle singole navi, e io avevo un cugino nel
battaglione Tolmezzo e un fratello nel
gruppo Udine, e tu avevi uno zio nel
Conegliano ed il marito di tua sorella nel
Gemona; stavano nella nave avanti alla tua,
in quella dietro, e tutte le navi erano cariche
di parenti, compaesani, compagni d'infanzia,
compagni di guerra. Tutti di una stessa razza,
degli stessi paesi, perché così è, fra gli alpini.
Se fossero stati sui monti, non ci sarebbe
stato da darsi gran pena per gli altri, perché
un alpino sa sempre dove mettere il piede.
Ma se la nave va a fondo, dove lo mette il
piede, sul mare? Non c'è che levarsi le scarpe
e attendere, e che Dio la mandi buona.
Ma quando la notte è più fonda, la
tempesta più furiosa, il freddo più intenso,
l'acqua più insidiosa, un boato rintrona nella
caligine e si diffonde sulla superficie del
mare.
Nel turbinare del vento, tra la pioggia a
scrosci e il tempestare dell'onde qualcosa
succede di più temibile, nefasto: da nave a
nave un brivido si diffonde col nervoso
ticchettìo delle radio, le navi si disperdono a
tutta forza in ogni senso diradando ancor più
la formazione: i siluri sfrecciano tra nave e
nave, una è stata colpita in pieno. - Quale?
Quali fratelli sono in pericolo? Cosa si fa per
aiutarli? - vogliono sapere gli alpini. Bisogna
fare qualunque cosa per salvarli.
Nulla. Non faranno nulla, per la prima
volta non possono fare nulla, essi che si sono
sempre difesi a vicenda con le unghie e coi
denti. Secondo gli ordini di navigazione, le
navi devono invece spingersi a tutta forza
lontano dalla zona infestata dai sottomarini,
alle operazioni di soccorso può provvedere
soltanto il naviglio di scorta.
- Quale nave è stata colpita? - vogliono
sapere gli alpini, mordendosi le mani nel
sentirsi impotenti.
- Il «Galilea».
Un urlo, che per ogni nome di nave
sarebbe stato uguale, sorge dalle labbra
contratte. A bordo del «Galilea» oltre il
Comando di un reggimento e un ospedale da
campo sta un intero battaglione, il Gemona,
forte dei mille alpini che lo compongono.
Hanno sentito lo schianto del siluro che
dirompeva il fasciame della loro nave, subito
squilibrata e offerta al capriccio del mare. Il
naviglio sottile di scorta tenta d'accostarsi e
iniziare l'opera di salvataggio ma il mare lo
respinge, vuole intatta la sua preda.
Nessuno deve poter avvicinarsi ai mille
alpini aggrappati al relitto che dondola nella
tempesta e nel buio: affonderà, alla fine
affonderà, tutto apparterrà al mare.
La lotta contro il mare ferve attorno alla
nave squarciata, gli equipaggi si prodigano in
tentativi spasmodici, ma la violenza delle
onde non tollera accostamenti, ogni illusione
di speranza si riduce al «si salvi chi può». I
primi plotoni vengono calati in mare sulle
scialuppe, ma subito gli uomini annaspano
nell'acqua gelida poiché le leggere
imbarcazioni si rovesciano disseminando nel
mare i giovani alpini. Qui non c'è roccia, nè
terra, né ghiaccio per poggiare il piede e dare
punto d'appoggio alla forza dell'alpino; di
tanto sasso calpestato non un briciolo
rimane sotto i piedi che agognano affannosi
un sostegno nella mollezza dell'acqua; di
tante incredibili vicende non rimane che
quella, l'ultima, buona solo per dibattersi
ancora un poco, mentre si inghiotte l'ultima
amara acqua di quella vita che, con gli ultimi
sorsi e sussulti, se ne va.
Già i primi annegati vagano sotto la
superficie del mare, altri uomini a pelo
d'acqua ancora esprimono dai polmoni invasi
dal liquido gli ultimi urli d'orrore nel sentirsi
afferrati dalla morte gelida e sospinti giù,
inesorabilmente più giù, a morire; altri sono
a mezz'aria nelle scialuppe calanti verso il
mare; gli ultimi, a centinaia, stanno a bordo
nella frenetica attesa di separare la propria
sorte da quella della nave.
Morte indubbia e imminente è lo stare
sulla nave che da un istante all'altro può
sprofondare trascinando senza scampo nel
vortice quanti siano ancora a bordo. Di
conseguenza, frequente è la decisione di
coloro che, ergendosi per un istante sui
parapetti dei ponti, si gettano nella voragine
buia; l'acqua intorno alla nave brulica però di
annegati e di uomini a nuoto: coloro che si
gettano dall'alto talvolta precipitano su chi si
tiene a galla.
Tutti sanno che morire in naufragio è
cosa orrenda, ma giammai questi alpini, nati
e vissuti sui monti, hanno posto
l'annegamento fra le proprie possibilità in
sorte; ed ora annaspano nell'acqua, o resi
ciechi dalla notte brancolano sui ponti nel
presagio dell'assurda fine; morire per la
patria è un pensiero al quale non si sono mai
ribellati, ma questo è il morire di un cane
caduto in un pozzo, non è fine d'alpini.
E il destino preme contro le murate della
nave, ribolle con l'acqua e succhia cadaveri
attirandoli giù; e altri ne vuole, ne cerca,
adescando uomini vivi con un abbaglio di
speranza, penetrando poi con dita feroci
nelle gole contratte affinché l'acqua trovi
subito la via per uccidere facendo infine
vomitare con l'acqua la vita. Esige vittoria
completa, è l'intero battaglione che vuole
annientare; e quando una nave di salvataggio
riesce ad accostarsi al «Galilea», mentre chi
fra gli alpini sa nuotare si avvicina sperando
nella salvezza, la mano del destino squassa
ancor più le onde, le lancia contro le fiancate
rivestite di ferro mentre reggono nel loro
seno molle gli uomini vivi, affinché si
fracassino il cranio contro il metallo.
Nessuna salvezza ha da esservi, per
nessuno. Compiano pure disperati sforzi i
marinai della nave di soccorso per affiancarsi
a quella morente: quando sarà a pochi metri,
il destino provvederà a sospingerla di
schianto contro il «Galilea», e gli uomini che
nel gelido corridoio marino fra le due navi
s'apprestano ad issarsi lungo le funi
salvatrici siano spiaccicati e maciullati fra le
navi in collisione.
Questa notte il siluro inglese ha voluto
fare un dono grandioso al mare, lo sappia
chiunque è interessato a saperlo. Il «Galilea»
non raggiungerà più le sponde dell'Italia,
diranno domani le radio inglesi, e il
battaglione Gemona - annunceranno
informatissime - non rivedrà più la patria.
Infatti attorno alla nave agonizzante il
mare brulica d'annegati e i siluri rigano
ancora l'acqua, tengono a forza lontane le
navi di soccorso.
Quell'una che ha saputo avvicinarsi non
può prestare opera di salvataggio, nessuna
fune regge agli strappi del mare; è costretta
ad impuntare le macchine e svincolarsi dal
pericoloso abbraccio col «Galilea»; nella
manovra, forzatamente compiuta tra gli
uomini a mare, il risucchio sospinge gli
alpini alle eliche che li addentano, ne
sollevano le carni a brani subito rigettandoli
nell'acqua. Cento morti, poi duecento,
trecento e fanno cerchio intorno alla nave
che affonda; è l'intero battaglione Gemona
che affonda nel mare. Di mille uomini vivi,
quando il «Galilea» s'inabissa traendo seco
gli ultimi alpini fino allora sopravvissuti,
sull'acqua non rimane che qualche straccio
grigioverde, invisibile anche al periscopio in
emersione che ha sorvegliato e controllato
gelidamente le fasi della tragedia. Il successo
è completo, checché ne possano dire le
madri.
Checché ne pensino tutti gli alpini della
Julia, che all'indomani sbarcano sul suolo
d'Italia come parenti giunti per il funerale.
Ma non c'era aria di funerale, al porto.
- Siete della Julia? - domandava la gente
che accostava gli alpini scesi sulla banchina.
- Sì.
- Vi è andata a fondo una nave, eh?
- Sì.
- Mille morti sono molti, caspita!
Qualcuno aggiungeva: - Ne avete passate,
eh, voi della Julia!
E pareva che già altre cose più
interessanti distraessero la gente, perché
lasciava cadere il discorso e se ne andava.
Era umano che i soldati, toccando il suolo
d'Italia dopo la vita di guerra e l'ultima
sciagura, s'attendessero dai primi italiani in
borghese un'accoglienza che potesse
sottintendere in qualche modo la solidarietà
con chi era vissuto nella privazione e nel
dolore.
- Da queste parti non c'è reclutamento
d'alpini, ci conoscono poco; forse è per
questo - diceva Pilòn a titolo di consolazione.
- Non avete ancora capito come vanno le
cose? Ve lo dico io: in Italia non si curano di
noi, noi ci facciamo ammazzare per loro e qui
se ne fregano, è chiaro come la luce del sole!
- esclamava il sergente Bartolan.
In effetto, in segno di lutto erano stati
sospesi i festeggiamenti ufficiali; ma fra
questi e l'indifferenza non sapeva inserire
nulla, per gli alpini che tornavano
dall'Albania, il cuore degli italiani?
Eppure gli alpini, vivaddio, in Albania
avevano...
Parve però, più innanzi, che al passaggio
delle tradotte le popolazioni s'animassero per
la presenza dei soldati; e infatti, quanto più i
convogli ferroviari s'avvicinavano alla valle
padana, il popolo s'addensava alle stazioni
facendo ressa attorno ai vagoni. Gli alpini
sentivano ora la gioia d'essere tornati, di
ritrovarsi tra i fratelli in attesa; mani amiche
tendevano doni, dolciumi, sigarette, fiaschi
di vino; voci amiche gridavano «Viva la
Julia», «Viva gli alpini», «Viva l'Italia».
Era bello, dopo tanta solitudine in
grigioverde, ritrovarsi in mezzo al popolo di
cui si è parte viva.
XI
Agli alpini, giunta la Julia nel Friuli, sede
abituale della divisione, venne concesso un
mese di licenza.
Serri si mise in viaggio, raggiunse la sua
città, salì le scale dopo un anno d'assenza.
Dal pianerottolo vide la grande porta di
noce, le grosse maniglie, la lucida targa di
metallo con inciso il suo cognome. Si
soffermò un istante.
Al di là della porta chiusa stava la sua
famiglia sempre in attesa, inconsapevole
tuttavia che fra un minuto la sua abituale
scampanellata - un tocco lungo e due brevi -
avrebbe portato il trambusto in casa. Cosa
avrebbe trovato? Avevano sempre detto
tutto, nelle lunghe lettere, o avevano taciuto
le pene più gravi? Un'infinita attesa stava per
sciogliersi.
Come sospinto, all'impazzata salì i gradini
restanti, diede i tre tocchi e poi con frenesia
un quarto, forsennato, lungo fino a quando
quegli attimi si fossero bruciati e qualcuno
fosse corso ad aprire.
Un grido, un accorrere di passi rispose
dall'interno e le care braccia si contesero il
suo corpo, le care mani si contesero il suo
volto.
- Italo! - dicevano le voci - sei tornato,
Italo!
- Sì - rispondeva. E gli pareva appena
vero.
- Fammi sentire che davvero non sei
ferito! - diceva la mamma, passandogli la
mano sulla divisa. E forse era un pretesto per
toccare ancora e meglio quel suo figlio
ritornato.
- Italo! Non mi hai ancora salutato -
protestava la sorella.
- Lascialo tranquillo, Bruna, chissà come
è stanco, poverino! - diceva la nonna.
Concedendo il campo alle effusioni delle
donne il babbo, due passi più in là, guardava
in silenzio il figliolo ritrovandolo a poco a
poco.
- Sono venuti spesso a trovarci - gli diceva
più tardi, mentre le donne disponevano per il
pranzo - i tuoi soldati che rimpatriavano,
sono venuti a ringraziare noi per quello che
tu avevi fatto per loro, ci hanno parlato a
lungo di te. Non è possibile avere una
ricompensa migliore di quelle loro parole.
Siamo orgogliosi di te, figliolo, per la prima
volta te lo devo dire. Hai fatto il tuo dovere.
Si riunirono tutti a tavola, ma mancavano
i due figli minori.
- Se ci fossero anche Beppe e Mario... -
sospirava la mamma.
Beppe era sempre sul fronte russo, Mario
attendeva l'imbarco col suo reparto.
- Andrò a fare un po' di compagnia a
Beppe, poi torneremo e ci riuniremo tutti, un
bel giorno, mamma.
- Dio lo voglia, Italo. Noi viviamo
aspettandovi.
- Vi ha portato ristrettezze, la guerra?
- No, nessuna che non si possa superare
agevolmente.
- C'è un altro po' di pane? - chiese
l'ufficiale ad un tratto.
Seguì un breve silenzio imbarazzato.
- No, Italo, non ce n'è - rispose
pacatamente il babbo. - La colpa è mia, pare -
aggiunse con un fuggevole sorriso. - Sono io
il tiranno.
- Il babbo non vuole che si ricorra alla
borsa nera - spiegò la mamma con dolcezza -
e con la tessera si hanno centocinquanta
grammi di pane al giorno.
- Troppo pochi - esclamò il medico
allarmato.
- Sono un po' pochi - corresse la mamma -
data la scarsezza degli altri generi; ma ci
sono sufficienti, non preoccuparti caro.
Piuttosto, tu in questi giorni avrai bisogno...
- No, mamma, non darti pensiero, starò
anch'io alle regole come voi.
- Vedi che Italo ha capito subito la
situazione? - disse il babbo contento. - La
mamma brontola ogni tanto, dice che
almeno io e Bruna dovremmo mangiare
qualcosa di più di quanto si può acquistare
con la tessera; ma io penso che se i soldati
muoiono al fronte anche noi dobbiamo
accettare qualche sacrificio. Ho tre figli in
guerra, abbiamo milioni di figli in guerra:
non sarà mai detto che la nostra famiglia li
contrasti nel loro sacrificio, se è vero che
sono del nostro sangue. Ti sembra giusto,
Italo?
- Certo, papà. - Ma gli si stringeva il cuore
vedendo la nonna che a pranzo finito, con
l'avidità dei vecchi raccoglieva ancora dalla
tovaglia qualche briciola e la portava alla
bocca.
- Ma mi patiscono la fame - pensava con
uno struggimento profondo.
- Molti però non agiscono così - diceva
Bruna.
- Gli apostoli erano soltanto dodici, e fra
questi si trovava già un traditore. Noi siamo
quarantacinque milioni. Figuriamoci... -
mormorava il babbo.
E guardava nel vuoto passandosi
lentamente una mano sui capelli, in
quell'anno divenuti del tutto candidi.
Perché? Perché mai? Per più di un anno
non c'era stato villaggio, proda di fosso,
valletta, margine di bosco ove avesse fatto
sosta, senza che il pensiero fosse volato
instancabile a quell'unica meta.
Non cielo, non notti stellate o giorni
luminosi che non gli avessero fatto sentire
assillante la lontananza della sua terra.
Eppure, ora che aveva riposto piede in
Italia, un insopprimibile senso di
desolazione gli devastava il cuore.
Fatta eccezione per la famiglia, per
qualcuno venuto in licenza dai fronti e rare
altre persone, egli si sentiva isolato.
Gli accadeva di pensare ai suoi compagni
e li ricordava come li aveva già visti, generosi
fino a morirne; e ripensava a Piombi, a quel
suo fiato che gorgogliava nel sangue per dire
di curare gli altri feriti; ripensava a tutti i
suoi fanti e ai suoi alpini e ai loro infiniti
modi di patire.
E questa gente attorno a lui, al
confronto...
Contava i giorni di licenza che gli
rimanevano, e sentiva che se non fosse stato
per sua madre sarebbe ripartito all'indomani.
XII
Dalle valli e dai paesi, allo scadere dei
trenta giorni di licenza, gli alpini della Julia
s'erano riuniti nel cuore del Friuli a
ricomporre i ranghi della Divisione.
Avevano avuto il tempo di riabbracciare i
vecchi, la sposa o la fidanzata, la parentela; di
conoscere i nuovi venuti nella famiglia, i nati
durante l'assenza; avevano fatto il giro del
paese a salutare, un bicchiere qua un
bicchiere là, nelle case, all'alpino che è
venuto in licenza e alla sera tornava in
famiglia e la mamma diceva tentennando il
capo che il suo Toni le sembrava un po'
allegro; erano andati a salutare il parroco che
domandava se avevano ancora quella
medaglietta della Madonna avuta in dono nel
giorno della partenza per la guerra, e loro
facevano finta d'averla perduta ma poi la
tiravano fuori, e il parroco rideva e diceva
bravi bravi lo sapevo che vi siete mantenuti
buoni ragazzi.
Erano entrati, ed era un brutto momento,
nelle case dove si mettevano a piangere al
vederli, per via del figlio morto, e in principio
non si sa che cosa dire, e poi si cerca, come si
può, di fare un po' di coraggio. In famiglia,
alla sera avevano raccontato qualcosa della
guerra, a veglia, perché le donne volevano
sapere, e ne veniva fuori una guerra piena di
muli, di sassi, di neve e basta, ma le donne
erano contente lo stesso.
Avevano detto chiaro e tondo a tutti - oh,
questo sì - che quel mese sapevano loro
come passarlo: mangiare bere dormire e
divertirsi, se no per che cosa la davano la
licenza?
Ma al secondo giorno avevano cominciato
a dare una mano ai vecchi nelle faccende di
casa, a fare quel lavoretto nella stalla se no
quest'inverno va a finire che ci entra l'acqua;
e poi è meglio che alla legna ci pensi io che
sono giovane, e a tante altre cose pesanti che
bisogna fare nelle case degli alpini.
E poi i trenta giorni erano passati; licenza
finita.
Si erano ritrovati tutti, quindi, nelle
caserme; meno i mille del Gemona, che era
una cosa che non si poteva mandar giù. Ma
però il Gemona era ancora in piedi
ricostituito, perché quando muore un alpino
c'è sempre un altro alpino che prende il suo
posto, e magari è il cognato o il cugino o il
fratello. E se ne mancano mille, la montagna
ne può dare mille, perché nessuno si tira
indietro; non s'è mai sentito dire.
Avevano ripreso a fare brusca-e-striglia, a
lucidare i finimenti, a rivedere i materiali e i
muli e tutto, perché questa era la volta
d'andare in Russia e tutto doveva essere in
ordine perfetto.
Poi un giorno avevano saputo che era
stata loro decretata la medaglia d'oro. Sì, a
tutti loro vivi e morti della Julia, per quello
che avevano fatto insieme in Albania. Tre
medaglie d'oro: una ai due reggimenti
d'alpini, la terza al reggimento d'artiglieria
alpina della Julia. Non restava altro che
andarsele a prendere a Udine, il Re in
persona le avrebbe appese agli stendardi.
Già, medaglia d'oro, né più né meno: la
più alta decorazione al valore che l'Italia
avesse da offrire ai suoi soldati.
Naturalmente, neanche dirlo, la prima cosa
che c'era da fare era quella di rassegnarsi a
qualche giornata di marcia.
Marciare sul liscio asfalto alla volta di
Udine faceva uno strano effetto, dopo tanto
camminare sui sassi e nel fango. Pioveva,
naturale. La popolazione applaudiva,
passando per i paesi.
A Udine, dopo due giorni di pioggia
passati sotto la tenda nei prati della periferia,
venne anche la giornata di cui tutti
parlavano.
Era serena, per fortuna, e gli alpini si
avviarono reparto per reparto verso il centro
della città. Erano di buon umore, avevano
persino avuto il permesso di riempire di
paglia lo zaino perché era la loro festa: le
cinghie non segavano le spalle. Già alle
prime case s'avvidero che la popolazione
stava aspettandoli e batteva le mani e
gridava. Così fino in centro; con più
entusiasmo anzi, più la gente era fitta.
Gridava, gridava la gente e agitava le mani in
segno di festa.
In certi tratti si accalcava talmente a
ridosso delle schiere in marcia, che gli alpini
procedevano in uno stretto corridoio dalle
pareti in tumulto, colorate di migliaia di
bandierine sventolanti, una cosa che agli
alpini abituati alle larghe solitudini faceva
quasi girare la testa. E pareva davvero, un po'
alla volta, di marciare nell'irreale, pareva che
tutto diventasse sempre meno vero, una
favola più che altro, seguendo la quale era
piacevole lasciarsi condurre dal passo senza
pensare più a nulla, procedendo verso
annebbiate fantasie.
Si trovarono così in un grande spiazzo e
c'erano tutti gli alpini della Julia, i tre
reggimenti allineati e affiancati. Proprio
tutti, non era mai successo di vedersi così,
insieme. Compagnia per compagnia, batteria
per batteria, tutta la divisione Julia.
Su tutto il campo si distendeva il
grigioverde, punteggiato di penne nere: e
gomito a gomito stavano gli alpini;
innumerevoli, e si vedeva finalmente cos'era
la Julia: tanti Pilòn, tanti Scudrèra, tanti
sergenti Bartolan, tanti tenenti Reitani e, con
la penna bianca, qualche colonnello Verdotti
e Garri. Ma per intendere cos'era veramente
la Julia non bastava guardarla dalle tribune,
bisognava essere nelle file, sentirsi quello
che si sentivano nel cuore gli Scudrèra, i
Pilòn, i Bartolan, i Reitani, i Verdotti e i
Garri, tutti un po' trasognati, con qualcosa
che pesava nel petto, ma non faceva male.
Poi la gente nelle tribune s'era acquetata
e uno stendardo tricolore ascendeva verso il
Re e si udiva fare il nome di un reggimento,
poi ancora di un altro. E a un certo punto il
conducente di mulo Scudrèra e tutti gli altri
sentirono nominare il loro
reggimento e a ciascuno sembrò d'essere
chiamato per nome, e il cuore cominciò a
battere, o si fermò. E una voce si levò, non si
capiva chi fosse, e diceva:
- «Per il superbo comportamento dei
Gruppi durante la campagna italo-greca.
Frammisti agli alpini nel valore e nel
sacrificio, costituirono con le loro batterie
sui Mali, allo Scindèli, al Golico come già sul
Pindo i nuclei dai quali partì l'offesa e sui
quali infuriò la resistenza e prese slancio il
contrattacco. Col tiro dei pezzi, come con la
baionetta e la bomba, furono valorosi fra i
valorosi, alpini tra gli alpini».
E lo stendardo era là in mezzo, davanti
agli occhi di tutti gli appendevano la
medaglia d'oro. Ma non si vedeva bene, si
capiva poco di tutto, quelle parole poi
avevano fatto l'effetto del cotone nelle
orecchie quando spara il pezzo: ogni suono
sembra lontano e si fa più fatica a tenersi in
equilibrio. A dover stare immobili sul
presentat'arm nelle file, di vero ormai non
c'erano che le due orecchie del compagno
davanti, sotto il cappello alpino; di tutto il
resto non si capiva più niente. «... sui quali
infuriò e prese slancio...». Come aveva detto?
«furono valorosi tra...». Tra che cosa poi?
Ecco: furono valorosi alpini. Così. Se ne sono
accorti anche loro e hanno dato la medaglia
d'oro al reggimento. Bene!
Ma però in quella mattina c'era qualcosa
che non andava, che faceva stringere il cuore.
Veniva sempre da pensare ai compagni, a
quelli dei Mali, dello Scindèli, del Golico.
Come erano stati cari, quelli...! Era questa la
cosa che mordeva il cuore.
Perché non c'erano e pareva che ci
fossero? Dov'erano? Dov'erano almeno le
loro anime? Avevano sentito quello che era
stato detto, sui quali infuriò e prese slancio e
le altre parole?
Tanti erano, poveretti, e i più bravi.
Avessero almeno questa consolazione. Loro
erano di più, molti di più degli alpini
radunati nel grande campo. Loro non
avrebbero potuto trovar posto se fossero stati
ancora vivi, neppure fitti fitti in piedi. E
sdraiati nella terra, meno che mai; perché,
anche con la povera sepoltura da alpini, i
morti occupano sempre più spazio dei vivi.
No, non c'erano.
Eppure, quel sentirli intorno faceva
scoppiare il cuore. Buon Dio, ecco cos'era,
trovato: quel sentirli intorno. Era come se gli
scarponi allineati posassero su terra sacra,
sul camposanto degli alpini morti: pareva di
dover scostarsi, lasciare sgombro il posto a
loro in quel loro giorno.
Ma non si poteva, bisognava restare sul
presentat'arm.
Loro erano, adesso ci voleva poco a
capirlo; a socchiudere un tantino gli occhi
per il sole, gli alpini vivi li rivedevano e li
riconoscevano a uno a uno: vecchi compagni
scalcagnati fra le pietre e la neve, rimasti
abbarbicati alle rocce, dove la penna se la
portava via a poco a poco l'acqua e il dormire
per terra; e la vita, di schianto, un sibilo
frullante nell'aria, nel fango costellato di
scheggioni, di pezze marce e scatolette vuote.
Tempo terzo
Giacché sei polvere
XIII
Oltrepassato il Brennero la terra cambia
volto.
Come in una rifinita e verniciata
costruzione per ragazzi, ai lati del binario si
susseguivano le stazioncine lustre e
infiorate, scortate dallo steccato di assicelle
dipinte in bianco. Un po' discosti i villaggi,
gruppetti di casine linde di buon legno
alpestre, dalle finestrelle verdi o rosse.
Nel punto più elevato, naturalmente,
stava la chiesina col suo bravo campanile
magretto e appuntito. Il torrente scorreva a
lato del paese e subito al di là si stendevano i
prati, bei prati dalle più svariate forme: di
prato in prato l'occhio saliva i pendii, su su
fino ai monti.
Ciò piaceva molto agli artiglieri alpini
della ventisei, ammucchiati alle larghe
aperture dei carri bestiame della tradotta che
li portava in Russia.
Non mancavano neppure, disseminate
nei punti opportuni, diritte in piedi le
legnose figurine tirolesi; asciutti e baffuti gli
uomini dal cappelluccio con la piuma e il
grembiule rigato, rotonde e prosperose le
donne nelle bluse bianche e i sottanoni. Da
vicino, da lontano, al passaggio del treno se
ne stavano a guardare o salutavano agitando
un braccio sopra la testa.
Il treno sferragliava nelle valli e nelle
vaste pianure: Innsbruch, Rosenheim,
Monaco, Norimberga, Jena, Berlino.
I muli scalpitavano, asserragliati nei carri
con gli uomini, mentre la Germania passava
ai lati dei vagoni.
La ventisei, con i suoi duecentotrenta
uomini, centosettanta muli, i quattro pezzi,
le munizioni e i materiali riempiva da sola
un lungo treno.
Le altre due batterie del Gruppo
seguivano su altri due treni. Correva voce
che erano necessari centinaia di treni per
trasportare in Russia le tre Divisioni alpine,
Tridentina, Cuneense e Julia: sessantamila
penne nere.
Anche agli uomini della ventisei ormai
era noto che sarebbero andati nel Caucaso.
Caucaso era una parola un po' vaga, diceva
poco, ma si sapeva che era una regione con
monti altissimi e ciò bastava: era un posto da
alpini. Questi guardavano tranquillamente il
paesaggio godendosi quel comodo viaggiare.
La ventisei aveva avuto tante cose nella sua
vita di guerra, ma mai un treno tutto per sé,
un treno intero. Fatto più che altro di carri
bestiame, ma non si può pretendere tutto. E
con qualche bracciata di paglia sul pavimento
si dorme tranquillamente, dopo dieci minuti
non si sente più il tran-tran delle ruote.
Leopoli, Varsavia. La Polonia mostrava la
terra piatta, gli immensi boschi. Ormai la
Russia era vicina, dopo una settimana di
viaggio. Per gli alpini la Russia era un
mistero, come per tutti; una curiosità
impaziente animava gli uomini.
- Signor tenente, è vero che i russi vivono
nelle capanne col tetto di paglia?
- Così dicono, vedremo. Le chiamano isbe.
Una mattina gli artiglieri videro un
villaggio di capanne con tetto di paglia e alla
prima stazione corsero ai vagoni frotte di
ragazzi laceri che rivolgendosi ai soldati
gridavano a filastrocca:
- Viva Italia, viva Mussolini, viva Re,
viva Duce, dare piccolo galliètta.
- La xe questa la Russia? - chiedevano gli
alpini sgranando gli occhi.
- Da, da, sì, sì, ruski. Dare piccolo
galliètta...! - gridavano in coro le voci.
- Ostrega, i parla in italiàn 'sti tòsi - si
meravigliavano i soldati.
- Ostrega, ostia! Ostia! - squittivano i
ragazzi.
- Sèntili, ciò, i dixe «ostia»! Alòra sèmo
su la strada giusta, se sente che xe già passà
de qua la «Tridentina»!
Non avrebbero mai pensato, gli alpini
venuti in Russia a fare la guerra, che una
volta giunti il primo gesto sarebbe stato
quello di tendere a piccole mani supplici
pane italiano.
Strana terra, la Russia. Per mezze
giornate il treno procedeva su un terreno
ondulante, fra campi di girasole che si
estendevano fin dove l'occhio riusciva a
distinguere qualcosa.
Linee sterminate; non si vedeva una casa,
un albero, un uomo. S'intravvedeva poi
all'improvviso in una conca un agglomerato
di casupole che scompariva tosto, seguito
dalla vastità di altra terra rinsecchita. Per
ore, per giorni. Isolato e sperduto, ogni tanto
l'occhio trovava qualche punto d'appoggio in
solitarie ruote a pala, simili a quelle dei
mulini a vento. Immobili anch'esse,
protendevano le scarne braccia verso la terra
e il cielo come a chiedere pietà per quel loro
abbandono.
Adusati ad altre misure e ad altri limiti,
gli artiglieri guardavano attoniti, non
riuscendo a stabilire un punto di contatto
con quella terra.
Il treno si fermava a volte in aperta
campagna, presso una piccola tettoia in legno
sostenuta da quattro pali, dalla quale
pendeva un cartello con una parola
indecifrabile. Sotto la tettoia che fungeva da
stazione non c'era nessuno, o al più una
persona. Mezz'ora, un'ora, cinque ore di
sosta e poi il treno ripartiva ingolfandosi
sempre più nella piatta voragine.
Finalmente una sera, essendo venuta
incontro un'ampia verdissima
distesa d'alberi, il treno si fermò in mezzo al
bosco sbuffando a fianco d'una tettoia
costruita con tronchi. Di lato al binario, a
una breve radura soffocata in mezzo al verde
confluivano sentieri tortuosi, subito perduti
fra gli alberi diritti e altissimi. Dal fogliame
filtrava l'intensa luminosità del vespro. A
terra, sabbia finissima e fresca; alte fra i
tronchi, lame di vivida luce doravano l'aria e
le cortecce.
Prolungandosi la sosta, dai sentieri
giunsero a due, a tre, a gruppetti frotte
crescenti di uomini e donne che ai primi
allegri saluti degli alpini si fecero innanzi e
poi corsero ai vagoni ad offrire uova, galline
e monete russe chiedendo galletta, carne in
scatola e orologi.
Molti alpini scesero, poiché la locomotiva
non pareva intenzionata a ripartire; quasi
tutti infine scesero, disperdendosi a
chiacchierare in Iddio sa quale idioma con
quei russi del bosco.
Un'allegria primitiva e contagiosa legò
presto in collane di risa gli abitatori del bosco
e i soldati. Un artigliere scaricò dal vagone
una fisarmonica, sedette su un tronco
d'albero reciso e intonò «Quel mazzolin di
fiori...», subito seguito dal coro degli alpini.
Alla seconda strofa, fra l'entusiasmo dei
soldati varie donne tentarono di riprendere il
facile motivo e s'unirono al coro assecondate
alla terza strofa anche dagli uomini, sì che un
unico canto legava in quel bosco gli
sconosciuti fra un brillare d'occhi e di giovani
denti.
Le ragazze erano le prime fra le russe che
gli artiglieri avvicinavano, guardate quindi
con un po' di soggezione e con molto
interesse; ragazze salde e ben piantate, assai
pregevoli all'occhio dell'artigliere alpino,
larghe di spalle e di fianchi, sbozzate un po'
alla buona a simiglianza di quei loro tronchi
che s'innalzavano intorno; larghe perfino di
vita, tutte d'un pezzo sotto le vesti
campagnole.
Una però fra tutte aveva attirato lo
sguardo del conducente di muli Scudrèra,
che discosto dai compagni se l'andava
guardando di sottecchi all'inizio e poi senza
riserve, tutto preso e conquistato da un
particolare che gli aveva attanagliato
l'attenzione.
Riserbata e contegnosa, la bella aveva
colto gli sguardi e se ne stava pudibonda nel
gruppo delle amiche; ma Scudrèra già
parlottava coi compagni senza distogliere lo
sguardo, sì che la schiera femminile
bisbigliava all'orecchio dell'avventurata, che
aveva fatto le guance rosse; e i vecchi russi,
di contorno, maliziosi e sornioni, ridevano
nelle folte barbe avendo intercettato
l'incrociarsi delle occhiate.
- Ma sarà vero? - ripeteva Scudrèra
combattuto fra entusiasmo e incredulità.
- Bisogna vedere, bisogna assicurarsi -
incalzavano i compagni; e qualche vecchio,
fiutando aria allegra s'era avvicinato al
gruppo dei soldati.
- Bisogna dirlo ai nonni! - esclamò il
sergente Fraita, capo-pezzo del secondo
pezzo; e i nonni ridanciani, dopo un
complicato confabulare e ammiccare nel
cerchio degli alpini, si portarono
solennemente a parlamentare col gruppo
delle ragazze, suscitando alte strida e risa
eccitate.
Il gruppo si scompigliava e si
ricomponeva attorno alla bella, che si
schermiva; le compagne la spingevano, se la
contendevano, la consigliavano, l'incitavano
ridendo. E il trillare delle risate saliva alla
cupola verde.
Allorché gli ambasciatori ritornarono
portando il responso e con lunghe
chiacchiere e ripetuti gesti si fecero
intendere, due soldati corsero al treno
ritornando con vari pezzi di sapone, subito
attentamente esaminati e annusati dai
vecchioni; quando costoro solennemente
mossero concordi la testa in cenno
affermativo, un urlo unico esplose dal
gruppo femminile, mentre gli alpini si
dirigevano verso le donne starnazzanti.
Venne nominata nel bosco una sorta di
commissione internazionale formata da due
delegazioni di tre membri aventi a capo
rispettivamente il conducente Scudrèra e un
vecchione; la ragazza, un po' ridente e un po'
recalcitrante, presa in mezzo al cerchio delle
amiche fu da queste guidata e sospinta verso
un vagone. Non priva di solennità, la
commissione seguiva.
Con rusticano cerimoniale i membri e la
bella, scortata da due ancelle, salirono sul
vagone e s'eclissarono agli occhi della turba.
Un silenzio denso di fermenti gravava
sull'accolta, gli alpini nella ressa attorno al
vagone si erano accostati senza parere alle
donne e tutti fissavano con evidente orgasmo
la porta chiusa.
Dopo vari minuti questa s'aprì e Scudrèra
con occhi stralunati apparve nel vano. Il suo
viso esprimeva la stupita meraviglia di chi ha
assistito a un prodigio. Girò nel silenzio lo
sguardo sulla frotta dei compagni col naso in
sù, e giungendo le mani e agitandole
rapidamente avanti e indietro, gridò
trasecolato:
- El xe vero, Maria vergine, el xe un
miràcolo! El sta su da solo, gnènte tiràche...;
roba da fàr venir le làgrime a i oci!
Un unico urlo e uno scroscio d'applausi si
levò nella radura, subito interrotto
dall'apparizione della bella. S'affacciò
esitante alla porta, ristette. Era emozionata,
bianca e rosata, ma agli strilli giocondi delle
amiche s'eresse ardita, con sfolgoranti occhi
di vincitrice. Parve davvero bella, così
trionfante e calma; un'espressione di sfida
emanava dal viso altero e dalla ricchezza
incoercibile del busto superbamente eretto.
Con calma e sicurezza mise il piede sul
predellino e d'un balzo saltò a terra.
E fu quello il suo trionfo, perché agli
occhi vigili dei soldati apparve manifesto che
neppure nel sobbalzo, sotto l'appena rimessa
camicetta, il formidabile petto della bella si
rassegnava a far cenno d'omaggio alla legge
di Newton.
Ella fendette la calca d'uomini e donne
come regina, seguita dai dignitari che
reggevano il sapone.
A quel punto un pennacchio bianco s'alzò
imperioso e la locomotiva fischiò,
chiamando.
- Scudrèra, vècio balèngo, nato de càn -
brontolò Pilòn; - pròprio con gente come ti
me tòca de andàr a far la guèra, maledèta la
barba de to nòno piràta...!
Un mutismo preoccupato s'era diffuso nel
convoglio; stando per tre giorni alla porta dei
vagoni a considerare quell'interminabile
solitudine, s'insinuava negli animi una
sensazione molesta; agli alpini pareva d'aver
lasciato da tempo la terra abitata e d'essere
stati trascinati da quel treno dannato oltre
confini dai quali non si ritorna più. La
mancanza di limiti estenuava. I muli stessi,
oltremodo nervosi, percuotevano notte e
giorno con gli zoccoli il legno dei vagoni,
s'allungavano calci fra loro.
La terra soffocava, pareva aver già
irreparabilmente inghiottito gli uomini nelle
spalancate fauci della sua vastità. Spaccata
dal sole, gialla e nera, deserta, ostentava le
sue piantagioni di girasoli come un inganno.
Al nono giorno di viaggio il treno rallentò,
lentamente si fermò secondo il solito in
mezzo alla campagna; ma gli alpini che si
erano sporti sulla destra del convoglio videro
un diroccato edificio in muratura.
- Siamo arrivati a Jsjum, scendere! - fu
l'imprevisto ordine.
Scaricati i muli e i materiali, la ventisei si
portò sul piazzaletto antistante la stazione.
Dopo l'immobilità del lungo viaggio, gli
artiglieri si erano disposti allegramente in
formazione di marcia e s'avviarono.
Cominciava la loro vicenda in terra russa;
con volto assorto intraprendevano un
cammino che terminava chissà dove.
Il primo contatto con l'Ucraina schiudeva
un mondo nuovo, sul quale s'addensava una
cortina d'attraente mistero.
A un angolo di strada, a ridosso di un'isba
diroccata, stava un carro armato russo.
Immobile, gigantesco, con un'ampia breccia
nella corazza che ne poneva in rilievo il
formidabile spessore. Incontrandolo
all'improvviso oltre l'angolo, gli artiglieri
alpini sospendevano le conversazioni
contemplando a lungo l'immane ordigno.
Mai avevano veduto, fino allora, un
pachiderma di simile mole. Rugginoso e
schiantato, inclinato nella polvere a causa di
un cingolo divelto, nulla tuttavia aveva
perduto della sua espressione d'intrattenibile
forza e a ben poco giovava il consolante
pensiero che anch'esso, nella sua mole
potente, era stato bloccato e reso innocuo. I
soldati osservavano i muli che gli giravano
attorno, quiete bestioline al confronto; e in
silenzio passavano oltre.
Appena la città di Jsjum apparve, la
colonna deviò verso la campagna. I soldati
prendevano contatto con la terra osservando,
cercando con gli occhi.
Razza di camminatori, d'istinto
studiavano la terra per adeguare ad essa il
passo; gli scarponi chiodati saggiavano con
circospezione il terreno di Russia: non aveva
compattezza, era polveroso, cedevole. Nel
movimento del passo la suola della scarpa
affondava leggermente e slittava per un paio
di centimetri all'indietro, i chiodi non
facevano presa: terreno affaticante, pesante.
Sulle montagne del Caucaso, grazie a Dio,
avrebbero ritrovato la pietra.
La permanenza in pianura doveva essere
breve, alla stazione avevano saputo che la
Tridentina era già stata avviata verso il
Caucaso.
La ventisei procedeva su una larga pista
sabbiosa che serpeggiava fra i campi gialli e
piatti, mentre il soffocante calore estivo
incombeva su uomini e cose, sul terreno
come sui crani dei soldati e sulle cervici dei
muli.
Sulla riva del fiume Oskol al tramonto, la
ventisei piantò le tende in un bosco; il
terreno era cosparso di munizioni russe
abbandonate, solcato da trincee e
camminamenti. Configgendo i picchetti gli
uomini del quarto pezzo videro affiorare una
mano scarnificata e tosto, dal velo di sabbia
rimosso, emerse uno scheletro rivestito dai
resti di una divisa fino allora sconosciuta: la
divisa russa. Era il cadavere di un soldato
nemico lasciato mal sepolto dai compagni,
respinti dall'avanzata tedesca: nella quiete
serale, con le braccia abbandonate sulla
sabbia e la mascella aperta pareva implorare
sepoltura.
Gli artiglieri alpini si guardarono
sconcertati.
- E' un soldato russo - disse il sergente
Sguario.
- Poveretto... - disse Pilòn.
Scudrèra, in silenzio, con un badile iniziò
a scavare una fossa due metri più in là.
Quando il russo fu sepolto, il tumulo di
sabbia si rilevava di qualche spanna dal
piano del bosco.
L'infermiere Zoffoli aveva costruito con
due rami una croce, si apprestava a piantarla;
interdetto, indicando verso il sepolto chiese
guardando i compagni:
- Chissà poi se la vuole...
Ma Pilòn:
- Sua mamma sì, di sicuro.
Zoffoli infisse la croce nel tumulo. Tutti
gli altri intorno, immobili e senza parola, si
fecero il segno della croce.
A guardarli in viso, sembrava che
seppellissero uno dei loro.
Il capitano Reitani - gli era giunta la
promozione poco prima di lasciare l'Italia -
giunse al galoppo dal sentiero fra gli alberi e
saltò di sella dinanzi alla tenda del comando
di batteria, contornata da quelle dei soldati.
Tornava dal rapporto ufficiali e gli artiglieri
lo scrutavano con grande interesse poiché
attendevano le novità.
Il capitano passò le redini all'attendente
accorso ed entrò rapidamente nella tenda
sfibbiandosi il cinturone.
- Non ha accarezzato il muso del cavallo -
commentò increspando le sopracciglia il
sergente Bartolan.
- Brutto segno, notizie cattive in vista.
- Rapporto ufficiali, subito - ordinò il
capitano al furiere Clerici, sedendo al
tavolino da campo.
Due minuti dopo i sette ufficiali della
batteria stipavano la piccola tenda, Reitani
passò lo sguardo sui loro volti per assicurarsi
che non mancava nessuno. Erano tutti
presenti.
Nel gruppetto stavano Perbellini,
ventenne e già uomo, sempre ridente e
sereno, adorato dai soldati; il tenente Emett,
estroso, ma quadrato marchigiano; il
sottotenente Candioli, gioviale e testardo
friulano, che si era digerito tranquillamente
dal primo all'ultimo giorno la campagna
d'Albania; il tenente Brogli, sottocomandante
della batteria, milanese e avvocato,
brontolone e sempre pronto, nei momenti
più duri, a rivelare profonde risorse di
volontà e di coraggio; il sottotenente medico
Serri; il sottotenente Ferrieri, da pochi mesi
effettivo nella batteria, tracotante e bonario
urlatore nella sua mansione d'addetto ai
muli, perpetuo spasso dei soldati.
- Ho cattive notizie da darvi - disse
Reitani con volto impassibile; - le peggiori
che ci possano riguardare direttamente: al
rapporto dei comandanti di batteria il
tenente colonnello Verdotti ci ha comunicato
che siamo destinati a un'altra zona
d'impiego. Non andremo più nel Caucaso.
- E dove, allora? - chiese per tutti il
tenente Brogli. - In quale altro settore del
fronte esistono montagne?
Reitani rispose lentamente.
- Non saremo impiegati in montagna, ma
in perfetta pianura. Qui in Ucraina, sul Don.
- Sul Don? - domandarono
precipitosamente sei voci.
Gli ufficiali si scambiarono una frettolosa
occhiata, poi fissarono nuovamente il
comandante, increduli.
- E' impossibile, signor capitano, vuol dire
farci massacrare tutti - sbottò Ferrieri,
gonfiando il torace come se si apprestasse a
parare un urto.
- La Tridentina - riprese Reitani senza
raccogliere la frase - è stata inoltrata verso il
Caucaso, ma ha già ricevuto ordine di
invertire la direzione di marcia. Pare che le
tre divisioni alpine dovranno attraversare a
piedi l'Ucraina fino al Don e schierarsi sulla
riva di quel fiume.
- Sul fiume gli alpini? - disse Brogli quasi
ridendo. Ma la voce gli tremava
d'indignazione.
- E' indubbiamente un assurdo - proseguì
Reitani cedendo a un impulso accorato - ma
non è ancora cosa certa.
Sicuro è invece che non andremo più nel
Caucaso. Pare che il colonnello Garri stia
facendo quanto può per scongiurare un
impiego così irrazionale. Unico ordine,
comunque, è quello di tenersi pronti a
marciare. Vi autorizzo a comunicare in modo
opportuno la variazione di programma agli
artiglieri: meglio venirla a sapere da noi che
da estranei. Non ho altro da dire, per ora,
salvo che mi attendo dalla ventisei, come
sempre, un contegno perfetto.
Il comandante e gli ufficiali uscirono dal
Comando e si guardarono intorno nell'esigua
radura delimitata dal cerchio delle tende.
Varie decine di uomini riuniti a piccoli
gruppi, in piedi o seduti sulla sabbia
guardavano immobili e in silenzio gli
ufficiali.
Pareva che una notizia di lutto si fosse
diffusa nel bosco. Era evidente che quegli
uomini già sapevano; probabilmente le
parole avevano oltrepassato la sottile parete
di tela.
Reitani si diresse con passo calmo ai più
vicini e ad uno d'essi seduto a terra, con
mossa amichevole spinse all'indietro il
cappello alpino calato sugli occhi.
- Faremo in ogni caso - disse, e la voce
ferma si diffuse nel silenzio del bosco - il
nostro dovere di soldati.
Non è vero, Scudrèra?
Il conducente di muli sollevò il viso e il
cappello alpino cadde sulla sabbia. Non lo
raccolse.
Disse invece:
- Sì, signor capitano. - E aggiunse: - Ma
non è giusto.
Passò poi una mano dietro la schiena e
raccattò il cappello. Seduto a gambe larghe
sulla sabbia, ora lisciava e carezzava
lentamente la penna.
Ma si vedeva che pensava ad altro.
Tutti tacevano, non vi fu neppure uno che
si rivolgesse a Pilòn, come avveniva nei
momenti tristi quando occorreva mutare
sveltamente i cupi pensieri in risate allegre;
nessuno levò l'appello fatidico che dava avvio
alla cerimonia:
- Artigliere alpino Pilòn Gio Batta,
conducente di mulo... -
...e poeta! - esclamavano a gran voce in
coro i presenti.
Era quella la frase rituale che iniziava la
cerimonia, dopo di che il povero Pilòn, per
riluttante e indignato che si dimostrasse,
veniva irrimediabilmente rinserrato nel bel
mezzo di un cerchio di quadrate spalle
d'artiglieri e possibilmente issato su una
cassetta, una pietra, un tavolo che gli
servisse da piedistallo; e a quel punto
scaturiva l'impensabile evento: poiché Pilòn
Gio Batta, conducente di mulo, rubicondo
faccione rimpinzato di salute e di pagnotte,
feroce mangiatore di minestroni e
spregiatore al cospetto d'Iddio d'ogni
virtuosità ed eleganza, bocca larga e rossa e
vorace sotto il gran naso rincagnato e gli
occhietti piccoli e lustri di furbizia, o a volte
grandi e smarriti per spropositata innocenza,
era un poeta.
Nessuno sapeva perché e come, e
attraverso quali stranezze di sorte od occulte
discipline egli pervenisse alla poesia, poiché
egli era sfrontatamente illetterato, e solo
qualcuno l'aveva colto talvolta con in mano
un foglio stampato o con un pezzo di
giornale raccattato per caso; ma era un poeta.
Al richiamo imperioso e divertito dei
compagni, scrollato da ogni parte e issato
sulla cassetta tra le contumelie e i lazzi egli,
cui nessuno fra quei giganti avrebbe osato
contrapporsi se avesse contratto i muscoli e
aggrondata la fronte, s'ammansiva invece
sempre più come un sansebastiano che
accetta e forse ama il martirio; quanto più gli
urli si facevano imperativi e intolleranti
d'indugio, egli addolciva il viso e s'acquietava
nei gesti, non rintuzzava le ingiurie
scherzevoli ma s'abbandonava piuttosto a un
suggerimento interno, inseguendo già un suo
pensiero che gli riluceva negli occhi.
Era allora che il silenzio, tutte le volte, si
distendeva fra i presenti, come a un giuoco
intrapreso che si tramuti in dramma; e i
dileggiatori d'un minuto innanzi stavano
immobili, in cerchio, silenziosi e affascinati
in attesa che Pilòn cominciasse a parlare.
Solo allora Pilòn si esprimeva, con una
semplicità convinta ed umile, e una dignità
tanto serena.
I soldati in silenzio ascoltavano le parole
e, quando i versi finivano, il silenzio
rimaneva a lungo a ondeggiare sulle teste
degli uomini prima che esplodesse
l'infrenabile applauso, poiché sempre i versi -
e questo era il miracolo - avevano il potere di
risolvere ciò che di patimento o di gioia stava
fervendo inespresso nell'animo di quegli
alpini.
Non erano neppure versi, a volerli
considerare da vicino; non avevano rima e il
ritmo traballava, erano parto d'un
conducente di muli, infine. Erano parole,
piuttosto, e anche poche, si capisce, dieci o
quindici al massimo, se no Pilòn sarebbe
morto nel troppo prolungato sforzo di
pescarle Dio sa dove e di attaccarle quindi
una all'altra; ma, messe insieme, erano come
una vera poesia.
Come quella volta che tornati al campo a
Udine, la sera della medaglia d'oro, prima
che suonasse la tromba del silenzio, Pilòn
era stato sbattuto su quel tavolino davanti
alle tende e aveva detto:
L'oro è sacro soltanto se un frammento -
anello o medaglia - fa ricca tutta la vita.
Sì, tutto qui; ma...
Avvolto nel silenzio notturno, nella
stanzetta dell'isba ove l'attendente gli aveva
montato la branda da campo, alla luce di una
lampada a petrolio, il colonnello Garri,
chinando il dorso sull'asse d'un tavolino di
fortuna stava scrivendo una lettera.
Ogni tanto levava lo sguardo dalla carta e
fissava il lume, o un incerto punto nella
penombra oltre l'esiguo cerchio rossigno. Là
vedeva passare, come in una infinita
lontananza, gli uomini e i muli delle sue
batterie alpine. Salivano arrancando, in notti
tempestose, e raggiunta la sommità i muli
venivano scaricati; gli artiglieri montavano
subito i pezzi, s'apriva il fuoco, la rossa
vampa illuminava per un attimo i serventi e
l'eco rimbalzava di vetta in vetta, rotolava giù
nelle valli albanesi, a far sentire la voce del
reggimento che serviva la patria in guerra.
Il colonnello si mordeva il tumido labbro
inferiore e riabbassava gli occhi alla carta.
- «La Julia - scriveva - è stata tolta dalla
zona di operazioni greca nel precisato intento
d'essere impiegata sulle montagne del
Caucaso, e nel trasferimento a questo fine ha
già sacrificato, con l'affondamento del
«Galilea», il sangue di un intero battaglione
e parte del comando d'un reggimento
d'alpini. In previsione d'un adeguato impiego
in montagna, le truppe alpine hanno
rinunciato al congedo concesso a boscaioli,
minatori, carbonai eccetera, che per tanta
parte contribuiscono alla formazione dei
nostri reparti. Gli specializzati della
montagna sono concentrati in massa
nelle divisioni alpine indicando
tassativamente, ai fini del rendimento, un
impiego specifico in terreno montuoso.
L'Italia è stata depauperata di muli, ha
fornito con grande sacrificio alle truppe
alpine ingenti quantità di materiali di
equipaggiamento specialistico pregiato e
insostituibile; è giusto quindi che si attenda
un impiego ponderato e rispondente
all'attesa».
Guardava nuovamente la luce, il
colonnello, ma non vedeva la fiamma.
Scorgeva ora invece le schiere dei suoi
soldati battersi con forza sovrumana, uno
contro cinque, contro dieci; e il nemico non
passava, unicamente per quegli uomini che
erano un tutt'uno con la montagna, che
conoscevano e sfruttavano gli intimi segreti
della rupe, che vivevano a compagnie e
batterie là donde d'inverno sloggiava anche il
falco.
- «...Ma l'impiego in pianura di queste
truppe - riprendeva a scrivere rabbiosamente
- le espone a catastrofiche conseguenze,
impedendo, per la sola natura del terreno,
ch'esse possano dispiegare e sfruttare quelle
caratteristiche materiali e morali che in
terreno montano le rendono assolutamente
eccellenti. La guerra in pianura, invece,
richiede un addestramento opposto a quello
che ad esse è stato impartito, e le
sottoporrebbe in partenza ad una sfasatura
spirituale rovinosa. L'equipaggiamento ad
esse in dotazione risulterebbe del tutto
irrazionale, il sistema di rifornimento di
viveri e munizioni a dorso di mulo le
porrebbe ben presto in insormontabile crisi.
L'armamento stesso, costituito da obici da
montagna e piccoli mortai, ridurrebbe a
limiti irrisori la loro capacità d'offesa di
fronte ai pezzi da campagna di ben più ampia
gittata; e in difesa li costringerebbe a
condizioni di totale inferiorità, prive come
sono di carri armati e di armi controcarro...».
Li vedeva già, il colonnello, i suoi
artiglieri e tutti gli uomini della Julia e delle
altre Divisioni alpine, alle prese con la guerra
di movimento che la pianura imponeva alle
truppe operanti. Fra autocarri, carri armati e
cannoni semoventi in giostra nella guerra
manovrata, come si poteva decentemente
supporre di manovrare essendo legati ai muli
marcianti - venisse il diluvio universale o
piovesse il fuoco dal cielo - all'immutabile
velocità di quattro miserabili chilometri
all'ora? Come competere con la velocità e la
mobilità delle divisioni corazzate, con
uomini adusati a far blocco, a fondersi con la
staticità della montagna? Chi, chi aveva in
animo di sospingere verso lo sterminio gli
alpini?
L'ira incupiva lo sguardo del colonnello,
mentre la stanzetta era piena del suo
sdegnoso ansito. Guardava il lume, il filo
fumigante che usciva dal lanternino.
Dovevano morire così, i suoi soldati, senza
che nessuno li difendesse da una
disposizione idiota?
O non li aveva forse difesi sempre,
lottando perché non una goccia del loro
sangue fosse versato invano? Che cos'erano,
i suoi soldati? Polvere da lasciare che il vento
disperda a suo capriccio? Oh no, per Dio,
finché egli era il loro capo: a nessun costo
l'avrebbe permesso! E meno che mai
inchinandosi a quelle facce di pasciuti pezzi
grossi che in quel momento nella penombra
dell'isba, oltre l'ultimo orlo di luce egli
vedeva confabulare: ridacchiavano e
chiacchieravano tranquillamente nei loro
uffici, poggiando le grosse cosce sui
bracciuoli imbottiti delle poltrone, dopo aver
deciso che gli alpini potevano anche
schierarsi sul Don, per loro andava bene
ugualmente...
Oh no, no mai! Impugnò la penna, unica
arma che aveva in difesa dei suoi alpini, e
gravò con furia sul foglio di carta.
- «...Parlo con il cuore di vecchio alpino e
per l'amore che porto ai miei soldati; so che
non può venirmene che danno, ma tuttavia
sento il dovere di far udire alta la mia voce.
Vi autorizzo a rendere nota questa lettera a
chi vorrete, e a farne l'uso che riterrete più
opportuno, a vantaggio dei soldati. Finché è
ancora possibile prendere adeguati
provvedimenti io affermo e denuncio che,
non so se per ambizioni o incompetenze di
comandanti o per altre ragioni, si sta
addivenendo ad una determinazione
d'impiego delle truppe alpine che non esito a
definire bestiale e delittuosa».
Firmò, sigillò la busta intestata, indirizzò
ad un altissimo personaggio in Roma,
indossò cappello e cinturone, afferrò il suo
bastone dal puntale d'acciaio, spense il lume
e respirando con più liberi polmoni uscì nella
notte a scuotere dal sonno il maresciallo
della Posta Militare.
Con l'intera Julia, la ventisei marciava
attraverso l'Ucraina. In un'alba spettrale
aveva attraversato l'Oskol e sotto rovesci di
pioggia si era inoltrata in una boscaglia
disseminata di casupole distrutte. Una
confusa vitalità irreale, straniera e ostile
giaceva insidiosa attorno agli artiglieri
assonnati che procedevano nel poltiglioso
terriccio del bosco; dovunque relitti di guerra
accentuavano il senso di squallore e di
abbandono, dando un tono di tragicità al
paesaggio. L'artigliere Zòffoli, infermiere
della batteria, aveva incespicato in una
bottiglia che s'era rotta schizzando un liquido
chiaro come acqua; ma poco dopo il cuoio
della scarpa aveva cominciato a fumigare,
dissolvendosi rapidamente mentre la fascia
gambiera e il pantalone in vari punti avevano
seguito la stessa sorte. Zòffoli s'era scalzato e
svestito in un baleno, rimanendo seminudo
sotto la pioggia, mentre i compagni, non
avvezzi a simili espedienti bellici, lo
guardavano come fosse vittima d'un
sortilegio e non osavano ridere.
Erano venuti poi i giorni del sole e della
vita nella steppa.
Secondo gli ordini di marcia, alle ultime
ombre della notte la ventisei levava le tende
e, lunga fila d'uomini e muli, riprendeva il
cammino verso nord-est puntando al Don;
era l'ora in cui i soldati in marcia assistevano
al risveglio dei villaggi.
Attraversandoli all'alba, vedevano viluppi
di cenci e di membra smuoversi sull'aia, a
ridosso dell'uscio delle isbe, poiché i
contadini ucraini dormivano all'aperto su
stuoie o stracci.
Erano le donne le prime a levarsi, mentre
i vecchi e i bimbi ancora giacevano. Gli
uomini validi erano in guerra. La Russia
rivelava il suo dimesso volto contadino.
Erano buona gente, gli ucraini; quando,
ad ogni ora di marcia, dopo i dieci minuti di
sosta la batteria si ricomponeva e ripartiva,
già si affannavano a salutare
amichevolmente i partenti che s'inoltravano
fra i campi di segale e di girasoli. I soldati
scoprivano passo passo quella terra tanto
diversa dalla loro: uno sconfinato ripiano a
dolci linee, corroso qua e là da spaccature
profonde dieci o venti metri e lunghe
centinaia o migliaia, chiamate balke,
prodotte dal capriccio di secolari erosioni
nella compatta vastità della steppa; ogni
tanto si incontrava qualche collina a pendio
lieve, largo e basso mammellone di quella
terra feconda; ma tanto prevaleva fino agli
estremi limiti il senso dell'orizzontale, che
l'occhio non esitava a valutare il tutto
sterminata pianura.
Nelle depressioni gli alpini
intravvedevano i villaggi sperduti e
acquattati nella gran vastità; ma succedeva
spesso che i soldati camminassero per una
intera giornata senza imbattersi in una casa,
un albero, una persona viva.
Erano interminabili, allora, quelle
giornate col sole a strapiombo sulla pianura
senza limite. Innanzi e dietro alla ventisei
tutta la Julia marciava; la polvere smossa
dalle bestie e dagli uomini in cammino
tingeva di nero il grigioverde, impastava di
melma i visi madidi, ricavandone grottesche
maschere; si levava in volute scure sopra la
colonna per ricadere sul reparto che
marciava dietro. Due, tre, dieci ore di marcia
nella calura stordivano gli uomini che
calpestavano la polvere e la sentivano per
tutto il giorno scricchiolare sotto i denti,
orlare gli occhi e le labbra come una cornice
di fango.
Era vita dura. Due gallette secche, una
scatoletta di carne e la pista ucraina per tutto
un giorno, sotto l'allucinante sole. Alla tappa
serale abbeverata muli, governo ai muli,
filare per i muli, qualche ora di sonno a terra
tra le formiche e i topi di campo, e prima
dell'alba via in marcia, fino al tramonto.
Due giorni, sei, dieci giorni. Verso il Don
e la prima linea.
La pista non era una strada, ma un
sentiero nella steppa, largo qualche metro,
lungo all'infinito, sempre uguale, cosparso
d'impalpabile polvere spessa due palmi,
maledizione per chi ci cammina dentro.
- Qui non c'è pericolo di consumare le
scarpe - dicevano ironici i soldati. Ma anche
il cuoio, per l'arsura, faceva le crepe come le
labbra degli alpini.
Dentro il cranio, dopo ore di marcia,
qualcosa cominciava a battere in ritmo col
polso; e alle due e alle tre del pomeriggio
erano mazzate quelle che martellavano sotto
il cappello alpino. Qualcuno ogni tanto
stramazzava, uomo o mulo, e i compagni lo
guardavano ansimare nella polvere.
- Maledetta la pianura - dicevano.
Si distendeva questa ai lati della pista,
implacabile avversaria, piatta terra spopolata
e bruciata, ricoperta da girasoli dal lungo
fusto rinsecchito occhieggianti da ogni dove
verso il soldato che camminava.
Ad averli dinanzi agli occhi per
interminabili ore di marcia, quando per il
calore l'aria pare liquefarsi e ondeggiare e i
girasoli lentamente sembrano farsi più
reclini, più vizzi sotto quella loro insipida
testona penzolante, ci si avvede che il
girasole è pianta rachitica e scostante; e se
dapprima il giallo mare è vista gradevole,
man mano che il sole avviluppa
nell'implacabile abbraccio i suoi fiori e il
cranio di chi marciando li contempla, essi
svelano a poco a poco l'esilità del bruno
scheletro che scricchiola ad ogni alito sotto il
tondo volto giallo; e pare un po' alla volta di
camminare fra un esercito di morti, ad
eccezione del viso ridotti all'osso, che stanno
calcinandosi al sole.
Quel sole che annebbia il cervello dei
soldati in marcia; ed essi non hanno quel
cappellone di foglie gialle per ripararsi dai
pensieri sconnessi che i raggi ardenti vanno
incuneando nel cranio.
- Maledetti anche i girasoli - dicono fra i
denti, masticando polvere.
E intanto, nella pista, una scarpa va
innanzi all'altra; e verrà sera.
Venne poi anche il giorno dall'alba fosca.
- Meno male, oggi si marcia senza
pericolo d'insolazione - dicevano gli uomini
della ventisei.
Ma in breve il cielo s'abbassò fino a
sfiorare la pista, e spingeva i suoi nuvoloni
violacei contro la terra tanto che le erbe si
spaurivano e tremolavano ai margini dei
campi e i muli guardavano inquieti le luci
livide, sbuffando dalle froge nere.
Il vento della steppa, nuova conoscenza
per uomini e bestie, giunse galoppando da
lontano e con incalzante impeto s'insinuò
sibilando fra terra e nubi; e sospingeva
queste a spallate verso l'alto, sgonfiandone la
gravida mole e riducendole fumiganti e
lacere.
- Assicurare i teli da basto - ordinò
Reitani che marciava in testa alla colonna;
l'ordine si ripeté da graduato a graduato, ma
già gli esperti conducenti camminando di
fianco al mulo avevano provveduto a
verificare la tensione delle cordicelle, a
rinforzare i nodi; e, coperti il mulo e il carico,
sfilavano la giubba dagli zaini poiché ormai
le prime gocce cadenti si spiaccicavano sul
pelo e facevano vibrare gli orecchi dei muli.
La steppa, fino allora inerte, si svegliava
inquieta rispondendo ai fischi del vento con
un murmure che giungeva dalle aperte
lontananze e si risolveva, nei pressi della
pista, in un crocchiare di foglie secche; già
molte si staccavano e rotolavano sulla
polvere e si acquetavano nelle prime pozze; e
già gli steli dei girasoli si flettevano
dondolando la tozza corolla, che ad uno
schianto del fusto restava penzolante a
mezz'aria.
Essendo a punto lo scenario grandioso,
quasi che un maestro onnipotente calasse
fulmineo la bacchetta su un attacco
improvviso, il furore dei suoni si scatenò
nella steppa sviluppando e centuplicando i
toni di scroscio dell'acqua: il vento,
animatore della tempesta, rombò sulla piana
squassando ogni altra vita, sibilando e
soffiando a schernire le nubi grevi, ad
atterrire i girasoli minacciando di svellerli.
Non c'era più orizzonte ma solo incombente
vorticare di nubi; e fittissimi nastri d'acqua
che congiungevano le nubi alla terra, rigando
d'argento l'aria viola.
Così la steppa svelava voce e respiro pari
alla sua vastità.
Nell'immane quadro tempestoso, simile a
una piccola serpe la colonna della ventisei
strisciava sulla pista, che in pochi minuti si
era trasformata in un fossato melmoso in cui
i marciatori affondavano a mezza gamba, ad
ogni passo contrastati dalla vischiosità
montante. La temperatura resa gelida dal
vento intirizziva i corpi, la pioggia sferzava i
volti e scendeva a rivoli lungo la schiena e
dal petto al ventre, usciva dai pantaloni
entrando a far pozzanghera nelle scarpe
sformate; doloroso era svincolarsi dal fango
e avanzare contro il vento. Il rintronare dei
fulmini e il lampeggio nell'oscurità
temporalesca facevano imbizzarrire i muli,
che s'abbattevano nella mota spezzando le
funicelle dei basti; ed era una impresa
snervante il continuo recupero dei carichi
disseminati nel fango, il rialzare a strattoni il
mulo recalcitrante, ricomporre il basto
mentre il vento gelido incollava le vesti alla
pelle e inginocchiava nel fango.
A voler camminare ai margini della pista
per offrir sostegno al passo sulla bassa
vegetazione, la si trovava trasformata in un
groviglio di lacci erbosi che s'attanagliavano
alle caviglie, mentre ogni poco un cartello
ammonitore posto fra gli sterpi diceva, unico
irridente segno di solidarietà umana in quel
deserto: «Achtung Minen! Attenzione alle
mine!».
Nulla ha misura esigua nella vita della
steppa; e l'invisibile sole pervenne allo zenit
e digradò verso occidente senza che la
tempesta scemasse d'impeto.
Per l'intero giorno la tenacia dei
marciatori si misurò col vento, con l'acqua; e
nelle soste in salita o in discesa
nell'ondulante terreno, immersi ormai fino
al ginocchio nella mota, quegli uomini videro
la pista muoversi, il fango farsi torrente e
scendere lento scorrendo sui suoi piani
inferiori a secondare il declivio: orribile cosa,
essendo fermi, vedere il fango gorgogliare
attorno al ginocchio e rotolare come vivo; e
dover raggiungere la valle, e dibattersi in
esso che accerchia l'inguine ai soldati e
vellica le pance dei muli.
E bisogna svincolarsi e proseguire senza
posa: ignorando il patimento e l'uragano,
poiché è stato detto che il Don, là all'est, ha
bisogno d'alpini.
Per farli morire, infine; ma la zampata
finale ha da essere preceduta dalla sapiente
tortura. Ci vuole pure la loro Via Crucis, se
no c'è modo che quelli durino anche sulla
croce.
A rammentare più tardi, avrebbero detto
d'essere passati in un lontano tempo da
Kupiansk, Rowenki, Rossosch, o forse non
sarebbero riusciti neppure a ricordare quei
nomi stranieri; ma sta di fatto che in
quell'estate, lasciando al margine della pista
qualche mulo morto di fatica, mangiandone i
resti come variante all'eterna galletta e
scatoletta, masticando per quindici giorni
polvere sotto il solleone, gli uomini della
ventisei traversarono a piedi per cinquecento
chilometri l'Ucraina fino a raggiungere il
Don.
Non ebbero il bene di vederlo, quando
furono presso la riva, poiché nell'ultima ora
di marcia erano stati inoltrati con molta
circospezione e, una volta giunti, uomini e
muli vennero sospinti in una macchia
boscosa per essere occultati all'osservazione
nemica. Scaricati i basti, legati i muli agli
alberi, gli artiglieri alpini si guardarono in
viso tra loro.
- E adesso, signor tenente? - chiese Pilòn.
- Adesso, vedremo. Adesso si fa la guerra -
rispose Ferrieri. E senza volerlo si grattava la
testa perché era alle prime armi e non sapeva
da che parte cominciare.
Ma Reitani con pochi ordini sistemò la
batteria nella macchia alberata, profonda e
larga forse duecento metri.
- Qui le tende, qui il Comando, laggiù la
riserva munizioni, là la cucina, là il filare per
i muli, qui il magazzino. Per la linea pezzi
darò ordini in serata. Ferrieri, faccia
raccogliere legna e mandi a prendere acqua
all'ultimo paese che abbiamo attraversato.
Serri indichi il luogo adatto a costruire gli
impianti igienici.
Perbellini con due uomini e un mulo
stenda il filo telefonico collegandoci col
Comando di Gruppo, due chilometri in
quella direzione. Brogli curi l'esecuzione di
tutto: sentinelle, turni di guardia notturni,
verifica e pulizia delle armi. Fra due ore il
campo sia sistemato, prima di notte dovremo
essere in grado di aprire il fuoco. Ridurre al
minimo i rumori: dietro quella collinetta, fra
noi e i russi c'è solo il Don. Candioli con me,
al Comando Gruppo.
Sorrise col suo dolce sorriso, il sottile
comandante dal viso bianco; e la forza di
duecentotrenta rudi giganti si applicò
lietamente al lavoro, poiché stava per sorgere
dalle loro mani di costruttori un ennesimo
villaggio di alpini.
In capo a due ore tutti i servizi
funzionavano, il rancio bolliva nelle pentole
e gli artiglieri, accovacciati all'ingresso delle
tende scrivevano a casa d'aver piantato il
campo in riva al Don.
Quando il capitano Reitani rientrò in
batteria, comunicò agli ufficiali ed ai capi-
pezzo:
- Questa notte prenderemo possesso della
linea dando il cambio alla 304a Divisione
d'artiglieria tedesca. Fra poco saranno qui
due ufficiali germanici per lo scambio delle
consegne. La linea pezzi verrà schierata al
limite di questa boscaglia, sul campo di
grano. I capi-pezzo subito con me, indicherò i
punti dove bisogna spianare le piazzole.
Un capitano e un tenente tedeschi
- comandante e sottocomandante di una
batteria - giunsero mentre gli affusti dei
pezzi venivano installati sulle rispettive
piazzole e due uomini stavano issando il
lanternino del falso scopo.
- Il settore è calmo, per ora - dissero i
tedeschi - ma non bisogna farsi illusioni.
Dall'altra parte del fiume noterete subito
incessanti movimenti notturni: i russi
stanno preparando qualche sorpresa.
Guardavano con curiosità gli affusti dei
cannoni.
- Quando ritenete di essere in grado di
sparare?
- Appena ci avrete fatto la consegna
dell'osservatorio, saremo pronti per iniziare i
tiri di inquadramento - rispose il capitano
Reitani.
I due tedeschi si guardarono di sfuggita:
era evidente la loro incredulità.
- E i calcoli di tiro? - chiese uno dei due; -
e il parallelismo ai pezzi?
- Mentre voi guiderete un mio ufficiale
all'osservatorio.
- Ma se non avete ancora montato i pezzi!
- incalzò il tedesco.
- Si stava provvedendo ora - disse Reitani;
e trasmise un ordine a Brogli.
Uscirono quasi subito dal margine della
macchia i capi-pezzo e alcuni uomini diretti
verso gli affusti: camminavano con lentezza
e lievemente curvi poiché portavano sulle
spalle le bocche da fuoco e le testate dei
pezzi; giunti alle piazzole abbrancarono più
saldamente e ruotarono sul collo i blocchi di
metallo che reggevano; con moto rapido,
avanzando un poco e piegando prestamente
le ginocchia sottrassero le spalle al peso
enorme e lo lasciarono cadere sulle cosce
trattenendolo così a mezz'aria; un cenno
d'intesa, e quei giganti deponevano con
delicatezza i quintali di ferro sugli affusti
mentre altri uomini si affaccendavano
intorno. Qualche secondo passò e i capi-
pezzo, riassestate le giubbe scomposte nello
sforzo, s'ersero sull'attenti di fronte al loro
capitano. Respiravano pacifici, il loro viso
non tradiva segno di fatica.
Reitani sogguardò in silenzio gli ufficiali
tedeschi che non nascondevano
un'espressione di stupore. Si consultarono
cogli occhi, poi il più elevato in grado
esclamò: - Mai vista una cosa simile,
dobbiamo riconoscerlo. Mai visto in tre anni
di guerra.
L'altro chiese con grande interesse: - Di
che Divisione, avete detto?
- Julia.
- Javohl, Julia. Alpenjäger.
- Già - rispose Reitani. - Alpini. - E guardò
i suoi soldati.
Poco dopo il capitano tedesco diceva a
Reitani: - Sono orgoglioso di trasmettere
questo settore nelle vostre mani. Noi ormai
abbiamo assoluto bisogno di riposo, siamo in
linea ininterrottamente da oltre un anno e
l'inverno scorso è stato spaventoso. Non vi
sembrerà credibile, ma la nostra divisione
d'artiglieria - confidò con accento accorato - è
ridotta a duecentoquarantacinque uomini;
ora sarà ricostituita.
- Duecentoquarantacinque? - chiese
allibito Reitani. - Come è possibile?
- E' stato l'inverno scorso, verso Mosca -
rispose il tedesco con un velo di dolore nella
voce; - soltanto in due mattine consecutive,
alla sveglia abbiamo trovato sotto le tende
quasi tremila nostri soldati morti assiderati.
Erano di pietra.
Reitani tacque.
- E' il fronte russo - concluse l'altro con
un sorriso. - Non fatevi illusioni. Dio voglia
risparmiarvi ciò che noi abbiamo sofferto,
capitano.
XIV
La Divisione alpina Julia s'era tutta schierata
lungo il Don, secondo gli ordini. Per vari
chilometri di fronte, sfruttando
sapientemente il terreno, i due reggimenti
d'alpini e il reggimento d'artiglieria alpina
facevano la guardia all'acqua allineandosi
nelle trincee che sempre più numerose e
profonde solcavano la riva del fiume; a
ridosso dei battaglioni i gruppi d'artiglieria
alpina integravano lo schieramento
controllando dagli osservatori avanzati i
movimenti dei russi, aprendo il fuoco ogni
qual volta agli alpini era necessario
l'appoggio dei cannoni.
Il Don scorreva argenteo e sornione fra i
due schieramenti nemici, il suo greto
sabbioso distanziava le opposte rive di un
centinaio di metri.
Sulla riva sinistra i russi operavano
nottetempo compiendo qualche sortita al di
qua del fiume, lavorando incessantemente in
attività di cui giungeva l'attutito rumore: di
giorno la presenza dei soldati russi era celata
dalla quasi ininterrotta striscia di bosco che
fasciava la riva; mancava in apparenza ogni
segno di vita, ma se un italiano incauto
s'esponeva anche per pochi secondi, una
solitaria fucilata ben presto lo freddava: i
russi avevano disposto infallibili tiratori
appollaiati sugli alberi. Sulla riva destra,
dalle prime postazioni d'arma automatica
mimetizzate sul ciglio del fiume, agli
osservatori, alle trincee, alle compagnie, alle
batterie, un'unica rete di minutissima
organizzazione e di appassionata volontà
rendeva temibile lo schieramento alpino. Gli
uomini s'erano ormai abbrancati con salda
presa alla terra, secondo l'usanza loro.
- Finché siamo vivi, anche di qua non
passa nessuno - dicevano guardando il Don.
E non c'era iattanza in quelle parole, ma la
consapevolezza del vecchio combattente che
ha già comparato le proprie forze alla
situazione.
Era strana cosa per gli alpini, avere quel
celebre fiume dinanzi agli occhi e doversi
interessare di barche, di nuoto, di colpi di
mano da portare a termine al di là del corso
d'acqua.
Ma s'adattavano facilmente, e spesso
pattuglie d'alpini passavano nottetempo il
Don e i russi se li vedevano piombare nelle
linee a saggiarne la consistenza; e quelli
sempre ritornavano con qualche atterrito
prigioniero caucasiano o uraliano. A
ricambiare, pure i russi inviavano pattuglioni
nelle linee alpine, e ne nascevano sparatorie
indiavolate al di sopra dell'acqua placida, con
l'intervento dei mortai e delle artiglierie per
ore ed ore. Ma si sentiva chiaramente che
erano diversivi senza scopo lontano e che i
tempi della battaglia grossa non erano
ancora venuti. S'avvicinavano, questo sì, e
l'impegno dominante tanto per gli italiani
che per i russi era quello di prepararsi, senza
parere, all'ora infuocata che non poteva
tardare.
