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Giacomo Matteotti Eroe Socialista pp9-98

Il documento descrive la vita e la carriera di Giacomo Matteotti, un politico socialista italiano. Racconta della sua famiglia, degli studi in giurisprudenza e della sua militanza politica. Include anche dettagli sulla sua carriera come avvocato penalista e sul suo impegno contro la guerra e il fascismo.

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Giacomo Matteotti Eroe Socialista pp9-98

Il documento descrive la vita e la carriera di Giacomo Matteotti, un politico socialista italiano. Racconta della sua famiglia, degli studi in giurisprudenza e della sua militanza politica. Include anche dettagli sulla sua carriera come avvocato penalista e sul suo impegno contro la guerra e il fascismo.

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1.

Dagli studi giuridici all’adesione al socialismo

1. L A PE R S O N A L I TÀ

Giacomo Matteotti nacque il 22 giugno 1885 a Fratta,


un comune di 4000 abitanti del Polesine. I genitori era-
no Gerolamo (1839-1902) e Elisabetta Garzarolo (1851-
1931), di condizione modesta. Il padre veniva da Pejo, da
una famiglia di calderai. Ebbero in esercizio un negozio di
mercerie e di ferramenta: lavoratori tenaci e risparmiatori
raggiunsero una media agiatezza investendo in terreni e
fabbricati, il cui valore complessivo fu stimato nel 1925
pari a 1.203.826 lire. Visitandone la casa nell’estate del
1915, Aldo Parini la descriveva a un piano, “ammobi-
gliata modestissimamente”, perché solo successivamen-
te venne restaurata e abbellita di mobili appartenenti ad
una villa gentilizia di Ficarolo. A piano terreno, a destra
entrando, era una stanzetta arredata con tavoli e scaffali,
e serviva a Matteotti da studio: “qui lavorava e riceveva
visite”. Padrona della casa era la madre: “una vecchietta
asciutta e energica dallo sguardo vivido” (Aldo Parini, La
vita di Giacomo Matteotti, a cura di Marco Scavino e Va-

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Giacomo Matteotti eroe socialista

Isabella Garzarolo (1851-1931) madre di Giacomo

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1. Dagli studi giuridici all’adesione al socialismo

lentino Zaghi, Rovigo, Minelliana 1998). Nell’Epistolario


Giacomo ha lasciato un’immagine viva dei genitori: “la
irrequietudine che la tien sempre in movimento, sempre
in attività, dalla mattina alla sera, quasi mai un momen-
to seduta. Non ha avuto quasi nessuna istruzione; ma co-
nosce praticamente più di tanti uomini. È all’antica, ma
nessuna cosa moderna la offende, e anzi aborre la femmi-
nilità indolente o sentimentale. In alcune cose le assomi-
glio; ma in altre assomiglio a mio padre: negli occhi, nel
mento, e nella durezza del carattere, che lo aveva lasciato
solo contro i molti, odiato e calunniato spesso, così che le
mie facili vittorie di oggi mi sembrano la dovuta rivendi-
cazione: è anche un debito che io assolvo, è una speranza
nutrita fin da bambino, quando mi struggevo per non ca-
pire e per non potere”. È soprattutto in questa veste, di
madre premurosa nei confronti del figlio impegnato, che
ci viene restituita dalla documentazione a noi pervenuta.
In quanto al padre si sa che Giacomo gli avrebbe dedicato
quel grosso lavoro sulla Cassazione sul quale molto si im-
pegnò, ma che mai avrebbe visto la luce.
Giacomo ebbe due fratelli: Matteo (1876-1909), il
maggiore, e Silvio, che si occupava delle aziende di fa-
miglia. Entrambi morirono prematuramente per etisia.
Giacomo subì l’influenza decisiva di Matteo. Questi,
compiuti gli studi universitari a Venezia e a Torino, aveva
pubblicato il volume L’assicurazione contro la disoccupa-
zione, per i tipi Bocca nel 1901. Consigliere comunale e
provinciale, sindaco di Villamarzana, presidente della So-
cietà di mutuo soccorso di Fratta, Matteo contribuì non
poco a indirizzare il fratello più giovane verso l’idealità e
la militanza socialista, così come all’approccio rigoroso
verso gli studi. Al saggio sulla Recidiva Giacomo premi-
se la seguente dedica: “Alla memoria di Matteo, fratello

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Giacomo Matteotti eroe socialista

Girolamo Matteotti (1839-1902), padre di Giacomo

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1. Dagli studi giuridici all’adesione al socialismo

mio e amico, che con occhio affettuoso protesse il cresce-


re di queste pagine, e non poté vederne il compimento”;
e Matteo chiamò il secondo nato. Resta da dire di Velia
Titta, conosciuta all’Abetone nel 1912, moglie dal 1916.
Dotata di notevole cultura, fu anche autrice di un roman-
zo, L’idolatra, che pubblicò nel 1920 presso l’editore Tre-
ves sotto lo pseudonimo di Andrea Rota. Fu la compagna
di vita, punto di riferimento costante sul piano psicolo-
gico a cui comunicare speranze, preoccupazioni e ansie;
insostituibile sostegno e completamento affettivo, attrice
sensibile di un intimo dialogo di natura strettamente cul-
turale. Il matrimonio fu allietato dalla nascita di tre figli,
Giancarlo, Matteo e Isabella, tutti chiamati con curiosi
vezzeggiativi (Chico, Bughi, Cialda). La corrispondenza
con Velia a noi pervenuta ci restituisce un Matteotti pas-
sionale, amante della vita, dell’arte, del cinema, della mu-
sica, viaggiatore sempre curioso.
Grazie all’agiatezza famigliare Giacomo fu nella con-
dizione di compiere gli studi superiori al liceo ginnasio
“Celio” di Rovigo. Si iscrisse quindi alla Facoltà di Giuri-
sprudenza a Bologna, dove si laureò il 7 novembre 1907
discutendo in diritto e procedura penale la tesi Principi
generali di Recidiva con Alessandro Stoppato, giurista
eminente di orientamento clerico-moderato, deputato e
senatore dal 1920. Si sa così che a Roma, dove risiedet-
te dal 1906 al 1908 presso il dottore Curzio Casini, in
Via Florida, ben lontano dall’ambito polesano, apprese
“un po’ di inglese”, scambiò “qualche conversazione in
tedesco”, non tralasciò la lettura di “qualche romanzo in
francese”, e soprattutto curò gli studi di statistica. Ancora
nel 1909 Stoppato ne assecondava l’intento di rivedere e
pubblicare la tesi anche ai fini di un eventuale concorso
per la libera docenza (“io sarò lieto di vederla salire”). Ne

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Giacomo Matteotti eroe socialista

Casa Matteotti a Fratta Polesine

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TITOLO CAPITOLO ?

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Giacomo Matteotti eroe socialista

Giacomo nel periodo universitario

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1. Dagli studi giuridici all’adesione al socialismo

lesse il lavoro con attenzione riconoscendone “originali-


tà d’indagine”, senza mai dismettere il ruolo di maestro
(“ho segnato qualche punto”). Il libro uscì nel 1910 per
i tipi Bocca con il titolo La recidiva e sottotitolo Saggio
di revisione critica con dati statistici. Vi sosteneva l’urgen-
za della riforma del sistema penale e penitenziale e, in un
capitolo conclusivo intitolato La liberazione dal carcere,
caldeggiava come “ultimo grado di evoluzione il moder-
no principio della pena a tempo indeterminato”, cioè la
determinazione giudiziaria di un massimo alto “insieme
a larghissime facoltà di liberazione anticipata”, sia pure in
subordine a controlli e garanzie.
La militanza non sembrava conciliarsi con lo studio
del diritto penale (“ci rimette”), specialmente dopo che
nel 1910 fu eletto nel consiglio provinciale per il man-
damento di Occhiobello. Ma l’attrazione degli studi pe-
nalistici rimase ugualmente viva. Nella compresenza di
tali e tanti impulsi avvertiva una propria momentanea
“debolezza”, che gli sembrava di ostacolo al buon fine
dell’impegno, qualunque esso fosse. È un punto impor-
tante, questo, per comprendere il carattere di Matteotti:
la tensione verso un obiettivo compiuto, che poi tale non
avrebbe mai potuto essere del tutto, e in ciò l’impulso ad
agire con tenacia e in prima persona. Riprese di buona
lena gli studi solo sotto le armi, nel 1917-19, quando, a
fronte delle incombenze materiali della vita di caserma,
“proprio lo studio (restava) una delle maggiori consola-
zioni”. Occorre tenere presente, infatti, che nella seduta
del 5 giugno 1916 in Consiglio provinciale aveva tenuto
un duro discorso contro la guerra, pur aderendo al pro-
gramma assistenziale annunciato, per cui era stato denun-
ciato e processato per il reato di “grida sediziose” e “disfat-
tismo”, e quindi condannato nel luglio 1916 dal pretore

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Giacomo Matteotti eroe socialista

Militare in Sicilia a Campo Inglese (Messina)

di Rovigo, con sentenza confermata dal Tribunale il 18


aprile 1917, finché la Cassazione non ne annullò il dispo-
sitivo senza rinvio con la motivazione dell’insindacabilità
dei discorsi dei consiglieri provinciali nell’esercizio delle
funzioni. Riformato per la causa della morte dei fratelli,
fu sottoposto a revisione e ritenuto idoneo ai servizi se-
dentari. Seguì anche un corso allievi ufficiali a Torino, ma
gli fu negata la nomina a ufficiale. Fu trasferito lontano
dal fronte, a Messina, come “pervicace violento agitatore,
capace di nuocere in ogni occasione agli interessi naziona-
li e pericoloso”, ma riuscì, protestando, a evitare il campo
di concentramento dei pregiudicati per reati comuni.
Nel marzo 1917 Matteotti aggiornava Stoppato sui
nuovi studi orientati su problematiche processuali con-
nesse al progetto del trattato sulla Cassazione a cui sta-
va attendendo. L’interlocutore manifestò apprezzamento
(“interessante”, “scritto veramente su basi scientifiche”)
per l’articolo Nullità assoluta della sentenza penale, che ap-

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1. Dagli studi giuridici all’adesione al socialismo

parve su “Rivista di Diritto e procedura penale”: Matteot-


ti non era più solo il discepolo stimato, ma il “carissimo
amico”. I riconoscimenti e gli incoraggiamenti pervenu-
tigli nel corso degli anni da personalità politicamente di-
stanti, perfino negli anni in cui ricopriva cariche politiche
a livello nazionale, ne attestavano la precoce autorevolez-
za. In una delle ultime lettere, in data 10 maggio 1924,
proprio al senatore Luigi Lucchini, conservatore, direttore
de “La Rivista penale”, che gli confermava la stima perso-
nale e lo esortava a dedicarsi agli studi forse mosso anche
da un proposito protettivo, Matteotti rispondeva di non
vedere “purtroppo” il tempo nel quale ciò gli sarebbe sta-
to possibile e con accenti nobili concludeva: “Non solo
la convinzione, ma il dovere oggi mi comanda di restare
al posto più pericoloso, per rivendicare quelli che sono,
secondo me, i presupposti di qualsiasi civiltà e nazione
moderna. Ma quando io potrò dedicare ancora qualche
tempo agli studi prediletti, ricorderò sempre la profferta e
l’atto cortese che dal Maestro mi sono venuti nei momen-
ti più difficili”.
Posto in licenza nel marzo 1919 e in congedo illimi-
tato il 16 agosto 1919 Matteotti tornò immediatamente
all’impegno politico, interrompendo, e questa volta defi-
nitivamente, gli studi penalistici, nonostante le aspirazio-
ni accademiche. Lo stesso Matteotti ebbe a definirsi “un
irregolare attratto per temperamento dalla politica”, la
cui volontà però sarebbe stata sempre ed esclusivamente
rivolta agli studi penali. In realtà Matteotti non abbando-
nò affatto l’attitudine allo studio, ma piuttosto la declinò
a sostegno dell’attività politica e amministrativa, che im-
prontò al rigore metodico e al ricorso costante alle fonti
documentarie, collegando obiettivi e prefigurando esiti,
al punto che è difficile negarne il debito contratto con la

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Giacomo Matteotti eroe socialista

pratica del diritto penale e poi della disciplina finanziaria.


Né deve sfuggire che nell’operare non trascurava mai la
valutazione del quadro normativo nella logica dello Stato
di diritto: ne esaminava i passaggi consentiti e perfino le
forzature ammissibili per spiegarle ai compagni, ma sen-
za finalità di rottura. E quando in occasione delle elezioni
politiche del maggio 1921 cercò di raccogliere sistemati-
camente le testimonianze delle violenze e delle intimida-
zioni subite dai rappresentanti e dagli elettori della lista
“falce, martello e libro” lo fece con il proposito di presen-
tare alla Camera una denuncia circostanziata, documen-
tata (“testimonianza in forma autentica, cioè controfirma-
ta da un notaio oppure da un pretore”).
Le testimonianze, suffragate anche da immagini fo-
tografiche, ci consegnano un giovane magro, quasi smil-
zo, sia pure agile nei movimenti; ma in quella magrezza
tutte tendevano a evidenziarne la grande energia interio-
re. A tale immagine molto contribuivano le sue capacità
di sistemazione argomentativa, di critica e di sintesi, che
tanto, accompagnandosi alla vis polemica, irritavano av-
versari e contraddittori. Portava puntuale attenzione ai
problemi concreti rifuggendo dalla genericità e dalla im-
provvisazione. I compagni lo ricordavano “sobrio e sen-
za vizi”, frugale, non amante delle sagre e dei banchetti.
Risoluto sempre, fino all’arroganza, nella intransigente
difesa delle proprie opinioni, diventava perfino scontro-
so, e, con gli avversari, acido nella polemica. In breve, era
un compagno autorevole sì, ma anche temuto. Secondo
la testimonianza del citato Parini, era diventato “un incu-
bo” per gli amministratori: “Anche senza mandati precisi
si era fatto controllore di pubbliche amministrazioni. Era
l’incubo dei sindaci e dei segretari comunali per la sua di-
ligenza di spulciatore di atti e di bilanci, per le critiche

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TITOLO CAPITOLO ?

