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L'uomo È Antiquato, Anders, (Riassunto)

Il documento discute il concetto di 'vergogna prometeica' introdotto da Gunther Anders, ovvero la vergogna che le persone provano di fronte all'altezza qualitativa degli oggetti che hanno prodotto. Anders sostiene che gli esseri umani si vergognano della loro origine 'antiquata' rispetto alla perfezione delle macchine e che preferiscono identificarsi come prodotti piuttosto che come creatori.
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L'uomo È Antiquato, Anders, (Riassunto)

Il documento discute il concetto di 'vergogna prometeica' introdotto da Gunther Anders, ovvero la vergogna che le persone provano di fronte all'altezza qualitativa degli oggetti che hanno prodotto. Anders sostiene che gli esseri umani si vergognano della loro origine 'antiquata' rispetto alla perfezione delle macchine e che preferiscono identificarsi come prodotti piuttosto che come creatori.
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L’uomo è antiquato

Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale


(Gunther Anders)
Il sottotitolo sarebbere più corretto così “Sulle metamorfosi dell’anima nell’epoca della
seconda rivoluzione industriale” → la rivoluzione non è scoppiata ieri ed ha accumulato già
da tempo, e continua a farlo, le premesse materiali per questa metamorfosi dell’anima.
L’anima però non precede di pari passo con queste premesse che si modificano
quotidianamente. Dunque la caratteristica principale di noi uomini di oggi è l’incapacità
dell'anima di rimanere al corrente con la nostra produzione, di muoverci alla stessa velocità
con cui si trasformano i nostri prodotti. Anders chiama dislivello prometeico
l’asincronizzazione ogni giorno crescente tra l’uomo e i suoi prodotti e questa distanza
si fa ogni giorno più grande:
● c’è una differenza tra il fare e immaginare, l’agire e il sentire, la conoscenza e la
coscienza e tra congegno fabbricato e corpo umano
● tutti questi dislivelli hanno la stessa struttura→ una facoltà è in anticipo sull’altra e
quest’ultima arranca dietro alla prima. L’immaginare rimane indietro confronto al fare,
il sentire arranca dietro l’agire. Es.: possiamo fare la bomba ad idrogeno ma non
siamo in grado di immaginarci le conseguenze, possiamo distruggere uomini ma non
compiangerli.

Anders avverte il lettore che si troverà davanti ad esposizioni di argomento che appariranno
esagerate e che sono effettivamente esagerazioni→ esistono fenomeni che non si possono
trattare senza accentuarli o ingrandirli, poiché senza tale esagerazione non si potrebbero
scorgere o identificare (esagerarli o rinunciare a conoscerli).
Perché l’argomento richiede un'esagerazione del genere? Qual è il nesso tra dislivello ed
esagerazione?
➢ a causa del DP la nostra metamorfosi è in ritardo e la nostra anima è rimasta indietro
in confronto al punto in cui è arrivata la metamorfosi dei prodotti (ossia del mondo).
Ciò significa che molti suoi lineamenti non hanno ancora trovato un posto definito
nella fisionomia generale, non hanno ancora assunto un profilo chiaro e adeguato ai
tempi. Le anime di oggi quindi (a causa del DP) sono ancora non ancora finite,
refrattarie a ricevere un'impronta definitiva e non saranno mai finite.
➢ se quindi Ander cerca di disegnare un ritratto di queste anime, correrebbe il rischio di
presentarle in modo troppo definito (quando sono ancora informi), di dare loro il
rilievo che non gli spetta, di presentare caricature come ritratti: di esagerare.
➢ ma se si rinuncia all’esagerazione si corre il rischio opposto: rendere irriconoscibili
queste anime
➢ Questa esagerazione è legittima perché è una rappresentazione esagerante di ciò
che viene prodotto nell’esagerazione (tale esagerazione è legittima in quanto la
tendenza della nostra epoca è addirittura forzare la metamorfosi con mezzi
esagerati).
La prima rappresentazione esagerante è quella della vergogna prometeica.

Parte prima: Dalla vergogna prometeica


Anders inizia con un inno intitolato Alle ruote dentate, tratto dagli Inni mollussici all’industria.
Molussico si riferisce al popolo inesistente dei Molussi, che vivono nel Regno utopistico dei
Molussi in cui Anders ambienta 30 anni prima un romanzo didascalico antifascita (La
catacomba molussica), dal cui manoscritto trae molte citazioni per le opere successive.

1) Primo incontro con la vergogna prometeica. L’odierno Prometeo domanda: chi


sono mai?
Appunti di diario, California 1942
Anders descrive un nuovo tipo di vergogna che non esisteva in passato, la vergogna
prometeica: la vergogna che si prova di fronte all’umiliante altezza di qualità degli
oggetti fatti da noi stessi. Racconta dell’episodio in cui l’ha notata:
➢ fa una visita guidata insieme a T. ad un'esposizione tecnica e di fronte alle macchine
sposte T. abbassava gli occhi, nascondeva le mani dietro la schiena e ammutoliva.
Come se si vergognasse della sua imprecisione e goffaggine di uomo di fronte a
meccanismi perfetti.
La macchia fondamentale di questa vergogna è l’origine: T si vergogna di essere divenuto e
non essere stato fatto, del suo processo -antiquatissimo- di procreazione e nascita. Si
vergogna della sua origine antiquata e quindi di se stesso. Da ciò si comprende in cosa
consiste l’orgoglio prometeico: consiste nel dovere tutto, persino se stessi, esclusivamente a
se stessi.
Prometeo ha riportato una vittoria talmente trionfale che ora, comincia a sostituire l’orgoglio
provato precedentemente con un senso di inferiorità di fronte alla sua opera; e dunque il
Prometeo del giorno d’oggi si domanda “Chi sono io mai?”. L’uomo odierno -non desidera
divenire un selfmade man- ma un prodotto, non perchè prova indignazione per essere fatto
da altri (dio), ma perché non è fatto proprio e dunque è inferiore a tutti i suoi prodotti
fabbricati. E’ una variante del classico “scambio tra fattore e cosa fatta” (=espressione usata
nelle Confessiones da Agostino per descrivere l’errore di adorare un creatum mentre essa
spetta solo al creator). Il parallelismo è chiaro: l’uomo preferisce la cosa fatta al fattore e
attribuisce alla cosa fatta una superiorità. Qui Anders fa riferimento ad una leggenda
molussica per cui il dio creatore molussico Bamba (T.), dopo aver creato le montagne
molussiche si ritirò nell’invisibile perché si vergognava di fronte alle cime create.

2) Si discutono 3 obiezioni: la vergogna prometeica è assurda, invisibile e banale


1. Noi abbiamo fatto le macchine, l’atteggiamento naturale è l’orgoglio. E’ assurdo
provare vergogna:
Per Anders non è vero che siamo orgogliosi. Ma chi è noi? Non di certo i
contemporanei che non hanno fatto le macchine, che -anche se avessero preso
parte alla fabbricazione- non si sentirebbero orgogliosi creatori. Neanche coloro che
producono le macchine lo sono, perché il processo di produzione si divide in tanti atti
singoli e dato che si può provare orgoglio solo per qualcosa che porta le tracce del
nostro lavoro, non possiamo provare orgoglio per la produzione di macchine (il
processo di lavorazione non permette al prodotto finito di rivelare il lavoro degli
operai individuali).

2. Non mi è mai successo di osservare manifestazioni di questa vergogna, è dunque


invisibile
Per Anders raramente la vergogna si coglie in flagrante e bisogna scoprirla solo
indirettamente attraverso il modo di comportarsi. Il tipo di vergogna più nota, come il pudore
sessuale, diventano visibili quando le persone si trovano l’una di fronte all’altra. Mentre la
vergogna prometeica sorge nella relazione tra uomo e oggetto, e poiché manca
l’interlocutore uomo di fronte a cui vergognarsi, l’uomo manca anche in qualità di
osservatore. Poi non è vero che la vergogna compare, anzi essa si ritrae; poiché chi si
vergogna cerca di nascondersi e anzi, si vergogna di vergognarsi. Dato che dunque la
vergogna si accumula, per porre fine a questa accumulazione ci si serve di un trucco: per
nascondere la sua vergogna, nasconde il suo stesso nascondersi ed ecco che assume
comportamenti opposti alla vergogna (=l’atteggiamento di chi se ne infischia, spudoratezza).
Quindi inganna se stesso.
3. Questa vergogna non è un fenomeno nuovo, anzi è noto da tempo come sintomo
della riduzione a cosa, della reificazione dell’uomo. E’ dunque banale
Per Anders non è così, infatti T. si vergogna non di essere ridotto a cosa, ma di NON
esserlo. L’uomo ha compiuto un passo avanti vergognandosi di non essere una
cosa: è giunto al punto di riconoscere superiorità alle cose. Egli accetta la sua
reificazione ma rifiuta di non essere cosa.
Questa autodegradazione di fronte a cose di propria fabbricazione non si aveva
dall’idolatria per Anders.