La popolazione russa, nei villaggi di
retrovia ove stavano le basi dei reparti
schierati in linea, ben presto s'era
istintivamente accostata agli alpini; la gente
d'Ucraina aveva trovato via d'intesa con gli
uomini dalla penna nera e si mostrava larga
di simpatia e di attenzioni verso quei ragazzi
gioviali; offriva spontanea ospitalità nelle
isbe e si intratteneva volentieri, terminati i
lavori della giornata, a conversare fino a tardi
con i soldati addetti alle basi. Quei contadini
imparavano l'italiano con una facilità
prodigiosa. A sera, intorno a un lucignolo
l'intera famiglia russa si radunava attorno al
soldato italiano e non si stancava mai di
chiedere notizie dell'Italia, di tutto ciò che
non fosse russo.
- E' impossibile che abbiate strade
asfaltate - dicevano le donne sgranando gli
occhi e consultandosi a vicenda con sguardi
circolari. E già chiedevano con impazienza di
raccontare ancora, di andare avanti, come
fanciulli che ascoltassero favole.
Era buona gente, primitiva e generosa,
ma soffocata anch'essa nella vastità della
steppa. Adusata da infinite generazioni
all'inclemenza del clima e della vita, subiva
con supina sottomissione ogni singola
vicenda; accettava il male in silenzio, e con
un sorriso scialbo coglieva il bene che la
sfiorava. Agli italiani sorrideva volentieri.
Essendosi soffermata la guerra presso le
loro isbe, i contadini russi desideravano che
in queste entrassero gli italiani. Le offrivano,
pregando che gli alpini si acquartierassero.
- Così i tedeschi non possono
requisircele... - confidavano poi sottovoce, ad
amicizia saldata.
I tedeschi erano incomprensibili, per gli
uomini della ventisei. La linea era tenuta
esclusivamente dagli italiani, ma nel
retrofronte esisteva qualche reparto
germanico a riposo con compiti di presidio, e
non erano perciò infrequenti i contatti con
elementi tedeschi. I rapporti fra uomo e
uomo generalmente erano cordiali, da soldati
che facevano insieme la guerra; ma la
mentalità del soldato germanico, la
risoluzione di certe situazioni erano tali da
sconcertare l'alpino e fargli intendere quale
divario lo dividesse dall'alleato. Ne ammirava
l'organizzazione, la disciplina, la potenza
senza intendere lo spirito che animava quegli
uomini sospingendoli ad atteggiamenti
incomprensibili dalla mentalità latina.
Perché a Popowka era successo quel
fattaccio di cui tutti parlavano?
Alcuni soldati tedeschi, avendo necessità
d'occupare un'isba, ne avevano sloggiato i
due abitanti: un vecchio e la nipote
ventenne; costoro, preoccupandosi
dell'ormai prossimo inverno, avevano
scavato una piccola tana ove s'erano
installati.
Un giorno il vecchio, levato l'usciolo
dell'inutilizzato porcile annesso all'isba,
stava portandolo verso la tana pensando
d'impiegarlo come chiusura per i giorni più
freddi. Un soldato tedesco notò
l'affaccendarsi del vecchietto e con un urlo lo
fermò a mezzo il cammino, corse verso il
russo e come questi non fu pronto a mollare
l'uscio gli assestò in pieno viso uno schiaffo
tale da farlo ruzzolare sulla polvere.
- Fermo, fermo! - gridò la nipote correndo
a interporsi fra il soldato e il vecchio. Il
tedesco, inferocito per il nuovo intervento,
con uno strattone spinse a lato la ragazza e
fece cenno di slanciarsi sul vecchio. Ma
quella, più lesta, con l'intento di difendere il
nonno si buttò sul tedesco sforzandosi di
trattenerlo, e nella breve colluttazione ebbe a
graffiargli le braccia nude rigandole con
qualche stria rossa da cui usciva un po' di
sangue.
Sul momento l'episodio ebbe termine per
l'intervento d'altri soldati tedeschi che
separarono i contendenti; ma ebbe seguito,
poiché il vecchio e la nipote all'indomani
pendevano impiccati a un albero della piazza.
Perché? Bestialità sfrenata? Disprezzo
della vita di popolazioni vinte? Spaventosa
presunzione d'intoccabilità di vincitori?
Dopo essere stati sottoposti al rituale
interrogatorio, i soldati russi che cadevano
prigionieri in mano agli alpini finivano col
rimanere presso i reparti che li avevano
catturati.
Dapprima gli alpini li consideravano con
grande curiosità, poi allungavano qualche
sigaretta, regalavano una gavetta, qualche
indumento e un bonario sorriso.
Trasecolati, i prigionieri ricambiavano
facendo piccoli servizi, spaccando la legna e
andando a prendere l'acqua.
Si stabiliva così nel giro di pochi giorni
una tacita convenzione, per cui gli alpini
fornivano ai prigionieri vitto e alloggio e
questi aiutavano i soldati nei cento lavori che
la vita di guerra richiedeva. In capo ad una
settimana i prigionieri erano perfettamente
ambientati nei reparti alpini, cantavano
strigliando il mulo e riassestando i basti, si
recavano nei devastati villaggi a racimolare
vetri, infissi e persino sacre icòne per
attrezzare e arredare i rifugi in costruzione.
Dimostravano predilezione per il vino e i
liquori, ma bevevano anche la benzina e
l'alcool denaturato; apprezzavano in modo
particolare i tubetti di dentifricio, che
spremevano beati divorando la pasta
piccante. Andavano e venivano in piena
libertà, secondo le incombenze. A sera si
ritiravano sotto le loro tende e
ricomparivano all'indomani, soddisfatti e
puntuali.
Ciò che appariva più strano era che
nessuno di loro, pur avendo ogni possibilità
di confondersi fra la popolazione russa o di
rendersi introvabile nella sterminata
Ucraina, rinunciò mai alla propria condizione
di prigioniero.
- Voi, per conto vostro, avete già vinta la
guerra - dicevano gli alpini.
Quelli ridevano e ammiccando
accennavano di sì.
Le truppe germaniche che avevano tenuto
quel tratto del medio Don durante i mesi
estivi, consegnando il settore agli italiani non
avevano fatto trovare alcuna opera campale,
ma scarsissime rudimentali trincee e qualche
rara baracchetta.
Fra gli alpini, al pensiero dell'inverno
imminente si diffuse un concorde
convincimento: qui, per resistere, bisogna
sprofondarsi sotto terra. E come tutti gli
altri, gli uomini della ventisei quando non
sparavano si erano messi a scavare condotti e
gallerie con lena infaticabile. Era lavoro
improbo lo scavare un villaggio sotterraneo
con badili e picconi, troncando il lavoro e
mimetizzandolo rapidamente con paglia ad
ogni ronzio d'aereo nemico, e sterrando
montagne di terra al chiaro di luna.
Il complesso d'opere era quasi compiuto
quando Reitani comunicò agli artiglieri:
- E' giunto un ordine. Alcuni reparti
devono spostarsi, bisogna ottenere una
migliore disposizione dello schieramento.
Domani giungerà qui una batteria di un'altra
divisione, noi ci trasferiremo sette chilometri
più a nord presso un paese chiamato
Kuwschin. Batteria in marcia domattina alle
quattro.
Il capitano, parlando, aveva un volto
impassibile ma i suoi uomini sapevano
quanto quelle parole gli costavano; solo per
questa ragione nessun mormorio le
sottolineò. Si limitarono a levare gli occhi al
cielo nuvoloso per guardarsi poi a vicenda, in
silenzio.
L'annuncio era grave. Era il primo
d'ottobre e già da una settimana la stagione
aveva virato decisamente verso l'inverno.
Quella mattina, alla sveglia, gli uomini
avevano annusato aria di neve e giorno per
giorno con geloso amore avevano visto
completarsi il frutto della loro fatica,
promessa sicura di un riparo dal gelo. E ora,
poche parole annullavano il lavoro di un
mese e li trapiantavano di nuovo sulla terra
nuda.
La guardarono con sconforto,
all'indomani, quando la batteria giunse nella
zona di Kuwschin: una larga spianata a due
passi dal Don, sopraelevata dall'acqua quel
tanto che basta per essere aperta a tutti i
venti, alla mercé dell'osservazione aerea
nemica, senza un albero, senza un pozzo; già
intaccata da fresche buche scavate da colpi di
mortaio e di cannone; brulla e secca,
ricoperta da una densissima vegetazione di
cardi selvatici. A due chilometri sulla
sinistra, in riva al Don, stava il devastato
villaggio di Kuwschin.
- Perché proprio qui, signor capitano?
Perché proprio noi? - domandò ad alta voce
indignato il sottotenente Ferrieri attorniato
da un folto gruppo di uomini. Sapeva di
esprimere lo sdegno generale, gli piaceva
assumere ogni tanto quell'atteggiamento
tribunizio; se ne stava ritto e massiccio
dinanzi al capitano, con ambo le mani spinte
innanzi e poggiate sull'enorme bastone che si
trascinava dietro durante ogni marcia. I
soldati, ripetendo un suo famoso e innocuo
intercalare lo chiamavano il «tenente-ti-
sfondo-il-cranio».
Il capitano levò una mano ad indicare una
breve depressione verso il fiume, al limite
della spianata.
- Vedi quella valletta, Ferrieri? - disse
bonariamente. - Proprio qui perché di là,
quando il Don sarà gelato, i russi tenteranno
di passare con i carri armati. E proprio noi
perché tu, io e tutti noi siamo la ventisei.
I privilegi in guerra sono sempre di
questo genere, i tuoi uomini lo sanno già dal
tempo d'Albania...
E passando lo sguardo dal sottotenente ai
suoi uomini li guardava con sguardo calmo e
profondo come a sondare l'intimo animo.
Emanava da quegli occhi e da tutto il
sembiante del capitano una tale spontanea
dirittura, una così limpida e non incrinabile
adesione al dovere militare, che gli uomini si
sentivano sempre irresistibilmente attratti
ad assecondarne l'atteggiamento
schierandosi in ogni caso al suo fianco. Quei
giganti riconoscevano d'istinto nel sottile e
taciturno uomo di ventisei anni il diritto
naturale d'essere il loro capo.
- Non bisogna perdere un minuto - disse
il capitano.
E con le roncole tratte di tasca, con i
coltelli, con le baionette, con le mani i giganti
si gettarono a testa bassa a scerpere il mare
di cardi.
Dall'alto, il cielo d'ottobre guardava e
accoglieva la sfida aggrottando a minaccia
l'immensa fronte nuvolosa.
Tutta l'Armata italiana, duecento-
trentamila uomini, era allineata sul grande
fiume. Tridentina, Julia, Cuneense,
sessantamila alpini, costituivano l'ala nord
dello schieramento italiano, che s'estendeva
verso il sud affiancando le divisioni Cosseria,
Ravenna, Pasubio, Torino, Celere, Sforzesca,
e la Vicenza di rincalzo. Tutte s'apprestavano
ad affrontare l'inverno russo e s'erano ormai
affondate nella terra.
Ma in un tratto della steppa, a ridosso del
fiume, microscopico punto nell'immensa
estensione del fronte, la ventisei ancora
s'affannava in un lavoro frenetico, gli
artiglieri stavano realizzando un enorme
piano di scavi.
Già erano venute le piogge autunnali a
battere per giorni interi le ricurve schiene
degli uomini scamiciati; già innumerevoli
stormi di anitre selvatiche, nelle loro
formazioni triangolari, erano passati
sfreccianti sotto le nubi basse volando verso
le regioni del sud; la vegetazione della steppa
s'era immiserita, gli animali fuggivano e le
piante si riducevano alla radice e a vizzi
stecchi, tutta la natura si difendeva al
preannunciarsi dello spettro invernale.
Sotto le tende, al risveglio mattutino gli
uomini della ventisei trovavano nella gavetta
un blocco di ghiaccio e quella vista era
incentivo a gettarsi per tutto il giorno con gli
attrezzi nelle buche iniziate. Anche gli
ufficiali con badili e picconi scavavano la loro
tana.
Si sapeva che la ventisei si doveva
costituire a caposaldo, essendo previste
eventuali infiltrazioni nemiche con
conseguente isolamento del reparto. In quel
caso, unico sarebbe stato l'ordine: difendersi
disperatamente fino all'ultima cartuccia,
nella speranza che i reparti mobili
giungessero in tempo a salvare
dall'annientamento.
Anche la ventisei stessa aveva ricevuto
comunicazione d'essere considerata, assieme
a due compagnie d'alpini e a un'altra batteria
della Divisione, «reparto di pronto
intervento»; con tale qualifica sarebbe stata
rapidamente impiegata qualora in altri
settori si fossero determinate improvvise
situazioni di emergenza.
Con tali prospettive risultava chiaro agli
uomini che dall'efficienza degli
apprestamenti dipendeva la loro sorte
ultima.
Mentre la linea pezzi sparava nel
quotidiano duello con l'artiglieria russa,
spesso sotto i colpi in arrivo i soldati della
ventisei scavarono, a distanza di varie decine
di passi l'una dall'altra diciassette fosse
profonde tre metri, larghe quattro e lunghe
sette: i rifugi sotterranei. Vennero anche
scavati i camminamenti che collegavano i
rifugi tra loro e con le piazzole dei quattro
pezzi, con gli osservatori avanzati, con le
postazioni delle armi automatiche, con i
magazzini, l'infermeria, le cucine, la riserva
idrica interrata (il serbatoio di un'autobotte
russa di preda bellica), i servizi igienici da
campo, la scuderia: oltre millequattrocento
metri di camminamento profondo tre metri e
largo uno.
Contemporaneamente nel bosco di
retrovia più vicino, a nove chilometri di
distanza, il capitano aveva dislocato una
squadra di uomini con qualche ascia e
qualche sega, affidando ad essi il compito di
provvedere il legname per i sostegni e le
coperture dei lavori di scavo. Di giorno i
boscaioli abbattevano gli alberi d'alto fusto, li
segavano nelle misure volute, di notte li
sfrondavano, tagliavano i rami, li
scortecciavano, li squadravano.
Al tramonto giungevano al bosco della
linea gli artiglieri coi muli, e ad uno ad uno i
tronchi venivano trascinati presso i rifugi e
subito diventavano colonne di sostegno e
architravi dei futuri alloggi; e quando il
legnoso scheletro delle stanze sotterranee fu
compiuto, venne ancora ricoperto con uno
strato di solidi tronchi affinché reggesse
all'urto dei colpi di mortaio e delle granate di
piccolo calibro; e siccome la pianura
s'imbiancò di un sottile strato di neve e i
muli non bastavano all'impresa, gli alpini
immediatamente decisero di trascinare per i
nove chilometri a forza di braccia i tronchi
ancora necessari; ed era impressionante
vedere quegli uomini sudati sotto lo
sfarfallare della neve, attaccati
disperatamente alle corde, trascinare sul
terreno gelido gli enormi tronchi per
costruirsi la casa. Inarcandosi nello sforzo,
guardavano ogni tanto il cielo avverso, i
minacciosi bioccoli che volteggiavano
nell'aria; con furibonda tenacia
s'avvinghiavano alla fune facendo avanzare
ancora di un metro il colosso di legno.
Per nove chilometri.
Coperti i camminamenti e i rifugi,
trionfanti per essere ormai sul punto di
vincere la gara con l'inverno, a completare il
tetto stesero sui tronchi mezzo metro di
paglia e sopra questa un altro strato di
terriccio di sterro. Esultanti spiantarono le
tende e dormirono finalmente per la prima
volta sotto terra.
Alla mattina successiva, riaffiorando sulla
pianura, le loro gambe affondarono fino al
polpaccio nel biancore della prima grossa
nevicata: la partita era vinta di stretta
misura.
Ma la neve entrava dalle finestre, dai
pertugi, dai riquadri d'ingresso; e subito gli
alpini misero in opera porte pre-costruite, le
finestre fornite d'autentici vetri; li avevano
raccolti nelle isbe diroccate del villaggio di
Kuwschin, abbandonato alla furia
dell'artiglieria russa, appollaiato come era
alla riva del Don.
In breve entrarono in funzione le stufe,
costruite mattone per mattone dagli
ingegnosi alpini con l'argilla che la steppa
forniva, completate dai tubi fatti con vecchie
lamiere arrotolate, dai camini girevoli
controvento che spuntavano d'un palmo
dalla neve.
Gli uomini si costruirono i letti, i tavoli,
le sedie, le lanterne, mimetizzarono il campo,
resero riscaldabili le postazioni dei pezzi e
delle mitragliatrici, circondarono il caposaldo
con una doppia cinta di filo spinato,
appendendo persino ad essa campanelli
d'allarme, opera insigne del fabbro di
batteria.
A fine ottobre, settanta centimetri di neve
seppellivano nel bianco il caposaldo. A cento
passi di distanza non si distingueva altro che
steppa russa; ma tre metri sotto la steppa
ferveva la vita degli uomini della ventisei.
La sera dell'inaugurazione, nel rifugio
numero undici ci fu convegno allegro indetto
dai conducenti e presieduto dai sergenti
Bartolan e Sguario e dal caporale Pittino,
maestri di buonumore.
Il capitano Reitani aveva concesso una
razione straordinaria di cognac e assieme al
sottotenente Serri assisteva, invitato d'onore,
alla solenne celebrazione della vittoria dei
conducenti di mulo contro la neve.
Fra canti e risa l'ultima goccia di cognac
venne scolata dai gavettini, il fumo delle
sigarette e delle pipe appestava l'aria
stagnante nel basso locale sotterraneo, la
debole luce della lampada a petrolio appesa
al soffitto tingeva d'ombre i volti degli
uomini in grigioverde, sui quali stava
diffondendosi ormai quel sentore di
sonnacchiosa malinconia che preludeva
all'ora d'andare a dormire.
Ma ecco che con improvvisa stravaganza
Pittino riuscì a fare un po' di largo al centro
dell'affollatissimo rifugio e nello spazio
sgombro capovolse il bidone del bucato,
vanto della comunità dei conducenti. Fra il
silenzio e l'attenzione di tutti puntò un dito
verso un alpino enorme che se ne stava
accoccolato su di un mucchio di legna per la
stufa, e gridò: - Artigliere alpino Pilòn Gio
Batta, conducente di mulo...
- ...e poeta! - concluse l'urlo dei presenti.
Sollevato a forza e sospinto al centro, il
gigante fu issato sul bidone, traballò un
attimo e parve cadere, si ristabilì e fissò lo
sguardo alla finestrella orlata di neve, già
distaccato e lontano dall'ambiente: fu un
altro. Seguendone lo sguardo, tutti sentivano
che pensava alla steppa bianca, al Don, al
freddo feroce, ai duri uomini sotterrati; tutti
videro nella sua figura un'immagine che li
rifletteva, e il silenzio divenne compatto.
L'aspettazione delle parole strane
ondeggiava sospesa sugli uomini, sensibile al
pari delle grevi falde di fumo che
galleggiavano nell'aria attorno alla lampada:
come queste, un soffio l'avrebbe alterata.
Il gigante immobile parve evocare la
notte al di là del vetro, il volto si nobilitò in
una espressione di volontà indomabile, ma la
voce dell'innocente poeta lentamente scandì,
con la sommessa devozione di una preghiera
di ringraziamento e col fervore di un voto, le
attese parole: Date all'alpino un attrezzo e la
neve diverrà baluardo.
Quando il reggimento fu un solo blocco di
energia organizzata di fronte al nemico, nelle
tane fumose dilagò l'incredibile notizia: il
colonnello Garri, l'animatore di tutto,
convocava a rapporto gli ufficiali e
rappresentanze d'artiglieri alpini liberi dal
servizio di linea; rapporto di congedo, perché
egli era stato improvvisamente esonerato dal
comando del reggimento e richiamato in
patria.
All'ora stabilita, dagli osservatori a
strapiombo sul Don ove fra gli artiglieri e il
nemico stava soltanto l'acqua ghiacciata del
fiume, dai gelidi posti di vedetta, dai rifugi
sotterranei uscirono gli uomini del
reggimento e s'incamminarono sulla steppa
verso il Comando. Erano muti, cupi.
Progredendo, i gruppetti s'avvistavano a
vicenda di lontano, piccole macchie
grigioverdi sul biancore della neve, e si
riunivano per procedere insieme. Erano gli
ufficiali e i soldati delle diverse batterie; non
si vedevano da mesi, si riconoscevano a
fatica, dapprima, per le lunghe barbe e
quell'aria irsuta e caprigna che mette
addosso la vita di linea. Amici fraterni,
pareva si salutassero senza entusiasmo,
senza darsi neppure la mano, poiché con
quei molti gradi sotto zero e quel ventaccio
era necessario tenere le mani ficcate in tasca.
Da molte barbe, sotto la bocca,
scendevano lunghi pendagli di ghiaccio, le
stalattiti degli alpini in terra di Russia.
Sospiri congelati le chiamavano, era inutile
strapparle poiché col respirare si formavano
più grosse di prima. Erano il marchio
dell'inverno russo sul volto degli uomini,
così come sulla groppa e sugli anteriori dei
muli ogni pelo si rizzava e s'ingrossava per
un suo involucro di ghiaccio; le povere bestie
generose tiravano le slitte nella steppa
ricoperte da quel mantello gelido e ogni
tanto rigiravano il muso e pazientemente
leccavano lo strato bianco là dove questo
minacciava di congelare la misera pelle.
Sotto il cielo di un dolcissimo azzurro
appena ravvivato da un malinconico sole, in
quella mattina di dicembre un vento basso e
sibilante scherzava con la steppa; mordeva
qui e là la neve a saggiarne la consistenza e
dove riusciva ad intaccarne la compatta
crosta subito s'insinuava negli strati profondi
e ne usciva tosto trascinando seco manciate
di neve polverosa; la faceva rilucere per
qualche istante contro il sole in infinite
particelle d'oro, come divertendosi ad agitare
nell'aria uno scialle trasparente; e la lasciava
ricadere infine, annoiato, cospargendone gli
alti cardi della steppa disseccati dal gelo.
Era inverno, ormai; gli esseri viventi
erano fuggiti o sepolti; non un solo uccello
punteggiava il cielo e sulla neve si scorgeva
soltanto, e di rado, qualche topo correre
goffamente da buca a buca e rintanarsi.
Inverno gelido, paralizzante; il freddo però
non aveva ancora alitato sulla pianura con
tutto il suo rigore, poiché anche in quella
mattina i soldati, i soli oltre il vento che si
muovessero sul deserto bianco, uscendo dai
rifugi avevano constatato che i termometri
dei pezzi segnavano non più di venticinque
gradi sotto zero.
A quei soldati, ora, stavano portando via il
capo, l'uomo che li aveva guidati per le vie
della guerra, l'imperioso comandante cui era
facile e gradevole cosa l'ubbidire poiché era
giusto, paterno e generoso.
Il volto degli uomini in marcia era
indurito dal gelo e dallo sdegno, e incupito da
un dolore che bruciava gli occhi più del vento
gelido.
Giungendo alla località di raduno gli
artiglieri alpini si riunirono sulla neve,
scambiando sommesse parole.
Un vapore denso usciva dalle loro bocche
e ricadeva sui baveri dei cappotti a formare
uno strato di ghiaccio.
Battevano i piedi sulla neve dura e si
sfregavano le orecchie pallide sotto i cappelli
alpini. Erano forse trecento, e furono
introdotti in un'ampia stalla al riparo dal
vento; poi si inquadrarono, da bravi soldati.
Il capannone era male illuminato, la luce
entrava soltanto dalla grande porta
spalancata. Ad un tratto una voce diede un
ordine ed ogni brusio e scalpitio cessò nella
stalla, gli uomini si irrigidirono sull'attenti.
Dalla luce esterna avanzò lo stendardo del
reggimento e dietro ad esso si profilò
all'ingresso il colonnello Garri, che a passo
lento s'inoltrò fra i soldati.
Aveva il viso di pietra. Pareva non vedere
nessuno e quasi esser cieco per la fissità
dello sguardo e per quel suo grosso bastone
dal puntale d'acciaio che a intervalli brevi
poggiava oltre il piede, sul terriccio della
stalla.
Nell'assoluto silenzio i soldati fissarono
l'uomo che incedeva verso la bandiera,
gigantesche statue allineate nell'incongrua
cornice della stalla; solo la mascella, in
alcune d'esse, si contraeva dando rilievo ai
muscoli per lo sdegno che faceva stringere i
denti; e sopra le teste il vapore del respiro
saliva a sbuffi prepotente e ritmico, quasi
animalesco, a dire quanto e in qual modo le
statue fossero vive.
Vicino allo stendardo il comandante si
fermò, passò lo sguardo sui volti dei soldati e
ruppe il silenzio.
- Ho ricevuto ordine di lasciare il
reggimento e di rientrare in Italia - disse; e il
metallo della voce potente, per la prima volta
sembrò essere incrinato. - Voi sapete come
ciò non sarebbe mai accaduto per mia
volontà e come debba essere accettato per
disciplina militare. Ho il conforto di sapere
che il comando del reggimento passa in
esperte e salde mani alpine e che voi, miei
soldati, rispetterete come sempre la legge del
dovere. Saluto voi, e con voi i compagni che
non hanno potuto in quest'ora lasciare la
linea. Voi sapete che il mio dolore può essere
temperato solo dal vostro comportamento.
Troppe vicende abbiamo vissuto insieme
e troppo ci conosciamo e ci amiamo perché
nell'ora del distacco io debba dirvi molte
parole. Vi dico soltanto: rimanete sempre
stretti intorno allo stendardo del reggimento
fregiato di medaglia d'oro per valore vostro e
dei nostri morti, onorate i nostri morti
nell'adempimento del dovere per cui essi
caddero e voi superstiti ancora combattete,
nel nome della patria in guerra.
Non è consentito che io rimanga più a
lungo tra voi, mi viene imposto di lasciarvi.
- Ma io - disse il colonnello con voce non
più dimenticabile - io lascio a voi... miei
soldati... il mio cuore accanto allo stendardo
che bacio...; e di qui nessuno lo smuoverà...
poiché è vostro come il drappo e la medaglia
d'oro... Ha combattuto, ha sofferto, resta con
voi...
Non voleva forse il colonnello
materialmente baciare, in quel punto, lo
stendardo, ma qualcosa gli tremò
all'improvviso nella voce e l'indusse a
chinare, a sprofondare il volto nel tessuto.
Sull'attenti, senza un brivido raggelati nei
venticinque sotto zero, i trecento uomini
silenziosamente piangevano. Ufficiali e
soldati in quella stalla piangevano irrigiditi
sull'attenti, come può essere lecito fare o agli
eroi o ai pazzi. In quella stalla piangevano su
di sé, sulle loro glorie, su quanto avevano
patito e tribolato donando sangue, subendo
in quell'ora la ventata di dolore che
scompigliava l'armoniosa costruzione di
sofferenza e di amore su cui s'equilibrava la
loro vita di guerra; poiché la sofferenza,
quando è tanto lunga e diversa e inaudita da
non poter essere più né detta né compresa,
diviene amore che lega, un tragico amore nel
cuore degli uomini che fanno la guerra.
Così, dagli occhi di quei trecento uscivano
le lacrime dei soldati, il pianto d'un
reggimento; e le calde gocce scendevano
senza ritegno lungo le gote, si diffondevano
nelle virili barbe, o cadevano sul grigioverde
di guerra, dall'implacabile gelo subito
trasformate in palline opache; giuoco di
bimbi, a vederle; supplizio d'inferno, a
piangerle.
- Fra un'ora partirò per l'Italia - disse il
colonnello avendo sollevato il volto dal
drappo ed ergendo il capo all'antico modo; -
in questo istante per l'ultima volta passerò
dinanzi agli artiglieri alpini del mio
reggimento. Miei soldati! - disse, e la voce
era quella degli antichi tempi, e la stalla e i
cuori ne risuonarono; - Miei soldati: per
l'ultima volta, presentate le armi al vostro
colonnello!
Senza che alcun ordine regolamentare
seguisse, sotto la volta di paglia risuonò un
secco scattare d'armi impugnate. Il
colonnello passò da terziglia a terziglia,
lentissimo, come a non voler più finire
quella dolorosa rivista. Con ogni uomo i suoi
occhi scambiarono un muto indicibile
colloquio; e ad ogni passo il padre perdeva
tre figli.
Per essi, nella sua vita di comandante tre
mesi addietro egli aveva scritto una lettera in
più, andando imprudentemente troppo oltre,
secondo gli alti Comandi, nel difendere i suoi
soldati.
Cosicché, abbassata la mano dall'ala del
cappello alpino dopo aver salutato l'ultimo
uomo, il colonnello varcò la soglia della
stalla e uscì nel vento della steppa,
socchiudendo gli occhi alla vivida luce e al
mortale dolore.
Guardò intorno la grande distesa bianca,
avanzò il piede e si trovò solo nella neve e si
sentì solo sulla terra avendo perduto, due
passi addietro, il suo bel reggimento.
Sul reggimento calò in quel giorno un
presagio d'oscuri tempi, stringendo
d'angoscia il cuore degli alpini vigilanti sul
fiume.
Sepolta nel bianco, fra una riva e l'altra,
l'acqua del Don scorreva silenziosa sotto una
spessa lastra di ghiaccio su cui s'era disteso
un uniforme tappeto di neve. Fra le
contrapposte rive l'alto silenzio della prima
linea incombeva come una minaccia, rotto a
lunghi intervalli da qualche secca fucilata.
Non succedeva nulla: troppo poco per
tranquillizzare la sensibilità di gente adusata
alla guerra.
Gli alpini giorno e notte scrutavano il
cielo, il fiume, la boscaglia sull'altra sponda.
Chi ha pratica di prima linea conosce la
snervante attesa di un evento che già gravita
nell'aria ma ancora non si scatena,
l'interminabile silenzio che minaccia, quel
vorticare di ossessionanti fantasmi che
ondeggiano senza smuovere una foglia.
- Ormai - diceva gravemente il colonnello
Verdotti - la lastra di ghiaccio sul Don può
reggere anche i carri armati da quaranta
tonnellate.
E' l'ora dei russi.
I turni di vedetta sul fiume erano ridotti a
pochi minuti, poiché una più lunga
esposizione nell'immobilità nei trenta gradi
sotto zero era mortale, specie se c'era vento.
Le sentinelle smontanti entravano livide nei
rifugi e i pastrani appena tolti, poggiati sul
pavimento, stavano ritti da soli.
- Per non morire - mormorava Brogli -
bisogna poter tenere la posizione e non
mollare questi nostri rifugi.
- Ad ogni costo - confermavano i soldati.
XV
Il sedici dicembre, a metà pomeriggio, il
telefono squillò alla ventisei.
- Parla il Comando di Gruppo.
C'è il comandante di batteria?
- Sono io - rispose Reitani.
- Ciao, capitano. - Era il tenente Massimo
Rizzo, aiutante maggiore del Gruppo. - Il
colonnello Verdotti mi incarica di
trasmetterti un ordine per la tua batteria.
- Dimmi.
- Entro due ore devi essere pronto a
partire «per ignota destinazione» con tre
ufficiali e cento uomini, trentasei muli,
dodici slitte, i quattro pezzi, due
mitragliatrici, munizioni e viveri per un
giorno. Il solo zaino per tutti, due coperte.
- Si sa qualche altra notizia più precisa?
- No. Deve trattarsi di un impiego
connesso al fatto che la ventisei fa parte del
«reparto di pronto intervento». Scegli gli
uomini più in gamba: crediamo che non si
tratti di una faccenda semplice.
- Ho capito. E gli uomini che mi restano
qui?
- Da' il comando a Brogli, per intanto.
Provvederemo poi noi a rimpiazzarvi se
tarderete a rientrare.
- Credi che staremo fuori molto?
- Non so. Ti dico una mia opinione
personale: temo che ci siano in aria grossi
guai. Ciao Reitani, quando sei pronto a
partire telefona: ti diremo con precisione
verso dove dovrai dirigerti. Ti faremo poi
raggiungere da staffette con ordini scritti. E
in bocca al lupo, con tutto il cuore!
Reitani posò il microfono, impartì le
disposizioni. Come ufficiali da avere con sé
designò Perbellini e il tenente Dell'Alpe, un
bel ragazzone friulano che da un paio di mesi
era stato assegnato alla batteria. Suo padre
era il tenente colonnello Dell'Alpe, un
magnifico alpino che comandava il
battaglione Gemona.
Reitani chiamò Serri: - Vuoi venire con
noi, Italo?
- Lo sai, Ugo.
- Bene. Dobbiamo essere soltanto in
quattro ufficiali e tu all'occorrenza sei in
grado di sostituire qualcuno di noi, oltre che
fare il medico.
- Speriamo che non ce ne sia bisogno.
- Speriamo.
Alle diciassette i centoquattro uomini
rabbrividivano sotto il vento gelido
marciando nel buio, incitando i muli dal pelo
ritto che trascinavano sulla crosta di neve
ghiacciata i pezzi e le slitte.
I soldati camminavano in silenzio perché
avevano dovuto lasciare nei caldi rifugi ogni
loro cosa salvo le armi; e separarsi dai
quattro poveri stracci è sempre un brutto
segno, e fa temere il peggio.
Inoltre, era una faccenda che non piaceva
per niente quella del «pronto intervento». Si
cominciava subito col dover marciare per
chissà quante ore sulla neve, mentre gli altri
stavano intorno alle stufe. E «ignota
destinazione» era una frase che risuonava
male nei loro cervelli. Antipatico anche quel
modo di conoscere strada facendo la
direzione di marcia per mezzo di staffette da
incontrare lungo il cammino; che cos'era
tutta questa segretezza?
La fila di uomini, di muli e di slitte
raggiunse il villaggio di Ssemejki, ma
proseguì; con lo scendere della notte il
freddo si fece più intenso, addentava i nasi e
le guance come un cane rabbioso; al chiaro di
un briciolo di luna la colonna attraversò la
pianura spazzata dal vento che portava a
Kurenji; marciava da cinque ore nel gelo,
sperò nella sosta; ma anche Kurenji fu
oltrepassata; seppe però che a Stanovoje si
sarebbe fermata, come annunciò una
staffetta.
Perbellini e Serri, che avevano gli sci,
vennero mandati innanzi assieme a due altri
sciatori col compito di raggiungere Stanovoje
e di rintracciare gli alloggi, in modo che la
colonna sopraggiungendo non dovesse
attendere sulla neve.
Presto la pattuglia avvistò il paese:
bisognava lasciare la pista principale e
deviare lungo la pista secondaria. Al bivio la
pattuglia si divise, Serri e un soldato
proseguirono verso il paese, Perbellini e un
caporale attesero la colonna per indicare il
cammino.
- Badate al freddo, continuate a muovervi
- disse Serri avviandosi.
- Niente paura, signor tenente, siamo
alpini e non ci ha ammazzato neanche
l'Albania! - esclamò l'alpino che rimaneva
con Perbellini. Era un caporale tra i più
scanzonati e svelti della ventisei, un
valligiano campione di sci.
Poco dopo, ritornando dall'aver trovato gli
alloggiamenti, Serri al bivio vide Perbellini
chino sul caporale steso sulla neve. La testa
della colonna stava per sopraggiungere.
- Cosa è successo? - chiese Serri.
- Non so - rispose Perbellini angosciato; -
è caduto mezzo minuto fa, non dice una
parola.
- Siete stati fermi?
- No, siamo sempre andati in su e in giù, è
impossibile stare fermi con questo vento
maledetto.
Il caporale venne trasportato
all'ospedaletto che esisteva a Stanovoje, fu
sottoposto alle più attente cure per salvarlo
dall'assideramento.
- Non credevo di dover crepare qui così,
come un cretino - diceva all'indomani con
un'ombra di sorriso sulle labbra bianche.
- Ma no, non dire fesserie, ormai stai
bene - protestavano Pilòn e i compagni in
piedi attorno al letto.
Ebbe ragione lui invece, il caporale
Pittìno Alfonso: si sforzò di dire qualcosa,
tentò di mettersi a sedere, ricadde morto.
Serri si chinò a sentirgli il cuore, si risollevò
scuotendo la testa. Tutti si guardarono a
vicenda, smarriti.
Sopraggiunse il furiere Clerici, ad
avvertire che erano giunti gli autocarri e il
maggiore Amerri aveva ordinato la partenza
immediata.
Reitani guardò Pittìno come a non volersi
distaccare, portò la mano all'ala del cappello
alpino nel saluto militare, si avviò alla porta
dicendo a tutti: - Andiamo.
Gli artiglieri alpini uscirono, alcuni
rivoltandosi a guardare il morto.
Scudrèra rimaneva ancora a fianco del
letto; Pilòn, ultimo, dalla porta disse:
- Dài, Scudrèra.
- Vègno! - rispose Scudrèra; si scostò dal
letto, come per andare; si assicurò con
un'occhiata che anche Pilòn fosse uscito,
ritornò al letto e fissò il cadavere. Quasi non
credesse alla morte, lo chiamò, accorato: -
Pittìno! - Inghiottì saliva. Come arrabbiato
perché Pittìno non rispondeva, agitò la mano
verso il morto nel gesto di chi minaccia gli
sculaccioni a un bambino, disse al morto con
un'intonazione di rimprovero e di delusione:
- Pittìno...
Con viso torvo se ne andò, biascicando
qualcosa come se pregasse a fior di labbra.
Ma, a guardargli gli occhi, appariva chiaro
che preghiere non erano.
Erano i soliti autocarri militari, alcuni col
telone di copertura, altri senza; vennero
caricati i muli, le munizioni, i pezzi, le slitte,
gli uomini della ventisei.
- La va male - dicevano gli artiglieri
fiutando complicazioni.
- Dove si va, signor capitano?
- chiedevano a Reitani.
- Ora a Ssaprina, a pochi chilometri, poi
non so.
- La va male... Se i ne porta in camion,
tira vento catìvo... - diceva Scudrèra.
A Ssaprina i cento della ventisei si
congiunsero con altri trecento alpini pure
autocarrati per l'occasione; il reparto di
pronto intervento era così al completo e partì
al comando del maggiore Amerri.
- Di che reparto siete? - domandavano gli
uomini di Reitani agli autisti.
- Autocentro.
- Dove ci portate?
- A Podgornoje, poi non sappiamo.
Alle tre del pomeriggio le ultime luci del
giorno rendevano livida la neve ghiacciata;
avanzò quindi il buio, l'immenso buio sulla
distesa ucraina.
Con la notte il gelo s'intensificò, i muli
ragliavano lamentandosi sugli autocarri
scoperti, gli uomini rabbrividivano
accartocciati su se stessi per non disperdere
calore. Gli automezzi non potevano
proseguire perché gli autisti non vedevano la
pista; nonostante il pericolo degli aerei
vennero accesi i fari perché era necessario
andare oltre.
Venne raggiunto Podgornoje, vi fu una
breve sosta affinché gli automezzi
s'allineassero uno dietro l'altro. Il
comandante della colonna gridò agli autisti:
- Non posso dire dove andiamo. Unico
ordine: seguire la mia macchina di testa
mantenendo il collegamento a vista;
spegnete i fari, mantenete solo le luci di
posizione; sfruttate la luce della luna che sta
per sorgere.
Non ci fermeremo più, qualunque cosa
succeda; bisogna giungere a tutti i costi.
L'autocolonna ripartì inoltrandosi nelle
tenebre, presto rotte dal chiarore lunare che
si distese sulla neve.
Gli alpini tacevano e stringevano i denti,
le mani e i piedi per resistere al gelo che
sembrava staccare con infiniti aghi la pelle
dal corpo. Un dolore intenso saliva dalle
estremità e tentava i centri della vita, sempre
più insidioso e crescente; al cuore montava
un'oppressione, un disperato terrore di non
poter resistere, di morire così, prede del gelo
su un autocarro.
Passarono tre, quattro ore. A una curva
un mulo precipitò dalla fiancata d'una
macchina e cadde sulla neve già indurito
come legno: era morto in piedi, aveva
viaggiato stecchito finché uno scossone
l'aveva spinto fuori dall'autocarro facendo
largo ai compagni di viaggio.
Nel cuore della notte il freddo rincrudì
ancora, i termometri dei pezzi segnavano
trentaquattro sotto zero.
I muli, atterriti dal demone che induriva i
peli come chiodi, che entrava nel corpo e lo
frugava, s'infuriavano e pestavano con
enorme forza il piano dell'autocarro. Alcuni
quadrupedi giunsero a sfondarlo rimanendo
impigliati nella fenditura del legno con le
zampe, che ai successivi sobbalzi della
macchina finivano col fratturarsi. Urla
spaventose allora soverchiavano il ronzio dei
motori, subito riprese in coro dagli altri muli
e rimandate nella notte da autocarro a
autocarro, sì che agli alpini straniti dal
freddo sembrava ormai d'essere dissennati e
qualcuno già, sopraffatto, cominciava a
ridere; e i compagni, nell'udire quelle risa nel
buio rabbrividivano, poiché sentivano
anch'essi traboccare dall'animo una
forsennata voglia di ridere, o di ululare come
le bestie ferite.
Per il trepestio degli animali e degli
uomini, fra le imprecazioni degli autisti gli
automezzi in corsa spesso ondeggiavano e
slittavano malamente sulla pista ghiacciata,
più d'uno finiva con lo sbandare affondando
nella neve alta restando immobilizzato e
abbandonato col proprio carico, mentre gli
altri proseguivano nella sarabanda
inseguendo nella notte, come in una
allucinazione, il fanalino rosso della
macchina che precedeva; carica anch'essa di
disperati, di gente congelata e tremante, dal
corpo che implorava tregua da quel freddo
che trapassava la pelle come fosse uno scialle
liso.
Su quegli sciagurati, oltrepassato
Rossosch, nelle ore più crudeli della notte la
temperatura calò a trentotto sotto zero.
La colonna andava sempre più
assottigliandosi; qualche autista,
assiderandosi al volante, perdeva
improvvisamente il controllo dell'autocarro
che si rovesciava nella neve in un groviglio di
uomini e muli feriti.
Gli ufficiali erano stati collocati ciascuno
su di una macchina diversa, con l'ordine di
giungere a destinazione a qualunque costo e
di salire immediatamente su un altro
autocarro qualora quello che li portava fosse
rimasto inchiodato nella steppa.
Verso l'una di notte, Serri vide una
sagoma d'uomo che, nell'accresciuto chiarore
di luna, dal margine della pista si sbracciava
in larghi segni.
Fece fermare per un attimo, e la sagoma
subito salì nella cabina di guida: era il
sottotenente Perbellini.
- Purtroppo manca il vetro parabrezza a
questo autocarro - gli disse Serri. Il gelo
notturno s'incanalava nel riquadro
spalancato e il vento della corsa s'ingolfava
nella cabina.
- Se non moriamo stanotte non moriamo
più - interloquì l'autista al volante. - Sono un
pezzo di ghiaccio. Se vedete che sbando
tenete voi il volante, non muovo bene le
braccia.
- Vuoi che guidi io per un poco? - chiese
Serri.
- No, non posso, signor tenente.
Abbiamo ordine di non lasciare il volante
a nessuno, per nessuna ragione - rispose
quello - neanche se stiamo per crepare. - E
aggiunse per conto suo due o tre bestemmie
secche, nitide, convinte.
- Il tuo autocarro s'è guastato? - chiese
Serri a Perbellini.
- No, ma ho dovuto scendere per forza
dalla cabina, non potevo salire dietro perché
l'autocarro portava soltanto muli. Erano
infuriati, mi avrebbero schiacciato.
Accendendo una sigaretta, il medico
scorse una macchia di sangue raggelato sulla
manica di Perbellini.
- Sei macchiato di sangue - disse
preoccupato; - cosa è successo?
- Ne ho anche giù per il collo, ma non
posso farci niente. Poco fa un mulo ha
sfondato con un calcio la parete di legno
dietro la mia testa ed è entrato con la zampa
nella cabina.
- E tu?
- Un momento prima mi ero avvicinato
col viso al parabrezza che si era incrostato di
ghiaccio, per tentare di vedere la strada. E'
stata la mia fortuna; se fossi stato appoggiato
allo schienale il mulo mi avrebbe sfondato il
cranio.
- E questo sangue?
- E' del mulo, continuava a scalciare per
levarsi dalla stretta del legno e quindi si
segava la carne. Non era possibile liberarlo e
io non potevo stare sotto la minaccia di
quella zampa ferrata. Non ti ho detto che ho
dovuto scendere dalla cabina? E' per questo.
S'udì il ruggito d'un aereo basso, un
bagliore rossastro risplendette all'improvviso
sulla pista, subito concluso da una
esplosione sorda e seguito dallo sgranarsi di
secchi colpi di mitragliatrice.
- Il pater noster e l'ave maria: incomincia
il rosario - borbottò l'autista.
- Ho capito subito che hai uno spirito
profondamente religioso - gli disse
Perbellini.
- Sono toscano - rispose quello a breve
chiarimento; e con violenza sterzò di colpo
per evitare la buca scavata sulla pista dalla
bomba esplosa.
Una seconda bomba poco dopo rovesciò
sulla neve un autocarro e per oltre un'ora la
colonna fu sottoposta al tiro di aerei russi
che l'avevano individuata nella notte lunare.
- Che ore sono? - chiedeva ogni tanto
l'autista agli ufficiali.
- Le tre.
- Le quattro.
- Se non mi sbaglio - disse ad un tratto
l'autista mentre l'autocarro attraversava un
abitato - andiamo verso Kantemirowka.
Perbellini aveva una bussola, la osservava
e andava ripetendo: - Da mezza giornata
stiamo andando verso sud. Dove ci portano?
- Questa volta all'inferno, signor tenente -
interveniva l'autista - credete a me, non mi
sono mai sbagliato finora; mai. Siamo già
morti. Amen - concludeva.
Sugli autocarri tutti gli uomini lottavano
con l'insidioso torpore dell'assideramento;
dovevano continuamente agitarsi, sfregare,
massaggiare tutte le parti del corpo, ma un
tale sforzo in apparenza lieve diveniva presto
insostenibile. I muli non davano da tempo
alcun segno di vita. L'aria era tanto fredda
che pareva avere una consistenza liquida;
l'invisibile nemico assediava i corpi
essendosi già abbrancato alla pelle, agli arti,
alle labbra, pronto ad affondarsi
definitivamente azzannando il punto più
debole, spirito o carne che fosse.
A un certo punto sopraggiunse su una
piccola automobile il tenente Gianfranco Di
Nemi; vecchio amico di Serri, valoroso
ufficiale di collegamento al Comando di
reggimento, s'era distinto per il suo coraggio
durante tutta la campagna d'Albania. Alto e
asciutto, sempre pronto all'azione, quando
seppe da Serri che molti artiglieri rischiavano
l'assideramento su quegli autocarri scoperti,
si prodigò da quel momento in poi a far la
spola tra la colonna e il più vicino paese,
guidando pazzamente la sua automobile
sulla pista ghiacciata, a porre in salvo nelle
isbe i soldati che erano prossimi a morire di
gelo sugli autocarri.
L'interminabile notte si dissolse alfine in
una pallida aurora e a questa affidò gli
uomini e gli animali in parte vivi e in parte
stecchiti.
All'improvviso, alle sei, incontrando un
gruppo di isbe, la colonna si fermò, artiglieri
e alpini scesero barcollando. Tremavano e
sembravano vecchi cadenti, ma
s'inquadrarono e si contarono: seppero di
essere ridotti a circa duecento, la spaventosa
notte aveva dimezzato l'organico del reparto.
Buona parte degli autocarri s'erano
dispersi durante il viaggio disseminando
nella steppa uomini congelati e assiderati,
muli impazziti, viveri preziosi. A conti fatti il
capitano Reitani disponeva solamente di
neppure sessanta artiglieri, tre pezzi, molte
cassette di munizioni, due mitragliatrici,
quattro slitte e nove muli.
Il paese si chiamava Mitrofanowka:
scarsa popolazione rintanata nelle isbe e
nessuna traccia di soldati.
Il maggiore Amerri diede ordine che la
truppa entrasse nelle isbe a riscaldarsi e che
alcuni ufficiali girassero per il paese in ogni
direzione per rintracciare la sede del
Comando locale.
Reitani e Serri s'avviarono lungo le
strade, di fianco a un edificio scorsero un
autocarro militare col motore in moto, senza
autista. Entrarono nella casa e un tepore
lungamente desiderato li avvolse. Risero
constatando che entrambi, in luogo caldo,
avevano cominciato a battere violentemente
i denti.
- Finalmente si vede qualcuno - disse
Serri indicando nella penombra un piantone
che dormiva su una panca.
- Non svegliarlo subito - suggerì Reitani -
aspettiamo finché ci passa questo ridicolo
battere di denti.
Ma come il tremito della mascella era
incoercibile, il capitano stesso si rassegnò a
svegliare il soldato che diede un sobbalzo e
squadrò i due ufficiali con aria spaventata.
- C'è qualche ufficiale? - gli chiese
Reitani.
- Sì - rispose il soldato. - Di che divisione
siete?
- Julia.
Gli occhi dell'uomo si dilatarono.
Balzò in piedi, disse un frettoloso: - Torno
subito - e si mise a correre lungo il corridoio
gridando a perdifiato:
- La Julia! La Julia!
S'affacciò subito a un uscio un colonnello
di Stato Maggiore che con fare concitato fece
entrare i due ufficiali in una stanza
tempestandoli poi di domande. Aveva le
palpebre arrossate e i modi di fare dell'uomo
in preda ad un orgasmo incontenibile.
- E così, siete qui finalmente, la Julia è
arrivata! - concluse traendo un profondo
sospiro di sollievo; - avverto subito il signor
generale.
- Non è esatto, signor colonnello
- rettificò Reitani - siamo giunti soltanto in
duecento, la nostra Divisione è ancora in
linea sul Don, sopra Rossosch.
- Non importa, non importa - disse quasi
seccato il colonnello - voi già siete la Julia,
questo è l'importante.
E bussato alla porta di una stanza entrò
rapidamente.
Il piantone in quel punto introdusse il
maggiore Amerri e qualche altro ufficiale del
reparto di formazione.
Rientrò il colonnello, che parve
visibilmente rinfrancato nel vedersi attorno
diversi ufficiali. Non rilevò in alcun modo il
loro deplorevole stato.
- Come sapete - disse subito - la
situazione è delicatissima e fluida, ma per
fortuna ora siete arrivati voi, e...
- Manchiamo di ogni notizia - lo
interruppe il maggiore Amerri - vorrei
appunto precise informazioni.
Era un uomo di media statura, tarchiato,
taciturno, forse anche un po' burbero; ma nei
giorni duri aveva sempre dato prova di un
ferreo controllo mantenendo in ogni caso
chiarezza di vedute, prontezza di decisione e
ascendente sui soldati.
- Certo, certo, - rispose frettolosamente il
colonnello, - tutte le notizie, certo.
Situazione delicatissima e fluida, dicevo. C'è
grande bisogno di soldati di ferro come sono
gli alpini. Il signor generale conta moltissimo
su di voi... Ha qui il suo provvisorio
Comando tattico... E' stato inviato qui con
me per dare gli ordini più urgenti e prendere
le prime contromisure... Ma dobbiamo
rientrare al più presto per riferire al nostro
Comando... Il settore ormai è di pertinenza
della Divisione Julia e siamo sicuri...
- Scusate - interruppe nuovamente il
maggiore Amerri - qual è l'attuale situazione
del fronte in questo settore?
- La situazione del fronte...? Ma allora
non sapete proprio nulla...? - chiese il
colonnello di Stato Maggiore con evidente
imbarazzo. Sedette, tamburellò per un
istante con le dita sul piano del tavolo, si alzò
nuovamente, guardò verso la porta chiusa e
disse con voce incolore: - Signori... in questo
settore il fronte praticamente non esiste...
almeno da parte nostra. Non lo sapete?
Gli ufficiali si guardarono in silenzio.
- I russi - continuò il colonnello a bassa
voce - cinque giorni fa hanno attaccato la
Cosseria e la Ravenna
che tenevano questo settore di fronte,
sono riusciti a sfondare e a portarsi dietro
alle prime linee, privandole quindi dei
magazzini di munizioni e viveri. Hanno
manovrato con tre interi Corpi d'Armata
corazzati, hanno travolto le nostre due
divisioni ed hanno proseguito penetrando
profondamente nel territorio controllato
dalle nostre forze; non sappiamo con
esattezza dove ora siano i russi e quali
obiettivi vogliano raggiungere. Ignoriamo la
sorte del ventiquattresimo Corpo d'Armata
corazzato tedesco che era corso in appoggio.
Qui comunque non esiste più una linea,
temiamo che i russi stiano per lanciare
attraverso questo varco altre forze... E'
appunto compito vostro tamponare la falla.
- Che lunghezza di fronte tenevano le due
divisioni? - chiese il maggiore.
- Una quindicina di chilometri ciascuna -
rispose il colonnello.
- Sono giunti altri reparti di rincalzo?
- No.
- Siamo in duecento uomini - disse con
pacatezza Amerri. E le parole pesarono tanto,
che per un lungo tempo nessuna voce ruppe
il silenzio.
- L'intera divisione Julia sta trasferendosi
qui - riprese poi il colonnello. - Voi siete i
primi a giungere e sarete impiegati subito.
- Con che mezzi si trasferisce la nostra
divisione? - chiese Amerri.
- Per via ordinaria. A piedi, purtroppo -
ammise il colonnello.
- Impiegherà moltissimi giorni.
- Lo so, ma non si può fare altro di
meglio. Intanto ho ordini per te, e per il tuo
reparto. Parlo in presenza dei tuoi ufficiali, è
bene che si rendano subito conto della
situazione.
Vi terrete pronti a partire in direzione di
Thaly, ove pare che esista ancora un nostro
reparto, ma non abbiamo notizie precise. Si
tratta di resistere a oltranza. Ora attenderete
conferma dell'ordine di partenza, poiché la
situazione cambia di minuto in minuto.
Arrivederci.
- Avverto che non abbiamo viveri - disse il
maggiore; - l'autocarro che li portava è
rimasto immobilizzato presso Rossosch.
- Spiacente, ma non possediamo nulla da
mettervi a disposizione, abbiamo già
incendiato tutti i magazzini di questa zona
che non sono caduti in mano ai russi -
rispose il colonnello.
- Molti miei uomini sono senza cappotto
foderato di pelliccia e il freddo e terribile. Ne
avete?
- Dovevate arrivare prima - disse il
colonnello; - ieri sono stati bruciati anche i
depositi di vestiario.
Se giungevate ier l'altro trovavate anche i
cappotti a pelo.
Parve quasi seccato che la conversazione
l'avesse trascinato a trattare banali
argomenti d'equipaggiamento.
Fece un dietrofront, bussò all'uscio ed
entrò dal generale.
Storditi dal sonno, eccitati dalle notizie gli
ufficiali uscirono nel gelo. La fame e la
stanchezza divoravano le loro energie
facendo sentire più accanito il morso del
freddo; camminavano sulla neve come
sonnambuli.
- Non mi aspettavo una fine di questo
genere - disse Perbellini.
La neve cigolava sotto le scarpe chiodate;
era l'unica risposta.
Giunti presso le isbe in cui s'erano
rifugiate le truppe, il maggiore Amerri disse
agli ufficiali: - Rendete noto ai vostri alpini il
compito che ci attende; elencate gli uomini e
i materiali che avete a disposizione;
controllate l'efficienza degli autocarri;
recatevi a turno da quel colonnello per
mantenere il collegamento e riferite ad ogni
mezz'ora.
Io cercherò di provvedere qualcosa da
mangiare, se è possibile. Non ho bisogno di
farvi particolari esortazioni; in ogni caso
compiremo il nostro dovere fino in fondo. Da
alpini.
La mattinata passò. Il sergente Sguario,
aggirandosi per il paese in caccia di notizie
assieme ad alcuni uomini del suo quarto
pezzo, era riuscito a rintracciare due fanti
della Ravenna che avevano raggiunto
Mitrofanowka provenendo dal fronte.
- Che fronte? - avevano detto aspramente
i due alle prime interrogazioni. - Non c'è più
fronte; al posto di due Divisioni c'è solo un
buco e i russi che vengono avanti.
- E i soldati delle due divisioni? - avevano
chiesto gli alpini.
- Morti in combattimento, fatti
prigionieri, morti di freddo... Non c'è più
nessuno - avevano risposto con cupa voce i
due fanti. Erano stracciati, sfiniti; uno non
aveva scarpe, ma stracci legati ai piedi.
- E voi?
- Noi che cosa?
- Come avete fatto a ritirarvi fino a qui?
- Non sappiamo neppure noi. Siamo qui,
ecco tutto. Dovevamo cadere in mano dei
russi, ma invece siamo qui.
Ci sono altri soldati nostri in giro per la
steppa e non sanno dove andare.
Forse qualcuno arriverà fino qui. Avete
qualche cosa da mangiare, alpini?
- Niente. Da due giorni non mangiamo
nemmeno noi. Avete provato a chiedere al
Comando?
- Sì, ci hanno risposto di andare in
malora.
- Dove pensate di andare, adesso?
- Andremo davvero in malora,
sacramento di Dio! E voi dove credete di
andare, voi?
- Noi siamo arrivati questa mattina e
aspettiamo l'ordine di partire per Thaly.
- Per dove?
- Per Thaly, ci hanno detto.
I due avevano riso, forte, guardandosi
negli occhi come a scambiarsi pensieri noti
soltanto a loro.
- A Thaly!?! - sghignazzavano; e parevano
divertirsi. - Ma se veniamo noi, da Thaly!
Ammazzatevi qui, è la stessa cosa!
- Disgraziati che siete - aveva aggiunto il
meglio in arnese dei due alzando la voce e
quasi indignato.
- Non sapete che a qualche chilometro ci
sono i russi e che prima di notte arriveranno
anche qui? Che vi piombano addosso coi
carri armati quando meno ve l'aspettate?
Non sapete ancora come va questa faccenda,
ma ve ne accorgerete presto! Tanti saluti e
auguri, noi ce ne andiamo.
E s'erano subito incamminati sulla neve,
doloranti pagliacci grigioverdi, sulla pista
dalla quale erano giunti gli alpini.
- Gente finita - aveva detto ai suoi uomini
il sergente Sguario seguendo con l'occhio i
due che si allontanavano. - Ma bisogna
tenere gli occhi bene aperti, perché c'è in giro
puzzo di morto.
Alle quattordici il colonnello chiamò a
rapporto il maggiore Amerri e gli ufficiali
alpini.
- E' stato deciso che partirete subito con i
vostri uomini - disse; - usufruirete degli
automezzi che vi hanno condotto fino qui.
L'obiettivo da raggiungere non è più Thaly,
poiché tutta la strada per Thaly in queste ore
è già stata occupata dai russi. Ti consegno
questa carta topografica, maggiore. Uscendo
da Mitrofanowka dalla pista est troverete un
posto di blocco sorvegliato da due
carabinieri.
Vi avverto che oltre quel posto di blocco il
territorio non è più controllato, potete
trovare ad ogni passo qualunque sorpresa.
Fate attenzione, procedete con ogni misura
di sicurezza poiché non ci risulta fino a che
punto le forze russe si siano infiltrate.
Strada facendo cercate di superare ogni
eventuale resistenza poiché l'obiettivo che vi
viene fissato è Jvanowka, verso il Don, un
paese che nell'attuale momento è il centro
nevralgico della situazione di questo settore.
Vostro compito è quello di attardare fino
all'estremo l'avanzare in massa delle truppe
russe; raggiunta Jvanowka vi impadronirete
ad ogni costo del paese, vi attesterete a
caposaldo e resisterete ad oltranza sul posto
fino all'ultima cartuccia. Chiaro? Non è
escluso, maggiore, che possiate incontrarvi
con qualche elemento del ventiquattresimo
Corpo d'Armata corazzato germanico tagliato
fuori dalla battaglia, o in qualche residuo di
reparto italiano. In questi casi riunite tutte le
forze in un unico reparto di formazione e il
comando sarà assunto dall'ufficiale più
elevato di grado. Voi comunque da questo
momento risultate aggregati al 24° Corpo
tedesco, alle dipendenze del generale Eibl,
prima o poi verrete pure a contatto con
questi tedeschi. Noi - concluse - alla vostra
partenza non potremo più mantenere il
collegamento con voi, il nostro è un
Comando tattico mobile, deve subito
arretrare e non mantiene comando di reparti;
però vi assicuro che il Comando della
divisione Julia verrà informato del vostro
impiego. Ora vi consegneremo un po' di
carburante e cento pagnotte, è quanto
possiamo darvi. Il signor generale è certo di
poter contare sul vostro senso del dovere. In
bocca al lupo!
Poco dopo, la breve colonna formata da
una dozzina di autocarri s'avventurava verso
la terra di nessuno.
Al posto di blocco due carabinieri dagli
occhi sbarrati alzarono il palo trasversale e
gli autocarri infilarono la pista che
conduceva verso est. Sulla distesa di neve
quasi subito gli alpini videro che a poche
centinaia di metri quattro carri armati
venivano incontro sulla stessa pista. I carristi
spuntavano a mezzo busto dalle torrette o
stavano tranquillamente seduti sul tetto e
indossavano tute bianche. Gli autisti della
colonna poggiarono prudentemente
sull'estremo margine della pista e
arrestarono le macchine volendo porsi al
sicuro da eventuali collisioni. I carri erano
quasi completamente incappucciati di neve,
ma Pilòn sgranò gli occhi dicendo: - Sotto la
neve ghe xe una stella rossa.
- Tàsi, stralòcio - lo rimbeccò Scudrèra.
Nell'incrociare gli autocarri, i carristi
agitavano le braccia e scambiavano cenni di
saluto con gli alpini, come a incuorarli con
ampi gesti a proseguire verso est donde i
carristi giungevano. All'altezza del posto di
blocco i carri armati si fermarono, aprirono
all'improvviso un violento fuoco con le armi
di bordo puntate su Mitrofanowka.
Sparavano probabilmente con granate
incendiarie, poiché subito si videro alcune
isbe in preda alle fiamme. Trovandosi a
ridosso dei carri, i due carabinieri colti alla
sprovvista si erano dati a correre a perdifiato
sulla neve.
- I xe i russi, i xe i russi signor tenente! -
gridava a Serri Scudrèra dall'alto
dell'autocarro, imbracciando il fucile.
La macchina di testa che portava il
maggiore proseguì sulla pista trascinandosi
dietro la colonna.
Fu chiaro allora a tutti gli uomini che il
reparto andava ciecamente allo sbaraglio.
XVI
L'artigliere alpino Covre, che al rientro
della divisione in Italia aveva sostituito Prati
nelle mansioni di attendente di Serri,
allorché gli autocarri raggiunsero una
depressione del terreno e gli uomini
perdettero di vista le minacciose sagome dei
carri armati, estrasse dallo zaino la pagnotta
ricevuta in partenza e con un sorriso non del
tutto sereno disse all'ufficiale medico:
- E' meglio mettere al sicuro il pane,
prima che rispuntino quei bestioni. Ho preso
io anche la vostra razione, signor tenente, c'è
mezza pagnotta a testa, la mangiamo. - Fece
due o tre tentativi di spezzare il pane con le
mani, ma con grande disappunto non vi
riuscì. Appoggiò la pagnotta a un ginocchio e
premette inutilmente con tutte le forze.
- Questa è bella! - esclamò sconcertato
rigirando il pane e guardandolo con sdegno.
Aveva mani enormi, forti e dure come mazze,
proporzionate alla statura gigantesca. Nella
batteria era nota una sua prerogativa:
quando montava la tenda di Serri e non
aveva a portata di mano un martello, con
tutta indifferenza usava conficcare i picchetti
nel terreno tempestandovi sopra col pugno
nudo. La mano spesso sanguinava ma le
asticciole di legno affondavano
immancabilmente nel suolo della steppa.
- Niente da fare, Covre - disse Coltrin, il
puntatore del primo pezzo, che aveva seguito
gli sforzi dell'attendente. - Per romperlo devi
adoperare la baionetta come ho fatto io, e poi
non riesci lo stesso a tirarne via un boccone,
ti saltano i denti e quello resta com'è. E' di
pietra ormai, per il gelo. Non vedi che
nessuno ne mangia? Non si riesce. E' la
Russia: bisogna tenersi la fame col pane in
tasca.
La fame era grande, sugli autocarri, ma i
duecento uomini davano poco ascolto ai suoi
richiami. La colonna procedeva superando
una incessante serie di collinette, dietro
ognuna delle quali era necessario supporre la
presenza del nemico in agguato. Il pensiero
dei quattro carri da poco perduti di vista non
lasciava il cervello degli uomini.
Più e più volte il maggiore Amerri fermò
la colonna ed avanzò a piedi, ed ogni volta gli
uomini imbracciavano le armi. Tutti
sapevano che il cadere in una imboscata
significava lo sterminio della colonna.
Il giorno, stendendo lunghe dita d'ombra
sulla neve, volgeva a sera.
In vista d'un paese la colonna s'arrestò,
una pattuglia venne subito mandata in
esplorazione.
Passò una voce:
- Capitano Reitani in testa.
Quando il capitano ritornò disse in
disparte a Serri:
- Siamo a Krinitzschnaia, sulla nostra
carta non è segnata, la pattuglia ha riferito
che il paese è abbandonato. Da due ore
siamo nel vuoto.
Il maggiore è preoccupato perché la carta
topografica è imprecisa. Ci siamo spinti
molto innanzi e Jvanowka non dovrebbe
essere lontana.
- E ai soldati:
- Nervi a posto e occhi aperti, ragazzi.
Presto saremo a Jvanowka.
Nessuno spari senza ordine.
Ripartiti gli autocarri, la tensione
aumentò. Sul ciglio delle colline la sera
disegnava incerte ombre che parevano
sagome d'uomini appostati. Sugli automezzi,
silenziosi nel gelo i combattenti subivano il
sottile orrore di sentirsi trascinati sempre
più addentro nella insidiosità della terra
nemica, mentre un crescente spazio separava
ormai da ogni speranza d'appoggio.
La colonna, superato un tratto di pista
incassato fra due colline, sbucò e subito
s'arrestò su un pianoro sul quale sorgevano
alcune isbe. A lato della pista, accanto a un
paletto di sostegno, un cartello indicatore
giaceva nella neve. Portava scritto:
Jvanowka.
- Scendere dagli autocarri - fu l'ordine; -
avanti due mitragliatrici.
Pattuglie di tre uomini avanzarono per
saggiare la situazione. Presto una pattuglia
ritornò.
- Nel gruppo d'isbe non c'è nessuno -
riferì il sergente Bartolan - ma duecento
metri più in là c'è il paese.
E' sparso e grosso.
Altre due pattuglie rientrarono riferendo
di non aver rilevato cenno di vita umana.
- Troppo comodo... - mormorò scuotendo
la testa il sergente Bo, capo-pezzo del 3°
pezzo; - c'è sotto qualcosa.
Gravitava un silenzio pesante;
l'ossessione di una invisibile presenza ostile
angosciava l'anima dei duecento uomini.
Il reparto venne suddiviso in tre gruppi
che furono inviati a occupare tre punti alle
estremità del paese, ove furono anche
piazzati i tre pezzi della ventisei. Quasi un
quarto del paese veniva così bloccato. Gli
uomini, eccetto quelli di guardia, entrarono
nelle isbe.
- In questa isba stabiliamo il Comando
della ventisei - disse Reitani a Sorgato; e
l'anziano artigliere, un tempo addetto alla
mensa ufficiali e in quei giorni incaricato del
servizio rancio della batteria, oltre che essere
attendente di Reitani, entrò nella capanna e
quasi subito uscì reggendo un trombone.
- Signor capitano - gridò eccitato - la cena
di questa sera si salta, non c'è niente da
mangiare, ma dopo cena vi faccio sentire io
se so suonare o no!
Entrarono.
Appesi a una rastrelliera stavano in
perfetto ordine gli strumenti a fiato di una
banda militare.
- Sono gli ottoni della banda di un reparto
italiano - disse Reitani a Serri. - Gli
strumenti portavano inciso il nome di un
reggimento della divisione che aveva tenuto
la zona.
- Sono allineati e intatti - osservò il
medico guardando gli strumenti.
- Già. Vuoi imitare Sorgato, dopo cena? -
chiese Reitani celiando.
- Non pensavo a questo - rispose Serri: -
penso che se i russi fossero già entrati qui,
indubbiamente non avremmo trovato gli
strumenti ancora a posto.
- Giusto. Ma con questo?
- Se qui è rimasto tutto intatto, non è da
escludere che in un'altra isba sia rimasto
qualcos'altro, un deposito di armi o di viveri
per esempio...
- Oh...! se è così - gridò Sorgato entusiasta
- io riesco a cucinare il rancio anche nel
trombone!
Reitani guardò l'orologio.
- Voglio controllare la sistemazione degli
uomini e dei pezzi. Se mi accompagni -
propose a Serri - al ritorno possiamo dare
un'occhiata nelle isbe, anche perché il grosso
del paese è stato ispezionato frettolosamente
e non sono tranquillo. Le nuvole coprono la
luna e c'è troppo buio per fidarsi di questo
silenzio.
Visitati gli uomini e perlustrate le
postazioni dei pezzi, facendosi luce con un
lanternino a petrolio i due ufficiali
s'accinsero a ritornare al Comando di
batteria. Soffi di vento raschiavano la
candida superficie gelata, sollevando un
pulviscolo che si attaccava liquefacendosi sul
globo di vetro della lampada. L'oscurità
dominava su Jvanowka, annullando nel buio
le isbe. I due uomini camminavano
guardinghi affondando fino al ginocchio
nella neve, ogni tanto la fioca luce del
lanternino faceva intravvedere i contorni di
un'isba; allora entravano e in ognuna
appariva un unico spettacolo di abbandono:
paglia sparsa, panche rovesciate, scatolette
vuote, vecchie lettere disperse che il vento
muoveva sul pavimento entrando dalle porte
scardinate e dalle finestre senza vetri.
Era una visione desolante: dovunque
tracce del povero vivere dei soldati sospinti
via all'improvviso dalla furia della guerra;
rimanevano quelle misere cose, quei
caricatori senza pallottole, quelle scarpacce
sgangherate che sarebbero marcite a poco a
poco dopo aver coperto per lungo tempo,
chissà per quali strade, un piede enfiato dal
cammino e illividito dal freddo.
Quanto più i due ufficiali gettavano lo
sguardo, passando da isba a isba, su quei
residui di grama vita, tanto meglio si
precisavano le tinte della tragedia che era
passata su Jvanowka. Sempre più
agghiacciante era l'impressione, nel frugare
tra quei relitti, di stare profanando miserrimi
sepolcri scoperchiati. A fianco dei due
giovani, innumerevoli spettri di soldati in
grigioverde cominciarono allora a marciare
con terrificante lentezza; tacite legioni in una
parata allucinante vagavano nel buio dinanzi
agli occhi stanchi dei due uomini: poiché
questo era il significato estremo delle cose
rimaste ad Jvanowka.
- Italo - disse improvvisamente Reitani
arrestandosi e accennando al chiarore che
trapelava da un'isba - non dovrebbe esserci
quella luce: non abbiamo occupato questa
parte del paese, qui non esistono soldati
nostri.
S'avvicinarono alla capanna,
s'accostarono alla finestra illuminata ma non
riuscirono a vedere nell'interno.
Sospinsero lentamente la porta,
entrarono nel piccolo vano che spesso nelle
isbe serve da vestibolo. Reitani impugnò la
rivoltella, Serri socchiuse con cautela la
seconda porta; dallo spiraglio intravvide
nella stanza molti uomini seduti a vari tavoli.
- Soldati in divisa italiana - sussurrò
all'orecchio del capitano.
- Sicuro? - chiese Reitani.
- Almeno mi sembra.
- Cosa fanno?
- Niente. Entriamo?
- Entriamo - rispose Reitani.
Serri sospinse la porta, il capitano con
uno strattone lo trattenne per un braccio e
rapidamente gli passò innanzi entrando per
primo nella stanza.
All'improvviso apparire dei due ufficiali
non successe assolutamente nulla,
nemmeno uno dei presenti accennò a volgere
il capo. Il capitano e il medico si
scambiarono una svelta occhiata e si
guardarono intorno.
Era una stanza fumosa, abbastanza vasta,
stipata di tavoli, sedie e uomini. Due o tre
scatolette di pomata anticongelante su cui
galleggiava uno stoppino acceso appestavano
l'aria e diffondevano un fumigante chiarore,
in lotta con le ombre intanate negli angoli,
alle pareti e sul soffitto. Una quarantina
d'uomini sedevano ai tavoli poggiando sui
gomiti, e con la testa fra le mani; o col viso
sul legno, o addirittura stavano accucciati per
terra o sdraiati sotto i tavoli e le panche.
I due ufficiali si accostarono all'uomo più
vicino, che seduto a un tavolo guardava con
fissità dinanzi a sé.
- Chi siete? - gli domandò Reitani
ponendoglisi a fianco.
L'uomo girò con lentezza il capo, guardò
in viso l'ufficiale e gli tenne lo sguardo
addosso come se non avesse inteso.
- Di che reparto siete? - chiese ancora
Reitani.
L'uomo continuò a guardarlo.
- Sei muto? - disse a voce alta l'ufficiale,
contrariato.
Quello distolse senza fretta lo sguardo dal
volto del capitano.
Serri si chinò a un secondo soldato, gli
poggiò una mano sulla spalla e chiese:
- Di che reggimento sei?
L'uomo levò il volto e guardò il medico,
un'ombra fuggevole di sorriso gli sfiorò i
lineamenti, abbandonò la testa all'indietro
come svenisse, si accasciò sulla sedia e riaprì
gli occhi tenendoli fissi al lucignolo che
scoppiettava sul tavolo. Sullo stesso tavolo il
medico notò la mano di un altro soldato,
fasciata da un lurido straccio da cui colavano
stille di sangue. S'avvicinò, sollevò
l'avambraccio del soldato, svolse il panno e
vide una ferita larga, dai margini bluastri,
appiccicosi per un putrido umore. Il soldato
trasse a sé il braccio.
- Sono un medico, ti curerò - gli disse
Serri sostenendogli il polso.
Al nuovo contatto l'uomo diede uno
strattone e con volto indifferente infilò la
mano ferita e nuda nella tasca della giubba.
- Ma insomma, siete italiani o cosa siete?
- gridò impaziente a quel punto Reitani,
rivolto a due soldati che ascoltavano le sue
domande senza rispondere.
Al grido rispose un gemito lungo ma
tranquillo, come di persona stanca di
soffrire.
Gli ufficiali scavalcarono alcuni uomini a
terra e s'avvicinarono a colui che aveva dato
segno di vita.
- Mi vuoi dire chi siete? - gli ripeterono
due o tre volte gli ufficiali.
Infine le labbra dell'uomo accennarono a
muoversi e una voce fioca mormorò:
- Prigionieri... russi.
- Come? - esclamarono
contemporaneamente gli ufficiali.
L'uomo li guardò con occhi smarriti e
disse con maggior stento: - Prigionieri...
russi.
- C'è un ufficiale, qui? - gli chiese Serri.
Il soldato rimase perplesso, si guardò
attorno, infine con un movimento del capo
accennò a un angolo della stanza.
Nell'angolo giaceva un uomo a terra, col
viso riverso sul pavimento.
- E' un maresciallo - disse Reitani
notando i gradi. Lo rovesciarono a faccia in
su, lo chiamarono, lo scossero
ripetutamente, ma quello non diede segno
d'intendere.
- Questo è morto - esclamò sconsolato
Reitani.
- No - disse Serri - dorme.
Mentre nessuno lo toccava, il maresciallo
diede all'improvviso un sussulto e aprì gli
occhi sbarrandoli con un'espressione
angosciata.
- Mamma... - biascicò vedendo i due
sconosciuti chini su di lui; e con un rapido
moto portò la mano alla fondina della
pistola. Serri, più vicino, gli bloccò la mano e
s'avvide che la custodia era vuota.
- Non preoccuparti - gli disse
sollevandogli la mano e stringendogliela fra
le sue - siamo italiani.
Il maresciallo li fissò in viso e sui
lineamenti del volto passò dapprima una
lunga traccia d'incredulità, poi una fugace
luminosità di speranza; infine tutto si spianò
lentamente, con lievi tremiti nervosi, e sul
volto dell'uomo calò l'inerte maschera degli
altri. Aveva provato a sollevarsi, ma s'era
abbandonato di nuovo sul pavimento.
- Puoi parlare, maresciallo? - chiese Serri.
- Sì - accennò quello col capo.
- Di che reparto siete?
In risposta, riecheggiando disperse
lontananze d'orrore, rauca d'angoscia e
d'allucinazione, una spaventevole voce
mormorò:
- Cosseria.
- Siete soli, qui? - chiese Reitani.
- No. Ci sono i russi - rispose il
maresciallo.
- Non è vero, non ci sono - affermò con
decisione il capitano.
- Ci sono - disse stancamente il
maresciallo. - Vanno e vengono. Saranno qui
anche adesso... ci portano via...
- Puoi fare uno sforzo e raccontarci per
bene quello che è successo? - domandò Serri.
- E' importante. Mettiti a sedere, ti aiutiamo.
- Combattimenti continui per due giorni -
cominciò a dire con grande stento il
maresciallo, seduto a terra, appoggiandosi
alle braccia dei due ufficiali che non
perdevano un movimento delle labbra livide
- combattimenti continui. Noi sul Don e i
russi che vogliono venire nei nostri rifugi.
Abbiamo combattuto da disperati sul Don,
ma sapevamo che nelle retrovie nostre
c'erano i carri russi...