Velia Titta (12 gennaio 1890-5 giugno 1938)

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Giacomo Matteotti eroe socialista

Riunione del Gruppo parlamentare socialista (Trieste, 1920)

inesorabili e severissime. I bilanci comunali dovevano es-


sere compilati con onestà in realistica corrispondenza con
le possibilità finanziarie del Municipio. Economie fino
all’osso, niente debiti”. Un riscontro è dato dalla stessa
ammissione di Matteotti a Velia: “non mi accontentavo
di preparare i bilanci o gli altri atti più importanti, ma in
ogni piccola cosa avrei voluto intervenire e magari toglie-
re la scopa di mano allo spazzino per insegnargli a pulire,
poiché mi pareva che nessuno facesse bene abbastanza in
confronto di quello che desideravo”. Anche in questo era
l’insofferenza verso la retorica, il pregiudizio estremistico.
Eugenio Florian attribuiva tale “severità” alla men-
talità di giurista; Parini all’influenza del padre, un con-
servatore parsimonioso, oltre che alla frequentazione di

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1. Dagli studi giuridici all’adesione al socialismo

Stoppani, “conservatore di stile e di razza, parlamentare


fra i più rappresentativi e militante nella destra clerico-
moderata”. Certo, le relazioni famigliari, con il fratello
maggiore Matteo innanzitutto e poi con la madre, ebbero
un’influenza rilevante sul suo carattere. E resta da chie-
dersi se nelle circostanze ambientali ricordate in ciascun
atto avvertisse l’impulso a dare testimonianza dell’auten-
ticità della fede nell’ideale dichiarato, ad amici ed avver-
sari, e, perché no?, anche a se stesso. Altri, come Filippo
Turati, ne colsero un dato caratteriale portato ad un infa-
ticabile attivismo (“bisogna far presto, non bisogna per-
dere tempo”), al punto tale da attribuire quell’attitudine
ad una sorta di “gelosia del tempo che fugge irrevocabi-
le”, che poi, nella rievocazione, assumeva perfino le sem-
bianze del presagio di chi avvertiva di non averne molto a
disposizione. Lo straordinario rigore di Matteotti, se era
immediatamente percepibile, al punto da mettere a di-
sagio, non era facilmente decifrabile. Dante Gallani, che
gli fu compagno di partito, ma in una corrente avversa,
ne assimilò la personalità ad “una strana interessante fu-
sione di due elementi che sembrano antitetici: metodo ri-
formistico e temperamento intransigente”. Una difficoltà
interpretativa neppure superata da alcuni commentatori
recenti.
In realtà aveva la mentalità del riformatore. Pur ap-
partenendo alla generazione successiva dei “grandi pio-
nieri”, quella di Turati, Bissolati, Prampolini e Badaloni,
ne condivideva l’attitudine pedagogica, ma chiamata alla
prova del “fatto”, cioè del socialismo operante, e non so-
lo idealizzato e ipotizzato, e dunque proiettata sul terre-
no difficile del proletariato rurale del Polesine. Non c’è da
stupirsi, dunque, se, oltre ad una costante presenza fisica
sul territorio con finalità di propaganda, formazione e or-

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Giacomo Matteotti eroe socialista

L’ultima villeggiatura a Roccaraso con i figli Giancarlo e Matteo (estate 1923)

ganizzazione, tanto che nel 1914 aveva perfino acquistato


un’automobile per muoversi più agevolmente, utilizzas-
se il mezzo tipico della comunicazione politica tra ’800
e ’900, e cioè la stampa periodica locale, nella fattispecie
“La Lotta”, settimanale dei circoli e delle organizzazioni
economiche, per lo più con articoli brevi e documentati,
anche non firmati, oppure ricorresse al supporto di tipo
manualistico, per spiegare ai quadri sindacali e ai nuovi
amministratori o potenzialmente tali, i meccanismi nor-
mativi, e al fac-simile di regolamenti o di concordati, op-
portunamente chiosati punto per punto, da distribuire ai
quadri sindacali. Anche in questo era l’insofferenza verso
la retorica e il pregiudizio estremistico. Matteotti era un
educatore.
In anni di incipiente mobilitazione politica e sindaca-
le di masse assai poco acculturate, al dirigente o al qua-
dro erano richieste doti di oratore. Matteotti non lo era

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1. Dagli studi giuridici all’adesione al socialismo

in senso tradizionale, perché la sua era “un’oratoria a base


di fatti, fredda, precisa, tagliente”. Secondo Parini “amava
sfrondare il suo dire di ogni fiore retorico, ma era con-
vincente ed eloquentissimo. I suoi discorsi erano illumi-
nati dalla citazione di documenti rivelatori e da numeri
precisi. Era un ragionatore implacabile e si rivolgeva più
alla mente che al cuore dell’uditore”. E sottolineava come
non si sottraesse al contraddittorio, anzi!: “ironico, bef-
fardo, sferzava, faceva fremere gli avversari. Raccoglieva le
interruzioni e rispondeva agilissimo e pronto come uno
schermitore espertissimo, confutando e tagliando netto la
parola dell’interruttore”.
La intensa attività amministrativa nei piccoli comu-
ni del Polesine e la dimestichezza con le leghe ne affinò
i moduli discorsivi, lontano da qualsiasi forma allusiva.
Lo si evince in particolare nel dopoguerra dalla corrispon-
denza con Claudio Treves, pur maestro di giornalismo e
di oratoria parlamentare, a cui senza alcun complesso di
inferiorità non mancò di raccomandare maggiore efficacia
comunicativa (“quei piastroni sulla riorganizzazione del
Partito, sulla “Giustizia” non vanno. Essi devono servire
di incitamento al lavoro, e allora occorrono molti titoli da
leggersi facilmente e poco testo”).
Per provenienza sociale e rilievo politico non poteva
non suscitare un’avversione particolare negli avversari, che
non mancavano di irridere al “socialista milionario”, e,
ancor più, al “traditore”, con una singolare valenza etico-
antropologica che rovesciava lo schema classista, ancorché
condannato. L’ambito locale era anche il luogo dei per-
sonalismi, delle vendette, dei rancori a lungo coltivati e
tramandati. E non solo sul piano politico. Contro Matte-
otti quel motivo polemico, ora sottotraccia ora in modo
palese o addirittura provocatorio fu ricorrente nella pub-

25
Giacomo Matteotti eroe socialista

blicistica del tempo, e venne rilanciato con toni virulenti


nel dopoguerra quando si accompagnò ad un secondo e
non meno rilevante addebito, e cioè quello di un presun-
to massimalismo, che si voleva acceso e prepotente nel
collegio, e tiepido a Roma, anche quando si tradusse in
una posizione più conforme a quella di Turati.
L’intento era evidente, quello cioè di screditare l’uo-
mo come incoerente e dunque inaffidabile, e, più sot-
tilmente, di presentarlo come agente provocatore nel
Polesine, così da alimentare la singolare tesi che lo squa-
drismo fascista ne costituisse la risposta dura, ma coeren-
te, anzi inevitabile.
Del resto, l’organo fascista di quella provincia non
si chiamava “Legittima difesa”? Isolandolo, lo si voleva
esporre più facilmente alla rappresaglia. In questo conte-
sto il 12 marzo 1921 Matteotti fu sequestrato, fatto og-
getto di violenze e di minacce e infine bandito dal colle-
gio. Le provocazioni e le aggressioni non cessarono mai.
Un dato sinistro: l’ultima lettera è del 4 giugno 1924
indirizzata al “Corriere del Polesine”, che due giorni pri-
ma a caratteri di scatola gli aveva attribuito le seguenti
parole: “noi ci sentiamo autorizzati a difenderci dai fasci-
sti e dai carabinieri. E parleranno i medici e i becchini”,
e dal medesimo prontamente smentite come parole “di
schietto stile mussoliniano, ante e postbellico”, minac-
ciando querela.
L’assassinio di Matteotti ebbe anche una indubbia
componente polesana, essendo maturato nell’entourage
di Mussolini, dove spiccavano personaggi come Giovanni
Marinelli e Aldo Finzi.
Con ciò, non può non suscitare forti riserve il recente
tentativo, in vero non riuscito, di riproporre la tesi della
doppiezza matteottiana, che sotto la parvenza della no-

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1. Dagli studi giuridici all’adesione al socialismo

vità, in realtà risulta adagiata sui modi e sui tempi della


pubblicistica di allora. Ancora più superficiale, anzi mal-
destro è il tentativo di cogliere tale occasione per rilancia-
re l’immagine di un socialismo uniforme nella sua incon-
cludenza, sempre e comunque riassumibile all’interno del
massimalismo classista.

2. L A C A R R I E R A P O L I T I C A

Il cursus honorum fu quello tipico del personale politi-


co dell’Italia liberale. Dalla corrispondenza datata dal 27
settembre 1904 con Giulia e Ada Gherardi, che lo aveva-
no ospitato da studente a Bologna, si ricavano interessanti
informazioni sull’apprendistato politico.
A quella data risultava già militante “da un po’ di tem-
po”, e l’impegno si traduceva nella creazione di un circolo
o di una lega di contadini “con un’infinità di discussioni”,
nonché nella collaborazione a “La Lotta”, foglio socialista
del Polesine.
L’azione di propaganda e di organizzazione si intensi-
ficava in occasione della campagna elettorale, come per le
elezioni politiche dell’ottobre-novembre 1904 a fianco di
Badaloni, riuscito eletto a Badia Polesine. Matteotti ap-
poggiò Badaloni anche nelle elezioni politiche del 1909,
e gli era ancora legato nell’aprile 1912 se raccomandava
a Gino Piva di recensire sull’”Avanti” e sull’”Adriatico” il
volumetto di A. Gherardini, Il Pensiero e l’opera di Nico-
la Badaloni, edito a Badia Polesine nel 1912. Ne prese le
distanze solo dopo la scissione dei bissolatiani dal Parti-
to socialista al congresso di Reggio Emilia del 1912, che
produsse effetti laceranti anche nel Polesine prima nel-
le elezioni politiche del 1913 e poi di fronte alla guerra
mondiale.

27
Giacomo Matteotti eroe socialista

La formazione politica di Matteotti ebbe un’accelera-


zione decisiva con l’elezione nel consiglio comunale di
Fratta Polesine il 16 gennaio 1908, a cui fecero seguito
quelle in altre amministrazioni comunali, da Villamarza-
na a Boara, dove fu sindaco, e ancora a Lendinara, Ba-
dia, Bellino. Eletto nel consiglio provinciale di Rovigo nel
1910, fu escluso per incompatibilità durante la guerra,
ma vi tornò con le elezioni dell’autunno 1920. La mol-
teplicità degli incarichi amministrativi era resa possibile
dalla legge che riconosceva diritto elettorale attivo e pas-
sivo in tutti quei comuni dove un individuo possedesse
proprietà e pagasse le imposte: legge che lo stesso Matte-
otti cercò di modificare nel dopoguerra.
Fu Matteotti a datare dal 1913 il suo “spostamento”
su Rovigo. Lo stesso Piva, diventato avversario dopo l’al-
lontanamento dal partito socialista, lo descriveva allora
in posizione di “combattimento e di dominazione”. In
effetti, la lettera inviata il 23 maggio 1913 a Manlio Bo-
naccioli, socialista di Reggio Emilia, riottoso ad accettare
l’incarico di organizzatore nel Polesine che gli veniva pro-
posto, ci dà l’idea del dirigente già sicuro dei propri mez-
zi e consapevole degli obiettivi, che erano quelli di “da-
re unità di indirizzo e di forza” alle leghe contadine e di
preparare la campagna elettorale per le prossime elezioni
a suffragio universale, per le quali ci si orientava verso la
candidatura del reggiano Soglia nel collegio di Lendinara,
“roccaforte del clericume”.
Al di là delle motivazioni di circostanza per convincere
il diffidente interlocutore, l’interesse è dato dalla indica-
zione dei requisiti dell’organizzatore/propagandista tipo:
“cultura generale”, “saturazione di principi socialisti” e
“attitudine della mente a presto apprendere e ritrovarsi”.
In quanto al movimento polesano delle leghe, osservava

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1. Dagli studi giuridici all’adesione al socialismo

Matteotti, è “semplicissimo” perché “la forma dei pat-


ti agrari è la stessa per tutta la provincia”, mentre l’unica
struttura organizzativa qua e là funzionante era la coope-
rativa di lavoro. Insomma, ben poco a che vedere con la
complessità della “formidabile organizzazione reggiana”, a
cui in tutta evidenza andava la sua piena ammirazione.
Alla vigilia della guerra Matteotti aveva conseguito or-
mai un’assoluta rilevanza nell’intera provincia.
A fronte delle richieste che gli venivano rivolte da mol-
teplici località perché si candidasse, si sentì in obbligo di
declinare pubblicamente tali inviti dichiarando di poterlo
e volerlo fare solo in uno o due luoghi, per la precisione
laddove fosse “necessario rompere qualche vecchia crosta
clericale o agraria”. Altrimenti, aggiungeva, non sarebbe
stato nelle condizioni materiali di assolvere bene l’incari-
co ricevuto, ma soprattutto sarebbe stato “ridicolo che i
lavoratori volessero continuare a restare sempre sotto tu-
tela, sia pure di un loro compagno”. Ma non fu così. Rap-
presentando e patrocinando gli interessi dei comuni rurali
Matteotti acquisì una consolidata autorevolezza in campo
nazionale attraverso la collaborazione con la stampa, che
dall’iniziale “Lotta” si andò progressivamente allargando
a “Critica sociale”, all’“Avanti!”, a “La Giustizia”, al “Co-
mune moderno”, a “La Nuova Antologia”, e soprattutto
imponendosi nei congressi nazionali per la puntigliosità
e la vis argomentativa che non indietreggiava neppure di
fronte alle personalità più prestigiose del Partito.
Il passaggio da dirigente a livello provinciale a perso-
nalità politica di livello nazionale fu in occasione del con-
gresso nazionale di Ancona del Partito socialista dell’a-
prile 1914 e di quello dei comuni socialisti nel gennaio
1916, che portò alla costituzione di una Lega, con organo
ufficiale “Il Comune moderno” di Giulio Casalini, del cui

29
Giacomo Matteotti eroe socialista

direttivo entrò subito a far parte. Ben presto diventò au-


torità indiscussa in materia tributaria e amministrativa.
Il salto definitivo avvenne nel 1919, quando, sulla scia
della grande avanzata del Partito socialista nelle prime
elezioni con il sistema proporzionale e a scrutinio di lista
(156 seggi), fu eletto deputato per il collegio di Ferrara-
Rovigo, poi confermato nel 1921 e 1924 per il collegio di
Padova-Rovigo.
In quanto tale partecipò assiduamente ai lavori del
Gruppo parlamentare, del cui comitato direttivo fe-
ce parte per la componente riformista, in una costante
azione concorde/discorde con la Direzione massimalista
del Partito, uscita vincitrice nei congressi nazionali del
dopoguerra negli echi della rivoluzione russa e nel clima
esasperatamente rivendicativo del cosiddetto “biennio
rosso”, che presupponeva la crisi irreversibile dello Stato
liberale.
Correlatore al congresso nazionale del Partito dell’ot-
tobre 1921, costituì con Turati, Treves e Modigliani una
sorta di gruppo dirigente della componente riformista,
specialmente per l’attività parlamentare, fino ad assumere
la carica di segretario del Partito socialista unitario nato il
4 ottobre 1922 dalla scissione dal Partito socialista ufficia-
le, massimalista.
L’elezione a deputato non ne comportò affatto l’ab-
bandono della precedente attività amministrativa locale,
in Comune e in Provincia, nei limiti e finché lo squadri-
smo fascista glielo consentì dal marzo 1921, e anzi si può
ben dire che da quell’esperienza continuò a trarre ispira-
zione, evidenziando un legame particolarmente profondo
con il territorio. Anche sotto questo profilo cercare di co-
gliervi una dicotomia tra l’agire nel Polesine e a Roma è
opera vana.