3) Un esempio di come ci si autoriduce a cosa: il makeup


Anders chiarisce due espressioni: accettazione della propria riduzione a cosa e
diserzione nel campo delle macchine.
A. esempio di accettazione della riduzione a cosa: il makeup come autoriduzione a cosa
Le ragazze non si presentano in pubblico struccate perché si vergognano di presentarsi in
veste trascurata. Ma importante è il “quando” si considerano non trascurate, curate e quindi
quando non credono di doversi vergognare→ quando si sono trasformate in cose. Es.:
mostrarsi con le unghie nude è sconveniente ed esse sono degne di essere presentate in
società solo quando si trovano alla pari con gli arnesi che devono maneggiare, quando
rinnegano la loro precedente vita organica. Ad oggi non è il corpo nudo, svestito ad essere
considerato nudo, ma quello non lavorato, quello che non contiene indizi di una
riduzione a cosa. Dunque ci vergognano del corpo nudo in un senso nuovo, anche quando
si è vestiti.
Anders parafrasa il celebre detto di Nietzsche: il corpo è qualcosa che deve venir superato
in è già superato.

4) Esempio della diserzione dell’uomo nel campo delle macchine. Prima calamità
dell’uomo: il suo corpo è ottuso. A causa dell’ottusità del suo corpo l’uomo sabota le sue
stesse opere
B. esempio di diserzione nel campo delle macchine
Anders spiega cosa voleva intendere con l'espressione l’uomo è transfuga nel campo delle
sue macchine e fa un esempio. Es.: un istruttore dell’Aviazione insegna ai suoi cadetti che
l’uomo, così com’è stato creato dalla natura, è una faulty construction, una costruzione
difettosa. Questo per Anders è la migliore descrizione di diserzione: l’uomo è infatti inferiore
ai suoi apparecchi per quanto riguarda forza e precisione, dunque l’istruttore ha ragione. Ha
ragione a maggior ragione in quanto egli non pensa l’uomo quale macchina accanto alle
macchine, ma l’uomo quale macchina per le macchine, come pezzo da adattare alle
macchine già costruite.
A questo punto si potrebbe avanzare l’obiezione rassicurante per cui è vero che le macchine
sono in vantaggio (forza, velocità, precisione), ma l’uomo è vivo, plasmabile, adattabile e
dunque libero. Tuttavia l’istruttore contesterebbe ciò, dicendo che invece, proprio perché
l'uomo è una faulty construction, in confronto alle cose è rigido e manca di libertà. Questo
perché il mondo dei prodotti può essere descritto come un processo, come la produzione
quotidiana di nuovi pezzi. Dunque non è determinato, ma indeterminato, aperto, plastico e
bramoso di modificarsi ogni giorno. E il nostro corpo? E’ uguale a quello dei nostri antenati,
è morfologicamente costante, e dunque non-libero, ottuso, non progressivo, antiquato,
un peso morto nell’ascesa delle macchine. Si sono scambiati i soggetti della libertà e
della mancanza di essa→ le cose sono libere, l’uomo manca di libertà.
Le parole dell’istruttore sono state dettate da una preoccupazione: la preoccupazione che il
nostro corpo -se la discrepanza che lo divide dai prodotti dovesse aumentare o rimanere
anche solo costante, minacci tutti i nostri nuovi progetti. Noi siamo d’ostacolo, potremmo
dire, facendo un parallelismo con la mitologia greca, che Icaro cadde non perchè la cera
delle ali non resse, ma perchè Icaro stesso non resse. Ecco perché una definizione
dell’uomo odierno potrebbe essere sabotatore delle proprie opere:
➢ non solo perché danneggia dolosamente i suoi prodotti, ma anche perché egli (vivo,
privo di libertà, rigido) è troppo determinato per poter partecipare ai cambiamenti
del mondo dei prodotti (morti, dinamici, liberi).
Quanto più aumenta l’infelicità dell’uomo, quanto meno si sente all’altezza dei suoi prodotti,
tanto più aumenta il numero dei suoi inservienti e sotto congegni, tanto più diviene
complicata la burocrazia dei suoi apparecchi, tanto più diventano vani i suoi tentativi di
restare all’altezza dei prodotti, Si può affermare che l’infelicità dell’uomo produce
un’accumulazione di apparecchi e che dall’accumulazione di apparecchi deriva a sua
volta un’accumulazione di infelicità.

5) L’uomo odierno tenta di sfuggire a questa calamità adeguandosi fisicamente alle macchine
mediante lo Human Engineering. Estremo pervertimento della domanda e dell’offerta
L’uomo non si rassegna alla propria interiorità ed arretratezza e dunque deve intraprendere
una strada. Il suo sogno sarebbe quello di divenire uguale alle macchine, essere
compartecipe della loro natura, ma ovviamente questa consustanzialità strumentale rimane
un sogno. Ciò non significa che l’uomo possa o voglia lavarsi le mani e lasciare le cose
come stanno, invocando la sua innocenza di essere creatura. Il fatto che sia creatura non è
una scusa o una giustificazione della sua insufficienza e quindi deve necessariamente
dimostrare la sua devozione ai prodotti: tenta di migliorarsi quanto basta per ridurre al
minimo il sabotaggio che egli opera alle macchine, causato dalla sua stessa nascita (suo
peccato originale):
➢ tenta di fare ciò per mezzo di metamorfosi che chiama Human Engineering,
ingegneria applicata all’uomo. Tutti questi tentativi di metamorfosi iniziano
sottoponendo il fisico a condizioni innaturali che per il fisico sono l’estremo margine
di sopportabilità (situazioni-limite fisiche) e studiandone le reazioni. Le si studia per
scoprire i punti deboli della natura corporea -punti in cui essa è rimasta amorfa e
indefinita-, che quindi si prestano -perchè amorfi e indefiniti- a essere modellabili
e dunque adattati alle esigenze delle macchine. Allo Human Engineering interessa
non il fisico in sé, ma quali sollecitazioni anomale sarebbe in grado di sopportare ed
interessano le situazioni-limite solo in quanto ci si propone di sorpassarle, spostando
sempre di più il valore soglia e stabilendo nuovi margini estremi. In questo modo
l’uomo sposta sempre più in là i propri confini e si allontana da se stesso, passando
in una sfera che non è più naturale, ma ibrida ed artificiale. Lo scopo di questi
esperimenti è sottoporre il fisico a metamorfosi continue, per capovolgere il vigente
sistema fisico e creare condizioni nuove del corpo, modificandolo in modo diverso
per ogni apparecchio.
Es.: se per manovrare una macchina occorre che si sopportiono pressioni molto
basse, si creano artificialmente camere di decompressione per ottenere la
metamorfosi di un uomo in un essere adatto alle basse pressioni.
1. scoprire il punto della soglia di sopportabilità 2. addestrarsi a questo livello 3.
una volta riuscito l’addestramento, spostare avanti il punto di soglia e riuscire
nella metamorfosi.
Dunque è sempre la macchina che stabilisce cosa deve diventare il corpo ed il rapporto
domanda e offerta subisce un capovolgimento perverso: per perverso Anders intende:
● il rovesciamento della successione temporale, ossia il fatto che di solito è l’offerta
che precede la domanda (e non viceversa)
● il fatto che la domanda è fabbricata.
In questo capovolgimento, una cosa è rimasta apparentemente intatta→ il soggetto del
bisogno è sempre l’uomo. Ma la perversione distrugge questa apparenza, e dunque la
macchina avanza la pretesa di essere soggetto del bisogno (e della domanda), esige che le
venga offerto ciò di cui ha bisogno.
La massima diventa quello che sei è la massima riconosciuta dalle macchine e il compito
dell’uomo è quello di garantire la riuscita di questa massima tramite l’offerta e la messa a
disposizione del proprio corpo. Se in passato esistevano massime che affermavano che
tutte le attitudini dell’uomo erano sacrosante e che il loro sfruttamento era un imperativo
morale, ora ciò che valeva per l’uomo vale per le macchine: è un dovere favorire le
attitudini delle macchine e soffocarle è un’azione immorale. Le attitudini dei prodotti
sono considerate sacrosante (anche quelle della bomba ad idrogeno) e coloro che tentano
di soffocare il diventa quello che sei e le attitudini della macchina, generano indignazione.
Ad oggi si può giustificare ogni macchina, per quanto spaventosa sia, in quanto si fa
ricadere sui suoi critici il sospetto di essere coloro che vogliano demolire le macchine in
quanto soffocano il diventa quello che sei.