Ansimava, sudava; si passò una mano
sulla fronte e sugli occhi.
- E poi? - lo incitò Reitani.
- Non avevamo più munizioni, i russi
hanno attaccato anche di fronte, sono passati
di qua dal Don, nelle nostre linee. Chi si è
salvato è qui. -
E si guardò intorno.
- Neppure un ufficiale si è salvato, del
vostro battaglione? - domandò il capitano.
- Allora sì, tre. Adesso no, tutti morti. Vi
racconto...
Faticava a parlare, fu costretto a una
pausa.
- In quanti siete venuti qui, dalla linea? -
chiese Reitani.
- In duecento. Gli altri del battaglione
tutti morti. Tre ufficiali vivi con noi. L'altro
giorno...
- L'altro giorno c'erano soldati di altri
reparti qui a Jvanowka, oltre i vostri
duecento?
- Sì, pochi, di reparti distrutti in linea.
- L'altro giorno, dicevi...
- Sono venuti qui i russi, con i carri
armati. Fanno puntate di carri, con le truppe
sul tetto. Quaranta carri, non avevamo una
pallottola per il fucile... - si coprì il viso con le
mani, scosso da un tremito incoercibile.
- E poi? - incalzò Reitani - sai, è
necessario che sappiamo, per regolarci su
cosa dobbiamo fare.
- Non c'è più niente da fare - disse il
maresciallo. - Sono stato un buon soldato, vi
dico che non resta più niente da fare.
- Faremo qualcosa per voi, se possiamo.
Raccontaci - disse Serri.
- Hanno occupato il paese, siamo stati
fatti prigionieri. Ci hanno portato via tutti.
- E voi?
- Noi abbiamo dovuto andare coi russi,
noi a piedi e loro sui carri che circondavano i
prigionieri. Quando qualcuno di noi non
correva abbastanza o cadeva...
- Dove vi hanno portato?
- Verso il Don. Ma ieri notte sono riuscito
a scappare con gli uomini che sono qui
dentro. Ma è stato inutile.
- Perché inutile?
- Moriremo tutti, anche voi... Vengono a
Jvanowka ogni qualche ora.
Quando siete arrivati voi, oggi, se n'erano
andati da mezz'ora, trenta carri armati.
- Ci avete visto arrivare? - chiese Reitani
sorpreso. - Perché non vi siete fatti vivi?
- Credevamo che foste russi.
- Se non perdevamo tempo a
Krinitzschnaja - disse il capitano a Serri - qui
trovavamo i russi ad accoglierci...
- Sai con che carri vengono? - chiese Serri
al maresciallo.
- I soliti «T 34». - Si portò una mano alla
gola e sembrò sul punto di perdere i sensi.
- Bisogna cercare di portare indietro
questi soldati, Ugo - disse Serri; - non si può
lasciarli qui in queste condizioni. Vogliamo
tentare con un autocarro...?
- Sto appunto pensandolo - rispose
Reitani. E al maresciallo, che aveva
riaperto gli occhi: - Cosa pensate di fare, voi?
- Non si può fare più niente - rispose
l'uomo con voce rotta. - Guardatevi in giro... -
E con la mano tremante indicava i compagni.
Il chiarore rossigno batteva sui volti
scavati, dalle lunghe barbe, e scendeva al
grigioverde delle giubbe lacere disperdendosi
poi nella stanza fra l'ombre della zona più
bassa, ove i corpi s'accatastavano sul
pavimento.
- Da quanto non mangiate?
- Non so, non so più... - E senza un
movimento o un gemito il sottufficiale a quel
punto svenne, rimanendo addossato ad un
altro soldato che non dava segno di vita.
Di buon passo arrancando sulla neve, i
due ufficiali si recarono dal maggiore Amerri,
ottennero che un autocarro caricasse quegli
uomini estenuati e tentasse di portarli a
Mitrofanowka. Seppero che era arrivato un
reparto sciatori del famoso battaglione
d'alpini Monte Cervino, che insieme con i
valorosissimi uomini del battaglione
L'Aquila e a elementi di un'altra batteria, la
sessantotto, tutti della Julia, completava il
reparto di pronto intervento. Anche un
centinaio di tedeschi, residuo di un grosso
reparto sbaragliato, erano giunti a Jvanowka.
Li comandava un colonnello che, secondo gli
ordini, aveva preso il comando dello sparuto
gruppo italo-tedesco.
- Hanno qualche automezzo, una
«katiuscia» con poche munizioni e due carri
armati.
- Meno male - esclamò Reitani.
- Non farti illusioni, - disse il maggiore -
un carro è giunto rimorchiato dall'altro
perché è guasto, e tutt'e due sono senza
munizioni. Per ora non c'è niente da fare, se
non stare in guardia; domattina vedremo. Vi
consiglio di tornare in batteria, vi aspetta una
sorpresa. Riposate un poco, perché domani
sarà giornata decisiva.
- E' il terzo giorno che passiamo senza
mangiare - diceva poco dopo Reitani
camminando e rabbrividendo nel buio; -
come ti senti, Italo?
- Credo che il mio stomaco si sia
agganciato a una vertebra lombare.
Sta lì, per intanto.
- Speriamo che Sorgato e Covre abbiano
fatto sgelare la nostra mezza pagnotta,
andrebbe bene prima di addormentarci.
Entrando nell'isba ebbero l'impressione
di trovarsi in un ambiente tiepido, tanto era
il gelo esterno. In un angolo della stanza
scorsero subito un mucchio di paglia asciutta
su cui si lasciarono cadere con esclamazioni
di gioia.
- Bravi, ragazzi! - dissero agli attendenti
che sbirciavano gli ufficiali con aria sorniona.
- Non è tutto - disse Covre con un mezzo
sorriso.
- Avete scaldato il pane? - chiese Serri.
- Qualcosa di più... - cominciò a dire
Sorgato, e sollevando da terra un sacco vuoto
scoprì due pani, alcune scatolette di sardine e
una gavetta colma di vino.
- Chi ha trovato questa roba? - chiese
Reitani elettrizzato, rizzandosi a sedere sulla
paglia.
- Quel matto di Scudrèra, signor capitano.
Ha detto che voleva andare nella chiesa del
paese per recitarsi le preghiere dei morti ed è
tornato gridando come un indemoniato
perché nella chiesa aveva scoperto un
deposito di viveri. Questa è la vostra razione.
Abbiamo mangiato in duecento e abbiamo
sfamato anche i tedeschi. E pensare che non
volevamo toccare niente nella chiesa, s'era
sparsa la voce che era roba avvelenata...
- E allora? - chiese Serri.
- Allora Scudrèra ha detto che si
sacrificava per tutti e faceva la prova. E si è
attaccato a una damigiana di vino.
- Cosa gli è successo? - domandò il
capitano ridendo.
- Quando prendeva fiato tra una bevuta e
l'altra faceva una faccia indecisa, quel
manigoldo; noi lo guardavamo preoccupati e
lui diceva di non capire bene e si riattaccava
alla damigiana. Ha finito col non saperci dire
niente, perché si è ubriacato come un maiale:
diceva di bere vino e invece era cognac,
signor capitano.
- Date qualcosa da mangiare anche a noi,
subito - esclamarono i due ufficiali ridendo; -
sono già le undici di notte.
- Subito, vi facciamo due panini superbi -
dissero gli attendenti accostandosi a un
tavolo per aprire le scatolette e tagliare il
pane.
Quando si voltarono e s'accostarono alla
paglia con i panini, i due ufficiali giacevano
immobili uno accanto all'altro ad occhi
chiusi.
- I panini - disse Sorgato.
- La cena, signor tenente - disse Covre; e
quando s'avvide che il medico non
rispondeva, si chinò e gli scosse un piede,
ripetendo poi il gesto su Reitani.
- Sono andati - disse interdetto.
Con i panini in mano, i due attendenti
inginocchiati sulla paglia si consultarono con
lo sguardo.
- Li svegliamo? - domandò a voce bassa
Sorgato.
- Io li lascerei dormire, poveretti - disse
Covre; - loro non dormono da quando siamo
partiti dai rifugi, lo sai.
- E la cena?
- Mangeranno domattina quando si
sveglieranno.
- Se si sveglieranno... - brontolò Sorgato
fra i denti guardando gli ufficiali distesi.
- Cos'hai detto? - fece l'altro cambiando
espressione.
- Niente.
- Ti ho sentito, sai. Vuoi ripetere?
- Lo so io cosa ho detto - disse Sorgato
alzandosi. - Cose mie, non ti riguardano.
Chiudi la porta piuttosto, e mettiamole
contro il tavolo: non mi piace il vento di
questa notte.
- Si può sapere cos'hai? - disse Covre
scrutando l'amico con occhi allarmati.
Sorgato andò alla finestra, fissò lo
sguardo fuori dal vetro, si rigirò, osservò i
due ufficiali come ad assicurarsi che
dormissero e poi, poggiate affettuosamente
le mani sulle spalle di Covre disse:
- Quanti figli hai?
- Due - rispose l'altro dilatando gli occhi; -
perché?
- Io ne ho cinque, lo sai; ho fatto sei anni
di guerra, sono il più anziano della batteria, il
capitano aveva deciso che restassi nei rifugi a
Kuwschin, ma io ho voluto venire con lui e
con voi, perché in sei anni di guerra non mi
sono mai tirato indietro, Dio santo. Non sono
un vigliacco, voglio dire. Però sta' attento a
quello che ti dico: adesso andiamo a dormire
anche noi, ma prima di addormentarti
ricordati di pregare un poco la Madonna per i
tuoi figli e per te, ecco.
- Perché? Cosa pensi che succeda questa
notte? - chiese l'altro con ansia.
- Stanotte? Forse niente. Faccio così per
dire, per stare un poco allegri... Ora
sdraiamoci, ché spengo il lume. Se per caso
senti il più piccolo rumore svegliami subito,
capisci?
Covre grugnì qualcosa, poi i due si
accostarono agli ufficiali e li guardarono
dormire.
- Mi ghe metterìa una man, par portàrli
fòra da 'sto maledèto paese, poarèti... - disse
Covre.
- Invèxe, o i xe lòro a portàr fòra ti, o
nessùn altro al mondo - soggiunse l'anziano.
Si stesero sulla paglia accanto ai loro
ufficiali, dopo averli ricoperti con un telo.
Sorgato soffiò sul lume e subito si disegnò
nel buio il riquadro luminoso della
finestrella, poiché fuori la luna s'era fatta
largo fra le nubi.
Guardarono il chiarore in silenzio e a
lungo, poi Covre mormoro: - Sorgato...
- Cosa ghe xe?
- Come el se ciàma 'sto schifoso d'un
paese?
- El se ciàma... - cominciò Sorgato incerto,
accostando invano strane sillabe nella
memoria. - Adesso go sonno, non me
ricordo... te lo farò dire domàn dal
capitano...
Qui ogni voce tacque. Ma dentro il
cervello dell'anziano alpino un cattivo spirito
completò il pensiero e concluse: - ...in
Paradiso.
Poi anche Sorgato brontolone e senza
sonno chiuse gli occhi, perché gli pareva che,
dall'esterna luce di luna, cinque teste di
bimbo s'affacciassero alla finestrella.
- Aprite! aprite subito, presto! - urlò una
voce imperiosa; e sotto l'impeto di una
spallata la porta dell'isba si spalancò facendo
rotolare il tavolo in mezzo alla stanza.
- Cosa c'è? - gridò il capitano Reitani
svegliandosi di soprassalto e destando Serri
con uno scrollone.
- I russi, signor capitano! Una nostra
pattuglia s'è scontrata con una pattuglia
russa e ha avvistato un reparto russo che
avanza - disse d'un fiato il sergente Bon,
ancora ansante.
- Da che parte? - domandò già calmo
Reitani, che era balzato in piedi e stava
accendendo la lampada.
- Dal Don. Il maggiore Amerri manda a
dire d'andare subito da lui - rispose Bon.
- Vengo. Italo - disse il capitano a Serri -
tu va' da Perbellini e Dell'Alpe e di' che
tengano pronti i muli per spostare i pezzi e le
munizioni, dobbiamo modificare lo
schieramento.
- E noi? - chiesero gli attendenti.
- Restate qui e tenetevi pronti.
Che ore sono, Italo?
- Quasi le quattro.
- Se vorranno venire, i russi
attaccheranno con la prima luce; abbiamo un
po' di tempo, forse.
Sulla neve si separarono, Serri andò verso
i pezzi. La luna era scomparsa, la notte era
ancora buia e il gelo graffiava la pelle con
minutissimi artigli. Mentre l'ufficiale
camminava, una subitanea e gigantesca
striscia di fuoco sgorgò dalla neve a duecento
metri da lui e un bagliore rossastro solcò
quasi orizzontalmente il cielo perdendosi
verso il Don, seguìto da un rumore
inimmaginabile. L'ufficiale sostò un attimo,
interdetto, e il rumore e la corsa del fuoco
attraverso il cielo si ripeterono. Allora
comprese.
- E' la «katiuscia» tedesca che è entrata
in azione - si disse riprendendo il cammino; -
deve essere orribile trovarsi di fronte ad
un'arma simile.
- Ma già sapeva che quella che stava
sparando aveva a disposizione soltanto una
decina di colpi.
Nelle isbe accanto ai pezzi gli uomini
della ventisei attendevano ordini. Dell'Alpe e
Perbellini avevano già fatto bardare i muli,
fecero caricare una parte delle munizioni
sulle quattro slitte. Giunse Reitani con uno
schizzo della posizione.
- Il tempo stringe - disse agli ufficiali, - i
russi s'apprestano ad avanzare venendo dal
Don. Si vanno schierando in modo da far
prevedere un'azione convergente su
Jvanowka: pare che si accingano a
conquistare il paese per dominare la strada
verso Mitrofanowka e Rossosch. Dobbiamo
sostenere l'urto frontale che viene dal Don;
anche se non conosciamo la situazione che
abbiamo alle spalle, è dal Don che per ora
giunge il pericolo immediato. Il colonnello
germanico che ha preso il comando delle
truppe presenti a Jvanowka ha ordinato che
gli autisti e gli eventuali feriti o congelati che
Serri designerà arretrino di un chilometro
lungo la strada dalla quale siamo venuti, con
gli autocarri carichi di ogni materiale che
non siano armi e munizioni: i materiali e gli
autocarri sono preziosi, bisogna che la loro
sorte immediata sia scissa da quella di
Jvanowka.
- Dalla nostra - interruppe deciso
Dell'Alpe.
- Dalla nostra - confermò senza esitazione
il capitano. E proseguì: - Ordini: mentre si
caricano gli autocarri, farne avanzare uno
fino qui, caricare due pezzi e relative
munizioni, inoltrarlo per cinquecento metri
lungo la pista verso il Don e scaricarlo;
quando sarà di ritorno, tutti gli autocarri
partiranno assieme agli automezzi tedeschi.
Resteremo solamente noi e le armi. Chiaro?
Avvertite di ciò tutti gli uomini. Ciascuno è
in diritto di sapere che questa è la giornata
conclusiva.
Non dissero nulla gli uomini, quando
conobbero la situazione e gli ordini.
Parevano soltanto un poco stanchi mentre
affastellavano i materiali da caricare.
Ma tutti levarono il naso nell'aria fredda e
tesero l'orecchio allorché udirono un rombo
di motori che s'allontanava nel buio in
direzione di Mitrofanowka.
- Cosa succede? - scattò Reitani.
- Gli autisti... - riferirono quasi subito
Scudrèra e Pilòn giungendo ansanti - gli
autisti sono scappati con gli autocarri... E'
rimasto questo, perché la sua macchina non
ha voluto partire... - e sospingevano verso il
capitano un autista spaurito.
- Cosa è successo? - gli chiese
gelidamente Reitani.
- Io non volevo, signor capitano... -
rispose l'uomo tremando. - Sono stati gli
altri... Questa notte dicevano che non
dovevamo morire qui... Che noi eravamo
dell'autocentro, che avevamo già fatto il
nostro servizio e che... e che avevamo il
diritto di tornare indietro...
- Dove? - domandò il capitano.
- A Mitrofanowka, finché c'era la speranza
di trovare strada libera...
- I tedeschi hanno riferito che a metà
percorso i russi già premono sulla strada -
disse Reitani; - un reparto armato può forse
aprirsi un varco, una colonna d'autocarri non
si salva.
- E ordinò: - Caricare sulle slitte le
munizioni, trainare i pezzi.
Con le piccole slitte, in una serie di viaggi
i muli trascinarono l'armamento della
ventisei verso il Don.
Fronte al fiume, che distava vari
chilometri, nel primo albeggiare si delineava
lo schieramento italo-tedesco a difesa di
Jvanowka. Consisteva in una rada unica riga
di circa trecento uomini distesi sulla neve,
disposti ad arco a circa seicento metri oltre
l'abitato. Lungo l'immaginaria corda sottesa
all'arco, erano stati collocati i piccoli cannoni
da montagna della ventisei e della
sessantotto; poco addietro la «katiuscia» con
la sua decina di colpi. Nulla più.
L'arco umano, avendo un combattente
ogni cinque metri, si stendeva per una
lunghezza di un paio di chilometri.
Sotto una insostenibile pressione nemica
gli uomini avrebbero gradualmente arretrato
restringendo lo schieramento, fino a fare
scudo e chiudersi in cerchio attorno ai
cannoni, per passare infine sul posto all'uso
dell'arma bianca; nessun'altra alternativa,
questi erano gli ordini. I fianchi di tale
schieramento, come le spalle, già all'inizio
erano alla completa mercé d'ogni iniziativa
russa.
Il nemico tuttavia cominciò ad avanzare
guardingo, lentissimo, parve voler
distendersi di preferenza in un più vasto
raggio, abbracciando il paese da lontano. Non
sparava; affidò solamente al gelo il compito
del primo attacco contro l'arco d'uomini
immobilizzati ventre a terra sulla neve.
Solo dopo un'ora di attesa un sibilo
fischiò nell'aria e una granata di medio
calibro scoppiò sull'abitato di Jvanowka.
- Serventi ai pezzi - disse Reitani.
Attorno ai cannoni era stato trattenuto un
minimo di serventi; gli altri artiglieri,
imbracciato il fucile, s'erano stesi nell'esile
arco inframezzati agli alpini.
Una batteria russa aprì il fuoco sul paese
aggiustando il tiro. Una seconda batteria, tre
chilometri a lato, iniziò il tiro di
inquadramento.
La ventisei aprì il fuoco su questa, che era
ben visibile sulla neve; le fanterie russe
cominciarono ad affacciarsi su un costone
antistante all'arco difensivo, alcune loro
mitragliatrici iniziarono a cantare nell'aria
tersa, gli alpini controbatterono con le armi
automatiche, un plotone dovette rispondere
a fucilate a un reparto russo che tentava di
farsi sotto. In breve il combattimento salì a
toni alti, ben presto il paese fu preso di mira
da numerose batterie nemiche mentre i
reparti russi si avvicendavano all'attacco. Le
isbe cominciarono a bruciare, la neve
zampillava in sempre nuove fontane
lasciando sul terreno il nero dei crateri
scavati dalle granate.
I russi iniziarono a tirare sulla ventisei
con le granate a «schrapnell», Reitani
rispose sparando a zero sui reparti che
premevano sulla filiforme linea degli alpini.
Già la pianura formicolava di forze russe, si
distinguevano le schiere, i carriaggi e le slitte
che avanzavano lentamente sulla neve fonda
girando al largo d'Jvanowka, mentre questa
era stretta sempre più da vicino dai russi,
tenuti a bada da quel filo di alpini e dai pezzi
della sessantotto e della ventisei. Ad ogni
salva di batteria che colpiva nel pieno dei
battaglioni compatti, i russi desistevano
dall'attacco concedendo tregua ai difensori,
ma riprendevano slancio più tardi ritornando
all'assalto.
- Non passano! Non passano! - gridavano
presso i pezzi gli artiglieri eccitati.
Ma era chiaro invece, al solo guardare le
enormi forze che di lontano progredivano
sulla pianura, che in condizioni simili la
resistenza non poteva durare. Per quanto
Reitani misurasse con scrupolo la cadenza di
fuoco, le cassette di munizioni andavano
svuotandosi rapidamente; e gli uomini sulla
neve, pressati dall'incalzare dei russi, in più
punti avevano dovuto retrocedere
avvicinandosi ai pezzi.
La resistenza e l'offesa infuriavano sulla
piana bianca.
- Alla baionetta! Ormai vengono! - s'udiva
gridare a tratti, e ondate di spasimo
s'abbattevano sui difensori che guardavano
verso l'ufficiale pronti allo scatto estremo.
- Nervi a posto! Aspettate gli ordini! -
rispondevano seccamente gli ufficiali intenti
a vigilare ogni mossa del nemico. E i reparti
incalzanti s'arrestavano e ripiegavano sotto
l'abbaiare ardente delle granate sparate a
zero, sotto il morsicare rabbioso dei fucili di
quei disperati che inseguivano gli attaccanti
in ripiegamento riguadagnando qualche
metro di neve, per retrocedere poi alla
pressione successiva. Il filo d'uomini si
muoveva, s'articolava, si torceva sulla neve
senza ancora spezzarsi.
- Dimmi se è giusto che uomini simili
non debbano arrivare a sera. Tengono testa a
forze venti volte superiori! - diceva con
amarezza Reitani a Serri volgendo poi lo
sguardo sui lontani spazi ove il grosso dei
russi avanzava in tranquilla manovra
aggirante.
- Mi pare che quelli siano quasi all'altezza
di Jvanowka - osservò Serri; - non puoi
attardarli con tiri di disturbo?
- Non ho munizioni, devo serbarle per la
difesa vicina...- rispose il capitano
mordendosi le labbra. E ricomponendosi: -
molti feriti?
- No; e leggieri per fortuna. Pochi anche i
congelati, ma temo che siano molti gli
assiderati fra gli uomini, là... - e indicava
l'arco vivo.
- I soldati sono immobili sulla neve da
cinque ore...
- Per quanto tempo potremo resistere
ancora?
- Forse per qualche ora, Italo.
Ho il rimorso d'averti condotto qui, non
era indispensabile che tu venissi.
- Ho voluto venire io.
Alle undici sopraggiunsero tre aerei da
bombardamento tedeschi, sollevando
l'entusiasmo dei soldati; ma, sorvolata la
zona sganciarono varie bombe su Jvanowka
e se ne andarono.
- E' finita per noi... - dissero allora i
combattenti che fino a quel punto avevano
tacitamente sperato in un provvidenziale
arrivo di rincalzi.
- Siamo abbandonati, non sanno neppure
più dove siamo...
Sul finire della mattinata i russi
mutarono tattica: cessarono di lanciare
reparti compatti e mandarono innanzi
piccole pattuglie striscianti sulla neve,
sempre più numerose, tentando di insinuarsi
gradualmente nello schieramento degli
alpini; contemporaneamente sulla vasta
pianura il moto d'accerchiamento venne
sospeso.
- Non riescono a sfondare! Si fermano! -
esclamavano i soldati esultanti.
- E' mezzogiorno, si fermano a mangiare -
commentava ironico il sergente Sguario,
capo-pezzo del quarto pezzo.
- Vogliono ridurre le perdite e se la
prendono più comoda per stancarci;
probabilmente sopravvalutano l'entità delle
nostre forze - disse il maggiore Amerri; -
forse attendono l'imbrunire per l'attacco
decisivo.
Essendo pressoché cessato l'urto delle
fanterie, l'artiglieria russa infieriva ora con
maggiore furia sottoponendo il paese a un
martellamento continuo. Una slitta e un
mulo presso un pezzo saltarono in aria.
- Guarda Scudrèra - disse il capitano a
Serri indicando il conducente che metteva al
riparo il suo mulo dietro una pila di cassette
di granate.
Scudrèra aveva passato un braccio
attorno al collo del mulo e col viso
appoggiato al muso gli andava carezzando la
mascella.
- Non aver paura - gli diceva lisciandogli il
pelo - ci sono sempre qua io, il tuo padrone
non si dimentica di te, sta' sicuro: piuttosto
che lasciarti fare prigioniero ti sparo una
fucilata in un orecchio. Va bene? - gli
domandava infine sorridendo e tirandogli
l'orecchia; e poiché gli era così vicino,
affettuosamente gliela baciava, senza
esitazione e senza pudore.
- Non ti vergogni Scudrèra, sporcaccione?
- gli disse Serri celando sotto un sorriso una
incomprimibile commozione.
- Ormai no, signor tenente - rispose
Scudrèra con grande serietà. - Si può fare
tutto quello che si vuole senza vergognarsi,
ormai. E' l'unica soddisfazione che ci resta, in
questo porco mondo.
E si guardava intorno.
Due ufficiali avanzarono sulla neve
avvicinandosi al gruppetto.
- Gianfranco! Sei qui anche tu?
Cosa fai qui? - gridò Serri correndo
incontro al tenente Di Nemi, che avendo
esaurito il suo compito il giorno innanzi a
Mitrofanowka, non avrebbe dovuto trovarsi a
Jvanowka.
- Sai - rispose Di Nemi, schivo - ho
pensato che uno di più non guasta.
L'altro ufficiale era padre Leone, il
cappellano del battaglione Monte Cervino,
gran barba e gran cuore in piccolo corpo. I tre
ufficiali erano fermi sulla neve, discosti dagli
altri uomini. Uno sguardo reciproco corse fra
i loro occhi, sottolineando un denso silenzio.
- Questa è la volta buona, a quanto pare,
Italo - disse il tenente Di Nemi.
- Già - disse Serri.
Nuovo più lungo silenzio. Altre parole
non volevano venire.
Il cappellano prese a braccetto i due
ufficiali.
- Ragazzi - mormorò - non è il momento
di farvi discorsi. Ditemi: siete in pace con
Dio?
- Be...'
- Se mi dite che vi fa piacere, vi do
l'assoluzione.
- Confessarci così, in questo momento...?
- Non occorre. Basta che chiediate
misericordia a Dio e gli offriate la vostra
vita... così com'è.
Gli occhi dei due ufficiali risposero.
Congiunse le mani, il cappellano,
mormorò una preghiera, sfilò il guanto
destro. Sembrò distrarsi, guardava intorno
sulla neve gli artiglieri affaccendati ai
cannoni, e più avanti gli alpini sdraiati nel
bianco.
- Ormai credo di poterlo fare disse, quasi
parlando a se stesso; - la penitenza la stanno
già facendo da un pezzo, mi pare. - E fissando
i due ufficiali: - Io vi assolvo; io li assolvo
tutti. - Levò la mano nuda sulla distesa
bianca.
Era una mano diafana, esangue, di frate,
adusata al breviario e al messale, a innalzar
l'Ostia, a spargere carità dove toccava; e Dio
solo già sapeva che di lì a pochi mesi,
nell'orrore della prigionia, padre Leone,
distrutto dalle cancrene dei congelamenti,
moribondo in tutto ma non nello spirito, si
sarebbe trascinato fino al suo ultimo respiro
da morente a morente, ad alzare su di essi
giacenti quella mano ormai putrida e sfatta
fino all'ossa, gocciolante di pus nel benedire.
Padre Leone levò la mano nuda sulla
distesa bianca, e guardando il cielo la calò
lentamente nel segno della croce.
- In nomine patris... et filii...
Tacque a lungo, assorto. Poi
all'improvviso, come cambiando umore,
esclamò quasi allegro: - In gamba, ragazzi.
Tanto, in un modo o in un altro, deve toccare
a tutti... Quia pulvis es... Te lo ricordi ancora
il latino, dottore?
- Giacché sei polvere... - mormorò Serri.
- Sènti sènti i signòri uficiàli che i pàrla
latìn ànca a Jvanòwka!
Era la voce del conducente Pilòn, che
stava passando accanto con un telo da basto
caricato sulle spalle. Continuò:
- El bèlo xe che 'sto latìn lo so ànca mi, el
xe el latìn de me nòno, el lo dixèva sempre,
poarèto, quando me nòna ghe scondèva el
tabàco! Vole' sentirlo? - Cambiò spalla al telo
da basto, e recitò: - Me meto omo, chi pulvisè
et in pulvere redeventàri!
(Memento homo, quia pulvis es et in
pulverem reverteris).
- Padre, perdona loro... - disse ridendo il
cappellano, aprendo le braccia e levando gli
occhi al cielo.
- Ah, sì...? «Perché no i sa quél che si
fanno»? Crèdelo che non lo savèmo, padre?
Crèdelo che i conducènti de mùlo no i
capìssa el sùgo de i vostri discorsi, e cosa che
bòle in pèntola? E invece, ve la dìgo mi la
conclusiòn de le conclusiòn, in bròdo
ristreto: dème rèta a mi, i russi no i ne cùca
gnànca 'stavòlta, paròla de Pilòn! - Tacque
un attimo, scrollò le spalle. - Ma qua se
ciàcola, e la Nèna ga frèdo, pòra càgna ànca
èla.
Strizzò un occhio, in quel suo faccione
tondo, a salutare tutti; e s'affrettò verso la
mula del suo cuore.
Un fumo nero s'addensava sul paese; per
tre volte Serri dovette mutare sede al posto
di medicazione incendiato dalle granate. I
feriti non erano molti, ma parecchi i morti:
giacevano riversi sulla neve facendo
compagnia agli assiderati che, sembrando
combattenti appostati in riga con gli altri,
andavano invece silenziosamente morendo
senza saperlo.
Alle tredici il colonnello tedesco disse ad
Amerri:
- E' inutile sacrificare altri uomini per
rimanere in una posizione insostenibile. Vi
comunico che le mie truppe lasceranno la
linea fra dieci minuti, le farò arretrare a un
chilometro dietro il paese, presso i nostri
automezzi, iniziando così lo sganciamento.
Ho già trasmesso l'ordine, bisogna attuarlo
finché si è in tempo.
- E le truppe italiane? - disse Amerri.
- Lascio a voi decidere.
- Restiamo sul posto, questo è stato
l'ordine ricevuto in partenza - decise il
maggiore dopo breve riflessione. - Vi segnalo
però che sguarnite la linea all'improvviso e
ponete in crisi la resistenza.
- Vi ho lasciato libertà di scelta.
- Restiamo.
Sfruttando alcune anfrattuosità del
terreno le truppe tedesche abbandonarono
gradatamente il loro tratto di linea, man
mano rimpiazzate dagli italiani; ma la linea
risultò tale che fra un uomo e l'altro
esistevano ora intervalli di venti metri.
I russi s'avvidero del movimento e i loro
uomini strisciarono innanzi con maggiore
impegno; guadagnarono terreno palmo a
palmo, e in vari punti gli alpini furono
costretti a ripiegare, l'ampio arco s'era già
flesso e s'avvicinava ai cannoni.
- I feriti? - domandò Reitani a Serri
vedendolo sopraggiungere ai pezzi.
- Li ho affidati in consegna ai tedeschi,
tentano di portarli indietro.
Il capitano strinse il braccio del medico.
- Abbiamo quasi esaurito le munizioni -
disse; e aggiunse, con una grande dolcezza
nella voce: - alle quindici cala il sole, avremo
sì e no mezz'ora di vita.
Grandi urli giunsero a quel punto dal
centro dello schieramento soverchiando il
battere delle mitragliatrici: un reparto russo
aveva fatto irruzione sull'ultimo rilievo
ov'erano abbrancati gli alpini e li aveva
sopraffatti costringendoli ad arretrare e
scendere sulla perfetta pianura.
- Primo e quarto pezzo - gridò Reitani: -
puntamento diretto sul costone!
In un baleno i due pezzi furono
approssimativamente puntati, due granate
esplosero sul costone.
- Vedi? - disse Reitani - siamo costretti ad
adoperare i pezzi come fossero fucili. Fuoco!
- gridò.
Due altre esplosioni avvamparono sul
costone.
- Abbiamo ancora quattro cassette di
munizioni - concluse - ma quello è l'unico
punto su cui posso sparare senza colpire i
nostri soldati; i russi sono ormai troppo
vicini, fra poco farò saltare i pezzi e
adopreremo anche noi i fucili.
Rapidamente l'ombra della sera s'addensò
su Jvanowka e sorprese i difensori
raggruppati a cinquanta metri dai pezzi. Le
alte grida dei russi, nettamente distinguibili
fra il fragore delle fucilate, si levavano
nell'oscurità incipiente. Ombre d'uomini
s'agitavano sulla neve, illuminate dalle
improvvise vampe delle esplosioni.
La mezz'ora pronosticata dal capitano era
forse trascorsa, la ventisei viveva ancora. Ma
moriva.
- Addio, Italo - disse il capitano
afferrando nel buio e stringendo con
grandissima forza la mano del medico.
- Devo stare con tutti gli uomini, non
potrò più parlarti. Saremo vicini, ma con
questo buio non ci vedremo più.
- Addio, Ugo - disse il medico - siamo stati
fratelli.
- Noi crediamo in Dio, ci ritroveremo fra
poco - disse fervidamente Reitani; e lasciata
la mano si rigirò di scatto e gridò nel buio: -
ventisei! Tutti gli uomini alla difesa dei
pezzi!
Molti artiglieri risposero al richiamo del
capitano, sbucando dall'oscurità attorniarono
i pezzi.
- Italiani! Inastare la baionetta! - tuonò la
voce del maggiore Amerri.
- Baionetta! Baionetta! - ripeté esaltata la
voce di qualche ufficiale.
Si vedevano soltanto ombre, lo scontro
all'arma bianca si sarebbe ormai svolto fra
ombre: assurdo, demoniaco.
- Maggiore Amerri! Dov'è il maggiore
Amerri? - gridarono alcuni soldati.
- Che c'è? - urlò il maggiore colpito dal
tono delle voci.
- Un portaordini tedesco vi cerca...
- Befehl... ordine... Befehl! - disse
decisamente un soldatino tedesco tendendo
verso il maggiore un foglietto e
illuminandolo con una pila.
- Leggi anche tu - disse Amerri a Reitani;
- la pila non fa luce e vedo male.
Lessero:
- «Al maggiore Amerri. Impiego vostro
reparto richiesto urgentemente altrove da
superiore Comando italiano. Ordino
immediato ripiegamento ogni forza italiana a
zona 1 km ovest paese. F.to: Il Comandante
Forze italo-germaniche Jvanowka». Seguiva
la firma del colonnello tedesco che due ore
prima aveva fatto arretrare il proprio reparto.
- Il messaggio trasmette una richiesta
italiana, ora posso obbedire - disse Amerri -
se ancora riusciamo a sganciarci.
Nuovi ordini volarono nel buio ai soldati.
Alcuni fucili mitragliatori rimasero in posto e
alcuni alpini cambiando continuamente sede
mantennero nei russi l'impressione di una
certa resistenza, mentre il grosso del reparto
approfittando dell'oscurità arretrava verso il
paese.
- Ferma la ventisei! - ordinò Reitani; -
bisogna porre in salvo i pezzi e le munizioni!
Era una impresa disperata, con la linea
difensiva ormai inesistente trasportare i
cannoni sottraendoli all'immediata vicinanza
dei russi.
Impossibile caricarli sulle slitte, troppo
piccole e deboli per reggerli.
Assurdo pensare di smontarli e farli
portare a dorso di mulo; sulle tre slitte
vennero rapidamente affastellati munizioni e
materiali. I conducenti con la breve colonna
così formata inseguirono gli alpini che
avevano ormai raggiunto Jvanowka.
- Sbrigarsi! - gridò giungendo di corsa il
tenente Dell'Alpe - sono l'ultimo, fra noi e i
russi non c'è più nessuno, tutti gli altri se ne
sono già andati! - E poiché non si udivano
spari imbracciò il fucile mitragliatore e si
mise a sparare all'impazzata in direzione dei
russi.
- Tre muli ai pezzi! - ordinò Reitani.
Le bestie vennero agganciate ai tre pezzi e
incitate a tirare. Affondando nella neve,
inarcando le schiene i poveri animali
tentarono invano di smuovere il peso che li
frenava. Sventagliate di fucileria passavano
sopra le teste degli artiglieri, a poche decine
di metri si vedevano le vampe dei fucili russi.
- I cannoni sono bloccati dal ghiaccio! -
urlò il sergente Bartolan.
- I muli non riescono ad andare avanti, la
neve è troppo alta! - gridarono i conducenti.
- Dieci uomini sparino col fucile verso le
vampe, tutti gli altri spingano i pezzi! -
ordinò Reitani.
E per primo si gettò a un cannone,
puntando i piedi nella neve abbrancò i raggi
d'una ruota tentando di farla girare.
Perbellini, Serri, Dell'Alpe fecero altrettanto,
i capi-pezzo si slanciarono a sostenere il
vomere dei loro cannoni che affondava come
un'ancora nella neve, altri artiglieri
s'inarcarono a ridosso degli affusti, degli
scudi, dei mozzi, altri s'inginocchiarono a
spalare con le grandi mani la neve dinanzi
alle ruote, i conducenti aizzarono a gran voce
le bestie: le ruote si disancorarono dalla
morsa di ghiaccio, girarono nella neve fonda,
e sotto le canne dei fucili russi gli ultimi
della ventisei mossero sprofondando
nell'oscurità.
XVII
A un chilometro di distanza molte isbe di
Jvanowka lasciata addietro bruciavano come
torce nel buio. In sosta, gli uomini di Reitani
ansimavano e si asciugavano il sudore poiché
la fatica di trascinare i cannoni era stata
enorme.
Il maggiore Amerri, su una motocicletta
tedesca, attendeva sulla pista la ventisei.
- I tedeschi sono già partiti - disse a
Reitani; - devono tentare di ricongiungersi a
un loro reparto. Sai perché siamo ancora al
mondo? Perché quelli all'ultimo momento
sono riusciti a riparare un apparecchio radio
e a mettersi in comunicazione con un
Comando, ricevendo per noi l'ordine di
ripiegare. Mi hanno assicurato che a qualche
chilometro prima del paese di Krinitzschnaja
esiste una pista a mano destra, orientata a
nord: la ventisei dovrà infilare quella e
raggiungere un paese chiamato Novo
Kalitwa.
E' sul Don. Là metterai in posizione i
pezzi. Hai capito?
- Sta bene. E voi? - chiese Reitani.
- Noi invece dovremo deviare a sud, verso
Seleny-Jar e Deresowatka - rispose Amerri -
in appoggio a L'Aquila. Ho già mandato
avanti gli uomini, ora li raggiungerò. Bisogna
che vi affrettiate anche voi, poiché i russi da
Jvanowka possono arrivare qui da un
momento all'altro.
- E a Krinitzschnaja chi c'è? - domandò
Reitani.
- Non sappiamo. I russi mantengono ogni
iniziativa di movimento, non siamo in grado
di controllarli. Bisogna far fronte agli
avvenimenti così come si manifestano di
minuto in minuto.
Capitano Reitani: da questo momento il
reparto d'assalto alle mie dipendenze cessa
d'esistere, la ventisei diventa batteria
autonoma e va ad attestarsi a Novo Kalitwa
in attesa di ordini.
- Da chi li riceverò?
- Non so.
- Notizie sulla situazione?
- Caos completo in questa zona, devi
averlo capito dagli ordini che ti ho trasmesso.
Sono ordini seri, per caso? - domandò
amaramente il vecchio soldato; - riceviamo
una comunicazione da chissà quale nostro
Comando attraverso una radio di stranieri
che se ne vanno, veniamo divisi e sospinti in
direzioni opposte in un deserto di neve in
mano al nemico... A proposito, tieni presente
che la zona è battuta da reparti celeri russi
che si spostano continuamente.
- E la Julia? - chiese Reitani.
- Nessuna notizia. Dobbiamo fare calcolo
su noi stessi e basta. Starai male a
munizioni, suppongo.
- Ne ho poche cassette. Ne avevo tenute
diverse di riserva su quell'autocarro che ci
era rimasto.
- L'autista l'ha abbandonato: è tornato e
mi ha riferito che si è ribaltato nella neve
oggi, vicino a un gruppo d'isbe prima di
Krinitzschnaja; su quest'autocarro io avevo
fatto anche caricare un paio di quintali di
viveri trovati nella chiesa d'Jvanowka.
- I russi avanzano da Jvanowka! - gridò
una voce. E una lunga raffica di fucile
mitragliatore passò alta sopra gli uomini.
- Bisogna levarsi di qui - disse Amerri. - Io
vado, spicciatevi anche voi, speriamo di
rivederci. - Salutati gli uomini, partì.
- Batteria avanti - comandò il capitano
Reitani; e gli artiglieri alpini della ventisei
iniziarono la marcia notturna.
- Hai sentito, sergente Bartolan? - disse
poi il capitano; - l'autocarro carico di viveri e
munizioni si è rovesciato pochi chilometri
avanti, su questa pista.
- Capito, signor capitano. Questa è terra
abbandonata, probabilmente il carico è
intatto. Prendo due uomini e vado avanti a
recuperare quanto si può, mentre ci
raggiungete.
- Occhi aperti, sergente! - raccomandò
Reitani. - Potrebbe essere la salvezza... -
mormorò poi a Serri, seguendo con l'occhio
Bartolan e i due artiglieri che s'allontanavano
a passo affrettato.
Quando gli uomini di testa della batteria
dopo due ore li raggiunsero, al chiaro di luna
videro un autocarro ribaltato su un fianco, e
sul bordo della pista una lunga fila di
cassette allineate.
- Ecco viveri e munizioni, signor capitano
- esclamò raggiante Bartolan; - ho fatto un
po' di calcolo, saranno circa duecento colpi, e
almeno due quintali di viveri.
I muli erano stremati, sulle slitte già
cariche si poté sistemare ben poco. Allora il
capitano Reitani piegò un ginocchio nella
neve, raccolse una cassetta contenente tre
proiettili, se la caricò sulle spalle, traballò
nell'alzarsi e senza una parola riprese il
cammino.
Ad uno ad uno, ufficiali e soldati
seguirono l'esempio. Camminarono per tutta
la notte, trasformandosi a poco a poco, sotto
i pesi, in una torma d'ubriachi che procedeva
ciondolando e ondeggiando; fra gli uomini,
trainando le slitte e i cannoni procedevano i
muli, e ad ogni passo arrancando alzavano e
abbassavano penosamente il testone
paziente.
Reitani era sempre in testa, curvo sotto la
sua cassetta. Verso l'alba Serri gli disse:
- Ugo, è una fatica infernale. Temo che
ormai gli uomini siano sul punto di crollare
tutti sulla neve. Non possiamo fermarci?
- Sì - rispose affannando il capitano. -
Crolleremo. - Ma aggiunse: - Crolleremo a
Novo Kalitwa.
Venne l'alba. A Novo Kalitwa non
giunsero mai, poiché quando furono a un
bivio nei pressi del paese vennero accolti da
una gragnuola di colpi di mortaio. A Novo
Kalitwa erano attestati i russi. Infilarono
allora la strada opposta e dopo un chilometro
entrarono in un piccolo paese abbandonato.
Si gettarono nelle isbe e si lasciarono cadere
a terra, incapaci a tutto fuorché dormire.
Quando Serri si svegliò si accorse che
inginocchiato al suo fianco Reitani stava
scrollandolo senza pietà.
- Ti svegli, Italo? - gli diceva il capitano; -
hai dormito tre ore, ma tra poco dobbiamo
partire. Ti ho portato questa mezza scatoletta
di carne, mangia subito.
Il medico si sollevò restando a sedere sul
pavimento, cominciò a mangiare con grande
appetito.
- Dove andiamo? - chiese con voce
assonnata, masticando.
- Partiamo fra un quarto d'ora, alle dieci.
Ho mandato Perbellini a fare una
ricognizione. Piazzeremo la linea pezzi a
ridosso di Novo Kalitwa, su un'altura dalla
quale si possano almeno seguire e
contrastare per quanto possibile le iniziative
dei russi senza venire travolti dal loro primo
movimento. Se restassimo in questo paese a
fondo valle, rimarremmo senz'altro
imbottigliati; sulla collina invece i russi ci
individueranno meno facilmente e saremo
più vicini all'obiettivo che ci è stato indicato.
- Come si chiama questo paese?
- Golubaja Krinitza.
- Bel nome.
- Molto bello, suona bene.
Evitavano di proposito di toccare
argomenti più seri fino dal primo risveglio;
tanto, sapevano benissimo entrambi di
dibattersi inutilmente in una situazione
senza scampo. Avessero ricevuto ordine di
uscirne, forse si sarebbero ancora salvati; ma
l'ordine piovuto dal cielo li teneva invece
agganciati alla neve di Novo Kalitwa.
Qualche ora di sonno e poco cibo avevano
ritemprato i cinquanta uomini della ventisei
che all'ora fissata ripresero la marcia verso i
russi. Procedettero per tre chilometri lungo
la pista situata nel fondo valle che separava
due versanti collinosi e portava a Novo
Kalitwa. Affrontarono la neve del versante di
sinistra, in un punto riparato a mezza costa
lasciarono Sorgato, i materiali e i viveri, una
ventina fra conducenti e addetti ai servizi; gli
ufficiali con trenta soldati della linea pezzi
proseguirono con i cannoni e le munizioni.
Raggiunta la sommità della collina si
trovarono innanzi a un altopiano
completamente piatto e battuto dal vento.
Ora la valle rimaneva a destra; sulla
sinistra l'altopiano si estendeva a perdita
d'occhio, in avanti invece la pianura si
prolungava per un chilometro circa e
digradava poi in un pendio verso il basso, ove
si distinguevano alcune isbe.
- A quelle isbe laggiù, di fronte a noi -
disse Reitani indicando - incomincia il paese
di Novo Kalitwa.
Scaricare i muli, ci fermeremo qui.
I materiali furono deposti, affondavano
nella neve alta; gli artiglieri si guardavano
intorno disorientati: non pareva possibile
poter rimanere a vivere in pieno inverno su
quell'aperta distesa solcata soltanto, dietro la
linea pezzi, da una stretta balka ripiena di
neve.
- Ragazzi - comunicò il capitano - il Don è
a tre chilometri davanti a noi, al di là di Novo
Kalitwa.
Appariva evidente che i venticinque
chilometri di marcia notturna che sembrava
di arretramento li avevano portati, con una
larga conversione, ad attestarsi ancora presso
il Don. Avevano più che mai, perciò, il
nemico di fronte e il vuoto dietro alle spalle e
ai fianchi.
- Qui il terzo pezzo, qui il quarto, là il
primo - indicò il capitano; - prendiamo
posizione in questo punto.
- E noi? - chiese il sergente Bartolan
cercando invano attorno con lo sguardo un
luogo riparato.
- Noi ci sistemeremo immediatamente
dietro ai pezzi, a fare la guardia; non ci
rimane altro da fare, non l'hai capito? -
rispose il capitano quasi ridendo per
attenuare un poco la gravità
dell'affermazione. - Sarebbe meglio ripararci
in questa balka, ma nel fondo ci sono più di
tre metri di neve; almeno per ora dovremo
rassegnarci a restare sulla pianura.
La neve alta venne battuta, la linea pezzi
fu schierata, le munizioni distribuite accanto
ai cannoni, gli ufficiali fecero i rilievi della
zona e i calcoli per il tiro, gli uomini la
revisione delle armi, Reitani ordinò che i
conducenti saliti lassù riportassero i muli
alla loro base.
- Così non potremo più spostare i pezzi,
in caso di emergenza - disse Serri guardando
il capitano negli occhi.
- Appunto, Italo - rispose Reitani; - sono
persuaso che da qui ormai non potremo
muoverci più. E' d'altronde l'unico punto
dove possiamo piazzarci ubbidendo agli
ordini senza venire subito travolti. - E
chiamò Perbellini.
- Appena sistemata la linea pezzi - gli
disse - bisogna che gli uomini comincino a
scavarsi le buche nella neve per stanotte. Si
ripareranno almeno dal vento.
- Ho già dato disposizioni che sia scavata
una buca ogni due uomini, la neve qui è alta
più di un metro e perciò potranno avere un
po' di parete.
Raggiunta la terra stenderanno uno strato
di cardi. Hanno anche una coperta a testa.
- Meno male.
- Avverto che gli ufficiali invece sono
senza coperta. Con il trambusto di questi
giorni, chi non portava la coperta a tracolla è
rimasto senza.
Abbiamo un unico telo da basto, l'ha
lasciato Pilòn per noi, ma per quattro
ufficiali è troppo poco.
Verso le quattordici, annunciata
dall'inconfondibile fischio passò nel cielo
una granata.
- Lunga - disse alzando il naso in aria
Coltrin, il puntatore del primo pezzo. La
granata esplose trecento metri dietro lo
schieramento della ventisei.
- Speriamo che sia un colpo disperso -
borbottò Bartolan.
Gli uomini, interrotto momentaneamente
il lavoro, guardavano in silenzio gli ufficiali,
sembrava attendessero qualcosa. Una
seconda granata venne allora ad esplodere
cento metri innanzi ai pezzi. La direzione era
la stessa del tiro precedente.
- Tiro a forcella - mormorò Reitani a
Dell'Alpe tenendo fisso il binocolo verso le
colline di fronte; - siamo già stati individuati.
Il terzo colpo non si fece attendere troppo
e scoppiò a ottanta metri dietro i pezzi.
- Ho visto la vampa del colpo in partenza,
signor capitano! - gridò Coltrin.
- Dove? - chiese Reitani.
- Là, di fianco a quel pagliaio sulla neve -
indicò Coltrin precisando un punto sui colli
prossimi al Don.
- C'è un pezzo, infatti: pare isolato, -
confermò Reitani dopo aver osservato
attentamente col binocolo.
- Calcola i dati di tiro relativi a tutti i
pagliai visibili - ordinò a Dell'Alpe.
Fischiò ed esplose una quarta granata a
qualche decina di metri dal primo pezzo.
Alcune schegge sibilarono sugli uomini.
- Bisogna buttare in aria quella carogna
prima che divenga buio, signor capitano, se
no stanotte saltiamo in aria noi - esclamò il
sergente Bartolan.
- E' probabile - disse Reitani - ma non
vorrei che sprecaste munizioni.
- Io, signor capitano! Sparo io col mio
pezzo! Cinque colpi soli! In cinque colpi lo
butto per aria - gridò già infiammato
Bartolan.
Col suo puntatore Coltrin, il sergente
formava, al pezzo, una coppia di artiglieri
imbattibile.
- E se mi buttate via cinque colpi senza
fare centro? - chiese Reitani.
- Allora stanotte andiamo a far saltare il
pezzo con le bombe a mano, parola d'onore! -
affermò tutto serio Bartolan, mentre Coltrin
si poneva una mano aperta sul petto.
- Attenzione, primo pezzo! - esclamò
Reitani sorridendo. E i due si precipitarono
all'arma.
Era un piccolo obice da montagna da
75ì13, residuato dalla prima guerra mondiale,
vecchio pezzo superato dalla tecnica
moderna, ma ancora micidiale e temibile in
mani amorose ed esperte.
In mano a Bartolan e Coltrin al quarto
colpo fece saltare il cannone avversario, al
terzo aveva già dato fuoco al vicino pagliaio.
Il sole calava.
- Vietato accendere anche un solo
fiammifero, naturalmente - ordinò Reitani; -
i russi hanno già rilevato la nostra presenza
in questa zona e non possiamo stimolare la
loro attenzione.
Se ci fanno un attacco di sorpresa non c'è
scampo, lo sapete.
Ma, intensificandosi il freddo, il fuoco
appariva un affascinante miraggio agli
uomini che restii a distendersi nelle tombe
gelide battevano i piedi sulla neve
camminando su e giù dietro ai cannoni.
Verso le diciotto, protetti dall'oscurità
giunsero alla linea pezzi i muli della cucina.
- Ho portato il rancio - annunciò Sorgato
con accento trionfale; - ho dovuto attendere
il sorgere della luna per vedere dove andavo,
ma in compenso sono riuscito a fare un buon
minestrone, bisogna distribuirlo subito
finché è caldo.
Quando scoperchiò il recipiente s'avvide
che i maccheroni erano inglobati in una
compatta massa opaca: durante il tragitto il
brodo si era trasformato in ghiaccio, fu
necessario spaccarlo con la baionetta. Gli
affamati alpini si allontanavano dalla slitta
del rancio recando sul coperchio della
gavetta un grumo ghiacciato dal quale
andavano malinconicamente estraendo ad
uno ad uno i maccheroni come granelli da
una melagrana.
Progredendo la notte, le sentinelle
avvistarono al chiaro di luna due carri armati
e un grosso reparto russo che provenendo da
Novo Kalitwa transitarono lungo la pista del
fondo valle facendo una puntata a Golubaja
Krinitza. Ritornarono a Novo Kalitwa dopo
due ore.
- Se fossimo rimasti in paese...
- mormoravano i soldati e si raggruppavano
riconoscenti attorno al silenzioso capitano.
- Provate a stendervi nelle buche - disse
questi verso la mezzanotte - vi proteggerete
dal vento e forse potrete riposare un poco:
domani sarà giornata dura. Chi non resisterà
a stare fermo in buca potrà dare il cambio
alle sentinelle.
A poco a poco gli uomini scomparvero
calandosi nello spessore della neve; sotto gli
occhi dei quattro ufficiali rimaneva soltanto
l'immobilità dell'altopiano bianco.
Un vento costante in provenienza dal Don
sibilava curvando gli steli secchi dei girasoli,
penetrava nel panno grigioverde e lambiva le
carni dei quattro uomini stanchi.
Perbellini a fianco del capitano fu preso
da un lungo, intrattenibile brivido.
- Se non provvediamo in qualche modo,
non resistiamo fino a domattina - disse Serri.
- Non possiamo andare in una buca,
dobbiamo vegliare - rispose Reitani; - ora
davvero la ventisei è abbandonata a se stessa.
- C'è un telo da basto, possiamo fissarlo a
due pali e ripararci un poco dal vento -
propose Serri.
Il telo fu rizzato dalla parte da cui spirava
il vento, i quattro ufficiali vi si accoccolarono
dietro, accucciandosi su qualche bracciata di
cardi selvatici gettata sulla neve.
- Nessuno ha guardato i termometri? -
chiese Dell'Alpe.
- Trentadue sotto, mezz'ora fa - disse
Perbellini.
Passò un lungo tempo. I quattro uomini
giacevano lottando in silenzio col gelo
agghiacciante.
- Perbellini si è addormentato, beato lui -
annunciò Dell'Alpe.
- Da quanto? - chiese subito Serri.
- Sarà mezz'ora.
- Sveglialo! - esclamò con concitazione il
medico allungando un braccio e scrollando il
dormiente.
Perbellini si svegliò di soprassalto, si
guardò attorno trasognato.
- Ti fanno male i piedi?
- No - disse l'adolescente muovendo gli
arti. Ma s'interruppe all'improvviso e tacque,
impressionato.
- Cosa c'è, Perbellini? - chiese
preoccupato Reitani.
- Non sento, non muovo più le mani,
signor capitano! - rispose Perbellini con voce
angosciata.
Serri gli tolse i guanti, prese fra le sue le
mani gelide, insensibili, le strofinò a lungo
fino a che il colpito avvertì il dolore;
continuò ancora a massaggiarle senza sosta e
infine le estremità ricuperarono sensibilità e
calore.
- Non si può dormire più di qualche
minuto, sarebbe mortale - disse Serri
alzandosi; - faccio il giro delle buche per
controllare i soldati, voglio assicurarmi che
non si assiderino, torno fra poco.
S'avvicinò a una buca, guardò dentro. Dal
buio si sentiva venire un persistente battere
di denti, si intravvedevano due ombre
informi: Bon e Zoffoli abbracciati sui cardi.
- Come va? - chiese Serri.
Rispose il sergente Bon, tentando di
frenare il battito dei denti: - Se non fosse per
questi denti cretini... e questo freddo boia...
- Coraggio... - replicò Serri - bisogna
arrivare a domattina.
L'infermiere Zoffoli dava pesanti manate
qui e là sul corpo di Bon, per favorire la
circolazione del sangue.
Disse a Serri:
- Cerco di tenerlo caldo. Ma non son la
sua morosa, si sa...
- La morosa la xe la morte, 'sta notte -
batté il sergente fra i denti, tuttavia ridendo.
Serri si raddrizzò, passò ad altre buche,
tornò dagli ufficiali.
- Come stanno? - gli chiese Reitani.
- Non c'è male, con la coperta e sui cardi
resistono, nelle buche sono riparati
abbastanza bene dal vento.
- Alle due la temperatura era scesa a
trentotto sotto zero, i quattro ufficiali con
grande fatica spostarono il telo poiché il
vento aveva mutato direzione, provarono a
camminare all'aria libera, ma il freddo era
insopportabile. La disperata sensazione di
non poter resistere al freddo cominciava a far
breccia nell'animo. Si rannicchiarono di
nuovo sugli sterpi dietro al telo,
abbracciandosi l'un l'altro nel tentativo di
scambiarsi calore. Un torpore orribile
commisto al sonno si diffondeva negli
organismi.
- Potete resistere ancora? - chiese
angosciato Reitani.
- Ho un sonno spaventoso - disse
Perbellini.
- Possiamo tentare una cosa - disse Serri:
- uno veglia e tre dormono, a catena. Turno
ogni cinque minuti.
Siamo in quattro, possiamo dormire un
quarto d'ora per uno. E' l'unico mezzo che ci
rimane per arrivare a domattina, ma chi
veglia resti sveglio ad ogni costo, si ricordi
che ha nelle mani la vita degli altri tre.
Comincio io, dormite.
Un minuto dopo vegliava sui tre
compagni subito abbandonati al sonno.
Li guardava e pensava agli altri compagni
sepolti a pochi passi nella neve, intorno ai
cannoni.
Erano tutti avvinti a un'unica sorte,
condannati ormai a soccombere di stenti. Il
sacrificio si sarebbe compiuto in silenzio, in
quell'isolamento tragico. A primavera la neve
sgelando avrebbe restituito le loro ossa di
sconosciuti. Trenta erano già sepolti nelle
buche; tre battevano i denti dormendo; egli
vegliava; ancora due minuti, prima di poter
chiudere gli occhi a quel sonno orribile...
Con una intensità disperata,
contemplando allora la paurosa vastità di
neve, ascoltando il vento, guardando le stelle
lontane, sentì quei tribolati - nel profondo
del cuore - fratelli.
XVIII
Venne l'alba. Gli artiglieri alpini sorsero
dalle buche con l'aspetto di cadaveri
resuscitati. I quattro ufficiali rinvennero
dall'incubo di una fine angosciosamente
rinviata di quarto d'ora in quarto d'ora,
sciolsero le membra irrigidite, scossero i
cappotti imbevuti di ghiaccio, crocchianti.
- Siamo tutti vivi; tre artiglieri hanno i
piedi congelati - comunicò il medico a
Reitani; - ma non potremo superare una
seconda notte in queste condizioni.
- Perbellini - ordinò il capitano - bisogna
riprendere subito gli scavi, è necessario
ripararci nella terra per quanto è possibile.
- Va bene; ma non abbiamo attrezzi,
signor capitano.
- Adopreremo le baionette, i coltelli, le
unghie; daremo noi per primi l'esempio.
Tutti cominciarono con ogni mezzo a
togliere neve e ad affrontare la terra; ma era
dura come pietra, si lasciava a mala pena
intaccare dalle baionette. Dopo tre ore di
fatica, soltanto pochi uomini erano riusciti a
scavare buche profonde poco più di qualche
centimetro.
Reitani non cessava di scrutare in avanti
la pianura nevosa e più oltre le colline che
nascondevano il Don; si portava poi sulla
destra della linea pezzi a osservare giù nella
valle la pista che congiungeva Novo Kalitwa
con Golubaja Krinitza. Il silenzio e
l'immobilità che stagnavano sugli spazi
nevosi non lo tranquillizzavano ed erano ben
lungi dal trarlo in inganno.
- Sento pesare come non mai su di me la
vita di questi nostri uomini - confidò a Serri;
- c'è qualcosa di assurdo e di intollerabile
nella situazione che stiamo vivendo. Da
stanotte mi chiedo se sono in diritto... Ciò
che aumenta la mia sofferenza è il vedere
come gli uomini accettino senza un lamento
il pensiero della fine che può venire da un
momento all'altro. E bada che tutti sanno
d'essere venuti qui a morire...
Gli brillavano gli occhi, guardava ora i
suoi artiglieri che scavavano furiosamente la
terra gelata, osservava le colline del Don.
- Verranno di là - disse mordendosi il
labbro inferiore - ad ammazzarmeli...
Verso le nove la vedetta diede l'allarme.
- I russi! - gridò indicando il limite della
pianura.
Reitani puntò il binocolo. Di fronte, dove
a due chilometri di distanza la pianura si
congiungeva alle colline parallele al corso del
Don, un reparto stava avanzando.
- Saranno sei o settecento - disse il
capitano agli ufficiali vicini - vengono senza
dubbio contro di noi, fra mezz'ora saranno
qui. Serventi ai pezzi.
Gli uomini si portarono in silenzio alle
armi.
- Quanti proiettili abbiamo? - chiese il
medico.
- Duecentosessantaquattro. Pochi, ma li
venderemo cari.
- Batteria pronta, capitano - comunicò
Dell'Alpe.
- Spareremo a zero sul reparto che
avanza. Avverto che darò l'ordine di fuoco
soltanto quando i russi saranno a trecento
metri.
I russi progredivano sulla spianata
lentamente, a ranghi compatti; quando
furono a ottocento metri dalla batteria si
fermarono.
- Purché adesso non avanzino in ordine
sparso... - borbottò fra i denti Dell'Alpe.
Un rumore intermedio fra il fruscìo e lo
scroscio passò nell'aria.
- Mortaio... - sibilò qualcuno, e uno
schianto secco subito seguito da un secondo
fece socchiudere le palpebre ai soldati.
- Brutto affare. Rispondiamo? - chiese
Perbellini irritato.
- Da trecento metri - confermò il capitano
con calma.
Altri due colpi di mortaio esplosero più
vicini alla batteria, poi ancora due in
prossimità del quarto pezzo.
Un soldato rimase ferito a un braccio.
Serri gli frenò subito l'emorragia.
I russi ripresero ad avanzare con
decisione, appoggiati dall'intensificato
impiego dei mortai: iniziarono anche a
sparare con le mitragliatrici, i sibili delle
pallottole sfioravano i pezzi e gli uomini
della ventisei.
Serri medicò altri due soldati feriti.
Quando il reparto russo fu a quattrocento
metri dalla batteria il tiro dei mortai scemò
d'intensità.
- Batteria pronta, capitano - sollecitò
Dell'Alpe che si rodeva nel non veder
controbattuto il tiro nemico.
- Ancora qualche minuto - rispose
Reitani; ma quando il reparto russo fu a
trecento metri puntò il binocolo e disse a
Dell'Alpe con estrema calma: - Primo, terzo e
quarto pezzo: granate a tempo, spoletta a
zero, puntamento diretto sull'obiettivo
indicato.
- Batteria pronta! - ripeté fremendo
Dell'Alpe in attesa del comando ultimo.
- Fuoco - mormorò il capitano.
- Fuoco! - gridò il tenente ai capi-pezzo.
Un triplice rombo partì dai pezzi e un
indescrivibile scompiglio fu visibile nelle file
russe.
- Fuoco! - ripeté Dell'Alpe.
- Fuoco! - gridò quasi subito per una terza
volta.
Quando l'eco della terza salva si dissolse,
gli uomini ai pezzi udirono le alte grida che si
levavano dal reparto russo, nel quale s'erano
aperti visibili vuoti; molti russi erano caduti
nella neve, il reparto tuttavia si era subito
ricomposto e avanzava nuovamente.
- Altre tre salve, capitano? - gridò
Dell'Alpe.
- Sì - confermò Reitani.
- Non abbiamo più granate a pallette -
comunicò Perbellini.
- Passate alle normali, presto - disse il
capitano. - Fuoco con le mitragliatrici.
I russi erano giunti a duecentocinquanta
metri e progredirono ancora fino a distare
soli duecento metri dai pezzi italiani.
- Sono decisi a tutto - constatò Reitani. E
comandò: - Intensificare la cadenza del tiro.
Sotto l'esplodere delle granate e le
raffiche delle mitragliatrici il reparto russo
s'arrestò, parve esitare, poi all'improvviso i
russi volsero le spalle e si diedero a
precipitosa fuga disperdendosi in ogni
direzione sulla neve.
- Scappano! Scappano! - gridavano
entusiasti gli artiglieri ai pezzi.
- Non illudiamoci, ritorneranno
- mormorò Reitani a Dell'Alpe; - hanno
ormai valutato i mezzi di cui disponiamo e
non facciamo altro che provocarli, tutto
sommato.
Il tempestare dei colpi di mortaio sulla
ventisei riprese improvvisamente con
estremo vigore come per rappresaglia, le
schegge volavano in ogni direzione, altri
alpini vennero feriti.
Il reparto russo, a settecento metri,
andava ricomponendosi e riordinandosi.
- Quanti feriti? - chiese il capitano a Serri.
- Undici, ma cinque hanno voluto
ritornare al loro posto ai pezzi.
- Quanti colpi ci restano? - domandò
allora il capitano a Perbellini.
- Centosettantasei, ma ventuno sono
controcarro.
- Vengono di nuovo! - esclamò Dell'Alpe.
I russi avevano ripreso ad avanzare,
ancora a ranghi compatti.
- E' pazzesco uno schieramento simile, li
mandano al macello - disse Reitani
osservando col binocolo.
Il grandinare dei colpi di mortaio contro
la batteria s'accrebbe, altri mortai erano
entrati in azione, ma il loro tiro era
impreciso. Due artiglieri caddero feriti, uno
aveva una gamba sfracellata. Serri si chinò su
di lui, lavorando febbrilmente a fianco del
pezzo.
Quando il reparto che attaccava giunse a
duecento metri, Reitani ordinò di aprire il
fuoco simultaneamente con le mitragliatrici
ed i pezzi.
L'effetto fu impressionante, ma il reparto
proseguì ugualmente, presto fu a cento metri
dai cannoni.
- Fuoco accelerato! - ordinò il capitano.
Ma poiché i russi dimostravano di saper
giungere ai cannoni, comandò pure: -
Inastare la baionetta!
Rabbiose salve a cadenza rapida si
rovesciarono sui russi, le due mitragliatrici
sgranavano pallottole incessantemente, i
mortai russi picchiavano sulla batteria, gli
ultimi proiettili italiani giacevano accanto ai
pezzi, una mitragliatrice s'inceppò, vari
artiglieri sparavano con i fucili, il reparto
russo di testa era già a ottanta metri dai
cannoni, due colpi del terzo e quarto pezzo
esplosero nel folto dello schieramento
nemico, gli altri russi subito
s'inginocchiarono sulla neve, si distesero,
uno si rialzò e corse indietro, dieci lo
imitarono, tutti in un baleno si rialzarono e
fuggirono lasciando sulla neve i corpi
immobili dei compagni inanimati.
Osservando il nemico fuggente per la
seconda volta, gli artiglieri videro accrescersi
le probabilità di sopravvivenza. Ma il velo di
speranza con cui adombravano la realtà fu
subito strappato, poiché Dell'Alpe gridò: - Un
altro reparto avanza!
Tutti videro presso i colli prossimi al Don
una seconda grossa formazione russa che da
un chilometro e mezzo di distanza stava
avanzando sulla neve.
- Perbellini, quanti colpi abbiamo?
- chiese Reitani.
- Sei colpi, signor capitano - rispose
l'adolescente con voce ferma.
Gli ufficiali e i soldati si guardarono negli
occhi in silenzio: la fine era segnata.
I mortai russi avevano nuovamente
sospeso il tiro, dietro i pezzi i feriti doloranti
tacevano. Una improvvisa stanchezza pareva
essere scesa su uomini e cose.
- I russi avanzano ancora - confermò
Reitani osservando col binocolo verso il Don.
- Un altro reparto! - gridò il sergente
Sguario dal quarto pezzo, che si trovava
sull'estrema destra. Gli artiglieri videro
allora, guardando a tre chilometri sulla
destra, varie centinaia di uomini in fila che
salivano lentamente e stavano per
raggiungere, al di là della valle, i salienti
delle colline. A giudicare dalla posizione degli
ultimi uomini della fila, che si trovavano
ancora sulla pista a fondo valle, la colonna
proveniva da Golubaja Krinitza.
- Hai tenuto d'occhio la pista a fondo
valle? Non sono venuti da Novo Kalitwa? -
domandò concitatamente Dell'Alpe a
Sguario.
- Lo escludo, non abbiamo perso di vista
Novo Kalitwa per un solo momento - rispose
con sicurezza il capo-pezzo.
- Occupano sistematicamente tutta la
zona, avanzano anche dalle nostre spalle. E'
fatta - ammise Dell'Alpe con rabbiosa
tristezza.
Reitani guardò ancora la pianura
antistante, da dove s'avvicinava il pericolo
più immediato. Gli uomini del reparto
sgominato s'andavano riunendo, quelli del
reparto di rincalzo distavano poco più di un
chilometro.
- Quando saranno vicini a noi - ordinò a
Perbellini - farai saltare i pezzi: prepara le
micce e le cariche.
Serri aveva riunito i feriti facendoli
stendere su un piano di cassette vuote
ravvicinate sulla neve. Perbellini preparava
in silenzio le cariche.
Gli artiglieri, taciturni, avevano volti duri,
chiusi.
- Mi dispiace - disse però Sguario - d'aver
lavorato tre ore per niente a scavarmi la
buca.
- Qualcuno arriva dalle cucine - notò un
artigliere che stava guardando indietro.
Un uomo infatti stava avvicinandosi
quasi di corsa arrancando nella neve; ad un
tratto cadde e si rialzò subito riprendendo a
correre. Due altri uomini apparvero al limite
del piano e si misero a correre verso la
batteria agitando convulsamente le braccia.
- Hanno visto i russi al fondo valle o sono
stati già attaccati - disse Dell'Alpe.
- Quello è Sorgato, disgraziato anche lui -
osservò Sguario riconoscendo l'uomo che si
avvicinava correndo.
Come fu a trenta metri, Sorgato con uno
sforzo accelerò l'andatura agitando le braccia
come un forsennato; gli si distingueva un
viso stravolto che nessuno gli aveva mai
visto. Piombò in mezzo agli uomini; gridava
ansando, guardandosi attorno senza dar
mostra, nel suo smarrimento, di riconoscere
alcuno:
- Signor capitano... Signor capitano...
- Sono qui! - esclamò Reitani quasi
seccato.
- Signor capitano... - gridò Sorgato
precipitandosi boccheggiante sull'ufficiale e
afferrandogli le braccia - ... la Julia... la
Julia...
- Cosa vuoi? - domandò Reitani mentre
vari artiglieri si raggruppavano intorno ai
due.
- La Julia... - ripeté il vecchio alpino con
occhi da forsennato, ansimando - ...la Julia,
vi dico!
In quel momento gli altri due arrivavano
urlando: erano Scudrèra e Pilòn che
sopraggiungendo si precipitarono dal
capitano.
- Cosa c'è, insomma? - gridò questa volta
Reitani stizzito.
- Arriva la Julia, signor capitano! - urlò
Scudrèra con quanto fiato gli consentiva la
corsa fatta.
- Bada a quel che dici, imbecille! - gridò
furibondo Coltrin.
- E' la verità, signor capitano - proseguì
rapidamente Scudrèra senza rilevare la frase
del puntatore. - Un mulo è scappato giù nella
valle, gli sono corso dietro ed ho visto
arrivare un reparto, lo credevo russo ma poi
ho riconosciuto gli alpini da lontano!
- Sei sicuro? - chiese seccamente Reitani.
- Sicuro, signor capitano? - scattò
risentito Scudrèra; - ho parlato con loro,
stanno già andando sulla nuova linea, mi
hanno garantito che entro oggi tutta la Julia
arriverà qui!
- I russi sono a seicento metri! - gridò il
sergente Bon che seguiva ogni movimento
nemico.
L'eco di un rapido sgranarsi di colpi di
mitragliatrice giunse dalla destra,
dall'opposto versante della valle, trenta teste
si volsero rapide all'improvviso richiamo;
s'udirono quattro netti tonfi di colpi di
mortaio in partenza, dopo pochi secondi
quattro pennacchi di fumo nero si levarono
tra le file del reparto russo avanzante.
Gli artiglieri della ventisei, immobili
come statue, seguivano l'evento trattenendo
il respiro.
E allora videro che sulla neve
dell'altopiano il reparto russo s'arrestò
interdetto per un paio di minuti; poi,
certamente obbedendo a un ordine, gli
uomini che lo componevano eseguirono un
dietro-front e cominciarono a retrocedere
verso il Don.
Un grido solo, lungo, frenetico, quasi
doloroso si levò allora fra i pezzi della
ventisei; e una molla inverosimilmente tesa
scattò nel petto degli artiglieri alpini che si
avventarono l'uno contro l'altro a colpirsi con
grandi manate sulle spalle, ad abbracciarsi, a
baciarsi sui visi ispidi di pelame incolto e
gialli di patimento. Sul piano di cassette da
munizioni i feriti, pallidissimi e ammutoliti,
si assestavano con caute mani gli stracci
posti a riparo delle piaghe e si palpavano gli
arti offesi quasi a saggiarne con nuovo
interesse la superstite vitalità; perché
inverosimilmente la vita richiamava, ancora
una volta, tutti i trenta moribondi della
ventisei.
- Me n'era rimasta ancora una, Italo -
disse Reitani fissando Serri con lucenti
trepidi occhi; gettò sulla neve lo sgualcito
pacchetto vuoto e spezzò a metà la sigaretta
che teneva in mano.
- Mezza per uno - disse ancora,
insinuando fra le labbra del compagno uno
dei due mozziconi - da buoni fratelli. Accendi
tu, io sono senza fiammiferi.
Ogni più semplice parola aveva ora un
significato incredibile: riposante.
- Avevi in mano la scatola qualche minuto
fa - rispose Serri frugandosi in tasca
inutilmente.
- Sì, l'avevo data a Perbellini - disse
Reitani sorridendo - per accendere le micce e
far saltare i pezzi...
- Gettò un'occhiata sulla destra, al di là
della valle, poi alzò lo sguardo verso le
colline più lontane soffermandolo un istante
in direzione di Jvanowka; lo girò innanzi
osservando il reparto russo che
indietreggiava, macchia nerastra nello
sfondo dei colli in riva al Don; ritrasse
gradualmente l'occhio scorrendo sulla
pianura bianca di neve e punteggiata di
morti; l'ultima occhiata fu per i suoi trenta
uomini rimasti vivi e per i suoi tre piccoli
pezzi acquietati. Guardò Serri infine, gli
sorrise allora come un fanciullo che esiti a
confidare un suo segreto e finalmente disse
con voce sommessa, completando la frase
interrotta: - Me la farò restituire; quasi quasi
penso di portarla alla mia mamma, per
ricordo.
Siccome Serri lo fissava con occhi strani,
violentati dalla commozione: - Sai come sono
le mamme - si scusò; - certe volte basta una
cosa da niente per farle contente.
XIX
- Il pezzo che ti era restato indietro sta
per arrivare qui - disse nel pomeriggio a
Reitani il tenente colonnello Verdotti,
osservando attentamente la piana innanzi
alla ventisei; - è stato possibile recuperare
quasi tutto ciò che vi era rimasto a mezza
strada durante il vostro trasferimento a
Mitrofanowka; entro domani avrai
nuovamente la batteria al completo.
Hai scelto il punto più indicato per
schierare i tuoi pezzi, capitano: un po' troppo
avanti, forse, ma in compenso puoi battere
meglio le linee nemiche. Le altre batterie del
Gruppo sono già in linea, ho posto il mio
comando presso Golubaja Krinitza.
- In questa circostanza avete tenuto un
comportamento da veri alpini - proseguì il
comandante di Gruppo - la ventisei ha
onorato ancora una volta il nome della Julia,
siamo fieri di voi. Ma non è una buona
ragione per farmi quella faccia - concluse
allegramente prendendo a braccetto Reitani
nel vedere che il viso dell'ufficiale era
impallidito.
Era quello che si dice una bella figura di
soldato, il tenente colonnello Verdotti;
veterano di molte campagne, alla grande
esperienza di cose militari univa una
eccezionale dirittura morale, un senso di
responsabilità e una prestanza fisica che gli
conquistavano la stima e l'affetto dei soldati.
- Com'è ora la situazione, signor
colonnello? - chiese Reitani; - da quando
abbiamo lasciato Kuwschin noi non
sappiamo più nulla salvo che i russi hanno
sfondato con tre Corpi d'Armata corazzati.
- La situazione non è nota con precisione
- rispose Verdotti - perché la crisi ha
investito oltre che il settore di fronte italiano
anche quello tedesco e romeno; ci giungono
notizie imprecise.
- Ma cosa è successo?
- Ecco: - disse il colonnello cogliendo il
fusto di un cardo selvatico e tracciando con
esso una linea nella neve - supponi che
questa linea sia il medio Don. Poco oltre
l'estremo di destra, a sud, c'è Stalingrado.
All'estrema di sinistra, a nord, c'è Voronesh.
Da nord a sud sono successivamente
schierate le Armate tedesche, poi la
ungherese, poi la italiana, quindi la romena e
infine ancora le tedesche. - Parlando, con la
punta del fusto di cardo andava segnando
con buchi equidistanti lo schieramento delle
armate. Tagliò con un tratto la linea, in
corrispondenza del dislocamento dell'Armata
italiana.