30
1. Dagli studi giuridici all’adesione al socialismo

La collaborazione con Turati (e la Kuliscioff), a cui si


accompagnava l’assidua frequentazione, e l’incarico di
segretario del PSU, sia pure ricoperto per poco più di
un anno e mezzo, contribuirono a segnalarlo come uno
dei leader più competenti e promettenti del socialismo
europeo.

3. S O C I A L I S TA R I F O R M I S TA

Per Matteotti lo spazio della politica aveva valenza


positiva se e quando fosse espressione di scelte convinte,
maturate, di esperienze vissute e di competenze acquisite,
traducendosi in patrimonio collettivo.
Il socialismo gli appariva l’espressione più matura e
conseguente, in quanto fattore etico e pedagogico, perché
poneva a premessa del cambiamento, anzi ne considera-
va natura intrinseca la spinta dal basso, la partecipazione
consapevole, l’azione costante che sola avrebbe reso du-
rature le conquiste; e perché affidava al proletariato, in
quanto figlio della industrializzazione e della modernizza-
zione della società, il compito primario di accompagnare
l’ingresso delle masse nella storia nel segno della giustizia
sociale, della libertà individuale e collettiva, della solida-
rietà diffusa, dello sviluppo economico.
In altre parole, lo identificava in una grande opera di
civilizzazione, che collegava la militanza all’educazione e
alla formazione del cittadino. Alla vigilia del Congresso di
Bologna del 1919, scriveva su “La Lotta”: “Il socialismo
esige non soltanto la lotta e la vittoria sopra la classe av-
versaria, ma anche e soprattutto la lotta e la vittoria sopra
noi stessi, sopra i lavoratori medesimi, per toglierne i sen-
timenti egoistici e prepararli al socialismo”. Insomma, “il
più” era riuscire a “costruire il socialismo dentro di noi”.

31
Giacomo Matteotti eroe socialista

Allora c’era la percezione di far parte di un moto generale,


anzi di concorrere ad una fase storica nuova, di progresso
sociale, di sviluppo economico e di modernizzazione del-
le istituzioni, a beneficio dell’intera umanità per impul-
so del protagonismo dell’universo lavorativo, il quale, per
potersi dispiegare pienamente, presupponeva l’opera di
attori provenienti dalle file della borghesia colta. Come,
per l’appunto, era Matteotti.
A presupposto dell’agire politico egli poneva la libertà
dell’uomo, come individuo e come membro di una co-
munità o di una classe, limitata solo dall’osservanza dei
diritti della minoranza. Al fondo c’era il rispetto della
persona, in relazione ad una concezione etica che lo ren-
deva istintivamente diffidente verso qualsiasi forma di im-
posizione e di sopraffazione.
In un contraddittorio al Teatro sociale di Rovigo il 23
settembre 1913 in piena campagna elettorale, rimprove-
rò all’oratore, Guido Podrecca, direttore dell’“Asino”, non
solo di sacrificare sull’altare dell’anticlericalismo qualsi-
asi altro obiettivo, come quello del contenimento delle
spese militari e dell’espansionismo coloniale, ma anche e
soprattutto di impostare da un punto di vista giacobino,
cioè “con fatti e leggi restrittive della libertà d’azione dei
clericali”, il problema della laicità, che pure esisteva co-
me prodotto della modernizzazione. “Ebbene noi – con-
cludeva – a questa specie di anticlericalismo siamo con-
trari; noi siamo per la più intera ed assoluta libertà per
tutti; e non solo per ragioni ideali, ma anche per ragioni
di interesse, avendo noi bisogno di questa stessa libertà
per diffondere la propaganda socialista. Invece il vostro
giacobinismo persecutore è la giustificazione migliore
del settarismo e del dogmatismo clericale, che torturava
e perseguitava. Voi (…) siete i veri fratelli siamesi dei cle-

32
1. Dagli studi giuridici all’adesione al socialismo

ricali!” (La purezza del socialismo rivendicata, “La Lotta”,


27 settembre 1913). Analogo orientamento Matteotti
tenne al congresso nazionale del Partito socialista ad An-
cona nell’aprile 1914, il primo organizzato dalla corrente
intransigente-rivoluzionaria che aveva conquistato la dire-
zione al precedente congresso di Reggio Emilia nel 1912
nel clima antigiolittiano e anticolonialista innestato dalla
guerra contro l’Impero Ottomano per il possesso della Li-
bia. Tra gli argomenti in discussione era il rapporto con la
massoneria, su cui l’assemblea infine votò un odg Zibor-
di-Mussolini per l’incompatibilità con il socialismo, fino
a prefigurare l’espulsione di coloro che vi fossero iscritti.
Ebbene Matteotti, che per la circostanza presentò un
proprio odg, condivideva sì la tesi della incompatibilità,
con la motivazione che l’“azione difensiva del diritto in-
dividuale contro la reazione” dovesse essere affidata “agli
organismi di classe e al movimento professionale” piutto-
sto che all’azione anticlericale; che nella massoneria fosse
l’incubazione “di mescolanze e connubi politici dannosi
alla chiara fisonomia del partito e contrari ai suoi supremi
interessi nell’ora presente”, e deleteri alla formazione dei
giovani; ma si limitava ad “invitare” i compagni “anzia-
ni” a rinunciare all’eventuale adesione e a circoscrivere la
proibizione alle nuove iscrizioni.
La differenza non era di poco conto, perché, come af-
fermava Matteotti, il procedimento dell’espulsione avreb-
be aperto in ogni sezione “un processo inquisitorio”, e ciò
avrebbe contrastato con l’immagine del partito come libe-
ra palestra di idee e comunità di uomini liberi (Resocon-
to stenografico del partito socialista italiano, Ancona 26-29
aprile 1914, Città di Castello 1914, pag. 157-9).
Matteotti fu un riformista perché pensava e operava
per l’allargamento della cittadinanza politica e sociale,

33
Giacomo Matteotti eroe socialista

senza dogmatismi, con un disegno progressivo e graduale,


che non contrastava con la tenacia e il rigore, ma al con-
trario li presupponeva.
Il debito nutrito nei confronti del marxismo aveva ben
poco di dogmatico, e nulla di fatalistico. Per lui il sociali-
smo era meta ideale, ma anche militanza, prassi concreta
perché esso non costituiva un bene assoluto in un sistema
chiuso e predefinito, bensì un ideale che si concretizzava e
si definiva nel farsi.
Nelle polemiche con l’intransigentismo-rivoluziona-
rio e poi con il massimalismo e il comunismo, osservava
che la realtà era fatta di paradossi e di contraddizioni e
pertanto chi si proponesse di trasformarla avrebbe dovu-
to “applicarsi ad essa in tutte le sue sinuosità, risalirla per
tutti i suoi meandri”.
In alternativa al “puritanesimo infecondo nell’intransi-
genza negativa, intorno al sogno dell’urto miracoloso che
scrolla il mondo borghese”, poneva la ricostruzione evo-
lutiva della società, pur nella consapevolezza che “questo
metodo penetrativo” fatto di fermezza e di interesse fon-
damentale e di pieghevolezze e duttilità esteriori, di tran-
sigenze formali e di intransigenza sostanziale richiedeva
nei dirigenti, nei quadri e nelle truppe maturità, onestà,
spregiudicatezza, agilità e moralità, che erano “rarissi-
me a trovarsi insieme”. Ciò implicava, infatti, “un lavoro
enorme, molteplice, vario: propaganda e organizzazione,
revisione teorica e azione pratica, studio ed esperimento,
preparazione tecnica per le riforme legislative, prepara-
zione per l’opera amministrativa nei Comuni; facoltà di
comprendere l’ideale e il reale, l’immediato e il lontano:
da discernere il lecito e l’illecito; di conoscere l’anima
popolare, di non titillarla demagogicamente, ma non di
prenderla di fronte ed allontanarla da sé con atteggiamen-

34
1. Dagli studi giuridici all’adesione al socialismo

ti ad essa inaccessibili; di accostarla e piegarla, e educarla


ad essere astuta, ma insieme diritta, pratica e idealistica,
socialista insomma: e non dovrebbe esserci bisogno di ag-
giungere altro!” (Come intendiamo il riformismo, “La Lot-
ta”, 26 agosto 1911).
Il riformismo di Matteotti, anche nelle manifestazio-
ni più radicalizzate, restava ancorato ad un fondamento
pragmatico, attento cioè all’efficacia delle azioni nel pre-
sente e in futuro.
Una chiara riprova era data dal modo in cui considera-
va il nodo delle alleanze, cioè dei rapporti con i cosiddetti
partiti affini e con la borghesia liberale, che per il movi-
mento socialista del primo ‘900, solo da poco forte di una
propria autonomia e identità, aveva una valenza tutta par-
ticolare, fino ad investire la stessa posizione da assumere
nelle assemblee elettive verso il Governo.
Il ministerialismo e il ministeriabilismo, cioè l’appog-
gio esterno e/o la partecipazione ai governi borghesi, fu il
tema classico che attraversò tutta la vicenda socialista sul
piano internazionale, e che trovò soluzione solo dopo la
prima guerra mondiale, ad eccezione dell’Italia. Al con-
gresso provinciale socialista di Lendinara del 29 settembre
1912 Matteotti sostenne sì la tesi della intransigenza, ma
per ragioni contingenti, negandone la valenza generalizza-
ta: “io opino infatti che noi sul nostro cammino domani
potremo trovarci accanto a qualsiasi partito; e come i so-
cialisti di Germania nel votare contro la legge giacobina
sui gesuiti si sono trovati insieme con i clericali, così que-
sto potrebbe avvenire anche a noi”.
Respingendo la pregiudiziale “anticollaborazionista” so-
stenne che la dogmatica lettura del marxismo, secondo la
quale ogni governo fosse da ritenersi comitato di affari del-
la borghesia, avrebbe precluso la possibilità di adottare le

35
Giacomo Matteotti eroe socialista

tattiche più consone. A tale assunto rimase sempre fedele.


A Matteotti non sfuggiva neppure il nodo dello spazio
politico, e in particolare delle dimensioni idonee a favori-
re o meno il processo riformatore.
Nella sua idea di socialismo il problema si riproponeva
sotto due profili.
La logica della socializzazione era alternativa a quella
capitalistica, ma era pur sempre ad essa correlata: la gran-
de azienda, l’ampiezza del mercato e l’economia di scala,
la mobilità degli uomini e dei beni, lo sviluppo tecnolo-
gico con l’industrializzazione e l’espansione dei trasporti,
la città, l’istruzione diffusa e perfino il godimento di un
maggior tempo libero costituivano requisiti irrinunciabili
dello sviluppo, senza il quale sarebbe stato inconcepibile
anche il processo di emancipazione.
Ciò induceva a guardare con sospetto al piccolo, al
quale si poteva concedere credito solo se e in quanto tra-
mite l’associazione riacquistasse quella più ampia dimen-
sione che lo avrebbe reso idoneo a cogliere le occasioni
offerte dallo sviluppo tecnologico e le sollecitazioni del
mercato.
Perfino quando parlava della “campagna senza fine del
Polesine”, Matteotti si sforzava di considerarla come una
sorta di “grande centro” o “città”, purché pervenisse all’u-
nione dei comuni su scala provinciale.
Al tempo stesso riteneva essenziale conferire allo spazio
politico una fisicità, possibilmente densa e mobile, come
poteva esserlo una rete infrastrutturale che innervasse il
sistema locale superando la frammentazione e l’isolamen-
to, e con ciò la condanna all’inefficienza.
Nel Consiglio provinciale di Rovigo, Matteotti dedi-
cò attenzione al problema delle tranvie a vapore; alla co-
stituzione di una rete intercomunale telefonica, che ini-

36
1. Dagli studi giuridici all’adesione al socialismo

zialmente abbracciasse 14 comuni; alla costruzione di un


nuovo ponte sull’Adige; alla manutenzione delle strade
provinciali.
A proposito della rete tranviaria si diceva certo che
avrebbe incrementato “la somma dei desideri dei lavo-
ratori” e “migliorata la qualità dei piaceri ricercati (viag-
gi, istruzione generale e professionale) staccandoli così
dall’antica e dai clericali lodata facile contentabilità delle
classi povere”. Insomma, c’era la fiducia che la mobilità,
traguardo storicamente inarrivabile per i lavoratori dei
campi se non per emigrare, costituisse di per sé un fattore
di emancipazione culturale, tale da contrastare l’atavico e
passivo attaccamento viscerale al pezzo di terra coltivata.
D’altra parte la prospettiva gradualista e partecipata
del processo riformatore induceva alla sperimentazione,
alla costruzione per piccoli passi, come se vi si consumas-
se una partita decisiva.
Da lì passava lo stesso disegno riformatore della “gran-
de città” polesana, che non poteva prescindere dall’im-
pulso dell’organizzazione dei lavoratori nel mentre im-
paravano a gestire la cosa pubblica, dai nuovi organismi
economici e sociali improntati alla solidarietà, e dalla ri-
qualificazione degli enti territoriali.
Al loro successo era subordinato il superamento della
dicotomia piccolo/grande, alto/basso, locale/nazionale.
Semplificando possiamo dire che i nuclei di base della
nuova società erano il Comune, la scuola, la cooperativa,
la lega. Gli interessi e i campi di intervento di Matteotti
riguardarono l’efficienza e la trasparenza dell’azione am-
ministrativa; il dimensionamento, l’uniformità formale e
l’autonomia dell’ente territoriale; la finanza locale; la rap-
presentanza; i nuovi diritti sociali; gli istituti dell’econo-
mia sociale.