6) Human Engineering: il rito di iniziazione dell’epoca dei robot. La disumanizzazione non


spaventa il disumanizzato perché non è di sua competenza.
C’è una grande somiglianza tra la descrizione di questi esperimenti e le descrizioni
etnologiche dei riti di iniziazione e di pubertà che nella vita tribale precedono l’ammissione al
mondo degli adulti. In quanto la persona che espone il suo corpo ad un esperimento, si
aspetta in seguito alla sua riuscita, l’ammissione alla comunità delle macchine (degli adulti).
Dunque gli esperimenti dello H. E. sono i riti di iniziazione dell'epoca dei robot e i soggetti
degli esperimenti sono i neofiti orgogliosi di aver superato la loro infanzia ed essere entrati
nel mondo degli adulti. Se le macchine sono considerate adulte, allora il superamento
dell’infanzia coincide con il superamento dell’essere umano e ciò che l’uomo spera di
ottenere con i suoi esperimenti è il climax di ogni possibile disumanizzazione. Questa
espressione non è affatto eccessiva, poichè ormai l’uomo non collega neanche più la forma
passiva dell’essere strumentalizzato ad idee di sofferenza, asservimento o infelicità. Anzi al
contrario pensa che l’infelicità stia nelle sue limitate possibilità di essere strumentalizzato ed
utilizzato. Egli mette tutto il suo impegno per portare a termine la sua stessa riduzione a
cosa, ad essere strumentalizzato.
La caratteristica delle macchine è che eseguono un unico lavoro specializzato, e questa
azione rappresenta la giustificazione della loro esistenza. Questa precisione delle macchine
deve dunque caratterizzare anche l’essere che viene fabbricato mediante lo H.E., il quale
deve svolgere un’unica azione specifica, per quanto sovraumana possa essere. Il risultato è
qualcosa di subumano, una pura funzione macchinale e l’uomo non riesce neppure a
comprendere l’accusa di disumanizzazione, poiché l’essere macchina è ciò che brama.
La domanda cosa ne sarà di lui in quanto uomo? non viene neanche afferrata, perché non fa
parte del suo compito specializzato: la disumanizzazione non spaventa il disumanizzato
perché non è di sua competenza.

7) L'atteggiamento del Prometeo trasformato: ibrida umiltà

Mai prima d’ora l’uomo ha osato un rifiuto così totale del suo essere e in confronto alle
intenzioni dello H.E., la costruzione della torre di Babele appare un’operazione mansueta,
una trasgressione innocente, poiché l’uomo stava infrangendo solo la dimensione delle cose
da lui fabbricate e i criteri in base ai quali fissare la grandezza massima consentita non
erano stati stabiliti. Mentre oggi l’uomo assume se stesso come criterio e dunque
stabilisce che il punto massimo è raggiunto nel momento in cui egli non è più all’altezza
dei suoi prodotti. Ma se l’uomo non prende in considerazione nemmeno questo punto
limite e altera il suo corpo, dà inizio ad un capitolo nuovo ed inaudito.
L’alterazione del corpo è qualcosa di radicalmente nuovo perché ci auto trasformiamo per
amore delle nostre stesse macchine, perché le prendiamo a modello delle nostre alterazioni
e rinunciamo ad assumerci noi stessi come unità di misura e dunque limitiamo la nostra
libertà e vi rinunciamo. L’atteggiamento di un Humano Engineer è arrogante
autodegradazione ed umiltà fatta di ubris. Anders fa ora un parallelismo con il suicidio:
➢ molte religoni vietano il suicidio, no perchè chi si suicida si arroghi un’esistenza
simile a quella di un dio, ma perchè al contrario egli riduce la propria grandezza in
modo assoluto (modo che spetta solo al divino agli occhi della religione). Viene
condannata proprio l’arrogante autodegradazione
➢ Ander sceglie di parlare di suicidio non a caso, ma lo fa poichè l’autodegradazione
di cui parla è piena di ubris tanto quanto il suidicio, poichè anch’essa
rappresenta un annientamento totale→ anzi, non è un annientamento fisico totale,
ma soltalto un annientamento dell’uomo in quanot uomo. Tuttavia questo
annientamento soltanto dell’uomo in quanto uomo, è un ubris ancora maggiore del
suicidio, perchè non solo si arroga la superbia manomissione dell’uomo che
viene compiuta, ma la inventa ex novo. Cioè: mentre il suicida si limita ad
anticipare un evento inevitabile, la manomissione dell’Human Engineer è un novum
che non gli capiterebbe mai. Egli dunque, alle miserie che già deve affrontare
(miseria, morte, vecchiaia), aggiunge masochisticamente un’altra (quella prodotta
dall’autoriduzione a cosa).
Finora si era soliti collegare al concetto di ubris la figura di Prometeo, ma questa figura ha
mantenuto la sua efficacia anche per i nostri contemporanei che praticano lo H.E.? Essi
sono sicuramente prometeidi, ma in un modo stranamente perverso, ci dice Anders→ in
quanto anch’essi avanzano pretese smisuratamente ambiziose, ma appunto talmente tanto
ambiziose, da rifiutare se stessi perchè inadeguati a quelle. Anch’essi sono dilaniati (ma non
perché Zeus li abbia puniti), perché puniscono se stessi per la propria arretratezza, per il
loro peccato originale della nascita. Motivo principale della vergogna prometeica è quindi
proprio l’essere modellato erroneamente dell’uomo, ma è soltanto il motivo principale tra
gli infiniti motivi di vergogna. La conseguenza di questa vergogna prometeica è la facile
deteriorabilità dell’uomo, che Anders indaga.

8) La seconda inferiorità dell’uomo: si deteriora facilmente ed è escluso dalla reincarnazione


industriale. “Il suo malaise dell’unicità”
L’uomo è mortale al contrario delle macchine: naturalmente esse non possono essere dette
in senso stretto immortali, in quanto siamo noi uomini ad assegnare mortalità ad essi
calcolando la loro durata della vita. Solamente la nostra mortalità non è opera nostra, solo
essa non è calcolata ed è perciò un pudendum. Tuttavia l’espressione immortale relativa ai
prodotti è giustificata se intesa come un nuovo genere di immortalità: la reincarnazione
industriale, ossia l’esistenza in serie dei prodotti:
● ogni pezzo singolo ha la sua durata di funzionamento, mentre la merce in serie è
resa eterna ed immortale dalla sua sostituibilità, dunque dalla sua tecnica di
riproduzione.
La cosa può apparire nuova o eccezionale, ma non lo è per Anders e lo dimostra facendo un
esempio: quando Hitler nel 1933 ordinò il rogo dei libri, non fu bruciata neanche una pagina
in quanto ognuna di esse esistevano in mille altre copie (in serie). Le pagine dei libri
bruciavano, ma i loro modelli no.
Certo, non viviamo in un mondo delle idee, ma il nostro mondo adesso è molto più
platonicoide di quanto sia stato in passato→ è costituito da oggetti che sono prodotti in
serie sulla base di un modello unificato, e questi prodotti esistono come imitazioni o copie di
modelli (=devono la loro esistenza a idee). Dunque finchè ci sono a disposizione pezzi
fabbricati su modelli, ritenere mortale o immortale un prodotto è una mera questione di
denaro→ poichè per la persona con denaro, ogni pezzo può reincarnarsi in uno nuovo.
Questo platonismo industriale, questa immortalità per mezzo della reincarnazione non è un
merito dei prodotti ed essi devono agli uomini questa virtù. Ma ciò non cambia nulla in
quanto ciò che conta è solo l’inferiorità dell’uomo: conta solo il fatto che non possiamo
essere compartecipi delle virtù che conferiamo ai nostri prodotti, che a nessun uomo è
concesso di esistere in serie, in più esemplari e dunque di essere immortali.
Proprio questo costituisce un’altra macchia e motivo di vergogna: ora Anders racconta
un’esperienza di vita a questo proposito:
➢ ando a trovare un malatoin condizioni disperate, che al come stai, rispose “per noi
c’è poco da fare, per tutti noi” e alla richiesta di chiarimento rispose “possono forse
metterci in conserva?”, riferito ai medici. “Non hanno a disposizione uomini di
ricambio per noi”. Non hanno dunque ad esempio, una lampadina di ricambio che,
quando si fosse spento si sarebbe potuta sostituire. Le sue ultiem parole furono “non
è una vergogna?”
➢ quest’uomo soffriva di una duplice inferiorità: 1) non lo si poteva conservare come
si fa con la frutta 2) non lo si poteva sostituire come una lampadina. Si vergognava di
essere un deperibile pezzo unico, non immortale per reincarnazione.
Tuttavia, così come non ci adattiamo alla nostra faulty costruction, non ci abituiamo neanche
alla nostra insostituibilità e al nostro essere pezzi unici. Tale sostituibilità è un dato di fatto
inconfutabile dal punto di vista dell’economia e dunque dal punto di vista delle istituzioni che
impiegano gli individui, la nostra trasformazione in prodotti in serie riproducibili è già
avvenuta. Ma ciò è vero solo da questo punto di vista e non da quello dei singoli individui
(testimone il paziente che si era lamentato della sua insostituibilità e non della sua
sostituibilità). Quello che accade a quest’uomo accade a tutti: tutti ci vergogniamo della
nostra insostituibilità, poichè -per quanto nell’industria siamo sostituibili-, noi stessi, la nostra
identità non può venir continuata da sostituti. Il mio proprio io resterà insostituito ed
insostituibile.
Determinante è però l’atteggiamento del singolo di fronte alla sua insostituibilità, come la
sente: l’uomo la giudica uno svantaggio, un qualcosa contro cui si ribella e per cui si
vergogna. Determinante è quidni il malaise dell’unicità, riassumibile nella massima io ci
sono una volta sola, io non torno più e dunque strettamente correlato alla paura della
morte→ da cui i prodotti sono riusciti a sottrarsi grazie alla loro sostituibilità e produzione in
serie, ma dato che l’uomo rimane escluso da ciò, rimane escluso anche dalla possibilità di
sottrarsi alla morte. Rendersi conto di non essere una merce in serie ha l’effetto di un
memento mori.