- In questo tratto, dal fiume Kalitwa -
riprese - proprio qui nel settore che oggi noi
teniamo, fino all'ansa di Werch Mamon, il
dodici dicembre i russi hanno sferrato una
travolgente offensiva sostenuta appunto da
tre Corpi d'Armata corazzati, sfondando e
aprendosi una falla che nel settore italiano
ha per limite, a nord, lo schieramento del
Corpo d'Armata alpino. Lo schieramento
alpino - e guardando sulla pianura indicò col
cardo l'orizzonte verso nord - termina
appunto là, a una dozzina di chilometri circa,
oltre una palude formata dal fiume Kalitwa
che in quella zona si getta nel Don. Qui, dove
ci troviamo ora, il fronte era tenuto dalla
Ravenna e dalla Cosseria, che dopo una
resistenza accanita sono state travolte dalla
strapotenza nemica; il comando dell'Armata
italiana ha deciso perciò di togliere una
divisione all'intatto schieramento alpino e
inviarla qui nel tentativo di tamponare la
falla e di impedire lo scardinamento totale
del fronte: è stata prescelta la Julia, e voi
siete stati mandati avanti come reparto di
pronto intervento; il grosso della Julia è
giunto soltanto oggi, a piedi. Da oggi
costituiamo il cardine e la spalla dello
schieramento rimasto valido da qui verso
nord. Dobbiamo perciò resistere
indefinitamente su queste posizioni.
Facciamo fronte verso est, al fianco nord
abbiamo la linea tuttora salda, al fianco sud...
- Al fianco sud? - chiese Reitani.
- Sappiamo soltanto che in questa
battaglia i russi hanno gettato la
loro 1a Armata più un Corpo d'Armata
corazzato contro la Cosseria e la Ravenna, e
la 6a Armata più due Corpi d'Armata
corazzati contro la Pasubio, la Torino, la
Celere e la Sforzesca: con questa enorme
sproporzione di forze il settore di fronte delle
nostre fanterie è stato travolto. I tedeschi
cercano di porre in atto ogni contromisura
possibile per salvare le loro Armate che
combattono da qui fino a Stalingrado e nel
Caucaso. Ignoriamo l'attività dei Corpi
d'Armata corazzati russi che ormai operano
alle nostre spalle.
- E tutte le divisioni italiane che erano
schierate sul Don...
- Stanno ripiegando, e nel territorio in cui
manovrano operano contemporaneamente
grandi forze russe.
- Cosicché i russi possono attaccarci alle
spalle quando vogliono... - disse Reitani.
- Sì, non possiamo nasconderlo.
Possono aggirarci a vasto raggio dal sud e
noi qui non ce ne accorgeremmo neppure.
Ma per noi alpini c'è l'ordine di rimanere.
Abbiamo esattamente la funzione di una diga
frangiflutti spinta nel mare. Dobbiamo
resistere qui ad ogni costo. Ma penso che il
nostro destino sarà deciso altrove.
- Capisco - disse Reitani.
- Devo tornare al mio comando - terminò
Verdotti; - entro oggi vi manderò viveri di
conforto, ne avete bisogno. Vi occorrerebbe
anche un lungo periodo di riposo, ma non
posso concedervi neppure un'ora.
- Ci basta non sentirci soli come eravamo
fino a stamane.
Così era, infatti. I quattro colpi di mortaio
avevano mutato la situazione nella zona di
Novo Kalitwa e nell'animo degli artiglieri.
Erano stati sparati da un battaglione della
Julia che stava raggiungendo le nuove
posizioni. Gli uomini della ventisei, quasi
impazziti di entusiasmo, avevano poi visto
altri uomini formicolare sulla neve e
prendere posizione sulle colline. Il
battaglione di alpini Tolmezzo era affiorato
sulla piana ove la linea pezzi di Reitani
vigilava; gli artiglieri alpini e gli alpini
avevano scambiato i primi gioiosi saluti a
gran voce e il battaglione si era poi schierato
cento passi innanzi alla linea pezzi
costituendo la prima linea.
I russi, sconcertati dall'affluenza di nuove
forze, non erano più riapparsi, avevano
cessato anche i tiri di disturbo e non davano
segno di vita.
Approfittando della tregua e incalzati
dalla necessità i battaglioni e i gruppi si
erano subito impegnati nella lotta contro la
neve e il freddo. Come nel giorno precedente
gli artiglieri della ventisei, così gli uomini
dell'ottavo e nono Reggimento Alpini si
erano trovati a calpestare la neve gelata ed a
pensare che su quella dovevano in ogni
modo vivere. E s'erano buttati a corpo morto
a spalare neve, scavando così quello che
doveva essere, ad un tempo, primissima
linea e rifugio, e che prima di notte appariva
all'occhio come un lungo solco che tagliava
per chilometri la pianura, profondo quanto la
neve e largo un metro. I muli portavano
paglia, gli attrezzi lavoravano accanitamente,
all'imbrunire sugli opposti bordi della fossa
vennero fissate le coperte a guisa di tetto e a
notte nella fossa dormirono gli alpini.
All'indomani erano giunti tutti i restanti
reparti della Julia. La ventisei aveva avuto il
suo ultimo pezzo e si era ricongiunta agli
altri suoi uomini, la linea acquistò organicità
e continuità, sul fronte di Novo Kalitwa la
divisione iniziò il nuovo ciclo di vita di
guerra.
- I nostri rifugi di Kuwschin...! -
sospiravano gli artiglieri giunti il giorno
innanzi, pestando la neve attorno ai pezzi e
guardando la pianura desolata.
Nel pomeriggio i russi ripresero i
bombardamenti; fu subito evidente che
avevano ricevuto notevoli rinforzi
d'artiglieria poiché cominciarono a battere
tutta la zona in cui s'era schierata la
divisione. Dimostrarono anche di possedere
un notevole numero di mortai coi quali
andavano picchiando sulle linee. Le
artiglierie della Julia risposero
vigorosamente, poiché erano giunte buone
scorte di munizioni.
Ogni reparto era collegato con i Comandi
telefonicamente, il rancio giungeva
regolarmente anche se gelato, le armi erano
a punto, la divisione era compatta e
agguerrita, scaglionata nei ripiani, nelle
vallette e sui colli a poca distanza dal Don e
da Novo Kalitwa.
Ma gli uomini soffrivano, gettati sulla
neve, rintanati nelle trincee nevose, legati
all'arma e al servizio di sentinella,
immobilizzati nel terreno gelato, assetati
poiché tutto intorno era soltanto neve o
ghiaccio, assonnati per essere costretti a
scavare la terra nelle ore di luna per non
rimanere assiderati.
Tacevano, ma i piedi nelle scarpe
irrigidite minacciavano di non potersi più
muovere, le mani faticavano ad impugnare
l'arma.
- Ma signor tenente - chiedeva Coltrin a
Perbellini - le divisioni di fanteria che erano
qui prima di noi non avevano rifugi?
- Sì, certo.
- E dove sono?
- In riva al Don, là su quelle colline in
fondo alla pianura. Se li godono i russi, ora.
- Loro nei rifugi degli italiani, e noi sulla
neve?
- Per forza.
I soldati guardavano a lungo all'estremo
margine della Pianura e sempre qualcuno
commentava: - Non capisco perché non ci
mandano ad occuparli.
I «Rata» russi venivano a mitragliare e
spezzonare. Prendevano di mira le batterie e
scendevano fino a pochi metri dalla neve
tentando di sganciare le bombe sui cannoni
mentre gli artiglieri sparavano con i fucili.
Gli apparecchi sorvolavano le trincee
degli alpini mitragliando ininterrottamente e
gli uomini rispondevano da terra
impegnando strani duelli con gli aerei.
Riuscirono ad abbatterne due.
I reparti russi cominciarono ad attaccare
qui e là di sorpresa la linea italiana per
saggiare la consistenza dello schieramento
alpino, ma furono respinti. Gli alpini
sentivano però chiaramente che il nemico si
stava rafforzando; di notte si sentiva
giungere da Novo Kalitwa un incessante
rombo di motori.
Alla ventisei il capitano Reitani incitava di
continuo gli uomini a scavare la terra. Ora
che la permanenza si poteva considerare
stabile, aveva fatto iniziare la rimozione della
neve e intraprendere le opere di scavo sul
bordo del ripido pendio della balka che si
infossava a dieci metri dietro la linea pezzi.
- Forza, ragazzi! - diceva; - fra poco per
sopravvivere bisognerà avere qualche buco
per ripararci. Datemi ascolto.
Gli artiglieri si sfibravano nel lavoro di
scavo, avevano anche costruito qualche
baracchetta con assi raccogliticce e con teli
da tenda.
- Bisogna porre gli uomini al riparo
almeno dai colpi di mortaio - diceva il
capitano agli ufficiali - perché tra poco ci sarà
battaglia grossa.
A dieci passi dal primo pezzo, nel punto
più esposto, sfruttando come parete il pendio
della balka, Reitani aveva fatto rizzare su pali
un telo che serviva da tetto e ricadendo a lato
formava altre due pareti del rifugio ufficiali.
La quarta parete mancava, ma al pari dei
soldati gli ufficiali ora usufruivano di due
coperte e di qualche bracciata di paglia. Il
rifugio era gelido, ma consentiva tuttavia
qualche ora di sonno. Sui pochi metri
quadrati di terriccio gli ufficiali dormivano
affiancati e vicini; tra Reitani e Perbellini
stava su un'assicciola il telefono poiché il
rifugio funzionava anche da Comando di
batteria.
Gli alpini con una ingegnosità senza pari
andavano rendendo meno impossibile la vita
nelle trincee. Un pezzo di latta, un fazzoletto
steso, due palmi d'asse, un ritaglio di cartone
incatramato, tutto serviva a tamponare, a
chiudere, a contrastare un grado di
temperatura all'inverno russo. Faceva un
freddo terribile, poiché il Natale era
imminente; un senso di sollievo si
diffondeva fra gli uomini quando, verso il
mezzogiorno d'una giornata di sole, si
potevano sfilare per un poco i guanti perché
la temperatura era salita a quindici, anche a
dieci gradi sotto zero; ma già un'ora dopo
scendeva rapidamente, e se qualcuno voleva
approfittare dell'ultima luce del giorno e di
un momento di calma per scrivere a casa gli
auguri di Natale, doveva prima tenere a
lungo la penna stilografica infilata in bocca
affinché ridiventasse liquido l'inchiostro
gelato nel serbatoio.
La notte di Natale calò sulla distesa
bianca; era patetica e struggente come solo i
soldati in trincea la sentono, lontani da ogni
bene, dispersi nel silenzio, prossimi alle
stelle.
A mezzanotte, dalle gelide tane disperse
fra la neve, ombre lente sortirono sulla
pianura e s'avviarono silenziose verso un
punto un poco luminoso. Convenivano dagli
esigui tuguri ricavati fra neve e terra,
pazientemente divisi con pidocchi e topi;
andavano a processione e giungevano alla
piccola luce, alla baracchetta del Comando di
battaglione a salutare Gesù, poiché il
cappellano Lo chiamava tra gli alpini, in
quella notte: diceva la Messa di Natale in
prima linea e Lo pregava di scendere a
trovare gli alpini, che Lo attendevano con
puro cuore.
Pochi avevano trovato posto nella
baracchetta, i più stavano nella neve, si erano
inginocchiati nella neve e dalla porticina
aperta vedevano le due candele accese e il
cappellano che pregava per chiamare Gesù.
Il cappellano pregava con fervore ma un
poco in fretta, perché gli alpini tremavano di
freddo, quarantadue feroci gradi sotto zero,
ma erano venuti da Lui.
Stavano fermi e buoni nella neve, le
ginocchia sprofondate nel bianco parevano di
ghiaccio; tenevano la testa bassa a dire le
loro semplici preghiere e ogni tanto
l'alzavano a guardare il chiarore delle due
candele.
Il cappellano leggeva in fretta e a bassa
voce le parole della Messa di Natale.
- Vedi, Bambino Gesù - forse diceva il suo
cuore mentre gli occhi scorrevano sulle righe
del messale - questi sono gli alpini che fanno
la guerra. Ma non ne hanno colpa, Tu lo sai.
Sono stati mandati, e devono ubbidire.
Preferirebbero lavorare tranquilli nelle loro
case, per i loro figli e per le mogli che sono
rimaste sole, e per i vecchi. A loro non manca
la buona volontà di servirTi in pace proprio
come vorresti Tu, Pax hominibus bonae
voluntatis. Vedi invece dove sono finiti e
come soffrono, che vita fanno! Guardali
come sono ridotti, quasi peggio di Te quando
nascesti: hanno solo un po' di fradicia paglia
per sdraiarsi; Tu almeno avevi, scusa, il bue e
l'asinello a riscaldarTi col fiato. Loro, no. Il
loro fiato esce dalla bocca e diventa brina,
ricade sul bavero e sul petto del cappotto,
anche quando dormono; si svegliano così,
poveretti, col ghiaccio sugli abiti. E
sopportano, perché sono mansueti ed umili
di cuore, come Tu vuoi. Quando mi sono
voltato verso di loro per annunciare Gloria in
excelsis deo, ho visto che sono inginocchiati
nella neve rivolti al Tuo altare: me
l'aspettavo, li conosco bene. E stanno a testa
china, Ti pregano, se li ascolti sentirai che Ti
chiedono soprattutto di farli tornare presto a
casa, alle loro montagne; da soli non possono
andarci, sono capaci di morire qui, per
ubbidire. Tu stesso li hai fatti così; ma se li
restituisci alla casa sentirai che felicità, che
bontà d'intenti e d'opere vive nel loro cuore...
Press'a poco così doveva pregare il
cappellano, perché era un alpino anche lui.
Ormai la Messa di Natale stava per finire;
con quei quarantadue sotto zero non era
possibile, in linea, fare altre cerimonie. Nella
baracchetta, vicino all'altare, il campanello
del telefono da campo trillò.
- Pronto - disse a bassissima voce, per
non disturbare, il maggiore Letti che
comandava il battaglione Tolmezzo. Ascoltò,
rispose brevemente e tolse la comunicazione
scambiando con il celebrante un gesto di
rammarico.
- Immediatamente ai posti di
combattimento! - ordinò ad alta voce; - i
russi stanno venendo all'attacco davanti al
nostro battaglione. Capitano Reitani, qui per
favore.
La ventisei, che operava in diretto
appoggio del battaglione, aveva la linea pezzi
schierata fra le postazioni degli alpini.
- Mi raccomando il collegamento fra noi -
disse il maggiore; - sarà dura, dagli
osservatorî avvertono che i russi stanno per
attaccare con almeno tre battaglioni il mio
reparto. Dovremo compiere uno sforzo
enorme.
Il cappellano aveva terminato la Messa e
stava riponendo gli arredi sacri, s'udì il
frullare e lo schianto d'alcuni colpi di
mortaio che esplosero nelle vicinanze.
- Non rispettano neppure la notte del
Signore... - sospirò il cappellano spegnendo
le due candele.
Reitani era già uscito, corse duecento
metri a raggiungere la batteria.
Le salve di varie batterie russe iniziarono
a scaricare proietti sulle linee italiane.
Dietro i pezzi, al Comando di batteria
squillò il telefono, Reitani accorse.
- Tiro d'interdizione su Novo Kalitwa -
disse a Dell'Alpe uscendo e comunicando i
dati.
La batteria iniziò a sparare aprendo il
duello con le artiglierie russe, i bengala si
alzavano illuminando le linee con una
fioritura di luce, scoprendo i grossi
battaglioni nemici che avanzavano sulla
neve; velocissimi nastri rossigni si
stendevano nell'aria rasentando le corolle dei
cardi vizzi, venivano incontro agli alpini
acquattati e si spegnevano nel buio:
pallottole traccianti delle mitragliatrici russe.
Avanzando ancora i reparti russi ed
intensificandosi il fuoco nemico, squillò
nuovamente il telefono alla ventisei.
- Il comandante di gruppo ordina di
sospendere il tiro su Novo Kalitwa, che verrà
ripreso dalle due altre batterie del gruppo. La
ventisei inizi il tiro di sbarramento sui
reparti russi che avanzano.
Reitani comunicò alla linea pezzi le
variazioni di tiro, le prime granate caddero
sui russi, questi risposero con un
intensificato tiro dei mortai.
Le mitragliatrici degli alpini sparavano a
tiro incrociato, lunghi sibili negli alti spazi
del cielo annunciavano il passaggio delle
granate. Vampe violacee e rossastre
zampillavano dovunque sulla neve,
disseminando schegge sugli uomini e
inserendo sprazzi di colore nel bianco
spettrale della luce dei bengala.
- Parla il maggiore Letti - disse ancora
una voce concitata al telefono della ventisei. -
Reitani, tieniti pronto a sparare a zero, ho già
avvertito i miei alpini di stare sdraiati sulla
neve, i russi che attaccano stanno per dare
l'assalto alle nostre trincee, sono a duecento
metri. Sono migliaia, è un momento duro;
tiro preciso, a fil di penna, mi raccomando, se
no mi ammazzi gli alpini!
- Fidatevi della ventisei, maggiore -
replicò Reitani e ritornò di corsa ai pezzi per
far variare il tiro.
- A zero, ragazzi - comandò ai capi-pezzo -
a duecento metri. Ricordatevi che i proiettili
che sparate sfiorano gli alpini.
- Non sbaglieremo di quattro dita, signor
capitano! - esclamò Bartolan curvandosi
assieme a Coltrin sul sistema di puntamento
del pezzo.
Trenta secondi dopo, gli alpini affacciati
alle trincee a sparare, avendo a cento passi
dietro le spalle i quattro pezzi della batteria,
percepivano a un metro sopra la testa il
sibilo e il risucchio delle granate roventi
della ventisei che li sfioravano, per esplodere
duecento metri più avanti nel folto del
reparto russo.
- Perfetto, Reitani! - gridava il maggiore
Letti al telefono; - ancora, ancora! Tiro
accelerato fino a contrordine, se puoi; è il
momento culminante.
- Con gli stessi dati, tiro accelerato -
ordinò Reitani alla linea pezzi.
Quando i russi, nella luce dei bengala,
spiccarono il balzo finale per piombare nelle
trincee del battaglione, la neve e l'aria
ribollivano d'esplosioni, di schianti; gli
alpini, curvi sulle loro armi e protetti dai
nastri infuocati della ventisei che parevano
mordere le penne, sparavano a perdifiato,
frenetici, decisi a difendere la trincea e
scattare al contrattacco quando i russi
fossero stati a pochi metri. Il battaglione e la
batteria, fusi in un'unica micidiale forza,
difendevano la linea e la vita in uno slancio
estremo. I russi piegavano le ginocchia e
s'afflosciavano sulla neve, ma altri
sopraggiungevano baldanzosi arrestandosi
anch'essi e cadendo; prossimi ormai alle
trincee altri guadagnavano un metro, due
metri, abbattendosi infine innanzi alla
distruggitrice tenacia di un battaglione e
d'una batteria d'alpini; la sorte parve a lungo
sospesa sulle linee, affidata da un lato a virtù
di tenacia di pochi e dall'altro all'irruenza e
alla massa d'urto dei molti; quando gli sforzi
degli assalitori parvero scoordinarsi, quando
infine la massa russa voltò le spalle e
all'improvviso arrancò come una pesante
mandria verso il buio delle proprie linee,
allora fra gli alpini, che deposto finalmente il
fucile sulla neve si soffiavano sulle mani
gelate o le infilavano sotto le ascelle, corse
un brusio che da difensore a difensore
diceva: - Abbiamo collaudato la linea:
potranno venire mille volte, ma non
passeranno più.
Ora gli alpini riordinavano le armi e
correvano di bocca in bocca i primi tristi
consuntivi del combattimento: - Due morti e
quattro feriti al primo plotone...
- Un colpo di mortaio è entrato nella
trincea del quarto: cinque morti e un ferito...
- Una ventina di alpini si sono congelati...
- Tre assiderati...
Dalla piana antistante le trincee si
udivano salire i lamenti dei feriti russi
immobilizzati nella neve. Lugubri e fiochi,
straziavano il cuore.
- Bisognerebbe fare qualcosa, andare a
prenderli, poveretti. Sulla neve muoiono, con
questi quarantadue sotto zero.
- Sono già uscite due pattuglie, ma non
hanno potuto avvicinarsi, sono state prese a
fucilate. Ci sono ancora diversi russi
appostati in giro, e sparano.
La ventisei aveva avuto otto feriti, Serri li
aveva medicati e avviati all'ospedale. Uno
s'era presentato, un servente del secondo
pezzo, e aveva mostrato in silenzio al medico
le palme delle mani. Dal polso alle estremità
delle dita mancavano in tutto il loro spessore
i tegumenti cutanei, le povere mani
ostentavano a nudo i fasci di muscoli e il
biancore luccicante dei tendini.
- Cosa t'è successo, disgraziato?
- Mi ero levato i guanti un momento,
signor tenente, perché erano incrostati di
ghiaccio e non potevo muovere le mani. Sono
scivolato vicino al pezzo e sono caduto; per
non sbattere la faccia ho dovuto poggiare le
mani sul ferro del cannone. Per il gelo la
pelle mi è rimasta attaccata là, Dio santo.
Il gelo, l'indemoniato gelo era sempre il
nemico più feroce; era vile, subdolo,
implacabile, e ad ogni istante in agguato.
L'altro, formidabile anch'esso, era
tuttavia più facilmente affrontabile.
Non desisteva se non era esaurito dallo
sforzo, però. Anche in quella notte di Natale
dopo mezz'ora di tregua ritornò all'attacco
con forze più imponenti, impegnò i suoi
uomini con un vigore impressionante
scagliandoli di nuovo contro il battaglione e
la batteria, deciso a sfondare. Ripiegò,
ritornò quindi con maggiore furia all'attacco.
- Attenti - telefonarono dagli osservatori e
dai comandi - viene avanti con forze
raddoppiate, è indubbiamente un intero
reggimento che avanza.
L'urto contro il battaglione e la ventisei fu
terribile, distruggitore; fortunatamente gli
altri battaglioni del reggimento e le batterie
del gruppo riuscirono ad agganciare il
reggimento nemico impegnandolo su più
largo fronte e frazionando la potenza d'urto.
Il nemico non giunse a ridosso delle trincee;
nell'imminenza dell'alba il reggimento russo,
fiaccato da ore di tentativi sanguinosi,
ripiegò ancora una volta.
Agli sguardi stanchi degli alpini l'alba
svelò innanzi alle trincee lo spettacolo di
centinaia di russi inerti sulla neve.
Le palpebre pesavano, tormentate dalla
stanchezza; e gli occhi vitrei dei soldati
guardavano fissi e come spenti al di sopra dei
cadaveri il primo livido pallore di quel
venticinque dicembre che gli uomini amano
salutare giorno di pace.
XX
Specie durante la notte gli uomini della
Julia scavavano la terra, trascinavano assi e
pali dalle retrovie, s'accanivano nel tentativo
di costruire rifugi.
I russi, di fronte, abitavano i rifugi italiani
trovati intatti lungo il Don, usufruivano
anche dei paesi posti al di là del fiume, ben
sapendo che gli italiani non potevano avere
velleità d'attacco; ma la Julia era inchiodata
alla neve, là i suoi uomini erano condannati
ad accettare e subire ogni iniziativa nemica.
Il giorno ventisei i russi attaccarono e
furono respinti sei volte.
- Agiscono progressivamente - diceva a
Reitani il tenente colonnello Verdotti, venuto
in ispezione alla ventisei; - hanno cominciato
col saggiare la consistenza del fronte della
Julia attaccando la linea tenuta da un
battaglione, poi hanno aumentato le forze
d'attacco e si sono scagliati contro un
reggimento, infine contro tutta la Divisione.
Finora non hanno avuto successo, ma
ricevono sempre nuovi rinforzi.
- Che forze russe potrà avere attualmente
di fronte, la Julia? - chiedeva Reitani.
- E' accertato che sono schierate innanzi a
noi tre divisioni russe, ma bisogna tenere
presente che i reggimenti russi hanno un
organico assai superiore al nostro. Inoltre i
prigionieri affermano concordemente che è
atteso l'arrivo di divisioni di siberiani
particolarmente atti e attrezzati al
combattimento nel clima più freddo.
- E la situazione generale? - chiedeva
Reitani.
Il colonnello guardava il cielo e
increspava le labbra.
- T'ho già detto che la Julia è come una
diga che s'inoltra nel mare - diceva; - ecco, fa'
conto che ora sul mare si sia scatenata una
furiosa burrasca. Chiaro?
- Chiaro.
- Bene. I tedeschi dicono che stanno
prendendo le misure del caso. E' tutto quello
che si sa. Resistono ancora a Stalingrado, ma
da là a qui la situazione del fronte è oscura e
incontrollabile. Sulla nostra sinistra abbiamo
sempre le altre due divisioni alpine che
tengono la linea sul Don, ma sulla destra
invece c'è un rimasuglio di divisione tedesca
quasi completamente distrutta dai
combattimenti; alla destra di quella poi c'è il
vuoto assoluto. La diga finisce perdendosi
nel caos.
- E il rimanente dell'Armata italiana? -
chiedeva Serri, angosciato per la sorte del
fratello Beppe.
- Stanno ripiegando, noi appunto ci
ostiniamo a sbarrare la strada al nemico
anche per rendere meno difficoltoso
l'arretramento della nostra Armata.
- E noi? - domandava Brogli.
Il colonnello si stringeva nelle spalle.
- A noi non resta che resistere qui,
secondo il compito che il Comando d'Armata
ci ha affidato. In ogni modo, per uscirne con
onore c'è una sola via, e la conosciamo.
Dobbiamo provvedere a noi stessi da soli,
non possiamo fare affidamento sulle forze
tedesche dislocate nel settore della Julia,
perché sono esigue ed esauste.
- A quanto ammontano, in realtà?
- insisteva Brogli.
- I tedeschi ci hanno inviato in appoggio
qualche reparto che è stato inserito in linea
fra i nostri, ma uno dei battaglioni è
composto di quarantotto uomini, e una
compagnia di sedici! Ricordatevi di non
perdere mai d'occhio la quota 176, è una delle
posizioni chiave del nostro schieramento ed
è tenuta da loro. I tedeschi dicono che
faranno affluire in questa zona molti carri
armati, ma temo che non li vedremo mai. A
proposito di carri armati, vi avverto invece
che a Novo Kalitwa ne sono giunti diversi:
abbiate presente che i russi li adoperano
specialmente di notte. Abituate gli uomini
all'idea di trovarsi di fronte anche a quei
bestioni di ferro, una di queste notti.
Il ventisette dicembre lo spiegamento
offensivo russo gravò sulla linea della Julia
in tutta la sua potenza.
Gli attacchi si susseguirono di giorno e di
notte.
In pochi giorni il gelo, l'insonnia e il
combattere avevano scavato nei volti degli
alpini profonde ombre di patimento. Tutta la
Julia viveva poggiando e gravitando su quei
lunghi chilometri di fronte da difendere:
diecimila uomini di compagnia e batteria
infissi nella neve spuntavano con la penna
nera dalle trincee e dai muretti di neve
elevati a occultamento dei pezzi; addietro,
scaglionati nelle retrovie stavano i comandi,
le basi, le cucine, i magazzini, i depositi, gli
ospedali, i servizi, tutti difesi dai diecimila in
linea cui gli altri diecimila dislocati a tergo
provvedevano, facendo affluire nottetempo
alle trincee, con i conducenti e i muli, i mezzi
per continuare a vivere e combattere. La
linea divorava munizioni e viveri, le retrovie
rifornivano di continuo: nulla doveva
arrestare il concatenato lavoro che articolava
le trincee ai comandi, ai servizi; né i quaranta
sotto zero, né le tempeste di ferro che
scrollavano l'intero settore dovevano
intaccare l'opera dei ventimila alpini, pena
l'annientamento della Julia.
La Julia teneva. Tenevano i muli, i
conducenti, gli alpini affossati nel gelo
infernale, le vedette sugli estremi spalti.
Gelati dal vento, giungevano a sera muli e
conducenti, trascinando a ridosso delle linee
le munizioni e il rancio.
- Presto! - diceva allegramente Scudrèra
raggiunta la linea pezzi della ventisei,
scrollandosi dalle gambe e dall'orlo del
cappotto la neve raccolta durante il cammino
e slegando il telo di copertura delle slitte; -
Sbrighève, ve se raffrèda el ràncio e me vièn
el cagòto ai muli!
- Abbiamo fretta di tornare indietro, eh? -
insinuava Coltrin beffardo.
- Indietro, io? - sbottava Scudrèra
ridendo, consapevole di quant'era
inverosimile l'idea che egli potesse aver
paura. E aggiungeva con serietà: - Cosa
mangiate domani, se stanotte mi crepano i
muli?
- Cos'hai portato? - chiedeva l'infermiere
Zoffoli, eterno affamato.
- Minestrone congelato, pane e
formaggio. Ti basta?
- C'è il vino? - domandava il sergente
Bartolan, addetto alla distribuzione.
- Sì: nel sacco più grande.
Era sembrata una battuta di spirito, la
prima volta, ma poi gli artiglieri si erano
abituati a sfilare dal sacco il blocco di
ghiaccio bruniccio costituito dal vino
congelato: lo rovesciavano sulla neve e lo
spezzavano con una accetta per ricavarne le
razioni, mentre qualcuno raccoglieva le
schegge per succhiarle. Gli artiglieri
passavano poi a turno presso la slitta a
ricevere i quattro blocchi gelati di minestra,
di vino, di pane e di formaggio, per ritirarsi
quindi a ammorbidire in bocca i gelidi cibi,
nella loro tana presso le armi. Erano pasti
penosi e crudeli, una serie di bocconi che
raggelavano il palato e facevano dolere i
denti. E spesso, in quei minuti, i bocconi
laboriosamente preparati finivano a
precipizio nel tascapane perché un maledetto
trillo del telefono sbatteva gli uomini ai pezzi
e la tragedia notturna aveva inizio.
Venne il ventotto dicembre.
Si fecero innanzi i reparti russi e fra le
schiere si profilarono le minacciose sagome
dei carri armati.
- Lasciate passare i carri - fu l'ordine
fulmineo che il telefono trasmise - li
bloccheremo qui in retrovia; voi fermate le
fanterie ad ogni costo innanzi alle linee.
I carri armati passarono incontrastati
sulle trincee degli alpini, mentre questi
rannicchiati nel fondo fissavano i cingoli
scorrere a due palmi sopra le penne nere;
subito gli alpini si riaffacciarono ad
affrontare i reparti che i carri armati
trascinavano nella propria scia e ancora una
volta li bloccarono innanzi alle linee. Solo in
un punto, sotto l'impeto nemico, in quel
giorno la linea cedette e i russi irruppero
nelle trincee: era la quota 176 tenuta dal
reparto tedesco.
Un urlo di delusione e di raccapriccio uscì
dalle gole degli alpini: la quota dominava il
rimanente distendersi della linea, una
breccia simile avrebbe potuto generare
conseguenze disastrose.
Poco dopo, un reparto di alpini salì
all'attacco della 176, con furibondo impeto la
espugnò e la riconsegnò ai tedeschi. I russi
ritornarono immediatamente all'assalto,
riconquistarono la 176 scacciandone i
tedeschi, gli alpini contrattaccarono e
restituirono la quota ai soldati germanici; nel
giro della giornata per una terza volta i
tedeschi perdettero la quota e gli alpini la
riespugnarono riconsegnandola ancora agli
alleati.
- Julia: Panzer-Soldaten...! - esclamavano
i tedeschi.
Era difficile misconoscere l'eccezionale
valore che gli alpini dispiegavano giorno per
giorno: perfino qualche ufficiale russo fatto
prigioniero ammetteva che i Comandi al di là
delle linee erano esasperati e impressionati
per la sovrumana resistenza opposta dagli
alpini; aggiungeva però che gli italiani non
dovevano farsi illusioni perché i russi
ricevevano sempre nuovi rinforzi e avrebbero
finito per avere il sopravvento.
Era evidente che lo schieramento russo si
rafforzava quotidianamente e che sempre più
numerose forze andavano addensandosi
contro gli alpini; il ventinove dicembre il
nemico pose in azione numerose batterie
controcarro e iniziò sulla pianura la caccia
all'uomo nel tentativo d'arrestare il
movimento nelle linee alpine: ad ogni cenno
di vita, al muoversi di una testa affiorante da
una trincea, ad una sagoma d'artigliere che si
spostava per portare una cassetta di
munizioni, era una granata dei pezzi nemici
che giungeva al bersaglio, inesorabile,
avendo i pezzi controcarro una precisione di
tiro pressoché assoluta.
Così raggiunse gli alpini, venendo da
mille miglia lontano, la citazione della Julia
sul bollettino di guerra germanico «per il
superbo comportamento della divisione sul
fronte del medio Don»; in quattro anni di
guerra era la seconda volta che il Comando
supremo tedesco citava nel bollettino una
divisione straniera.
Nella mattina del trenta dicembre non era
ancora stato dato l'allarme alla ventisei
quando già le altre due batterie del Gruppo
sparavano da tempo.
- Non si vede nulla - dicevano innervositi
gli artiglieri guardando la tranquilla distesa
di neve.
- Il Comando di Gruppo all'apparecchio,
signor capitano! - chiamò il telefonista.
- Non ti ho fatto aprire il fuoco finora, -
comunicò al telefono Verdotti a Reitani - per
non farti sciupare munizioni, temo che ne
avrai molto bisogno fra poco. Bada che i russi
stanno preparando qualcosa di grosso, hanno
già attaccato sulla destra e ora stanno
muovendo verso di noi. Ti avverto che sono
forze ingentissime; saranno dolori.
- Allarme! - gridò dal di fuori la vedetta.
- Serventi ai pezzi - ordinò Reitani. Si
soffiò il naso colante per il gelo e uscì fra i
suoi uomini.
Li guardò. I capi-pezzo erano a fianco del
loro cannone: Bartolan al primo, Fraita al
secondo, Bon al terzo, Sguario al quarto. A
lato d'ogni pezzo stavano i gruppetti dei
serventi, il capitano aveva intorno gli
ufficiali.
- Il puntatore e un servente restino col
capopezzo - ordinò - tutti gli altri rientrino
nei rifugi ed attendano di essere chiamati a
turno.
I capi-pezzo scelsero un servente, gli altri
a malincuore arretrarono di dieci metri e
s'appiattarono nei rifugi ricavati nel bordo
della balka.
Il capitano guardò gli ufficiali.
- Anche voi nei rifugi - disse; - resto fuori
solo io.
Gli ufficiali non si mossero.
- E' un ordine - disse Reitani con pacata
dolcezza; - ci sarà tempo per tutti.
Dell'Alpe, Perbellini, Serri e Brogli
ubbidirono, portandosi sotto il telo del
rifugio-comando. Udivano Reitani dare ai
capi-pezzo i primi comandi per il tiro, la voce
risuonava serena nei trentadue sotto zero.
Cinque minuti più tardi la ventisei viveva
già il dramma che aveva investito il settore.
Innumerevoli mortai russi battevano il
terreno striscia per striscia, metro per metro,
coadiuvati dalle artiglierie nell'opera di
distruzione, stroncando, uccidendo,
massacrando. Le «katjuscie» russe, entrate
in azione, con formidabili boati e arcuate
fasce di fuoco sgranavano dodici colpi
ciascuna ad ogni tiro, crivellando il terreno e
dilaniando gli uomini immobili presso le
armi nel vasto settore della Julia.
Il telefono della ventisei pareva
impazzito, poiché ad ogni minuto
giungevano dai Comandi del gruppo e del
battaglione sempre nuove richieste di fuoco
accelerato per sostenere nei punti più
disparati gli alpini posti sotto l'imminente
minaccia d'essere travolti.
Gli artiglieri ai pezzi sparavano senza
tregua, intenti a mutare ogni poche salve la
direzione del tiro secondo le variazioni
incessantemente trasmesse da Reitani.
Frenati dall'ordine del capitano, dai rifugi gli
artiglieri seguivano col cuore in gola le fasi
del combattimento, imprecando per non
essere ai pezzi. Le linee sussultavano e
fumigavano sotto gli schianti, parevano
divellersi per l'impeto d'una potenza
infernale; sovrastava tutti la sensazione d'un
imminente crollo.
Nel frastuono immane dilagante sulle
linee, una serie di schianti più violenti colpì i
timpani degli artiglieri della ventisei poiché i
mortai russi improvvisamente intrapresero a
centrare la batteria, un fumo nero e denso
avvolse i pezzi.
- Serri! - gridò la voce di Reitani mentre il
medico si slanciava correndo verso il
capitano, che s'intravvedeva nella cortina
nerastra.
- Sei ferito? - urlò Serri, tentando di farsi
intendere nonostante le altre scariche di
mortaio che piombavano fra i pezzi.
- No, corri al quarto pezzo, qualcuno è
ferito! - rispose il capitano e gridò subito:
- Dell'Alpe, munizioni!
Raggiunto il quarto pezzo, Serri vide il
cannone reclinato a lato, un colpo nemico
l'aveva centrato svellendo la metà dello
scudo e schiantando una ruota. Vicino al
pezzo, appena il fumo dell'ultima esplosione
si diradò, scorse a tre passi, sulla neve fatta
scura, il corpo abbattuto del sergente
Sguario. Gli si chinò precipitosamente a
fianco, e nell'attimo stesso una tempesta di
colpi s'abbatté sulla batteria, Serri sentì le
schegge rimbalzare contro il pezzo. Vide
allora che un secondo corpo giaceva al di là
dell'affusto del cannone.
- Zoffoli! Chiamate Zoffoli e i portaferiti!
- gridò verso il rifugio più prossimo, che
distava pochi metri; - vengano con due
barelle!
- Via dal pezzo, Italo! - gridò Reitani
imperioso, mentre altri colpi di mortaio già
frullavano nell'aria; - ti ammazzano!
- Giù, Zoffoli! - gridò Serri all'infermiere
che correva verso di lui trascinando una
barella. Quattro colpi di mortaio esplosero,
una scheggia sfiorò il viso di Zoffoli e gli
recise un lembo dell'orecchio sinistro.
Serri aveva fra le mani il capo di Sguario,
vide che il sergente respirava ancora.
Essendo giunti i barellieri i due feriti
vennero deposti sulle barelle.
- Giù nella balka, adagio - disse Serri.
S'erano appena rizzati reggendo le barelle
quando altri quattro colpi di mortaio
esplosero a gragnuola a pochi metri dal
cannone.
- Accidenti...! - mormorò Zoffoli con una
smorfia di dolore.
- Sei ferito?
- A un braccio... mi cade la barella... -
disse l'infermiere che già perdeva sangue
dall'orecchio.
- Dalla a me - disse Serri prendendo
subito il posto di Zoffoli.
- Volete andar via di là, disgraziati? - gridò
la voce di Reitani; - non capite che i mortai
hanno puntato il tiro contro il quarto pezzo?
Le barelle scesero nella balka mentre il
combattimento aveva assunto toni più alti ed
esasperati.
- Ancora munizioni, Dell'Alpe, presto! -
comandava Reitani.
- Tiro accelerato davanti alla settantasette
e alla settantanove, subito! - chiedeva il
telefono.
L'aria era solcata in ogni senso da sibili e
schianti, a ondate giungevano gli urli dei
russi che s'inferocivano negli attacchi
respinti.
- Attenti sulla destra, i russi stanno per
sfondare! - tempestava il telefono.
- Dottore, gli alpini mandano qui i loro
feriti, il loro tenente medico è morto!
In quel finimondo, Serri stava tentando
con grande alacrità di rintracciare le lesioni
che le schegge di mortaio avevano prodotto
nel corpo del sergente Sguario. Dovevano
essere diverse, a giudicare dagli strappi sul
grigioverde, ma era urgente individuare le
più gravi. Non apparivano tracce di sangue, il
ferito era svenuto, non si poteva d'altronde
denudarlo nel gelo.
Il volto di quell'uomo si andava
sbiancando; era palese che Sguario aveva già
udito il richiamo della megera sdentata, e
s'avviava al tristo appuntamento.
Gli occhi dei compagni erano
magnetizzati dal suo viso immoto. Sguario,
Sguario, anche tu...? Così grande, così forte,
sembravi inatterrabile; il tuo coraggio era
tanto da trasfondersi sempre negli altri, che
ora si smarrivano a vederti abbattuto sulla
neve...
Altre volte Sguario era tornato da vie
inverosimili, precluse a tutti; come quella
tale volta, in Albania, quando era uscito di
pattuglia in ricognizione verso le linee
greche, ed era partito imprecando, costretto
com'era a sostituire con l'elmetto il fido
cappello alpino. Una pallottola greca l'aveva
ferito a una coscia facendolo stramazzare;
catturato dai greci, disarmato e sanguinante
era stato avviato verso le retrovie.
L'alpinaccio, zoppicante fra due soldati greci
con baionetta inastata, si trascinava lungo un
sentiero schiumando rabbia; come s'avvide
di trovarsi isolato coi due abbrancò l'odiato
elmetto e con tale nuova mascella d'asino li
aggredì fulmineo, li stese in un baleno;
ritornò sui suoi passi, piombò di sorpresa
nella trincea greca, si impossessò di un
mitragliatore, ne catturò i serventi, e con
questi allibiti prigionieri rientrò
sacramentando nelle linee della Julia.
Ma questa volta, a giudicare dal polso e
dall'occhio, il capopezzo era morente. Nella
neve della balka innanzi ad un rifugio, in
piedi attorno alla barella stavano in cerchio
molti artiglieri. Serri aveva slacciato al ferito
il cappotto e la giubba, con uno strappo
guardingo gli lacerò la camicia. Al più diretto
contatto con l'aria gelida il sergente Sguario
contrasse la bocca, aprì gli occhi, tentò di
parlare. La corona dei compagni si fece più
vicina, le teste si chinarono per cogliere le
parole.
Gli occhi del capopezzo parvero
riconoscere i volti, le labbra gli si contrassero
in una smorfia.
Col coltello Serri gli aveva intanto tagliata
la maglia e alla vista del petto nudo un
contenuto mormorio di raccapriccio passò
fra gli artiglieri: all'altezza del cuore una
scheggia grossa quanto un pugno aveva
sfondato il torace del capopezzo; pur essendo
infissa tra le costole, una parte del metallo
nerastro emergeva ancora fra le labbra della
ferita. In quell'istante il sergente Sguario
s'irrigidì, s'inarcò, la scheggia emerse dalla
ferita, fuoriuscì in due o tre conati come se il
torace la vomitasse, rotolò lentamente dal
petto al fianco e si fermò contro il lembo
della maglia strappata. Non gocciolò una
stilla di sangue, ché questo, affiorando,
subito si raggrumava bloccato
fulmineamente dal gelo.
Serri ricoprì il petto, si alzò.
- E' morto - disse agli artiglieri che lo
guardavano stupiti senza aver ancora capito.
- E' morto - ripeté a se stesso, preso da
una improvvisa rabbia impotente; e passò
alla seconda barella.
Nessuno dei presenti, attanagliati
dall'orribile fascino della morte, aveva udito
lo scoppio delle ultime granate, ma il
combattimento continuava furibondo.
- Otto serventi diano il cambio, Dell'Alpe
qui da me, venti cassette ai pezzi subito! -
gridò a quel punto Reitani affacciandosi
all'orlo della balka.
- Come vanno i feriti? - domandò
vedendo Serri alle barelle.
- Sguario è morto - gli disse Sorgato.
Il capitano portò le mani al volto, come
per distendere i lineamenti che s'erano
contratti. Ma fu un attimo.
- Perché non porti le barelle nei rifugi,
Italo? - domandò.
- Impossibile, non c'è luce - rispose il
medico, levando lo sguardo dal ferito che
andava fasciando. - Una scheggia in una
coscia, è il servente del quarto pezzo -
aggiunse rispondendo all'interrogazione
colta negli occhi del capitano.
- Capitano, richiedono fuoco dinanzi alla
quota 176 - annunciò Perbellini.
Reitani corse ai pezzi, Serri si alzò.
- Portate indietro il ferito, riportatemi
subito la barella - ordinò il medico ai
barellieri.
Una tempesta di colpi si rovesciò
nuovamente intorno ai cannoni.
- Il terzo pezzo è colpito, maledizione! -
gridò una voce.
Serri accorse al cannone, lo scudo era
stato perforato e schiantato, il puntatore
Foresti era seduto su una cassetta di
munizioni e si torceva dal dolore serrando
fra le ginocchia un braccio sanguinante.
- Vieni, ti medico subito - gli disse Serri
passandogli le mani sotto le ascelle per
aiutarlo ad alzarsi.
Foresti alzò gli occhi verso il medico,
ricompose con uno sforzo di volontà il viso
contratto e alzandosi disse:
- Quando avrò finito il mio turno verrò da
solo, signor tenente; anche il pezzo è colpito,
ma possiamo sparare ancora. - E si curvò ai
congegni di puntamento.
In quel momento, mentre da qualche
minuto le fanterie russe avevano rallentato
l'impeto d'attacco, una scarica di otto granate
raggiunse la zona della linea pezzi, subito
seguita da una seconda e da una terza. Era
evidente che il nemico iniziava con nuovi
mezzi un preciso tiro di controbatteria,
nell'intento di annientare i cannoni della
ventisei.
- Via tutti! - gridò Reitani correndo da un
pezzo all'altro e sospingendo tutti gli
artiglieri verso i rifugi.
Rimase solo, immobile in piedi nello
spazio fra il secondo e il terzo pezzo, sotto
l'inaudita violenza del tiro. Le granate
giungevano sulla zona della ventisei a
grappoli, i pezzi scomparivano e
ricomparivano tra ondeggianti fumate nere,
le schegge sibilanti volavano in ogni
direzione.
- Capitano, signor capitano! Venite qui! -
gridavano con angoscia i soldati dai rifugi
affacciandosi all'orlo della balka e
aspettandosi da un istante all'altro di veder
saltare in aria il loro comandante.
Serri corse avanti, afferrò Reitani per un
braccio e lo scosse.
- Ugo, sei pazzo? - gli gridò; - vieni via,
vuoi farti ammazzare?
- Io sono al mio posto, tu no, torna
indietro! - gli rispose Reitani fissandolo con
occhi imperiosi.
Ma già i capi-pezzo Bartolan, Fraita e Bon
si erano slanciati fuori dai rifugi, subito
seguiti dai puntatori e dai serventi e
accorrevano nuovamente ai cannoni.
Bartolan, passando accanto a Reitani, gridò: -
O tutti al riparo o nessuno, capitano!
La batteria riprese a sparare; per fortuna
la tempesta dei colpi in arrivo ebbe una
tregua, Serri poté medicare vari feriti inviati
dal battaglione, che stava subendo forti
perdite.
Spostando il tiro delle batterie e dei
mortai in tutti i settori della zona tenuta
dalla Julia, i russi tentavano di scardinare la
disperata resistenza; gli alpini sostenevano la
massacrante tensione che il combattimento
imponeva, e fra una vampa e l'altra il loro
occhio correva lungo i trinceramenti che
fumavano e si sbrecciavano, constatando che
nonostante l'inferno scatenato dalle
artiglierie e la furibonda pressione dei
battaglioni russi, nonostante i morti, i feriti,
il gelo, la pazzia di star resistendo contro un
nemico incomparabilmente più forte, la loro
linea era ancora inviolata. Sovrumana per
resistenza e capacità di sacrificio, la Julia
teneva come un unico prodigioso mostro dai
diecimila cuori, dalle ventimila braccia
abbarbicate alla terra.
Improvvisamente, il tiro contro la
ventisei riprese con una cadenza spaventosa,
molti serventi di nuovo rinviati indietro dal
capitano piombarono nei rifugi tra lo
schianto delle granate.
- Italo! - grido la voce di Reitani.
Serri sormontò il ciglio della balka, il
fragore delle esplosioni gli impedì
d'intendere le parole del capitano, ma vide
che questi gli indicava il terzo pezzo. Si
precipitò al cannone, e a fianco vide il
sergente Bon disteso sulla neve che andava
arrossandosi di sangue. La gamba destra del
sergente, squarciata sopra il ginocchio,
mentre l'uomo si dibatteva, si era
arrovesciata tanto da porsi di traverso
sull'addome e sul torace.
Serri ingrandì con uno strappo la
lacerazione dei pantaloni del sergente, si
sfilò la cintura di cuoio e l'attorcigliò sulla
coscia del ferito frenando l'emorragia.
- Una barella, portaferiti! - gridava
intanto; ma nel frastuono nessuno udiva la
voce, nemmeno il puntatore Foresti che
ancora perdeva sangue dal braccio ed ora
anche dalla fronte essendo stato nuovamente
ferito dall'esplosione che aveva colpito Bon.
Il sergente e il puntatore erano cugini,
addetti allo stesso pezzo e amici indivisibili.
Alla vista del sangue del parente, Foresti era
stato preso da una disperazione frenetica;
sostituendo Bon, scacciati i serventi era
rimasto solo al pezzo e con eccitazione
furibonda si gettava sui proiettili spolettati,
caricava il pezzo e sparava; sparava
incessantemente, con movimenti rabbiosi,
esasperati, piangendo d'ira e di dolore,
disseminando sangue che gli colava dalla
manica e dalla fronte, gridando in
continuazione come un ossesso: -
Maledetti...! Maledetti...! L'avete
ammazzato...! Maledetti...!
...Prendete questa... e questa... e questa...!
- e infilava granate e sparava, demoniaco,
ruggente, folle, asciugandosi di tratto in
tratto il colaticcio di lagrime e sangue che gli
impastava il viso impeciato di capelli e nero
di fumo.
Non riuscendo a richiamare l'attenzione
di nessuno, con uno sforzo disperato Serri si
issò sulle spalle il grande corpo del sergente
Bon, s'incamminò verso il rifugio, una
granata esplose e il medico sentì il corpo del
sergente sussultare, perdette l'equilibrio ed
entrambi caddero nella neve, mentre alcuni
artiglieri uscivano precipitosamente dai
rifugi a portare aiuto. Risollevandosi dalla
neve il medico guardò il sergente, e inorridì
non ritrovandone più il viso: mentre l'aveva
sulle spalle, una scheggia aveva colpito Bon
asportandogli metà della testa.
In quattro trasportarono il cadavere nella
balka. Serri soffocando il raccapriccio
dovette subito medicare altri feriti, poiché un
colpo di mortaio aveva centrato un rifugio.
La battaglia continuava, durava ormai da
molte ore in un accavallarsi di vicende.
- Dottore! - chiamò d'un tratto il
telefonista - chiedono di voi all'apparecchio.
- Qui Serri - disse il medico accorso al
microfono - cosa c'è?
Un ufficiale parlava dal Comando del
battaglione Gemona schierato a tre
chilometri.
- Senti - disse con voce angosciata - il
nostro comandante colonnello Dell'Alpe è
stato ferito tre minuti fa: una pallottola
nell'addome. E' gravissimo, moribondo,
tentiamo di scendere al fondo valle per
portarlo all'ospedale. Alla ventisei avete suo
figlio Gino, se è possibile fargli vedere il
padre...
- Parlo subito con Reitani - assicurò Serri
sconvolto. Dell'Alpe era un grande, caro
amico.
- Dottore - disse Zoffoli sopraggiungendo
- venite subito, il tenente Dell'Alpe è ferito.
Al braccio di Reitani, Dell'Alpe stava
scendendo al rifugio, era costretto a tenere
gli occhi chiusi perché aveva tutto il viso
inondato di sangue.
- Una ferita alla fronte e alla tempia, ma
di striscio per fortuna - gli disse Serri
iniziando la medicazione.
- Non è niente - disse Dell'Alpe leccando e
poi sputando il sangue che gli colava fra le
labbra; - sono stato fortunato. Ho sentito
anche un forte colpo al fianco sinistro, ma
deve essere una cosa da nulla. - Parlava
senza annettere importanza alle parole che
diceva, era un ragazzo di grande coraggio,
sempre sereno e sicuro di sé.
- Vediamo subito - disse Serri
preoccupato.
Sul quadrante addominale superiore di
sinistra Dell'Alpe aveva un vasto ematoma,
ma la cute non portava traccia di lesioni.
- Strano - mormorò il medico; ma un
pezzetto di metallo si mosse fra le pieghe
degli abiti e rotolò sul ventre di Dell'Alpe.
- Rivestiti - disse Serri raccogliendo e
osservando il frammento metallico; - è una
pallottola russa deformata. Dammi la tua
rivoltella.
- Un mezzo miracolo: guarda - concluse
qualche secondo dopo, restituendo l'arma a
Dell'Alpe: - la pallottola ha colpito il calcio
della tua rivoltella e s'è schiacciata contro il
profilo d'acciaio. Vedi qui la tacca?
Sei salvo per caso.
Mentre Dell'Alpe osservava interessato
rivoltella e pallottola, Serri raggiunse Reitani
e gli parlò in disparte; poi entrambi si
avvicinarono al ferito.
Qualche minuto dopo Dell'Alpe, con il
viso bianco quanto le bende che gli
fasciavano la fronte, scendeva verso la valle.
Era mezzogiorno, per i rimasti in vita; gli
altri, fuori dal tempo, giacevano sulla neve.
Il combattimento ormai finiva: dopo sei
ore di incessanti attacchi condotti con
terrificante valore, i russi desistettero e
ripiegarono anche quel giorno senza aver
posto un piede, un solo piede nelle linee
degli alpini.
XXI
- Al millenovecentoquarantatré! - aveva
detto a mezzanotte Reitani levando il
gavettino contenente la razione
supplementare di cognac.
- Al millenovecentoquarantatré!
- avevano risposto gli ufficiali e i soldati che
stipavano il rifugio del Comando, portandosi
alla bocca il gavettino con molta attenzione,
poiché per il gelo la pelle delle labbra restava
spesso appiccicata al metallo. Il cognac era
l'unico liquido che potessero bere, perché
non congelava.
Il brindisi di Capodanno era stata una
cosa che non poteva mancare, ma non aveva
rallegrato nessuno.
- Che cosa ci porterà l'anno nuovo? -
aveva chiesto senza calore Brogli.
- Mah...! - aveva fatto eco Bartolan fra il
silenzio generale; e la cerimonia si era
conclusa così.
Non poteva essere allegra, la ventisei; i
morti erano stati sepolti da poco, ed ogni
giorno se ne aggiungeva qualcuno; i feriti
continuavano a lasciare posti vuoti, salvo
quelli che si rifiutavano di andare
all'ospedale e si aggiravano fra i compagni
con le loro bende attorno alla testa, o
zoppicanti, o con il braccio al collo seguendo
l'esempio di Foresti e di Zoffoli.
I tre quarti del giorno e della notte
passavano nel continuo sforzo di contenere
gli incessanti attacchi russi; le artiglierie
nemiche tempestavano senza tregua, i
«Rata» venivano a spezzonare e a
mitragliare, i carri armati minacciavano
spesso da vicino.
Ma era il gelo il nemico di gran lunga
peggiore, tutta la Julia ne soffriva, gemente
sotto l'implacabile assedio.
Serri, morto il medico del battaglione
d'alpini Tolmezzo, si portava anche da questi
e si rendeva conto, aggirandosi in ogni
recesso delle trincee, dello spaventoso
soffrire degli uomini. Nelle gelide postazioni,
in compagnia dei loro pidocchi stavano
nell'immobilità gli alpini della Julia,
impossibilitati a muoversi perché controllati
dai controcarro e dalle mitragliatrici russe,
ad ogni ora minacciati d'assalto e di morte,
vigili e fermi, immersi nel loro pozzo di gelo.
Serri passava dall'uno all'altro, nessuno
se non del tutto stroncato si dichiarava vinto;
come i suoi artiglieri non abbandonavano la
linea pezzi avendo le bende che coprivano a
mala pena le ferite, così gli alpini spesso non
lasciavano le loro trincee neppure quando
sentivano la carne spappolarsi in cancrena. Il
medico di frequente doveva sostenere lunghe
discussioni per convincere i più gravi a
lasciare l'arma e farsi portare all'ospedale.
Non ragionavano, sapevano soltanto di
voler restare a fianco dei compagni.
Erano questi che spinti dalla pietà
segnalavano di nascosto al medico i più
sofferenti.
- Quello là, alla prima mitragliatrice - gli
dicevano - deve avere i piedi congelati. E' da
una settimana che si leva dalla buca solo di
notte per andare al gabinetto ed è costretto a
camminare a quattro zampe come i cani, non
sta più su.
Serri si avvicinava all'alpino, gli parlava,
gli chiedeva di slacciarsi le scarpe e di fargli
vedere i piedi.
- Non posso, le scarpe sono gelate e non
si aprono più - rispondeva quello.
- Sei congelato senza dubbio, dirò al tuo
comandante di compagnia di mandarti
d'autorità all'ospedale.
- Oh, non lo farà, signor dottore
- rispondeva l'alpino; - è congelato anche lui,
finché resta qui lui non può mandar via me.
E poi - aggiungeva con un sorriso scanzonato
- quando i russi attaccano non possiamo
scappare, sappiamo già di dover restare qui
finché si crepa! E allora, noi siamo i soldati
migliori, no?
- Quel guardafili non dorme da tre giorni
per il male ai piedi - disse a Serri Scudrèra; -
ha buttato le scarpe da un pezzo.
- Guardafili - ordinò il medico - togliti i
calzettoni, voglio vedere.
- Son guarìo, signor tenente, i piedi ormai
non mi fanno più male, grazie;cma no gò
bisogno de gnente.
Quando il medico gli sfilò la calza
impregnata di ghiaccio, alla caviglia il piede
si presentava nerastro, punteggiato di
chiazze verdi; sfilata del tutto, nella calza
rimasero il pollice e l'indice, già necrotizzati
e distaccati da ciò che restava del piede.
L'artigliere contemplò a lungo le due dita
rigirandole sulla palma della mano, poi le
avvolse con cura nel fazzoletto, le mise in
tasca e disse:
- Bisogna che me ricòrda de sepelìrli, se
no nel giorno del giudizio universale me
trovo senza do' dèi, 'orca la pepa.
E aggiunse, da buon ragazzotto: - Se me
desmèntego, me mama me ciàpa a sberlòni,
quando tornèmo a casa.
Il dieci gennaio tutti i rifugi, ricavati con
infiniti accorgimenti e stenti sul ciglione
della balka dietro la linea pezzi della ventisei,
erano costruiti. Offrivano ben scarsa
protezione dalle granate, ma quando
all'esterno imperversavano i quaranta,
nell'interno i soldati ottenevano i venti sotto
zero, ed era già un risultato.
Dovunque, ormai, nelle linee della Julia
gli alpini erano riusciti a costruire migliori
ripari dal freddo, avevano accumulato paglia
e i giacigli erano meno gelidi; un senso di
fiducia si era propagato nelle trincee
soprattutto perché i russi, dopo venti giorni
di attacchi forsennati, avevano perduto lena.
Sparavano ancora molto con i mortai, ma
attaccavano con minore frequenza ed
impegno: un assalto o due al giorno, mentre
in precedenza avevano raggiunto perfino i
dieci assalti quotidiani.
Alpini e artiglieri possedevano e
sentivano ormai la linea come una parte del
loro stesso corpo: i piedi s'erano congelati
nello stare per notti intere sul suolo nevoso
delle trincee, le mani si erano congelate
impugnando l'arma o servendo il pezzo nel
terribile tormento del gelo; ma la linea, per il
sovrumano sforzo dei difensori, viveva in
tutti i suoi recessi, nei buchi, nelle tane, nei
rifugi, come nelle postazioni e nei
camminamenti, ed era incrollabile.
L'armonia d'animi e l'intesa di azione fra
battaglioni e batterie erano complete,
coordinate nel comune impegno e collaudate
dagli innumeri assalti sostenuti, durante i
quali gli alpini s'erano abituati a combattere
sotto il basso tetto del fuoco «a zero» con cui
gli artiglieri bloccavano il nemico innanzi
alle trincee.
- Mi fate un vero lavoro di ricamo,
passate sulle nostre teste come facendo un
orlo - diceva il colonnello Cimolino che
comandava l'ottavo reggimento alpini,
stringendo la mano a Verdotti e battendo
amichevolmente sulla spalla di Reitani; -
finché combattiamo insieme in questo modo,
i russi non passeranno mai.
Era questo il convincimento di tutta la
Julia, ora che anche il freddo era tenuto più
facilmente a bada. Era noto che da Natale
all'Epifania tra i ventimila uomini della Julia
s'erano avuti seimila congelati, cifra paurosa;
ma si sapeva che una gran parte d'essi non
aveva voluto lasciare il reparto.
Sopperendo alle perdite, contro la Julia i
russi facevano affluire sempre nuovi rinforzi,
in modo da tenere perennemente schierate
tre Divisioni; la sproporzione delle forze
contrapposte era agghiacciante, ma la
consapevolezza d'aver tenuto in scacco il
nemico alimentava la speranza e la tenacia
nel cuore degli alpini.
Dall'Italia la corrispondenza portava
ondate di commosso orgoglio fra i
combattenti; i bollettini di guerra italiani e
tedeschi esaltavano il valore della Divisione.
Come già in Albania, per la seconda volta un
palpito di leggenda sfiorava le penne nere
della Julia.
Fieri, silenziosi, pacati gli alpini
guardavano instancabilmente oltre il pianoro
bianco le colline allineate in riva al Don.
Nuovi ordini d'operazione erano giunti nella
prima decade di gennaio ai battaglioni e ai
gruppi, predisponendo i piani di una
prossima attività. Gli alpini ne parlavano
sotto voce, nei rifugi, mormorandosi a
vicenda strane frasi, scambiandosi occhiate
speranzose. Una voce serpeggiava nelle tane,
strisciava nella paglia fra gli alpini che
parlottavano in attesa del sonno, e diceva: -
E' venuto l'ordine d'operazione: uno di questi
giorni la Julia scatta all'attacco e andiamo a
conquistarci i rifugi sul Don.
- Sarìa ora! - sbottava Scudrèra; - no xe
giusto che i «cunìci» e le «panse longhe» de
la «Tridentina» e de la «Cuneense» i stia al
caldo ne i rifugi sul Don, e noialtri pòri cani
de la «Julia» se sia butà da un mese ne la
neve. Cosa 'spetèmo a atacàr? L'invito de
Stalin, ostia?
Nella notte sul sedici gennaio il Comando
di Gruppo inviò una comunicazione riservata
al capitano Reitani.
Diceva:
- «Carri armati e fanterie russe
provenienti dal sud hanno occupato in questi
giorni le vie di transito a qualche decina di
chilometri alle spalle del nostro
schieramento, ed hanno conquistato
Rossosch. Se da Rossosch raggiungono il
Don, la Julia è completamente circondata. La
ventisei attenda ordini mantenendo le attuali
posizioni».
- Italo, preparati - disse Reitani
all'ufficiale medico tendendogli il foglio: -
ricominciamo da capo.
Tempo quarto
La colonna marciava affondando fino al
ginocchio
nella bianca vastità del proprio sepolcro
XXII
Gli alpini della Julia fecero il viso
incredulo, a mezza mattina di quel sedici
gennaio.
- Bisogna ripiegare, oggi stesso si parte -
aveva annunciato Reitani alla ventisei.
- Come? Ripiegare? - dicevano gli
artiglieri; - lasciare questa linea?
Ma dove sono i russi? Se non si fanno
neppure vivi?! Non sono riusciti a spostarci
di un metro in un mese! Qui c'è uno sbaglio,
qualcuno è diventato matto!
Il capitano Reitani a mezzogiorno aveva
radunato gli uomini della linea pezzi. Disse:
- Fra tre ore la batteria dovrà essere in
assetto di marcia, verranno i muli e le slitte.
Preparare i carichi e distruggere i rifugi.
Un mormorio di sorpresa e di dolore
corse fra i soldati. Il capitano attese
immobile che ritornasse il silenzio e
proseguì: - Statemi a sentire. Lo so anch'io
che la Julia non è stata battuta in nessun
modo, ma isolata com'era mentre
combatteva qui, è stata quasi completamente
circondata da lontano; se non se ne va di qui
cade prigioniera per aggiramento a largo
raggio, senza neppure potersi difendere e
combattere.
La Julia prigioniera senza combattere!
Solo l'idea esasperava gli alpini che si
buttarono con furore sulle opere di riparo e
con poche mazzate le distrussero. Caddero le
misere assicelle, i pali d'angolo, i tetti di
paglia e di neve.
Giunsero alla linea pezzi della ventisei gli
uomini delle cucine, i muli e le slitte;
vennero ritirate le linee telefoniche, si
ricuperarono tutti i materiali, verso sera il
battaglione Gemona lasciò la linea, sfilò
accanto alla ventisei restituendo il
sottotenente Landolfi che durante tutto il
periodo era stato all'osservatorio negli
avamposti del battaglione; la ventisei rimase
ancora due ore in posizione a sparare per
proteggere l'arretramento degli alpini e
infine, sul fare della notte, iniziò il
ripiegamento.
Alla notte e al destino, non al prevalere
del nemico ancora intanato sul Don, la Julia
cedeva inviolate tutte le posizioni che un
mese innanzi aveva ricevuto in consegna.
Gli uomini camminavano in silenzio e a
testa bassa sotto la luna, mentre qualche
rado colpo di mortaio batteva la neve intorno
alla colonna.
La ventisei attraversò il fiume Kalitwa
ghiacciato e l'ampia palude in cui s'estende
per sfociare nel Don; nel paese di Sslawianka
venne raggiunta dagli uomini della base
arretrata al comando del sottotenente
Ferrieri; ebbe ordine di fermarsi a
pernottare, poiché la mezzanotte era già
passata e la situazione all'intorno era
sconosciuta e non consentiva di procedere.
Gli artiglieri si accantonarono nelle isbe.
All'alba la ventisei sparava già, poiché il
nemico s'era mosso dal Don e avanzava. Da
un'altura, col binocolo si potevano
distinguere i soldati russi che occupavano
Golubaja Krinitza: giravano tra le case
frugando con lunghe pertiche forse temendo
la presenza di inesistenti insidie.
Reitani andò a rapporto al Comando di
Gruppo e al ritorno radunò gli ufficiali della
ventisei.
- La situazione è assai grave - disse; -
ingenti forze russe di fanteria motorizzata
con carri armati tengono saldamente
Rossosch e si teme che si siano già spiegate
all'intorno. Noi ora punteremo su Popowka,
che è a dodici chilometri a nord di Rossosch,
e tenteremo poi di ricongiungerci al grosso
della nostra Armata. Questa, eccetto il Corpo
d'Armata Alpino, già da un mese ha lasciato
il Don ed ha ripiegato verso ovest assieme a
tutte le forze tedesche; noi siamo rimasti per
questo mese sul Don a far da muro e
proteggere finché possibile il ripiegamento
delle altre divisioni. Ora dobbiamo tentare ad
ogni costo di ritornare a Popowka e
Podgornoje, nella zona del nostro vecchio
schieramento sul Don, da cui stanno
ripiegando la Tridentina e la Cuneense.
Col nostro arrivo a Popowka sarà
ricostituito il Corpo d'Armata Alpino e verrà
deciso il da farsi. La marcia sarà durissima.
Potremo scontrarci con i russi ad ogni passo,
e in ogni caso dovremo fare un cammino
tortuoso, sulla neve vergine. Avvertite gli
uomini che dovremo affrontare un percorso
di 70 o 80 chilometri, marcerà l'intera
divisione e non sarà concessa nessuna sosta,
chi rimane indietro resta abbandonato a se
stesso, praticamente è perduto. E' una
misura dolorosa ma è in giuoco l'esistenza di
tutta la Julia. Partiremo fra due ore.
Siamo quasi privi di viveri, fra poco ci
verranno distribuite due gallette e una
scatoletta di carne. Per intanto mettete a
punto i carichi, controllate il numero degli
uomini, dei muli e delle slitte e ricordate che
d'ora in poi può succedere qualunque cosa. -
E tacque.
- Andiamo a contarci - disse asciutto il
tenente Brogli rompendo il silenzio.
Brogli aveva sostituito Dell'Alpe da
quando questi, ferito, era sceso ad incontrare
il padre morente. Si era saputo che il
colonnello Dell'Alpe si era esposto in piedi
sulla trincea di prima linea fra i suoi alpini
del Gemona e le coincidenze della fatalità si
erano spinte tanto oltre che nella stessa ora
padre e figlio erano stati colpiti da pallottole
di fucile russo che si erano schiacciate contro
il calcio delle rispettive rivoltelle.
Ma la molla del caricatore era stata
rinvenuta in quattordici frammenti fra le
anse intestinali del colonnello, e sul chirurgo
aveva prevalso la morte.
Il generale Ricagno, comandante la
Divisione Julia, aveva offerto al tenente
Dell'Alpe una licenza per lutto e per cure in
patria, ma il tenente aveva rifiutato
rispondendo in friulano:
- Al papà el dixeva «Mai daùr»
(Il papà diceva: «Mai indietro»).
- Infine, aveva dovuto accettare l'ordine di
rimpatrio giunto dal Comando di Corpo
d'Armata, e la ventisei era rimasta privata del
superbo ufficiale.
Sulla neve della piazza di Sslawianka il
capitano Reitani stava osservando la batteria
schierata. Dall'estate era la prima volta che la
rivedeva tutta riunita dinanzi agli occhi,
constatò come le file si fossero assottigliate.
La forza in partenza per Popowka risultò
di quasi centottanta uomini: il reparto aveva
quindi perduto circa cinquanta artiglieri
alpini, caduti in combattimento o assiderati o
congelati o feriti non recuperabili.
I muli da centosettanta erano ridotti a
meno di ottanta, essendo stati uccisi dal gelo
e dagli stenti o anch'essi squarciati dalle
granate.
Gli operai di batteria avevano costruito
una ventina di slitte, piccole e rudimentali,
su cui venivano trasportati i materiali, le
munizioni e i pezzi. Questi ultimi erano
ancora quattro, poiché anche quello del
sergente Sguario, colpito allo scudo e ad una
ruota, era stato issato su una slitta ad
intelaiatura appositamente studiata ed era
ancora in grado di prestare, con molti
accorgimenti, il suo servizio.
Reitani guardò con accorata passione
quel complesso di forze già tanto provate e
disse agli uomini: - Poche parole ai miei
artiglieri alpini, perché fra poco si parte.
Nessuno resti indietro, non rivedrebbe più il
reparto. Sono costretto anche ad annunciarvi
che la scatoletta di carne e le due gallette che
vi sono state consegnate poco fa
costituiscono l'ultima distribuzione di viveri
fino a quando sarà risolta questa crisi.
Fatene tesoro. Ed ora in marcia, ci
fermeremo soltanto a Popowka. Batteria
avanti.
- Ciao, Don - brontolò Pilòn, e buttò
avanti il piede; gli rispose la neve,
cigolandogli sotto gli scarponi.
Il resto della giornata trascorse senza
sorprese, nonostante frequenti rombi lontani
interrompessero il silenzio. La Julia sfilava
nella neve, battaglione per battaglione,
gruppo per gruppo, serpente grigioverde che
si snodava per chilometri sul bianco della
steppa. Nelle ore di marcia diurna procedette
sulla pista, ma all'imbrunire la lunga colonna
venne portata nella neve vergine, a maggiore
salvaguardia da sorprese. I muli già affaticati
dalle molte ore di marcia avevano subito
risentito l'aumentata fatica, gli uomini
camminavano di lena pur sprofondando
nella mollezza della neve.
- Ora è più difficile che i russi i ne fassa
l'improvvisata - diceva Scudrèra, reggendo le
lunghe briglie dei suoi muli.
- Ci sono anche le nuvole, per fortuna -
constatava soddisfatto l'attendente Covre,
camminando a fianco di Serri.
Col buio, strani sprazzi di luce tratto
tratto illuminavano verso nord il discontinuo
tetto di nubi, simili a lampi temporaleschi;
pareva anche di udire il rombo del tuono.
Verso le diciannove si levò un vento
molesto che mordicchiava le orecchie e
gelava le mani; gli alpini infilarono sotto il
cappello il passamontagna e sprofondarono
le mani inguantate nelle tasche dei cappotti.
L'aria diveniva assai rigida.
- E poi dicono che i conducenti possono
fare i loro comodi! Voglio vedere adesso chi
mi dà il cambio a tenere le redini dei muli. E'
come avere in mano due pezzi di ghiaccio! -
brontolava ogni tanto Scudrèra trottando a
fianco dei tre muli che trainavano la sua
pesantissima slitta, sovraccarica di materiali
e munizioni. E come nessuno gli dava retta,
gridava all'improvviso:
- Fòra le màn da le tasche, imboscàti!
- Zitto, ti fai sentire dai russi - lo
redarguiva scherzosamente l'infermiere
Zoffoli.
- Dici bene tu ma el fredo xe fredo -
ribatteva il conducente; - tu poi dovresti
vergognarti più degli altri, sei il più
fortunato: senti il freddo meno di tutti, con
quela meza orecia che te manca!
Alle ventidue il freddo era aumentato di
molto. Il vento s'era fatto teso, costante,
spirava dal nord ed ostacolava il cammino.
Gli uomini avevano alzato i baveri dei
cappotti e abbassato tutta l'ala dei cappelli
alpini, ma le dita del vento passavano sotto i
passamontagna e graffiavano ogni
centimetro di pelle del viso e del collo.
- Sai che temperatura abbiamo? - chiese
Serri al preciso Perbellini che camminava
con un termometro appeso a un bottone del
cappotto.
- Un quarto d'ora fa, trentotto sotto -
rispose l'adolescente a labbra strette.
- Fai fatica a parlare? - domandò Serri.
- E' niente, è il vento che mi viene in
faccia e mi gela le labbra.
- Hai messo la pomata anticongelante?
- Sì, ma non serve a niente. E tu l'hai
messa?
- Sì.
- Ecco, vedi? Cosa credi? Anche tu parli
come una vecchia sdentata.
Serri s'accorse allora che, sotto il
passamontagna, le proprie labbra e le guance
s'erano indurite ed erano quasi insensibili.
Interrogò Covre ed altri soldati e notò con
preoccupazione che tutti parlavano appunto
come vecchie sdentate. Qualcuno anzi pareva
averne preso perfino l'aspetto esteriore
poiché procedeva accartocciato su se stesso,
e ricurvo come portasse un fastello sulle
spalle; arrancava faticosamente ciabattando
nella neve, in tutto simile a una vecchia
cadente.
L'intera colonna aveva sensibilmente
rallentato il passo e faticava contro il freddo
e il vento.
La luna s'affacciava ogni tanto a fuggenti
davanzali di nubi, scompariva poi lasciando
nella penombra la colonna che procedeva
frusciando nella neve; si percepiva soltanto
lo sbruffare dei muli e il cigolare delle slitte,
gli uomini tacevano e si mordevano le labbra
per far circolare il sangue; i loro cappotti,
dalla vita alle spalle, s'erano ricoperti di uno
strato di ghiaccio a causa del vapore del
respiro che cadeva e si congelava sulla stoffa.
Ogni tanto qualche slitta s'inclinava per le
ineguaglianze del terreno e si rovesciava
nella neve; gli ufficiali e i soldati
s'affannavano a ricollocare a posto le cassette
e aizzavano i muli correndo per lungo tratto
a riprendere il proprio posto nella colonna,
poiché non bisognava rimanere indietro.
Quando però tentavano di rimettere le mani
in tasca s'accorgevano che i guantoni non
giovavano più a nulla, poiché rimestando
nella neve s'erano rivestiti di un centimetro
di ghiaccio; allora le mani nude si
rifugiavano nelle tasche, ma era come
tenerle immerse nell'acqua gelata.
Verso la mezzanotte la Julia marciava da
undici ore senza avere sostato per un solo
minuto; gli uomini procedevano
affannosamente nella neve alta stando curvi
in avanti per ripararsi il più possibile dal
vento che a tratti diveniva fischiante; ogni
tanto qualche folata strappava dal capo i
cappelli alpini, che rotolavano rincorrendosi
sulla neve e disperdendosi nel buio. Si
cominciava a incespicare in qualche zaino
abbandonato lungo il cammino, ed era un
brutto segno: avanti c'era un alpino che non
resisteva al peso e al passo.
I bagliori che illuminavano a sprazzi le
nuvole erano più vicini, ora si capiva che
erano dovuti a depositi di munizioni fatti,
saltare; le luci avevano un che di lugubre,
dicevano che altra gente si ritirava
abbandonando materiali preziosi.
Anche la colonna in marcia perdeva
qualcosa: le file che sopraggiungevano,
s'imbattevano ogni tanto in un mulo
stecchito nella neve, morto di fatica e ancora
attaccato alla sua slitta. La slitta non aveva
carico, segno che le cassette e i sacchi erano
finiti sulle spalle degli alpini, ma poco dopo
un infittirsi di materiali sulla neve stava a
dire che gli uomini non avevano retto alla
moltiplicata fatica: era impossibile infatti
sostenerla, con la fame che illanguidiva lo
stomaco e col freddo divenuto intollerabile.
Però tutti procedevano, poiché non c'era
speranza di poter salire sulle slitte già
sovraccariche e ciascuno era affidato alle
proprie gambe e al proprio cuore.
- Ho una soletta di ghiaccio sotto le calze,
le scarpe mi sono diventate piccole - disse
Reitani a Serri, parlando con il ridicolo fare
da vecchia sdentata.