37
2.
Il processo riformatore e i corpi sociali

1. I L C O M U N E

Matteotti operò in una fase segnata dal “protagonismo


urbano”, che imponeva al Comune un interventismo
inedito. La costituzione dell’Associazione nazionale dei
comuni d’Italia nel 1900 evidenziava la presenza di due
soggetti distinti, lo Stato e l’ente territoriale, laddove in
precedenza il secondo era concepito solo come articola-
zione interna del primo. Del ruolo attivo del Comune,
i socialisti si fecero subito interpreti, forse con maggiore
intensità di altre forze politiche, a parte i cattolici, tanto
più che l’organizzazione territoriale del Partito socialista
fu sollecitata e al tempo stesso condizionata dalla parte-
cipazione alla lotta elettorale, prima amministrativa e poi
politica. Non fu solo un modo di contarsi, ma anche e
soprattutto di aggregare gruppi e singole personalità, di
sollecitare la formazione di strutture organizzative sta-
bili e di attivare la propaganda, di selezionare il gruppo
dirigente. L’Italia dei tanti campanili e dei tanti mestieri
si rifletteva nel primo partito moderno con insediamento

39
Giacomo Matteotti eroe socialista

territoriale diffuso e fisionomia nazionale, il quale, tutta-


via, tendeva a conferirle prospettiva e linguaggio comuni.
Nell’”insorgenza” o “affermazione” socialista era l’idea che
la società dovesse prendere autocoscienza e organizzarsi in
base al principio della uguaglianza dei membri, ad opera
di cittadini “attivi” e non della burocrazia.
Per i socialisti gli amministratori locali erano non solo
indipendenti dai Ministeri, ma anche e soprattutto rap-
presentanti organici e politici della comunità locale. Non
a caso sulla politicizzazione dell’ente locale si determina-
va lo scontro con la classe dirigente liberale, perché quella
portava dentro le istituzioni la problematicità dell’indiriz-
zo, intrinsecamente correlata alla concezione e alla pra-
tica autonomistica, e modificava la natura del corpo dei
cittadini elettori, tendente a farsi sovrano nel prescrivere
l’indirizzo suddetto, mettendo in discussione la titolarità
esclusiva della sovranità politica dello Stato moderno, nel-
la concezione liberale.
Matteotti intervenne più volte sulla stampa, nonché
con una lettera al Prefetto di Rovigo, per rivendicare il di-
ritto degli amministratori socialisti a discutere dell’opera-
to con le organizzazioni dei contadini e dei circoli, in un
confronto aperto, libero, dinanzi a tutti (“sissignori, noi
rappresentiamo il circolo socialista e la lega dei contadi-
ni”), e a rivendicare a “merito del partito nostro di aver
sostituito questi corpi più vasti, queste masse grandi di
tutti i lavoratori, nelle quali più facilmente l’interesse del
singolo è annegato in quello della collettività, alle piccole
camarille di due o tre persone di loggia, di sacrestia, di ca-
sino sociale, di club dei galantuomini, che fanno e disfan-
no, a proprio capriccio, nelle Amministrazioni comunali
avversarie” (Amministrazioni comunali e leghe contadine,
“La Lotta”, 12 luglio 1913; L’inchiesta al comune di Gavel-

40
3. Il processo riformatore e i corpi sociali

lo. Lettera aperta al Prefetto di Rovigo, ivi, 2 agosto 1913).


La titolarità dell’indirizzo tornava a porre in primo
piano il problema antico delle dimensioni degli enti ter-
ritoriali: ai più tale capacità sembrava possibile solo nelle
grandi realtà urbane o a livello metropolitano, con chiaro
riferimento alla conquista dei Comuni di Milano e di Bo-
logna nel 1914. A tutti erano evidenti le difficoltà, spes-
so insuperabili, che il disegno riformatore incontrava di
fronte alla frammentazione e all’esasperato localismo. Il
problema era ben presente a Matteotti.
Quando con le amministrative del 1907 i socialisti
polesani entrarono in una trentina di consigli comunali,
avvertì tra i primi l’urgenza di definire un orientamento
“pratico” che consentisse un’“azione positiva e concluden-
te”, superando “il criterio ondeggiante e irrisoluto” con
cui fino ad allora si erano “palleggiate le responsabilità del
potere” senza affrontare alcun serio problema a rimorchio
altrui, e riducendo l’iniziativa ad “un’opposizione antipa-
tica, materiata unicamente di personalità, di acredine e di
piccinerie”. Egli definiva tale atteggiamento “nichilismo
amministrativo”. E così, al fine di “ponderare e avviare
a soluzione” i problemi di interesse comune, quali quel-
li dell’istruzione, dell’igiene, della beneficienza pubblica,
dei tributi locali e della municipalizzazione dei pubblici
servizi, sollecitò la convocazione del primo congresso pro-
vinciale dei consiglieri comunali socialisti, che in effetti si
tenne a Badia Polesine il 15 settembre 1907 (I socialisti al
Comune, ivi, 27 luglio 1907).
La sollecitudine verso il coordinamento intercomunale
aveva a interfaccia quella per il rigore amministrativo.
Nel 1920 Matteotti promosse un ufficio di consulenza
legale e di ispezione per i 63 Comuni del Polesine allora
conquistati dai socialisti, la cui direzione fu affidata al de-

41
Giacomo Matteotti eroe socialista

putato provinciale Enea Ferraresi e al segretario comuna-


le Ezzelino Faccini. In quello stesso anno fu incaricato di
redigere il capitolo Ordinamento finanziario del Comune
per il manuale intitolato Alla conquista del Comune edi-
to dalla Società editrice Avanti! di Milano, promosso dalla
Lega dei comuni socialisti in previsione che nelle immi-
nenti elezioni amministrative fosse confermato il succes-
so ottenuto alle politiche del 1919. Non si trattava solo
di un pur significativo manuale ad uso di una nuova le-
va di amministratori poco avvezza alla gestione della co-
sa pubblica, perché di fatto nell’enunciazione di una serie
di indirizzi delineava un programma di riforme relativa-
mente omogeneo, il quale al di là delle dichiarazioni di
rito, assai poco si conciliava con il massimalismo della
Direzione del Partito. L’approccio pedagogico e formati-
vo risultava particolarmente idoneo alla posizione assun-
ta in più occasioni da Matteotti. Allora giunse a indicare
nel “Bilancio, i Conti, le Imposte (…) gli strumenti del
mestiere dell’Amministratore pubblico, che il socialismo
vuole sottrarre ai capitalisti per darlo ai lavoratori”. Che
per Matteotti la “cosa pubblica” costituisse un valore, un
bene collettivo lo si evince dalla sua denuncia della scarsa
efficienza del pur vantato controllo delle prefetture (“inu-
tile”) e soprattutto dell’operato dei segretari comunali
(“tengono gli uffici in disordine, la contabilità non esiste,
non esistono i registri”). Tanto più che ammoniva a at-
tribuire agli “obblighi” non solo un valore formale, ben-
sì anche sostanziale, perché i socialisti avrebbero dovuto
dimostrare che la proprietà pubblica o collettiva poteva
essere amministrata almeno altrettanto bene e utilmente
quanto quella privata.
Nel manuale Matteotti ebbe modo di esporre in ma-
niera più organica le valutazioni sui tributi locali, che ave-

42
3. Il processo riformatore e i corpi sociali

va già in parte anticipato al già ricordato congresso del


gennaio 1916. Intanto confermò un giudizio molto seve-
ro sulle manovre finanziarie del Governo, ritenendole ad-
dirittura peggiorative rispetto al passato perché le sovrim-
poste risultavano subordinate l’una all’aumento dell’altra
determinando sperequazioni tra i diversi comuni e nessu-
na attenzione era data ai comuni rurali e soprattutto non
era contemplata la possibilità dei Comuni di “eccedere”
rispetto alle quote consentite dallo Stato, misura ritenuta
dai socialisti finanziariamente necessaria e essenziale per
garantire l’autonomia verso il potere centrale. In partico-
lare, per Matteotti la sovrimposizione doveva essere più
ampiamente applicata sulla proprietà terriera, tanto più
che essa aveva incrementato il valore rispetto all’anteguer-
ra, con la sola eccezione per la piccola proprietà. Valutava
diversamente quella sui fabbricati, perché, a prescindere
dal caso dei lavoratori proprietari dell’appartamento, per
tutti valeva la tendenza a scaricare sugli inquilini le impo-
ste pagate, con il rischio di un generalizzato aumento dei
costi, ma consigliava “il ripristino” dell’imposta sul valore
locativo, istituita nel 1866 e caduta in disuso, per colpire
gli appartamenti tenuti vuoti. Analoghe considerazioni lo
portavano a giudicare inadatta la tassazione dei vani, pro-
posta dal Comune socialista di Bologna.
Un’attenzione particolare destinava ai dazi consumo,
che storicamente costituiva una delle colonne del siste-
ma tributario locale. In materia censurava innanzitutto il
procedere con “decretini-cerotto” nella rinuncia al riordi-
no organico. Era per la trasformazione dei comuni chiusi
in aperti perché si sarebbe economizzato sulle spese di ri-
scossione, abolito il laccio della cinta, diminuito il con-
tributo dovuto allo Stato. Favorevole alla gestione diretta
rinunziando all’appalto, per i Comuni più piccoli (aper-

43
Giacomo Matteotti eroe socialista

ti) riteneva tuttavia ancora conveniente l’abbonamento


annuale con i singoli esercenti, così da evitare le spese di
istruzione delle pratiche e di riscossione.
La prospettiva di fondo per Matteotti era però un’al-
tra, e cioè l’abolizione definitiva del dazio consumo, per-
ché nei piccoli Comuni non costituiva che una parte po-
co rilevante delle entrate, mentre nei medi e maggiori era
gravato da pesanti oneri di gestione, con negative conse-
guenze sul costo della vita. Invitava inoltre ad archiviare
in blocco la normativa esistente su esercizi e rivendite,
“caotica e spesso arcaica”, perché spesso i Comuni aveva-
no adottato in materia sei o sette regolamenti “e decine di
ritocchi sperduti tra le delibere consiliari”; e ad adottare
un regolamento unico che prevedesse una prima parte co-
mune, di natura più normativa, e una seconda articolata
per tipologia e adattabile.
In linea di massima sosteneva la tassabilità delle “azien-
de agricole condotte dai proprietari” e di “ogni stalla o
fienile” che costituisse col sottoposto terreno “una azien-
da distinta”, non escludendo la possibilità di colpire an-
che i prestiti di denaro ai privati o allo Stato, con l’unica
esenzione delle cooperative di lavoro. Non mancava di
raccomandare il ricorso alla presunzione, ricordando che
era tassabile non il guadagno netto ma “il movimento
economico complessivo e lordo”, deducibile dalla quali-
tà dell’azienda, dalla superficie dei locali, dal catalogo e
dal preziario, dal numero dei dipendenti. Era favorevole
all’aumento massimo possibile della tassa sul bestiame,
con la sola esenzione per uno o due animali da lavoro o i
pochi animali da pascolo posseduti da famiglie di lavora-
tori.
Analogamente suggeriva di applicare il massimo alla
tassa sulle vetture, in proporzione al numero di abitanti

44
3. Il processo riformatore e i corpi sociali

del Comune, ma con onere particolare per quelle “di lus-


so, divertimento o comodo”, fino al raddoppio per quelle
“fregiate di stemmi, iniziali o con ruote di gomma”, limi-
tando di contro la quota per i veicoli usati localmente da
lavoratori. Analogo incremento raccomandava per le tasse
su domestici, pianoforti e bigliardi.
Considerava infine applicata “poco e male” la tassa di
famiglia, che invece riteneva potesse diventare “l’imposta
più importante e più equa nelle mani dei Comune socia-
lista”, una volta che fossero abbattuti i massimali.
In quanto “strumento delicatissimo” richiedeva “la
massima imparzialità e la più diligente investigazione
nell’applicazione concreta”. E così ne suggeriva le disposi-
zioni applicative: l’iscrizione agli effetti della tassa di tutti
i redditi reali o potenziali dei beni mobili e immobili di
una famiglia, dovunque percepiti; la progressività delle
aliquote, specialmente per i comuni rurali, differenziando
altresì le aliquote in relazione al reddito globale: aumen-
tando l’aliquota della metà se prodotto prevalentemente
da capitale (interessi, rivendite), diminuendola di un ter-
zo se prodotto da lavoro. Inoltre, riteneva essenziale tener
conto anche della composizione della famiglia: quando la
proporzione dei componenti inferiori a 16 anni o mag-
giori di 65 o degli inabili al lavoro superasse la metà del
numero complessivo dei famigliari, si sarebbe detratto dal
totale dell’imponibile lire 1500 per ogni persona inabile
al lavoro. Prefigurando una vera e propria politica per la
famiglia, Matteotti finiva per prospettarne d’intesa con
le organizzazioni sindacali un uso, ancorché provvisorio,
come assicurazione contro la malattia. Calcolava che con
il versamento di 10 o 15 lire per ogni membro idoneo al
lavoro, si sarebbe potuto assicurare all’intero nucleo fami-
gliare assistenza medica, medicinale e ospedaliera gratuita,

45
Giacomo Matteotti eroe socialista

tanto più che al Comune non sarebbe stato difficile con-


cordare un forfait con gli stessi medici.
Negli anni successivi tradusse tali posizioni in un’in-
tensa attività parlamentare, fino alla presentazione di un
ddl di riordino dell’intera finanza locale nel dicembre
1921.
Di fronte al montare del fascismo, si segnalò per l’im-
pegno profuso per garantire o ripristinare l’agibilità poli-
tica in sede locale, così come in quella nazionale, e il ri-
spetto delle istituzioni e delle rappresentanze. Per la sua
campagna scelse la tribuna parlamentare, evidenziando,
ancora una volta, il nesso imprescindibile tra il locale e
il nazionale, poiché non poteva esserci libertà e sviluppo
dell’uno se non fosse stato anche dell’altro. Anche quan-
do la partita apparve perduta, non per questo cessò di ri-
ferirsi al Comune come terreno deputato all’esercizio del-
le libertà.
Nell’ambito del bilancio critico dell’esperienza sociali-
sta e del tentativo di rilanciarne le basi identitarie, e cioè
nel programma del Partito socialista unitario pubblicato
nel 1923, espresse la convinzione che nel Comune i socia-
listi potessero “anticipare quei modi di convenienza, quel-
la prova di famiglia umana solidamente unita in mutui
scambi di forza, di opere, di servizi, che rispondeva alla
nostra ideale speranza” (Direttive del Partito socialista Uni-
tario, Milano Biblioteca de “La Giustizia” 1923).