9) L’uomo tenta di sfuggire alla seconda calamità mediante l’iconomania


La prova schiacciante di quanto questo senso di inferiorità (malaise dell’unicità) sia generale
al giorno d’oggi, è data dall’imperante mania delle immagini, la inconomania:
● è un fenomeno senza precedenti nella storia dell’umanità per quanto riguarda la sua
intensità ed ha superato di molto le altre manie
● il mondo degli uomini è “recipiente ed occasioni di possibili immagini”, tanto che
se ci immaginiamo un mondo svuotato dalle immagini (film, fotografie e fantasmi
televisivi) non rimarrebbe che puro nulla
● il motivo di questa ipertrofica produzione di immagini è che mediante esse, l’uomo
acquista la possibilità di creare spare pieces di se stesso e dunque di smentire la sua
insopportabile unicità ed insostituibilità. E’ una contromisura contro il ci sono solo una
volta→ in questo modo, almeno in effige, anche l’uomo acquista un’esistenza
multipla (anche se vive soltanto nell’originale, in qualche modo esiste anche nelle
sue copie)
● dunque è logico che prendiamo come invidiati modelli ad esempio le stelle del
cinema, in quanto solo coloro che riescono ad avere la più straordinaria esistenza
multipla. Essi fanno una vittoriosa irruzione nel mondo dei prodotti in serie che noi
riconosciamo ontologicamente superiore e li idolatriamo perché hanno coronato il
sogno di esserci come cose
Es.: tra l’attrice-diva divulgata in migliaia di copie e lo smalto per unghie non vi è
alcuna differenza ontologica. Essi si sostengono a vicenda (ad esempio nella
pubblicità) e stringono un’alleanza→ non solo sono ugualmente diffuse, ma hanno
vinto allo stesso modo la loro mortalità in quanto entrambi possono continuare ad
affermarsi nelle riproduzioni anche dopo la loro morte.
Tuttavia, al contrario dell’esistenza realmente multipla di cui godono i prodotti di massa, la
nostra moltiplicazione per mezzo delle immagini è solo un artificio e la soddisfazione che ci
offre è solo un surrogato di essa: non è possibile infatti eliminare la differenza tra
esemplari effettivi e semplici copie. Dunque le immagini non riescono ad eliminare del
tutto la vergogna che l’uomo prova di fronte alla sostituibilità dei prodotti.
Ma ci si può chiedere se l’uomo brami realmente vivere come un prodotto di massa: non
sarebbe possibile rispondere affermativamente a questa domanda così come non sarebbe
possibile fare lo stesso in risposta alla domanda se desideriamo o meno l’eternità. E’ vero
che non vogliamo morire e che abbiamo paura della morte, ma non è vero che desideriamo
vivere fino a raggiungere l’età di milioni di anni. La certezza dunque appartiene solo alla
negazione, cioè al rifiuto e non al desiderio positivo. Allo stesso modo, è vero che tutti
vogliamo liberarci dal proprio io ci sono una volta sola, ma non è vero -o meglio, è
un’esagerazione filosofica- affermare che tutti vogliamo effettivamente -come il paziente-
suddividerci in spare species, ossia popolare il mondo sotto forma di innumerevoli
esemplari. Quindi il compromesso iconomatico (il fatto che grazie alle immagini
partecipiamo all’esistenza in serie dei prodotti di massa pur restando noi stessi) è forse la
soluzione migliore.

10) L’umiliazione illustrata da un fatto storico: il caso di McArthur costituisce un precedente


L’umiliante apoteosi della macchina di fronte all’uomo è un avvenimento degradante, e lo è
ancora di più se i protagonisti sono uomini al centro della vita pubblica, come fu per il
generale McArthur:
● quest’ultimo al principio del conflitto coreano propose delle misure la cui esecuzione
avrebbe anche potuto scatenare una terza guerra mondiale, pensando di utilizzare
l’arma atomica contro la Cina comunista. L’eccessiva intraprendenza del Generale
non piacque però a Truman: per quest’ultimo la guerra doveva essere limitata, con lo
scopo di bloccare l’avanzata comunista in Corea del Sud mentre per MacArthur
rappresentava l’occasione di liberare la penisola coreana. Per questa ragione il
Generale voleva forzare la mano. Dunque la volontà di spingersi così avanti non
piacque al presidente statunitense che l’11 aprile 1951 sollevò ufficialmente
dall’incarico il generale MacArthur.
Tuttavia la decisione decisiva venne presa da un Electric brain, a cui si trasmise la
responsabilità finale→ la decisione fu sottratta a McArthur in quanto uomo, in quanto aveva
un cervello umano. Lasciando l’ultima parola alla macchina l’umanità dimostrò di
subordinarsi ad essa, riconoscendo il robot come surrogato di coscienza. Alla macchina
non vennero poste domande del tipo se sarebbe stata una guerra giusta o ingiusta perché le
avrebbe rifiutate in quanto intruglio soggettivo-sentimentale, dunque si rinunciò a priori alle
domande morali. Quando si ricorre alla macchina, due elementi vengono meno:
1. viene meno la competenza dell’uomo a decidere da sé i suoi problemi (perché la
capacità di calcolo dell’uomo è nulla pari a quella della macchina)
2. vengono meno i problemi stessi, se non sono calcolabili.
L’apparecchio emise il verdetto immediatamente presentando l’eventuale guerra come una
catastrofe per l’economia americana, ma a prescindere dal responso affermativo o negativo,
l'avvenimento in sé rappresenta la sconfitta della massima portata storica che
l’umanità si sia mai inferta→ è la prima volta che l’umanità si è abbassata al punto di
affidare ad un oggetto la sentenza da cui dipendeva il suo essere o il suo non-essere.
Subordinando il generale alla macchina, l’umanità lese se stessa. In questa occasione, per
la prima volta l’umanità effettuò emblematicamente la propria autodegradazione.
Tornando a McArthur, vive una duplice umiliazione:
1. le sue azioni erano lecite solo in seguito alla decisione e al permesso di una
macchina. Ma dato che l’esito fu un veto, una proibizione, l’umiliazione fu totale in
quanto, pur non non essendo stato degradato dal punto di vista militare, la sua
carriera militare è finita, la degradazione si è compiuta e si spoglia della divisa per
diventare borghese
2. da borghese diviene presidente di un’impresa che produce macchine da ufficio:
Ander è convinto che a questa azione si possa attribuire un senso. In un ipotetico
romanzo McArthur sceglie questa professione per vendetta→ incapace di superare
la sua umiliazione, sceglie il solo posto di lavoro che gli permette di procurarsi una
soddisfazione, ossia il lavoro in cui può far vedere alle macchine che la sua parola
conta ancora e esse sono soggette a lui. Solo qui poteva dominare sulle macchine
ed umiliarle, saziando il suo desiderio di vendetta.
Traducendo questa scelta nel linguaggio hegeliano si potrebbe affermare che il servo
di un tempo (macchina) era arrivato ad essere il nuovo signore e il signore di un
tempo (McArthur) era stato degradato a servo, e il servo tentò di nuovo di farsi
signore del signore (della macchina).