- Anche a me è successa la stessa cosa,
anche ai soldati - rispose il medico; - è la
traspirazione del piede che si condensa e
raggela fra il cuoio e la lana.
- Abbiamo congelati?
- Per ora nessuno si è fermato, ma temo
che saranno guai. Il termometro di Perbellini
ora segna quarantadue sotto.
- Restare in colonna! - gridò il capitano ad
alcuni artiglieri che s'erano soffermati a un
capannone presso il quale la batteria stava
transitando.
Dal capannone uscivano molti uomini
reggendo qualcosa e correndo avanti per
ricongiungersi ai loro reparti.
Reitani e Serri accorsero. Era un
magazzino nel quale erano state
abbandonate una ventina di damigiane: alla
luce di una candela un folto gruppo di alpini
s'affaccendava attorno a quelle, riempiendo
in fretta borracce e gavette; altri, in disparte,
già bevevano a garganella vuotando in breve i
gavettini e subito si riaccostavano alle
damigiane per riempirli ancora.
- E' cognac, signor capitano, questo sì
scalda! - esclamò trionfante un alpino che
aiutava a mescere, riconoscendo Reitani che
s'era fatto largo nella calca.
- Disgraziati, ci lasciate la pelle! - gridò
Serri.
- Via tutti, via tutti! - urlò Reitani facendo
saltare dalle mani dei soldati quante gavette
e borracce gli venivano a tiro. - Via tutti vi
dico, di corsa!
- Aiutami - disse Reitani a Serri. E i due
ufficiali si diedero a rovesciare le damigiane,
il cognac fluiva a fiotti nel terriccio
emanando il suo sottile odore.
Quando tutto il liquore fu sparso a terra,
il capitano e il medico uscirono nella neve e
con un lungo inseguimento raggiunsero la
batteria. Avevano da poco ripreso il loro
posto di marcia quando il sergente Bartolan
corse a pochi passi in disparte alla colonna e
dinanzi a un ammasso scuro gettato sulla
neve gridò: - Tenente Serri!
Il medico accorso vide un soldato
accartocciato sulla neve, una mano
rattrappita stringeva la borraccia; l'ufficiale
passò un dito sull'orlo e lo portò alla bocca,
avvertì il sapore del cognac.
- Sulla slitta di Scudrèra, subito! - ordinò.
Alcuni artiglieri issarono l'alpino sulla slitta
in movimento, Serri lo fece ricoprire con
coperte tolte da un sacco, mentre altri due
sacchi cadevano dalla slitta ricolma e si
perdevano nella neve.
- Chi è! - chiedevano gli artiglieri
marciando intorno alla slitta.
- Mah? - diceva Bartolan; - credo che sia
un alpino del battaglione che cammina
davanti alla ventisei. Il cognac l'ha ubriacato,
per caso l'ho visto disteso nella neve. Vedete
cosa succede, imbecilli? - gridava,
improvvisamente infuriato.
- E' ubriaco...
- E' morto...
- El xe morto imbriàgo... - diceva lugubre
Scudrèra ai compagni esterrefatti.
Accanto alla slitta, Serri camminava in
silenzio, arrovellandosi per la propria
impotenza, la ossessionante nemica dei
medici che fanno la guerra.
Cosa poteva fare con quei quarantadue
sotto zero, in cammino nel buio, per quel
soldato steso fra i sacchi sul veicolo
traballante? L'alpino sotto le coperte stava
irrigidito, la mano gelida non mollava la
borraccia, offriva una resistenza legnosa.
Impossibile in quelle circostanze osservare il
respiro, l'occhio, tastare il polso, praticare
un'iniezione, fare una qualunque cosa. Pensò
di accendere un fiammifero, ma le dita non
facevano presa, per il freddo non percepivano
i sottili bastoncini che gli cadevano nella
neve. A tastoni insinuò una mano sotto il
cappotto dell'alpino, gli slacciò la cinghia dei
pantaloni e frugò tra le mutande, la camicia e
le maglie, giunse alla pelle del ventre: gelida;
inoltrò le dita fino al petto inerte e gelido più
della mano che lo toccava. Si convinse allora
che il mulo su quella slitta stava trascinando
un cadavere, o che in ogni caso nessuno
avrebbe ormai potuto più strappare alla notte
quella sua preda.
Altre se ne aggiunsero nella mezz'ora
successiva, reclinate sulla neve ad intervalli,
due poi tre poi dieci; e i soldati si chinavano
sui fagotti grigioverdi, li caricavano sulle
slitte straripanti, dal colmo dei carichi uno
scrollo del mulo li rotolava di nuovo sulla
neve, i compagni s'accorgevano più tardi
d'averli perduti, forse erano stati raccolti più
addietro da altri alpini; o forse no, perché il
vento sollevava un polverio di neve e li
ricopriva subito di bianco.
Restavano là, steppa.
- E' un alpino del mio paese - disse di uno
il furiere Clerici, e se lo caricò sulle spalle;
col peso avanzò forse per cento metri ma poi
il fiato gli si fece grosso; barcollò, cadde nella
neve col cadavere, ritentò di sollevarlo,
ricadde, imprecò, proseguì solo e roso da una
rabbia cupa consegnò il portafogli del morto
al capitano. Questi prese a braccio Clerici e
camminavano insieme in silenzio.
- Come volete che faccia a capire? - disse
angosciosamente il furiere.
- Chi? - domandò Reitani.
- Sua madre. Mi maledirà, signor
capitano.
- Glielo diremo, che non potevi.
- E' vecchia, non sa com'è la guerra. Mi
vedrà sempre, sta di fronte a casa mia.
La luna era scomparsa del tutto, la notte
s'era fatta tenebrosa, da qualche parte
tuttavia filtrava un bluastro lucore
d'acquario. Avvolti dalla stanchezza e dal
freddo, gli alpini non capivano quasi più
nulla, eccetto quell'andare dietro agli altri. I
piedi inciampavano uno contro l'altro perché
avevano perduto sensibilità, pezzi di ghiaccio
ormai, sospinti innanzi dalla disperazione.
All'una di notte la steppa era dominio
della tormenta, il vento turbinava levando
vortici di neve sulla colonna, i cappotti erano
diventati rigidi scafandri opprimenti, le mani
martirizzate cercavano invano un rifugio
tiepido, il pulviscolo nevoso entrava negli
occhi, nelle orecchie, s'insinuava
incomprensibilmente sotto le giubbe e le
maglie, giungeva alla pelle della schiena
risvegliando brividi profondi.
- Hai l'impressione che ti stiano
svestendo, che qualcuno ti spogli? - chiese
Reitani a Serri.
- Sì, pare d'essere nudi.
- Meno male, credevo che mi stesse
venendo qualche accidente.
- Niente paura, signor capitano - disse
Scudrèra che aveva inteso le parole - sémo
tutti accidentati a 'sto modo, per mal che la
vada se crepa tutti insieme. Son ridotto ànca
mi come una sèlega cascà in giassàra!
- Come che cosa? - chiese il capitano,
siciliano, guardando Serri.
- Come un passerotto caduto in una
ghiacciaia - tradusse il medico.
- Una sèlega tu? - rise Reitani volgendo il
capo verso il gigantesco conducente; - quanto
pesi?
- Centodue chili compreso l'osso, ai vostri
comandi - rispose Scudrèra dando una spinta
al carico della slitta che minacciava di
crollare.
Ma anche Scudrèra aveva presto smesso
di chiacchierare, poiché il freddo aveva
raggiunto limiti inauditi e gli uomini
camminavano semi paralizzati dal gelo. Nella
notte, affondando fino al ginocchio,
procedevano ormai avvolti da una nube di
neve levata dal vento. Incappucciati nei
passamontagna e intabarrati nei cappotti
duri e bianchi, avevano assunto l'aspetto di
grotteschi pupazzi di neve. Il freddo tagliava,
mordeva, succhiava le carni incartapecorite,
bruciava le labbra, le narici, i bronchi;
insostenibile.
- Sergente Bartolan! - chiamò Reitani
preoccupato per la sorte della ventisei; - tu
hai una pila, cerca di dare un'occhiata ai
termometri dei pezzi e a un orologio, se ti
riesce.
Quando il capo-pezzo si riavvicinò, disse
scostando dalla bocca il passamontagna: -
Sono le due, signor capitano, e siamo a
quarantasei gradi sotto zero.
- A quanto? - domandò Reitani riparando
con la mano l'orecchio dal sibilare del vento.
- Quarantasei sotto zero. Non posso
sbagliare, ho guardato tre termometri e il
tenente Perbellini ha controllato.
- Vuol dire morire - disse ad alta voce un
soldato vicino.
- Vuol dire essere idioti a pensarlo! - gli
gridò rudemente dietro le spalle Scudrèra. -
Tira avanti invece, ché mi stai sui piedi; se no
ti attacco a tirare al posto di un mulo.
Si lamentano i muli, forse?
- Idiota! - ribatté con rabbia il soldato,
affrettando il passo.
Il gelo, oltre tutto, inaspriva l'animo e
faceva guizzare nel cervello pensieri
stravaganti e maligni, che lasciavano una
lunga scia di tentazioni strane e perfide.
- Coraggio, ragazzi, fra poco viene giorno!
- dicevano gli ufficiali cercando di rincuorare
i soldati; ma le parole svuotate del significato
abituale cadevano sulla neve come quei
cappelli che nessuno più poteva raccogliere.
Nelle ore più fonde della notte la marcia
divenne agonia; la fame rabbiosa latrava nel
petto senza che gli uomini potessero saziarla,
poiché era assurdo pensare di poter mordere
la galletta di pietra o esporre le mani al gelo;
il sonno e la stanchezza intorpidivano la
mente e i muscoli, richiedendo alla volontà
un disperato sforzo per reggere e proseguire;
e sopra ogni cosa la prolungata esposizione
agli estremi rigori del freddo moltiplicava le
sofferenze, riunendole in una sola
sensazione che sussurrava agli orecchi dei
soldati allucinanti presagi di prossima,
inevitabile fine.
Non bisognava ascoltarle, queste voci,
tutti lo sapevano e le respingevano; la
colonna nonostante l'avversità procedeva
instancabile, soverchiando il vento e tutte le
altre maledizioni che il demonio in quella
notte aveva addensato sulla marcia della
Julia.
Però ciascuno si domandava se erano
proprio zaini abbandonati quei fagotti scuri
mezzo sprofondati nella neve sui quali
l'occhio sempre più spesso s'imbatteva. A
quella vista il cuore si stringeva e il piede
arrancava più in fretta, sospinto da una forza
arcana a guadagnare più rapidamente
qualche metro di steppa. L'orrore fisico della
morte saliva in quei momenti dalle solette di
ghiaccio fra calza e scarpa e lambiva come
un'orrenda lingua la pianta del piede, rodeva
le dita delle mani sprofondate nelle tasche e
saliva sotto le maniche sino a far sentire
gelato e come di cadavere il cavo delle
ascelle, azzannava la gola e le strappava un
disperato urlo di terrore, che i vicini
percepivano invece, nel vento, come un
debole gemito di bimbo sofferente.
Ormai, sotto l'infuriare del gelo i contatti
col mondo esterno subivano continue
spaventose deformazioni, i nervi attossicati
dal freddo venivano frustati da correnti e
scariche nervose che scompigliavano e
devastavano lo spirito dei marciatori.
- Questo è un cannone semovente
abbandonato - disse Brogli ai soldati quando
la ventisei s'imbatté nella sagoma d'un
ammasso di ferro; ma pareva uno scoglio
emergente da uno spettrale immobile mare
di ghiaccio.
- Finalmente si vede qualcosa: un palo
telegrafico! - accennò quasi lieto il sergente
Fraita ai suoi uomini indicando il lungo
legno solitario; ma pareva il pericolante
albero di uno sperduto naviglio incagliato nei
geli d'una allucinazione che impazzava nel
cervello.
- Mi pare che spunti l'alba, da quella parte
- osò dire Scudrèra quando la notte era più
caliginosa e disperante; qualche compagno
immusonito grugnì, nessuno rispose; ma
poco dopo l'innumerevole colonna della
Julia emergeva sulla pianura bianca
spuntando dalle ultime tenebre della notte.
I soldati si guardavano in volto stupiti, si
ritrovavano, si riconoscevano, si salutavano,
scambiavano le prime parole amiche come se
si risvegliassero allora. Si riunivano
nuovamente perché s'erano distaccati e
perduti, ciascuno ritornava da un suo chiuso
e lontano mondo di sofferenza e di
semifollia, nel quale aveva vagato per
quindici interminabili ore rotolandosi fra il
fumigare di una pazzesca ossessione.
Avevano camminato e vegliato, s'erano
affidati follemente alla notte.
Questa aveva impresso il suo sigillo, li
aveva resi irriconoscibili: sopra un
basamento di ghiaccio che si era accumulato
sulle spalle e sul petto, dal pertugio del
passamontagna s'intravvedevano occhi gonfi
e arrossati, sporgevano sconosciuti nasi gialli
e cerei o lividi, ricoperti di croste rossigne;
s'affacciavano tumefatte e orrende labbra
spaccate e barbe e baffi da cui si dipartivano
numerosi pendagli mobili, o congiunti
all'estremo con il ghiaccio che ispessiva il
cappotto; in questo caso l'alpino incapsulato
in una rigida impalcatura che gli saliva dal
petto al mento non poteva articolare il capo,
e rimaneva impastoiato in una tormentosa
barbuta di ghiaccio.
La luce, unico dono, era sufficiente a
richiamare alla vita le migliaia di corpi semi-
assiderati; perfino i muli dal pelame irto di
punte di ghiaccio acceleravano l'andatura
stimolati dalle risorte voci dei conducenti.
Nelle prime ore della mattina il vento
cessò, dando tregua ai marciatori, ma il
freddo si mantenne accanito.
Ogni tanto la colonna incontrava qualche
carro armato tedesco o russo colpito o
incendiato da poco tempo.
- Ma come? - si chiedevano i soldati
disorientati; - anche qui c'è stata battaglia?
Ma il fronte non è rimasto sul Don, in questo
punto?
Gli ufficiali s'interrogavano con gli occhi,
in silenzio.
La colonna si era spinta molto a nord,
durante la notte; forse s'era portata quasi
all'altezza di Rossosch. A un certo punto la
marcia subì un intoppo, poiché le slitte
stentavano a superare un pendio nevoso
molto lungo e ripido, e i muli avevano
bisogno di riprender fiato a mezza salita. Gli
artiglieri della ventisei si precipitarono in
una provvidenziale stalla che sorgeva nei
pressi e accesero fuochi di paglia sgelando
scatolette e gallette, imitati dagli ufficiali. Il
fuoco non riusciva a togliere il gelo dal corpo,
ma tuttavia dava ristoro.
- E tu non mangi, Italo? - chiese Reitani
masticando allegramente carne e galletta.
I presenti si avvidero allora che l'ufficiale
medico si trovava in una curiosa situazione:
un blocco di ghiaccio gli aveva asserragliato i
baffi e scendendo al mento si era saldato con
un secondo blocco che aveva inglobato in un
unico ammasso i peli della barba e il
passamontagna, cosicché il medico poteva a
mala pena parlare ma non riusciva in nessun
modo a masticare, poiché al più piccolo
movimento della mandibola i peli, vincolati
in un tutto unico con il ghiaccio e la lana, si
strappavano senza rimedio.
- Non posso mangiare e ho una fame
maledetta! - rispose a labbra strette l'ufficiale
che provava invano a inserire sotto il
passamontagna una forbicina nel tentativo di
tagliare i peli.
- Sgela il ghiaccio vicino al fuoco -
consigliò Reitani ridendo.
- Ho provato - sibilò il medico - ma se mi
avvicino quanto basta mi brucio il viso, ho la
pelle ustionata dal freddo; e a stare più
lontano ci vuole troppo per sgelarmi, e non
faccio a tempo a mangiare.
Soldati e ufficiali ridevano divertiti
masticando, Serri strepitava pregando che
almeno non lo facessero ridere perché nel
tendere le guance al riso gli si strappavano i
peli. Dovette rassegnarsi ad uscire digiuno
poiché era ormai trascorsa una decina di
minuti e la colonna aveva ripreso il
cammino.
La Julia superò la ventiquattresima ora di
marcia forzata; gli alpini e i muli
arrancavano sempre nella neve alta, lottando
contro il gelo.
Alla trentesima ora di cammino, quando
già imbruniva, gli uomini della ventisei si
avvidero che i luoghi che la colonna
attraversava erano noti: si trovavano nelle
retrovie del fronte su cui erano stati schierati
giungendo in linea durante l'estate,
Kuwschin non era più molto distante.
- Siamo ormai a Popowka, signor
capitano! - esclamavano esultanti gli
artiglieri.
- Sì, fra un'ora o due arriveremo, forza
ancora per un poco!
- Semo fora dai dispiaceri? - domandava
Scudrèra.
- Speriamo! Dovrebbe essere così
- rispondeva Reitani; ma indugiava con lo
sguardo sulla mole di qualche carro armato
incendiato che la colonna incontrava strada
facendo. Le sventrate pareti di ferro erano
affumicate, attorno ai cingoli divelti stavano
cassette di munizioni russe o tedesche;
cavalli squartati dalle granate giacevano qui e
là, il loro sangue arrossava ancora la neve.
- C'è stata battaglia fresca, da queste
parti! - disse Serri a Reitani.
- E' quello che sto notando - rispose il
capitano aggrottando le ciglia; - le tracce
sono di ieri o ier l'altro. Non vorrei che
trovassimo i russi, a Popowka.
La divisione raggiunse tuttavia Popowka
senza imbattersi in contrasti.
Dopo trentadue ore di marcia
ininterrotta, gli alpini entrarono nel grosso
paese trascinando per la cavezza i muli
esausti che seguivano i conducenti come
cagnolini al guinzaglio. Gli uomini non erano
meno stanchi dei muli, ma l'estremo pericolo
era scongiurato, le isbe che vedevano erano
proprio quelle di Popowka, entro cui gli
alpini si sarebbero presto riscaldati e
ristorati.
Il paese aveva le abitazioni intatte e la
popolazione rimasta era scarsa; gli alpini
della ventisei per la prima volta dopo il mese
passato nelle trincee innanzi a Novo Kalitwa
pregustavano la prossima gioia di un buon
fuoco. Posti al riparo i muli e i materiali,
entrarono nelle isbe assegnate, sfilarono i
cappotti che per un mese non avevano tolto
dalle spalle.
Sorgato e Covre s'avvidero che i cappotti,
intrisi di ghiaccio com'erano, stavano ritti da
soli sul pavimento. Subito Scudrèra ne
abbrancò uno, e con questo fra le braccia
iniziò a ballare, cantando: - Volga... Volga... -
Tutti ridevano, anche la famiglia russa che
abitava la capanna.
L'infermiere Zoffoli, che s'era già sdraiato
a terra, gridò: - Scudrèra! Bestiòn! Neanche
trentadue ore di marcia t'han rotto le gambe?
Scudrèra depose ritto a terra il cappotto
con molto riguardo, e inchinandosi gli disse:
- Grazie, signorina, non è leggera ma balla
bene; mi scusi, devo andare, i muli mi
chiamano, sente?
I soldati protendevano le mani gelide
verso il tepore delle grandi stufe russe,
stendevano le gambe rattrappite dalla fatica
mentre i pendagli di ghiaccio appiccicati alle
barbe cominciavano a colare sciogliendosi.
Pezzi di galletta e residui di carne in scatola
uscirono dalle tasche e vennero allineati
sulle stufe per essere sgelati e mangiati,
secchi d'acqua attinta ai pozzi profondi
passarono di mano in mano a dissetare
finalmente gli alpini che per un mese
avevano succhiato neve.
Nell'isba del Comando della ventisei
l'infermiere Zoffoli riscaldava contro la stufa
il palmo della mano e massaggiava poi con
attenzione il blocco di ghiaccio che
incarcerava il viso e la barba del suo tenente
medico, ne staccava delicatamente i
ghiaccioli in fusione mentre Serri fissava con
sguardi voraci l'intatta scatoletta di carne che
sgelava sulla stufa. Quando fu liberato
dall'assurda maschera, con grandi sforbiciate
si tagliò irosamente la barba e addentò la
galletta con animalesca avidità.
- E' qui il Comando della ventisei? -
chiese un portaordini del Comando Gruppo
entrando nell'isba.
- Sì, perché?
- Il capitano è atteso a rapporto.
Reitani s'infilò il cappotto ed uscì. Gli
uomini, avendo dato fondo agli scarsi residui
di cibo s'asciugavano i panni, tentavano di
togliersi le scarpe gelate o si stendevano
sulla paglia. Ma il sonno non veniva perché i
corpi vibravano ancora per lo sforzo
sostenuto.
Serri uscì a visitare e a medicare gli
uomini che avevano bisogno delle sue cure;
dopo un'ora al suo ritorno il capitano era
ancora assente.
Quando Reitani rientrò tutti videro che
era scuro in viso. Si tolse in silenzio il
cappotto e si avvicinò alla stufa per scaldarsi
le mani.
- Cattive nuove, comandante? - chiese
Brogli.
Gli ufficiali e la dozzina di soldati
presenti tesero gli orecchi.
- Il paese è già stato attaccato ieri e oggi,
la prima volta da reparti russi regolari e la
seconda da partigiani appoggiati da mortai -
rispose il capitano; - spuntano anche i
partigiani, ora. Bisogna piazzare due pezzi in
fondo alla strada e predisporre un servizio di
guardia. Brogli, provvedi tu, per favore.
- Va bene - disse Brogli uscendo.
Il capitano, in piedi, s'era addossato alla
stufa e vi aderiva con le mani, il ventre e il
petto; con la testa levata guardava il soffitto.
Dalla paglia su cui sedeva, Serri lo
osservò a lungo e poi gli chiese: - C'è
dell'altro?
- Niente di preciso ancora - riprese
Reitani; - non ho avuto ordini per la
partenza, non è neppure escluso che il Corpo
d'Armata Alpino si costituisca a caposaldo
qui sul Don e tenti di resistere fino a
un'eventuale avanzata tedesca che in
primavera o in estate venga a liberarci.
- Come? - esplose Ferrieri; - come
potremmo resistere per tanti mesi?
- Verremmo riforniti per via aerea,
dicono; ma sono soltanto progetti vaghi,
naturalmente... - rispose Reitani
irrigidendosi contro la stufa; in quella
posizione volgeva le spalle alla stanza,
nessuno riusciva a vederlo in viso. Senza
dubbio il suo comportamento era strano,
inusitato. Tutti i presenti erano immobili, e
in profondo silenzio fissavano la schiena, la
nuca, i capelli arruffati e neri del
comandante sperando che si voltasse per
poterlo vedere in volto e comprendere
qualcosa di più.
Serri allora si alzò dalla paglia e nel gran
silenzio si avvicinò alla stufa e si fermò a un
passo dietro Reitani.
- Che cosa c'è ancora, Ugo, - disse
lentamente, scandendo le parole - che non ci
vorresti dire e che dobbiamo sapere?
Il silenzio che seguì prendeva le gole degli
alpini, pareva che non dovesse più
terminare; ma il capitano si voltò di scatto e
piantò gli occhi negli occhi dei suoi uomini: -
C'è - disse rompendo l'indugio e troncando
ogni esitazione, con voce alta e secca, come
se impartisse un ordine alla batteria
schierata - c'è che i russi, dal giorno quindici
in poi, hanno sfondato il fronte dell'Armata
ungherese a Korotojak, sotto Voronesh;
operando nel vuoto che per centinaia di
chilometri esiste intorno a noi, sono calati
dal nord con enormi forze corazzate e
motorizzate senza dover neppure
combattere, si sono congiunti con le loro
divisioni provenienti dal sud ed hanno
completamente saldato l'anello intorno a noi.
La Julia, l'intero Corpo d'Armata Alpino sono
isolati e circondati. Siamo nel fondo d'una
sacca.
Nessuno si mosse, la notizia aveva
impietrito i presenti. In quell'istante la porta
cigolò, entrò Brogli e indugiò sull'uscio
sbattendo una contro l'altra le scarpe per
scrollare la neve; disse poi allegramente: - Fa
un freddo cane, amici; ma qui dentro siamo
in paradiso, se Dio vuole! Tutto a posto,
capitano. Altri ordini da trasmettere?
- Uno solo, per adesso, - gli rispose
Reitani a bassa voce - per tutti gli uomini
liberi dal servizio di guardia: dormire.
- Oh, meno male, era proprio l'ordine che
mancava! Lo trasmetto subito volentieri! -
commentò Brogli accingendosi ad uscire
nuovamente.
Aveva già rimesso la mano sulla maniglia
della porta ma s'arrestò fulminato,
accorgendosi in quel punto che la stanza, alla
luce della lanterna che pendeva dal soffitto,
offriva l'assurdo aspetto d'un ammuffito
magazzino di rigattiere, ricolmo di ridicole,
vecchie statue fuori uso.
XXIII
Era buona paglia asciutta quella su cui gli
alpini finalmente dormivano, perfino
profumata perché conservava un lontano
odore di campi e d'estate, odore di terra che
si screpola al sole; il più bel sogno, per chi
rischia sempre di morire di freddo; era quasi
come mormorare «Italia...» all'orecchio
d'uno qualsiasi di quei dormienti accucciati
uno a ridosso dell'altro nell'isba del comando
della ventisei, o in quelle accanto, sotto la
luna che faceva brillare l'alta coltre di neve
che ricopriva Popowka.
Il silenzio, il gelo e il bianco offrivano
maestoso corteo alla regalità della notte;
notte russa, sterminatrice gelida e quieta;
sovrana su ogni altra vita, sovrana
impassibile sul suo regno favoloso e silente.
Nelle stalle i muli, nelle isbe gli alpini
dormivano per grazia sua, confortandosi
d'una stanchezza e d'un gelo quasi mortali,
abbandonati al sonno come bimbi o soldati.
Ma già, ad oriente, la maledetta livida aurora
risvegliava gli uomini rincuorandoli alle
male opere del nuovo giorno.
Un fremito frullante passò infatti nell'aria
immota sovra Popowka e tra le isbe risuonò
un tonfo greve, poi un secondo, subito
seguito da altri.
I corpi degli uomini si rimescolarono
sulla paglia, nel buio delle capanne; alcune
voci corsero, alcuni lumi s'accesero.
- Capitano Reitani, allarme! - gridò una
sentinella spalancando la porta dell'isba. Una
ventata gelida passò sui caldi corpi degli
uomini giacenti.
- Sveglia!
Come ad un indistinto lontano richiamo,
Serri ad occhi chiusi mosse il capo, stirò
svogliatamente le gambe, tornò a coscienza;
sentiva il torpore del sonno correre via dalle
membra, che dalla sommersione nel pesante
riposo riemergevano grado a grado.
Gli uomini indugiavano semicoscienti
sulla paglia, stiracchiandosi di malavoglia,
quasi stentassero a riaversi dalla fatica d'aver
dormito. Ma tuttavia, a un richiamo del
capitano che stava già uscendo cominciarono
a sforzarsi di far entrare i piedi nelle scarpe
che neppure una notte passata al caldo era
riuscita a rendere flessibili.
Quando Reitani rientrò, radunò gli
ufficiali e i sottufficiali della batteria.
- Ho preso gli ordini dal colonnello
Verdotti - comunicò. - Situazione: i colpi di
mortaio che sentite sono sparati da partigiani
che attaccano il paese, sono già state prese le
contromisure necessarie. Altre formazioni
partigiane sono segnalate nella zona, ma non
tali da porre in difficoltà una divisione.
Quello che preoccupa, invece, è la situazione
generale; durante la notte sono giunte più
precise notizie: le truppe russe si
consolidano attorno al Corpo d'Armata
Alpino con l'evidente intento di soffocarlo in
una morsa senza uscita. La divisione di
fanteria Vicenza, venuta in Russia con
compito di presidio e inserita poi nello
schieramento alpino, ha ben scarsa capacità
offensiva; fra le tre divisioni del Corpo
d'Armata Alpino, la Tridentina e la Cuneense
sono in buona efficienza perché fino a ieri
non si sono mosse dai rifugi sul Don e,
nonostante che i russi nei giorni scorsi le
abbiano violentemente attaccate,
mantengono in armi circa sedicimila uomini
ciascuna; la Julia invece è stata logorata
nelle trincee di Novo Kalitwa, purtroppo
abbiamo uomini e muli provati, feriti e
stanchi, scarse armi, più scarse munizioni e
poche slitte; siamo soltanto dodicimila. Altri
dodicimila uomini costituiscono la divisione
Vicenza.
Con la somma di queste forze - disse il
capitano, fissando ad uno ad uno gli ufficiali
e i sottufficiali - il Comando del Corpo
d'Armata Alpino ha deciso di spezzare
l'anello russo che ci circonda, e di tentare di
ricongiungersi alle Armate italiana e
tedesche che hanno ripiegato dal medio Don
mentre noi resistevamo sul fiume.
Non siamo tuttavia i soli ad essere
rimasti rinchiusi nella sacca: ieri e oggi nei
paesi vicini si sono concentrati altri reparti
che divideranno la nostra stessa sorte, e sono
cinquemila uomini di comandi e servizi vari,
duemila di un battaglione speciale e di
alcune batterie a cavallo, cinquemila che
rappresentano i resti non utilizzabili delle
due divisioni di fanteria dissolte un mese fa a
Novo Kalitwa.
Sono presenti anche settemila tedeschi
con molte slitte, qualche carro armato, vari
automezzi cingolati e qualche cannone
anticarro e semovente, ma con scarsissime
munizioni; esistono inoltre settemila fra
rumeni e sbandati di varia provenienza.
Infine s'aggiungono a noi due divisioni
ungheresi che sono giunte ripiegando dalla
zona di Korotojak: sono ben trentamila
uomini, ma non ci saranno di alcun aiuto
perché ritirandosi in questi giorni sono
rimasti del tutto senz'armi.
Complessivamente siamo quindi oltre
centodiecimila uomini rinchiusi nella sacca e
tra questi gli italiani sono circa settantamila,
ma purtroppo le uniche forze ancora in grado
di sostenere il combattimento sono quelle
del Corpo d'Armata Alpino, qualche altro
piccolo reparto italiano e una metà del
contingente tedesco. Tutti gli altri reparti ci
seguiranno inerti e in definitiva serviranno
soltanto ad appesantire e attardare i
movimenti della colonna. Punteremo verso
ovest, daremo battaglia ad oltranza quando ci
imbatteremo nella linea di sbarramento
russa e tenteremo di sfondarla per
raggiungere poi ad ovest la nuova linea su
cui hanno ripiegato le forze dell'Asse. Dico
ovest perché non abbiamo altri ragguagli più
precisi sulla loro dislocazione, come non
sappiamo con esattezza dove incontreremo la
resistenza russa; sappiamo soltanto di essere
costretti a superare l'accerchiamento russo e
di doverci trovare entro ventiquattro ore a
ovest di Postojali, un paese a qualche decina
di chilometri da qui, ove pare siamo attesi da
forze di retroguardia dell'Asse; se non le
raggiungeremo entro le ventiquattro ore,
esse saranno costrette a ripiegare
ulteriormente e noi saremo abbandonati a
noi stessi. Alle cinque partenza. Ordini per la
ventisei: alleggerire al massimo il reparto,
porteremo con noi solamente le armi e le
munizioni trasportabili con le slitte. I viveri,
come sapete, sono esauriti; gli uomini
caricheranno su di sé le armi individuali e
resteranno con i soli indumenti che
indossano, tutti gli altri materiali devono
essere distrutti immediatamente, compresi
gli zaini degli ufficiali e dei soldati: è un
ordine spiacevole, ma tassativo, giochiamo il
tutto per il tutto.
Perbellini - disse con una amara piega di
dolore sulle labbra - farai saltare subito il
quarto pezzo, colpito com'è non consente
impieghi rapidi. Eseguire gli ordini -
concluse dando una occhiata all'orologio; -
fra mezz'ora si parte.
Pochi minuti dopo, i muli e le slitte
uscivano dalle stalle, all'incerto chiarore gli
artiglieri alpini frugavano negli zaini
togliendo affannosamente le cose più
preziose: un paio di calze, fiammiferi, una
candela, alcuni fazzoletti, una maglia stinta,
il paio di guanti di ricambio; facevano
scomparire il tutto nelle tasche, ficcavano le
cose più voluminose sotto la giubba, le
annodavano alla vita, si legavano a tracolla la
coperta e infine con gesto desolato
lasciavano cadere sulla neve il rimanente,
dando un'ultima occhiata allo zaino vuoto,
vecchio pesante amico tante volte maledetto,
che s'afflosciava come un cencio. Aveva
servito da sedile, da cuscino, da riparo; era
un vero dolore, un tradimento abbandonarlo
in fretta tra le mutande appallottolate e le
carte stracce, ma quello era l'inesorabile
ordine.
Osservato da un ragazzetto russo
infreddolito, Scudrèra stava togliendo dallo
zaino un paio di lunghi mutandoni di lana; li
dispiegò al vento, li appallottolò e se li ficcò
sotto il cappotto; ma facevano troppo
volume, li sfilò e se li arrotolò al collo, come
una sciarpa. A questo punto si vide osservato
dal ragazzetto, che sorrideva divertito.
Scudrèra dispiegò nuovamente le mutande
accostandole al ragazzetto, come a
misurargliele: erano più alte di lui, il ragazzo
rideva.
Scudrèra allora gli gettò le mutande sulle
spalle, e gli disse: - To', ciàpa, ma cresci in
fretta; intanto le porterà to nòna. Bàbuska!
Bàbuska! Capito?
- Karasciò! - esclamò il ragazzo russo.
Fece un cenno di ringraziamento e filò verso
un'isba gridando: - Bàbuska! Bàbuska!
- Nel correre, però, gli caddero sulla neve
le mutande; mentre le raccoglieva e
scappava, Scudrèra gli gridò dietro:
- Ciò, insulso! Tienle ben, chè le ga fàte
me màma! - E rivolto a Marcon: - Te ga
visto? El me ga capìo sùbito! Son mi che non
capìsso dove go imparà a parlar in russo!
Già alti fuochi crepitavano sulla neve,
cassette e pacchi di documenti delle furerie
bruciavano, autocarri privi di carburante
venivano dati alle fiamme, il quarto pezzo
della ventisei era saltato; tutte le compagnie
e le batterie gettavano alla neve e al fuoco
preziosi materiali, la gente russa andava
attorno raccogliendo indumenti, ragazzetti
già se li spartivano altercando.
Gli alpini guardavano la distruzione con
dolorosa fissità, una gran pena era scesa
sulla Julia. Nei dintorni, immani bagliori si
diffondevano nel cielo ad annunciare che
anche le altre divisioni nei paesi vicini
stavano bruciando tutto fuorché le armi e le
slitte, e che oltre centomila uomini si
privavano tragicamente di ogni bene nel
tentativo di serbarne uno solo: la vita.
Centomila gavette vuote di cibo, colme di
ghiaccio, costellavano la neve e segnavano la
sorte dei combattenti imprigionati nella
sacca presso il Don.
La colonna si mosse, girò attorno al
paese, s'affacciò alla vastità della pianura
divenendo, all'improvviso confronto, un
piccolo nastro grigioverde; e s'incamminò
verso ovest.
- E la Tridentina? E la Cuneense, signor
capitano? - chiedeva il puntatore Coltrin a
Reitani.
- Marciano a qualche chilometro al nostro
fianco, ci riuniremo più avanti.
Dopo qualche ora di marcia venne il
contrordine: le tre divisioni avrebbero
proseguito con itinerari separati per poter
saggiare in punti diversi la resistenza nemica
e sfondare poi insieme nel punto più debole.
Più tardi la colonna della Julia venne
frazionata in colonne minori, formate da un
reggimento d'alpini e un Gruppo d'artiglieri
alpini; il Gruppo della ventisei si unì
all'Ottavo Reggimento Alpini. I reparti,
scaglionati nella vastità, andavano
alacremente verso ovest.
Il silenzio venne rotto all'improvviso dal
rombo d'un aereo russo che passò sulle
colonne, sganciò qualche spezzone e
scomparve nel cielo in direzione di Rossosch.
Una ondata di irritazione passò sugli uomini.
- Accidenti, siamo stati individuati! -
esclamò il sergente Bartolan.
- Presto incominceranno i guai
- mormorò Reitani a Serri.
Apriva la colonna un battaglione d'alpini,
seguivano la ventisei e gli altri reparti. Verso
il mezzogiorno la testa della colonna si
fermò, si udirono alcuni spari. Giunse un
ordine, Reitani chiamò Perbellini e gli disse:
- Porta in testa il primo pezzo e sta'
attento, pare che siano stati avvistati carri
armati russi.
Il capitano venne chiamato a rapporto;
tornando comunicò: - Siamo nella zona di
Nova Postojalowka e Ssolowiew, a pochi
chilometri da quella Postojali che dobbiamo
superare entro le ventiquattro ore; ma i russi
ci hanno sbarrato il passaggio. Fra poco ci
schiereremo e attaccheremo.
- E gli altri reparti della Julia? E le altre
divisioni? - chiese Brogli.
- Cercheranno di sfondare per conto
proprio, c'è ordine che ogni reparto affronti
immediatamente la situazione per non dare
tempo ai russi di rafforzarsi.
Il pezzo di Perbellini già sparava, i russi
rispondevano, i sibili raschianti dei proietti
passavano sulla colonna.
Mezz'ora dopo il combattimento
divampava, i battaglioni Cividale, Tolmezzo e
Gemona dell'Ottavo alpini, sostenuti dalle
batterie del Gruppo di Verdotti, andavano
all'attacco del paese e riuscivano a
impadronirsi di una parte dell'abitato, le
slitte avanzavano fino a un chilometro dal
paese pronte a passare appena si fosse aperto
il varco. Gli ufficiali medici curavano sulla
neve i primi feriti. La situazione si
prospettava favorevole, da un istante all'altro
si poteva procedere.
Ma dopo un'ora le posizioni conquistate
nel paese furono abbandonate; gli alpini
furono costretti a retrocedere fino alle slitte
e i tre pezzi e gli uomini della ventisei che si
erano spinti innanzi fino a seicento metri
dall'abitato rimasero allo scoperto a mezza
distanza fra gli alpini e i russi.
- I nostri pezzi! - gridava esasperato
Scudrèra, picchiandosi in testa e calpestando
la neve.
Serri s'affannava a prestare i primi
soccorsi ai feriti che rientravano dall'assalto.
- Non è possibile, colonnello - ripeteva
affannosamente a Verdotti un capitano degli
alpini, mentre il medico gli medicava
un'ampia ferita al viso; - non è possibile
tenere le posizioni in paese! Nova
Postojalowka si può conquistare d'assalto,
siamo riusciti ad attestarci nell'abitato per
cinque volte consecutive, ci siamo
asserragliati nelle isbe, ma le posizioni che si
raggiungono non si possono mantenere: i
russi mandano avanti i carri armati che
prendono a cannonate le isbe e le mandano a
pezzi, è un macello: sopraggiungono poi le
fanterie e finiscono col prevalere!
- Quanti carri armati avete visto?
- Sei, e molti autocarri che arrivano dalla
pista di Rossosch scaricando sempre nuovi
rinforzi.
Le tre batterie del Gruppo sparavano,
rintuzzando l'impeto dei russi che tentavano
di uscire dal paese per attaccare gli alpini. I
tre pezzi della ventisei, che presi di mira dal
fuoco nemico non si potevano spostare,
rischiavano ad ogni istante di cadere in mano
ai russi. Un artigliere giunse correndo dalla
linea pezzi e si precipitò da Serri:
- Dottore! - gridò ansimando - al primo
pezzo Coltrin e due serventi sono stati feriti,
stanno per morire dissanguati, il sergente
Bartolan e gli altri non riescono ad aiutarli
perché devono sparare continuamente...
- Corro subito - disse Serri passando
all'infermiere Zoffoli il rotolo di benda che
stava avvolgendo al braccio di un ferito;
afferrò lo zainetto di sanità e s'avviò.
I russi sparavano con i mortai sui
cannoni del Gruppo, ma quando il medico
uscì dallo schieramento alpino e avanzò
guardingo verso la linea pezzi della ventisei i
mortai tacevano.
- Sono fortunato - pensò l'ufficiale. Il
trovarsi al di fuori della cerchia difensiva
dava ai radi intervalli di silenzio una
consistenza quasi palpabile; soltanto qualche
raffica di mitragliatrice russa passava
sibilando nell'aria gelida; ma le voci
rimbombanti dei cannoni del Gruppo
rintronarono nuovamente.
Quando il medico si trovò a una
sessantina di metri dal primo pezzo
comprese e addirittura vide con raccapriccio
la ragione del silenzio dei mortai nemici: due
carri armati da quaranta tonnellate si erano
affacciati tra le estreme isbe del paese e
avanzavano nella neve verso i pezzi della
ventisei. Aprirono il fuoco con le
mitragliatrici di bordo; ad intervalli si
soffermavano per qualche secondo a sparare
col cannone che spuntava dalla torretta e
riprendevano ad avanzare.
Serri si affrettava verso il primo pezzo
tenendosi curvo sulla neve e non perdeva
d'occhio i due pachidermi. A cento metri dai
pezzi uno d'essi accelerò l'andatura e deviò
verso la linea degli alpini, il secondo puntò
decisamente verso i cannoni di Reitani.
- Ugo ha fatto portare avanti le granate
controcarro, ora Bartolan spara senz'altro - si
disse il medico vedendo che il carro armato
si avvicinava al primo pezzo dal quale egli
distava una trentina di passi. Vide infatti
Bartolan sparare, udì la secca esplosione,
osservò il carro armato colpito in pieno
arrestarsi; ma non percepì l'esplodere della
granata, poiché questa era slittata sulla
corazza del carro, scivolando via senza far
danno. Negli istanti che seguirono, Serri
assistette inorridito alla scena fulminea: il
carro avanzò sul primo pezzo, il medico vide
Bartolan e un servente tentare di gettarsi a
lato quando il muso del gigante già era a
ridosso del cannone. In un baleno lo urtò, lo
sormontò, l'abbrancò, lo mosse; la coda del
pezzo s'elevò e si agitò a sghimbescio
nell'aria come un braccio che implori aiuto;
ma già il carro aveva rizzato il muso nell'aria
e si spingeva innanzi ricadendo poi con
lentezza pesante sul cannone, che scomparve
sotto la mole mostruosa; con due scrolloni il
gigante si svincolò dalla preda e s'allontanò
sulla neve.
Tutto era successo in un vertiginoso
attimo sotto gli occhi del medico.
Bartolan stava riverso nella neve, e il
pezzo e altre sagome scure, forse uomini,
giacevano schiacciati nella scia lasciata dal
carro.
L'ufficiale fece due o tre passi di corsa ma
s'arrestò perché il sibilo di una raffica lo
sfiorò; ebbe il tempo di gettarsi nella neve e
contemporaneamente vide l'enorme mole del
secondo carro armato che gli rotolava
addosso, forse da cinque metri. Serrò gli
occhi già annientato, ma nell'attimo
successivo le estreme energie dell'istinto lo
forzarono a riaprirli, vide con orrore la
spaventosa forma incombente, il digrignare
feroce dei cingoli dentati; l'attimo si dilatò,
tutta la vita si fermò paralizzata e pencolante
su quello.
- Mamma... - pensò l'ufficiale e vide i
cingoli ruotare a un metro dagli occhi, udì
ingigantito il rumore del motore e del ferro
in movimento; allora non vide e non sentì
più nulla, soltanto si divincolò come una
serpe, disteso sulla neve si rigirò su se stesso
due, tre, quattro, cinque volte, rotolò ubriaco,
stordito, avvertì un violento strattone a un
braccio, si sentì addentato e perduto,
distrutto; conobbe la vertigine di sentire vita
e morte coabitanti in un sussulto estremo
nel suo cervello, si chiese senza più alcuna
angoscia se tutto era finito, se ormai riviveva
nella morte, riaprì gli occhi e vide azzurro di
cielo, sollevò il capo dalla neve e scorse il
carro a dieci metri che se ne andava. Rimase
supino a fare il morto, appena allora
cosciente di non esserlo. Dopo un minuto,
vedendo il carro lontano si rizzò ginocchioni
nella neve, si tastò il braccio e si avvide che
la mano serrava ancora la cinghia dello zaino
di sanità ch'egli teneva al momento
dell'incontro col carro.
Capì allora che s'era salvato per un nulla,
per l'ultimo guizzante rotolarsi; e che lo
strappo al braccio gli era venuto dallo zaino
travolto e stritolato dal gioco dei cingoli,
poiché la mano contratta sulla cinghia non
aveva mollato la presa.
- Accidenti... - disse ansando a se stesso; e
non seppe dirsi altro.
Si rialzò, si avvicinò a Bartolan che
guardava inebetito la neve attorno al pezzo
smembrato; a tre metri dai resti del cannone,
nella scia lasciata dal carro assalitore giaceva
dilaniato un cadavere; una sola gamba
appariva, superstite, da un impasto informe e
sanguinolento che all'estremo opposto
terminava in un rimescolato tritume di
capelli, denti e ossa craniche tenuto insieme
da un lucido e gelatinoso cemento di materia
cerebrale già gelata.
- E' Coltrin? - chiese Serri, subito
provando una vampata di sdegno contro di sé
nel constatare l'assenza di emozione nel
porre la domanda.
- Sì; era stato ferito poco fa, gli mancava
già una gamba, ma non la trovo più - rispose
Bartolan senza turbamento, fissando ciò che
rimaneva dell'amico fraterno; e lentamente
passò lo sguardo spento su un secondo
cadavere, a metà maciullato nel solco del
carro, a metà integro nella neve intatta.
- Altri due sono là - disse ancora
accennando col capo lungo la scia e avendo
sul viso un ghigno incomprensibile; - sono
ridotti come sogliole.
Guardando negli occhi l'ufficiale con uno
sguardo fisso aggiunse: - L'avete scampata
anche voi per miracolo; quando ho visto il
secondo carro che vi veniva addosso ho
gridato, ma non mi avete sentito.
Serri percorse nel largo solco una
quindicina di metri, giungendo al punto ove
erano state deposte le munizioni del pezzo
affinché, essendo la neve in quel tratto
ghiacciata, non avessero a sprofondare. Là il
carro era passato su due artiglieri; il medico
vide che, per la rigida resistenza offerta alla
ferrea mole dal lastrone ghiacciato, i due
cadaveri erano stati appiattiti e pressati,
stavano distesi sul ghiaccio dando orribile
risalto al paragone fatto da Bartolan:
smisuratamente larghi e lunghi avevano
perduto spessore e sembianze umane.
In quell'ora reparti alpini avanzarono,
invano tentando un nuovo attacco al paese;
tutta la giornata trascorse senza portare
mutamenti decisivi. Vennero fatti alcuni
prigionieri, i quali affermarono che il
presidio di Nova Postojalowka era costituito
da più di tremila uomini di fanteria
appoggiati da sette carri armati e da
numerosi mortai e cannoni; confermarono
che rinforzi autocarrati giungevano
ininterrottamente dalla vicina Rossosch.
Venne la notte, col buio i due pezzi
superstiti della ventisei poterono rientrare
nello schieramento alpino; giunsero anche il
battaglione Ceva e il Gruppo di artiglieria
Mondovì con una batteria del Val Po che non
erano riusciti a passare altrove; si
schierarono subito con gli altri reparti. Tutti
pernottarono all'addiaccio, martoriati dal
freddo, insonni.
- All'alba i battaglioni tenteranno l'ultimo
attacco - correva voce.
- All'alba bisognerà sfondare ad ogni
costo, scadono le ventiquattro ore - dicevano
gli alpini. Si chiudevano poi in lunghi silenzi,
si sfregavano le estremità, si picchiavano il
torace cercando di tenersi desti.
XXIV
Alle prime luci dell'indomani i battaglioni
appoggiati dal fuoco dei pezzi andarono
all'attacco. Tutti i reparti erano già
duramente provati, il numero delle armi era
dimezzato, le munizioni scarseggiavano.
Durante la notte invece le forze del nemico
erano raddoppiate, l'attacco condotto con
violenza disperata s'infranse contro la troppo
munita barriera. Il tenente colonnello
Avenanti, comandante del Ceva, cadde alla
testa dei suoi alpini; molti ufficiali e soldati
morirono.
- Non passeremo più - disse freddamente
Brogli a Serri che medicava i feriti. Di fronte
ai fatti, il presentimento della fine già troppe
volte rinviata si andava diffondendo.
Alle undici i russi uscirono dal paese e
attaccarono con l'evidente volontà di sferrare
l'azione decisiva.
Comparvero le fanterie appoggiate da
forze corazzate, gli alpini con sgomento
contarono diciassette carri armati.
L'urto fu violentissimo, la linea degli
alpini venne travolta e superata, i pezzi
furono sottoposti a un infernale fuoco di
controbatteria; ben presto nel Gruppo
Mondovì tutti i comandanti di batteria
rimasero uccisi assieme con la maggioranza
degli ufficiali e degli artiglieri fulminati
accanto ai cannoni. Il tenente colonnello
Verdotti ordinò allora al capitano Bonzani,
comandante della trentesima batteria del suo
Gruppo, di inviare artiglieri ai superstiti
cannoni del Mondovì rimasti senza uomini
vivi; i cannoni ripresero il tiro finché i nuovi
serventi morirono sui pezzi distrutti, e il
capitano Bonzani rimase gravemente ferito.
Anche al Gruppo del colonnello Verdotti
la situazione era diventata estremamente
grave: le batterie avevano immobilizzato
sulla neve tre carri armati russi ed altri due,
colpiti, erano stati costretti ad abbandonare il
campo di battaglia; ma ormai la ventisei, la
ventotto e la trenta non avevano quasi più
munizioni, un altro pezzo della batteria di
Reitani era stato colpito in pieno e distrutto.
I carri armati russi incrociavano dove più
s'addensavano i reparti alpini ruotando
inesorabilmente le decine di tonnellate della
loro mole sugli uomini vivi; puntavano verso
gli agglomerati umani più compatti, col tiro
teso e radente delle mitragliatrici di bordo li
obbligavano a buttarsi sulla neve e subito si
gettavano sulla preda a dilaniarla coi cingoli,
si soffermavano ed eseguivano mezzi giri
dimenandosi a destra e a sinistra per tritare
le carni umane su più ampio raggio.
Le fanterie quindi avanzavano finendo il
massacro, sopraffacendo chi era ancora in
grado di combattere.
Molti cannoni dei Gruppi tacevano
distrutti, la sparatoria e la resistenza degli
alpini s'affievoliva, i caduti in grigioverde
coprivano il bianco della neve, i feriti
brancolavano verso i posti di medicazione.
Notizie sempre più gravi correvano miste a
nomi d'ufficiali morti, di compagnie e
batterie travolte; il nemico s'approssimava
alle slitte, ogni novità trasmessa ai Comandi
faceva sentire come imminente la totale
carneficina.
- Tutti i vivi all'assalto! - ruggì allora il
colonnello Verdotti estraendo la rivoltella. -
Il mio Gruppo alla baionetta con me, fra tre
minuti!
Abbandonare tutto, tutti all'assalto!
Gli ufficiali trasmisero l'ordine che in
pochi istanti dilagò fra le slitte, nei posti di
medicazione, sulla neve, dovunque esistesse
un alpino in condizione di reggersi in piedi;
straripò raggiungendo gli altri reparti,
elettrizzò ogni uomo, rinfrancò chi già
combatteva.
- Savoiaaa...! - gridò al terzo minuto il
colonnello Verdotti, strappando con i denti la
sicura a una bomba a mano e buttandosi
innanzi, circondato dall'aiutante maggiore e
dagli altri ufficiali.
- Savoiaaa! - urlarono come folli gli
armati, seguendo il comandante. E una
torma disperata s'avventò verso il nemico,
spaventosa d'inaudita volontà, dolorante e
pazza, sospinta dal delirio di voler scavalcare
la morte o abbracciarla; dietro i primi,
sorsero dalla neve e si slanciarono avanti in
un miscuglio indicibile mitraglieri rimasti
senz'arma, furieri, telefonisti, graduati,
infermieri, conducenti, medici, uomini delle
salmerie, artiglieri dal pezzo schiantato,
alpini che avevano esaurita l'ultima
pallottola; e fra questi ansimavano i feriti
sorti dai posti di medicazione, zoppicavano i
congelati, arrancavano i malati, tutti
brandendo baionette, bombe a mano,
bastoni, coltelli da tasca, fucili a mo' di clava,
spaventevoli apparizioni di forsennati che
facevano massa contro il nemico avendo
lasciato addietro soltanto i moribondi e i
morti.
Piombarono sull'avversario con irruenza
furiosi, s'avventarono; impotenti ad altro, si
rotolarono nella neve in lotta mortale con i
nemici abbrancati, li tennero avvinti a sé
quando il carro armato passò ad arare la neve
e la carne; si gettarono sui carri in moto,
finirono stritolati sotto i cingoli ma questi
erano ancora rossi dell'impasto di sangue e
di muscoli quando altri salirono a sollevare
le botole delle torrette e gettare la bomba
nell'interno, a torcere con furenti colpi di
calcio di fucile le canne delle mitragliatrici
che spuntavano dalle spesse corazze.
Assalito dalla torma demente, il nemico si
arrestò, rinunciò al proposito di sterminare
quegli uomini, non resse, voltò le spalle e
ricalcò di corsa le proprie orme inseguito e
pressato dalla torma dei forsennati; incalzato
da questi ripiegò precipitosamente sulle
posizioni di partenza asserragliandosi nelle
isbe del paese e nelle sue linee munite.
Ma gli alpini non passarono. Non ebbero
armi sufficienti a valicare la barriera fissa.
Ritornarono alle slitte pesti, sanguinanti,
esausti, portando seco i feriti; facevano il
triste consuntivo dei morti; riprendendo
respiro, guardavano la neve seminata di
cadaveri, tra cui cinque carri torreggiavano
immobilizzati.
- Abbiamo impedito che venissero ad
ucciderci tutti - dicevano ancora ansanti - ma
quando torneranno sarà la fine.
I feriti facevano ressa ai posti di
medicazione stabiliti all'aria aperta sulla
neve. Sotto gli occhi dei feriti in attesa di
aiuto, Serri opponeva ogni possibile risorsa
all'onnipresente minaccia della morte. Aveva
nel cuore la tristezza di poterla contrastare
soltanto con inadeguati e crudeli ripieghi, ma
lavorava con fervore supplicando Iddio di
conservargli la mobilità e il tatto alle mani
ch'era costretto a muovere nude nell'aria
gelida. Ormai i materiali sanitari erano del
tutto esauriti, gli strumenti chirurgici erano
finiti sotto il carro armato.
Gli accadevano cose strane, che da
principio gli parevano incredibili.
Già il primo ferito, al quale stava
asportando col coltello da caccia tre dita
d'una mano sfracellata, osservava senza
batter ciglio le fasi dell'intervento:
- Ma non senti dolore, tu?
- No, signor tenente - aveva risposto
quello con tranquillità; - è come se non
avessi la mano. Non la sento.
Amputando arti ad altri feriti e ricevendo
risposta consimile, il medico aveva
constatato che l'intervenire nel gelo su arti
semicongelati attenuava e spesso annullava
la sensibilità dei nervi con grande vantaggio,
a questo effetto, per i feriti.
Fra i primi gli era stato portato un alpino
con una gamba sfracellata; era opportuno
liberarlo dallo spappolato pendaglio e il
medico esitò prima di procedere alla
disarticolazione della gamba all'altezza del
ginocchio temendo una eccessiva effusione
di sangue. Ma, intervenendo, non solo
constatò che il soldato non accusava dolore,
ma con indicibile sollievo s'avvide che i vasi
sanguigni beanti nel gelo si contraevano
quasi subito e il sangue ristagnava in pochi
istanti.
Il fatto si ripeteva per la maggioranza dei
feriti.
- Non possiamo farci illusioni, però,
colonnello - diceva a Verdotti che lo
interrogava; - non posso rispondere della vita
di nessuno, sono costretto a intervenire in
un modo bestiale e le circostanze rendono
sicura ogni più grave complicazione.
- Poveri figli... - mormorava il colonnello.
- Ci precederanno di poco - aggiungeva
Brogli.
Molti erano i morti in combattimento, le
file dei reparti si erano ridotte
spaventosamente. La ventisei era stata tra le
più risparmiate dalla sorte, non risultava
dimezzata o pressoché annientata come altri
reparti, ma tuttavia diciannove dei suoi
uomini giacevano sulla neve e pure il
giovanissimo sottotenente Landolfi era
morto per una palla in fronte ricevuta
mentre si trovava presso il secondo pezzo.
L'angoscia per la perdita dei compagni
pesava sugli animi e rendeva più brucianti i
presagi.
Altri ufficiali del Gruppo erano morti,
diversi erano feriti. Uno venne trascinato a
braccia al posto di medicazione di Serri, era il
sottotenente Frati della ventotto, un
allampanato e meditabondo laureato in
filosofia che durante i mesi di fronte si era
guadagnato la stima di tutti per l'olimpica,
quasi trasognata calma che lo caratterizzava
e per l'inalterabile, sottile arguzia che lo
distingueva. Più a nulla ormai gli giovavano
tali doti, ora che stava disteso sulla neve
svenuto e mortalmente pallido.
- Deve avere una pallottola nella pancia, a
quanto si è capito - mormorò al medico
l'infermiere Zoffoli.
Serri si inginocchiò nella neve, sbottonò
gli indumenti del ferito, e sulla pelle nuda
dell'addome, presso l'ombelico, vide un
piccolo occhiello rosso, a contorno regolare.
- E' spacciato? - domandò Zoffoli.
Il medico strinse le labbra; una
perforazione addominale, in condizioni
simili, non lasciava adito ad alcuna speranza.
Rimosse il ferito, e a cinque centimetri a lato
della colonna vertebrale constatò la presenza
del forame d'uscita.
- Sì, è una ferita da pallottola - disse
evasivamente con tristezza pensando
all'inevitabile sorte dell'ufficiale.
Questi socchiuse un occhio, guardò il
medico e con un filo di voce mormorò: - E'
finita, per me.
- No, sta' tranquillo - mentì Serri sorpreso
di vedere cosciente l'amico che fino a quel
momento era parso privo di sensi.
- E' finita, me lo sento - ripeté Frati.
- Non posso fare nulla - pensò Serri con
infinita pena; e chiese: - Senti dolore?
- No, niente; mi brucia solo un poco
l'osso.
- L'osso? Dove? - domandò il medico
attentissimo.
- Qui a destra - disse il ferito indicando
l'ala iliaca.
Con estrema attenzione Serri visitò il
sottotenente, gli fece alcune domande, gli
disse alfine tra lo stupore dei presenti: -
Alzati.
Il ferito aprì gli occhi smorti, rivolse al
medico un lungo sguardo dolorante:
- Non posso - rispose fiocamente.
- Alzati! - gli ordinò con durezza Serri,
scuotendogli un braccio e stimolandolo ad
obbedire.
Faticosamente il ferito, disorientato,
tentò di rizzarsi e il medico lo aiutò a levarsi.
Rimase in piedi sulla neve, fra gli sguardi
allibiti di chi assisteva alla scena.
- Ora cammina - gli impose Serri dandogli
una leggera spinta.
Brancolando l'ufficiale tentò un primo
passo, un secondo, procedette più sicuro, si
voltò e ritornò a Serri guardandolo con occhi
spauriti e interrogativi.
- Dove ti fa male? - domandò il medico
con ansia.
Il ferito fece un gesto segnando una linea
orizzontale, a semicerchio dall'addome alla
schiena.
- Una bella fortuna, Frati! - esclamò con
gioia Serri abbracciando il compagno che lo
fissava stordito; - la pallottola ti è entrata
sotto la cute dell'addome sopra i muscoli
addominali e sopra l'ala iliaca e ti è uscita
dalla schiena! Con tutta probabilità non hai
lesioni interne, coraggio!
Frati si sentì rinascere e il volto esangue
gli si imporporò.
- Non posso disinfettarti e fasciarti - disse
Serri - non abbiamo più né una garza né una
goccia d'alcool.
Ho potuto soltanto scuoterti
dall'accasciamento.
Il filosofo, che aveva ficcato le mani nelle
tasche dei pantaloni constatò:
- Ho un buco nella tasca - e trasse la
mano destra sulla cui palma stava un piccolo
oggetto; - guarda chi si vede - aggiunse con
allegra sorpresa - la pallottola che m'è uscita
dalla schiena ha bucato la tela e m'è arrivata
fino in tasca! Se riesco ad arrivarci io, questa
me la voglio portare a casa. Grazie, Serri,
m'hai ridato vita, vedrò di conservarmela; ora
torno alla mia batteria.
E col suo passo dinoccolato s'allontanò
tentennante.
- Che Dio te la mandi buona... - gli augurò
il medico, osservando quell'incedere da
fantoccio.
Le ore del pomeriggio trascorrevano
rapidamente, i russi insistettero in qualche
attacco di scarso vigore, i loro carri armati si
aggiravano sulla neve in perlustrazione
mitragliando e aggredendo i soldati di
sorpresa. Si tentava di seppellire i morti, ma
la durezza del suolo gelato era pressoché
inviolabile; i superstiti sapevano che
sarebbero stati annientati al primo vigoroso
attacco russo; e d'altronde le ventiquattro ore
convenute erano state superate, già dall'alba
le forze che attendevano gli alpini al di là
dell'accerchiamento dovevano aver ripiegato
e chi si trovava ancora nella sacca non aveva
più motivo di speranza.
Mancava ogni notizia di tutti gli altri
reparti in ripiegamento. Il comando delle
truppe presenti dinanzi a Nova Postojalowka
aveva già trasmesso l'ordine di disporre in
cerchio le slitte: entro il grande cerchio si
sarebbero trincerati i superstiti ed avrebbero
affrontato combattendo l'ultimo destino.
Tuttavia gli uomini s'aggrappavano ancora
tenacemente alla vita, i feriti si guardavano
attorno con occhio febbrile e interrogavano
gli ufficiali con trepidazione.
Dopo una ennesima puntata di carri,
venne portato a Serri un alpino dagli occhi
sbarrati, in preda a una violenta eccitazione.
- Dottore... - disse balbettando - un carro
armato... mi ha schiacciato...
- Come? - esclamò Serri.
- Sì, mi è passato sopra il corpo, con i
cingoli...
Il medico fissò quei due occhi da demente
e chiese con incredulità: - E sei vivo? E non ti
ha fatto a pezzi?
- Non so... mi fa male qui... - e con la
mano segnava strisce trasversali in
corrispondenza del torace, dell'addome e
delle gambe.
Serri gli allentò le vesti e con indicibile
stupore vide che il corpo dell'alpino era
marchiato da larghe striature livide ed
equidistanti, gli indubbi morsi dei cingoli.
- Non mi credete? - ripeteva l'alpino. -
Domandate ai miei compagni che hanno
visto il carro passarmi sopra... è passato
sopra ad altri tre, ve li stanno portando qui.
Subito dopo infatti Serri visitò quegli
uomini: egualmente segnati e intatti. Si
sforzava di capire il perché del miracolo.
- Dove eravate? - chiese.
- Sulla neve.
- Era alta?
- Sì, più di un metro. L'avevamo
maledetta tutta la notte per questo, ci era
toccato un brutto posto.
- Era ghiacciata?
- No, si sprofondava.
Il medico ebbe allora la vivente
testimonianza di una inaudita possibilità:
quando su uno strato di neve alta e soffice il
carro armato passava sopra i corpi umani, la
neve compressa sotto la mole del carro
poteva mantenere uno spessore sufficiente a
salvare gli uomini che rimanevano pressati
ma vivi, prodigiosamente imprigionati intatti
fra il terreno e i cingoli.
S'avvicinò in fretta Reitani.
- Italo - disse rapidamente - abbiamo
avuto perdite spaventose, le armi efficienti
sono poche, ci rimane soltanto il secondo
pezzo, le munizioni vanno esaurendosi.
Abbiamo tenuto rapporto, è stato deciso di
tentare il tutto per tutto, come vuole il
colonnello Verdotti: appena sarà buio ci
muoveremo, fingeremo di spostarci a
sinistra, faremo invece una conversione
verso destra e attraverso le balke più
profonde, dove speriamo che i russi abbiano
scarsa sorveglianza, tenteremo di forzare il
passaggio. Ci rimangono dodici slitte, in
parte sono scariche perché ci mancano ormai
tre pezzi, le caricheremo di feriti e congelati
che non siano assolutamente in grado di
camminare: tu li sceglierai subito e li farai
trasportare sulle slitte. La partenza è prevista
tra un'ora, se non succede altro.
Un'ora dopo, protetta dal buio la colonna
si mosse in assoluto silenzio; fra gli uomini
in marcia procedevano le slitte cariche di
feriti e di congelati stesi su uno strato di
paglia e riparati dal gelo con coperte. In
breve sul posto non rimasero che i morti e si
attardarono alcune mitragliatrici e il pezzo
del sergente Fraita, a sparare fingendo un
immutato programma di resistenza. Dopo
aver camminato per un'ora verso sud la
colonna operò la conversione prevista e con
un largo semicerchio puntò
progressivamente a est, poi a nord e infine
con decisione a ovest andando nuovamente
incontro alla linea di schieramento russo a
qualche chilometro a lato di Nova
Postojalowka.
Con estrema cautela la testa della
colonna s'insinuò in una balka profonda e
stretta avanzando lentamente e con grande
difficoltà; gli alpini aiutavano i muli a
sospingere le slitte poiché la neve
accumulata nel fondo della valletta rendeva
quasi impraticabile il passaggio ai veicoli e
agli animali; i feriti trattenevano i gemiti, i
marciatori il respiro, perché a breve distanza
non potevano mancare le scolte russe. Al
termine della prima balka la colonna riuscì
ad infilarsi in una seconda, la neve raccolta
faceva affondare uomini e muli fino
all'inguine, le slitte traballavano e
cigolavano, gli alpini dal fondo dello stretto
passaggio incassato nella pianura levavano lo
sguardo ai ciglioni sempre temendo di
scorgere un soldato russo affacciato a dare
l'allarme: ben sapevano di trovarsi in una
trappola, ché il venire sorpresi e
immobilizzati nel fondo della balka
significava lo sterminio immediato; la
stanchezza accumulata nei vari giorni di
combattimenti e di fatiche era scomparsa,
fugata dall'enorme tensione dei nervi.
- Forza! - mormoravano in sordina i
conducenti quando una slitta s'arrestava
semisprofondata e i muli zampavano senza
trovare appoggio per gli zoccoli negli alti
accumuli di neve.
- Uno... due... tre... hop! - sibilava un
ufficiale o un graduato agli uomini che
abbrancavano la slitta incagliata e con uno
sforzo supremo la sospingevano innanzi. La
colonna allora riprendeva ad avanzare in
fretta, le speranze rinascevano poiché una
slitta bloccata nell'angusto passaggio
significava un ritardo per l'intera colonna.
- A che punto siamo? - chiedevano i feriti
sporgendo il viso dalle coperte.
- Ancora un poco...
- Siamo pazzi da legare - sussurrò il
tenente Brogli a Serri. - Tutta fatica inutile,
anche se usciremo di qui i russi ci
riprenderanno domattina.
Seguendo un fortunato itinerario nel
fondo di successive balke, la testa della
colonna giunse ad una grande pista che
tagliava la steppa da sud a nord: era la via
Rossosch-Voronesh, il presunto limite della
sacca. Non si vedeva segno di sorveglianza, la
sorpresa pareva riuscire. Con infinite
precauzioni, a piccoli gruppi la colonna passò
al completo e proseguì nella steppa senza che
venisse dato l'allarme. Gli uomini
esultavano, si cercavano a vicenda con occhi
brillanti alla luce della luna che sorgeva, si
toccavano in silenzio le mani inguantate, si
curvavano sulle slitte a rincuorare i feriti e
dare la grande notizia:
- Siamo passati, siamo fuori dalla sacca!
Pareva incredibile che dopo i lunghi
giorni di agonia tutto si fosse risolto così
semplicemente, con tanta facilità.
- Non facciamoci illusioni, Italo - disse
Brogli; - non c'è speranza, non riusciremo
più a ricongiungerci con l'Armata, troveremo
sempre i russi davanti a noi.
- Dove andiamo adesso, signor
colonnello? - chiedevano gli ufficiali a
Verdotti.
- Verso ovest, non abbiamo nessun altro
riferimento preciso, per ora.
Ci spingeremo sempre verso ovest finché
incontreremo qualcuno, ma dovremo
marciare nella steppa stando lontani dai
paesi e dalle piste per non doverci imbattere
nei russi. Dovremo sempre camminare nella
neve vergine.
E continuarono gli alpini a dibattersi
nella neve sospingendo le slitte con sforzo
disumano, per ore e ore.
Quando la colonna si fu distanziata
considerevolmente dalla pista Rossosch-
Voronesh, risalì il ciglione di una balka e
proseguì la marcia sulla neve della pianura.
Pareva che gli uomini non sentissero il
freddo e la fame, tanto la speranza li
sospingeva innanzi; neppure i feriti si
lamentavano, chiedevano soltanto tratto
tratto un pezzo di crosta di neve da sgretolare
in bocca poiché l'arsura della febbre li
divorava, nelle labbra delle ferite aperte e
mal fasciate il sangue ardeva chiedendo
sollievo.
Nel pieno della notte un aeroplano passò
sulla colonna, la luce della luna gli consentì
di individuare i marciatori, sganciò alcune
bombe colpendo uomini e muli.
- Vedi, Italo? - disse Brogli al medico; -
siamo nuovamente sotto il controllo dei
russi. E' stata una illusione.
La marcia proseguì ininterrotta nel gelo, i
feriti e i congelati costretti a camminare a
piedi arrancavano appoggiandosi al braccio
dei compagni validi, quelli giacenti nelle
slitte vennero del tutto rinserrati sotto un
tetto di coperte stese e legate sopra il
groviglio dei corpi, affinché questi fossero
meglio protetti dal freddo; rinchiusi e
ammassati uno sull'altro, costretti
all'immobilità, i giacenti sentivano gli arti
feriti schiacciarsi sotto il peso del corpo dei
compagni.
Urli repressi, imprecazioni attutite dalla
paglia e dalle coperte venivano dalle slitte e
assillavano gli uomini che camminavano a
fianco.
XXV
Dopo una notte di marcia terribile spuntò
l'alba e alle prime ore del mattino la colonna
fu costretta a rifugiarsi precipitosamente in
un bosco poiché erano stati avvistati diversi
carri armati. Pattuglie mandate in
esplorazione segnalarono la presenza di
imponenti forze russe che manovravano
tutt'intorno. Sordi o raschianti colpi di
cannone rintronarono tosto vicini e lontani,
dovunque le sagome minacciose dei carri
russi s'aggiravano sulla neve sparando.
- Cosa ti ho detto questa notte? - diceva
Brogli.
- La situazione è tremenda, siamo
d'accordo - rispondeva Serri - ma non
bisogna disperare finché siamo vivi.
La temperatura divenne meno rigida,
cominciò a nevicare sui cappotti degli alpini,
sulle groppe dei muli e sulle coperte dei
feriti. La sosta era angosciosa, la fame
mordeva tutti, i muli addentavano gli spinosi
arbusti del bosco, gli uomini silenziosi
guardavano con invidia le bestie pensando
all'ultima distribuzione di cibo avuto a
Sslawianka.
- Quando ci hanno dato l'ultima galletta e
scatoletta? - chiedeva il conducente Pilòn,
morto di fame.
- Il diciassette gennaio, a Sslawianka -
diceva il sergente Fraita.
- E oggi quanti ne abbiamo, Clerici? -
domandavano al furiere che aveva il compito
di tenere aggiornato il diario di batteria.
- Ventuno.
- Quattro giorni senza mangiare, santa
Madonna! - mugolava Covre.
- Io avevo una scatola di sardine, la
conservavo come oro, ma ho dovuto
mangiarla per tirare avanti - diceva Sorgato.
- Hanno da mangiare gli ufficiali? -
chiedevano gli artiglieri al mensiere.
- Neppure un boccone di galletta
ammuffita, lo sapete meglio di me, sono
disgraziati e affamati come noi.
- Io ho una crosta di formaggio
- confidava agli amici Scudrèra - me la sono
messa in tasca più d'un mese fa, la sera del
sedici dicembre, partendo per Jvanowka; l'ho
ancora qui nella tasca, ho giurato di
tenermela fino a quando sarò sul punto di
morire di fame. Vi avverto - diceva ai
compagni posando una mano sulla tasca -
che se qualcuno cerca di rubarmela io gli
sparo, come è vero Dio! - Non si capiva se
diceva per scherzo o sul serio, ma parlando
guardava in giro con occhi minacciosi. -
Diamo una mano al tenente - aggiungeva poi
curvandosi presso Serri che approfittava
della sosta per riassestare le medicazioni ai
feriti.
- Bravi, aiutatemi a levarli a uno a uno
dalle slitte - diceva il medico.
E i compagni sollevavano dalla paglia i
feriti, li portavano qualche passo a lato, come
in un giuoco li sorreggevano a trenta
centimetri dalla neve e sbottonavano i
pantaloni e le mutande brontolando e
ridendo, ma muovevano le mani con molto
garbo perché i feriti avevano le piaghe aperte
e da soli non bastavano neppure a
provvedere ai loro bisogni corporali.
- Anca da bàlia me tòca fàrte, càn da
l'oca! - protestava Scudrèra reggendo a
mezz'aria, da solo, un gi gantesco conducente
dalle mani e i piedi in cancrena,
impossibilitato a reggersi e bastare a se
stesso. - Sotto la nàja te si' cressù benìn,
fioléto! Quanto te pési? Dìghelo a la to'
maméta!
- Centonove, Scudrèra; ma tiénme piu'
su', che' i cardi i me pùnse el de drìo!
- Par forza, con tutto quel che te ghe
regàli, poaréti! Almànco te calàssi de péso,
fiòl d'un càn! Mi no capìsso: con quel che te
màgni...
Col trascorrere delle ore la situazione
parve precipitare, il bosco sembrava doversi
tramutare da un minuto all'altro in un
campo di battaglia, gli uomini si sentivano
chiusi in una morsa pronta a stritolarli, si
consultavano nervosamente fra loro,
correvano fra gli alberi e i compagni
nell'assurda ricerca d'una parola, d'un segno
di speranza, o ristavano tetri e solitari a
fissare la neve.
Ma tuttavia, nel pomeriggio, la situazione
migliorò: le sparatorie si erano affievolite, i
carri armati non si vedevano più, si seppe
che non lontana stava la Tridentina che
aveva superato una forte resistenza nemica.
Le coperte vennero ridistese e legate
sopra i feriti, le slitte si mossero, la colonna
uscì dal bosco e riprese la marcia.
In cammino, i reparti che avevano
aggirato Nova Postojalowka ristabilirono
finalmente il collegamento con le altre unità
del Corpo d'Armata Alpino: si seppe che
nessuna divisione era riuscita a oltrepassare
l'accerchiamento nelle prime ventiquattro
ore, Postojali era stato raggiunto ma al posto
delle truppe dell'Asse si erano trovati i russi
che la Tridentina aveva sgominato; non
rimaneva che riunire le forze e le armi
rimaste, formare colonna unica e proseguire
senza sosta verso ovest.
- Non hai avuto notizie più precise? -
chiese Serri camminando a fianco di Reitani;
- ci dirigiamo verso una meta definita?
- No, anche le altre divisioni sono senza
riferimenti, non possiamo scegliere
l'itinerario più opportuno poiché ad ogni
passo non conosciamo la situazione che
incontreremo un passo più in là. Prenderemo
le decisioni di ora in ora, dobbiamo
affrontare tutte le iniziative dei russi e del
caso; e dirigerci comunque verso ovest.
- Non sappiamo di quanto hanno
ripiegato le nostre truppe che fino a ieri ci
attendevano a Postojali? Non siamo in
collegamento radio?
- No, nulla. Quelle erano esigue truppe di
retroguardia, il grosso ha ripiegato da tempo,
speriamo soltanto che le forze dell'Asse qui
in Ucraina stiano attestandosi in posizioni
che noi si possa raggiungere in breve.
Speriamo, ma manca ogni indizio di
conferma, sappiamo solo di avere superato
l'anello di sbarramento con cui i russi
avevano circondato il Corpo d'Armata Alpino.
Pur avendo forzato l'anello, però abbiamo
trovato anche oggi il nemico di fronte e
intorno; c'è l'impressione che i russi stiano
giocando come il gatto col topo.
- Siamo già in trappola in ogni caso, non
ve ne accorgete? - interloquì Brogli che aveva
seguito la conversazione. Era pessimista
senza ironie e sconforti, poneva in evidenza
gli aspetti più scuri della situazione
valutandoli con obiettività; camminava
alacremente senza dare alcun segno di
scoramento.
- Supponete pure - continuò a dire con
calma - che si riesca a evitare ogni contatto
con i russi o che si possa superare tutti gli
sbarramenti che quelli indubbiamente
predisporranno sul nostro cammino.