2. L A S C U O L A

Tra i bisogni materiali, sempre impellenti, delle cam-


pagne, Matteotti riteneva che la piaga diffusa e endemica
dell’analfabetismo costituisse l’ostacolo insormontabile ad
ogni possibile progresso. A Fratta si registrava allora un

46
3. Il processo riformatore e i corpi sociali

indice di analfabetismo del 43% sul totale della popola-


zione superiore a 6 anni. L’impegno di Matteotti ammi-
nistratore, pertanto, si orientò costantemente a estendere
la scuola primaria, poi a curare le strutture educative di
sostegno. Tra le prestazioni alla persona, attribuite all’en-
te territoriale, considerava questa tra le prioritarie: vera e
propria pietra di paragone per il comune socialista, anche
nell’ambito della rivendicata autonomia nei confronti del
centralismo statale. In ogni occasione amava proclamare
“quella certa libertà della scuola che desse la possibilità di
comprendere e discutere tutte le tesi, tutte le conoscenze”.
Pur laico, non era contrario in via pregiudiziale all’in-
segnamento della religione nella scuola, ma pretendeva
che fosse una scelta esplicita e diretta del genitore, senza
pressioni esterne, ma dichiarava di non voler seguire i cat-
tolici che piegavano la cosiddetta libertà di insegnamento
contro un presunto “Stato massonico”, ma neppure “la
tendenza giacobina massonica” che attribuiva l’istruzione
solo allo Stato per “soddisfare solo ai suoi intenti e abbat-
tere gli altri”.
Era convinto che la libertà di insegnamento dovesse
essere garantita “in tutto e per tutto”, salvo riservarne il
controllo all’Autorità pubblica, nell’interesse della col-
lettività; e che nel processo formativo fosse inaccettabile
la distinzione tra uomo e cittadino. Interprete di un so-
cialismo sempre e dovunque proiettato a agire in e per la
libertà perché solo così sarebbe stato possibile “gettare i
germi di questa società migliore”, non si stancava di ap-
pellarsi ad una vera e propria mobilitazione per “svilup-
pare in tutte le maniere la istruzione”, tanto più che con
ciò si rispondeva anche all’esigenza “di formare la capaci-
tà tecnica” degli organizzatori della nuova società: sulla e
attraverso l’istruzione i socialisti combattevano una bat-

47
Giacomo Matteotti eroe socialista

taglia di civiltà che in fondo era la stessa per il loro idea-


le. E così la scuola non doveva garantire semplicemente
la preparazione “per l’officina, pel lavoro”, cioè “all’abili-
tà tecnica”, ma per quattro o cinque anni doveva restare
“libera, poetica, astratta”, perché i fanciulli ne potessero
godere almeno per un pò di tempo, e ne portassero con sé
il ricordo.
L’impegno sul territorio, come amministratore e mem-
bro del Consiglio scolastico provinciale, dove fu eletto nel
1915, fu notevolissimo, anche con esposizioni personali.
Nel trigesimo della morte del fratello Matteo, con la fa-
miglia erogò la somma di 50000 lire per l’erezione di un
fabbricato destinato alle scuole elementari maschili e fem-
minili e dell’asilo infantile.
La donazione venne accolta, l’Amministrazione co-
munale accettò la donazione, ma poi dovette rinunciar-
vi a seguito del parere contrario della Giunta provinciale
amministrativa, secondo la quale non ce ne sarebbe stata
necessità. In qualità di assessore alla pubblica istruzione si
adoperò per potenziare le scuole periferiche, come a Ra-
medello, e per aprire scuole serali e di disegno. Si inte-
ressò dell’asilo infantile e del patronato scolastico, spesso
in contrasto con la Prefettura. Con questa ingaggiò un
braccio di ferro per la istituzione della VI classe, e di fron-
te alla bocciatura dell’asilo, propose di aggirare l’ostaco-
lo attraverso il patronato con pubblica sottoscrizione, a
cui contribuì personalmente con 500 lire. Il ripetersi di
tali difficoltà lo inducevano a reclamare la modifica della
normativa vigente che aveva avocato allo Stato l’istruzio-
ne elementare (“quella specie di provincializzazione della
istruzione ha dato luogo a tali e tanti inconvenienti per
la farragine e la ineguaglianza delle disposizioni”) auspi-
candone il ritorno alla competenza comunale, sia pure

48
3. Il processo riformatore e i corpi sociali

supportata dal contributo statale, ipotesi che preferiva a


quella per il puro passaggio allo Stato, che giudicava non
scevra del rischio di eccessivi vincoli burocratici e del-
la mortificante equiparazione di tutti gli enti territoriali
(“adesso siamo trattati tutti allo stesso modo”).
Almeno fino al 1916 ciò rientrava nella prospettiva più
generale della valorizzazione dell’ente territoriale nella di-
stinzione, ma anche nel confronto operativo con lo Stato.
Negli anni successivi il problema scolastico, e in par-
ticolare l’istruzione elementare, gli apparve sempre più
sotto il profilo dell’emergenza nazionale, a cui occorresse
provvedere con ogni mezzo. E gli sembrava che perfino
il Partito ne sottovalutasse la rilevanza. Pur ribadendo il
giudizio negativo sul funzionamento dell’ente provincia-
le posto a presiedere l’ordinamento scolastico per conto
dello Stato per carenza di finanziamenti e per attitudine
burocratica, assunse comunque la questione sotto la luce
esclusiva dell’efficacia, in modo pragmatico e senza pre-
concetti palesando una posizione meno rigida sul punto
della competenza (“anche qui è questione di denaro e di
direzione”).
Tornò quindi a sollecitare i Comuni ad assumere le
iniziative consentite, dedicandosi alle istituzioni per l’in-
fanzia, allora al centro del dibattito pedagogico. Il proble-
ma era quello di trovare le maestre idonee dal momento
che nessuno si curava della loro formazione, risultando di
fatto inapplicabile la norma in base alla quale l’insegnante
poteva accedere all’asilo solo dalla scuola elementare, con
relativa perdita di stipendio.
Matteotti si fece promotore di iniziative legislative per
la formazione di un corpo docente stabile e professional-
mente preparato, e quindi con obbligo del titolo di stu-
dio, e che ne attribuissero la gestione ad enti pubblici e

49
Giacomo Matteotti eroe socialista

non a congregazioni religiose che sfuggissero alla “vigilan-


za delle Autorità governative e comunali”.
L’emergenza gli consigliava di porre particolare at-
tenzione all’edilizia scolastica, su cui reclamava con insi-
stenza l’intervento statale. Dopo avere presentato un’in-
terpellanza alla Camera per la istituzione di nuove scuole
elementari nella seduta dell’8 maggio 1920, tornò a de-
nunciarne le condizioni “semplicemente vergognose” e in
quella del 22 novembre 1920 in polemica con il ministro
Benedetto Croce, a cui riconosceva autorevolezza in cam-
po filosofico, ma assai poca attitudine pratica, requisi-
to essenziale per il politico. In tale circostanza stimò che
mancassero almeno 15000 nuove scuole “per portarci,
non già alla soluzione del grande problema scolastico, ma
alla stretta osservanza della legge”, e ne lamentò addirittu-
ra il peggioramento rispetto alla legge Casati del 1859 che
vietava classi con oltre 70 alunni, dal momento che era
ormai costume diffuso disattendere l’ordinamento vigen-
te non solo sull’orario scolastico, ma anche sulla funzio-
nalità dell’ispettorato.
In occasione del convegno degli amministratori socia-
listi del Polesine il 7 novembre 1920 all’Università po-
polare di Rovigo calcolò che mancassero almeno cento-
cinquanta classi delle scuole elementari nella provincia, e
propose di sopperirvi senza attendere “il tardivo e nolente
concorso governativo”, ma utilizzando anche i locali de-
gli uffici comunali o addirittura occupando i palazzi vuoti
nel caso che i proprietari ne rifiutassero la concessione.
Visti i risultati deludenti ottenuti dai due soggetti isti-
tuzionali preposti all’istruzione pubblica, lo Stato e il Co-
mune, Matteotti prese in considerazione le potenzialità
di un terzo soggetto, e cioè lo stesso movimento organiz-
zato dei lavoratori, del resto destinatario di attese diffuse

50
3. Il processo riformatore e i corpi sociali

nell’immediato dopoguerra. Puntò su quello per rivita-


lizzare i patronati scolastici o addirittura per garantire il
rispetto della frequenza scolastica, invitando le leghe ad
applicare le multe agli operai iscritti che “frequentassero
abitualmente le bettole piuttosto che la scuola voluta e
preparata con gravi sacrifici dai compagni di lavoro”.
La lotta alla bettola, tenace concorrente, imponeva ai
circoli e alle leghe una posizione di prima linea, in paral-
lelo e in sintonia con le amministrazioni socialiste nella
promozione e nella gestione di scuole popolari, serali e
festive e di cicli di conferenze. Riteneva che per il “popo-
lo” dovesse essere resa obbligatoria almeno la scuola ele-
mentare superiore “con agevolazioni di vitto, di orari, di
trasporti e con premi”, e reso possibile l’accesso a tutte le
scuole integratrici, di preparazione all’esercizio delle arti e
dei mestieri. Non mancava neppure di delineare un qua-
dro di adempimenti pratici, come l’acquisto di lampade
luminose per la cinematografia scientifica e di libri per la
biblioteca popolare, o l’attivazione di scuole di disegno. A
questo proposito non è mancato chi, come Luigi Ambro-
soli, ha attribuito l’insistenza per l’insegnamento del dise-
gno alla percezione dell’importanza della mobilità sociale,
perché esso offriva ai giovani delle campagne “un’alterna-
tiva al tradizionale bracciantato agricolo” (Giacomo Mat-
teotti, Per la scuola, a cura di S. Caretti, Nistri Lischi Pisa
1990, pag. 13).
L’attenzione di Matteotti era rivolta anche alla diffu-
sione della cultura popolare, per la quale, ancora una vol-
ta, faceva affidamento sulla rete dei circoli politici, delle
case del popolo, delle organizzazioni economiche, inve-
stendo del problema, inteso nella dimensione e prospet-
tiva nazionale, il proletariato organizzato, ma questa volta
in modo diretto. Fu quindi tra i più solleciti a raccoglie-

51
Giacomo Matteotti eroe socialista

re con entusiasmo la proposta di Antonino Campanozzi,


segretario della Lega dei comuni socialisti, di promuove-
re “scuole socialiste di cultura” e teatri del popolo. E ne
prospettò immediatamente un’ipotesi di realizzazione per
i comuni rurali, articolata per fasi successive: la creazio-
ne di una biblioteca del popolo, da collocare “in un am-
biente un po’ largo, riscaldabile” a cui potessero accedere i
contadini d’inverno; l’introduzione di riviste e giornali, in
modo da farne un sia pure modesto “circolo di cultura” e
poi un “club politico” che sottraesse il lavoratore all’oste-
ria; e in parallelo l’avvio di un ciclo di conferenze, desti-
nato a trasformarsi in “corso di cultura”, sulla falsariga di
quelli delle università popolari.
Con la scelta opportuna degli oratori sulla base delle
competenze, si sarebbe potuto dar vita ad “una specie di
cattedre ambulanti”, di comune in comune. Più compli-
cato si rivelava il problema del teatro, ma anche in propo-
sito Matteotti non disperava. Intanto, si sarebbe potuto
dotare le case del popolo di sale da utilizzare per “piccoli
teatrini”, purché non vivessero l’uno discosto dall’altro,
ma si consorziassero a livello provinciale, in maniera da
organizzare compagnie “con qualche elemento artistico e
gli altri di complemento, disposti a girare di paese in pa-
ese”.
Rispetto all’approccio di Campanozzi, che prendeva in
considerazione solo l’espressione artistica più alta e il tea-
tro di qualità, Matteotti spendeva una lancia a favore di
quella “inferiore”, ma non per questo meno importante,
come il “teatro rurale” o “ambulante”, finendo per con-
vincere anche il diffidente interlocutore a riconoscerne
l’utilità.
Infine Matteotti era favorevole ai “viaggi collettivi di
istruzione artistica”, e a tale scopo prefigurava la promo-

52
3. Il processo riformatore e i corpi sociali

zione di “società per piccoli viaggi”, anche con l’eventuale


sussidio dei Comuni, in modo da rendere gratuiti il viag-
gio e la refezione a destinazione. Era la consueta imposta-
zione: anche “per tutte queste piccole cose” l’istanza terri-
toriale andava bene, anzi per certi versi era indispensabile,
ma per essere efficace non doveva chiudersi in sé, ma
piuttosto aprirsi, e quindi associarsi e consorziarsi. Punto
centrale, al dunque, restava ancora “l’unione dei Comuni
e delle Province”.
In vero Matteotti organizzò tra i compagni la visita di
Ferrara una domenica di ottobre del 1920, proponendosi
lui stesso a guida. Aderì un gruppo di giovani socialisti di
Polesella e San Pietro in Valle, che fu ricevuto al Castello
estense dall’on. Niccolai e dai giovani socialisti ferraresi.
La visita continuò alla Cattedrale, al Palazzo Schifanoia,
nonché al Palazzo dei Diamanti, a San Cristoforo e alla
Certosa. Ma i risultati dovettero essere inferiori alle at-
tese, se Matteotti se ne lamentò aspramente su “La Lot-
ta”: “È però veramente deplorevole che, meno un piccolo
manipolo, la grande massa dei lavoratori e dei socialisti
polesani non abbia partecipato e se ne sia disinteressata.
Noi avremmo voluto che a questa prima gita ne seguisse-
ro altre molte a Padova, a Verona, a Venezia, e le avrem-
mo completate con conferenze, trattenimenti, ecc. Poiché
pensiamo che il socialismo non voglia dire vino e osterie;
ma sia anzitutto aspirazione all’elevamento intellettuale e
morale della classe lavoratrice. Invece questo esperimento
ci disillude e scoraggia”.
L’approccio di Matteotti aveva un fondamento clas-
sista, restando il lavoratore destinatario delle attenzioni:
la politica culturale, chiosava, doveva essere “larga, libe-
ra, perché è dai confronti che scaturiscono le verità e la
mente dell’operaio si dischiude un po’ e incomincia a di-