11) La vergogna quale turbamento dell’identità. Il concetto della dotazione ontica. L’io si
vergogna di essere “es”; l’”es” si vergogna di essere io
Anders ora confuta l’obiezione più forte sollevata contro la sua tesi della vergogna
prometeica: l'obiezione afferma che nell’espressione vergogna prometeica, vergogna è una
semplice metafora. Afferma ciò soprattutto perchè la vergogna genuina è sempre una
vergogna di fronte a una forza superiore che ha il valore di un’istanza, di cui si teme l’occhio
scrutatore. Ma dato che l’istanza della vergogna prometeica consiste nel mondo delle
macchine (dunque oggetti privi di occhi) che non vedrebbero la macchia dell’uomo e non
potrebbero condannarlo o giudicarlo. Dunque secondo questo ragionamento tutto si riduce
ad una metafora. Passa allora la forma passiva dell’espressione l’uomo d’oggi è umiliato
dalla perfezione delle macchine, ma non l’uso del riflessivo vergognarsi.

Per confutare questa obiezione bisogna chiarire in cosa consiste l’essenza della vergogna:
1. è un atto riflessivo (vergognarSI), dunque è una relazione con se stessi
2. ma è una relazione con se stessi che fallisce
3. non fallisce solo occasionalmente, ma per principio
4. colui che si vergogna, si trova al tempo stesso identico e non identico a se stesso
(sono io, eppure non sono io)
5. e dato che colui che si vergogna non riesce a risolvere la contraddizione in cui si
trova, l’atto del vergognarsi non finisce mai
6. tanto che perde il suo carattere di atto e degenera in una condizione
7. ma non è una condizione equilibrata di stato d’animo, bensì uno stato d’animo di
irritazione e disorientamento, che sembra ricominciare sempre daccapo
Dunque, la vergogna è un turbamento dell’autoidentificazione, uno stato di
perturbamento.

La vergogna, a differenza della maggior parte degli atti studiati in psicologia, contiene una
doppia intenzionalità: è diretta verso la macchina ma anche verso un’istanza indesiderata, di
fronte alla quale si vergogna colui che si vergogna. Essa, dice Anders, contiene un coram:
poiché l’istanza è spesso rappresentata da noi stessi, la vergogna può essere triplamente
riflessiva (1. ci si vergogna 2. ci si vergogna di se stessi 3. ci si vergogna di se stessi di
fronte a se stessi). Questa istanza è un’istanza indesiderata e dunque è un’istanza da
evitare, dunque ha una sorta di intenzionalità negativa. La vergogna è appunto il volgere le
spalle a questa istanza.
● Es.: il gobbo si vergogna della sua stessa gobba, o meglio, di essere quello con la
gobba. La gobba gli sembra essere qualcosa di contingente e non quello che egli è,
ma solo quello che egli ha. Tuttavia, ciò che si ha (=ciò che si ha nel senso in cui si
ha il proprio corpo), si è ineluttabilmente. Così anche il gobbo, proprio perché ha la
gobba, è quello con la gobba. Al contempo egli si identifica e non si identifica (poiché
non è responsabile di se stesso) con quello con la gobba. Non è responsabile della
sua gobba, ma nega ciò che è, pur essendolo. Poichè non riesce a risolvere
questa contraddizione, neppure la sua vergogna si dissolve e non cessa. Si rivela
dunque la crisi d’identità.
● Il moralista, che troverà rivoltante questo esempio, chiederà se non è responsabile di
essa, perché dovrebbe vergognarsi della sua gobba? Il gobbo tuttavia si vergogna
proprio di questo suo non essere responsabile: si vergogna perché ne è
responsabile e non sebbene lo sia.
L’espressione che più chiaramente chiarisce il concetto di vergogna è non essere
responsabili di qualche cosa→ ciò di cui non sono responsabile è ciò di cui non rispondo,
ciò che è sottratto alla mia libertà, che rientra nella sfera del fato (fatale) e dell’impotenza.
Dalla contraddizione tra la pretesa di libertà e il fatale, tra ciò di cui si può rispondere e
ciò di cui non si risponde, scaturisce la vergogna. Ci si vergogna della propria
impotenza.
Questa dinamica si nota anche considerando la pulsione verso la libertà assoluta tipica
dell’Io che però continuamente riscopre il proprio Es. L’esigenza di libertà è illimitata e
l’io non vuole essere parzialmente libero, ma assolutamente libero, completamente
individuale, null’altro che se stesso: questa pretesa è però patologica, a lungo andare l’io
non la può sostenere e arriverà il momento in cui incontrerà i confini della coscienza di sé: è
il momento in cui scopre di essere un es:
➢ per es Anders non intende solo ciò che indicava Freud (consiste di istinti che
rappresentano la riserva individuale di energia psichica), ma anche tutto ciò che non
ha carattere di io, tutto ciò che è preindividuale, di cui l’io è partecipe senza esserne
responsabile e senza potervisi opporre. E’ ciò che gli deve esser stato “dato in dote”,
dunque lo chiama dotazione ontica.
Nell’istante in cui scopre questa dotazione, si vergogna e Ander precisa questo
nell’istante perché la vergogna non nasce in seguito, come reazione alla scoperta della
propria impotenza, ma è l’impotenza stessa, è il fallimento stesso:
● Es.: se l’asceta comprende che ha un corpo (avere nel senso di non poter ovviare,
dover avere, essere un corpo) e resta perplesso di fronte a questo fatto inaccettabile,
questa sua perplessità è la vergogna.
Vergognarsi dunque significa non poter ovviare al fatto che non si è responsabili→ è
proprio ciò a cui il moralista si appella per assolvere dalla vergogna rappresenta il motivo
basilare della vergogna. La vergogna scaturisce dalla contraddizione di essere
simultaneamente noi stessi e qualcos'altro e in un certo senso essa è anche il tentativo di
liberarsi di questo qualcos'altro, di questa dotazione. Ma questo tentativo è vano: la
vergogna non lascia via d’uscita a chi si vergogna, se non il cercare di sprofondare
insieme con la dotazione, alla quale è incatenato (la locuzione voler sprofondare dalla
vergogna non è una metafora ma una descrizione appropriata). Questa brama di scomparire
dunque resta vana, poiché la vergogna inizia ad accumularsi sotto forma di vergogna di
vergogna
● Es.: avendo compreso che al vergogna è la disperazione della libertà e
dell’individuazione che si riconoscono limitate, appare evidente perché la vergogna
sessuale sia da sempre stata La vergogna. Il sesso è proprio della specie, è
l’elemento preindividuale per eccelelnza, ciò che è sottratto alla libertà. C’è
un’appartenenza reciproca tra individuo e sesso, in un duplice senso→ da un lato
l’individuo appartiene al sesso e gli è persino soggetto (l’individuo è soggetto al
sesso) e d’altro lato il sesso non può che realizzarsi negli individui. L’appartenenza
reciproca è tale che si può affermare indistintamente che l’individuo è attributo del
sesso e che il sesso è attributo dell’individuo. La verità sta proprio in questa
ambiguità, in questa validità e invalidità simultanea delle due affermazioni. Ma
questo fatto ambiguo è la ragione per cui il sesso è un pudendum, è qualcosa per cui
ci si vergogna: dato che il singolo appartiene al sesso e gli è soggetto, esso non è
padrone dis e stesso, non è più se stesso, non è più libero. E’ una profonda
ambiguità, perché è al contempo se stesso e non è se stesso.
Dunque la vergogna non è uno stato psicologico casuale, ma un fatto metafisico: è la
materializzazione della dialettica tra res ed universale, dove la res (singolo) si vergogna
di contenere in sé l'universale (o perlomeno, di esserlo).

Anders ora prende in considerazione altri generi di vergogna:


● Es.: la vergogna del bambino vergognoso che si nasconde sotto la sottana della
madre non è meno elementare della vergogna sessuale. L’Io si vergogna dell’Es,
ma è possibile anche il rovescio? Certo, l’es si vergogna dell’io, ed è questo il caso
descritto. Quando nasce socialmente, l’io subisce un forte trauma e il bambino inizia
a mostrare la faccia come io, come singolo e smette di essere un mero essere
insieme. Supponiamo che un estraneo gli chieda come si chiami, una domanda che
presume che l’interrogato si identifichi come se stesso, lo status del bambino cambia
di colpo→ invece di essere insieme, essere figlio di mamma, deve mostrare la sua
faccia come singolo, come io. Lo shock della nascita sociale è tanto violento da poter
essere considerato una variante del trauma della nascita di Freud. Questo status non
gli è completamente nuovo, poiché dalla nascita era stato esposto al pericolo
dell’essere io e aveva avuto l’intuizione che un giorno l’essere insieme sarebbe finito.
Ma chi ha avuto questa intuizione? Chi si ritirava terrorizzato? Sicuramente non l’io,
perchè ciò che incute terrore è l’essere io. Dunque il soggetto dell’intuizione che
indietreggia terrorizzato è l’es (l’essere non ancora precisatosi). Ora accade la
catastrofe→ quando l’estraneo rivolge la parola al bambino la minaccia si fa reale:
sebbene sia ancora un es si vede provocato come io. Anders non nega che egli
sappia “sono io” “si tratta di me”, ma afferma anche che è altrettanto sicuro che “non
lo sono ancora”. La situazione è una simultaneità di essere io e non essere io,
una contraddizione irrisolvibile che è la situazione della vergogna. All’es, sopraffatto
dalla vergogna di doversi presentare come io, rimane come unica via d’uscita il
desiderio di sprofondare e rifugiarsi nelle sottane della madre.
Tornando all’obiezione, essa affermava che la denominazione vergogna prometeica è
solo una metafora e che non è possibile ravvisare sensazioni di vergogna nelle esperienze
descritte, che non si può parlare di vere e proprie istanze perchè, se esistesse la vergogna
prometeica, le sue istanze sarebbero mere macchine, dunque oggetti privi di occhi, e dato
che sarebbe assurdo pensare che l’uomo possa ammettere come vere istanze oggetti privi
di occhi o temerli, la vergogna prometeica non esiste. Anders si appresta a verificare la
validità di questa obiezione (=A. che ha carattere metaforico B. che c’è assenza di occhi)
e se la vergogna prometeica sia un C. turbamento dell’identificazione: avendo infatti
descritto la vergogna come turbamento dell’identificazione, se affermiamo che la vergogna
prometeica sia un turbamento dell’identificazione, avremo il diritto di definire questa una vera
e propria vergogna.

12) Si rifiuta l’obiezione A: Nessuna espressione è soltanto metaforica


Obiezione A: la vergogna prometeica è solo una metafora. Che cosa significa affermare che
una definizione di una realtà psichica è solo metaforica? Gli psicologi o gli scienziati
screditano il valore enunciativo di espressioni del tipo “ho un peso sul cuore” o “ho la mente
più chiara oggi” e affermano che non devono essere prese in senso letterale. Ma se l’anima
angosciata si definisce pesante e si riconosce in questa parola, questa è una prova che il
cuore angosciato si sente effettivamente pesante. Il fatto che l’anima abbia fatto ricorso a
questa definizione per caratterizzare la propria condizione, dimostra che vi si riconosce
realmente. Questa diffidenza verso la metafora poggia sull’erronea nozione ormai
accettata come verità, che le diverse province dell’esperienza debbano essere
autonome e separate da chiusure ermetiche, e che non possano comunicare tra loro. Ma
il fatto che proprio espressioni che “derivano da province altre e straniere”, siano quelle che
meglio fanno comprendere, dimostra che questi confini sono apertissimi.
● Es.: quando il malato si lamenta di acuti dolori, il medico lo comprende
Ciò che vale per le qualità, vale anche per esperienze di vita vissuta indicate per mezzo di
una reale o presunta metafora, come essere sollevati, abbattuti, sprofondare e quindi anche
per la vergogna.

13) Si rifiuta l’obiezione B: il mondo non è privo di occhi


Obiezione B: non si può parlare di reale vergogna perché si vergogna solo colui che sa di
essere visto, che sa di essere sotto controllo, sotto gli occhi di un'istanza. Il mondo delle
macchine è privo di occhi e non esiste un uomo così eccentrico da affermare che le
macchine lo vedano, dunque non possono essere considerate istanze.
Ciò sembra plausibile, ma solo perché siamo irretiti dalle teorie, mentre per chi è libero dalle
teorie, nulla è più plausibile dell’essere guardato dalle cose. L’uomo libero dalle teorie
non è certo un teorico che concepisce se stesso solo come uno che vede il mondo, ma è un
uomo che si considera guardato e visto dal mondo e non solo dal mondo inteso come i suoi
simili o gli animali, ma anche da tutto il mondo visibile. Egli concepisce la visibilità come un
rapporto reciproco: tutto ciò che egli vede, vede anche lui. Della sua concezione del
mondo fa parte il considerarsi guardato da esso e il comportarsi come uno che è visto da
esso. Come dimostrano ad esempio testimonianze empiriche raccolte dalla psicoanalisi:
inibizioni dovute al pudore che si manifestano anche in solitudine.
Anders propone un esperimento che dimostra che non è vero che l’uomo debba essere
eccentrico per sentirsi guardato dal mondo, ma che anzi, egli debba andare contro il suo
modo naturale di sentire, per non sentirsi guardato:
● immaginiamo un mondo in cui gli oggetti intorno a noi siamo ciechi e non ci vedano e
che ad esempio il quadro in camera non abbia la minima idea della sua bellezza o
che noi lo contempliamo, che sia cieco. In questa visione dovremmo passare la vita a
vedere e a non essere visti e l’idea è talmente fantastica che ci sembra di
immaginare un altro pianeta, un mondo oscurato. Credere che le cose non possano
essere riconosciute come istanze in quanto cieche è ingiustificato e il ragionamento
dell’uomo per cui le cose non mi vedono, ergo non ho bisogno di vergognarmi
davanti a loro, è mera teoria.
C. E’ bene ora vedere se la vergogna prometeica soddisfi la condizione essenziale della
vergogna, ossia che riveli un turbamento dell’identificazione. Prima Anders introduce il
termine es lasciandolo molto vago e limitandosi a descriverlo come tutto ciò che l’io, volente
o nolente, è anche, sebbene ciò che è anche non sia lui stesso. L’es dunque, che indica
fenomeni diversi è diverso da quei fenomeni di es, prima citati, in qualche modo naturali (il
corpo, la specie, il sesso, la famiglia). Su questa differenza dunque si basa l'argomento
dell’indagine: l’es non è più inteso com’era inteso prima (es naturale), ma ora è la macchina
che si presenta in veste di es, è l'attività meccanica a cui l’uomo partecipa con funzione di
parte di macchina. Dunque distingue tra:
1. es naturale
2. es macchina
Possiamo immaginare l’uomo come preso tra incudine e marello, stretto da due forze, due
blocchi che gli contestano il suo essere io:
1. da un lato oppresso dalla forza dell’es naturale, (quello del corpo, della specie ecc)
2. dall’altro oppresso dalla forza dell’es macchina, artificiale e tecnico
Lo spazio si restringe sempre di più e l’uomo è schiacciato da questi due colossi: il trionfo
finale spetterà esclusivamente alla macchina che inghiottirà tutto, io ed es.Lo spazio di
cui l’io dispone oggi è sempre più limitato: l’Es-macchina si avvicina sempre più, passo a
passo, e punta verso un totalitarismo tecnocratico La locuzione la macchian ci preme da
vicino infatti, non è un’immagine: anzi, non solo essa preme, ma penetra dentro di noi,
perchè tenta addirittura di sopraffare la nostra sessualità e includerla nel suo dominio.
Esempio:

14) L’orgia dell’identificazione specchio del turbamento dell’identificazione. Il jazz, culto


industriale di dioniso

La musica jazz è la musica delle macchine, ossia quella che mette in moto i balli adeguati
all’uomo della rivoluzione industriale. Può sembrare che le due forze dell’es (la forza
originaria, naturale e quella della macchina) si siano alleate per polverizzare tra loro l’io, ma
con questa alleanza la macchia non ha ancora raggiunto la sua ultima meta. Il suo scopo è
infatti liquidare il sesso stesso: se si è messa in contatto con il sesso non è per collaborare
ma per ridurre il ballo a un processo di trasformazione e i ballerini in trasformatori il
cui dovere consiste nel trasformare le energie animali in enerchie meccaniche
(ovviamente non è da intendere in senso letterale). Le musiche che danno vita a questi balli
sono dunque caratterizzate da un andamento oggettuale ed automatico: la ripetizione non è
una caratteristica puramente musicale, ma è il simbolo dell’ostinazione senza sosta con cui
la macchina interrompe il ritmo del corpo e della confutazione del corpo. Per dimostrare la
sua conformità alla macchina, il corpo stesso partecipa a questa confutazione e dunque ciò
che il ballerino balla non è solo l’apoteosi della macchina, ma anche la celebrazione delle
proprie dimissioni e della propria sconfitta alla macchina. L’espressione religione
dell’industria (citata a proposito dello H.E.) trova qui conferma:
➢ le orge rappresentate da questi balli non hanno nulla a che vedere col divertimento,
ma sono orge estatiche, danze sacrificali che vengono celebrate come un culto
in onore del Baal della macchina
➢ i ballerini invece di essere se stessi sono fuori di sé, ma non per sentirsi tutt’uno con
le potenze ctonie, bensì con il dio della macchina: è il culto del Dioniso industriale.
Che questo rito abbia l’effetto e lo scopo di liquidare realmente i ballerini e di far dunque
smarrire totalmente il loro io, è documentato dal fatto che durante l’orgia perdono la loro
faccia e tale perdita si rivela in vari modi:
● durante l’orgia la faccia è sfatta e devastata, non è più specchio dell’individualità ma
semplice parte del corpo associabile ad una semplice spalla o mano
● oppure è dissociata dall’orgia, non informata su ciò che succede, diviene vuota ed
impassibile e la si porta con sé solo perchè non è possibile lasciarla in guardaroba
prima dell'inizio del rito
● oppure diventa vitrea, ossia cessa di vedere e di avere coscienza della propria
visibilità.
Non ci sarebbe da meravigliarsi se durante l’orgia sorgesse un tipo nuovo di vergogna: la
vergogna della faccia appunto: e non la vergogna di possedere un viso brutto, ma -in
analogia alla vergogna provata dagli asceti di possedere ed essere un corpo- la vergogna di
possedere una faccia in sé e per sé e di doverla portare con sé come stigma dell’egoità,
come dotazione coatta. La faccia è diventata dunque un pezzo antiquato.
Questa descrizione è una situazione in cui l’identità con la macchina è ottenuta
violentemente per mezzo di un rito estatico. E’ quasi una situazione illusoria, una bella -o
macabra- parvenza→ in quanto non compare una macchina reale (ammesso che non si
consideri la musica stessa come macchina), ma il congegno creato dall’uomo per effettuare
con il suo stesso aiuto la propria meccanizzazione. Il collegamento tra questa digressione e
l’indagine principale è evidente: se l’uomo riuscisse ad identificarsi senza problemi con il suo
mondo di macchine, non avrebbe inventato un rito di identificazione, non avrebbe avuto
bisogno dell’orgia per assaporare fino in fondo l’identificazione. L’esistenza di questo rito va
dunque considerata come un'indicazione che l’identificazione non riesce.