Ammettiamo che tra qualche giorno noi si
riesca a trovarci dinanzi alle nuove prime
linee italiane o tedesche: ma fra quelle e noi
chi troveremo? Le nuove prime linee russe,
amici! E chi di noi riuscirà a passarle, quasi
privi di munizioni e carichi di feriti e
congelati come siamo, e con una fame da
non stare in piedi? O credete che i russi, che
vigilano i nostri passi sul territorio
controllato da loro, e sul quale trasportano
comodamente truppe e cannoni sugli
autocarri lungo le piste, alla fine saranno ad
attenderci innanzi alle linee nostre per
renderci gli onori delle armi e farci passare?
Sperate forse tutto ciò, voi?
Il ragionamento, purtroppo, non faceva
una grinza.
- Giusto - rispose Serri; - ma noi non
possiamo arrenderci a supposizioni, soltanto
perché sono verosimili; dobbiamo affrontare
la realtà così come si manifesta di episodio in
episodio, non lasciando intentato nulla fino
all'ultimo.
- E' così, Brogli - confermò Reitani; - un
individuo isolato potrebbe anche arrendersi e
darsi vinto, ma noi abbiamo un impegno
collettivo e un ordine che vale per tutti:
proseguiremo fino all'esaurimento delle
ultime forze; è già deciso che la colonna non
si fermerà fino a che non avrà raggiunto i
nostri avamposti.
- O la morte - insinuò Brogli.
- O la morte - confermò pianamente
Reitani; - solo in questi due casi avremo fatto
il nostro dovere fino in fondo.
Calava la sera, le corde che legavano i
muli alle slitte divenivano rigide sbarre
ghiacciate. Quando la superficie della
pianura ondulava nel saliscendi di basse
colline, l'occhio dei soldati vedeva l'enorme
colonna nereggiare e perdersi agli estremi
nel fosco della notte incipiente. Ora che le tre
divisioni alpine, la divisione di fanteria, i
reparti tedeschi, ungheresi e rumeni s'erano
fusi in un'unica colonna, circa centomila
uomini si affaticavano in un corteo lungo
forse trenta chilometri, enorme complesso di
forze umane già in vario modo minate dalla
fame, dal gelo, dai combattimenti, dalla
stanchezza. Ogni reparto trascinava seco i
feriti, i congelati, le armi, i mezzi rimasti;
c'era chi aveva cannoni, scarse munizioni e
niente cibo; chi qualche autocarro, un fusto
di benzina semivuoto e scarso pane; chi un
fucile, una manciata di pallottole per ogni
uomo e nulla più; chi soltanto fame, feriti
sulle slitte scricchiolanti e una stanchezza
mortale nelle gambe, nel petto, negli occhi.
Tutti procedevano nella neve, andavano
stancamente verso l'ovest rimuovendo la
neve smossa da chi precedeva, riaffondando
se colui che stava innanzi era già affondato,
imprecando se quello aveva già imprecato.
Camminavano uno dietro l'altro, attenti solo
a non dar di cozzo contro gli animali o finire
con una caviglia sotto una slitta attardata che
sopraggiungeva più veloce per ricollegarsi,
prima di notte, al suo reparto.
L'enorme colonna procedeva
instancabile; abbandonava i rifiuti sulla
neve: slitte sconquassate, cannoni fuori uso,
fucili rotti, automezzi ridotti all'ultimo litro
di carburante, utile soltanto a fare un falò
della macchina; e allora gli uomini che
sopraggiungevano tendevano le mani al rogo
continuando a camminare per non perdere
un metro, un secondo sui compagni e
trovarsi poi fra sconosciuti e per una
fiammata restare privi anche dell'ultimo,
costante tepore dell'amicizia.
Ma sulla steppa calò la notte fonda,
spaventosa di gelo e di tenebre; e gli uomini
a poco a poco si sentirono estranei a tutto
fuorché alla sofferenza propria. Poiché tirava
il vento che sollevava il polverio di neve, si
erano calati sulla testa e sulle spalle la
coperta, procedevano guardando da uno
spiraglio da cui entrava una lama gelida; il
vento gonfiava la coperta, la faceva
sventolare nell'aria e cadere nella neve. I
marciatori la raccoglievano bianca, la
riponevano a difesa del capo, delle spalle che
rabbrividivano come nude; ma la coperta
s'era fatta pesante, s'induriva e ghiacciava,
divenuta in breve un rigido cartoccio
crocchiante, spesso era lasciata cadere
definitivamente sulla neve o veniva posta su
una slitta a dare col peso un senso di
maggior calore ai feriti. I marciatori
riprendevano il cammino nell'indescrivibile
aria dei quarantatré sotto zero, andavano
silenziosi e straniti, ciascuno rinchiuso nella
sua teca di gelo, procedendo come un
automa nel buio finché un ostacolo
affiorante sulla neve non lo faceva cadere
avvolgendolo di ghiaccia polvere.
Faticosamente l'uomo si rialzava
imprecando all'intoppo, si scrollava in fretta
la neve dai panni e dal volto, il pulviscolo
gelido al contatto della pelle fondeva sui
polsi e sul collo cerchiandoli di freddo atroce;
riprendeva affannosamente i passi perduti,
poiché i compagni l'avevano sopravanzato di
ben trenta metri verso l'ovest.
Prima di mezzanotte sorse la luna,
occhieggiando indifferente tra le nubi; il
freddo parve accrescersi perché il vento
spirava con maggiore veemenza.
- Le redini non mi stanno più in mano,
Cristo! - esclamò con rabbia Scudrèra non
sentendo più la presa e vedendo che i muli
della sua slitta sbandavano.
- Da' a me, facciamo un po' il cambio -
propose Sorgato tendendo la mano.
- No! - disse Scudrèra deciso: - el
conducente de i miei muli son mi! El cambio
mi lo dò soltanto al Padre Eterno! - E dato
uno strattone ai muli s'arrotolò le briglie
attorno al collo, strinse fra i denti l'estremità
del cuoio e affondò le mani insensibili sotto
le ascelle, continuando a marciare accanto ai
muli.
- Come va, Scudrèra? - chiese Serri.
- Se tira avanti, signor dottore.
- Quanti feriti hai sulla slitta?
- Dodici, se no i xe morti; ma vivi o
morti, da la sacca me li porto fora mi. Non
dìgo ben?
- Certo. Ma domattina voglio vedere le
tue mani, ricordati.
- Signorsì. :No le xe bèle, ma le xe dure; da
artigliere alpino, parola del conducente
Scudrèra.
La conversazione finì perché era doloroso
muovere le guance e le labbra per parlare.
L'intera colonna procedeva in silenzio,
fantastica parata d'ombre sotto la luna. La
stanchezza aveva fatto rallentare il passo,
qua e là si distinguevano nelle file scomposte
uomini barcollare a lungo, lottando contro
un assalto d'improvviso sfinimento;
ciondolavano, era visibile lo sforzo di portare
innanzi la gamba, il corpo non seguiva il
movimento intrapreso dell'arto, l'uomo
pareva cadere ma si riprendeva all'ultimo
istante, proseguiva a prezzo d'inaudita fatica.
Una tetra frigidità era penetrata a poco a
poco negli animi, unita a una sonnolenza, a
un disfacimento della sensibilità psichica che
rendeva impassibili a quanto avveniva
intorno e non toccava da vicino. Se però un
compagno intralciava il passo, un'ira
improvvisa ribolliva nello spirito, un
insopprimibile odio contro il proprio simile
trovava sfogo nella repentina voglia di
colpire, farsi strada e passare innanzi. Dalle
intime fibre dell'organismo straziato dalla
fame, dalla stanchezza ed esasperato dal
gelo, sconosciute animalesche tendenze
s'estendevano ad avviluppare l'anima,
esaltavano sepolti istinti bestiali mugolanti
nel profondo. Per la potenza corroditrice del
gelo, bagliori mai visti attraversavano ad un
tempo gli occhi e il cervello lasciando scie di
visioni, di pensieri malefici; i nervi di
ognuno, dilaniati e sprizzanti anormali
correnti nervose, parevano irretiti in guaine
paralizzatrici; le stesse facoltà dello spirito
risultavano incapsulate in una torbida sfera
d'egoismo in cui s'accentrava a ultimo
presidio ogni residuo di difesa, escludendo
ferocemente ogni solidarietà in altri tempi
prodigata ed offerta, com'era buona usanza
fra gli uomini; perfino la sofferenza dei
compagni, l'evidente tenace patire di quegli
esseri brancolanti si tramutava brutalmente
in un freddo dato di fatto cui comparare le
proprie forze, per trarre confronti e più
radicate speranze di sopravvivenza.
L'atmosfera aveva la trasparenza, la
compattezza e la tagliente levigatura del
vetro; gli uomini procedevano in essa
offrendo le membra al ferimento continuo e
senza sangue, s'esasperavano contro la
feritrice invisibile, s'imbestialivano di
patimento accanendosi nella volontà di
giungere ancora una volta al giorno nuovo.
Sulla neve di Russia la colonna avanzava
ininterrottamente puntando all'ovest,
dolorando per centomila membra ma
instancabile, infrenabile nell'intero corpo in
movimento; abbandonava sulla neve i relitti
procedendo senza tregua, ed erano ormai
corpi vivi che si reclinavano sulla neve, corpi
d'uomini che s'abbattevano di schianto o
poggiavano il ginocchio incapaci a sollevarlo
e si chinavano quindi in giù, sempre più in
giù, con le braccia che affondavano fino al
polso, poi fino al gomito, tirate giù, giù dal
demone della neve; l'uomo in ginocchio
s'afflosciava lentamente, vinto dal richiamo
irresistibile, tentato dal sogno di riposo, un
minuto solo per poi riprendere con forze
nuove, un minuto così, prono sulla neve
morbida, giù anche col ventre, poi col torace,
la neve è morbida come un materasso e non
è neppure fredda; si può appoggiarvi perfino
la guancia e la fronte senza danno, pare un
cuscino, per un minuto solo ci si può stare... i
compagni poi si possono raggiungere in
fretta, dopo il riposo... questo buon riposo...
sulla neve... la neve... un cuscino... non c'è
freddo... né fame... né stanchezza... solo
sonno... un po...' di sonno... sulla... neve...
- Cominciano i morti sulla neve, signor
dottore...! - disse l'infermiere Zoffoli
rintracciando il suo ufficiale fra le ombre in
cammino.
- Hanno cominciato da un pezzo,
purtroppo - mormorò Serri; - adesso si
vedono perché c'è la luna, ma già prima che
spuntasse sono caduto su un morto di
freddo.
- Cosa facciamo? - chiese il bravo
infermiere.
- Cosa pensi di fare?
- Non so... Lasciarli così mi sembra...
Sulle slitte, forse...
- E come fare, stracariche di feriti come
sono? Mettere sulla neve quelli?
- Oh no!
- E allora? Portarli a spalla noi?
- Non faremmo cinquanta metri.
- E allora?
- Già... - disse Zoffoli guardando con
smarrimento l'ufficiale - non c'è niente da
fare. Ma lasciarli così mi sembra una cosa...
- Lo è, Zoffoli, lo è - confermò il medico
sentendosi montare dall'anima un'onda di
orrore. - E' tutto un orrore.
Una voce cantava, cinquanta metri
innanzi, il vento portava i toni squillanti e
quasi allegri; il canto s'avvicinava
gradualmente inserendosi fra le folate
sibilanti, finché a fianco della ventisei in
cammino gli uomini videro anche il cantore;
era un soldato che procedeva con comoda
lentezza, incurante di mantenere il passo
degli altri, cantava a voce spiegata,
accompagnando il ritmo con una mano, con
l'altra stringeva la giubba e la camicia
strascinandole nella neve; aveva una gran
barba nera, e il torace ricoperto dalla sola
maglia; gettò in aria la giubba e calpestò
allegramente la camicia come fosse un
bimbo che gioca.
- E' impazzito - disse Serri a Zoffoli -
cerchiamo di ricoprirlo.
S'avvicinarono; appena il soldato li ebbe
dinanzi smise di cantare. Zoffoli tese un
braccio dicendo qualche parola, l'altro
indietreggiò, trasse in un baleno la baionetta
dal fodero, si diede a vibrare all'impazzata
colpi nell'aria; si mise improvvisamente a
correre a lato allontanandosi dalla colonna.
Si disperse in distanza. Si sentiva soltanto
che aveva ripreso a cantare, felice.
- Ma dove va?... - sospirò Zoffoli.
Il vento aumentò d'intensità, gli uomini
si curvavano in avanti tentando di farsi più
piccoli, con maggiore frequenza dovevano
porre attenzione per non calpestare i
compagni stesi sul bianco. Le folate
investivano la colonna sollevando turbini di
neve che ricoprivano i morenti e i marciatori,
i muli sbuffavano rallentando il passo e si
inquietavano costretti nel loro mantello di
ghiaccio.
Seguendo Reitani, la ventisei procedeva a
fatica, gli artiglieri camminavano fra slitta e
slitta sfiniti.
- Non ne posso più! - urlò disperato
l'attendente di Brogli, abbassandosi tentando
di slacciarsi le scarpe; - non ho più i piedi! - E
come i lacci e il cuoio delle calzature erano
irrigiditi, legnosi, trasse di tasca l'affilato
coltello e con strappi frenetici tagliò il cuoio
e si ferì malamente; senza darsi cura del
dolore e del sangue gettò lontano le scarpe e
riprese scalzato a marciare.
Sulla colonna, assieme al vento alitavano
fermenti di follia che nuovi lugubri episodi
attizzavano e gonfiavano a dismisura. In
breve il contagio d'incontenibili frenesie
dilagò fra le schiere, trasmettendo
suggestioni e avvampanti richiami da uomo a
uomo, man mano che lo smisurato freddo
prendeva dominio nella carne e nella
coscienza di quelle infelici creature.
Follia, pura, irreale, scatenata follia erano
diventate le voci, la neve, il pianto, la steppa,
il vento, il passo, la notte, il dolore, il cielo, la
colonna, il minuto, tutta quella abominevole
terrificante vita che vacillava e minacciava di
spegnersi, tra un inesplicabile scintillio di
faville ricadenti sulla groppa dei muli.
Tutto stava divenendo possibile, purché
fosse spaventoso e graffiasse, straziasse il
cervello.
- Aiutooo! - gridava da una slitta la voce
di un ferito rinserrato nelle coperte.
- Cosa c'è? - chiedeva stirando le labbra
piagate il conducente Pilòn, curvandosi sulla
slitta che trascinava l'ammasso di una decina
di feriti.
- Aiuto! Ho addosso un morto!
- Cosa dici? - balbettava Pilòn trasalendo,
già preso nel gioco di un'orrida realtà.
- Fermate la slitta, slegate le coperte, ho
addosso un morto! - ripeteva l'agghiacciante,
folle voce salendo dalla paglia.
- No, non slegate niente, non perdete
tempo a fermarvi! - comandavano in coro
altre terribili voci filtrando dalle coperte.
- Ma io non resisto, è un morto!
- singhiozzava da un nero impenetrabile
abisso la prima lamentosa voce.
- Non è vero! Non è vero! - ululavano
bestialmente le altre.
- Come fai a dire che è morto? Chi è? -
balbettava Pilòn dibattendosi nelle tenebre
dell'ossessione, intravvedendo ormai le
pallide larve che lo irretivano trascinandolo
nell'orrida danza.
- Non so chi è, ma è già gelato, è duro! Mi
sta addosso, sta congelando anche me!... -
guaiva il dannato, uggiolando come un cane
imprigionato nella gelida tomba.
La colonna marciava compatta
affondando fino al ginocchio nella bianca
vastità del proprio sepolcro.
Interi reparti, i più provati nei giorni
precedenti, rallentavano il passo e venivano
scavalcati da altri; la colonna si rimescolava,
si ricomponeva ininterrottamente nella notte
in un brulichio di bestie ed uomini
procedenti a tentoni; ombre zoppicanti non
riuscivano più a raggiungere la propria
schiera e s'inserivano fra altre ombre
incappucciate e sconosciute presso le quali
camminavano per un lungo tratto in silenzio,
rimanendo poi indietro a poco a poco,
sbandandosi definitivamente. Un infinito
patire respirava per le bocche dei soldati,
reclinava i corpi sulla neve, attardava i più
infelici disperdendoli nella massa dal volto
chiuso; ma la colonna ignorava ogni
tormento, procedeva implacabile e compatta
buttando a margine le scorie, trascinando
senza pietà ogni pena e ogni uomo verso il
tragico e sconosciuto e allucinante traguardo
dell'ovest.
- Signor capitano...
- Chi sei? - disse all'ombra che gli si era
fatta vicina Reitani, puntando gli occhi
dall'apertura del passamontagna incrostato
di ghiaccio.
- Sono Bartolan. Volevo dirvi che gli
uomini non resistono più. Li conosco,
camminano ancora, non dicono niente, ma
presto non cammineranno più.
- Lo so, Bartolan - rispose Reitani
sprofondando con le gambe nella neve alta -
ma non ci resta altro da fare. Tu sei un bravo
soldato, mi capisci.
- Sì - disse il capo-pezzo a fior di labbro.
Sollevando turbini di neve, facendoli
volteggiare sulla colonna, il vento rendeva
quasi nulla la visuale e isolava i camminatori
nella vastità, lasciandoli soli con il gelo e la
stanchezza. L'impressione di essere dispersi
nel vuoto era paralizzante, pareva mozzare le
gambe e il respiro.
- Se non possiamo fermarci a riposare
siamo finiti - disse Bartolan.
- Sì - rispose il capitano.
Alle tre di notte alte lingue di fuoco
apparvero agli occhi dei soldati in marcia;
non si capiva se erano lontane o prossime,
s'innalzavano dalla pianura arrossando per
larga sfera le tenebre.
Un fremito di risveglio passò nell'animo
degli uomini della ventisei
quando s'avvidero, mezz'ora dopo, di
essere ormai vicini ad un paese; molte isbe
bruciavano; i reparti che precedevano si
erano fermati, la ventisei
per conseguenza s'arrestò.
- Cosa succede? - chiedevano le voci dei
feriti sepolti nell'involucro delle coperte.
- Alt! Il Gruppo sosterà qui - comunicò a
Reitani il colonnello Verdotti; - attendere che
vengano assegnate le isbe a ciascuna batteria.
- Le isbe... isbe... - mormoravano gli
artiglieri trasognati, increduli che un secco
ordine giunto all'improvviso avesse il potere
di sciogliere, da solo, la caligine
dell'interminabile incubo.
- Le isbe? - gridavano i feriti scuotendo le
coperte; - fateci uscire di qui, presto...
presto...!
L'attesa fu lunga, poiché i reparti
s'accavallavano all'ingresso del paese ed era
difficile smistarli e assegnare il settore di
sosta.
- Il Comando della colonna ha giudicato
insostenibile prolungare ancora la marcia -
comunicò Reitani agli ufficiali; - ha deciso di
avvicinarsi ai paesi e fare sosta. La colonna è
stata frazionata ed ha puntato su paesi
diversi, alla nostra frazione è stato assegnato
questo, si chiama Novossergijevskij. E'
disabitato, il presidio russo al nostro arrivo si
è allontanato dando fuoco all'abitato,
vogliono toglierci ogni possibilità di
sopravvivere, ma qualche isba non brucia, la
utilizzeremo.
Si udì un rumore di catene scosse e un
tonfo, gli ufficiali si voltarono.
Un mulo attaccato a una slitta era caduto
sulla neve. Senza che si udisse una parola, al
riverbero delle capanne fiammeggianti si
videro vari soldati agitarsi, trarre fulminei le
baionette e piombare sul mulo disteso.
- Fermi! Fermi! - gridò Brogli accorrendo;
- può essere ancora vivo!
Ma già gli uomini stavano vibrando colpi
feroci, strappavano a brani le carni fumanti,
a mala pena facevano in tempo a ghermire
un ritaglio di preda e già erano sospinti via a
furia da altri che tagliavano più fondo,
frugavano con le lame giungendo all'osso.
- No, signor tenente - disse a Brogli con
occhi lucidi il puntatore Foresti levandosi
dalla carcassa e addentando il pezzo di carne
che reggeva fra le mani; - il mulo è morto di
sicuro.
Dopo pochi minuti il bianco delle ossa
luccicava sul bianco sporco della neve; allora
Scudrèra lasciò la sua slitta, s'avvicinò ai
resti e nonostante le mani enfiate e i guanti,
con pochi esperti colpi di coltello disarticolò
una zampa, se la gettò in equilibrio sulle
spalle e ritornò alla slitta.
- Non si sa mai... - disse col suo gioviale
sorriso passando accanto agli ufficiali.
La ventisei entrò nel paese e raggiunse la
piazza passando fra due ali di capanne in
fiamme. Una confusione indicibile
complicava ogni movimento, perché il tratto
di colonna in sosta a Novossergijevskij
comprendeva elementi dei reparti più
eterogenei. Gli uomini della ventisei
riuscirono ad accaparrarsi due isbe quasi
intatte, nelle quali vennero collocati i feriti e
i congelati ai quali Serri prodigò le scarse
cure possibili.
- E noi? - chiedevano delusi gli altri
uomini.
- Noi dovremo arrangiarci come potremo,
intorno ai fuochi o nelle stalle - disse
Reitani; - sono le quattro, riposeremo fino
alle undici.
I fortunati possessori di pezzi di mulo
cominciarono ad abbrustolire la carne sulle
fiamme, gli altri s'allontanavano non
potendo resistere al ghiotto spettacolo,
succhiavano la neve e si sdraiavano a
dormire sotto le tettoie più vicine alle isbe in
fiamme. In un'isba l'infermiere Zoffoli scovò
un grande calderone, trionfante lo portò agli
ufficiali.
- Bene! - esclamò Reitani; - Bartolan e
cinque uomini corrano a prendere le ossa del
mulo morto, fonderemo la neve e faremo il
brodo per la batteria.
Bartolan ritornò con un telo rigonfio.
- Le ossa sono scomparse - comunicò con
evidente dolore: - sulla neve è rimasta
soltanto la macchia di sangue.
- E cos'hai nel fagotto? - domandò deluso
il sottotenente Ferrieri.
- La neve insanguinata, tenente - rispose
con assoluta serietà Bartolan; - c'è dentro il
sangue gelato, faremo il brodo con quello,
sarà meglio che niente, no?
- Certo - confermò Ferrieri con foga,
dando la misura di quella fame che li
divorava dentro.
- Scudrèra, dov'è la tua zampa di mulo? -
domandò allora Brogli.
- L'ho buttata via - rispose con viso
contrito il conducente.
- Animale! - gridò Ferrieri fra la delusione
di tutti.
Scudrèra se ne andò, ma dopo vari minuti
ricomparve reggendo la zampa.
- Lo dicevo che non si sa mai... - disse agli
ufficiali con occhi raggianti.
- Bugiardo! Brigante! Ti sfondo il cranio! -
gridò Ferrieri quasi abbracciandolo; - qua la
zampa, la mettiamo subito in pentola. Perché
hai aspettato tanto a portarla?
- Ho dovuto levare il ferro dallo zoccolo.
- Cosa te ne fai?
- Non si sa mai, signor tenente, lo go dìto
ànca prima... - esclamò Scudrèra
ammiccando con aria scaltra.
- Fate bollire l'osso per tutta la notte,
domattina berremo il brodo caldo. Ora
andiamo a dormire - disse Reitani.
- Ho scovato un posto per dormire un po'
al riparo - comunicò Perbellini.
- Dov'è? - chiese Reitani.
- Là, dietro a quell'isba. E' uno stanzino
con le pareti di canne intrecciate, in terra
non c'è neve, ma avverto che è un porcile.
- Sarà lurido, per terra - obiettò Brogli.
- Tutto è gelato, non si stacca niente, ho
provato - assicurò Perbellini.
- Cosa dice la scienza medica? - domandò
celiando Reitani, fissando solennemente
Serri.
- Tutto sterilizzato: idoneo senz'altro! -
sentenziò il medico.
- Signori! Con me! - invitò il capitano.
XXVI
Le ultime ore della notte passarono, le
alte lingue di fiamma degli incendi
sbiadirono nell'alba, venne la mattina del
ventidue gennaio.
Alle nove gli uomini della ventisei
bevvero con grande avidità il rossastro e
ripugnante intruglio caldo, s'affaccendarono
a riparare le slitte mal ridotte, a rinnovare le
distribuzioni di paglia e neve fusa ai muli.
- Sono le dieci, fra un'ora si parte -
annunciò Reitani; - cominciamo a caricare i
feriti sulle slitte.
Ai fuochi, i soldati tentavano di sgelare il
ghiaccio impregnato nei cappotti; altri
tagliavano a pezzi le scarpe che avendo
assunto la rigidità del legno avviluppavano i
piedi in una morsa insopportabile e le
sostituivano con ritagli di coperte fissate con
filacci.
Scudrèra, che già da due giorni aveva i
piedi avvolti in residui di telo da tenda,
sfoggiava al piede destro uno strano rinforzo,
e a chi lo derideva, rispondeva con tono di
sufficienza: - Impara dai muli, e tàsi. Io li
guardo tutto il giorno: piantano il ferro nella
neve e non scivolano, il ferro del mulo ha
due punte all'ingiù, cretino, e fanno presa.
Voi invece, con quegli stracci, tornate
indietro di trenta centimetri a ogni passo,
insùlsi che non si' altro.
Infastidito e incompreso, se ne andava
poi con incedere pesante, pestando a dispetto
il piede destro nella neve: sotto il calcagno,
durante la notte, s'era fatto sistemare da
Pilòn, con filo metallico e spaghi racimolati
in un'isba, il ferro strappato dalla zampa del
mulo morto.
I più fra i soldati, approfittando della
sosta, giravano per il paese a incontrare
amici che non vedevano da settimane. Gli
agglomerati d'isbe si dipartivano in file
irregolari dalla piazza centrale del paese a
guisa di raggi di una immensa ruota
frantumata e senza cerchio abbandonata
sulla neve.
- I feriti e i congelati sono a posto sulle
slitte - comunicò Serri al capitano; - è una
cosa tremenda, Ugo, sono schiacciati uno
sotto l'altro perché ho dovuto ridistribuire i
feriti che stavano nella slitta del mulo morto
questa notte. Ho aggiunto altri quattro
congelati che diversamente dovremmo
abbandonare qui, non sono in grado di
compiere neppure un passo; abbiamo ancora
una ventina di congelati che verranno a
piedi, non so come potranno fare a
camminare. Quello che sto vedendo è
incredibile, mi costringe a modificare la mia
opinione sui limiti della capacità di
resistenza umana.
- Siamo sottoposti a uno sforzo
mostruoso - disse Reitani; - anche questa
notte il freddo ci ha impedito di dormire, non
mangiamo da cinque giorni, marciamo da
sei, per non contare il combattimento. Come
stanno i feriti? Ho paura che qualcuno mi
muoia.
- E' un'altra cosa incredibile, Ugo: hanno
le ferite aperte, alcuni hanno dei veri squarci
che io non posso curare in nessun modo,
eppure quasi nessuno presenta segni
d'infezione, le emorragie sono rare e lievi.
Penso che siano i trenta e i quaranta sotto
zero a preservarli. Vivono succhiando
ghiaccio, soltanto stanotte ho potuto far
distribuire un po' d'acqua calda.
- E i congelati?
- Si difendono come possono, ma le
alterazioni dei tessuti si approfondiscono, c'è
qualcuno che ha le ossa delle mani e dei
piedi scoperte, o le dita che cadono a pezzi.
Se riusciranno ad arrivare a un ospedale,
molti dovranno subire gravi amputazioni. A
proposito, dovresti ordinare a Scudrèra di
cedere la guida della sua slitta a qualche
altro: tiene in mano le redini giorno e notte e
non accetta il cambio da nessuno, dice che il
conducente è lui e che i feriti che ha sulla
slitta deve portarseli in salvo da solo; ma
poco fa l'ho visitato, se non mette le mani al
riparo temo che finirà per farsele tagliare
tutte e due, sono già gravemente congelate.
Ma bisogna che tu glielo doman...
- Taci! - l'interruppe Reitani tendendo
l'orecchio - non senti rumori di motori?
Nel medesimo istante una violenta
esplosione echeggiò nel paese, coronata da
un improvviso strepitio di fucili
mitragliatori; a cento metri un'isba esplose
assieme al proietto che l'aveva centrata.
Ondate d'urli giunsero dalla parte opposta
del paese, da cui si riversavano correndo
verso la piazza torme di soldati colti di
sorpresa.
- I russi! I carri armati - gridavano
affannandosi verso i propri reparti.
In un baleno l'abitato brulicò di soldati
che s'affrettavano rimescolandosi in ogni
direzione mentre le esplosioni si
moltiplicavano e il fuoco di fucileria si
infittiva.
- Provvedi alle slitte - disse in gran fretta
il capitano a Serri; - io corro in piazza, al
pezzo.
- C'è già Brogli, ha spinto più avanti il
pezzo, sta per sparare - comunicò ansante
Perbellini sopraggiungendo di corsa. - I russi
hanno attaccato con carri armati e
autoblinde dalla pista da cui siamo arrivati
questa notte, hanno scaricato da molti
autocarri le fanterie che già sparano, una
colonna di altri autocarri è in arrivo. Il
colonnello Verdotti ordina di far partire
immediatamente le slitte dalla pista ovest e
di far defluire e sganciare gli uomini.
- Slitte in marcia, via subito! - gridò
Reitani. - Gli uomini validi con me!
- Presto! Presto! - urlò Ferrieri
piombando alla ventisei; - i russi hanno già
occupato il settore nord del paese, hanno
fatto prigionieri i reparti che si trovavano là,
è rimasto accerchiato anche il Comando
dell'ottavo alpini con il colonnello Cimolino
e il capitano Magnani! I russi tentano di
circondare l'abitato, tra poco bloccheranno
l'uscita verso ovest, resteremmo tutti qui
dentro; presto!
Serri già instradava le ultime slitte della
batteria verso la pista, sforzandosi di
ottenere via libera fra la ressa di slitte ancora
sotto carico e fra gli uomini dei vari reparti
che s'aggrovigliavano correndo in ogni senso.
Reitani, con le due mitragliatrici e con gli
artiglieri nel frattempo accorsi, si era
slanciato verso il settore occupato dai russi.
Bombe di mortaio esplodevano, raffiche di
fucile mitragliatore seminavano il panico fra
le torme di uomini. Muli imbizzarriti dal
fragore e dal trambusto trascinavano a corsa
pazza i veicoli traballanti, s'impennavano nel
tentativo di strappare i finimenti e liberarsi
dai carichi umani che si rovesciavano sulla
neve; le bestie allora si lanciavano di gran
carriera al galoppo trascinando le slitte
vuote, travolgendo uomini e portando alla
frenesia la sarabanda; su tutto sovrastavano
gli schianti, gli urli, i richiami e le fiamme
che divampavano qua e là.
- Avanti, avanti! - gridò Serri ai
conducenti essendo riuscito con indicibili
sforzi a far superare i continui intoppi e a
raggiungere l'imboccatura della pista ovest; -
incolonnatevi con le altre slitte del Comando
Gruppo, non fermatevi più!
La lunga colonna che aveva potuto uscire
dal paese marciava già sulla pista ovest,
alimentata di continuo da quanti ancora
trovavano l'imboccatura sfuggendo al caos
che regnava nell'abitato.
Il medico si soffermò a contare le slitte
della ventisei che gli sfilarono dinanzi;
s'accorse che ne mancava una. Ritornò
correndo nel paese in cui il parossismo della
confusione andava scemando poiché anche
la maggior parte degli uomini sbandati si era
allontanata. Vari soldati avevano impegnato
combattimento, sparavano verso la zona del
paese controllata dai russi; altri giacevano
abbattuti sulla neve, qualche animale
frenetico scorrazzava sulla piazza; su tutto
saettavano le traiettorie delle armi russe,
dalla provenienza degli spari si capiva che il
nemico aveva progredito notevolmente
conquistando una gran parte dell'abitato.
- Covre! - gridò Serri scorgendo
l'attendente che gli correva incontro in preda
a una grande agitazione; - hai visto una
nostra slitta rimasta indietro?
- Sì - rispose affannosamente il soldato; è
ferma là, di fianco a quel pozzo.
- Andiamo, presto! - gli disse l'ufficiale
correndo nella direzione indicata. Come la
raggiunse, vide che la slitta era vuota e
abbandonata, il conducente e i due muli
giacevano morti sulla neve.
- Era l'ultima della fila, è arrivato un
colpo di mortaio, ho visto io - disse
l'attendente.
- Potevi dirmelo prima! - gridò l'ufficiale;
- e i feriti?
- Si sono rifugiati in una di queste isbe,
non mi ricordo quale.
- Cerchiamoli - ordinò il medico; - tu di
qua, io di là; ci ritroviamo qui fra poco.
I due uomini si separarono, Serri entrava
e usciva di corsa dalle isbe deserte,
un'angoscia disperata gli premeva il petto. Si
trovò oltre la piazza, vide Brogli e Perbellini
che con alcuni uomini si affaccendavano
attorno al pezzo.
- Italo! - gli gridò Brogli; - cosa fai ancora
qui, disgraziato?
- Cerco dei feriti nostri - rispose il
medico; - dov'è Reitani?
- Non sappiamo - gridò concitatamente
Brogli; - era con gli uomini a sparare con le
mitragliatrici, ma adesso o ha già ripiegato o
è prigioniero, dove c'era lui ci sono i russi.
Noi abbiamo finito le granate, stiamo
facendo saltare il pezzo, ripieghiamo
immediatamente.
- Fate in fretta! - gridò il medico
allontanandosi verso un'isba.
- Non andare da quella parte! Non c'è un
minuto di tempo! - gli gridò Perbellini.
Il medico perlustrò affannosamente
alcune isbe; disperando di rintracciare i feriti
si diresse poi verso il punto convenuto con
Covre. Le vie del paese erano ormai deserte;
il nemico stava per avere il totale
sopravvento sugli ultimi uomini isolati
rimasti imbottigliati.
- Non ho trovato nessuno! - gridò Covre a
Serri che si avvicinava; - bisogna far presto,
ho visto quattro russi passare dietro quelle
isbe!
I due uomini avevano percorso qualche
metro, quando una sventagliata di fucile
mitragliatore li sfiorò; si appiattarono sulla
neve, un mulo che a pochi passi da loro era
stato colpito diede un enorme balzo
sollevando la slitta a cui era attaccato;
veicolo e animale ripiombarono restando
immobili sul bianco.
Serri e Covre, sdraiati, videro due russi
che in piedi dietro a un albero distante venti
metri stavano osservando le abitazioni
sparandovi contro a brevi intervalli;
l'ufficiale fece un cenno all'attendente,
entrambi con estrema cautela strisciarono
sulla neve fino a sottrarsi alla vista dei due
russi. Serri notò che Covre era senza
moschetto; egli aveva, da sempre, soltanto la
rivoltella.
- Via di qua, vieni! - sussurrò Serri.
Con rapidi balzi da casa a casa si
avvicinarono all'imboccatura della pista
ovest, riuscendo ad eludere l'attenzione di
qualche russo che si affacciava guardingo tra
le isbe innaffiando le strade e i muri con
raffiche di fucile mitragliatore sparate a
casaccio.
Quando i due alpini riuscirono a sbucare
dietro l'ultima isba del paese all'inizio della
pista, Serri fece un improvviso passo indietro
trattenendo l'attendente: a dieci metri un
immobile carro armato stava sparando a
ritmo celere col pezzo di bordo contro la
colonna ormai lontana circa un chilometro.
- Tre russi vengono da questa parte,
signor tenente! - avvertì convulsamente
Covre che inorridito alla vista del carro aveva
subito guardato verso l'interno del paese
anelando a una qualche via di scampo.
Sulla sinistra Serri scorse il margine di
una piccola balka in cui avrebbero potuto
trovare riparo, ma questa iniziava venti metri
al di là del carro armato. Nel cervello gli
attimi trascorrenti bruciavano come una
serie di aghi infuocati.
- Altri cinque russi! Vengono tutti da
questa parte, siamo in trappola! - disse Covre
mordendosi le labbra.
- Vieni - decise Serri indicando la balka -
passiamo là.
- No, signor tenente - mormorò in fretta
Covre dilatando gli occhi; - c'è il carro
armato... Ci ammazza... Bisognerebbe
passargli davanti... - Lo sguardo gli si
smarriva.
- Per forza! Vieni!
Con uno strattone, Serri indusse
l'artigliere a seguirlo oltre l'angolo dell'isba,
lo prese per mano e i due avanzarono verso il
carro armato.
Quando gli furono dinanzi sfiorarono i
cingoli minacciosi, videro le canne di
mitragliatrice spuntare dall'acciaio,
trattennero il respiro attendendo e
sentendosi quasi in corpo la raffica fatale,
con una corsa precipitosa e un salto si
trovarono affondati nella neve del fondo
della balka; si guardarono negli occhi.
- Hai visto? - disse Serri. - Adesso
sbrighiamoci a camminare.
La balka sfociava dopo una cinquantina
di metri in un'altra più ampia, nel cui fondo
la neve portava evidenti tracce del recente
passaggio di molti uomini. I due avanzarono
riuscendo ad allontanarsi di mezzo
chilometro dal paese, risalirono poi sulla
pianura per non perdere di vista la colonna e
proseguirono lungo il bordo della balka.
Sulla pianura erano disseminati molti
uomini isolati che si dirigevano verso la
colonna mentre i carri armati e i mortai da
Novossergijevskij tiravano qua e là
sollevando sulla distesa improvvise fontane
di neve.
Dopo una mezz'ora di solitario affannoso
cammino i due uomini si consideravano salvi
dall'immediato pericolo; non rimaneva che
raggiungere la colonna prima che annottasse.
Serri incitava Covre che camminava
faticosamente a cinquanta metri dietro al
medico.
Ad un tratto l'ufficiale notò che
l'attendente, fermo sul ciglio della balka,
parlava con qualcuno che stava nel fondo
della spaccatura molto profonda e scoscesa.
- Chi c'è? - chiese Serri.
- Il tenente Brogli, il sottotenente
Perbellini e il comandante della ventotto -
rispose Covre.
- Li vedi?
- Sì, da qui si vedono.
- Sono feriti?
- No, hanno detto che stanno bene;
camminano, vengono avanti anche loro.
- Cosa dicono?
- Dicono che siamo sulla strada giusta e
che la balka porta sulla pista della nostra
colonna; ci consigliano però di scendere nella
balka perché sulla pianura possiamo essere
colpiti dal tiro dei carri armati e dei mortai.
Il tiro era ormai diradato e stanco.
- Di' che noi continuiamo a camminare
sul ciglio perché a scendere ci riempiremmo
ancora di neve: ci gelerebbe addosso, perché
c'è vento. Anzi, andremo sulla pista.
- Hanno sentito, hanno detto di fare come
preferiamo, ma di stare attenti - disse Covre
riprendendo il cammino.
Dopo un'ora di marcia affannosa, quando
già s'accennava l'imbrunire, giunsero a un
punto in cui la pista si biforcava: a qualche
chilometro oltre il bivio, sulle due piste si
distinguevano le code di due colonne che
divergendo sempre più si prolungavano nel
bianco a perdita d'occhio.
- E adesso? Da che parte sarà la ventisei?
- si chiese Serri. La decisione da prendere
comportava conseguenze decisive.
- Signore... - pensò. E a Covre: - Allora?
Andiamo a destra? - disse a caso.
- Par mi va ben, siòr tenente.
Proseguirono sulla pista di destra.
Non sapevano che i diecimila uomini che
ancora per un'ora essi videro sempre più
allontanarsi e impicciolire sulla pista a
sinistra, sarebbero stati per sempre ingoiati
dalla steppa.
Dopo una terza ora di sfibrante
inseguimento Serri e l'attendente riuscirono
a raggiungere la colonna: la risalirono e con
infinito sollievo si riunirono agli uomini e
alle slitte del Gruppo.
- Italo! - gridò Reitani - temevo di non
vederti più...!
- Anch'io, Ugo! Sono arrivati Perbellini e
Brogli? - domandò Serri.
- No, sono in pena anche per loro.
Li hai visti?
- No, ma sono passato vicino a loro già
fuori di Novossergijevskij, hanno parlato con
Covre. Non possono tardare ad arrivare.
Si scambiarono le notizie. L'assalto
operato dai russi aveva colto di sorpresa le
migliaia di uomini in sosta a
Novossergijevskij; il nemico aveva subito
conseguito un forte vantaggio iniziale, il
tentativo d'arginare la pressione russa per
dar tempo alle slitte di defluire aveva
raggiunto solo parzialmente lo scopo, un
ingente numero di uomini era rimasto
rinserrato senza possibilità d'essere liberato
con un contrattacco, poiché gli scampati
avevano esaurito le munizioni.
Fra gli uomini del Gruppo era salvo il
colonnello Verdotti; al suo aiutante
maggiore, tenente Massimo Rizzo, una
pallottola aveva trapassato un braccio dal
gomito alla spalla; mancavano diversi
ufficiali tra cui il comandante della ventotto
e il tenente Ivo Emett; s'ignorava la sorte di
moltissimi artiglieri. Alla ventisei mancavano
più di trenta uomini fra i quali i tenenti
Brogli, Perbellini e Candioli; l'ultimo pezzo
fino a quel giorno superstite era stato fatto
saltare, una mitragliatrice era fuori uso;
restavano undici slitte e ventotto muli.
Le tenebre stavano annunciandosi,
nessun altro artigliere aveva raggiunto la
ventisei, il capitano fece contare nuovamente
gli uomini.
- In quanti siamo alla ventisei? - gli
chiese Serri.
- Io, tu e Ferrieri fra gli ufficiali, più
centododici uomini fra cui una cinquantina
di feriti e congelati che non si possono
muovere dalle slitte. Andiamo esaurendo le
nostre forze, Italo. Abbiamo fatto saltare
l'ultimo pezzo che ci rimaneva, ci resta una
sola mitragliatrice con ottanta colpi; in
media gli uomini hanno sì e no tre pallottole
da moschetto a testa.
- Siamo venuti in Russia in
duecentotrenta... - disse Serri.
- Sì. E non è ancora finita - aggiunse il
capitano.
Con la sera, il freddo intensificato andava
nuovamente stendendo le sue invisibili
trame, una stanchezza atroce pesava sulle
membra, l'accresciuto languore che prendeva
i corpi invitava ad arrestare il passo e
lasciarsi cadere sulla neve.
Nelle slitte, sotto le coperte, i feriti si
lamentavano penosamente.
- Penso a Brogli e a Perbellini - mormorò
Serri; - la neve alta mi ha costretto a
camminare adagio, speravo di trovarli già
qui.
- Forse si sono incolonnati con qualche
altro reparto - disse Reitani. - Dietro di noi
marciano almeno trentamila uomini che
nella notte scorsa hanno sostato in altri
paesi. Speriamo.
La stanchezza e la varietà delle vicende
avevano allentato le maglie della colonna,
frazionando e disseminando confusamente
interi reggimenti i cui uomini vagavano
sbandati intralciando il cammino.
Era un sempre rinnovato rimescolarsi di
sofferenze, di volti, di razze; italiani,
tedeschi, ungheresi, romeni, tutti
incappucciati ed eguali nel loro dolore.
Anche fra le slitte della ventisei erano
comparsi sconosciuti smunti visi di soldati
che camminavano in silenzio, cupi, disperati.
La primitiva compattezza dell'enorme
colonna si era smembrata in tanti tronconi,
quasi fosse la brulicante carogna di una
gigantesca biscia fatta a pezzi.
I russi cominciarono allora a gettarsi
sullo sfacelo. Padroni delle piste circostanti e
spostandosi rapidamente sugli autocarri,
s'appiattavano nelle posizioni più propizie,
attendevano che un gruppo di uomini in
colonna fosse isolato da più larghi intervalli,
piombavano fulminei sui camminatori quasi
inermi uccidendo o catturando prigionieri;
quando l'impotente gruppo successivo
sopraggiungeva, trovava i cadaveri sulla neve
e scorgeva i superstiti già lontani e intruppati
dai russi che li portavano via.
All'insostenibile cumulo di pene si
aggiunse anche il sapere di poter essere in
ogni momento strappati a forza sotto gli
occhi dei compagni impossibilitati a dare
aiuto, e scomparire sospinti verso un altro
più misterioso destino.
- Senti? Cannone controcarro - disse
Reitani a Serri quando le tenebre
s'infittirono.
Passò una voce: - I russi hanno attaccato
la colonna a tre chilometri avanti a noi.
Poco dopo una seconda voce si diffuse
come un fremito: - Il generale Ricagno e lo
Stato Maggiore della Julia sono stati
circondati in una balka: si sono difesi fino
all'ultima cartuccia, ma sono caduti
prigionieri.
Era vero. Non significava nulla che la
cosa sembrasse assurda: era vero; succedeva
che fra centomila soldati un pattuglione
nemico poteva portarsi via un generale con
l'intero suo Comando. Non era più guerra,
era ormai facile caccia contro sventurati che
tuttavia non si arrendevano ancora.
Baluginava ai loro occhi una visione lontana,
annebbiata ma presente ad ogni ora, fonte
d'appassionato dolore e speranza, ed era la
patria e la casa.
- No, mi non me arrèndo, siòr tenente -
diceva a Serri Scudrèra che marciava a fianco
dei suoi muli tenendo le briglie sempre
rigirate ai polsi e al collo perché le mani
ormai non gli servivano più. - Mi non me
posso fermàr, a casa go i me veci che i me
aspèta e i ga bisogno de mi.
- Ma perché non vuoi cedere le briglie? -
diceva Serri. - Vuoi tornare a casa senza le
mani?
- Questa la xe un'altra storia - affermava
quetamente Scudrèra - la conosse' anca vu.
Era calata la notte fonda. Alcuni feriti
gravi, appiedati, non erano più in grado di
camminare e stavano per afflosciarsi sulla
neve.
- Fate saltare l'ultimo pezzo che è rimasto
al Gruppo e collocate sulla slitta i feriti -
decise il colonnello Verdotti.
Il pezzo superstite era sprovvisto di
munizioni, e quando saltò le tre batterie del
Gruppo perdettero l'ultimo cannone.
A mezzanotte, dopo quattro ore di
penosissima marcia la colonna raggiunse il
paese di Ladomirowka, abbandonato ma non
distrutto. Gli uomini si gettarono nelle isbe
in preda a una indescrivibile furia; incuranti
di ogni altra cosa si buttavano sui pavimenti
piombando all'istante nella voragine del più
profondo sonno. Venissero pure i carri
armati, i partigiani, le truppe russe, il
demonio con tutto il suo inferno, quegli
uomini ridotti allo stremo potevano soltanto
dormire.
Ma, nel cuore della notte, molti si
destavano sotto i morsi di una fame atroce;
restavano a lungo con gli occhi spalancati nel
buio inseguendo disperati disegni; si
alzavano poi da terra, brancolando e
calpestando gli inerti corpi dei compagni
raggiungevano a tentoni la porta, uscivano
nel gelo famelici e attenti come belve in
cerca di preda; s'aggiravano attorno all'isba,
si portavano innanzi alle stalle, ai porcili,
cercavano le concimaie; si inginocchiavano
nel bianco ansanti e disperati, affondavano le
mani rattrappite od enfiate nella neve, ne
scomponevano la spessa coltre scavando fino
a giungere al concime; rimestavano come
porci impazziti per stanare con occhi lucenti
le raggelate barbabietole e le rape che la
ragazza contadina, giungendo indolente con
la ricolma carriola, ai tempi del caldo con
pigra mossa aveva rovesciato marce sul
letame.
XXVII
Dopo tre ore e mezzo di riposo, ancor
prima dell'alba del ventitré gennaio gli
uomini dai volti lividi ripresero la marcia.
Già dal primo minuto del risveglio la
fame latrava orribilmente. La colonna
procedeva lungo una pista, poiché all'inizio
della marcia la sola fatica di camminare nella
neve vergine avrebbe abbattuto i
camminatori digiuni.
Incontrando strada facendo qualche
gruppo di isbe abbandonate, gli uomini si
slanciavano a frugare nelle cucine, nei
cortiletti, negli orti per racimolare da un
tavolo, da un cassetto, dal terreno delle aie
una scorza di patata, un rifiuto rancido, un
qualsiasi ributtante avanzo che si potesse
masticare e ingoiare. Le spasmodiche
ricerche ben raramente davano frutto, poiché
altre migliaia di affamati avevano preceduto
frugando; ma, ad ogni isba incontrata,
squadre di gente dal viso torvo e cinerino si
buttavano all'uscio spesso impegnando, sulla
soglia, rapide silenziose accanite lotte per
prevalere e conquistare precedenza; e
siccome non pareva disumano che gli uomini
si giocassero la vita per una scorza di patata,
non era infrequente che dai panni sordidi e
ghiacciati spuntasse all'improvviso,
barbarico, il luccichio dei coltelli. Man mano
che la marcia li inoltrava nell'inverosimile, i
camminatori dovevano lottare sempre più
aspramente contro primordiali feroci istinti.
Più che mai necessario era il mantenere
contatto coi compagni fidati, e restare fra
alpini.
Il sole languido si levò nel cielo.
Il vedere l'immutabile bianco distendersi
a perdita d'occhio, sempre uguale nonostante
l'affannoso procedere, dava ai soldati la
sensazione d'essere naufragati in uno
sterminato mare di ghiaccio dal quale era
illusorio pensare di uscire. La speranza non
aleggiava più sulle schiere, aveva raccolto
l'ali e camminava anch'essa a piedi scalzi fra i
soldati, scarmigliata e ansante, scansando
cadaveri stecchiti sulla neve.
Tra le disordinate file della colonna in
marcia, la confusione si era accresciuta di
giorno in giorno, poiché la stanchezza e la
fame avevano smembrato i reparti
disseminando i singoli e disperdendoli nella
massa a tergo che li ingoiava, sfatta
anch'essa ma sospinta dal flusso
dell'inarrestabile corrente. Molte decine di
migliaia di uomini erano ormai disarmati
poiché il peso del fucile era diventato
insostenibile e reso inutile dall'esaurimento
delle munizioni; ormai anche il peso di un
moschetto era tale da fiaccare un uomo.
Nella grande colonna tuttavia
sopravvivevano ancora isole compatte
costituite dai reparti della Tridentina, che
aveva potuto iniziare la ritirata in condizioni
di efficienza, e da esigui reparti d'artiglieria
tedesca che usufruendo di qualche mezzo
cingolato e di sufficienti scorte di carburanti
erano riusciti a vincere fino allora
l'inesorabile blocco della neve.
Per il continuo prodigarsi del capitano
Reitani, attorno alle undici slitte della
ventisei i superstiti artiglieri si mantenevano
ancora compatti; anche la maggior parte dei
feriti e congelati costretti a camminare a
piedi riuscivano a non attardarsi lungo il
cammino. Disarmati, stravolti, boccheggianti
i feriti e i congelati obbligati alla marcia
costituivano le avanguardie della
disperazione.
- Quanto dovremo camminare ancora? -
chiedevano sospirando a Reitani e a Serri,
trascinando avanti la gonfia gamba dal
polpaccio trapassato da una pallottola,
zoppicando per la scheggia approfondita
nello spessore dei muscoli della coscia,
saltellando miserevolmente sui piedi
congelati e rivestiti di cenci.
- Non sappiamo, nessuno lo sa; bisogna
avere sempre coraggio, fino all'ultimo
giorno; se resisteremo riusciremo a portarci
in salvo - rispondeva -no gli ufficiali.
- Ma quando verrà quel giorno? - era la
richiesta angosciata; - quando siamo partiti
dalla linea sembrava che in ventiquattr'ore
dovessimo essere fuori dalla sacca, invece
questo è il settimo giorno di marcia...
- Nessuno sa nulla, bisogna andare
sempre verso ovest e avere il coraggio di non
fermarci mai...
Le parole cadevano abbandonate sulla
neve, come ogni altra cosa inutile.
- Abbiamo fame...! Fame...
Anche queste cadevano.
Tutta la vita s'era trasformata in dolore,
unico dono di Dio pareva potesse essere,
ormai, soltanto la morte; eppure quei
miserabili salutavano con gioia, a notte, il
gelido luridume di qualche isba
abbruciacchiata, per stendere a terra la loro
stanchezza e tentare di ricuperare un po' di
forza, riattizzare nei muscoli le faville d'una
vita che si spegneva.
A niente potevano giovare tre ore di
sonno sofferte nel gelo, per uomini che da
una settimana sopportavano quella vita.
Eppure, prima dell'alba essi si ponevano
nuovamente in marcia agganciati al loro
posto di tortura nelle file della colonna.
Avevano occhi dalle ciglia strinate dal gelo,
dalle palpebre gonfie e crostose, lagrimosi e
sanguigni come due piaghe gementi aperte
nel viso; con quelli videro la luce del ventitré
gennaio diffondersi sulla steppa e svelare il
bianco della nemica. Si estendeva
dominatrice seppellendo ogni punto di
riferimento, sì che la steppa non era altro che
neve, un agghiacciante mare di neve. Lo
spirito si annichiliva innanzi alla vastità,
anelava invano a cogliere un segno di vita;
per mezze giornate gli sguardi scrutavano
l'orizzonte con la speranza d'intravvedere il
tetto di un'isba.
Ecco infatti un paese, che all'ottava ora di
marcia gli uomini della ventisei raggiunsero
e sorpassarono senza fermarsi; unico indice
che lo dicesse per l'innanzi abitato, erano i
cadaveri di partigiani russi che giacevano per
le strade. Da quanto tempo?
Era impossibile dirlo: come tutto
all'intorno, erano anch'essi pietrificati e
conservati dal gelo. Certo, avendo attaccato
di sorpresa un segmento della colonna, erano
incappati in un reparto ancora armato ed
erano stati sopraffatti dal disperato
azzannare dei tormentati camminatori.
Al tramonto si levò il vento della steppa,
poco dopo la colonna era avvolta nella bufera
che piegava gli uomini e tentava di stenderli
nella neve.
Questa turbinava intorno, la visibilità
divenne nulla, come ciechi i marciatori
continuarono a camminare affondando fino
al ginocchio, piangendo, bestemmiando, con
estrema fatica avanzando di trecento metri in
mezz'ora.
Come ad ogni notte, ciascuno credeva di
morire di sfinimento sulla neve, qualcuno
veramente s'abbatteva e veniva ingoiato dalla
mostruosa nemica; ma la colonna proseguì
nel nero cuore della notte, abbandonò ogni
precauzione e si portò su una pista, si gettò
alla ricerca di paesi, di villaggi, di sperduti
gruppi di isbe per porsi a salvamento dal
gelo.
XXVIII
- Ventiquattro gennaio - brontolò il
furiere Clerici quando il giorno spuntò sulla
ventisei che da qualche ora si era rimessa in
cammino.
- Sarà molto se arriverò a sera - disse
cupamente Sorgato a mezzogiorno
masticando una scorza di patata; - mi sento
morire di fame.
- Questo è il nostro ultimo giorno -
mormorò Covre a notte, quando il tratto di
colonna nel quale era incorporata la ventisei
s'arrestò sulla pista in uno stretto fondo
valle, immobilizzata dall'improvviso fuoco di
batterie russe. La consapevolezza di avere
una sola mitragliatrice quasi priva di
munizioni e i fucili senza pallottole,
sconcertava gli artiglieri ancora armati,
annullava la speranza dei rimanenti. Il fuoco
russo infittiva, bisognava prendere una
decisione poiché il restare fermi nel gelo
costituiva di per sé un pericolo mortale.
Alcune compagnie della
Tridentina passarono in testa, attaccarono
sostenute da un pezzo controcarro tedesco
che si trovava fra gli italiani, anche la
ventisei fu chiamata avanti assieme agli
sparsi uomini validi, l'attacco venne sferrato
decisivo e violento.
Un'ora dopo la colonna s'era aperta a
prezzo di sangue il varco e riprese ad
avanzare; sulla pista giacevano cadaveri di
soldati russi e cannoni rovesciati: dalla
disperazione di quegli alpini sortivano
ancora sprazzi di energia non domata, impeti
di volontà forsennata.
A notte fonda il gelo toccò punte estreme,
si levò la tormenta di neve ad accerchiare gli
uomini, a ricoprire in pochi istanti i cadaveri
di chi si abbatteva; la morte da freddo
abbracciava i soldati, ad uno ad uno.
Ad un tratto una voce corse a ritroso: era
prossimo un paese.
Isolati o a frotte, uomini sbandati
affrettarono il passo, reparti tentarono di
aprirsi il varco nella ressa per portarsi
innanzi, conducenti aizzavano a gran voce i
muli e gridavano per ottenere precedenza
alle slitte dei feriti. Richiami, urli di tedeschi
e magiari si levavano nell'oscurità, colonne
di slitte si intersecavano e si scontravano nel
tentativo di tagliarsi la strada a vicenda per
precedersi; ogni uomo ansimava e si sforzava
di spremere ai muscoli le ultime forze per
correre avanti, per raggiungere al più presto
il paese, attratto dal miraggio di un'isba che
avrebbe salvato, in quella notte, dalla morte
per freddo. Ogni ombra che si affannava nel
buio rappresentava un concorrente, forse
colui che riuscendo a precedere avrebbe
rubato la possibilità di entrare in un'isba già
colma, un odioso antagonista, un feroce
negatore di un diritto umano, una belva
quindi, un assassino da eliminare senza
rimorso; qualcuno nell'oscurità cominciò ad
allungare la mano - nel folto della colonna -
sulla spalla dell'uomo che lo precedeva,
spingendo indietro l'avversario e facendosi
avanti; qualche altro, ostacolato nella ressa
dal troppo lento incedere d'un ferito o d'un
congelato, diede una spinta, vibrò a pugno
chiuso un colpo su una testa già stordita,
sormontò con un piede il caduto e passò
oltre, mentre nella tumultuante calca già
altri dieci, altri venti inconsapevoli
calpestavano il rilievo grigioverde che
urlando sprofondava man mano nella neve,
finché taceva. I tedeschi con grandi e salde
slitte trainate da robusti cavalli
minacciavano di prevalere nella gara, i
conducenti italiani perciò sollecitavano i
muli, file di slitte si scontravano rovesciando
i feriti sulla neve, s'insinuavano di corsa
nella accozzaglia delle migliaia di uomini, gli
animali spaventati zampavano abbattendo
chi premuto dai vicini non riusciva a
scansarsi in tempo e finiva sotto gli zoccoli
dei cavalli e dei muli, rotolava quindi urlando
sotto i pattini delle slitte, rimaneva sulla
neve con le ossa schiantate; e subito la folla
inconscia e affannosa lo travolgeva, lo
uccideva correndo frenetica e assaltatrice
verso il paese.
Il paese era grande, sparso, abbandonato
dagli abitanti, le isbe già rigurgitavano di
soldati giunti da ore; la marea di disperati lo
assaltò, s'affollò intorno alle isbe già ricolme
di uomini giacenti, chiese a gran voce di
entrare, gli occupanti si affannavano a
dimostrarne l'impossibilità, i sopraggiunti
sfondarono le porte, penetrarono d'impeto
calpestando gli uomini a terra, si stiparono
uno sull'altro, uno contro l'altro finché ogni
stanza fu un unico carnaio urlante,
maledicente, un solo viluppo di uomini
feroci e imbestialiti, profondamente paghi
nell'intimo d essere sfuggiti alle mortali
unghiate della tormenta che fuori, in quella
notte d'inferno, avrebbe forse sterminato
tutti gli altri meno lesti e decisi.
Ma migliaia d'altri sopraggiungevano
ancora e facendo ressa contro gli usci
imploravano, imprecavano, bestemmiavano,
piangevano vedendo la porta e la salvezza a
un passo e restandone tuttavia esclusi;
constatando l'impossibilità di entrare dalla
porta, si gettavano allora alle finestre,
frantumavano i vetri col calcio dei fucili e
scavalcando i davanzali piombavano a
capofitto rimanendo a galleggiare sul
brulicame di membra; altri impazzivano
subitamente, mentre convulsi e tetri tedeschi
infilavano nel fucile le ultime pallottole
rimaste e sogghignando sparavano attraverso
le porte richiuse, godendosi quindi gli urli di
chi si credeva in salvo e al riparo e invece
proprio allora cominciava a perdere il sangue
e morire. Altri tentavano a lungo d'insinuarsi
nell'ingresso semiaperto e farsi posto
nell'isba stipata fin sull'uscio, ma non
potendo a nessun costo forzare la compatta
calca conficcavano silenziosamente la
baionetta nel corpo al più vicino all'uscio,
con uno strattone lo toglievano di mezzo
buttandolo a stramazzare sulla neve e si
inserivano poi soddisfatti al posto lasciato
sgombro dal morto.
All'aperto, all'inadeguato riparo di tettoie
- poiché ogni vestigio d'umano non era
tuttavia distrutto in tutti quei cuori - v'era
chi accendeva fuochi fumosi accingendosi a
passare la notte in piedi, fra gelo e fiamma,
fidando in Dio; v'era anche chi rincalzava le
coperte ai feriti rimasti sulle slitte e li
imbottiva di paglia raccattata, chi accudiva ai
muli affinché all'indomani avessero forza per
trascinare avanti i congelati.
Altri invece vagavano guardinghi fra le
isbe per sorprendere un mulo attaccato a una
slitta vuota e incustodita: con un balzo
s'impossessavano allora del traino e
fuggivano con la nuova ricchezza da
barattare o da usare nella marcia
all'indomani, indifferenti al fatto che il furto
appiedasse e lasciasse alla mercé della steppa
chi non sapeva più camminare.
La bufera ululava nel turbinio di neve sul
paese, la notte arrestava ogni vita scagliando
vortici di gelo.
Ma forsennati figli della disperazione
s'aggiravano ancora fra le isbe implorando e
minacciando, scagliando contro il cielo
inascoltate grida; e si sentivano morire.
Battevano a lungo ad ogni porta chiusa,
supplichevoli, infuriati, pazzi nel sentire le
carni arroventarsi nel gelo; s'accasciavano
infine contro l'uscio di un'isba o a ridosso
della parete meno esposta al vento,
s'accucciavano poi sulla neve, il loro guaito
s'affievoliva, a poco a poco tacevano;
rabbrividivano sempre meno, sempre meno
fino a restare rannicchiati e del tutto
immobili, sagome umane che ad occhi fermi
e spalancati affrontavano il vento notturno
con un ghignante e tranquillo viso di pietra.
Nessuno li vedeva, nessuno badava. Soltanto
il nevischio turbinava insistente intorno al
loro viso, s'appendeva alle ciglia e alle barbe,
s'accumulava nei lobi degli orecchi, nelle
cavità delle narici, fra le labbra dischiuse e
sui denti, si distendeva tra gli orli delle
palpebre divaricate e velava gli occhi aperti,
mascherava di bianco tutto il volto.
E questo, sotto, vetrificato, ghignava.
Alcuni infine v'erano, che impazziti d'un
tratto sul pensiero dell'ultima ripulsa, si
scostavano dalla porta rimasta chiusa ad ogni
supplica e s'aggiravano con lentezza attorno
all'isba inospitale; silenziosi si portavano al
più riparato degli angoli, scuotevano la neve
dal basso bordo del tetto di paglia; con
attenzione, con infinita cura sfregavano
fiammiferi fino a spremerne da uno l'esigua
fiammella, l'innalzavano cautamente
riparandola dal vento e l'accostavano alla
paglia, attendendo di vederne sprizzare il
primo fuoco e il primo fumo.
Si ritiravano allora, e ristavano
rattenendo il respiro a guardare, insensibili
al vento ed al gelo, spiando con sottile gioia
l'incantevole corsa bluastra e poi rossa delle
fiamme che in un baleno avvolgevano l'isba;
e gli occhi abbacinati trapassavano le pareti
fruscianti di fuoco e vedevano,
abbracciavano, carezzavano con infinita
esultanza il multiforme ammasso di corpi
dormienti da cui si attendevano con orgasmo
il primo, inebriante, tardivo urlo.
XXIX
L'alba del venticinque gennaio fugò la
tormenta, la colonna s'incamminò, per tutta
la giornata marciò e all'imbrunire raggiunse
Nikitowka, grosso paese nel quale con
indescrivibile gioia la ventisei riuscì a trovare
isbe sufficienti a dare ricovero agli artiglieri.
Il paese era abitato, ma il passaggio di
precedenti reparti aveva esaurito ogni scorta
di viveri; i soldati tuttavia riuscirono a
racimolare qualche patata, qualche buccia da
ingollare con indicibile avidità.
Gli uomini godevano finalmente qualche
ora di sosta e di riposo e Serri poté dare
qualche scarso aiuto ai feriti e ai congelati,
riassestare almeno le lacere bende o i ritagli
di stracci sulle carni macerate. In molte
isbe le donne gli offrivano spontaneamente
tele e acqua calda per detergere e coprire le
ferite, dimostravano una toccante
partecipazione al dolore che aveva invaso le
loro case.
Le stufe ardevano, gli artiglieri si
ristoravano, con pazienti ricerche ricavavano
dalla neve dei cortili nuovi avanzi di rape; chi
veniva sopraffatto dal sonno e riuscendo a
vincere l'assillo della fame dormiva
abbandonato sui pavimenti delle isbe, chi era
ancora sveglio si rallegrava per la prospettiva
di una intera notte di riposo; le voci
riacquistavano un poco della perduta
vivacità, un tenue lume di speranza
riaffiorava.
Gli ufficiali e i sottufficiali approfittavano
della sosta per riordinare quanto rimaneva
della batteria, contavano gli uomini,
facevano riassestare le slitte e rinforzare le
corde di traino che il gelo e lo sforzo, in
marcia, spezzavano continuamente
imponendo pericolose soste ai veicoli.
Il capitano Reitani, seduto su una panca e
contornato di uomini addormentati per terra,
sommava su un foglietto gli ultimi dati
riguardanti la batteria.
- Con che forza è rimasta la ventisei? -
domandò Serri sedendogli accanto.
- Novantasei uomini compresi i tre
ufficiali - rispose con tristezza Reitani; - mi
sforzo di pensare che chi è rimasto indietro
non sia morto ma si sia congiunto a qualche
altro reparto.
Quanti feriti e congelati abbiamo?
- Quarantotto trasportati sulle slitte, non
ne è morto nessuno finora; ma bisogna
aggiungere diciannove congelati e sei feriti
che si trascinano a piedi.
Il capitano prese appunto.
- E' terribile: siamo rimasti in ventitré
uomini validi; e anche noi siamo mezzo
morti di fame e di sonno - disse amaramente
posando con gesto tenue la mano sui capelli
scarmigliati del furiere Clerici che, seduto a
terra, gli si era addormentato accanto
poggiando il capo sulla panca.
- Vi siete ricordati di contare anche me,
almeno? - chiese Scudrèra levando il viso dal
pavimento.
- Sì, purtroppo - gli disse Serri con un
mezzo sorriso.
- E in che lista me gavè ficà?
- Fra i congelati, naturalmente - rispose il
medico; - e presto ti dovrò segnare fra gli
amputati se continuerai ad essere testardo
più dei tuoi muli.
- Fra i congelati? E' una ingiustizia, le xe
le solite camòrre...! - protestò Scudrèra; -
come uomo potrò avere le mani un poco
scassate, ma come conducente son tuto d'un
tòco, sto facendo il mio dovere come
qualunque altro, no?
- No, - disse Reitani: - ti rifiuti di obbedire
al tuo comandante, sei un cattivo alpino.
- Mi? - disse Scudrèra sollevando
l'enorme torace dal pavimento e
appoggiandosi su un gomito. - Mi un catìvo
alpìn? E perchè no me fusilè, se non
obedìsso? O volè farme el processo in Italia?
- E puntava verso Reitani il braccio teso e la
mano avvolta in una vecchia mezza sottana
multicolore, particolare dono della padrona
dell'isba al gigantesco conducente.
- Vedremo - rispose Reitani divertito; -
queste sono decisioni da prendere in segreto.
Dimmi piuttosto: hai mangiato la tua crosta
di formaggio?
- Ecco, vedete? - disse Scudrèra; - se la
mano mi entrasse in tasca, credo che l'avrei
già mangiata; ma invece è troppo gonfia, e mi
fa male, non entra: e alòra la gròsta la xe
sempre qua, me la màgno quando son sul
punto de crepàr de fame.
- E non hai paura che qualcuno te la rubi,
se dormi? - lo stuzzicò Serri.
- Oh, no! - esclamò Scudrèra aggrottando
cupamente la fronte; - se qualcun pròva, mi
lo còpo; i lo sa tutti, li go già avvertìi. No,
no, nessun se fida, i me conòsse.
- Basta - disse Reitani ridendo e mutando
subito espressione nel dare un'occhiata e
riporre il foglietto che aveva ancora in mano;
- dormiamo anche noi, ché si fa tardi.
I due ufficiali si distesero sul pavimento,
dopo alcuni minuti tutti gli uomini in
grigioverde dormivano nel tepore della
stanza. Dai letti, alla luce della fiammella
sempre accesa sotto l'icona, la famiglia russa
guardava con occhi pietosi quella gioventù
che immota nel sonno pareva morta.
Il paese era calmo, i muli nelle stalle
masticavano tranquilli la paglia, tutti i
soldati dormivano al coperto e al caldo, le
membra si distendevano nella placidità del
sonno a cui neppure le sentinelle erano in
grado di resistere.
Ed ecco che verso mezzanotte stuoli
d'ombre silenziose s'avvicinarono al paese,
scivolarono tra isba e isba evitando i tratti di
neve illuminati dalla luna, si distribuirono
presso le soglie delle isbe, attesero immote.
Ad un lontano sparo, socchiusero le porte
degli ingressi e alla pia luce tremolante sotto
l'icona individuarono i soldati dormienti;
puntarono allora il parabellum e in ogni casa
una lunga, interminabile raffica s'abbatté
sugli inermi, mentre gli assalitori fuggivano
a precipizio subito raggiungendo, dietro le
isbe, la neve della steppa.
Chi non rimase ucciso all'istante ma fu
svegliato dal sussulto della carne ferita, o
scampò alla morte rimanendo illeso, gridò
con un urlo che si ripercosse di casa in casa,
e si estese sull'abitato come un unico
rantolo.
Un tramestio convulso, un'orgia di dolore
e di orrore investì il paese che subito
traboccò d'infinite ombre urlanti; chi
impugnava le armi, chi correva senza scopo e
direzione, chi invocava aiuto e pietà per i
compagni feriti; sul paese allora
cominciarono a piombare le bombe di diversi
mortai che attorniavano l'abitato, la
terrorizzata popolazione russa riversandosi
dalle case accrebbe il panico, moltiplicò gli
urli.
- I carri armati! I carri armati! - venne
inconsultamente gridato.
- Abbandonare il paese, via verso ovest! -
fu il comando che orientò i soldati; e con un
frenetico bardare muli, agganciare slitte,
caricare feriti, inserirsi nel tempestoso flusso
gli uomini s'accavallarono fra animali e traini
sospingendosi a furia verso ovest, già
braccati e bersagliati dai russi che
sopraggiungevano a mitragliare la mandria
fuggiasca: spuntavano a drappelli fra le isbe,
si slanciavano ai margini della colonna
lentamente avviata e sotto gli occhi
esterrefatti dei vicini abbrancavano e
trascinavano via - prigionieri - i più
sfortunati.
Le isbe occupate dalla ventisei, allineate
in una stradicciola a fondo cieco, erano state
parzialmente risparmiate, ma nelle prime
due gli artiglieri si erano trovati aggrediti nel
sonno, in una quattro feriti e tre congelati
erano rimasti uccisi da un'unica raffica, nella
seconda il furiere Clerici era stato ferito ad
un braccio, una pallottola aveva lacerato il
cappotto a Reitani; Serri era rimasto illeso,
ma il puntatore Foresti, il disperato
cannoneggiatore di Novo Kalitwa che gli
stava dormendo accanto aveva ricevuto una
pallottola in pieno petto.
- Calma! La ventisei resti unita!- aveva
comandato Reitani riavendosi dalla
stuporosità del sonno e dal tragico risveglio.
- Ugo, faccio caricare i feriti, tornerò
ancora qui per Foresti - aveva detto Serri
precipitandosi verso la porta.
- Sì, io intanto radunerò gli uomini, fa'
più presto che puoi! - aveva gridato il
capitano correndo verso altre isbe.
- Via, si parte! Stare uniti a tutti i costi! -
aveva ordinato poco dopo vedendo che le
slitte erano caricate e pronte a muoversi.
- Un momento, signor capitano! - aveva
urlato dalla porta dell'isba il furiere Clerici
reggendosi il braccio ferito; - il tenente Serri
è tornato, ha detto che Foresti è ancora
vivo...
- E' vivo, bisogna portarlo con noi! - aveva
gridato il medico. E anche il puntatore
moribondo era stato caricato su una slitta
assieme ai nuovi feriti che prendevano il
posto dei sette morti.
La ventisei s'era poi tuffata nei gorghi
della corrente umana che premeva verso la
pista ovest; nonostante ogni sforzo le slitte
s'erano disunite, gli uomini rimescolati nella
massa si abbandonarono al flusso da cui
erano ghermiti e travolti.
Scene selvagge e fulminee si svolgevano
sotto gli occhi dei fuggiaschi impotenti;
soldati russi armati di fucile mitragliatore si
avventavano su uomini isolati e li
sospingevano via o li uccidevano.
Essendo serrato fra le scomposte file
della colonna, durante una momentanea
sosta, Serri vide a pochi passi l'allampanata
figura del tenente Frati appoggiato alla
parete di un'isba; da Novo Postojalowka i
due non s'erano più incontrati. Ora il filosofo
teneva le braccia alzate e innanzi a lui la
sagoma di un partigiano russo gli puntava
sullo stomaco la canna del fucile
mitragliatore. Attorno al polso nudo
dell'ufficiale brillava alla luce della luna il
cinturino metallico dell'orologio: conquistato
dal luccicore il russo aveva levato una mano
verso l'irresistibile attrazione; esitò per un
istante essendo impedito dall'arma che
impugnava, con gesto risoluto strinse allora
il parabellum fra le ginocchia, si sfilò i guanti
e con entrambe le mani si affrettò nel
tentativo di sfilare l'orologio da quel polso
sempre alzato.
- Difenditi, Frati! - gridò Serri
divincolandosi invano nella calca tentando
d'accorrere; ma la sua voce si disperse nel
frastuono e la colonna si riavviò
sospingendolo; rigirandosi, il medico vide
l'infelice filosofo scomparire fra due isbe
preso a calci e spinto dal russo.
Ma neppure la colonna parve poter
trovare scampo, tempestata dai mortai
nemici e bloccata all'inizio della pista da
reparti e cannoni russi; soltanto dopo
qualche ora di combattimento la resistenza
venne superata e all'alba la marcia ebbe
inizio.
XXX
A poca distanza dall'abitato di Nikitowka
la testa della colonna dovette però arrestarsi
di nuovo, immobilizzata da un secondo
schieramento di blocco nemico;
contemporaneamente i reparti di coda
vennero assaltati ai fianchi e a tergo da forti
squadre di partigiani, che si diedero ad
isolare e catturare uomini.
- Fate presto ad avanzare, ci finiscono ad
uno ad uno, ci fanno prigionieri! - gridavano
in delirio verso la testa gli uomini di coda.
- Non si può sfondare, c'è un passaggio
obbligato, i russi hanno troppi cannoni!
- Questa è la fine... - mormoravano
rabbrividendo le migliaia di uomini inermi
inseriti nel corpo della colonna.
- Abbandonare la pista e buttarsi sulla
collina di sinistra, superarla a tutti i costi! -
comandò un ordine fremente.
Con uno sforzo inaudito, uomini e muli si
portarono a una salita a fianco della pista,
l'affrontarono sospingendo con la forza della
disperazione le slitte che i muli non
riuscivano più a far avanzare e che i feriti con
implorazioni strazianti pregavano di non
abbandonare.
Progredendo, cadendo, rantolando,
soffocando di fatica gli alpini riuscirono a
salire il colle aggirando il passaggio obbligato
e ponendosi, così, al coperto dal tiro delle
artiglierie; ma non da quello delle armi
automatiche, poiché i russi avevano nel
frattempo operato una conversione
mettendo di nuovo la colonna sotto il fuoco
delle mitragliatrici e dei parabellum.
Quando i primi reparti raggiunsero la
sommità del colle s'avvidero che sulla pista
che si estendeva alla base del versante
opposto i russi, arretrando anche i cannoni,
avevano costituito un nuovo sbarramento.
- Adesso giù a rotta di collo per il pendio
fino alla pista, o si sfonda d'urto o si crepa
sul posto! - fu l'ordine pazzesco.
Ed allora, invasati da una furia cieca,
migliaia d'uomini in massa si slanciarono a
capofitto giù per il ripido pendio nevoso, i
conducenti aizzarono i muli che si gettarono
al galoppo dapprima seguiti e poi sospinti da
centinaia di slitte che, avendo preso l'abbrivo
ruinavano al basso trascinando verso i
cannoni russi i feriti e i congelati urlanti
sotto il legame delle coperte. La inerme
massa d'uomini e di bestie precipitò
scatenata in una carica folle, galoppò
ansando e mugghiando incontro ai cannoni,
incurante delle granate che dai pezzi russi le
saettavano incontro; li investì, li rovesciò
travolgendoli, e passò oltre.