53
Giacomo Matteotti eroe socialista

scutere”. Qui come altrove, però, tre punti sono da con-


siderare: nel lavoratore vedeva il cittadino che si andava
formando; l’emancipazione culturale del medesimo era
veicolo di mobilità sociale e economica individuale o di
classe, ma anche a vantaggio dell’intera società; l’insieme
delle istanze assunte delineavano almeno parzialmente
quella che molto dopo si sarebbe chiamata educazione
permanente.
Matteotti non mancò di interessarsi anche dell’istru-
zione superiore, partendo dalla considerazione dello squi-
librio profondo “tra l’alta e la minore cultura, specialmen-
te nell’Italia meridionale dove si era “dottori o analfabeti”.
Sul punto attribuiva alla borghesia di avere pensato po-
co “a formarsi di quella media cultura che era necessaria
per l’esercizio intelligente delle industrie, dei commerci,
dell’agricoltura, cioè per lo sviluppo della ricchezza nazio-
nale; preferendo spingere subito i suoi figli, bene o male,
volenti o nolenti, alla laurea universitaria” (Spunti univer-
sitari, in “Critica sociale”, 1-15 giugno 1919). In parti-
colare era critico verso le Facoltà di Giurisprudenza, che
sfornavano il 40% dei laureati. A suo dire, c’erano trop-
pi avvocati, di scarsa utilità sociale (“le file parassitiche di
quella avvocatura italiana che vive sulla litigiosità di po-
polazioni arretrate e sulla teatralità retorica dei processi
penali, quando non d’intrighi e mediazioni per ogni ge-
nere d’affari”), e per giunta privi di una solida prepara-
zione, anche per le ricorrenti pretese della borghesia di
garantire facilitazioni per i figli, di volta in volta con il
pretesto della guerra, di un terremoto o di un’epidemia.
Sosteneva insomma la necessità di riportare lo studio
delle leggi “ad uno studio serio, profondo e difficile”, e a
tal fine proponeva “un esame generale e accurato in capo
al primo triennio o biennio”. Convinto com’era che agli

54
3. Il processo riformatore e i corpi sociali

studi superiori dovessero ammettersi solo i meritevoli,


con “provvidenze sicure per ogni figliolo del popolo” che
offrisse ”eccezionali speranze di buona riuscita”, riteneva
equa la tassazione dei benestanti lungo tutto il corso degli
studi, ponendo termine allo “scandalo dei certificati falsi
per ottenere le esenzioni”.
Insisteva sulla tesi che il numero delle Università fosse
eccessivo, a detrimento della qualità, perché non era pos-
sibile moltiplicare per tutte le sedi i gabinetti, gli impian-
ti, i musei, le macchine, le cattedre specializzate indispen-
sabili agli studi avanzati. Non si diceva tuttavia favorevole
alla pura soppressione delle università minori, con il ri-
schio di creare grandi alveari “ad uso Napoli”, ma ritene-
va necessario trasformare le “facoltà della stessa specie e
mediocri”, prevalenti nei piccoli centri minori, in scuo-
le di specializzazione, che tenessero conto delle specifici-
tà sociali e geografiche. Così, sottolineava non senza una
punta di malizia, ogni città avrebbe potuto “raggiungere
singolare fama e splendore per alcuno studio particolare”,
senza alcun “sacrificio di una gloriosa tradizione o la ri-
nunzia alla industria degli affittacamere, delle pensioni o
dei bigliardi”.
In quanto a Trieste, ne ammetteva il diritto ad avere
l’università “a rivendicazione di quella cultura cui rende-
vano omaggio concorde tutti i socialisti dell’Austria con-
tro la coalizione dei borghesi nazionalisti di razza diversa,
che vi vedevano solo uno strumento di concorrenza e di
dominio”, ma osservava che la si sarebbe potuta ottenere
con la rinuncia da parte degli atenei esistenti di una qual-
che facoltà, invece di incoraggiare la consueta rincorsa al-
la solidarietà espressa in “cortei e telegrammi”. Allo stesso
tempo, aggiungeva provocatoriamente, Trieste avrebbe
avuto modo di smentire l’ipotesi che l’irredentismo co-

55
Giacomo Matteotti eroe socialista

prisse “gli interessi materiali della borghesia esclusa dagli


uffici dello Stato straniero”. Nella tornata parlamentare
del 14 giugno 1922 presentò un odg che invitava il Go-
verno a predisporre il riordinamento del sistema univer-
sitario, ispirato ai concetti sopra esposti. Il ministro della
Pubblica Istruzione, Antonino Anile, si disse sostanzial-
mente d’accordo sull’assunto, ma come “raccomandazio-
ne di studio”. E in tal senso l’odg venne approvato.
Insediatosi il Governo Mussolini dopo la marcia su
Roma, Matteotti fece della denuncia contro la politica
“conservatrice e illiberale” del nuovo ministro alla Pubbli-
ca Istruzione, Giovanni Gentile, uno dei motivi centra-
li della requisitoria contro il fascismo. Attribuì ai decreti
promulgati la responsabilità di avere “sconvolto l’ordina-
mento scolastico del paese”.
A parte l’incremento del numero delle Università (Mi-
lano e Bari) e delle facoltà, a cui restava contrario in base
a criteri di efficacia e di efficienza, riteneva inaccettabile
che esse fossero dichiarate formalmente libere di reperire
i mezzi economici, mentre nella sostanza venivano priva-
te delle tradizionali funzioni di autogoverno, risultando
riassorbite dal Governo le competenze per l’elezione del
rettore, del preside e dei professori, e perfino il parere sui
programmi, attraverso il Consiglio superiore della Pubbli-
ca Istruzione, completamente nominato dal Ministro.
Lamentava che la scuola media fosse ridimensionata
per favorire la scuola privata, mentre nulla fosse stato fat-
to per la scuola professionale, destinata ad avviare i figli
del popolo alle arti e ai mestieri. Non gli sfuggiva il si-
gnificato politico dell’annuncio della creazione di scuole
affidate ai privati e semplicemente sussidiate, e soprat-
tutto l’enfasi sull’insegnamento religioso cattolico posto
a coronamento degli studi, ancorché sottovalutasse l’im-

56
3. Il processo riformatore e i corpi sociali

patto degli esami di stato sull’intero sistema scolastico, su


cui con tanta insistenza insisteva il Partito popolare. Ma
sui rischi dell’evoluzione dell’orientamento illiberale del
Governo in prassi autoritaria non ebbe mai dubbi, come
quando Il 29 novembre 1923 svolse un’interrogazione
parlamentare contro l’invito rivolto dal Provveditore de-
gli studi di Perugia ai Direttori delle scuole perché fosse
adottato il “Quaderno Balilla”.
Non si possono chiudere queste considerazioni sul
ventennale impegno di Matteotti per la scuola senza ri-
cordarne le parole apposte nel citato manifesto program-
matico del 1923, dove Matteotti sosteneva che il primo
elemento necessario allo sviluppo della produttività nella
“grande gara tra i paesi civili del mondo” restava l’istru-
zione diffusa, cioè la cultura del popolo; e presentava
l’“educazione dei lavoratori” come “lo strumento primo
e validissimo della loro emancipazione, condizione pri-
ma dell’albeggiare della loro coscienza di classe; requisito
e mezzo indispensabile della vita durevole delle loro or-
ganizzazioni, e addirittura “prova della possibilità di un
mondo più consapevolmente e liberamente umano e ci-
vile”. In tale contesto “l’istruzione e l’elevazione morale
dei lavoratori” restavano “il primo e l’ultimo anello della
catena dei nostri principi e dei nostri atti”.
In poche parole era qui sintetizzato il pensiero che dai
riformatori socialisti dell’800 era penetrato nel socialismo
europeo tra ’800 e ’900, fino a conferirgli un’impronta
peculiare e insostituibile: la scelta del libro aperto da af-
fiancare al sole sorgente e alla falce e martello incrociati
sarebbe diventata motivo ricorrente nella simbologia so-
cialista, che in ciò si differenziava da quella comunista che
privilegiava la stella, evocativa di lotta e di disciplina. Per
Matteotti l’emancipazione era intrinseca al miglioramen-

57
Giacomo Matteotti eroe socialista

to delle condizioni economiche (“minimum di pane”),


che ne costituiva forse la base di partenza per poi farsi co-
efficiente ed impulso di ulteriori conquiste economiche e
sociali, ma alla fine si sarebbe dovuto accompagnare “alla
aspirazione e alla volontà di vivere una esistenza più alta
e più degna, per i diletti dello spirito, per la finezza dei
sentimenti, per una più elevata coscienza di sé e del di-
ritto e del dovere e della vita morale”. E concludeva: “il
Socialismo parte dalla realtà dolorosa del lavoratore che
giace nell’abiezione e nella servitù materiale e morale, e
intende e opera a sollevarlo e a condurlo a miglioramenti
economici e intellettuali, a Libertà Sociale e a Libertà Spi-
rituale, sempre più alte. Vuole cioè formare e realizzare in
lui l’uomo che vive, fratello e non lupo, con gli Uomini,
in una umanità migliore, per solidarietà e per giustizia”.

3. T R A R E S I S T E N Z A E S V I LU P P O A Z I E N D A L E

Il nodo centrale della “vita socialista” per Matteotti


stava tutto nel rapporto tra partito, organizzazioni econo-
miche di operai e contadini. L’importanza attribuita alla
lega gli derivava dall’esperienza maturata in Polesine, nel-
le cui campagne erano avventizi, boari, obbligati, piccoli
proprietari e fittavoli. Soprattutto per i braccianti, afflitti
dalla ricorrente disoccupazione e da miseri salari, la lega,
unità sindacale di occupati e di disoccupati, diventava
culla della resistenza, detta anche di classe o di migliora-
mento, cioè di tutela per il salario e la giornata di lavoro;
e nello stesso tempo embrione della comunità solidale che
nella mentalità rurale finiva per rappresentare un micro-
cosmo.
Il successo del modello leghista risiedeva forse ancor
più nella natura di istituto preposto alla distribuzione del

58
3. Il processo riformatore e i corpi sociali

lavoro attraverso l’ufficio di collocamento e, nel dopo-


guerra, l’imponibile minimo di manodopera. Assai meno
si prestava alle esigenze delle altre figure della campagna.
Per l’organizzatore risultava estremamente complicato
mobilitare e coordinare istanze così diverse, per giunta in
un mercato del lavoro frammentato, dove anche gli accor-
di faticosamente raggiunti non erano mai stabili e tanto-
meno condivisi da tutti.
La guerra aveva esasperato attese di vario genere, ali-
mentate dalla promessa della classe dirigente della “terra
ai contadini”, impegnati sul fronte, un tema che trovava
riscontro nella cultura politica del Partito popolare, che
nella conduzione diretta apprezzava la coincidenza della
proprietà e del lavoro, così come nella mezzadria la natu-
ra interclassista del patto societario. Ma anche un settore
consistente degli agrari si stava orientando verso “lo spez-
zettamento dei fondi”, in ultimo per contrastare l’orga-
nizzazione socialista.
Nell’immediato dopoguerra quest’ultima conobbe
uno sviluppo notevole, sia sul piano politico sia su quello
strettamente sindacale. La Federterra, il sindacato di cate-
goria costituito nel 1901 e che era il più numeroso nella
CGdL, vantava oltre 800000 iscritti. Alla Camera pote-
va contare su un nutrito gruppo di parlamentari amici tra
cui lo stesso Matteotti. Sotto la direzione di Argentina Al-
tobelli e di Nino Mazzoni arrivò a caldeggiare l’ipotesi di
farsi nucleo promozionale di un’Internazionale dei lavora-
tori del settore.
Il problema più grosso che tale sindacato si trovava
ad affrontare era il permanere o l’acutizzarsi della disoc-
cupazione, specialmente tra i braccianti, che ne costitu-
ivano la base sociale di gran lunga più consistente. Del
resto, dal 1915 gli agrari del Polesine avevano abban-

59
Giacomo Matteotti eroe socialista

donato lavori di bonifica e di rifinitura invernale e ap-


profittato della impossibilità di qualsiasi azione di difesa
sindacale, essendo il Veneto una zona di guerra, per ren-
dere più pesanti le condizioni di lavoro e salariali degli
avventizi. Ma, finito il conflitto, si trovarono impreparati
di fronte all’improvvisa e notevole dilatazione della for-
za sindacale socialista, per giunta nel clima fortemente
rivendicativo e di attesa palingenetica di un imminente
riscatto sulla scia della rivoluzione russa, tale da suscita-
re azioni “impazienti” e dal tono impositivo, spesso as-
sai poco coordinate. Ciò fu più evidente in quelle aree di
più recente mobilitazione sindacale.
Vale la pena soffermarsi sulla vicenda sindacale nel
Polesine, che possiamo considerare emblematica, sia
pure nella sua esasperazione, rispetto al quadro genera-
le. Anche qui, come nel resto del Paese, la maggioranza
dei nuovi militanti socialisti e segnatamente i giovani si
orientarono verso la corrente massimalista, specialmen-
te nei mandamenti di Badia e di Massa Superiore, e nei
maggiori centri urbani di Adria, Rovigo e Lendinara tra
gli operai dell’industria, gli artigiani e i piccoli borghesi.
Matteotti, pur mantenendo salda la propria autore-
volezza, si trovò in minoranza. I quadri riformisti, a co-
minciare da Matteotti che seguì personalmente tutte le
vertenze assistendo il segretario della Camera del Lavoro
di Rovigo, Parini, anch’egli riformista, perseguirono una
linea che privilegiava il coordinamento e il consolidamen-
to degli organismi appena costituiti, per ricondurre sotto
una guida le agitazioni più spontanee e scomposte, conte-
nere gli eccessi, rintuzzare i campanilismi.
La ricerca e l’enfatizzazione dell’unità del proletariato,
che ancora nel 1919-20 Matteotti sembrava anticipare a
tutto, rispondevano ad un’esigenza reale nell’aspro con-

60
3. Il processo riformatore e i corpi sociali

fronto con la parte padronale in merito al rinnovo dei


patti agrari, sul cui esito si giocavano le sorti di un’inte-
ra stagione di lotte. Ma, pur da una posizione di mino-
ranza, serviva anche a evitare l’isolamento e a mantenere
comunque uno spazio di iniziativa, contrastando le posi-
zioni di coloro che, all’interno del Partito, avrebbero vo-
luto espellere Turati e compagni nel conto della fedeltà a
Mosca.
Il carattere provinciale dell’istituto camerale, sostenuto
da “La Lotta”, che giunse a tirare fino a 10000 copie, era
stata una conquista importante, ma l’obiettivo di fondo
caldeggiato nel 1919 da Matteotti, e cioè un nuovo patto
su base provinciale, fallì.
Quell’anno, in occasione della mietitura si arrivò alla
sottoscrizione di una settantina di patti locali, che pre-
vedevano incrementi salariali e l’impegno degli agrari a
fare il possibile per lenire la disoccupazione. Del disordi-
ne conseguente approfittarono gli agrari per disattende-
re largamente le attese. Un passo avanti decisivo sembrò
compiersi nel 1920 con la stipula del concordato a livello
provinciale sulla base della bozza preparata da Matteotti e
Parini. Esso riconosceva gli uffici di collocamento di clas-
se e impegnava gli agrari a tenere occupati costantemente
almeno un uomo ogni cinque ettari e mezzo di terreno
catastale. Aveva una durata annuale. Contemplava la di-
versità delle tariffe salariali per i bovai e i braccianti, da
1,20 a 1,75 lire all’ora, in relazione ai terreni.
Questa volta la Camera del lavoro riuscì a imporsi con
sufficiente autorevolezza, contrastando i reiterati proposi-
ti del ricorso allo sciopero generale, e lo stesso Matteotti
si spese per propagandare gli esiti vantaggiosi dell’accor-
do, postillandone e commentandone i singoli punti in
un vademecum destinato agli organizzatori locali. Non