15) La ricaduta. L’io ravvisa in se stesso un io insufficiente. La situazione provocata dalla


cattiva riuscita del lavoro è la riprova del quesito della vergogna prometeica.
Ma cosa significa turbamento dell’identificazione di fronte alla macchina? Qualcosa di
duplice (conformemente al principio duplice dell’io si vergogna dell’ess e dell’es che si
vergogna dell’io):
1. l’uomo posto di fronte a se stesso, invece di trovare se stesso, trova qualcosa di
già conforme al mondo delle macchine e scopre di essere una parte di esse,
L’io trova se stesso in veste di es (possibilità antiquata)
2. l’uomo è già volontariamente integrato nella macchina, ma poiché non gli riesce
la completa conversione in macchina e la consustanzialità, ritrova nonostante tutto
ancora se stesso invece che una parte di macchina
L’es trova se stesso in qualità di io.
L’uomo rappresentato da Chaplin in Tempi moderni (che anche quando non manovra più la
sua macchina nella catena di montaggio, esegue involontariamente i movimenti e constata
sconcertato di essere impazzito o diventato pezzo di meccanismo) non esiste, ed è una
rappresentazione distorta. Infatti ciò che realmente sconcerta l’uomo chapliniano, il modern
man è che ad esempio non riesce a mantenersi in sincronismo con il trasportatore a nastro
che gli scorre davanti troppo velocemente o che ad esempio il suo corpo non riesce a
combinare i movimenti necessari per svolgere l’operazione richiesta.
Ander però torna al processo necessario per acquistare familiarità con l'andatura della
macchina ed esamina se già a questo stadio si produce la dicotomia dell’identità dell’io:
➢ l’adeguarsi all’andatura della macchina e mantenersi in sincronismo con la macchina
in movimento richiede uno sforzo immane, che si accompagna all’angoscia di non
riuscirvi. Al lavoratore si richiede di concentrarsi nello sforzo di inserirsi nel tempo e
nel ritmo della macchina per lavorare senza sforzo ed egli deve concentrarsi per non
funzionare come se stesso→ il paradosso è evidente. La contraddizione contenuta in
ciò che si pretende dal lavoratore è che si cancelli, che trasformi la sua azione in un
processo puramente automatico e quando questa trasformazione è riuscita, si
pretende anche che tenga sotto controllo questo automatismo
➢ Es.: anche il violinista ad esempio deve adattarsi al suo strumento, ma il suo compito
è umano in confronto a quello del lavoratore, è scevro di contraddizioni perché,
esercitandosi può rimanere attivo e trasformare il suo strumento in una parte del suo
corpo. Mentre l’operazione di addestramento del lavoratore è l’inversione di ciò che
fa il violinista, poiché consiste nel fare di se stesso un organo della macchina, nel
riuscire ad essere incorporato da essa.
➢ Si vuole che egli si adoperi attivamente alla propria passivizzazione e la
compia egli stesso. E’ una pretesa dalla natura paradossale. Invece di essere lui al
centro, deve tentare di trasferire il suo centro nella macchina, dunque deve essere
se stesso e non deve essere se stesso ad un tempo→ ci troviamo nell’ambito
della vergogna. Es.: supponiamo che l’adattamento sia riuscito e tutto scorra liscio,
l’io del lavoratore non è affatto. Solo nel momento in cui il lavoro ha un esito cattivo,
l’io torna in sé e solo allora si trova di fronte a se stesso come un inetto. Si accorge di
sé solo perché emerge (dal suo es macchina, della sua esistenza conformistica), si
incontra solo perché diventa percepibile come forma avversa e antagonista della
macchina. La sua individualità risalta solo perché è una negatio.
Quindi il turbamento dell’identità non è percepito perché ci si trova di fronte a se
stessi, ma si è posti di fronte a se stessi soltanto perché c’è un turbamento. Ma chi
incontra e chi è incontrato? Sicuramente l’io è posto davanti all’io, ma questa risposta non
basta poiché colui che trova e colui che è trovato non sono identici:
● colui che trova è il conformista, il lavoratore trasformato in pezzi di macchina che ha
assunto la natura di es lasciandosi alle spalle quella di io
● colui che è trovato è il vecchio io che ricompare nella sua arretratezza ed essere
antiquato e che ora, in seguito alla trasformazione in es-macchina obbligatoria, non
ha più diritto d’essere.
Questa descrizione di colui che è trovato non è completa e Anders analizza la situazione
che deriva dal cattivo esito del lavoro: per la macchina è indifferente chi ha disturbato il
suo andamento, se l’io o il suo corpo. Nel momento del cattivo esito dunque, l’uomo
scopre improvvisamente in se stesso, invece che una parte della macchina, l’antico io e
aggiudicandosi con il criterio della macchina, si vede dal loro punto di vista. Dunque anche
per lui, la distinzione tra io e corpo che un tempo aveva avuto importanza, perde ogni rilievo:
i due sembrano ora essere un unico complesso e c’è solo la frattura tra la macchina (e il
conformista che la rappresenta) e l’antica arretratezza di cui fanno parte l’io e il corpo uniti
insieme. Non c’è altra possibilità di definire il rapporto tra essi con la parola vergogna. Il
cattivo esito non si limita a far risaltare la differenza di perfezione tra uomo e macchina, ma
respinge colui che è fallito nella sua antica arretratezza e non sa cosa fare di se stesso. Egli
non si riconosce in questa arretratezza, egli non è né questo io né questo corpo, ma al
contempo non può non identificarsi con questa arretratezza, poiché la porta con sé
come dotazione. E il fatto che egli non sia responsabile della dotazione poco importa,
perché è proprio in questo fatto che sta l’onta (perchè fatale, è il fatum contro cui non puoi
far nulla): perciò si vergogna.
Precipitato fuori dall’es di cui finora aveva fatto parte, si trova ora abbandonato al cospetto di
ciò che ha perduto e deve essere un io, ma un io che non è altro che una scandalosa non
macchina, Nessuno. E nonostante non abbia più nulla da fare nel regno delle macchine e
non sia il luogo adatto a lui, deve rimanere al suo posto. Non ha altro desiderio se non quello
irrealizzabile di sprofondare sottoterra: vergogna.
Parte seconda: Il mondo come fantasma e come matrice

20) Il totale è meno vero della somma delle verità delle sue parti. La mascheratura
realistica dei moduli fissi misa a uniformare l’esperienza.
Ciò che si prepara ai fini della vendita non è la singola trasmissione, ma l’immagine del
mondo nella sua totalità, che si compone delle singole trasmissioni e quel tipo di uomo che
si nutre esclusivamente di fantasmi e finzioni. Dunque la totalità è meno vera della somma
delle verità parziali, dunque modificando la proposizione hegeliana "Menzogna è l’intero e
soltanto l'intero". Il compito di coloro che ci forniscono l’immagine del mondo consiste
dunque nel comporre per noi con molte verità un tutto menzognero.
Il mondo che viene costruito mediante le trasmissioni è un modello induttore a cui ci
dobbiamo adeguare e con l’aiuto del quale impariamo modelli di comportamento. Si mira a
far coincidere il mondo reale con il modello: ma non farlo coincidere affermandone l’identità,
ma operando un uguagliamento pragmatico:
● cioè ottenendo un atteggiamento nel modo in cui non possa neanche sorgere il
dubbio che il mondo non coincida con il modello induttore
Es.: per il lettore dello Sturmer (rivista settimanale pubblicata dal nazista Streicher
che utilizzò un violento stile scandalistico basato su menzogne, oscenità e volgari
caricature, spesso a sfondo pornografico, che mettevano in guardia la popolazione
tedesca dal pericolo della «perversione giudaica», plasmato e condizionato dai
modelli di ebrei pubblicqati in rivista, la differenza tra essi e gli ebrei reali non
esisteva affatto
E’ interesse supremo delle industrie che producono moduli fissi, conferire ai suoi modelli un
carattere il più realistico possibile. Bisogna presentare il modello induttore come realtà e
questo principio di produzione è generalmente riconosciuto.