A portare più in là, verso il fantomatico
ovest il proprio disperato patire.
- Ugo - disse Serri quando più tardi poté
rintracciare il capitano nella confusione della
marcia subito ripresa - una nostra slitta è
stata colpita in pieno da una granata mentre
scendevamo il colle, è saltata per aria e i
quattro feriti che portava sono morti.
- Sì, lo so - rispose con strana tranquillità
Reitani; - è morto anche il conducente?
- Sì.
- Abbiamo perduto anche i due muli e la
slitta. A uno a uno ce ne andiamo tutti, tutti
Italo, divorati da questo inferno.
Il medico scrutò con un rapido sguardo il
volto del capitano.
- Hai perduto anche l'ultima speranza,
Ugo? - domandò sommesso.
Reitani volse il viso verso l'amico, gli
passò una mano sotto il braccio, un sorriso
triste varcò il pelame della ormai lunga barba
e non giunse nemmeno a sfiorare la
malinconia degli occhi.
- No, Italo - rispose pacatamente; - ma il
dover assistere a questa agonia della ventisei
senza poter fare nulla mi schianta il cuore.
Oh, non penso a me... Personalmente non ho
esitazioni, da tempo ho già definito i miei
casi. Sono un soldato, mi arrenderò soltanto
alla morte, non prima.
Accetto qualunque destino, meno quello
di cadere vivo in mano ai russi.
Nella rivoltella ho ancora una pallottola,
la tengo per me.
- Me la presti? - disse il medico
sforzandosi disperatamente di spremere
dalla gola serrata un tono leggiero; - te la
restituirò in Italia... Non devi portare alla tua
mamma i fiammiferi di Novo Kalitwa? Li hai
ancora?
- Sì - sorrise Reitani.
La colonna camminò per il resto del
giorno senza imbattersi nel nemico; nel
pomeriggio, raggiunto un ampio costone che
scendeva a un grosso paese s'arrestò;
dall'abitato giungevano raffiche di
mitragliatrici e colpi di cannoni.
- Siamo a Nikolajewka - corse voce; - il
paese è pieno di soldati russi, il Tirano e il
Vestone l'hanno attaccato da ore. Sta
arrivando l'Edolo, ha avuto forti perdite ad
Arnautovo.
Più tardi passò un ordine lungo la
colonna:
- Fare largo lasciar passare in testa
l'Edolo e il Valcamonica, è questione di vita
o di morte per tutti.
Con gli artiglieri del Valcamonica, al
comando del maggiore Dante Belotti
giunsero gli alpini della «50» e della «51»
dell'Edolo: in combattimento, arcangeli
indemoniati.
La Tridentina attaccò, le compagnie
d'alpini si slanciarono contro le linee di
resistenza russe, vennero respinte e
riattaccarono più volte; ma i russi
resistevano accanitamente, con
innumerevoli armi contrastavano il passo.
Giunsero improvvisi a bassa quota aerei
nemici da caccia e da bombardamento;
sorvolarono a più riprese la colonna
sganciando bombe, mitragliando nel folto e
seminando la morte fra gli uomini immobili
sulla neve. Stava morendo anche il giorno,
avanzava minaccioso il gelo notturno.
- Se non si conquista il paese, qui per
bene che vada moriremo di freddo - dicevano
le voci lungo la colonna che sulla neve si
stagliava a perdita d'occhio.
Il nemico attestato a Nikolajewka
dimostrava di poter rintuzzare agevolmente i
tentativi italiani di sfondamento rivelando la
potenza del suo massiccio complesso di
forze: i reparti della Tridentina si trovavano
il passo sbarrato da contingenti russi che
superavano l'organico di due divisioni; fu
facile individuare la presenza di oltre trenta
bocche da fuoco che vomitavano proiettili
contro gli attaccanti e la colonna.
I tre pezzi tedeschi che avevano aperto il
fuoco per sostenere l'attacco italiano, dopo le
prime salve avevano taciuto; alle
interrogazioni dei soldati vicini gli artiglieri
germanici allargarono le braccia e
scuoterono rabbiosamente la testa
imprecando, perché avevano esaurito con
quei pochi colpi le ultime munizioni. Contro
i trenta cannoni nemici la colonna poteva
opporre solamente quattro piccoli pezzi da
montagna che il Gruppo Valcamonica della
Tridentina era riuscito a conservare, assieme
a una esigua scorta di munizioni; oltre a ciò,
al valore individuale degli uomini della
Tridentina e a poche mitragliatrici era
affidata oramai la sorte delle decine di
migliaia di inermi che formavano la colonna.
Dall'alto dell'ampio costone che
s'affacciava sulla sottostante conca di
Nikolajewka, l'immenso ammasso di soldati
disarmati ed impotenti seguiva col cuore in
gola le vicende dell'azione che gli alpini della
Tridentina andavano sviluppando, nel
tentativo di superare il terrapieno della
ferrovia che separava la conca dal paese. I
quarti d'ora si succedevano rapidamente, i
superstiti dei battaglioni della Tridentina
operavano allo scoperto avanzando a
successivi sbalzi, intervallati da soste
durante le quali gli uomini si appiattivano
nella neve impediti a procedere dal tiro
rapido delle armi nemiche; si rivelava allora
più chiaramente l'impossibilità di
raggiungere l'unico risultato utile: sgominare
i russi e conquistare il paese.
Tuttavia, quei decimati battaglioni della
Tridentina che marciando costantemente in
testa alla colonna avevano sostenuto i più
aspri e frequenti combattimenti, con uno
sforzo supremo riuscirono a superare in
qualche punto il terrapieno e si portarono a
contatto ravvicinato col nemico: già
combattevano nei pressi della stazione
ferroviaria, si attestavano nelle prime isbe
del paese, facevano riaccender la speranza
negli animi di quanti sul costone venivano
cannoneggiati dai russi; fremiti di speranza
s'alternavano a spasimi di delusione
riflettendo le alterne vicende della lotta, alla
quale i feriti e i disarmati assistevano come
da un osservatorio.
Era passata un'ora, una seconda.
La Tridentina insisteva negli attacchi e i
russi non mollavano, già certi della grossa
preda; la situazione diventava insostenibile, i
soldati fermi presso le slitte tremavano
sentendo l'orribile freddo che distendeva sui
volti le sue gelide bave.
- Avanti! - incitava Scudrèra, urlando al
vento.
- Andiamo tutti all'assalto e tanti saluti,
sarà quel che sarà! - gridava il furiere Clerici.
- Bisogna sfondare ad ogni costo!
- ripeteva il sottotenente Ferrieri.
- Tanto, qui si muore tutti ugualmente -
gridavano i soldati esausti di fame e di
freddo.
- La Tridentina ha progredito in qualche
punto - comunicò una voce eccitata risalendo
a ritroso la colonna; - incontra molta
resistenza presso la ferrovia e la chiesa, fra
poco sferrerà l'attacco decisivo: tenersi
pronti a buttarsi avanti per sfruttare il primo
successo.
Poco dopo infatti, nell'ultima luce del
giorno, con uno sforzo supremo le forze
ancor valide della Tridentina si gettarono
all'attacco con alla testa il battaglione Tirano,
travolsero d'impeto alcuni centri di
resistenza nemica, già l'esultanza si
diffondeva nelle schiere impotenti e ferme
intorno alle slitte; ma un urlo di raccapriccio
si levò dalla marea di disarmati in attesa sul
costone quando, bruciata ogni energia nello
slancio dell'assalto e sopraffatti dal fuoco
nemico, gli attaccanti tentennarono sulle
posizioni conquistate e non reggendo al
contrattacco russo presero a ripiegare verso
le slitte; nell'assalto erano morti il generale
Martinat e quaranta ufficiali.
Alla vista dei dimezzati battaglioni alpini
retrocedenti, la tragedia ultima si delineò con
definitiva chiarezza fra la massa degli uomini
in attesa: incalzando le ultime forze italiane
sbaragliate, i russi le avrebbero respinte fino
a ridosso delle slitte, e infierendo nel
dolorante corpo della colonna avrebbero
concluso con una carneficina l'ultima fase
del combattimento. Innanzi a Nikolajewka,
pervenendo dal calvario lungo il quale s'era
trascinata, la sanguinante colonna nella luce
di quel tramonto vedeva ormai innalzarsi
un'unica croce e spalancarsi una sola fossa;
innanzi a Nikolajewka Iddio parve in quella
sera aver posto sulla neve il dito gigantesco,
a indicare il termine all'inaudita tortura.
Ma altro si rivelò, in quell'ora, il disegno
eterno.
Un uomo, un solo uomo sommò
nell'animo la disperata angoscia di tutti,
vedendo i suoi alpini retrocedere
combattendo sulla neve; i suoi alpini, poiché
egli era il generale Reverberi comandante la
Tridentina; e dalla somma di dolore gli
scaturì dall'anima un gesto ed un grido.
Fu una cosa semplice, ma condotta a
cavalcioni della morte.
Esisteva ancora un rugginoso carro
blindato germanico in grado di rotolare i suoi
cingoli sulla neve grazie a pochi litri di
carburante residuo; su quello il generale si
slanciò, salì ritto sul tetto, diede un secco
ordine al guidatore, il carro si mosse
avanzando verso i battaglioni in
ripiegamento e verso il nemico.
- Tridentina...! Tridentina avanti...! -
gridò con forza selvaggia il generale
Reverberi dall'alto del carro in movimento,
indicando col braccio puntato Nikolajewka.
Non fu lasciato avanzare solo: i suoi
alpini, riserva disarmata, si gettarono avanti
seguendo il carro; generale e soldati
raggiunsero i battaglioni che, elettrizzati,
fecero massa compatta: il carro sopravanzò
trascinando seco il cuore e l'ansito dell'intera
divisione; quell'uomo ritto sul tetto metallico
non cadde, non fu trapassato, Iddio lo lasciò
in piedi, gli consentì di guidare gli alpini fin
sulle difese nemiche, di travolgerle in uno
slancio furibondo, di rovesciare i cannoni
fumanti, di porre in fuga i russi
conquistando Nikolajewka e aprendo il varco
entro cui dal costone, come richiamata dalle
soglie della morte, irruppe la marea d'uomini
dilagando nel paese.
Come tutti gli altri, ancora ansanti per la
corsa, gli uomini della ventisei si rintanarono
nelle isbe devastate dal combattimento,
s'accoccolarono sui pianciti gelidi mentre il
vento soffiava penetrando dalle finestre
divelte. Tuttavia erano al riparo, riposavano
le membra che parevano sciogliersi nella
stanchezza. Anche per quel giorno, se non
intervenivano complicazioni, la morte
sembrava evitata.
Ma i soldati erano nervosi, irascibili, i
nervi minacciavano di non tenere più, le
parole aspre e intrattenibili che sfuggivano
dalle labbra non corrispondevano ai veri
sentimenti del cuore.
- Quando finirà questa sonata?
- mormorò rabbrividendo di freddo Pilòn
rannicchiato sulla terra accanto a Scudrèra.
- Oggi, pareva - brontolò di malumore il
conducente battendo i denti; - domani
vedremo. Intanto dormi, cretino. O hai
bisogno che ti canti la ninna-nanna?
- Prova, cretino che sei tu; non ci riesci, si
vede benissimo che non hai più fiato in
corpo.
- Io? - grugnì Scudrèra masticando
rabbia; - te ne approfitti perché ho le mani
gelate, vigliacco.
E per protesta si rigirò e poggiò di
prepotenza il capo irsuto sulla pancia di
Pilòn come se questa fosse un suo cuscino, e
s'addormentò di colpo.
Pilòn tacque, richiuse gli occhi; ad ogni
respiro che traeva, sentiva quel testone che
sulla pancia gli andava su e giù. Provò a
respirare più adagio e più lieve, perché era
un peccato svegliare il povero vecchio amico,
quell'orso furioso dalle mani diventate verdi.
Scherzava o faceva sul serio, poi, il
tenente Serri, a dire che gliele dovevano
tagliare?
Non si capiva più niente di preciso, in
batteria, da un po' di tempo.
Si capivano soltanto due cose: si restava
sempre più in pochi, ed era una vita da cani
idrofobi.
XXXI
Gelati e assonnati, gli uomini della
ventisei prima dell'alba si rimisero in
cammino. Era il ventisette gennaio. Fuori dal
paese i russi avevano predisposto il consueto
sbarramento che con il collaudato sistema
d'urto venne superato. Ad ogni scontro però
calava il numero di coloro che riprendevano
la marcia.
- Come va il braccio, Clerici? - domandò
Serri al furiere ferito che camminava
tenendo l'arto infilato tra i bottoni del
cappotto.
- Non c'è male, signor tenente. Si è
gonfiato, ma non mi dà molto dolore; si può
resistere.
- Te la caverai, sono sicuro, la pallottola è
già uscita - disse il medico rincuorando il
ferito che sorrideva fiducioso. - Che forza ha
la batteria questa mattina? Hai fatto i
calcoli?
- Sì, l'altra notte a Nikitowka abbiamo
avuto sette morti e due feriti, Foresti ed io;
ieri è saltata in aria una slitta sulla discesa,
cinque morti; ancora, ieri un uomo è rimasto
indietro, non abbiamo notizie. Questa
mattina in batteria sono presenti diciannove
uomini validi compresi gli ufficiali,
trentasette tra feriti e congelati trainati su
slitta e ventisei che vanno a piedi; ottantadue
presenti in totale. In più, ventisei muli che
tirano dieci slitte.
- Bisogna badare ai muli - disse Scudrèra
che aveva sentito; - crepano.
- Cosa dici? - domandò Serri allarmato,
conoscendo l'infallibile esperienza del
conducente; - bisogna che vivano a tutti i
costi, devono portare in salvo i feriti.
- Lo so, signor tenente - rispose Scudrèra;
- ma al mulo bisogna dàrghe la vita, se
occorre; i miei tre, no i crepa de sicuro,
garantìsso mi.
Ma bisogna curarli. Non si può buttarsi a
dormire se non sono al riparo, se non si è
trovata la paglia e si è fatta sgelare l'acqua
per loro. E si può anche stare svegli tutta la
notte a far fuoco perché si riscaldino, se c'è
bisogno. Invece c'è chi dorme, e i muli
crepano. Vedrete che sorprese, tra poco.
Quando fu giorno due apparecchi russi
sorvolarono la colonna.
- Maledetti! - gridavano i soldati agitando
i pugni. Da tempo avevano compreso le linee
del semplice giuoco russo: all'alba gli aerei
nemici venivano a rilevare la direttrice di
marcia della colonna, più tardi giungevano le
squadriglie a mitragliare e bombardare. Le
schiere in ripiegamento tentavano di
occultarsi e far perdere le tracce di sé
durante ogni notte; ma, attraverso i rilievi
fatti ad ogni nuova alba dagli aeroplani, i
russi erano in grado di predisporre
agevolmente i movimenti delle proprie
truppe, apprestando il quotidiano
sbarramento dovunque la colonna avesse
deciso d'andare.
I reparti russi potevano spostarsi
velocemente viaggiando negli autocarri sulle
piste gelate, con i carri armati, le autoblindo,
i cannoni semoventi e tutte le armi e i
rifornimenti al seguito; avendo in pugno
l'iniziativa e la forza, predisponevano a
piacimento gli attacchi e le tregue; in un'ora
di viaggio sulle piste sopravanzavano la
colonna annullando il vantaggio che questa
s'era conquistato in venti ore di ininterrotta
marcia, passo per passo sulla vergine neve
della steppa.
In tali condizioni, era un giuoco per i
russi schierarsi ogni giorno in attesa della
testa della colonna faticosamente incedente,
bloccarla in un ampio arco di sbarramento,
impegnarla ed attaccarla ai fianchi,
nell'intento di annientare ciò che il gelo, la
fatica disumana e i combattimenti precedenti
non avevano ancora distrutto.
Gravava perciò sui marciatori la certezza
d'essere di continuo osservati, preceduti e
seguiti: ogni ventiquattro ore un nuovo
cerchio si serrava di sorpresa intorno alla
colonna, ogni giornata richiedeva la sua lotta
mortale.
Nell'ultimo tempo la resistenza nemica
s'era fatta più accanita, multiforme, alle
truppe regolari russe s'erano aggiunti i
partigiani.
- Questo è l'undicesimo giorno di ritirata,
Italo - disse Reitani affiancandosi a Serri; -
cosa ne pensi?
- Penso alla scatoletta e alle due gallette
avute undici giorni fa e non mi spiego come
abbiamo potuto resistere fino ad ora con
qualche rapa gelata e qualche scorza marcia
messa in corpo. Osservi i soldati? Sono un
miracolo. Siamo ridotti in condizioni
spaventose, ma tuttavia camminiamo.
- Quanto credi che l'organismo possa
resistere ancora? - domandò Reitani.
- Non ti so dire; mancando il cibo e il
sonno e vivendo in questo clima, avrei
escluso di poter resistere una mezza
settimana. Sta finendo invece la seconda,
non so più cosa pensare.
Sulla slitta di Pilòn c'è Foresti che da due
giorni ha il torace trapassato da parte a parte,
sputa sangue, dice che si sente abbastanza
bene e che non ha bisogno di niente; cosa
vuoi che aggiunga, io? E tu, cosa dici?
Riusciremo a giungere al traguardo? C'è
possibilità di congiungerci all'Armata?
- Non esiste alcun segno che ci autorizzi a
sperarlo - ammise il capitano. - Abbiamo già
percorso circa trecento chilometri verso
ovest e non abbiamo trovato traccia di nuove
linee, non si capisce più nulla. Non si è visto
un aereo nostro, un minimo segno d'essere
ricercati, d'avere qualcuno che supponga che
siamo ancora vivi.
C'è l'impressione che ci abbiano dato per
morti ormai, che abbiano messo un
coperchio sulla nostra tomba. Se è così,
siamo davvero sepolti senza ancora saperlo.
- Il Comando della colonna ha notizie di
quelli che sono rimasti indietro? - domandò
Serri. - Non mi do pace pensando a
Perbellini, a Brogli, a tutti gli altri.
- A parte quelli che vediamo morti sulla
neve, si pensa che la maggior parte degli altri
si affianchi ai reparti rimasti indietro. Gruppi
d'uomini camminano a decine di chilometri
dietro di noi fermandosi nei paesi a riposare
senza più fretta. Abbiamo visto che le
popolazioni sono d'animo generoso; per di
più la colonna è tallonata continuamente da
reparti russi, con i quali i nostri uomini privi
di armi non possono impegnare
combattimento neppure volendo; perciò
devono venire fatti prigionieri senza
complicazioni. Sotto questo aspetto, hanno
maggiori probabilità di salvezza di quante ne
abbiamo noi. Ma sarà bene risparmiare il
fiato - concluse - dovremo camminare fino a
notte. A quanto ho sentito dal colonnello
Verdotti, la marcia si preannuncia durissima,
andremo avanti fino all'esaurimento delle
forze per distanziarci il più possibile da
Nikolajewka.
La colonna procedeva fuori pista, la neve
fonda della steppa imponeva il consueto
sforzo. Essendo rotta dai reparti precedenti
la crosta gelata, a ogni passo il piede
affondava nella neve polverosa, la fatica
dell'incedere era sfibrante.
Verso le nove altri aerei russi passarono a
più riprese mitragliando, i morti rimanevano
sulla neve, i feriti si trascinavano avanti
perdendo sangue, sui muli colpiti e ancora
vivi piombavano con le baionette snudate i
soldati più vicini, si rialzavano poco dopo e
riprendevano a camminare portando grandi
brani di carne sulle spalle. Ma per quanto
fosse allettante il pensiero della carne
arrostita alla prima sosta, ai portatori era
impossibile reggere il nuovo peso per lungo
tempo, imprecando per la fatica inutilmente
compiuta si soffermavano ancora,
rassegnandosi ad accontentarsi di un piccolo
ritaglio di scarso peso; quando il coltello
tornava all'opera non riusciva ad incidere la
carne pietrificata che rimaneva allora
abbandonata sulla neve a servire da rossa
ingannevole esca ad altri affamati.
La giornata era gelida ma serena, il vento
non si era ancora levato, non esisteva alcun
segno di prossimo pericolo e tuttavia un
nervosismo preoccupante serpeggiava nella
colonna. Non senza deleterie conseguenze
decine di migliaia di uomini privi di ogni
mezzo di vita si accanivano a camminare da
undici giorni fra combattimenti e dolori nel
vetrato gelo della steppa; molti erano caduti
o s'erano attardati, ma chi ancora reggeva
allo sforzo ne portava i segni evidenti: torme
ubriache e non più soldati parevano i
marciatori, fantocci macabri che
perpetuavano una loro follia trascinando con
sé quelle slitte gocciolanti marciume e orine
di feriti; gli stessi muli, ridotti a scheletri
rivestiti di un mantello di ghiaccio,
contribuivano a completare con la loro
presenza il terrificante quadro di una
raminga, disperata pazzia.
I nervi degli uomini erano in cedimento,
minacciavano di spezzarsi ancor prima dei
muscoli; terribile era il logorio causato da
quella perpetua costrizione a camminare
senza requie.
Già dal primo risveglio nelle buie ore
della notte gli uomini vivevano nell'incubo
della marcia imminente, provavano lo
sgomento di porsi in cammino nel gelo
sapendo di dover procedere per venti,
ventidue ore fino ad ingolfarsi, ancora
marciando, nella nuova notte.
Nelle multiformi e disgregate schiere
d'italiani, tedeschi, ungheresi e romeni si
vedevano quindi procedere spettri d'uomini
che soltanto una volontà inferocita poteva
ancora sospingere innanzi: curvi, zoppicanti,
saltellanti, gravitanti su grucce improvvisate,
rosi dalla febbre e dai pidocchi, con le piaghe
rosseggianti tra le bende gialle di pus; lividi
in volto o cadaverici, boccheggianti, affamati
come lupi randagi, s'ostinavano a tenere il
passo della colonna, bestemmiavano o
pregavano emettendo dalle narici e dalle
labbra spaccate un'unica bava sanguigna che
scendeva ad accumularsi e raggelarsi sulle
barbe e sugli abiti.
Ma non esisteva pietà per quegli spettri,
per essi valeva soltanto la condanna di dover
marciare ad ogni modo e non perdere un
passo. Tutto dovevano fare marciando,
inesorabilmente: vivere e patire, piangere e
respirare, levarsi le croste dalle ferite che
s'appiccicavano ai panni e togliersi le dita che
staccandosi putride di cancrena scivolavano
sotto la pianta dei piedi impedendo il passo;
imprecare e supplicare, cogliere la neve per
placare l'arsura delle fauci e balzare a
impossessarsi di una coperta caduta da una
slitta, accudire ai loro bisogni corporali
moltiplicati dalla diarrea che infieriva tra le
schiere; e allora si vedevano quei tragici
pezzenti, assaltati da improvvisi crampi,
frugare tra i cenci che li rivestivano con mani
rattrappite e rese inette dal congelamento,
slacciare rabbiosamente gli indumenti,
abbassare pantaloni e mutande, accucciarsi a
metà, e tuttavia procedere oscenamente a
tentoni e a gambe larghe per non attardarsi
di un passo, d'un solo minuto, mentre
perdevano e lasciavano dietro di sé, sulla
neve, chiazze e strisce di liquame
sanguinolento.
Tutto ciò era trascurabile particolare nella
vita della colonna, che aveva altri problemi
collettivi da risolvere: la sopravvivenza, il
nemico, l'itinerario, l'ovest.
- Sento un aereo! - gridò verso le undici il
capo-pezzo Bartolan.
Infatti la parte di colonna che precedeva
stava arrestandosi, come accadeva al
passaggio degli aerei bassi.
- Giù tutti! - gridò Reitani.
Non si scorgeva ancora l'aeroplano ma se
ne udiva il rombo, sormontato a tratti dalle
raffiche delle mitragliatrici di bordo.
- Signor tenente - disse in fretta a Serri il
furiere Clerici, che si era sdraiato sulla neve
ponendo la testa al riparo dietro il bordo
posteriore della slitta di Scudrèra - venite
qui, per uno c'è ancora posto.
- No, grazie, ho da fare - rispose Serri che
a lato della slitta approfittava della sosta
imprevista per riassestare le fasciature alle
mani di Scudrèra.
A quel punto l'aeroplano si profilò e
subito passò rombante a una decina di metri
sopra la colonna; sgranava in continuazione
le sue pallottole, disparve in pochi secondi.
- Eccoci serviti anche per questa volta -
disse Scudrèra scrutando il cielo; - mi
rovesciano il sangue ai muli, quei bastardi di
aviatori. Bella roba sparare su chi tiene
stretta l'anima coi denti! E dicono che questi
aerei russi sono pilotati da donne!
Vorrei averne io una fra le mani...
- Cosa ne faresti? - domandò Serri
divertito.
- Oh, niente... Ecco, me contentarìa de
dàrghe da tener le redini de la slitta par una
mésa giornata, e dìrghe ogni tanto: «ti piace
la guerra fatta al posto di conducente di
mulo?
Dimmelo francamente, tu che ti divertivi
a fare la conducente di aeroplani! Hai capito
la differenza, adesso, carogna?» e le darìa
magari qualche pissegòto nel da drìo, se sa,
par farla caminàre più in fréta. Cosa ne dici,
Clerici? Cosa le faresti invece ti, che te ga
studià?
Siccome il caporale Clerici non
rispondeva e il conducente e il medico
s'accorsero che stava ancora sdraiato sulla
neve, si portarono entrambi dietro la slitta e
Scudrèra toccò il giacente con un piede
avvolto di stracci e disse col suo tono di
stravagante allegria:
- Sveglia, furiere! Fra poco se parte, e a
ciuciàr neve vién el mal de pànsa!
- Fermo! - esclamò Serri chinandosi sul
furiere e spostando il piede di Scudrèra che
insisteva nello spingere rudemente il corpo
dell'amico.
Poiché vide che l'uomo prono teneva gli
occhi chiusi, il medico si tolse in fretta un
guanto e infilò la mano sotto il bavero del
cappotto di Clerici, fra camicia e collo: la
pelle era tiepida; s'accorse allora che il
cappotto presentava nel mezzo un minimo
strappo, un forellino entro cui avrebbe
potuto passare un chicco di granoturco. Il
medico insinuò con ansia le dita lungo la
schiena di Clerici scorrendo sulle vertebre,
un polpastrello si soffermò ad un tratto
avvertendo un'ineguale piccola depressione
e, nel centro di questa, un foro nella pelle
che non perdeva - lo constatò ritraendo la
mano - una goccia di sangue.
Però Clerici era morto. Anche Clerici era
morto, aveva finito d'essere il furiere della
ventisei, ora era un cadavere al quale
bisognava togliere subito il diario di batteria
che non doveva andare perduto come colui
che in vita l'aveva tenuto aggiornato. Altre
mani, ormai, avrebbero contrassegnato il suo
nome tracciando una piccola croce accanto, e
la data; e ciò sarebbe stato tutto per Clerici,
esequie funerale e sepoltura; l'unica croce
per lui sarebbe stata quella segnata a matita
sul diario, poiché egli era un alpino della
Julia in ritirata sulla neve di Russia; e questa
era la sorte.
- Una pallottola in pieno midollo spinale -
disse il medico a Reitani accorso: - è rimasto
fulminato.
- Pissegòti? Pissegòti nel da drìo? - urlò
disperatamente con tutto il fiato dei suoi
polmoni Scudrèra, guardando il cielo e
agitando sopra la testa le mani avvolte negli
stracci colorati. - Una bomba nel centro
dell'anima, a quéle asasìne!
- Cos'ha Scudrèra? - domandò a Pilòn il
puntatore Foresti allungando il collo
dall'ultima slitta.
- Dev'essere arrabbiato per Clerici,
poveretto - gli rispose il conducente Pilòn
afferrando l'estremità delle briglie dalla
groppa del mulo; - sai che quando qualcosa
gli va per traverso parla come un matto.
Guarda che si riparte - aggiunse poi vedendo
muoversi le slitte precedenti; e fece il verso
ai suoi muli.
Sul mezzogiorno il tempo cambiò, sulla
steppa si levò il dannato vento, gli uomini e
le bestie rallentarono l'andatura. La neve
aveva acquistato una tinta cinerina, le folate
la sollevavano come polvere appiccicandola
ai pastrani, ai passamontagna e al mantello
dei muli. I soldati rabbrividivano sotto le
sferzate fischianti, lacrimavano, dai nasi
cominciava a colare il solito umore mucoso
che scendeva filante sui baffi, sulla barba e
raggiungeva il cappotto ingrossandosi a poco
a poco e formando quegli insopportabili
pendagli di ghiaccio. I piedi parevano
sbriciolarsi per una loro dolorosissima
fragilità, le mani gelide non servivano più
neppure per abbottonare un bottone,
irrigidite dal freddo.
La colonna non camminava su pista; non
c'era quindi speranza d'incontrare qualche
isba per ripararsi se il freddo fosse diventato
intollerabile o le gambe avessero rifiutato di
procedere.
Un senso di nervoso malessere
opprimeva tutti, poiché da varie ore in
ciascuno s'andava rafforzando la sensazione
che il corpo, dopo un infinito tempo di marce
e di privazioni fosse giunto al definitivo
stremo delle forze. Un presagio orribile
nasceva dall'intimo delle fibre esauste,
parlava nella carne; l'animo sgomento
fremeva inorridendo, si ritraeva impaurito
dal palese richiamo della morte.
- Forza, Sorgato! - gridò Pilòn
all'attendente che incespicava spesso.
- Se el xe tornà a casa da la ritirata de
Russia ànca Napoleòn, picolèto e col mal de
pànsa, no te vol arrivàr ti, bestiòn?
Il vento soffiò più crudelmente, la steppa
parve ribollire nel turbine, un soldato
s'abbatté, i successivi lo incontravano e lo
scansavano lasciandolo morire. Cominciò
ancora una volta lo stillicidio dei corpi
prostrati sulla neve. La steppa, ammantata di
bianco e di vento, opponeva tutta la crudeltà
del suo inverno alla marcia degli uomini.
- Temo per i nostri feriti e congelati che
vanno a piedi - disse Serri a Reitani.
- Ho paura che oggi succederà un disastro
- rispose il capitano.
- Anch'io.
- Forse è la fame spaventosa che abbiamo
addosso.
Un mulo della terza slitta stramazzò nella
neve e non si mosse più.
- E uno! - brontolò Scudrèra.
- Alt! - ordinò Reitani alla breve colonna
della ventisei; oggi dobbiamo rimanere uniti
anche a costo di restare un po' in dietro.
Mentre alcuni artiglieri liberavano la
slitta dal mulo morto, il capitano
raccomandò agli ufficiali e ai due capi-pezzo
superstiti, Bartolan e Fraita, di non lasciare
nulla d'intentato affinché né un uomo né
una slitta s'attardassero restando isolati.
Dopo qualche minuto la ventisei ripartì
tentando di raggiungere il Gruppo che si era
avvantaggiato di qualche centinaio di metri;
camminando, il piccolo reparto raggiungeva
e superava uomini isolati che avanzavano a
passo lentissimo, barcollando, trascinando
innanzi il corpo esausto con un ultimo sforzo
di volontà.
Nell'aria plumbea la neve sollevata dalle
folate vertiginava, le coperte che gli uomini
avevano posto sul capo e sulle spalle erano
bianche e grevi di ghiaccio.
La ventisei stava superando una slitta
carica di feriti, su questa Reitani e Serri
credettero di riconoscere il maggiore Amerri,
non più riveduto dal tempo di Jvanowka.
- Maggiore Amerri? - chiesero all'uomo
sdraiato.
Era lui, quasi irriconoscibile; aveva un
viso bruniccio, rinsecchito e raggrinzito come
una mela cotta al forno. Aprì gli occhi,
ravvisò i due ufficiali, sorrise stancamente;
allo stiramento del sorriso parve che la riarsa
buccia di mela si fosse spaccata.
- Ferito? - chiese Serri.
- Sì - rispose quello; - ho una coscia
aperta.
- Come va? - domandò Reitani.
- Morale alto - disse il maggiore; - ma
oggi vado crepando, con questo vento.
Ragazzi, se non rivedrò la mia famiglia, dite
che non l'ho dimenticata mai e che ho fatto
l'impossibile per restare vivo per lei.
Era così calmo e consapevole, che i due
ufficiali risposero gravemente di sì. Lo
perdettero subito di vista, incalzati dai muli
che sbruffavano alle loro spalle.
La ventisei raggiunse un erculeo soldato
che stava in ginocchio sulla neve. Dal suo
atteggiamento si capiva che non aveva la
forza d'alzarsi ma non s'arrendeva ancora a
lasciarsi cadere definitivamente. Gli uomini
dapprima lo guardarono incuriositi, poi lo
fissarono sgomenti; il sergente Bartolan si
distaccò dalle slitte seguito da Fraita ed
entrambi lo aiutarono a sollevarsi; l'uomo si
alzò, disse qualcosa senza fare un passo, fece
cenno ai due d'andare avanti e rimase fermo,
in piedi sulla neve, incapace a muoversi.
- Chi è quello? - domandò Reitani a
Bartolan quando il sergente raggiunse la
ventisei.
- Non l'avete riconosciuto? era l'uomo più
forte del reggimento; faceva il
«presentat'arm» per tre minuti tenendo la
bocca da fuoco del pezzo al posto del
moschetto; per questo i soldati si sono
spaventati, a vedere che non ha più forze
neppure lui - rispose Bartolan; - dice che
verrà avanti fra poco.
Il male della steppa dilagava fra gli
uomini della grande colonna; ora essi
camminavano con estrema lentezza, con
movimenti legnosi, spezzati. Molti
trascinavano i piedi senza più sollevarli dalla
neve, fermandosi a tratti, riprendendo poi a
vagolare come sonnambuli; quando si
soffermavano, sembravano statue di fango
gelido in attesa del soffio divino per
diventare uomini. Ed era allora, invece, che
iniziavano a morire.
Nel silenzio che dominava la colonna
s'udì all'improvviso uno sparo, poco dopo gli
artiglieri della ventisei raggiunsero un uomo
abbattuto sulla neve; stringeva una rivoltella
e gli usciva ancora a fiotti il sangue dalla
bocca; fuoriuscito dalle labbra, subito il
sangue veniva frenato dal gelo e fissato in
grumi sulla neve.
- Si è sparato - disse Fraita passando
oltre; tutti gli altri camminando guardavano
il suicida, inorriditi per quel modo di morire.
Nessuno fiatava.
Poco dopo, a brevi intervalli, si udirono
diversi altri spari; gli artiglieri tendevano gli
sguardi con preoccupazione, senza vedere
nulla; ma s'imbatterono poi nei cadaveri di
chi s'era sparato nella testa, nel petto, dove
gli consentiva la lunghezza dell'arma che
portava. Uno fra i morti aveva i gradi di
ufficiale.
La follia suicida contagiava gli uomini in
marcia.
Un mulo dell'ottava slitta cadde morto
sulla neve, la ventisei si fermò.
- Due - sogghignò Scudrèra.
- Di questo passo non ci resteranno muli
sufficienti a trainare le slitte - disse Reitani
nervosamente.
Un gruppo di sbandati si era gettato sul
mulo per asportare pezzi di carne prima che
la slitta fosse svincolata dalla carogna; gli
altri due muli attaccati allo stesso traino, alla
vista di quel sangue s'infuriarono, fu
necessario impegnare una violenta
colluttazione per allontanare gli sbandati,
che alla partenza della slitta si ributtarono
sulla preda come iene magre per fame.
Prepotenti fantasie iniziavano ad
affacciarsi nei cervelli, strani fluidi
cominciavano a passare lambendo la colonna
commisti alle folate del vento; l'impossibile e
l'assurdo s'insinuavano, come altre volte,
dinanzi ai piedi e agli occhi dei marciatori.
- Oh Dio, signor tenente - disse
l'infermiere Zoffoli con occhi stravolti,
aggrappandosi a una manica del cappotto di
Serri: un canto sguaiato e senza senso usciva
dalla bocca di un alpino che fuori dalle file
saltava a grandi balzi sulla neve minacciando
con un fucile spianato i compagni in marcia.
Uno ne uscì affrontandolo, l'alpino folle fece
fuoco con grande allegrezza e l'altro cadde
riverso sulla neve. Un secondo nel frattempo
era uscito dalla corrente, riuscì ad avvicinarsi
alle spalle del pazzo e da retro gli sparò una
rivolverata nella testa, correndo poi
faticosamente a raggiungere i compagni che
avevano proceduto di molti metri.
Il vento sibilava sulla colonna, questa
procedeva verso ovest.
- Ho fame, signor capitano - disse ad un
tratto Sorgato che si trascinava con immensa
fatica; - non vado più avanti... muoio di
fame...
- Coraggio, Sorgato! - esclamò Reitani; -
sai che non abbiamo viveri, non posso far
nulla. Ma tieni duro, pensa ai tuoi figli.
Vieni!
Il capitano e Serri si posero ai fianchi
dell'anziano artigliere, questi camminava
appoggiandosi alle loro braccia.
Qualcosa di non ancora provato e
spaventoso aleggiava da qualche tempo sulla
colonna. Un furore cieco serpeggiava negli
animi: era un inconsulto, infrenabile
desiderio di rivolta contro la natura e la vita;
un odio infinito faceva maledire quel
mostruoso regno di gelo e la forza vitale che
ancora costringeva a percorrerlo impedendo
di lasciarsi cadere sulla neve e farla finita con
l'inaccettabile patire. La morte stessa aveva
un suo richiamo tranquillante, tanto da
apparire gradevole e amica, poiché era
riposo; ma quando le ginocchia secondavano
quel pensiero e cominciavano a piegarsi
verso terra, un disperato tremito invadeva le
membra e costringeva a portarsi più in là,
dieci metri, un metro, un passo più in là.
Fu spaventoso quando uomini validi fino
a quel punto sentirono le forze fisiche
crollare mentre l'animo ancora anelava a
procedere: tutti camminavano contro il vento
dosando con angosciosa cautela le estreme
sfuggenti energie, quando quelli iniziarono a
piegare un ginocchio nella neve, poi l'altro,
poi curvavano la schiena, affondavano le
mani nella neve e tendevano la testa in
avanti, gli occhi fuori dalle orbite, protesi in
un immane sforzo disperato, simili a cani
rattenuti dalla catena; non parlavano,
soltanto guardavano con occhi sbarrati i
compagni procedenti, l'implacabile colonna
che avanzava; altri alla vista orrenda si
sentivano mancare, venivano anch'essi tirati
giù sulla neve, s'acquattavano a quattro
zampe fra i piedi dei marciatori che li
scansavano. Erano uomini, parevano bruti.
Trovavano forze, allora, per spingere avanti
un ginocchio, una mano, l'altro ginocchio,
avanzavano così nella neve per lunghi tratti,
fissando gli occhi sui piedi dei camminatori
per vedere se quel procedere carponi
consentiva un progresso apprezzabile, se
c'era speranza.
Ma a qualcuno già mancava forza per
stare chino nella positura bestiale, le braccia
non reggevano e cadeva prono, rimanendo
disteso e ansante sulla neve; richiamava
allora un residuo di forze e con quelle
strisciava ancora in avanti, lasciava un solco
dietro a sé procedendo come un rettile,
progrediva a sbalzi, a sussulti, a rantolanti
ansiti, con movenze non più umane.
Immobilizzato dall'abbandono delle forze
protendeva infine un braccio convulso, lo
levava dalla neve, stendeva le dita verso la
colonna come per aggrapparsi ad essa, per
farsi trascinare.
- Fratelli... - ansimava con voce fioca: -
Fratelli...
- Sono un uomo anch'io... non
lasciatemi... - singhiozzava.
La colonna procedeva, la sua corrente lo
sfiorava lasciandolo gemere sulla riva gelida;
poiché nessuno poteva reggere una soma di
dolore che non fosse la propria.
- Sono un cristiano come voi... non
abbandonatemi... per amor di Dio...
- rantolava quello.
Poi taceva, poiché anche il viso gli era
caduto nello spessore della neve. Oppure
rimaneva a lungo recline nel bianco, col
mento proteso e il braccio levato verso le
ginocchia degli altri; a poco a poco il gelo lo
induriva in quel gesto, lo fissava così, l'uomo
diveniva una forma immobile e tragica. Il
braccio gliel'avrebbe abbassato a suo tempo
il disgelo.
Il nevischio sibilava sulla colonna; questa
procedeva verso ovest.
- Non stai più dritto, eh? - gridò Scudrèra
volgendo lo sguardo al limite posteriore della
sua slitta: aveva scorto Sorgato che
appoggiandosi con le mani al basso bordo di
legno arrancava ricurvo e pareva cadere ad
ogni passo.
- Non ne posso più... - rantolò Sorgato.
Il conducente non gli rispose, continuò a
camminare a fianco dei suoi muli.
- Zoffoli! - disse ad un tratto scorgendo
l'infermiere che gli marciava vicino; - tienimi
le redini per un poco, sta' attento che non
tocchino la neve, se no le se giàssa e po' le se
rompe.
- Molli anche tu? - rispose all'imprevista
richiesta Zoffoli, allarmato ma canzonatorio;
si affrettò tuttavia a sfilare le redini dal collo
del conducente e a prendere la guida dei
muli.
- Tienti a mente quel che ti dico: tu sarai
per tutta la vita una bestia cornuta, ònta de
vaselìna - gli disse irosamente Scudrèra
offeso dalla domanda. Rallentò poi
lievemente il passo, la slitta gli passò innanzi
e il conducente si trovò all'altezza di Sorgato.
- Te te divèrti a star tacà al tranvài? -
chiese all'anziano, dopo aver percorso in
silenzio un centinaio di metri al suo fianco.
Aggiunse poi, cambiando tono: - Come la va
vècio?
Sorgàto girò lo sguardo verso il
conducente, lo guardò con occhi inespressivi
e abbassò il capo sul bordo della slitta senza
rispondere.
- Ohe'! Digo a ti! - gridò Scudrèra.
I due per un poco camminarono vicini in
completo silenzio. Sorgato ansava.
- Tu stai crepando - constatò ad un tratto
Scudrèra guardando con curiosità l'amico.
Non ottenendo risposta, si chiuse in uno
sdegnoso silenzio per qualche altro minuto.
- Senti - proruppe alfine: - ti devo
chiedere un piacere...
- A me...? - gli chiese Sorgato riuscendo a
far filtrare nello sguardo una espressione di
desolata ironia.
- A te, sì, cosa c'è di strano? - proseguì
Scudrèra bruscamente; - lo dico a te, perché
siamo fra le slitte e nessuno ci bada. Alzati
un poco, dammi retta.
Come Sorgato riuscì a camminargli ritto a
fianco, il conducente con un gomito tentò di
allontanare un bordo del cappotto e disse: -
Sai, ho deciso di farla finita col mio pezzo di
formaggio, ma con 'sti stracci sulle mani non
riesco a mettere le dita nella tasca della
giacca. Prendimelo fuori tu, è questo che ti
chiedo.
Sorgato tolse un guanto, infilò la mano
sotto il cappotto di Scudrèra, trasse la famosa
crosta e dilatò gli occhi nel veder comparire
un gran pezzo di formaggio; era annerito
dalla lunga permanenza nella tasca del
conducente, ma in compenso pesava forse
tre etti; mirabolante visione, per quei morti
di fame.
- Bravo - disse Scudrèra - adesso
màgnatelo ti, e tìrate su.
- Ma... - disse incredulo Sorgato, con
occhi in cui riluccicava la vita.
- Ma, che cosa? - urlò Scudrèra indignato;
- cosa credi, che sia scemo?
Che lo faccia per te, per la tua faccia da
ebete? O credi invece che mi sia dimenticato
de quei cinque rachìtichi che mi hai mostrato
a casa tua? Bell'affare go fàto, quéla volta, a
venirte a trovàre...! - E guardava con
adorazione e rispetto il formaggio.
- Ma tu... - mormorò Sorgato.
- Io... - disse Scudrèra rabbonito - mi a
casa go soltanto do' veci insemenìi, che non
so neppure se hanno ancora cervello che
basta a ricordarsi di me. E poi - concluse
orgogliosamente - vuoi confrontare le mie
forze con le tue? Sbrigati a mangiare,
piuttosto, se non vuoi crepare; se non lo
mangi subito, ti porto via il formaggio. Non
sono una monaca io, non faccio
complimenti: ti lascio crepare sulla neve io,
non me ne importa niente!
- Sì - disse l'altro, dando il primo morso.
Scudrèra, che guardava, deglutì
faticosamente.
- E pensare - brontolò fra i denti - che
avevo fatto anche la fatica di raschiare via la
crosta... Bel fesso, Dio Cristo!
Ma già aveva piantato Sorgato e allungava
il passo per raggiungere le sue bestie.
- Adesso dammi pure le redini - disse
bruscamente a Zoffoli; - e non pensare di
darti delle arie da conducente, sai, perché
resterai sempre un lurido infermiere che non
capisce niente di muli.
E si gettò sulle spalle le briglie fissandole
con due giri attorno al collo; un terzo giro lo
diede attorno al braccio fra gomito e polso,
alla sua balzana maniera.
- Arri Gigia - gridò allora - che te te scaldi
le rècie!!
Il tramonto tingeva in livido la via della
colonna; questa procedeva verso l'ovest.
La colonna, folle fuggente mostro
partorito dall'inverno e dalla steppa, non
udiva il lamento degli uomini ma solo la
sferzante voce del vento; perdeva membra
d'uomini lungo il cammino ma proseguiva
implacabile, frenetica, rimescolando razze e
dolori nel suo grembo ampio, devastato,
scoperto al vento, trascinando cadaveri nelle
slitte e disseminando uomini vivi nella neve,
insensibile agli ultimi richiami che ogni
caduto levava ai fratelli sordi e pazzi di gelo.
Anzi, quando stanchezza, fame e freddo
parevano essere sul punto d'arrestare il
flusso e impietrare l'intera colonna, i muli
sfiniti perdettero la forza di scansare gli
uomini che marciando cadevano nello spazio
fra una slitta e la successiva; allora l'uomo
abbattuto sentì sulla schiena il ferrato
zoccolo del mulo, sentì il metallo del pattino
e il peso della slitta schiantargli le costole, e
ne morì. Restava sul bianco, cencio informe
infarinato di neve; un'altra slitta, una terza
nel cieco procedere lo addentavano, lo
trascinavano, altri zoccoli lo calpestavano, lo
sfiguravano. Il cadavere a infinite riprese
rotolava, strisciava, veniva gettato a lato e là
rimaneva a gelare finché altre zampe lo
riagganciavano nel giuoco diabolico; omeri e
tibie gli si frantumavano sotto le lame delle
slitte, i marciatori ne percepivano impotenti
il sinistro crepitio: emergendo fra carni
stracci e neve parevano indicare, accusare,
maledire chiunque con sguardo inorridito o
attonito le vedeva affiorare, volgersi e
nuovamente sprofondare nella funerea
polvere di neve. Così il moto incessante della
colonna faceva proseguire orribilmente
anche ai cadaveri la marcia interrotta, come
la corrente del fiume fa sostare e ad un tratto
nuovamente riprende e trascina i relitti.
Agli occhi del sottotenente Serri
compariva e scompariva tratto tratto quel
primo cadavere greco contro cui aveva
cozzato due anni prima nell'acqua della
Vojussa, in Albania; tuttora egli stava
cozzando contro i cadaveri trascinati a
centinaia nei gorghi della colonna, e più che
mai si sentiva ridotto in polvere: polvere
sospinta da un destino folle e da un vento
infernale, commista forse per sempre alla
polvere di neve.
Gli uomini erano ciechi, muti, vivi
solamente per il proprio dolore: la vita aveva
principio e limite unicamente nel passo.
Contrastava il diritto di vita colui che
intralciava il cammino ai marciatori; e se i
due che si scontravano erano di nazione
diversa o se le slitte che si urtavano erano di
diverso esercito, allora più facilmente ne
nascevano violente, serrate lotte per
conquistare la precedenza. Conflitti di
mentalità e di razza esplodevano violenti su
quell'estremo margine di vita. Quando il
sottufficiale germanico per dar sollievo ai
cavalli e serbarli alla fatica del giorno
venturo faceva scendere dalla slitta i
commilitoni feriti obbligandoli a procedere
per un tratto a piedi, gli italiani si
slanciavano sulla slitta vuota.
- Raus! Raus! - gridava il conducente
tedesco; e non esitava a picchiare con la
frusta o col calcio del fucile sulle mani
aggrappate degli uomini pronti a salire.
Improperi, maledizioni, fucilate volavano
allora nell'aria.
Ad un momentaneo ingorgo nel transito,
accanto alla fila di slitte della ventisei sostava
uno sparuto gruppetto di esausti soldati
tedeschi. S'apprestavano già ad incamminarsi
nuovamente, quando l'ultimo della fila crollò
nella neve: era un fantaccino piccolo e
sfinito, respirava con grande stento
ansimando nel suo giubbetto bianco dal
quale spuntava il viso esangue. Il penultimo
della fila tento invano di rialzare il caduto,
gridò allora qualche parola facendo accorrere
il caporale. Entrambi rimisero in piedi
l'estenuato, ma quando lo lasciarono questi
si afflosciò nuovamente nella neve. A
guardarlo prono col volto nella coltre gelida
sarebbe parso svenuto o morto, se non fosse
stato per un lieve movimento di una mano
che ad un tratto accennò stancamente di no,
come volendo significare che no, non era più
possibile rialzarsi e proseguire.
A quel cenno il graduato si curvò sul
disteso, gli sollevò un braccio e lo lasciò: il
braccio ricadde inerte sulla neve, la polvere
bianca turbinando andava ricoprendo
rapidamente il corpo immobile. Il caporale
allora piegò un ginocchio, abbassò il volto
fino al capo del soldato e cominciò a parlargli
con voce sommessa, ma con grande rapidità
e fervore, stringendo affettuosamente fra le
proprie la mano rilassata.
Osservavano la scena vari artiglieri della
ventisei, fermi a pochi passi in attesa che le
slitte si riponessero in cammino. A qualche
metro da loro i fanti germanici che
costituivano la piccola fila guardavano con
volto indifferente e duro; il gelo aveva
plasmato per tutti un unico e non
modificabile volto marmoreo.
- Sono fratelli - spiegò uno dei tedeschi
agli italiani.
Erano due piccole figure su cui premeva il
destino, l'una inerte e perduta, l'altra
angosciata e fervida. Il nome della mamma
con frequenza ricorse sulle labbra
dell'inginocchiato, faceva tremare le palpebre
al disteso. Ma quando il graduato tacque e
scrutò fidente il viso bianco del fratello,
questi non mutò espressione; soltanto una
mano si mosse facendo leva sul polso, levò le
dita dalla neve e con breve e stanco cenno
significò: no.
Esasperato, il fratello rizzò le ginocchia
dalla neve, fissò con un lungo sguardo di
dolore l'uomo che non sapeva più vivere, i
suoi occhi ne contemplarono l'immagine
ultima, forse sentendo già nascere da questa
la rampogna che l'avrebbe poi per sempre
perseguitato, tornando solo; e forse per ciò i
presenti lo videro ergersi sul giacente e
contenere la disperazione in un
atteggiamento sempre più misurato, quasi
sdegnoso, ed infine trasformarsi nel più
freddo e impersonale graduato tedesco che si
potesse incontrare.
Ritto in piedi, reso inflessibile da una
nuova coscienza di sé puntò il braccio e il
dito contro il fratello e gli artiglieri allibiti lo
udirono gridare con imperiosa voce di
comando e rimprovero:
- Deutscher Soldat!
- Deutscher Soldat! - ripeté con più deciso
tono il fratello al fratello, il graduato al
gregario; e altre parole sonanti come squilli
s'opposero ai sibili del vento, passarono sul
giacente; gli artiglieri afferravano al volo il
significato delle più sonore e frustanti.
- Soldato tedesco! - comandava il
graduato puntando il dito verso l'uomo che
ansimava nella neve; - alzati!
Ma il fantaccino boccheggiava, impotente.
- Soldato tedesco! - scandì il graduato con
più vibrata concitazione - io ti comando, per
la grande Germania: Alzati!
Il soldatino con evidente sforzo aprì gli
occhi, li fissò sul fratello.
Ognuno dei presenti, secondo la propria
sensibilità, avvertiva che qualche cosa di
inusitato stava succedendo mentre sentiva
trascorrere nell'aria gelida le parole:
«Führer... Grosse Deutschland... Befehl...
Adolf Hitler...».
- Roba da pazzi! - mormorò Zoffoli
vedendo che il tedesco steso sulla neve aveva
ravvicinato le gambe e tentava di puntare le
ginocchia e i gomiti per sollevarsi.
- Alzati, soldato tedesco! - esclamò
un'ultima volta il graduato con vittoriosa
intonazione nella voce, quando vide che il
fratello già aveva posto un piede sulla neve e
si sforzava di rizzarsi. Con l'aiuto di un
commilitone allora lo sollevò, gli passò un
braccio attorno alla vita sostenendolo nei
primi passi. La piccola intatta squadra
riprese il cammino.
- Avete visto? - domandò sogghignando
uno sbandato; - uno non è neppure padrone
di morire in pace, gli gridano Heil Hitler e
quello salta su e si mette ancora a marciare...
- Ti figuri cosa direbbe un italiano -
interloquì ridendo un altro - se gli gridassero
nelle orecchie «viva Mussolini» o «viva il
re» anche quando è sul punto di crepare?
- Hitler o non Hitler, sono due uomini da
presentargli le armi, quei due disgraziati -
ammonì il conducente Pilòn seguendo
ancora collo sguardo i due fratelli che si
allontanavano faticosamente nel nevischio.
- Sono due bestie, invece - commentò lo
sbandato; - vanno avanti solo se sentono il
richiamo del padrone.
- Non ti auguro di cadere nella neve -
intervenne gravemente il sergente Bartolan -
e di non sentire allora nessun richiamo.
Ma già le voci e i commenti si spegnevano
per l'affannare nella fatica del ripreso
cammino. Quasi tutti ormai erano privi di
scarpe, gli stracci attorti ai piedi affondavano
nell'alto strato di neve polverosa, scivolavano
all'indietro ad ogni passo. Era calata la notte,
i marciatori procedevano alla cieca e ogni
poco percepivano sotto i piedi i corpi esanimi
dei compagni caduti ed ora resi anche
invisibili. Dalle slitte i feriti imploravano che
venissero tolte dal loro contatto le
agghiaccianti salme dei morti, ma non era
possibile accontentarli.
Nella progressione del patimento, ciò che
nei primi giorni era sembrato cagione di folli
pensieri si era ridotto ad una tetra
constatazione di fatto, macabra ormai
soltanto come presagio di nuove impensabili
torture.
Anche Serri dovette provvedere a far
togliere due cadaveri che nelle slitte
opprimevano i feriti; vennero scaricati e
deposti sulla neve vergine mentre altri feriti
costretti fino allora a camminare facevano
ansiosamente ressa attorno al medico.
- Io, io signor tenente! Avete visto ieri che
ho i calcagni in cancrena!
- Io ho perso tre dita del piede, lo sapete!
- Tocca a me, signor tenente, ho una
scheggia nella coscia!
- Io mi sento morire, ho le mani e i piedi
congelati... - imploravano, avendo come
estrema aspirazione quella di prendere sulla
slitta il posto del morto.
Serri valutava rapidamente la gravità
delle condizioni di ciascuno, sceglieva i due
che più d'ogni altro avevano diritto di salire
sulle slitte; ma dover dire: - «tu proseguirai
ancora a piedi» - a chi aveva innumerevoli
ragioni per trovare requie alla tortura del
cammino, causava al medico un disperante
raccapriccio.
Altri quattro muli della ventisei
caddero morti; i superstiti animali
condannati al traino minacciavano ad ogni
passo di stramazzare, i feriti rischiavano di
rimanere sulle slitte immobilizzate nel gelo
tremendo. Era così penetrante ed intima la
sensazione di freddo, da far sembrare che
anche le viscere e soprattutto i polmoni
fossero diventati di ghiaccio.
In molti camminatori, il pus ghiacciava a
fior delle cancrene, indurito e gialliccio fra il
verde e il blu dei tessuti già morti: mani,
nasi, testicoli, piedi, orecchie, sicché i
dannati trascinavano in marcia qualcosa del
proprio cadavere.
La tormenta s'abbatteva urlando,
scagliando nelle tenebre gli aculei dei
quarantacinque sotto zero sulla colonna;
questa procedeva verso ovest.
Nel fondo della notte le schiere si
avvicinarono a due fuochi che ardevano in
una valletta.
- Siamo arrivati... - sospiravano i
camminatori fremendo di desiderio; ma,
raggiunti i fuochi, s'avvidero che alcuni
soldati avevano scoperto tre pagliai e,
incapaci di compiere un passo di più, al
riparo dal vento avevano acceso la paglia e
bivaccavano all'aperto affrontando le
incognite della notte e della solitudine.
Dopo ancora una disperata ora di marcia
la brancolante colonna raggiunse alfine il
paese di Jvonka, si buttò al frenetico
arrembaggio delle isbe; con un'altra ora
d'affannose ricerche nel buio la ventisei
riuscì a trovare qualche casa semivuota, gli
uomini entrarono, piombarono a terra
annientati.
I corpi si ammassavano alla rinfusa sul
pavimento, abbandonati grado a grado da
ogni consapevolezza di vita, perfino dalla
stessa fame che sopiva il suo struggente
ululato arrendendosi allo strapotere del
sonno; cadevano senza scampo in un abisso
caliginoso.
Ma pure, quegli uomini che venendo da
una irripetibile via di dolore ad ogni notte si
prostravano temendo che al riposo seguisse
la morte, colmavano tuttavia il preludio al
sonno condensando in esso ancora un
anelito di speranza; giacevano immoti sul
terriccio delle isbe ma tra il groviglio dei
corpi passavano ancora fremiti di vita.
- Sei tu, Scudrèra? - mormorò
nell'oscurità Sorgato passando la mano su un
braccio smagrito ma ancora potente e solido.
- Sì, perché? - mugolò a fatica Scudrèra
che stava addormentandosi.
- Mi sono messo qui vicino a te perché... -
disse Sorgato imbarazzato.
- Lasciami dormire, piaga - brontolò il
conducente.
- Volevo dirti che tu sei... - riuscì a dire
Sorgato - che tu oggi mi hai... Che io oggi ho
potuto arrivare... Be', insomma, che tu mi
potrai chiedere sempre quello che vorrai e
io... Lo sapranno anche i miei figli, ecco.
- Non fare storie, piantala, noioso - disse
Scudrèra ormai sveglio - e non credere di
cavartela con quattro stupide parole: non
dubitare, io rivoglio indietro il mio
formaggio, verrò a prendermelo a casa tua
quando sarò in Italia, parola d'onore! E se
farai finta di non ricordati del debito, ti
butterò la casa per aria, come è vero Dio!
- Faremo una cena, Scudrèra... - sussurrò
con entusiasmo Sorgato stringendo il gomito
del conducente; - una cena come non si è
mai sentita dire nel mio paese, e neanche nel
tuo...
- Si capisce! - aggiunse con voluttà il
secondo affamato, già preso nell'incanto; -
poi tu verrai da me e ti farò vedere io cosa
vuol dire una cena a casa mia: una pagnotta e
un pollastro, una pagnotta e un coniglio, e
così via... E fiaschi de vin da tùte le parti, par
tùta la cusìna...
- Benon! - gongolò Sorgato sorridendo nel
buio; - mi me vojo cavar la voja de pasta
'suta: me fico a bagno-maria dentro un
pentolòn più grande de mi, pien de pasta
'suta, da restar fora solo con la testa: e un
bocòn de qua e un bocòn de la', vojo magnàr
fin che me la sugo tutta...!
E dopo qualche secondo di silenzio
aggiunse:
- Tutto sta a poter uscire da questa
sacca...
- Vedi che alla fine salta sempre fuori il
cretino? - sbottò Scudrèra già contrastato e
deluso; - non c'è gusto a parlare con te; sta'
zitto e lasciami dormire.
Entrambi rimasero in silenzio a inseguire
i propri sonnolenti pensieri, sottolineati dal
pertinace russare dei dormienti.
Sorgato poi mormorò: - Scudrèra, ti
volevo dire...
- Che cosa vuoi ancora?
- I miei figli... ti sono davvero sembrati
cinque rachitichi, come hai detto oggi?
Scudrèra raccolse nell'aria fredda il tono
dolente, rivide nel buio le cinque splendide
creature radunate attorno al grembiale
materno, e tacque.
Portò alla bocca lo straccio gelido che gli
avvolgeva una mano, poggiò le labbra sulla
tela e soffiò lentamente per far penetrare il
calore dell'alito; indugiava, cercando parole
che non tradissero la commozione del suo
cuore.
- Oh, sai, i xe rachitichi de sicuro... - disse
infine con studiata indifferenza - ... se li
metto a confronto con quelli che avrò io,
quando saremo in Italia e mi sposerò la
Pasquala. Per il resto, si può dire che i tuoi
figli sono normali su per giù.
L'anima di Sorgato si distese; per tutta la
sera, nonostante la delizia del formaggio, era
rimasto come aggrovigliato in quella cattiva
frase di Scudrèra. Ora si sentiva quasi felice,
restava soltanto un po' piccato per la burla.
- Pasquala Scudrèra... - suggerì allora
Sorgato, allargando con un'intonazione
ironica la rotonda sonorità del nome.
- Sì - confermò con orgoglio il
conducente, ben lontano dal poter
raccogliere, a quel richiamo, la provocazione;
- Pasquala Scudrèra.
E rivoltandosi sul pavimento si sentì
all'improvviso la voglia e la forza di
riattaccare i muli alla slitta e avventurarsi
solo coi suoi feriti nel gelo, a guadagnarsi un
passo un metro una nottata su quella
maledetta interminabile strada che fulgente
di speranze puntava verso l'ovest.
XXXII
Dopo cinque provvidenziali ore di sonno,
rovistate da cima a fondo le isbe per scovare
semi di girasole, rape gelate ed ogni genere di
rifiuti, allineate le slitte e allacciati gli stracci
ai piedi, alle prime luci del ventotto gennaio
gli uomini della ventisei ripresero il loro
posto nella colonna.
Alla mattina, al primo contatto, la neve
era ripugnante: al solo sentirla crosciare
sotto i piedi, a taluni provocava il vomito.
Prometteva patimenti per ogni istante della
giornata, era la complice prima degli
innumerevoli dolori che perseguitavano i
soldati da dodici giorni.
Per il primo tratto di cammino la neve era
dura, consistente, permetteva un passo
abbastanza redditizio; gli uomini
camminavano volentieri per vincere la
molestia del freddo; ma ben presto sotto
l'insulto dei piedi e degli zoccoli la neve
perdeva compattezza, si rimescolava,
diveniva polverosa e la colonna era costretta
a procedere fino a notte in un asciutto canale
dal fondo sdrucciolevole e infido, nel quale
gli uomini erano condannati ad avanzare per
l'abituale ventina d'ore ogni giorno. Quando
poi sopraggiungeva la tormenta, l'avversità
era tale che la colonna poteva procedere
soltanto di uno, di mezzo chilometro all'ora.
Stanchezza, fame, sete, freddo, sonno:
questi cinque elementi si componevano in
vario modo nel corpo di ogni uomo, e già i
primi chilometri di cammino richiedevano
una disperata tenacia per procedere sulla
steppa; poi si spalancava l'inferno entro
quell'orizzonte cancellato dall'implacabile
biancore della neve, disperso dalla nuvolaglia
sfilacciata in brume cineree; la vastità
paurosa della steppa corrodeva non meno
della fame.
Allora, e fino a notte fonda, fuori dagli
usuali limiti del tempo e dello spazio la
colonna procedeva nell'infinito e
nell'immoto. Veniva ogni giorno il momento
in cui il cuore dei marciatori chiedeva per
carità di poter sostare e morire.
- Ho trovato in un'isba una manciata di
semi di girasole - disse Zoffoli a Serri
tendendogliene un pizzico. L'ufficiale non
ebbe forza di rifiutare, ringraziò con lo
sguardo, portò alla bocca alcuni semi e
affondando gli incisivi nell'esigua polpa
oleosa concentrò ogni sua attenzione nel
coglierne il sapore. Parevano squisiti, ma il
sapore si dileguava subito e nello stomaco
non scendeva quasi nulla.
- Semi di girasole - disse raggiungendo
Reitani e allungando la mano; - ne ho sei per
te, sta' attento a non lasciarli cadere.
- Oh... - esclamò il capitano sorridendo e
sfilando un guanto; nel ricevere i semi, uno
glie ne cadde nella neve, lo raccolse
rapidamente e lo mise in bocca con avidità,
serbando gli altri nella mano a pugno.
- Speriamo che questa colazione non ci
debba servire anche da pranzo e da cena -
disse Serri.
- Chissà che si possa trovare qualcosa in
qualche isba - rispose il capitano; - da tre
giorni ho un continuo crampo allo stomaco.
A te lo posso dire, sei il mio medico: a volte
sento dolori così forti da trattenermi a stento
dal rotolarmi sulla neve e non alzarmi più.
Ma io so che devo dare l'esempio, Italo, e
quindi non cederò, o sarò l'ultimo. Come
vanno gli uomini?
- In questi ultimi giorni tutti hanno
subito un tracollo, segno che ormai per la
mancanza di cibo i nostri corpi stanno
divorando i tessuti essenziali, muscoli e ogni
altra cosa.
Siamo diventati irriconoscibili; guarda
Sorgato, Zoffoli, Covre, lo stesso Bartolan:
quindici giorni fa erano degli atleti, ora
sembrano dei tisici. Stiamo morendo di
consunzione, questa è la realtà. Fra tutti noi,
soltanto Scudrèra fa eccezione: nonostante il
congelamento alle mani ha ancora del vigore
in corpo, è prodigioso; escluso lui, entro
qualche giorno noi saremo spacciati. Sono
obbligato a dirtelo, Ugo: tu sei il comandante
e devi saperlo.
- La mia ventisei... - mormorò il capitano
mordendosi le labbra; alla stretta dei denti il
labbro inferiore leso dal freddo gli si spaccò e
un rivoletto di sangue fluì scorrendo a
rapprendersi nella barba cespugliosa.
L'ufficiale non passò neppure la lingua
sul labbro inciso, lasciò con indifferenza che
il sangue colasse.
Italo Serri guardò quel volto smagrato e
giallo in cui gli zigomi premevano come
punte sotto la cute erosa dal gelo. A palpebre
abbassate, poteva già parere il viso di un
morto.
Soltanto i grandi occhi approfonditi in un
violaceo alone di patimento avevano
mantenuta e anche accresciuta una vitalità
eccitata e febbrile, nella quale si
disperdevano i residui dell'antica dolcezza
fugata dalle contratture segnate da una
disperata e selvaggia energia. L'uomo che
portava quel viso nel vento della steppa
soffriva indicibilmente per sé, ma più ancora
per i suoi soldati, Serri ben lo sapeva.
Avrebbe dato qualunque cosa per vedere i
solchi di quel volto spianarsi in un sorriso
tranquillizzatore.
- Non possiamo morire di fame prima dei
nostri uomini, capitano - disse
risolutamente; - ma è quello che ci sta
succedendo.
- Devo rimanere sempre nella colonna,
non posso litigare con i soldati per un pezzo
di rapa marcia - rispose Reitani.
Egli, fino dall'inizio della marcia di
ritirata, aveva compreso che l'unico modo
per salvare il maggior numero di uomini
stava nel mantenere sempre compatto il
reparto, farne un nucleo che nell'immenso
stuolo della colonna non si fosse mai
disciolto; aveva pure intuito che se egli si
fosse attardato a frugare nelle isbe durante le
marce, ben presto in mancanza del suo
controllo la batteria si sarebbe disgregata
disperdendo uomini e slitte nel caos della
colonna, abbandonando grado a grado i feriti
al loro destino e gli artiglieri al marasma in
cui vivevano le masse degli sbandati. Aveva
quindi deciso, imitato dagli altri ufficiali, di
non abbandonare per un istante le sue slitte
in cammino attorno alle quali gravitavano gli
uomini marcianti; mentre agli artiglieri era
possibile correre e rovistare nelle isbe
incontrate, gli ufficiali della ventisei e il
comandante in primo luogo erano realmente
prossimi a morir di fame.
- Se incontreremo qualche isba, oggi
nessuno mi tratterrà dal cercare qualche cosa
da mangiare - disse Serri; - fossero anche
foglie di granoturco, qualcosa devo mettere
in corpo; chissà che possa trovare una rapa, o
magari una patata intera. Mi sento sfinito. -
Da qualche giorno la testa gli pesava tanto
che, sempre costretto a tenerla abbassata per
vedere dove mettere i piedi nella neve fonda,
non riusciva più a tenerla eretta: gli pareva
che le vertebre del collo gli si fossero
incurvate e irrigidite a foggia di manico di
ombrello.
- Prova, Italo; chissà... - rispose il
capitano guardandolo con occhi brucianti di
muta avidità.
Nelle ore che seguirono, la colonna
s'imbatté in qualche isba diroccata, Serri si
avvicinava ma i soldati precedenti l'avevano
invariabilmente ripulita; non sarebbe
rimasto che il tentativo di frugare sotto la
neve dei cortiletti, ma era un lavoro lungo e
il medico non voleva perdere di vista la
ventisei che si allontanava rapidamente.
Presso la porta di una stalla però, nella
neve calpestata, Serri riuscì alfine a scovare
un bariletto manomesso e schiantato
contenente nel fondo, fra pezzi di ghiaccio e
di neve indurita, un tritume rossastro: ebbe
un tuffo al cuore, si sfilò un guanto e staccò
una manciata di quell'impasto, l'osservò con
ansia e s'avvide che il barile conteneva
residui di crauti conservati. La massa era già
stata rimestata di recente, Serri si chiese
perché i soldati in precedenza non se ne
fossero appropriati; osservandola con più
cura s'avvide che quel tritume era zeppo di
vermi bianchi raggrinziti e uccisi dal gelo:
l'estate li aveva fatti nascere e l'inverno li
aveva conservati assieme ai crauti andati a
male.
- Ho fame... muoio di fame... - pensò
tentando di vincere la ripugnanza che la
verminaia gli suscitava, ma una nausca
incoercibile gli montò alla gola. Cercò di
separare i crauti dai vermi, ma questi erano
tanti e così fittamente inglobati nella massa
che l'operazione era impossibile.
- Devo tornare a casa... - pensò; e
vincendo lo schifo diede un morso al cibo
immondo.
Era gelido, insapore, ma cedeva alla
pressione dei denti, e diveniva una pasta
molle, nel caldo della bocca: sì, era cibo.
L'inghiottì.
Ne portò una manciata alla bocca, ne
raccolse due grossi blocchi, quanto poté;
corse a raggiungere Reitani.
- Tieni, Ugo: c'è da mangiare -
disse con occhi sfavillanti.
Lo sguardo dilatato del capitano si
smorzò nel vedere il brulicame che il medico
gli aveva posto tra mano.
- Mangia, non è cattivo - incitò il medico.
- Tutt'altro! - disse allegramente Reitani
masticando il primo boccone e tentando di
contenere una smorfia di disgusto - meglio
che noi mangiamo vermi, piuttosto che i
vermi mangino noi, no? Quante calorie
sviluppa la carne di verme, dottore? -
domandò scherzosamente mentre un sorriso
gli riaffiorava dal fondo delle occhiaie.
Mangiavano, grazie a Dio; avevano
l'impressione che un residuo di vitalità si
diffondesse subito nelle membra, la mente
s'accendeva in nuovi calcoli e progetti da cui
non era più esclusa la possibilità di
sopravvivere.
Tale era la loro miseria.
- In quanti siamo rimasti in batteria? -
domandò Serri; - ieri sono morti due
congelati. Mancano anche due feriti che sono
rimasti indietro.
- Sì - rispose Reitani - siamo rimasti in
settantotto uomini di cui solo diciotto validi.
- Abbiamo trentasette feriti e congelati
sulle slitte e ventidue che vanno a piedi.
- Ieri sono morti anche otto muli, ne
restano diciotto, nemmeno due per slitta.
- Siamo al ventotto gennaio, agonizziamo
da dodici giorni - disse Serri - abbiamo
marciato per centinaia di chilometri, ci
troviamo sempre davanti al vuoto, i soldati
mi domandano dove vogliamo ancora
andare, in che cosa speriamo, dove sono le
nostre linee...
Cosa dicono i Comandi, Ugo?
- Nulla. Da molti giorni avremmo dovuto
incontrarci con le nostre linee di resistenza,
ma a quanto si vede l'Ucraina è stata
abbandonata ai russi. Dicono che le nostre
Armate non possono essersi ritirate che
verso ovest e che quindi non ci rimane che
inseguirle in quella direzione e raggiungerle
dovunque si siano fermate.
Questo è tutto.
Un rombo di motori s'annunciò nel cielo.
- Arrivano - ebbe appena il tempo di dire
Serri e due apparecchi sorvolarono
bassissimi la colonna sgranando il rosario
delle mitragliere di bordo.
- Hanno ammazzato Bartolan! - urlò
l'infermiere Zoffoli nel successivo silenzio
calato fra le slitte della ventisei.
- Non raccontare balle! - gridò il capo-
pezzo che già si risollevava dalla neve,
infilandosi una mano tra i panni e
insinuandola lungo il petto; la ritrasse lorda
di sangue.
- Una stupida pallottola di striscio, non è
nulla - disse al capitano e al medico - non
vale la pena che mi spogli, il sangue fa la
crosta da solo.
Un mulo invece era stato trapassato e la
slitta di Pilòn venne liberata dalla carcassa
mentre sull'animale morto infieriva la solita
calca dei moribondi di fame. Le labbra
succhiavano i brani gocciolanti, i denti
azzannavano le polpe ancor calde, ma tosto il
gelo le impietrava.
Si riudì il rombo lontano, la colonna
rallentò l'andatura, gruppi di soldati
tentavano di porsi in salvo gettandosi a lato
nella neve vergine.
- Tornano - disse Reitani a Serri
scrutando il cielo.
Gli apparecchi tardavano a comparire.
- E' uno solo - disse Serri indicando al
capitano un punto nell'aria.
Il rombo s'avvicinò, ma non si udiva
ancora il crepitare delle mitragliatrici.
L'apparecchio sorvolò la ventisei, passò lento
sulle slitte e sugli uomini che tentavano di
farsi piccoli e si schiacciavano sulla neve
coprendo la testa con le mani, proseguì
volando bassissimo verso la coda della
colonna, mentre alte grida provenivano dalla
testa.
- Ma quello... - disse Ferrieri con
incertezza.
- E' un apparecchio da ricognizione,
perciò non ha sparato - disse il sergente
Fraita.
- Ha sparato, se avanti urlano - corresse il
sottotenente Ferrieri.
- Signor capitano - esclamò Scudrèra
lasciando per la prima volta le briglie sulla
groppa dei muli e avvicinandosi di corsa a
Reitani - io guardo sempre bene la roba che
mi passa sulla testa: quell'apparecchio aveva
sulla pancia i segni tedeschi, quant'è vero
Dio!
- E' una «Cicogna»! - gridarono con
indecisione molti, raccogliendo e
tramandando indietro le voci che giungevano
dalla testa della colonna.
- Sarà una «Cicogna» catturata dai russi,
chissà quante ne avranno anche loro... -
commentò Covre.
Gli occhi degli uomini si cercavano, si
interrogavano febbrilmente, si sfuggivano a
vicenda nel timore di aver espresso con
troppa evidenza una risibile speranza,
s'appuntavano infine sulla indistinta sagoma
dell'apparecchio che era ricomparso e
incrociava lentamente a qualche chilometro
a fianco della colonna. Questa era ferma
sulla neve, ognuno ora ristava ad osservare
in silenzio le evoluzioni dell'aereo, gli occhi
affascinati non l'abbandonavano un istante
per la paura di perdere di vista il miraggio.
- Cosa c'è? Apriteci! Vogliamo vedere! -
gridavano i feriti da sotto il coperchio di teli e
coperte.
L'apparecchio volteggiò, virò nel cielo in
quell'ora azzurro e puntò decisamente sulla
colonna, la raggiunse sorvolandola con
grande lentezza. In assoluto silenzio gli
uomini seguivano con gli occhi l'esile
sagoma, videro distintamente sotto le ali e
sulla carlinga i distintivi dell'arma aerea
germanica, dinanzi all'incredibile apparizione
trattennero anche il respiro attendendo da
un istante all'altro il più strepitoso dei
miracoli; pareva verosimile e quasi certo che
dalla fusoliera dovesse calare ondeggiando
una corda e che tutta la colonna stesse per
essere agganciata e sollevata dalla neve,
prodigiosamente trascinata per le vie
dell'azzurro a salvamento, uomini slitte e
muli in grande corteo tratti a salvamento.
L'apparecchio prese quota, ritornò più
alto sopra i volti levati, qualcosa cadde dalla
carlinga e si svolse, sbocciò un piccolo
paracadute che scendeva lentamente
reggendo un tubo scuro, frotte d'uomini si
diedero a correre sulla neve vergine per
raggiungere il punto ove sarebbe caduto.