61
Giacomo Matteotti eroe socialista

mancarono tuttavia manifestazioni spontanee, come l’oc-


cupazione pacifica delle terre a Bergantino o il rifiuto dei
leghisti di Villadose di accettare il giudizio arbitrale sfa-
vorevole ponendosi in sciopero. Assai più sistematiche e
pesanti furono tuttavia le infrazioni da parte della grande
proprietà.
In prossimità della scadenza, l’Agraria disdettò il pat-
to. Seguirono laboriose trattative su una bozza presenta-
ta dalla Camera del lavoro, che naufragarono di fronte
all’intransigente pretesa della parte padronale che le le-
ghe rinunciassero all’ufficio di collocamento. Infine l’As-
sociazione dei proprietari si ritirò dal tavolo delle trat-
tative e si rifiutò perfino di discutere la proposta della
creazione di uffici di collocamento misti avanzata dai po-
polari. Respinsero anche la proposta della Camera del la-
voro di consentire i lavori di preparazione dei terreni per
le seminazioni primaverili prescindendo dall’esito delle
trattative.
La percezione immediata fu quella che gli agrari inten-
dessero dare alle organizzazioni operaie un “colpo morta-
le”, per riacquistare il pieno dominio sulle campagne, non
ultimo ricorrendo ad una sorta di serrata o minacciando
il frazionamento delle aziende per darle in affitto, ma so-
prattutto incoraggiando e sostenendo lo squadrismo agra-
rio. Insomma, nell’inverno del 1921 il disegno era già
chiaro: “l’offensiva agraria in primavera non è sulle tariffe,
ma sul collocamento e sull’imponibile”, denunciava Maz-
zoni al Consiglio nazionale dei lavoratori della terra, che
si tenne a Milano il 10-12 febbraio 1921, con all’odg la
disciplina contrattuale, l’incremento della “produzione
nazionale” e dell’occupazione, la gestione delle terre in-
colte e il contrasto al frazionamento aziendale. E Olindo
Gorni, agronomo di indubbio profilo e dirigente della

62
3. Il processo riformatore e i corpi sociali

Federazione nazionale delle cooperative agricole, rilevava


come la violenza si accanisse laddove l’organizzazione ave-
va ottenuto i maggiori successi colpendo militarmente “i
capilega e gli uffici di collocamento”, per minare così “il
principio di minimo di manodopera per unità di superfi-
cie” (O.Gorni, Il fascismo nelle campagne, “La Terra”, a. 2,
n. 6, 31 marzo 1921).
La lettera di Matteotti in data 3 marzo 1921 a Pari-
ni è illuminante sulla complessa realtà polesana, sempre
in movimento poiché anche gli accordi faticosamente
raggiunti non erano mai né stabili né condivisi da tutti.
Sotto l’apparenza di difendere l’interesse “di classe”, con
ciò intendendo l’interesse generale, e di non escludere “le
ultime chiamate e i maggiori sacrifici per tutti”, egli de-
nunciava la miopia inconcludente di coloro che volevano
estendere l’agitazione e ne tacciava i comportamenti co-
me “meschinamente egoisti”. Certo, non era in grado di
respingere in linea di principio lo sciopero generale, ma
lo collocava in una dimensione estrema e, al buon fine,
“col massimo vigore”, rifiutandosi alla pratica scioperaiola
che tanto aveva caratterizzato il biennio rosso, con effet-
ti discutibili. Ad esempio di comportamento “egoistico”
indicava la pretesa di estendere lo sciopero anche “nelle
campagne dove gli agricoltori (i proprietari) accettassero
la manodopera”, o di coinvolgere obbligati e bovai.
Sul problema scottante delle compartecipazioni era
dell’avviso che occorresse accettarle laddove i proprieta-
ri si mostrassero disponibili ad accogliere l’imponibile di
manodopera, anche per dividere il fronte degli agrari, am-
mettendo solo l’opportunità, che bovai, obbligati, avven-
tizi e impiegati versassero una piccola quota per la cassa
comune. Per le semine si diceva convinto che non fosse
“il momento per ora di pensare a semine forzate, a inva-

63
Giacomo Matteotti eroe socialista

sioni di terre e simili”, consigliando piuttosto alle leghe


di garantire pubblicamente la fornitura di manodopera a
giornata necessaria. Chiara risultava la raccomandazione
contro “le violenze stupide e dannose”: “Non precipitate
nulla. Chi vuol precipitare è perché nell’anima si sente in-
capace di resistere”. È evidente la preoccupazione di tene-
re unita l’organizzazione, unico strumento valido d’azio-
ne, ma l’atteggiamento è pragmatico, attento a non dare
agio a “comportamenti egoistici” o a “violenze stupide e
dannose”. Insomma, ne scaturiva una figura ben diversa
da quella dell’incendiario! Ed erano i giorni immediata-
mente precedenti al sequestro e alla minaccia di morte, a
cui seguì il bando dalla provincia.
Proprio in quelle settimane, tra febbraio e marzo
1921, si registrarono i primi significativi cedimenti di
fronte allo squadrismo fascista. Il congresso dei lavoratori
della terra che si tenne a Rovigo il 15 maggio 1921 fu for-
se l’ultimo atto significativo di una presenza organizzata e
politicamente coordinata. Vi furono rappresentate ancora
97 leghe per 33211 soci. L’occasione era dettata dalla so-
spensione delle semine decretata nelle grandi aziende da-
gli agrari, a differenza di quelle piccole sotto influenza dei
popolari.
Nel tentativo di una ripresa di iniziativa per superare
lo stallo involutivo Matteotti fece approvare dal congres-
so un odg, che, a correzione della posizione espressa due
mesi prima, dava mandato ad un comitato provvisorio di
assumere “i provvedimenti del caso provincialmente o lo-
calmente” allo scopo di “assicurare alla provincia la pro-
duzione e ai lavoratori il loro diritto di organizzazione e
di vita” di fronte alla “incivile resistenza agraria” che si ne-
gava alla trattativa e preferiva lasciare incolte le terre an-
che nel periodo della semina.

64
3. Il processo riformatore e i corpi sociali

Ad integrazione dell’azione sindacale Matteotti assu-


meva la cooperativa, specialmente di lavoro, sulla base
dell’esperienza positiva maturata in Emilia e Romagna.
“La cooperazione – scriveva nel marzo 1910 a Gildo
Cioli, dal 1909 segretario della Federazione Socialista di
Rovigo, direttore de “La Lotta”, promotore di una Cas-
sa consorziale – ha un campo sconfinato d’azione perché
tende a “democratizzare” il capitale, a liberare i lavoratori
dagli intermediari, o meglio la mancanza di conoscenza
che il nostro proletariato ha dei vantaggi economici e mo-
rali della resistenza”, ma al tempo stesso ammoniva che il
successo sarebbe dipeso dalla onestà e competenza delle
direzioni tecniche ed amministrative.
Lo strumento cooperativo integrava l’organizzazione
del lavoro implicita nella lega, superando due difficoltà
destinate a ripresentarsi nell’istituto della resistenza, e cioè
l’inclinazione dell’iscritto a dimenticarsi dell’organizzazio-
ne dopo una vittoria e il rischio che il crescendo riven-
dicativo potesse ledere “il rapporto economico che deve
necessariamente esistere tra compensi al lavoro e al capita-
le per l’equilibrio occorrente alla produzione”. Anche se,
aggiungeva subito, nell’immediato tale eventualità era da
scartare perché i salari dei braccanti e dei contadini era-
no ancora troppo bassi per poter minacciare il capitalismo
agricolo. Alle provocazioni degli avversari, che lo invitava-
no a distribuire tra i lavoratori le sue proprietà, divise in
piccoli fondi sparsi nella provincia, rispondeva che la su-
perficie e la dislocazione non consentivano di promuove-
re un’azienda efficiente, e quindi, non potendoli coltivare
direttamente, li aveva dati in affitto, essendo i socialisti fa-
vorevoli alla associazione, non alla divisione.
In realtà la cooperativa fece il suo ingresso nelle cam-
pagne polesane con difficoltà, tanto più che anche gli

65
Giacomo Matteotti eroe socialista

agrari la osteggiavano. Per Matteotti, però, la forma asso-


ciativa restava ugualmente la via insostituibile per perve-
nire alla gestione collettiva. A tale fine invitò nel Polesine
Gorni a propagandare l’affittanza collettiva e la coopera-
zione. L’esperimento più significativo fu forse a La Fra-
terna (Porto Tolle) e a Trecenta nella tenuta Spalletti, per
iniziativa della lega sotto la direzione dello stesso Gorni
e di Rizieri Zaghi, che prese a coltivare un vasto terreno
prima coltivato a mezzadria.
Con il fascismo, però, I mezzadri tornarono al pre-
cedente appoderamento. Per i socialisti il problema del
frazionamento dell’azienda agricola, nelle diverse forme
dell’appoderamento, della quotizzazione e della parte-
cipazione, aveva un profilo al tempo stesso economico e
etico.
Lo assimilavano, infatti, ad una sorta di “agricoltura di
rapina”, condannata alla marginalità sul mercato, incapa-
ce di usufruire dei progressi tecnologici per incrementa-
re la produttività e tale da perpetuare la chiusura mentale
del contadino. In ultima analisi, significava il depaupera-
mento della terra stessa. Insomma, l’attenzione alla pro-
duttività portava a privilegiare senza dubbio la grande
azienda, purché sottratta al potere incontrastato dell’agra-
rio, e dunque, per salvaguardarne la valenza, era inevita-
bile puntare sul “lavoro associato”, il solo a rispondere “al
progresso tecnico e alla civiltà umana”.
Ciò non significava, come erroneamente si è sostenu-
to, che si intendesse abbandonare alla loro sorte coloni e
compartecipanti, mezzadri e obbligati, piccoli affittuari e
piccoli proprietari, ancorché alcune figure si ritenessero
residuo del passato, solo si volevano portare sulla linea ri-
tenuta più consona al socialismo riformista, che si poteva
concretizzare in poche parole: esso operava per associare

66
3. Il processo riformatore e i corpi sociali

e non per dividere. Una lucida testimonianza di tale po-


sizione fu data dalla lettera indirizzata il 12 maggio 1919
alla redazione de “Il Popolo” con la quale Matteotti re-
spingeva l’accusa della contrarietà ai piccoli proprietari.
In proposito citava la sua proposta di abbassare al 10%
l’imposta fondiaria normale, contro il limite del 18% pre-
visto nel progetto del cattolico Filippo Meda.
Ammetteva di perseguire l’esproprio parziale o totale
della grande proprietà assenteista, ma non ai fini dell’e-
spansione indiscriminata di nuovi piccoli proprietari
(“nuovi egoisti”), quanto piuttosto a beneficio di comu-
nità di lavoratori secondo contratti d’affitto o in uso gra-
tuito.
Riteneva infatti che la divisione dei beni in tante pic-
cole quote fosse “veramente un’utopia insostenibile”, per-
ché in poco tempo sarebbero rinate “le differenze” con
nuovi rapporti “contrari a ogni sviluppo”, e comunque la
piccola proprietà suddivisa avrebbe prodotto meno e con
più fatica in confronto alla grande cultura moderna, che
dava il massimo prodotto col minimo lavoro. Aggiungeva
anche una considerazione di ordine morale: “la proprietà
è la madre naturale dell’egoismo, dell’invidia, dell’odio,
e ogni proprietario guarda al prossimo quasi come a un
nemico e trascura ogni atto di lealtà sociale e civile”. Ma
si preoccupava anche di ribadire che con ciò non ne pre-
tendeva affatto l’estinzione, tanto più con moto autorita-
rio dall’alto, e auspicava piuttosto che la piccola proprie-
tà esistente venisse “eccitata a riunirsi in cooperative, ed
avere animali in comune, macchine in comune, concimi
in comune, etc. per eliminare via via tutti i difetti della
piccola proprietà e prepararne la spontanea collettivizza-
zione”, la quale in ogni caso avrebbe potuto vincere solo
“per forza di esempio” e di sviluppo.