21) La creazione dei bisogni. Le offerte sono i comandamenti del giorno d’oggi. Le
merci sono assetate e noi con esse
Gli oggetti che ci vengono presentati sono oggetti prefoggiati che pretendono di essere il
mondo e mirano a foggiarci secondo la loro immagine. Di solito non sentiamo la pressione
dello stampo che ci viene imposto, e quanto meno sensibile è la pressione, tanto più
assicurato è il successo dell’operazione. Dunque la condizione migliore sarà quella in cui la
matrice che ci stampa ci apparirà come desiderata e per raggiungere ciò bisogna foggiare in
precedenza i desideri stessi, il compito della produzione moderna è dunque standardizzare
non solo i prodotti ma anche i bisogni:
➢ non c’è mai una coincidenza assoluta tra prodotto offerto e bisogno, uno scarto
rimane sempre e ci deve essere una forza ausiliaria per eliminare tale scarto
➢ questa forza è la morale → che deve venir a sua volta prefoggiata, in modo che
venga considerato immorale colui che non desidera ciò che è destinato a ricevere
Perché le offerte sono i comandamenti del giorno d’oggi?
Ciò che dobbiamo fare o non, è determinato da ciò che dobbiamo comprare ed è quasi
impossibile non fare almeno in minima parte, quegli acquisti che sono offerti come musts.
Chi lo fa anzi, corre il rischio di rendersi moralmente o politicamente sospetto: colui che non
compra osa non dare ascolto al richiamo della merce e offendere il cosmo delle merci
con la sua rinuncia. Esiste il delitto di omissione di acquisto, ossia di assenza di bisogno
● Es.: esempio tratto dal diario in cui Anders viene fermato da un poliziotto il quale
rimane scioccato perché non ha un’auto
Se le offerte di oggi sono comandamenti, non sorprende che anche chi non si può
permettere di comprare merci, le acquisti lo stesso: questo perché non potrebbero
permettersi il lusso di non ubbidire ai comandamenti. Non c’è nulla di più importante nella
vita psichica dell’uomo odierno che la differenza tra ciò che non si può permettere e ciò che
non si può permettere di non avere. Questa differenza è una vera e propria lotta che finisce
di solito con la vittoria del comandamento dell’offerta e con l’acquisto della . Questa vittoria
viene pagata cara, in quanto da ora inizia l’asservimento (Es.: l’impegno di pagare rate
mensili). Il compratore diventa schiavo della merce che ha acquistato:
● dal momento che ha la merce, la possibilità di non usarla e non sfruttarla al massimo
non va neanche presa in considerazione. Es.: avere un televisore e usarlo solo
occasionalmente è uno spreco, è inammissibile
● quel che si ha non solo lo si usa, ma se ne sente il bisogno e si finisce non con
l’avere ciò di cui si sente bisogno, ma con il sentire il bisogno di ciò che si ha.
● se viene a mancare un articolo un tempo posseduto, nasce la sete. Ma qualche cosa
manca sempre, perchè tutte le merci si consumano con l’uso e quando un oggetto
viene consumato, se ne sente il bisogno di nuovo→ il bisogno segue alle
calcagna il consumo. Questo bisogno odierno somiglia alla tossicomania, nel senso
che i bisogni devono la loro esistenza all’esistenza di determinate merci.
Le merci più raffinate da questo punto di vista sono quelle che hanno la proprietà di produrre
bisogni che si moltiplicano. Es.: la coca cola che ha come segreta funzione il far venire sete,
proprio di coca cola. Dunque il bisogno creato dal prodotto assicura il continuo aumento
della produzione del prodotto. Ogni merce infatti, una volta acquistata,e sige l’acquisto di
altre merci ed ognuna di esse ha sete di altre merci ancora (Es.: comprare benzina per auto
o detersivi per lavatrice). Il proprietario della merce dunque deve far propria la sete delle
merci acquistate e non trova neanche il tempo o la libertà di enunciare un suo bisogno. Non
esistono merci non assetate, perché assetato è l’universo delle merci nella sua totalità,
poichè ciò che chiamiamo sete di oggetti altro non è che l’interdipendenza della
produzione, ossia il fatto che tutti i prodotti sono in rapporto tra loro e si rinviano l’un l’altro.
Dunque il fatto che ogni merce che acquistiamo come merce d’obbligo, come must, contiene
a sua volta bisogni che diventano bisogni, rappresenta il climax del fenomeno matrice:
poiché i nostri bisogni non sono altro ormai che importa e riproduzioni dei bisogni di
merci stesse. Non solo ciò che apprendiamo, ma persino i nostri bisogni sono
prefoggiati.

22) Il primo assioma dell’ontologia economica: l’esemplare unico non è. Digressione


sulla fotografia
Le matrici non foggiano solo noi, ma il mondo intero: i modelli artificiali di “mondo” (le cui
riproduzioni giungono a noi in forma di trasmissioni televisive ad esempio) non solo foggiano
l’uomo, ma anche il mondo stesso e reale. Questo modellamento ha un effetto boomerang:
a furia di mentire la menzogna diviene verità. Circa il rapporto tra modello e merce
riprodotta, se si chiede quali dei due sia reale in senso economico, la risposta sarà la
merce riprodotta, poiché il modello esiste solo in funzione della riproduzione: se esistesse
un’ontologia economica il suo primo assioma sarebbe la realtà viene prodotta dalla
riproduzione. Dunque l’esemplare unico non è. Questo assioma, per quanto assurdo, è
nel sangue di ogni uomo odierno.
Es.: si osserverà che i turisti quando giungono a Roma o a Firenze, sono irritati dalla
presenza di esemplari unici (monumenti che ancora sussistono nel mondo dei prodotti in
serie). E si armano ai macchina fotografica: per includere il pezzo unico all'interno
dell’universo prodotti in serie, lo fotografano. Queste riproduzioni sono per loro la realtà. ciò
che fotografano non è il reale, ma reale è la riproduzione fotografica. Reale non è piazza
San Marco a Venezia, ma quella che si trova nel loro album di fotografie. Il che significa
affermare che per loro non conta esserci, ma solo esserci stati→ il presente fuggevole
non può essere avuto, rimane inafferrabile, mentre ciò che è stato diventa oggetto sotto
forma di immagine e dunque proprietà. Dunque soltanto essere stato è essere: dove per
essere s'intende essere stato, essere riprodotto, essere immagine, essere proprietà. Il
rapporto tra la tecnica della riproduzione e la memoria è ambiguo, da un lato le fotografie ci
fanno ricordare, ma dall’altro i souvenirs diventati ormai cose, hanno atrofizzato il ricordo
quale stato d’animo e lo hanno sostituito.

23) Secondo assioma dell’ontologia economica: Ciò che non si può utilizzare non è
Così come è scarsa la dignità dell’esemplare unico, secondo l’opinione dei supposti teorici
dell'ontologia economica, altrettanto scarsa è quella delle cose non fabbricate in generale,
ossia quella degli oggetti naturali e soprattutto quelli non utilizzabili. Sono considerati morti,
senza alcun valore economico e dunque non meritano altro che di non esistere e di venire
effettivamente distrutti. Dunque il secondo principio è che l'inutilizzabile non è o non
merita di essere. All’epoca di oggi ogni cosa può venir dichiarata immeritevole di esistere.

23) I fantasmi non sono soltanto matrici dell’esperienza del mondo, ma matrici del
mondo stesso. La realtà consiste nella riproduzione delle sue riproduzioni
Il realmente essente nel senso dell’ontologia economica, non è né il singolo o la natura, ma
la somma dei prodotti finiti esistenti in serie di riproduzioni. Il reale viene adeguato alle sue
riproduzioni, deve venir trasformato sul modello delle sue riproduzioni.

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