Solo allora dalla colonna si levò il grido di
innumerevoli voci deliranti e piangenti che
per chilometri di pista nevosa si
tramandavano l'annuncio; e i muli
scalpitavano innervositi per il trambusto
d'abbracci e urla che s'aggrovigliavano
intorno alle slitte, levavano il muso dalla
neve che andavano lambendo con la ruvida
lingua, si guardavano intorno sbruffando.
- Vado avanti dal colonnello Verdotti, a
sentire che novità ci sono - disse Reitani con
voce incerta e con occhi trasognati.
L'apparecchio scomparve, i soldati
passavano di crocchio in crocchio
scambiandosi impressioni e speranze, i teli
che ricoprivano i feriti venivano slegati e i
poveretti s'affacciavano fra le coperte.
Quando Reitani fu di ritorno comunicò ai
soldati che gli facevano ressa intorno:
- Il messaggio dice che il territorio
controllato dalle truppe tedesche non è
lontano, stiamo per raggiungerlo...
Le grida di felicità degli artiglieri lo
interruppero, ma il capitano ottenne il
silenzio con un cenno.
- Però - proseguì - il messaggio avverte
che la zona in cui ci troviamo è formicolante
di truppe russe nelle quali stiamo per
imbatterci, il nemico non vuole lasciarsi
sfuggire la preda tanto cacciata. Dovremo
perciò deviare e tentare di sfuggire a un
ultimo accerchiamento. Devieremo a nord e
punteremo su Novi-Oskol, un paese ove
esiste un presidio germanico. Dobbiamo
compiere un ultimo sforzo e saremo salvi!
Fra qualche minuto si riparte.
Poco dopo la colonna era nuovamente in
marcia e il passo di tutti aveva acquistato
una leggerezza dimenticata, perfino la fame
sembrava vinta, nessuno più si attardava
lungo il cammino, i feriti avevano troncato
ogni lamento e si udivano le loro voci
parlottare sotto le coperte. L'andatura
acquistò perfino un ritmo celere che fu tosto
abbandonato perché gli ignari muli non
reggevano; anche alla ventisei una bestia
s'afflosciò morta fra le stanghe.
- Non sprecate le forze, date retta ai muli
che vi insegnano come si deve fare! Non è
ancora finita, illusi! - ammoniva Scudrèra.
- Bisogna fare presto - diceva
fervorosamente Sorgato; - i russi non devono
più trovarci.
Due autoblindo cingolate germaniche,
sparuti residui che la neve non era ancora
riuscita a ingoiare, sopravanzarono le schiere
in marcia rotolando faticosamente verso la
testa della colonna.
- Vedete? vanno avanti - disse
allegramente Ferrieri ai soldati; - ci aprono la
strada.
- Il Comando pensa che sia possibile
uscire dalla sacca, adesso? - chiese sottovoce
Serri accostandosi a Reitani.
- Il colonnello mi ha detto che esistono
ancora molte incognite - rispose il capitano; -
pare che le forze russe stiano stendendo un
grosso cordone dinanzi a noi per sbarrarci la
strada all'ultimo momento. E' quello che
diceva Brogli, poveretto... Bisogna stare
molto attenti e non lasciarci sorprendere,
l'essere costretti a un combattimento
sarebbe la nostra rovina, perché anche la
Tridentina è ormai senza munizioni. Ora
stiamo puntando su Novi-Oskol, se
riusciamo a raggiungerla dovremmo essere
in salvo.
- Ma non possono venirci incontro, dalle
nostre linee?
- Non esistono ancora linee vere e
proprie, ma soltanto avamposti isolati, isole
di resistenza. Temo che l'iniziativa sia
sempre nelle mani dei russi e che i tedeschi
stiano ancora indietreggiando.
Dopo qualche ora di cammino, gli uomini
della ventisei raggiunsero una delle due
autoblindo e con grande delusione videro che
stava bruciando.
- Hanno accumulato tutto il carburante
nell'altra - corse voce; - è andata innanzi ad
esplorare, la meta non è lontana.
Verso il mezzogiorno una notizia dilagò
da schiera a schiera: - Ancora sette
chilometri e saremo a Novi-Oskol!
Fremiti di ansia e di speranza si
accavallavano negli animi degli uomini, ogni
più tenue indizio era fonte di grandi
entusiasmi e di improvvisi sconforti.
- Io non mi faccio illusioni - andava
ripetendo Scudrèra - mi pare impossibile che
tutto vada così liscio e finisca con una
passeggiatina.
- Ci trovi gusto a fare lo iettatore? - lo
rimproverava il sergente Fraita. - E ti sembra
davvero che tutto sia andato liscio, finora?
- Si sa, io non posso avere il cervello di un
sergente - diceva di rimando Scudrèra; - ma
ti dico che i muli non sentono ancora odore
di stalla e io ho dato sempre retta a loro, non
a te. Lo so da un pezzo che arriveremo, ma
non ci siamo ancora.
La colonna lasciò l'alta neve della steppa
e sbucò su una pista ben battuta, le slitte
dopo tanti giorni di terreno rotto scivolavano
ora placidamente, i soldati si indicavano a
gran voce i cartelli che, tratto tratto, ai lati
della pista in bei caratteri in stampatello
annunciavano: Novi-Oskol.
La colonna si fermò, Reitani fu chiamato
avanti.
- Novi-Oskol è a quattro chilometri -
comunicò al ritorno; - una radio tedesca ha
ripreso a funzionare, siamo stati avvertiti che
la strada è sbarrata da almeno tre reggimenti
di cavalleria russa. Il presidio tedesco questa
notte è stato sbaragliato e il paese è in mano
ai russi.
Con sguardo atono gli uomini fissavano
in silenzio il capitano, le braccia penzolavano
lungo i fianchi, le spalle erano ritornate
curve. Mesi di sofferenze riemergevano fra le
rughe dei visi vizzi.
- Non ci perderemo d'animo per questo -
esclamò con vigore Reitani; - ora i reparti
della Julia scenderanno al riparo in quella
valletta, ci inquadreremo, terremo pronte le
armi individuali che ci rimangono e
attenderemo ordini. Il Comando della
colonna sta predisponendo il piano d'attacco.
I soldati trascorsero due interminabili ore
nella valletta mentre si udivano spari
lontani. Il Comando della colonna tentò di
ricavare, tra la massa degli uomini in sosta,
soldati e armi sufficienti a sfondare
l'ostacolo; ma i combattimenti precedenti e
la folle vicenda avevano ridotto talmente
l'efficienza di quei superstiti, che fra le molte
migliaia di italiani, tedeschi, ungheresi,
romeni presenti non fu possibile racimolare
un battaglione di uomini armati in grado di
combattere. La possibilità di superare lo
sbarramento di Novi-Oskol svaniva.
Per ultimo scherno il destino ribadiva la
condanna sugli sciagurati ormai giunti a
prezzo d'ogni tortura sulla soglia della
salvezza.
Stavano questi fra le slitte, in preda
all'accasciamento; guardavano intorno
posando gli sguardi sulla fiumana di rottami
umani che stagnava sulla neve.
Nell'immobilità, negli atteggiamenti, nei
volti portavano il marchio degli uomini che il
destino ha vinto e s'appresta ad annientare.
Qualcuno ancora, con gesti stanchi e
inutili, verificava le condizioni del proprio
fucile, contava le due o tre pallottole che gli
rimanevano, restava poi con l'arma fra mano
a guardare con espressione d'ebete la neve
nella quale sprofondava fino al ginocchio; si
sentiva perduto.
Serri, cupo e silenzioso, stando seduto sul
bordo di una slitta, con fissità osservava da
tempo e senza scopo una sella che un soldato
aveva gettato sulla neve a pochi metri da lui;
sulla sella era venuto poi a sedersi uno
sconosciuto capitano che appoggiando i
gomiti alle ginocchia se ne stava immobile
nascondendo il viso fra le mani, incurante
del ghiaccio che incrostava i guanti e che
doveva gelargli la faccia.
Il medico non riusciva a staccare lo
sguardo dall'uomo, poiché gli pareva che
quell'essere cencioso e immobile, del quale
non era ancora riuscito a vedere il viso, gli
riflettesse l'immagine di ciò che anch'egli era
diventato: una miserabile carcassa tenuta
viva da un cuore che non aveva ancora
saputo cessare di battere.
Dopo forse mezz'ora quel capitano
abbassò le mani alle ginocchia, diede un
lungo sguardo intorno; la barba bionda gli
ricopriva la faccia fino agli zigomi lividi, gli
occhi erano celesti, calmi, quasi
fanciulleschi, sereni tanto che sembrava si
trovassero per errore in quel viso macerato
dal patimento.
Il capitano si sfilò i guanti, scostò
lentamente un lembo del cappotto, frugò in
una tasca dei pantaloni e trasse un piccolo
oggetto lucente che ripulì a lungo e con cura,
sfregandolo nella sciarpa di lana che portava
al collo; vi alitò sopra, soffregò ancora, lo
guardò con evidente soddisfazione.
- Un suo anello - si disse Serri; -
poveretto, sta pensando alla sua famiglia.
Il capitano mutò occupazione: aveva
levato di tasca una piccola rivoltella, la
teneva fra le mani con attenzione, verificò
che fosse scarica, soffiò più volte nella canna,
introdusse in essa quell'oggettino lucente
che Serri allora comprese essere una
pallottola; il capitano richiuse l'arma, parve
annoiarsi poiché distolse lo sguardo
dall'arnese che andava ormai rigirando
sovrappensiero fra mano, e volse pigramente
gli occhi a ciò che aveva intorno; guardava i
muli pazienti e scheletrici, le slitte immobili
cariche di carname dolorante; abbassò lo
sguardo alla neve che lo divideva da Serri,
portò la rivoltella alla tempia e sparò. Serri si
slanciò verso il capitano e gli si fermò
interdetto innanzi, perché quello già stava
sfilando la cartuccia dalla canna dell'arma;
come l'ebbe sulla palma della mano la
considerò con attenzione e quindi, avvertita
la presenza del medico e indicandogli il
fondello del bossolo tranquillamente disse: -
Mi ha fatto cilecca, vedi? Doveva essere
umida, penso. Niente di male.
Disorientato, il medico fissava gli occhi
sereni del capitano: nel celeste vagolava
indistinta un'espressione fra l'ironico e il
meravigliato.
- Cos'hai da guardarmi in quel modo? Ti
ho fatto qualcosa? - domandò il capitano.
- Siete impazzito, capitano? Datemi
quella rivoltella! - esclamò Serri.
- Credi che voglia riprovare? A che scopo?
- disse l'altro; e rise.
- No - proseguì con accento annoiato -
non mi interessa. O ti fa gola quest'arma? E'
buona, mi è sempre andata bene, la colpa è
stata della cartuccia che era umida. Tieni, te
la regalo se ti piace. - E gli porse l'arma.
- Ma perché avete tentato d'ammazzarvi?
- chiese Serri completamente sconcertato.
- Così. Tant'è - rispose il capitano. - Mi
chiedi il perché? Forse che anche tu, che fai
lo scandalizzato, non tenti di ammazzarti?
Non tentano tutti d'ammazzarsi?
Per tutta risposta Serri non riuscì a fare di
meglio che spalancare gli occhi.
- E' così, ti dico - proseguì con
espressione annoiata il capitano; - tentiamo
tutti d'ammazzarci, da dodici giorni a questa
parte, con la scusa di correre dietro alla
storiella della sacca da varcare... Provano
tutti ad ammazzarsi, anche tu; tutti, ti dico,
in ogni modo, con tutti i mezzi possibili. Ma
non ci riusciamo, questo è il nostro destino.
Hai visto cosa mi è successo poco fa? Ho
tentato, ho fatto tutto quello che potevo, ho
scaldato nelle mani la pallottola, l'ho
lustrata, le ho alitato sopra, l'ho pregata, non
doveva bastare? Nossignore; la cartuccia era
bagnata, mi tocca ancora vivere, non c'è via
di scampo. Di', giovanotto, mi prendi forse
per un pazzo? E allora - disse cedendo a un
disperato accento - tieni a mente quello che
ti dico: a noi non resta che l'inferno, per
migliorare questa sorte dannata. Sistemati
per sempre, no? E la colpa? Ci pensavo poco
fa, con la rivoltella in mano: la colpa va
divisa. Un po' mia, un po' tua, un po' di tutta
la gente del mondo: ciascuno ha fatto o non
ha fatto qualcosa, a tempo debito, per
arrivare alla guerra. Noi saldiamo il conto
ora, amen. E gli altri? Speriamo che il nostro
esempio serva almeno a chi verrà.
S'infilò svogliatamente i guanti sulle
mani diventate nere per il freddo, senza più
dare un'occhiata al medico s'alzò, si rigirò e
lo piantò in asso sulla neve.
S'annunciava il tramonto, giunse un
inesplicabile ordine: rimettersi in marcia e
seguire la testa della colonna qualunque
fosse la stravaganza del percorso, mantenere
sempre strettissimi contatti.
- E' stata abbandonata l'idea di attaccare il
paese, non siamo assolutamente in grado di
sfondare - spiegò Reitani a Serri. Il generale
Nasci ha condiviso il piano del colonnello
Heidkaemper, che da quando è morto il
generale Eibl comanda i reparti tedeschi:
tenteremo un'ampia diversione, ci
sforzeremo ad ogni costo di superare la
ferrovia e attraversare il fiume Oskol. Che
Dio ce la mandi buona, giochiamo il tutto per
tutto.
Con grandi stenti la colonna s'inoltrò
nella neve alta, raggiunse e superò il
terrapieno della ferrovia e si accingeva ad
oltrepassare la superficie gelata del fiume
quando una «Cicogna» sbucò
improvvisamente dalle ombre del tramonto e
sfiorando la colonna disegnò verso sud un
ampio semicerchio nell'aria, quasi indicasse
una direzione; subito scomparve.
La testa della colonna operò allora una
rapida conversione, precipitosamente ritornò
sui propri passi e riattraversò i binari
ferroviari, puntò svelta verso sud seguendo
la traccia indicata dall'aereo, piegò
all'improvviso ad ovest addentrandosi in un
terreno impervio, superò ancora una volta la
ferrovia, si buttò al fiume e lo oltrepassò
all'impazzata sempre trascinandosi dietro,
come un gregge affannante, la marea
d'uomini e di slitte.
Fra la neve altissima in cui i muli
affondavano fino al ventre e le slitte
dovevano essere sospinte a braccia,
attraverso continui estenuanti dislivelli di
terreno la colonna si riportò sulla libera
steppa e camminando alacremente fino a
notte fonda si trovò ad aver raggiunto il
paese di Towolosanka.
- E Novi-Oskol? - chiedevano i soldati.
- L'abbiamo lasciato alle nostre spalle -
rispondevano raggianti gli ufficiali.
- Riposiamo per poche ore, alle tre si
riparte - annunciò Reitani alla ventisei; - la
«Cicogna» tedesca ha segnalato tutto attorno
la presenza di forti reparti russi in
movimento, che indubbiamente stanno
dandoci la caccia.
Una smania incontenibile si era im-
padronita dei soldati, che non riuscivano a
prender sonno. Se ai muli non fossero state
indispensabili alcune ore di riposo, sarebbero
subito ripartiti anziché starsene a giacere sul
pavimento delle isbe a masticare pezzi
d'intonaco delle pareti e a succhiare fibre di
legno.
XXXIII
A mezzanotte un artigliere scosse Reitani
e avvertì che molte slitte tedesche stavano
partendo. Il capitano s'affacciò alla porta
dell'isba e chiese ai tedeschi in transito dove
andassero.
- Nach west! - fu la frettolosa risposta. -
Nach west! Ruski soldaten...
- Cosa succede? - domandò Ferrieri
nervosamente.
- Quando quelli filano hanno sempre
ragione...! Sento puzza di bruciato... -
commentò il sergente Fraita.
In un lampo tutti i dormienti vennero
risvegliati, la colonna si riformò e si disperse
nel buio della notte; sgombrando il paese
dinanzi ai russi che sopraggiungevano riuscì
ad evitare l'agganciamento.
Nonostante il brusco risveglio e la
precarietà della situazione, nuove linfe
parevano circolare nel corpo dei
camminatori, il freddo stesso sembrava fare
minor presa sugli arti raggelati.
La colonna raggiunse e superò il fiume
Oskol.
- Ma non l'abbiamo già passato ieri sera?
- chiedeva interdetto Scudrèra.
- Sì, ma questo è certamente ancora
l'Oskol - confermava Ferrieri.
- Non si capisce più niente, siamo nel
mondo della luna! - commentava Pilòn con
fanciullesca allegria. Tutto andava
acquistando stranamente il sapore di un
avventuroso giuoco.
- Questo è Barssuk - dissero i soldati
all'alba, entrando in un paese disabitato e
frugando sveltamente nelle isbe in cerca di
rifiuti - è scritto sulle tabelle del Kolkoz.
- In questo capannone c'è un deposito di
patate! - gridò con trionfale entusiasmo il
sergente Fraita. E torme d'uomini si
precipitarono sul mucchio, si riempirono le
tasche, uscirono masticando e gridando;
infilavano patate sotto le coperte delle slitte,
i feriti esultanti mangiavano avidamente i
tuberi gelati e ancora incrostati di terra,
ingurgitando con essi motivi di nuove
speranze.
- Adesso si va a Morosowa Balka
- annunziava qualcuno che aveva afferrato al
volo il nome, colto nella conversazione di
due ufficiali superiori.
- Stiamo per arrivare a Morosowa Balka! -
esclamavano tutti con gioia, mentre la
notizia si diffondeva di bocca in bocca e il
nome, fino a un minuto prima sconosciuto,
acquistava il ridente significato di terra
promessa.
- Forza! A Morosowa Balka! A Morosowa
Balka! - gridavano i soldati masticando
patate crude e affrettando il movimento dei
piedi sulla neve: e l'esultante potere di
suggestione di quelle parole era tale che
ciascuno pareva sottintendere per vecchia
nozione che Morosowa Balka era l'augusto
nome della porta del paradiso.
Sulla pista scintillante sotto il primo sole
aleggiò all'improvviso una «Cicogna»,
salutata dai clamori degli uomini in marcia.
- Ha i pattini! Scende! Scende! - fu
l'effuso grido di migliaia di uomini.
Il pensiero che qualcuno venisse a
contatto con la colonna, che una presenza
fisica s'accostasse alfine ai disperati figli
dell'abbandono era veramente inebriante,
faceva venire le vertigini, richiamava il
pianto alle ciglia dei marciatori.
L'apparecchio planò, i suoi pattini
strisciarono con leggerezza sulla neve, si
fermò palpitando. Pareva davvero, visto tra le
palpebre socchiuse e tremolanti di lagrime,
una celestiale farfalla entrata dalle
rispalancate finestre della vita per posarsi sul
candido, trionfale lenzuolo. Perfino la neve,
in quell'ora, tornava ad essere bella.
- E' sceso - balbettò Covre.
- Guardate! E' sceso...! - ripeté
l'infermiere Zoffoli.
- Madonna mia, si è fermato...! - gridò
dalla slitta il puntatore Foresti.
- E' con noi! Guardatelo... Ma
guardatelo...! - urlava Scudrèra tentando di
torcere, con gli avambracci, le teste dei muli
verso l'aereo.
Senza dolore, i soldati si mordevano per
felicità le mani rigonfie e spaccate.
I piloti dell'aereo, sotto l'ala, ebbero un
lungo colloquio con alcuni alti ufficiali
accorsi dalla pista, accanto alle slitte i
camminatori in sosta guardavano con occhi
brillanti l'incredibile scena.
L'apparecchio ripartì, Reitani venne
chiamato a rapporto.
- Stiamo avvicinandoci agli avamposti
dell'Asse - riferì al ritorno; - ma l'equipaggio
della «Cicogna» ha avvertito che il fronte è
ancora in movimento, la situazione muta di
ora in ora, i presidii tedeschi arretrano
continuamente, dobbiamo affrettarci. Il
peggio è che l'aereo ha avvistato nella
regione molte colonne russe che puntano
verso di noi, tentano ancora una volta di
rinserrarci in un cerchio.
Non andremo più a Morosowa Balka,
cadremmo in bocca al lupo; punteremo di
nuovo a nord, non dobbiamo darci per vinti
proprio ora, abbiamo davanti ancora molte
incognite. Ma coraggio, riusciremo a portarci
in salvo!
Ancora una volta la steppa parve allargare
all'infinito i suoi confini, gli uomini si
sentirono deboli di fronte alla smisurata
vicenda, le slitte deviarono, la colonna mosse
sulla neve alta verso nord.
- Da qualche giorno stiamo andando
avanti a zig-zag - disse innervosito Covre a
Serri; - di questo passo non arriveremo mai...
- Non ti sei accorto che abbiamo sempre
avanzato in questo modo? - lo confortò
l'ufficiale; - eppure abbiamo lasciato indietro
di almeno trecento chilometri il nostro carro
armato di Novossergijevskij. Te lo ricordi?
- Non vorrei trovarmelo di nuovo di
fronte - disse l'attendente dando una
sospettosa occhiata in giro sulla steppa.
La reazione agli entusiasmi della mattina
appesantiva ora le ginocchia, il freddo
trovava nuovamente indifese e languenti le
carni dei marciatori.
La fame aveva riconquistato vittoriosa il
posto dei tuberi di patata, che quasi tutti i
soldati andavano vomitando senza
interrompere il cammino per non perdere
venti passi di vantaggio.
Nel pomeriggio comparve nel cielo un
aereo tedesco da trasporto che rimorchiava
un grosso aliante, s'aggirò lentamente sulla
colonna, s'abbassò e sganciò l'aliante che
planò sulla neve, subito circondato dai
soldati tedeschi. Conteneva viveri che
vennero distribuiti fra le truppe germaniche,
gli incappucciati fanti tedeschi camminavano
frammisti agli italiani masticando cioccolata
e lardo affumicato.
Gli italiani guardavano con occhi dilatati,
qualcuno non resisteva al desiderio,
ammiccava, indicava il cibo e stendeva la
mano.
- Nein - rispondevano seccamente quelli;
- non si può. - O non dicevano nulla e
masticavano guardando innanzi con occhio
atono, come se non avessero inteso.
- Strangolatevi, carogne! - imprecavano i
delusi deglutendo convulsamente e portando
neve alla bocca.
Qualcuno cadde, strisciava penosamente
sulla pista come uno spaventoso verme con
voce umana, veniva inghiottito dal buio
prima che dalla neve; tutti gli altri
arrancavano verso l'indistinta speranza.
Come, come aiutare i caduti se le slitte da
due settimane erano sovraccariche di feriti e
gli uomini che ancora marciavano si
reggevano in piedi soltanto per virtù di uno
sforzo disperato? Ora, in prossimità della
meta, all'animo dei marciatori riappariva in
tutta la sua spaventosa potenza l'orrore che
si levava da quei corpi distesi; per l'addietro
li avevano guardati senza fremere, li avevano
incontrati a centinaia ogni giorno e li
avevano scansati, quasi fossero paracarri
abbattuti, ancora utili a segnare la via di quel
calvario alla gente attardata; ma ora la loro
carne gelida emanava nuovamente un tragico
richiamo.
La colonna procedeva a rilento, frazionata
su molti chilometri; ogni tanto dalla coda
giungeva l'eco di spari, si spargeva voce
d'attacchi russi, ciascuno tentava d'affrettare
il passo, i conducenti aizzavano i muli
sfiancati.
Dopo tredici ore di marcia ininterrotta,
raggiunto il paese di Besserab, il tratto di
colonna in cui era inserita la ventisei
ricevette ordine di sostare. Le isbe erano
semidistrutte, le pareti interne delle stanze
erano incrostate di ghiaccio, gli uomini
distesi a passare la notte sui pianciti
battevano i denti per il freddo. Non
dormivano, tendevano l'orecchio ad ogni
lontano rumore portato dal vento, temendo
sempre d'essere sorpresi dai russi.
Nell'ottenebramento dei sensi s'alternavano,
come in un delirio, dolci immagini e cupe
apparizioni; labbra in sorriso e visioni di sole
fiorivano nell'aria buia, poi sembrava che
fucili mitragliatori venissero puntati dalle
finestre divelte ed enormi carri armati
passassero all'improvviso stritolando i
giacenti.
Dal brulicame dei corpi distesi venivano
mormorii, gemiti, urli laceranti o rattenuti,
sospiri lunghi e infelici, digrignare di denti,
pianti sommessi, sobbalzi nervosi: la
speranza e l'orrore scuotevano con pari
violenza le anime e i corpi, incanalandoli a
forza e come ciechi in un unico angusto
passaggio da cui tendevano la mano,
offrendo tacita guida, la salvezza, la pazzia o
la morte.
XXXIV
L'alba del trenta gennaio raggiunse la
colonna già in marcia, la notte era trascorsa
senza sorprese.
- E oggi dove andiamo? - chiedevano
ansiosamente i soldati agli ufficiali.
- Non si sa, faremo come ieri, speriamo
bene.
La giornata s'annunciava serena, la
temperatura era gelida, i marciatori calzati di
cenci trascinavano frettolosamente gli stracci
nella neve.
Dopo le dieci gli uomini della ventisei
avvistarono un'autoblinda ferma al margine
della pista, procedendo notarono che sul
tetto della macchina stava in piedi un uomo
e pareva parlasse ai soldati.
- E' il Comandante del Corpo d'Armata
Alpino, è il generale Nasci! - esclamò con
sicurezza Bartolan, occhio di falco.
Avvicinandosi, gli artiglieri si avvidero
che il generale dall'alto dell'autoblinda diceva
qualcosa ai soldati man mano che questi gli
sfilavano davanti.
- Ventiseiesima batteria - disse Reitani
salutando, quando passò innanzi al generale.
- Bene! - rispose il Comandante del Corpo
d'Armata Alpino; gli occhietti gli sorridevano
nel paffuto volto montanaro, da tutta la
corpulenta sagoma sprizzava un'aria di
ridente fiducia. - Bene, artiglieri alpini!
- continuò il generale; - da tre ore siamo
usciti dalla sacca, lo sapete?
Qui i russi non sono ancora arrivati,
questo è territorio presidiato dalle forze
dell'Asse, lo sapete? Ma bisogna tenere
ancora gli occhi aperti perché i presidii sono
distanziati e sempre in pericolo, possono
dover arretrare da un'ora all'altra; capito?
Capito bene?
No, non capivano i soldati che gli
passavano dinanzi a schiere, sembrava
avessero capito quasi nulla di quelle parole,
si limitavano a sgranare gli occhi e a portare
con gesto impacciato la mano gonfia alla
fronte, nel tentativo di salutare alla vecchia
maniera resa inconsueta dai giorni folli;
continuavano a marciare volgendo per un
poco la testa all'indietro, a fissare ancora il
generale, indecisi, poi guardavano avanti e
attorno con aria stranita, sempre
trascinandosi sui loro stracci; a vederli
dall'alto dell'autoblinda, dovevano parere
tardi come i loro muli che non avevano
badato al generale e continuavano a
zampettare malinconici, a dondolare le
testone dalle orecchie incappucciate di
ghiaccio.
- Ohé! - urlò con evidente
disgusto Scudrèra dando la sveglia - si' tutti
insemenìi? Siete tutti insemenìti?
- Siamo fuori dalla sacca, mamma mia... -
gridò istericamente da una slitta un ferito
strappandosi di dosso le coperte.
- Viva l'Italia! - gridò però con voce
strozzata il conducente Pilòn dall'ultima
slitta; e l'urlo risalì fra i dieci traini e giunse
fino a Reitani che marciava in testa alla
ventisei, diede avvio a ciò che fino a
quell'istante era inesprimibile.
- Viva l'Italia...! Viva l'Italia...!!! -
proruppero allora in un unico urlo
forsennato, felice, disperato d'amore e di
gioia i settantotto superstiti della ventisei.
- Viva l'Italia! - gridarono alla steppa, al
cielo, alla neve con la loro prima voce
d'uomini nuovamente vivi, risorti d'un balzo.
Poi, la realtà venne incontro affascinante
e incredibile come una fiaba.
Nella piena luce del giorno la colonna
puntò senza esitazioni verso le piste di
grande comunicazione, sfilò lungo un paese
mentre gli abitanti si affacciavano alle isbe e
congiungevano le mani in gesti di grande
commiserazione nel vedere quegli avanzi
d'uomini sfigurati e stracciati; le donne
correvano nelle cucine e uscivano reggendo
ciotole di latte che offrivano ai soldati, le
luride barbe s'affondavano nella schiuma,
nelle gole gorgogliava il bianco liquido e gli
occhi scintillavano d'inesauribile avidità.
La colonna si spezzettò in innumerevoli
gruppetti che sostavano d'isba in isba,
correvano a portare cibo ai feriti costretti
nelle slitte, ritornavano a ricevere più grandi
ciotole dalle mani della popolazione russa.
- Là - accennò con un dito a Scudrèra un
sorridente vecchio, indicando una cassetta
nel recinto dell'orto.
- Siamo in paradiso! - gridò estasiato il
conducente appena riuscì a rimuovere il
coperchio; trasse e portò alla bocca una
spessa lastra bucherellata, con i denti
strappò al sottile sostegno di rete metallica
un grosso blocco pastoso e si diede a
mangiare con una espressione di felicità.
- Venite, imbecilli, non capite che è
miele?!- gridò ai compagni, masticando e
sputando dalle labbra impiastricciate cera e
api morte.
- Anche a me...! Anche a me...!
- imploravano dalle slitte gli alpini dagli arti
congelati, spalancando avidamente la bocca e
protendendo il viso.
- Andiamo avanti, non vedete che il paese
è lungo chilometri? Non restiamo indietro! -
gridavano gli ufficiali; e gli artiglieri
salutavano con grandi gesti, abbracciavano le
donne che si schermivano ridendo,
procedevano a piccoli tratti masticando
burro, api, pane, cera, miele, imbrattandosi i
baveri dei cappotti e le dita congelate con i
favi appiccicosi, soffermandosi poi più
innanzi, quando altre mani tendevano nuove
offerte e altri occhi dimostravano pietà.
- E' finita la storia delle rape marce! -
esclamavano sgranocchiando con
impressionante rapidità le pagnotte donate
dai russi.
- Mangiate poco, ragazzi, è pericoloso
mangiare così, potete morire d'indigestione,
dico sul serio! - raccomandava Serri,
stringendo a due mani un pane di forse tre
chili di cui aveva già inghiottito la metà.
- Sarà quel che Dio vorrà, signor tenente!
Sono quindici giorni che viviamo di niente! -
gridò Bartolan.
- Di porcherie da maiali, lo sapete...! -
aggiunse Covre.
- Moriremo con voi, tutti insieme, pieni di
pane e di latte! - esclamò Pilòn.
- Come i bambini! - rise Zoffoli.
- Andremo di sicuro in paradiso!
- affermò Sorgato.
- Col cappellano in testa, morto
d'indigestione! - completò Scudrèra, tra felici
risate.
- Animalesca, sfrenata, dal profondo delle
viscere la fame non desisteva dall'urlare
imponendo d'essere saziata.
- Si sentono lontani rumori di carri
armati, alle nostre spalle - avvertì il sergente
Bartolan.
Come frustata, la colonna procedette con
più celerità sulla neve che pareva diventata
soffice e amica, in una quasi ininterrotta
cornice di isbe accoglienti. Nell'animo di
ciascuno si faceva lentamente strada un
pensiero chiaro, sereno, semplice: siamo
salvi, nulla al mondo potrà essere più duro di
quanto abbiamo passato.
Il passo era diventato leggero, l'anima
lieve. Solo la fame rimaneva insaziabile,
pareva anzi essere aumentata dopo il primo
appagamento. Ma il vivere era una stupenda
verità scintillante di magnifiche sorprese.
Ecco un agnello, un agnellino nero, che
spaventato dal trambusto saltella sulla neve
approssimandosi alle slitte della ventisei;
traballando va a finire tra le lunghe gambe
dell'infermiere Zoffoli. L'affamato spalanca
gli occhi, vede già l'arrosto e prende fra le
braccia la bestiola belante.
Ma una bimbetta, sulla soglia dell'isba,
piange e chiama l'amico nero che se ne va;
intorno alle slitte si levano grida di protesta,
Scudrèra strepita e minaccia, Reitani fa un
cenno, l'infermiere riporta l'agnellino alla
bimba che si fa tutta sorriso.
La madre, che mortificata taceva in
disparte, con ampi gesti saluta i soldati,
segue per un poco la colonna affannandosi a
dire: - Spassiba, spassiba; grazie, grazie!
Ma è vita ormai questa, vita vera di tutti i
giorni, vita d'uomini, non di lupi braccati!
Nel pomeriggio la colonna giunse nel
paese di Bolshtrojzkoje e si accantonò
agevolmente nelle isbe. Non si trovava
ancora in zona di sicurezza, ma il sapersi
fuori dall'immediato e costante pericolo dava
a tutti un senso di totale tranquillità.
- Dobbiamo stare all'erta - ammonivano
gli ufficiali; - abbiamo ai fianchi alcuni
capisaldi, ma la via dell'est è aperta e
indifesa, i carri armati russi possono
piombare su di noi quando vogliono.
Venne fatto un primo smistamento dei
soldati di altri reparti che negli ultimi tempi
avevano marciato nelle file del colonnello
Verdotti; Serri con gli aiuti offerti dalle
donne russe poté finalmente rinnovare le
fasciature ai feriti e ai congelati, constatando
con grande stupore e sollievo che qualche
ferita era rimarginata e le condizioni di
buona parte degli infermi non erano
peggiorate. Soltanto alcuni congelati
presentavano lesioni terrificanti.
Tutti si crogiolavano in una paradisiaca
sensazione di pace, nelle isbe i contadini
russi offrivano volentieri alimenti, gli
artiglieri poterono suddividersi abbondanti
razioni di patate bollite, latte e perfino
qualche gallina.
E finalmente a sera, dopo quarantacinque
giorni di disperata vita guadagnata ora per
ora strappandola al gelo, alla morte e
all'assurdo, dopo quindici giorni di
accerchiamenti, undici combattimenti e
settecento chilometri percorsi nella neve
della sacca, il primo sonno riposante scese
sugli uomini della ventisei.
XXXV
Il capitano Reitani guardò i suoi uomini
allineati a fianco delle slitte e pronti a
incolonnarsi per riprendere il cammino.
Tremavano di freddo, poiché alle sei di
mattina di quel trentuno di gennaio l'aria era
mordente, ma dai visi raggrinziti
trasparivano luci di rinnovata speranza. Il
capitano sapeva che la notte aveva fugato le
inevitabili deformazioni d'entusiasmo del
giorno precedente, e che la realtà parlava ora
agli artiglieri il suo linguaggio; la vicenda era
tutt'altro che conclusa: erano uomini dai
piedi mozzi dal gelo, soldati dispersi e malati,
in terra di nessuno, fra due eserciti
ferocemente contrapposti. Il capitano vide e
comprese, sentì il cuore stringersi di pena e
d'amore.
- Il Comando della colonna ha preso
contatti con il Comando dell'Armata Italiana,
forse oggi stesso ci verranno inviati incontro
i primi rifornimenti, sono certo che questa
vicenda sta per chiudersi - disse con voce alta
e sicura, egli che non aveva mai illuso i suoi
soldati; - oggi faremo una breve marcia di
venti chilometri, raggiungeremo il paese di
Par.
Batteria avanti.
«Batteria avanti» aveva detto il capitano,
come soleva fare nei vecchi buoni tempi
all'inizio delle pacifiche marce
d'esercitazione, o anche in guerra quando il
reparto era un ferreo complesso di forze; non
aveva più pronunciato quella frase nelle
ultime settimane.
Il sole era già alto, quando una breve fila
di autocarri si profilò all'orizzonte e portò il
subbuglio nell'animo dei camminatori.
- Sono italiani! - esplosero cento, mille
voci mentre tutti gli occhi s'appuntavano ai
veicoli. I più vicini vennero presi d'assalto,
gli autisti vennero abbracciati
freneticamente, gli uomini passavano le
mani sui parafanghi, s'abbassavano a toccare
i pneumatici e i fari.
- Vedi? Gomme Pirelli, le solite - dicevano
con un nodo alla gola, scorrendo con un dito
sulla dicitura in rilievo stampata sulle
coperture.
- Questo è un «Lancia 3 Ro», ottima
macchina - dicevano.
- Presto, Italo - comunicò Reitani; - devi
scegliere venticinque feriti e congelati della
batteria, da caricare sugli autocarri; saranno
trasportati direttamente agli ospedali.
- Ho già preparato le liste ieri, con
precedenza secondo la gravità - assicurò il
medico avvicinandosi alle slitte. -
Cominciamo da Foresti.
Gli infermi designati furono tolti dagli
immondi giacigli sui quali avevano vissuto e
sofferto per un incalcolabile tempo, i
compagni li trasportarono a braccia e li
issarono sugli autocarri.
- Ritorneremo presto! Arrivederci!
Grazie d'averci portato in salvo!
- mormoravano i partenti ai più vicini con
fioche voci; e agitavano stancamente le
braccia ossute a salutare i più lontani e gli
ufficiali.
Dalle slitte, i feriti e i congelati meno
gravi seguivano ogni movimento e ogni
scena con occhi smorti e desiderosi,
sforzandosi di sorridere.
- Voi al più presto, forse oggi stesso, gli
autocarri vanno e tornano - assicurava Serri
da slitta a slitta.
Le macchine partirono e presto
scomparvero, i restanti ripresero in silenzio
la marcia sulla neve.
Giunsero a Par nel pomeriggio, si
accantonarono nelle isbe. Le famiglie russe
offrirono patate e latte, acqua calda e filacce
per ripulire le ferite, sorrisi amorevoli e
lunghe esclamazioni di pena nel vedere i
segni dell'estremo patimento.
- Venite dal Don? - dicevano i vecchi con
occhi increduli; - d'inverno?
A piedi nella neve? Senza viveri?
Nessuno ha mai fatto questo in Ucraina, è
una cosa incredibile!
Ritornò la colonna degli autocarri, i feriti
e i congelati rimasti furono posti sulle
macchine in partenza, mentre gli uomini
ancor validi facevano corona vociando e
affidando incarichi ai partenti.
- Gli autisti dicono che sarete subito
rimpatriati!
- Salutateci l'Italia! - disse Pilòn.
- Avvertite le nostre famiglie! Dite che
siamo ancora vivi...! - gridò Scudrèra.
- Ma ricordatevi, ci raccomandiamo!
Partivano congelati e feriti d'Ivanowka,
infermi che non avevano voluto lasciare la
linea a Novo Kalitwa, feriti di Novo
Postojalowka, i sanguinanti scampati di
Novossergijevskij, di Nikitowka e
Nikolajewka, tutti coloro che avevano
trascinato piaghe e carni aperte
disseminando sulla neve della steppa lacrime
e dita mozze, piedi verdi di cancrena;
partivano, portando con sé fame e pidocchi,
putridi stracci e odore di morte.
- Su, Scudrèra, sali sull'autocarro - disse
Serri.
- Io? Perché? - domandò il conducente
rabbuiandosi.
- Non fare lo sciocco; sbrigati, se ti
premono le tue mani.
- Ma io sto già meglio, sono sicuro che...
- Non farci perdere tempo, sali subito, ti
ordino di partire! - disse Reitani che aveva
ascoltato.
- Queste sono ingiustizie... - brontolò
Scudrèra arrampicandosi sull'autocarro e
rintanandosi mogio mogio in un angolo.
- Buon viaggio! Buon viaggio! - gridava
agitando le mani chi restava, quando le
macchine si mossero.
Reitani e Serri rimasero a lungo sulla
neve guardando gli autocarri che
rimpicciolivano correndo verso l'orizzonte. Il
capitano fissò poi il medico negli occhi, volse
lo sguardo verso gli uomini che a capo chino
rientravano a scaldarsi nelle isbe.
- Ecco conclusa la marcia nella sacca,
Italo - sospirò guardando la neve. - C'era una
volta la ventisei...
- In quanti siamo rimasti? - chiese il
medico; - tu dimmi i nomi e io li conto.
- Io, tu, Ferrieri, i sergenti Bartolan e
Fraita; Zoffoli, Covre, Sorgato... Quanti ne ho
detti finora?
- Otto.
- Pilòn.
- Nove.
Elencarono qualche altro nome, si
ricontarono.
- Quattordici - mormorò Serri.
- Quattordici uomini, tredici muli,
qualche fucile scarico, qualche rivoltella e gli
stracci che abbiamo ai piedi: ecco la ventisei -
disse con sconforto il capitano. Dopo una
lunga pausa aggiunse: - Era una bella
batteria, ti ricordi?
- Sì...
- Ti ricordi quando siamo venuti in
Russia? Occupavamo un treno intero:
duecentotrenta uomini, centosessanta muli...
i nostri quattro pezzi... le armi... le
munizioni... i materiali... un treno intero.
- Ho freddo, Ugo - disse volutamente
Serri, perchè gli faceva male guardare il viso
del capitano; - rientriamo?
- Anch'io ho freddo; rientriamo
- confermò Reitani rabbrividendo.
Nella neve polverosa i cenci che
portavano ai piedi lasciavano dietro ai due
uomini un solco continuo, profondo. Di cose
trascinate.
- E' mostruoso - diceva poco dopo in
quell'unica isba che raccoglieva ormai tutta
la ventisei, il colonnello Verdotti, che portava
i segni dell'aspra sofferenza divisa con i
soldati; - la Julia venendo in Russia aveva
circa ventimila uomini. Sapete in quanti
siamo usciti dalla sacca? In quanti siamo
rimasti?
- Compresi gli uomini mandati agli
ospedali? - chiese Serri.
- Compresi quelli.
- Diecimila... - azzardò Bartolan.
- Duemila trecento - rispose il colonnello.
- Spaventoso. Pare incredibile - disse
Ferrieri mentre gli altri tacevano
guardandosi sconcertati negli occhi.
- La ritirata nella sacca ci pareva un
disastro - proseguì il colonnello; - invece è
stata una tragedia senza nome, della quale
soltanto ora siamo in grado di cominciare a
renderci conto.
Anche le altre divisioni sono giunte
svuotate, nella disgrazia noi non siamo
neppure stati fra i più sfortunati.
Non avete ancora idea di quello che è
successo durante le marce, vedevamo ciò che
accadeva intorno a noi, ma spesso non ci
accorgevamo di quanto avveniva a chilometri
da noi, nella notte, nella tormenta, nei paesi
durante le soste: la colonna era lunga molte
decine di chilometri, spesso discontinua, i
reparti russi attaccavano la coda composta
dagli uomini sbandati e più stanchi, li
isolavano e li catturavano; nel corpo della
colonna battaglioni distanziati, reggimenti
interi hanno perduto i contatti, hanno
sbagliato strada e sono caduti in blocco nelle
mani dei russi. I morti in combattimento
sappiamo chi sono, gli assiderati caduti sulla
neve li abbiamo visti, in tutto rappresentano
una cifra minima al confronto del numero
degli assenti: mancano generali, colonnelli,
molte decine di migliaia di soldati, reparti, al
completo che sono rimasti prigionieri. Una
tragedia che non poteva essere più grave e
dolorosa, figlioli.
- Qualcuno però sta ancora giungendo -
disse Serri - è possibile che arrivino altri
soldati attardati lungo il cammino.
- E' ciò che speriamo. Ci tratterremo qui
per qualche giorno in attesa, se non arrivano
i russi a scacciarci.
- E poi, cosa faremo? - domandò Ferrieri.
- Non sappiamo. Probabilmente dovremo
riprendere il cammino e arretrare ancora
perché il fronte è in movimento. Qui da un
giorno all'altro arriveranno i russi. Bisogna
ridurre al minimo indispensabile il numero
delle slitte, ripararle e tenerci pronti a
rimetterci in marcia. Forse sarà lunga, non
abbiamo ancora finito.
- Non è possibile scrivere a casa? - chiese
Pilòn.
- Ancora no, purtroppo - rispose il
colonnello con un doloroso sguardo; a tutti
era nota la spasimante adorazione che aveva
quell'uomo per la famiglia. - La situazione è
caotica, anche più indietro i servizi non
funzionano. E pensare - soggiunse
accentuando le rughe del volto - che da due
settimane la radio russa va comunicando che
l'esercito sovietico ha rinserrato in sacche
senza possibilità di scampo centoventimila
italiani in via di progressivo annientamento.
Povere famiglie nostre...
La giornata passò, i soldati mangiavano e
dormivano; caduti in una prostrazione
estrema che si andava aggravando piuttosto
che scemare col riposo.
All'indomani giunsero ancora sparuti
gruppetti di uomini che superando
l'isolamento e i rigori della steppa riuscivano
a sfuggire dalla sacca.
Giungevano in un lento stillicidio, sfiniti,
moribondi di fame e di stenti, ad ogni ora
qualcuno spuntava dall'infinito biancore e
alla vista dei compagni e alla notizia d'essere
in salvo s'accasciava privo di forze sulla neve;
la steppa, come il mare, gettava tratto tratto a
riva i relitti di un grande naufragio.
Gli ufficiali e gli uomini dei vari reparti,
per quanto il freddo lo concedeva si
portavano al limite del paese all'inizio della
pista proveniente dall'est e spingevano lo
sguardo sulla neve sterminata nella speranza
di veder spuntare qualche compagno, finché
il gelo non li ricacciava tremanti nelle isbe.
Era prossimo il tramonto e Serri, rimasto
ormai solo sulla neve in attesa, stava per
rientrare rinunciando alla speranza di poter
rivedere anche per quel giorno Brogli,
Perbellini e gli altri compagni, allorché vide
avanzare fra le prime ombre che calavano
sulla steppa una figura solitaria che si
avvicinava con estrema lentezza: la lunga
sagoma d'uomo dopo qualche passo sostava
a riposare, poi riprendeva il cammino con
tranquilla costanza. Il medico gli andò
incontro, presto si trovò dinanzi ad un uomo
barbuto, dai lineamenti gonfi e gialli; era
ricoperto da una giubba senza bottoni e a
brandelli, i pantaloni alla zuava gli
scendevano penzolanti fino alle caviglie, la
testa arruffata era priva di copricapo. L'uomo
non aveva guanti alle mani screpolate dal
gelo e i suoi piedi erano ricoperti soltanto
dalle calze incrostate di ghiaccio; guardava il
medico con espressione mortalmente stanca,
ma gli occhietti nelle cavità approfondite fra
zigomi e fronte ammiccavano sorridendo.
- Frati...! - gridò il medico all'apparizione.
- Ciao - rispose con tranquillità il filosofo;
- come stai?
- Come stai tu, piuttosto?! - esclamò Serri
trasecolato.
- Io bene, ma ho perduto la pallottola.
- Quale pallottola? - domandò il medico
con perplessità, colto da un improvviso
dubbio sulle condizioni mentali del
compagno.
- Quella che mi è entrata e uscita dalla
pancia e mi sono ritrovato in tasca, a Novo
Postojalowka. Hai perduto la memoria? -
disse l'allampanato uomo fissando il medico
con preoccupazione.
- Fa un freddo cane, andiamo in un'isba -
disse Serri tranquillizzato, riprendendo il
cammino e passando un braccio attorno alla
vita del filosofo per sostenerlo.
Ma Frati puntò nella neve le calze
ghiacciate e si arrestò.
- Io non entro - disse con assoluta
decisione - non voglio più avere a che fare
con i russi, ne ho abbastanza, preferisco
piuttosto morire qui.
- Cosa stai dicendo? - domandò il medico
nuovamente disorientato.
- Non voglio farmi fare ancora prigioniero
- disse cupamente Frati.
- Prigioniero? Ma qui nessuno è
prigioniero; ci sono il colonnello, gli uomini
delle batterie - disse Serri.
- Ci sono... Ma non siete... Ma non sono...
- balbettò il redivivo - ...tutti morti?
- Morti? Ma no, qui siamo fuori dalla
sacca, siamo in salvo! - esclamò il medico
interdetto.
- In salvo? - gridò con un rauco gemito il
filosofo aggrappandosi e quasi cadendo sul
compagno.
Ma si riprese tosto, riacquistò
l'imperturbabilità abituale ed entrambi
ripresero lentamente il cammino.
- Cosa t'è successo? - chiese Serri; - dove
hai messo il cappotto e le scarpe?
- I soldati russi mi hanno portato via
tutto - rispose Frati; - mi hanno fatto
prigioniero a Nikitowka.
- T'ho visto. E poi? - domandò Serri
allibito.
- E poi mi hanno messo in fila con tanti
altri e abbiamo fatto una marcia fino a un
altro paese, poi siamo stati consegnati ad
altri soldati russi che mi hanno tolto il
cappotto e le scarpe.
- Vi trattavano così?
- Così? Io sono stato fortunato perché
tutti quelli che mi guardavano in faccia si
mettevano a ridere, non so che gusto ci
trovavano. Allora io facevo la faccia più
cretina che potevo, loro ridevano ancora di
più e mi toglievano i bottoni e perfino i
fazzoletti sporchi perché non avevo altro, ma
intanto mi lasciavano vivere.
- Vi davano da mangiare?
- Gli abitanti delle isbe ci davano
qualcosa, quel che potevano.
- E poi?
- Al terzo giorno i soldati hanno portato
via tutti, non so dove siano andati; io in quel
momento ero sulla stufa, sono rimasto là e
più tardi mi sono accorto che ero solo.
Nell'isba c'erano soltanto tre soldati russi
che mi hanno fatto capire che se tentavo
d'uscire mi ammazzavano. Nel pomeriggio a
un certo momento non li vedevo, sono uscito
e sono venuto qui.
- Sono venuto qui...? Ma quando tu sei
stato fatto prigioniero a Nikitowka era la
notte fra il venticinque e il ventisei gennaio e
oggi è il due febbraio! - esclamò Serri.
- Può darsi - disse tranquillamente Frati; -
sono venuto avanti da solo pian piano, per
non stancarmi troppo.
- E la tua ferita?
- In principio bruciava, poi ha smesso.
- Hai incontrato altri soldati nostri?
- Sì, ogni tanto. Ma erano morti sulla
neve, avevo preso un bastoncino e quando
scorgevo un mucchietto di neve lo frugavo:
se c'era sotto un morto voleva dire che ero
sulla strada giusta.
- Ma soldati nostri vivi, ne hai veduti?
- Sì, qualcuno. Ma quando ci vedevamo di
lontano, giravamo alla larga a vicenda, per il
timore che l'altro fosse un russo.
I due ufficiali erano giunti al paese. Sulla
soglia di un'isba il medico disse:
- Ecco, qui c'è il comando della ventotto,
la tua batteria. Ti lascio entrare da solo, ti
crederanno un morto risuscitato.
Il filosofo era fermo sull'uscio, esitante e
ansimante, in preda a una incomprimibile
emozione; poi, con grande trepidazione
domandò indicando l'isba: - C'è... da
mangiare?
- Sì: patate e latte - affermò Serri.
- Anche... latte? - mormorò il redivivo
sbarrando gli occhi come spaurito.
E si mise a piangere.
Era curioso spettacolo vedere quella gran
bocca dentuta e spalancata stirarsi a ogni
singulto fra il pelame dei baffi spioventi e la
barba tremula. Era una barbetta rada e
appuntita, caprigna: da filosofo, appunto.
XXXVI
Nella notte del terzo giorno di sosta
l'afflusso dei radi naufraghi gettati a riva
cessò.
- Non giungerà più nessuno - avevano
concordemente affermato gli ultimi arrivati;
- dietro di noi è rimasta soltanto la steppa.
Al quarto giorno infatti non un uomo
apparve; s'affacciarono invece alcuni carri
armati russi che in prossimità del paese
arretrarono e scomparvero.
Erano giunti, nei giorni precedenti, una
decina di artiglieri della ventisei, in
condizioni tali da dover essere subito avviati
agli ospedali con gli automezzi che facevano
la spola recando scarsi viveri e ripartendo
con teorie di soldati infermi.
Venne l'ordine di partenza. La ventisei
allineò sei slitte rimesse a punto, trainate dai
dodici muli ancora in grado di camminare.
Fu allora che sbucò Scudrèra. Andò dritto
alla sua slitta, diede una irosa spinta al
conducente designato, gettò una rapida
occhiata alle zampe dei suoi muli e si passò
le redini al collo, pronto a partire. Aveva le
mani avvolte da candide bende, era l'unico in
batteria ad essere rasato, pareva un signore
fra mendicanti.
- Cosa fai ancora qui, disgraziato? - gridò
Reitani accorrendo; - da dove vieni?
- Ho ubbidito, signor capitano - disse
Scudrèra con fare compunto; - sono partito e
mi hanno portato a Karkow, all'ospedale. Ma
là dentro mi sentivo morire - aggiunse; - ero
anche un po' in pensiero per i miei muli, e
ieri ho dovuto scappare, sono tornato qui con
un autocarro.
- Hai dovuto, eh? - disse il capitano non
sapendo che tono scegliere; - all'ospedale ti
avranno dato anche per disertore, oltre tutto.
Ma non te la darò vinta: gli autocarri sono
partiti, ma alla prima occasione ti rimanderò
a Karkow.
- Signorsì - rispose umilmente Scudrèra.
Il capitano si allontanò, dava le ultime
disposizioni per la partenza.
- Sarà un po' difficile che io ritorni a
Karkow... - sussurrò Scudrèra a Pilòn; - gli
ospedali sono stati già chiusi e i ricoverati
sono in viaggio per l'Italia, Karkow sta per
essere occupata dai russi. Ma non dire queste
cose al capitano, se no se la prende con me.
- Karkow occupata? - disse Pilòn
allarmato; - ma non è alle spalle di questi
capisaldi?
- Sì, sarà settanta o ottanta chilometri
avanti. Perché?
- Ma allora abbiamo ancora i russi
davanti a noi...
- Cosa vuoi che sappia io? - rispose
annoiato Scudrèra scrollando le spalle; - io
sono un conducente, queste cose domandale
a quel sapientone di Fraita. So soltanto che la
ventisei è qui e io e i miei muli in Italia ci
arriviamo di sicuro. Un po' alla volta.
- Fra tre minuti si parte - annunciò
Ferrieri tra le slitte; - siamo pronti?
La popolazione che tanto amorevolmente
aveva aiutato gli sventurati era tutta sulle
soglie degli abituri ad assistere alla partenza,
con ampi cenni e con larghi sorrisi augurava
la buona fortuna.
Serri, volendo tenere raccolte le calze e i
fazzoletti che gli erano stati distribuiti,
s'avvicinò all'isba che l'aveva ospitato e
chiese alla vecchia contadina se avesse un
sacchetto. La donna fece un cenno desolato;
ma poi, come colta da una improvvisa idea,
prese per mano l'ufficiale e lo condusse
nell'interno dell'isba, s'avvicinò al letto,
afferrò il cuscino e con uno strappo deciso
lacerò la cucitura d'un bordo rovesciando sul
letto le foglie di granturco contenute.
- No, no! - esclamò il medico interdetto e
commosso.
Ma la donna già gli aveva tolto di mano le
calze e le altre cose e le aveva infilate nel
piccolo sacco improvvisato, che riconsegnò
all'ufficiale; con le punte delle dita gli tracciò
un rapido segno di croce sulla fronte, lo fissò
con addolorati occhi di madre e lo sospinse
infine verso l'uscio e la neve.
Passarono i giorni e la breve colonna
marciò; i camminatori, sempre affamati per
la penuria di cibo, conobbero ancora la
tormenta e poi videro, col deciso variare della
stagione, le prime chiazze di terra affiorare
dalla neve che marciva sotto il sole per
raggelarsi a sera, al levarsi del vento;
s'affrettavano verso nord-ovest, inseguiti e
sospinti dalle notizie che dicevano Karkow
sgombrata, Stalingrado caduta e il fronte, alle
loro spalle, sempre in movimento e ancora
pronto a ghermirli e schiacciarli sotto i
cingoli dei carri armati russi; conobbero
ancora la fame, la stanchezza, l'insonnia, la
minaccia del tifo petecchiale, la nostalgia
dell'irraggiungibile patria e il rimpianto dei
compagni perduti; si videro affranti,
scarnificati superstiti dei bei reggimenti
alpini. Reggimenti annientati, se non fosse
stato per quei branchi d'alpini che ancora
marciavano portando con sé, ripiegati sul
petto, gli stendardi dei loro reparti.
Superati i milleduecento chilometri e i
settanta giorni di marcia invernale sullo
sterminato suolo di Russia, con tutti gli altri
anche i superstiti della ventisei si fermarono.
Quando venne dato l'ultimo alt, in
prossimità di una stazione ferroviaria, i cenci
fradici che ricoprivano i loro piedi già
calpestavano, fra la mota, la prima erba di
primavera.
Stalingrado era caduta, ma non loro, i veci
alpini superstiti della Julia, della Tridentina,
della Cuneense. E non sapevano ancora
d'aver strappato - loro soli, gli umili alpini - il
grido di ammirazione e il riconoscimento del
Comando Supremo russo, che nel Bollettino
N° 630 emesso da Radio Mosca ai primi di
febbraio annunciò il travolgimento delle
forze dell'Asse sul fronte del medio Don e la
caduta di Stalingrado, ma precisò: «Soltanto
il Corpo d'Armata Alpino italiano deve
considerarsi imbattuto sul suolo di Russia».
- Siamo a metà marzo: pensa che in
Sicilia i mandorli sono già in fiore - disse il
capitano Ugo Reitani guardando dal
finestrino dello scompartimento le grandi
chiazze di neve che pezzavano il terreno
acquitrinoso.
- Ti auguro di fare in tempo a vederli
ancora sugli alberi - rispose Serri
sollevandosi dalla panca e avvicinandosi al
finestrino. E aggiunse: - Riusciremo a
passare il confine col chiaro? Mi piacerebbe
vedere con i miei occhi l'ultimo lembo di
Russia che si allontana.
- Lo vorrei anch'io, ma siamo più vicini al
tramonto che alla Polonia, mi pare.
Il treno viaggiava, portando verso l'Italia i
residui del reggimento.
Sulla paglia dei carri-bestiame e sulle
panche degli scompartimenti gli artiglieri si
lasciavano cullare dalla nenia che saliva dalle
rotaie; anche a palpebre chiuse vedevano il
lucido ininterrotto binario che li guidava
al Brennero, si sentivano stanchi di una
stanchezza felice.
- Abbiamo fame, signor capitano - disse
l'infermiere Zoffoli che si era affacciato allo
scompartimento.
Le migliorate condizioni di salute e il
ritorno delle energie alimentavano nei
giovani corpi un insaziabile bisogno di cibo.
- Anche noi ne abbiamo, Zoffoli, ma sai
che non c'è niente. Però questa faccenda
presto finirà.
- Certo! - esclamò l'infermiere con uno
sfavillante sorriso d'intesa. La ferita al
braccio ricevuta a Novo Kalitwa gli era
guarita durante la ritirata; ma il mezzo
orecchio che gli era rimasto si era ridotto,
congelando, a un informe impasto livido.
Raggiunta la Polonia, i soldati in viaggio
ricevettero, alle stazioni, zuppe di legumi e
semolino fornite dal servizio di assistenza
germanico; ma la fame rimaneva inalterata.
- Appena verremo trasbordati su una
tradotta italiana, avremo finalmente pane e
pastasciutta a volontà - ripeteva Sorgato.
A Brest Litowsk, mediante una accurata
disinfezione e disinfestazione furono liberati
dai pidocchi con i quali dai tempi di Novo
Kalitwa avevano diviso ogni avventura.
Ma ogni guaio stava per finire;
finalmente gli artiglieri furono sistemati
sulla tradotta italiana che mosse verso la
patria.
Ritornavano irriconoscibili, laceri, con gli
stanchi piedi rivestiti di stracci, con cenciosi
abiti da pezzenti vagabondi; avevano occhiaie
e guance infossate, nasi esangui e affilati
dalla cui pelle assottigliata traspariva il
bianco della cartilagine sottostante.
Ora si rendevano conto del perché non
avessero rinunciato alla vita quand'essa non
valeva più nulla, lassù nella steppa orrida,
ove perfino il respiro gelava e ricadeva sul
cappotto; ora intendevano perché non
avessero ceduto all'invitante, oblioso sonno
che calava sulle palpebre e piegava
mollemente le ginocchia verso la neve, quel
vasto e bianco letto di riposo.
Avevano invece preferito l'ossessionante
marciare, il delirio della fame, lo strazio delle
carni; sempre avanti in quelle livide albe, in
quegli interminabili giorni di tetra ghiacciaia,
in quei tramonti di cenere che le sferzate del
vento sugli occhi tingevano di strisce dal
colore di sangue rappreso, in quelle notti che
scatenavano sulla steppa le distruggitrici
potenze del gelo, allorché mostri orrendi
s'azzuffavano nel buio fischiando e
galoppando, e dilaniavano i piccoli uomini
che non desistevano mai dal portarsi avanti.
Avanti, ma dove? Dove mai può voler andare
un granello di polvere ghermito dal vento?
Dove, se per loro il mare di neve non aveva
più una sponda, uno scoglio su cui alfine
arrestarsi?
Ecco, ora lo sapevano; il cuore raccontava
la sua storia patita in silenzio; era stato lui,
col suo piccolo affaticato battito a tener deste
le membra, a stornare il sonno, a lenire ogni
piaga e fatica; pur incappucciato di gelida
neve, aveva rintracciato passo per passo la
via che conduceva a casa.
Una sera, in un carrozzone buio venne,
chissà da chi, un mormorio incerto, un
accenno a labbra chiuse; altri lo raccolsero,
lo passarono di bocca in bocca; il motivo
vagolò indeciso, sfiorò lento il cuore degli
uomini; altre voci lo accrebbero donandogli
una consistenza triste, simile a un accorato
pianto che fluisce nel buio.
Ma gli artiglieri alpini non piangevano,
erano immobili, forse ad occhi chiusi.
Cantavano. A bassa voce, un sussurro.
Veniva a loro il ricordo di cento, di mille,
d'infinite cose lasciate disciogliere in una, in
quel filo di voce che si faceva strada nel buio
come una piccola vena d'acqua tra le pietre e
l'erba. La canzone era struggente quanto può
essere un canto d'alpini, parlava di un ponte,
d'una bandiera, della Julia, della terra, della
guerra oltre che degli alpini; nata in Albania,
diceva in un ritmo lentissimo:
Sul ponte di-i-i Perati
bandiera ne-era
è il lutto de-ella Julia
che va a la gue-e-ra...
E' il lutto de-e-ll'alpino
che va a la gue-e-ra,
la meglio gio-o-ventù
che va so-tto te-e-erra...
- Abbiamo cantato ancora... - mormorò il
sergente Bartolan.
- Era da Kuwschin... dai rifugi sul Don
che non cantavamo più... - rammentò
Sorgato.
- Sì - confermarono Covre e il sergente
Fraita.
- Era tanto tempo... - annuirono altri.
- E' una bella cosa, ragazzi, aver
ricominciato a cantare senza volere - disse
Pilòn tanto sottovoce che non sembrava
avesse voluto parlare ad alcuno.
Ma molti lo udirono; sorridevano fra sé e
sé nell'oscurità, senza dir niente a nessuno;
con mosse lente e soddisfatte qualcuno si
palpava i pantaloni a ricercare il gonfio della
borsa del tabacco per la fumatina di
chiusura; come si usava fare nelle sere sul
Don, a Kuwschin, o ad Argos in Grecia, o
prima ancora nelle valli d'Albania, quando la
ventisei era la ventisei e, una volta nominata
così, non c'era bisogno d'aggiungere altro.
L'Italia, chilometro per chilometro,
s'avvicinava.
Ora per una seconda volta tornavano,
dopo aver sparso sangue nei valloni fangosi e
sulle pietraie d'Albania come nella polvere e
sulla neve delle steppe di Russia, dopo avere
supplicato clemenza ad infiniti cieli e aver
subito il morso d'innumerevoli sciagure; e la
loro era una lunga e così tragica storia quale
di rado gli uomini sono condannati a vivere
sulla terra.
Era stata chiesta, a loro, una disumana
somma di sacrificio; sovrumana, a lungo
andare, poiché la mulattiera su cui si snoda il
lento andare dell'alpino ha almeno un
margine che sempre pencola
sull'impossibile; quando non vi s'infila
diritta, e allora è un sentiero che conduce
senza scampo in paradiso.
Tutto s'attendevano, poiché tornavano
senza più nulla; e avevano fame e sete di
vita.
- Sei malinconico, Scudrèra? - domandò
Serri al conducente, sorprendendolo a
guardare dal finestrino con occhi spalancati e
immobili.
- Oh, no... - rispose il soldato trasalendo e
facendo un viso compunto, quasi fosse stato
colto in fallo.
- A che cosa pensavi? - chiese sorridendo
il medico, insinuandogli con gesto espansivo
le dita di una mano fra gli ispidi capelli.
- A le cose... - disse l'alpino con un
accenno di sorriso umile, schivo - a le cose
del me paese. - Si guardava le bende che gli
fasciavano le mani; nel bianco trasudava
qualche chiazza giallognola.
- Mi avete sempre detto che me le
avrebbero tagliate - mormorò con
accoratezza; - credete davvero che me le
taglieranno, in Italia?
- L'ho davvero creduto per molto tempo,
Scudrèra - disse il medico studiandosi di
celare la commozione; - ma a dirti la verità,
adesso spero che ti vadano meglio, in queste
ultime settimane hai fatto un miglioramento
incredibile.
- Oh, me l'aspettavo - disse il conducente
con noncuranza, smentita dagli occhi
fulgenti; - lo sapevo. Io sono come le bestie -
affermò con orgoglio.
- Per la testardaggine, sì - disse Serri
ridendo. - Sei il mulo più cocciuto e selvatico
che io abbia mai visto.
- Me lo dice sempre anche mio padre, era
anche lui un conducente - ammise Scudrèra;
e aggiunse con grande umiltà: - Ma io non ho
disobbedito a voi e al capitano per il gusto di
disobbedire. Vi vedevo restare sempre più in
pochi, pensavo che ogni uomo poteva servire
ancora a qualche cosa.
Anch'io.
- Lo so. L'ho sempre saputo - disse Serri
con un nodo alla gola.
- Se le mani mi tornano pulite, signor
tenente - confidò allora l'alpino,
abbandonandosi a una imprevedibile
dolcezza di voce - quando saremo in Italia io
mi sposo la Pasquala.
- Si asciugheranno, vedrai; le asciugherà
il nostro sole - disse il medico; - ma non
dovrai tenerle esposte al freddo, mai più.
- Non c'è pericolo! Io in Italia faccio lo
spaccalegna, con quel lavoro le mani si
scaldano per forza! E se non basta, sono
sicuro che la Pasquala si divertirà a soffiarci
sopra... perché mi vuol bene.
Nel suo troppo lento andare quotidiano la
tradotta superò Kielce, poi Vienna,
Salisburgo.
- Anche oggi brodo e mezza pagnotta? Ma
non capite che stiamo morendo di fame?
Non sapete che abbiamo vissuto di rape
marce e gelate? - protestavano gli artiglieri
facendo ressa intorno al personale di servizio
del treno; - avete due vagoni carichi di viveri
di scorta, dateci da mangiare!
- Non possiamo! Non possiamo! - era
l'esasperante risposta; - dobbiamo osservare
i regolamenti, le tabelle apposite... In Italia
mangerete quello che vorrete!
- Come si sta in Italia? - chiedevano i
reduci dilatando gli occhi come fanciulli.
- Bene, c'è di tutto, vedrete. Basta pagare.
- Pagare che cosa? Non abbiamo già
pagato abbastanza? - si chiedevano l'un
l'altro senza capire.
- Ho paura che avremo molte delusioni,
ho bell'e visto - borbottava il sergente Fraita.
- Delusioni perché? - interveniva il
sergente Bartolan; - questi sono regolamenti,
si sa; ma in Italia sarà un'altra cosa, siamo gli
alpini che tornano dalla Russia, in Italia lo
sanno.
- Sanno che vita abbiamo fatto, ci
aspettano di sicuro - confermava Zoffoli.
Intanto Pilòn e Scudrèra, accovacciati in
un angolo, parlottavano commentando le
parole degli altri.
- Sai Scudrèra, scommetto che dalla
nostra vita salterebbe fuori perfino un libro -
diceva Pilòn.
- No - rispondeva l'altro dopo lunga
riflessione; - nessuno lo leggerebbe. Chi vuoi
che si interessi di noi?
Noi siamo soldati.
- Ma non siamo uomini anche noi?
- Sì, ma sotto la naja. Gli altri se ne
fregano.
- Eppure - insorgeva il sergente Fraita -
sono sicuro che una vita disperata come la
nostra non l'ha vissuta ancora nessuno, in
questi tempi.
- E chi lo sa, sergente? - diceva Scudrèra; -
io credo che per i soldati italiani crepare di
freddo in Russia o di caldo in Africa sia
sempre la stessa bella soddisfazione; e un
merito uguale, mi sembra.
- E non è ancora finita, ragazzi! - esclamò
Zoffoli - gira e rigira, gente come noi è
buttata sotto dal principio alla fine. Bisogna
dire che siamo proprio uguali alla polvere,
viene un soffio di vento e ci soffia via...
Non siamo altro, per quel che ci capita.
- Che polvere? - sbottò Scudrèra ad alta
voce trattenendo un sorriso burlesco; -
polvere sarai tu, lurido infermiere; io sono
un conducente, e me ne vanto. Che polvere
d'Egitto!?
- Taci tu - rimbeccò piccato l'infermiere; -
tu non puoi capire quello che voglio dire.
- To' sàntola in cariòla! Non posso capire,
eh? Bella roba i tuoi ragionamenti! - disse
Scudrèra con una smorfia di sufficienza; -
figurati che se io volessi... Se io volessi...
ti farei rispondere da Pilòn! -
E cambiando in un baleno estro e tono,
l'iracondo gigante tradì Pilòn: - Pilòn el ga
fàto la poesia nòva...
Da tanto tempo non si era udita la voce di
Pilòn, fugata dalla tragedia.
Il conducente aveva compiuto in silenzio
i suoi mille e duecento chilometri a fianco
dei muli; Jvanowka e Novo Kalitwa e la
steppa l'avevano veduto compiere il suo
incessante e muto lavoro, senza lamento; si
era soltanto smagrato a poco a poco, i vestiti
logori gli ciondolavano addosso, il faccione
tondo di luna piena si era ridotto a un
arcuato pallido quarto. Guardava ora con
occhi confusi i compagni che lo avevano
costretto a rizzarsi, nella sua squallida
magrezza pareva ancora più alto e
tentennante, alla mercé del prepotere di chi
gli stava seduto attorno in attesa.
- Coraggio, Pilòn; sentiamo cosa t'ha
ispirato la steppa - disse il capitano Reitani
ottenendo un improvviso silenzio.
Già pareva che molte cose dipendessero
da quanto avrebbe detto il conducente, a
giudicare dalla aspettazione che si era dipinta
sui visi. Dal vecchio giuoco riemergevano
ancora affascinanti richiami.
- Non so... Non sono ancora sicuro se una
parola va bene... - disse esitando il gigante.
- Prova a dire, sentiamo, te lo diremo noi
- incitò Reitani.
Pilòn abbassò le palpebre. Ora si
percepiva soltanto il fluente scorrere delle
ruote sul binario, ritmato dal rimbalzo
sonoro ad ogni congiunzione di rotaie.
Pareva quasi una cantilena, non si capiva se
briosa o triste; sembrava che Pilòn dovesse
dare le parole a quel ritmo. Ma disse:
Gli alpini arrivano a piedi
là dove giunge soltanto
la fede alata.
Nel silenzio che s'aprì su quella voce
ondeggiò allora una ridda di sentimenti, di
ricordi, affiorarono consapevolezze fino a
quel punto indistinte, generatrici di un
subitaneo e dolente orgoglio. Non seguì
alcun applauso, la voce candida aveva toccato
fondo, nelle anime.
- Qual è la parola che non sai se va bene?
- domandò il capitano con grande serietà.
Pilòn era di nuovo titubante, pareva si
vergognasse.
- Alata - rispose umilmente.
Reitani interpellò con un rapido sguardo
Serri, fissò poi Pilòn e gli sorrise.
- Non darti pensiero, Pilòn - disse con
voce strana al conducente; - lasciala pure
com'è, non toccare più nulla.
Rosenheim, Innsbruck. Il treno filava
verso l'Italia, una gran parte d'Europa era già
stata attraversata, il confine si approssimava.
I reduci stavano incollati ai finestrini,
scrutavano le strettoie della valle che
preannunciavano il valico del Brennero.
Un'ansia illimitata li teneva; disperdeva e
richiamava all'infinito lo stesso pensiero,
l'uguale sentimento moltiplicato per ogni
passo segnato nella steppa.
Una spasimante oppressione gravava su
quegli uomini, pareva malattia; ed era
amore.
Con un improvviso mutare di spazi, la
strettissima valle prese respiro in una
spianata e subito apparve un pennone
portante una bandiera, il treno s'arrestò a
una piccola stazione alpestre: Brennero.
Era l'Italia.
Nessuno d'essi avrebbe mai più potuto
significare con parole umane il senso di quel
minuto. Il cuore stesso taceva, smarrito;
soltanto lo sfiorava un fervore di visioni e di
pensieri, gelidi e quasi d'incubo, ma ormai
lontani e come sopiti, dissolti da un tepore
nuovo, dalla certezza di un nuovo tempo
benigno: ... pianure ghiacciate... sterminati
biancori... cieli imbottiti di cenere... essere
soli... sperduti nella vastità senza
misura... questo paese si chiama
Jvanowka... questo Golubaja Krinitza... se mi
congelo sono finito... divento come
quell'orribile cavallo stecchito... ecco qui un
uomo morto... non tornerà più a casa... siamo
nel fondo di una sacca... il carro armato mi
stritola... ho tanta fame... mi accontenterei di
mezza rapa marcia... di un solo boccone... i
morti non si contano più... ho le scarpe piene
di neve... una suola di ghiaccio fra la calza e il
cuoio... mamma mia... non ho più forza per
camminare... abbiamo tredici pallottole in
dieci soldati... roba da ridere... da spararsele
nella testa... sono circondato, ma da vivo non
mi prendono... quarantasei sotto zero... la
pelle delle mani resta attaccata all'acciaio dei
pezzi... avere sulle mani gelate... un briciolo...
del sole d'Italia...
Eccola, l'Italia.
E, per il solo vederla, una gran nebbia,
una necessità d'oblio già calava sulla vicenda
tragica e pareva dissolverla, la riconduceva a
misure più umane. La realtà vissuta si
sfocava, si disperdeva, lasciando di sé
soltanto un'attonita, stupita eco nel cuore.
E allo stesso modo, per contrapposto,
quell'ora reale e presente pareva favolosa e
indistinta, lontana come la speranza d'un
tempo; la coscienza stentava a connettere,
sperduta in una nuvola, come nell'ora del
risveglio; le lacrime che scendevano sulle
gote parevano d'altri, o gocce di pioggia.
Tutti gli alpini erano scesi, toccavano il
suolo con i cenci dei piedi e fissavano la terra
con lunghe occhiate sospettose, come se
fosse una lastra di ghiaccio pronta a
rompersi, a dissolversi; c'era invece chi
s'inginocchiava, stendeva le palme su di lei,
chinava la fronte fino a toccarla e la baciava
con le labbra ancor spaccate dal gelo della
steppa; baciava l'Italia.
- In vettura! In vettura, si riparte! -
gridavano gli addetti ferroviari sospingendo
gli alpini ai carrozzoni. Gli alpini salivano
ubbidienti, trasognati, era un incanto riudire
voci italiane.
- Chiudere i vetri dei finestrini! Chiudere
i finestrini! - gridava ora il personale
passando dinanzi alle vetture; e
avvicinandosi agli sportelli dava un secco
giro con la chiave di servizio e li sbarrava.
- Nessuno esce più! Alle stazioni è vietato
affacciarsi! - ingiungevano le voci imperiose;
- chiudere i vetri dei finestrini!
- Che roba è questa? - si cominciò a
gridare dall'interno dei vagoni.
- Non siamo bestie!
- Aprite! Aprite! - urlavano ormai gli
alpini riabbassando i vetri e scuotendo
invano le maniglie.
- Siamo in Italia!
- Siamo gli alpini...! - Siamo gli alpini! -
gridavano.
Sulla pensilina, dinanzi al vagone della
ventisei stava immobile un ferroviere, con le
mani nelle tasche dei pantaloni.
- La popolazione non vi deve vedere: è
l'ordine - spiegò seccamente al più vicino
grappolo d'uomini che si affannavano
sbracciandosi dal finestrino.
- Non abbiamo la peste, noi! Siamo gli
alpini che tornano dalla Russia, cavàllo
vestìo da òmo! - gli gridò esasperato
Scudrèra, mentre il treno già si muoveva.
- Che alpini o non alpini!! Ma vi vedete? -
urlò allora ai rinchiusi il ferroviere; - vi
accorgete sì o no, Cristo, che fate schifo?
Fine
Indice
Centomila gavette di ghiaccio
Tempo primo
II
III
IV
Tempo secondo
VI
VII
VIII
IX
XI
XII
Tempo terzo
XIII
XIV
XV
XVI
XVII
XVIII
XIX
XX
XXI
Tempo quarto
XXII
XXIII
XXIV
XXV
XXVI
XXVII
XXVIII
XXIX
XXX
XXXI
XXXII
XXXIII
XXXIV
XXXV
XXXVI