67
Giacomo Matteotti eroe socialista

Concludeva mettendo innanzi il principio del socia-


lismo secondo il quale ognuno avrebbe imparato che il
massimo bene personale sarebbe coinciso con il bene di
tutti.
Nella logica “ricostruttiva” dell’economia e della so-
cietà nel dopoguerra, di cui massima espressione fu il
Rifare l’Italia di Turati, trovava posto non secondario il
progetto di economia sociale per impulso delle esperien-
ze maturate nelle campagne. Su “La Terra”, organo del-
la Federazione nazionale dei lavoratori della terra e della
Federazione nazionale delle cooperative agricole, diretta
da riformisti come Mazzoni e poi Giacomo Zibordi, nel
1921 proprio Gorni dedicava una serie di articoli al “disa-
stro” del frazionamento dei fondi, di cui, tra l’altro, cita-
va due casi esemplari: “la rovinosa esperienza dei popolari
nel bergamasco” nel passaggio dalla mezzadria all’affitto,
e l’”abbandono delle buone norme agricole” nella tenu-
ta del comm. Pelà nel Polesine. Alla componente coope-
rativa si deve l’impostazione del progetto di legge per la
socializzazione delle terre presentato alla Camera il 17 di-
cembre 1921 dal Gruppo Parlamentare socialista, a firma
degli onn. Canevari, Piemonte, Panebianco. Esso preve-
deva la costituzione in ogni provincia di una “comuni-
tà agraria”, a cui fosse attribuita la proprietà agricola, ad
esclusione della piccola proprietà a conduzione famiglia-
re, già di proprietà delle cooperative agricole o in condu-
zione delle stesse.
Il disegno di legge non aveva possibilità alcuna di es-
sere approvato, e poteva apparire perfino un gesto strava-
gante.
In realtà, in una fase di forte riflusso dell’organizzazio-
ne rivestiva un preciso valore simbolico per rimarcare una
scelta di campo in risposta alle polemiche dei massimali-

68
3. Il processo riformatore e i corpi sociali

sti, e ribadisse la distinzione da liberali e popolari, e finan-


co dai comunisti, fermi nella considerazione dei piccoli
proprietari come massa di manovra contro il blocco pa-
dronale, piuttosto che sensibili ai problemi della produtti-
vità aziendale. Analogo significato ebbe la contemporanea
presentazione di un progetto di legge sugli uffici di collo-
camento.
Si è già visto come fin dall’inizio Matteotti non disco-
noscesse i limiti di fondo del percorso riformatore, così
come aveva concepito e avviato per la realtà polesana: il
permanere del localismo, la frammentazione, l’imprepa-
razione, le intemperanze, i personalismi, l’isolamento e il
rischio dell’autoreferenzialità, la fragilità dei pur signifi-
cativi traguardi conseguiti rendevano fragili e esposti ad
eventuali contraccolpi i graduali passi verso l’unificazio-
ne politica e organizzativa a livello provinciale e la tradu-
zione delle esperienze sperimentate nella formazione di
quadri responsabili e capaci, al cui esito subordinava il
consolidamento dei risultati parzialmente conseguiti. Era
vero che il sindacalismo rivoluzionario della Cdl del la-
voro di Donada era stato riassorbito, ma altri frazionismi
si ripresentavano ora nel nome dell’intransigentismo as-
soluto, ora nelle tendenze bloccarde e filomassoniche spe-
cialmente nei centri urbani, che egli intendeva di ostacolo
all’emancipazione delle stesse organizzazioni economiche
a causa dell’opacità delle relazioni personali. E non si na-
scondeva la tenace avversità e perfino l’arroganza degli av-
versari, segnatamente degli agrari accanto ai quali, “in un
blocco nazionalista” si collocavano tutti coloro che, nel
richiamo all’interventismo in guerra, si opponevano fron-
talmente all’avanzata socialista.
I successi politici, graduali prima della guerra mondia-
le, addirittura travolgenti nel 1919-20 autorizzavano i so-

69
Giacomo Matteotti eroe socialista

cialisti a nutrire le più audaci aspettative, e, sia pure per


poco tempo, misero in ombra i limiti sopra indicati. Nel-
le elezioni politiche del 1919 nel collegio Rovigo-Ferrara,
su otto seggi disponibili sei furono dei socialisti, e nelle
amministrative dell’anno successivo essi conquistarono
tutti e 63 comuni del Polesine, e portarono 38 consiglieri
su 40 nel Consiglio Provinciale. Il Polesine era diventa-
to la provincia più rossa d’Italia! Eppure nel giro di un
anno o due, a partire dal marzo 1921 e dalla costituzio-
ne del blocco nazionale per le politiche del 15 maggio di
quell’anno, si verificò lo smaltellamento completo dell’e-
dificio socialista, evidenziandone l’intrinseca fragilità no-
nostante le apparenze.
Certo, al di là di tutto, nel 1921-2 il crollo del movi-
mento fu repentino e massiccio proprio in relazione alla
distruzione sistematica e militare di tali istituti da parte
dello squadrismo fascista, pronto, beninteso, a fornire
percorsi alternativi con l’inquadramento nelle corporazio-
ni. Fu una decapitazione capillare e perfino feroce della
dirigenza e dell’apparato socialista.
La valenza intimidatrice dell’esibizione minaccio-
sa della forza, inquadrata e mobile, nei cui confronti le
istituzioni dello Stato operanti sul territorio, dalle forze
dell’ordine alla magistratura, si mostrarono remissive o
addirittura acquiescenti, fece il resto, non lasciando scam-
po. La tesi storiografica di chi, ancora oggi, voglia ipo-
tizzare alternative efficaci agli appelli socialisti al rispetto
della legalità, assunti sbrigativamente a presunta acquie-
scenza e inattività, non ha fondamento. Ma ugualmente
c’è da interrogarsi sul senso di smarrimento, condiviso
dallo stesso Matteotti, a fronte dell’improvviso venir me-
no dell’opera di civilizzazione diffusa operata in trenta an-
ni sul territorio.

70
3. Il processo riformatore e i corpi sociali

In realtà, ai fini della creazione della società solidale


egli non concepiva neppure che potesse esistere un’alter-
nativa valida al progressivo allargamento della cittadinan-
za politica e sociale in regime di democrazia e di libertà.
E ciò implicava una componente sistemica, che a Matte-
otti non sfuggiva: egli era infatti il politico del territorio,
esponente autorevole e indiscusso di quella che oggi, forse
con una certa enfasi, si proclama democrazia orizzontale,
ma al tempo stesso era il politico che operava nelle e per
le istituzioni.

71
3.
In Parlamento e alla segreteria del PSU

1. A M O N T E C I TO R I O

Il 26 novembre 1919 Matteotti entrava alla Camera, dove


fu protagonista di un’attività straordinaria. Fece parte del-
la Giunta generale del bilancio e di quella per l’esame dei
trattati di commercio e delle tariffe doganali. Quando,
nelle tornate del 24-26 luglio 1920 e 6 agosto 1920, la
Camera modificò il regolamento istituendo le Commis-
sioni permanenti, Matteotti entrò a far parte della terza,
Finanze e Tesoro, dove fu confermato anche nella XXVI
legislatura. Infine fu segretario della Commissione par-
lamentare per la riforma della burocrazia i cui lavori ini-
ziarono il 28 settembre 1921. Gli argomenti oggetto dei
suoi interventi furono molteplici, e in alcuni momenti
la sua presenza alla Camera assunse un ritmo addirittu-
ra incalzante. E così furono sempre puntuali e numerosi
gli interventi polemici, le interruzioni date e ricevute, alle
quali non si sottraeva, perfezionando quell’esperienza del
contraddittorio con gli avversari nel quale eccelleva senza
mai scomporsi e mantenendo piena lucidità.

73
Giacomo Matteotti eroe socialista

Il settore di sinistra della Camera dei Deputati durante la seduta del 30 maggio 1924

74
4. In parlamento e alla segreteria del PSU

Prese la parola per la prima volta il 21 dicembre 1919.


Si discuteva della proroga dell’esercizio provvisorio 1919-
20, e Matteotti illustrò un odg di condanna della politica
economica del governo Nitti, colpevole di non riparare
la falla aperta nel bilancio italiano dalle spese di guerra,
senza colpire gli indebiti arricchimenti. Soprattutto ne
criticava la mancata imposizione di un’imposta sul ca-
pitale, cosicché riteneva che gli oneri sarebbero ricaduti
sulle masse lavoratrici. Analoga denuncia di tale “politica
di classe della borghesia” pronunciò nel discorso del 28
maggio 1920, sulle comunicazioni del secondo governo
Nitti formatosi dopo la crisi provocata dai popolari che
restarono fuori dal governo, così come su quelle dei Go-
verni successivi. Sostenendo tale linea, a favore cioè di
un Governo che solo operasse a tutela e incremento della
ricchezza nazionale al di sopra della speculazione privata,
Matteotti riteneva, come disse nella seduta del 21 luglio
1921, che i socialisti si rendevano “i veri rappresentan-
ti della Nazione”. Un commentatore autorevole come
Achille Loria ebbe a definire la relazione di Matteotti del
10 agosto 1922 sullo stato di previsione delle entrate per
l’esercizio finanziario 1922-3 documento di “sapienza le-
gislativa”. Essendo ormai diventato autorità indiscussa sui
problemi economici e di bilancio fu quasi sempre desi-
gnato a oratore ufficiale dal Gruppo parlamentare sociali-
sta, del cui direttivo entrò a far parte.
Oltre agli interventi sul bilancio dello Stato, si segna-
lò per quelli a tutela delle prerogative parlamentari o ad-
dirittura delle norme statutarie. In particolare Matteotti
non accettava che al parlamento fosse impedito il control-
lo della circolazione monetaria e di una politica economi-
ca che tendeva a coprire con mezzi straordinari i disavanzi
dei bilanci ordinari, occultando di fatto il debito pubblico

75
Giacomo Matteotti eroe socialista

il cui ammontare sui dati ufficiali al 31 marzo 1920 era


valutabile in circa 83 miliardi di lire, ma che egli rical-
colava per 93 miliardi, a cui poi ne aggiungeva un’altra
trentina per la differenza dei cambi (seduta del 27 giugno
1920). Né si può tacere qui la ribellione di fronte alle ten-
denze autoritarie del Governo Mussolini, specialmente
dopo la legge Acerbo nella quale coglieva la volontà di
schiacciare le minoranze, fatte passare come ”antinazio-
nali”. Da ultimo, fu la denuncia al ministro delle poste e
telegrafi, Colonna di Cesarò, per la sistematica violazio-
ne del segreto postale, invocando “il rispetto delle leggi”,
quelle “prima dell’era nuova”. Nella stessa linea è l’esposto
rivolto il 29 ottobre 1923 ad Enrico De Nicola, presiden-
te della Camera dal giugno 1920, sulla difficoltà perdu-
rante o sull’impossibilità di svolgere la funzione di con-
trollo su importanti leggi di spesa. Come si è detto, portò
nell’attività parlamentare tutta l’esperienza maturata sul
campo sui tributi locali, e in proposito presentò un ddl di
riordino organico. In parallelo si adoperò per la riforma
della legge elettorale amministrativa, che tuttavia rimase
ferma al Senato.
Dove dette prova eccelsa del senso dello Stato, fu
sull’ordine pubblico. Tra i primi a richiamare l’attenzio-
ne del Parlamento sul dilagare delle violenze fasciste nel
Polesine e in Emilia e Romagna, denunciò precocemen-
te il filofascismo del ceto liberale in chiave antisocialista
e individuò la ragione d’essere dello squadrismo nell’aspi-
razione degli agrari a non permettere che i loro profitti
fossero contenuti dall’azione sindacale delle leghe, e ne
denunciò la strategia militare squadrista finalizzata all’ab-
battimento dell’”organizzazione dei lavoratori”. Docu-
mentando il favore concesso in loco dalle autorità, arrivò
a accusare Il Governo Giolitti di complicità, ammonendo

76
4. In parlamento e alla segreteria del PSU

Lo studio di Matteotti nella sede della Direzione del PSU in Piazza di Spagna

che, così continuando, i lavoratori avrebbero perso ogni


fiducia nello Stato democratico: “Per conto nostro, pro-
clamò, mai come in questo momento abbiamo sentito
che difendiamo insieme la causa del socialismo, la causa
del nostro Paese e quella della civiltà”.
Dopo la replica di Giolitti la mozione socialista, che
Vincenzo Vacirca e altri 28 deputati avevano presentato
contro il Governo sulla politica interna, fu respinta dalla
Camera il 13 febbraio 1921. Tornò a interrogare il Go-
verno sulle violenze nel Polesine Il 10 e il 17 marzo 1921,
e ancora Il 27 luglio 1921, un crescendo accorato e am-
monitore.
Deplorava allora le “dimissioni estorte con la violenza
alle amministrazioni comunali nella provincia di Rovi-
go e lo scioglimento forzato del Consiglio provinciale di
Rovigo” mentre l’autorità si dimostrava incapace di ga-
rantire la libertà delle riunioni, con ciò vanificando ogni
“possibilità di vita”. Di qui l’appello al Governo: “Noi do-
mandiamo di restituire alla nostre terre la libertà”. A cui

77
Giacomo Matteotti eroe socialista

faceva seguire il monito: “perché non ci si convinca che


dalla legge e dal Governo non c’è da aspettarsi, ma che
vale soltanto la violenza bestiale”. Un tema, questo, che
riprenderà e svilupperà in seguito.
Il 2 dicembre 1921 pronunciò il secondo grande di-
scorso contro il fascismo. Il Gruppo parlamentare so-
cialista aveva presentato una nuova mozione di censura
sulla gestione dell’ordine pubblico. Nella circostanza le
interruzioni furono tali che il presidente De Nicola fu
costretto a sospendere la seduta. La parole di Matteotti
suonarono gravi e solenni: continuava “la violenza ine-
sorabilmente voluta e organizzata, (perché) continua(va)
la complicità del Governo, e nessuno sorge(va) in questa
Camera a comprendere l’immensa tragedia del popolo e
dell’animo nostro, noi sentiamo che questo è anche l’ulti-
mo sforzo ( ), ogni legame civile sarebbe irreparabilmente
disciolto”.
La successiva seduta del 12 dicembre 1921 sulle mo-
zioni socialiste a seguito del fallito tentativo del “patto di
pacificazione” e sulle spedizioni punitive risultò tesissi-
ma. Lo stesso avvenne il 20 maggio e il 13 giugno 1922.
Ancora il 20 maggio 1922, al Governo Facta che si era
formato il 15 marzo 1922, Matteotti tornò a rivolgere
un’interrogazione sull’occupazione militare di Rovigo da
parte di 10000 fascisti, facendo presente che gli imputati
di precedenti omicidi politici erano stati assolti da giudici
compiacenti o impauriti sotto la minaccia delle squadre
fasciste.
In una rievocazione alla Camera Giuliano Vassalli con-
cluse ricordando il “deputato esemplare per diligenza, per
competenza, per impegno, per combattività, per fede in-
domita nella libertà e nella giustizia. Un deputato che ha
onorato di fronte al mondo l’istituzione parlamentare e

78
4. In parlamento e alla segreteria del PSU

l’Italia” (Omaggio a Matteotti in occasione dell’ottantesimo


anniversario della morte, 1924-2004, a cura di M. Mona-
co, Ulisse ed. 2005, pag. 38). Credo doveroso aggiunge-
re una chiosa: ciò lo fu a maggior ragione perché in un
Parlamento che a grande maggioranza si dispose a dare la
fiducia a Mussolini, incaricato dal Re di formare un go-
verno di coalizione dopo la marcia su Roma del 28 otto-
bre 1922.
Gli interventi pubblici e, soprattutto, la corrisponden-
za evidenziano l’attenzione con cui, con crescente preoc-
cupazione, Matteotti seguiva il progressivo deteriorarsi
degli equilibri politici. Il rapido succedersi dei governi
Nitti, Giolitti, Bonomi e Facta, nonostante il rinvio di
alcuni di essi al Parlamento, evidenziava la mancanza di
una solida maggioranza parlamentare, ma ancor più il
vuoto di potere nel quale stava avvitandosi la crisi dello
Stato liberale.
Colse le implicazioni derivanti dagli esiti delle elezioni
politiche anticipate del 15 maggio 1921, non tanto per
il relativo arretramento delle liste socialiste, quanto per il
fallimento del progetto di Giovanni Giolitti, presidente
del consiglio, che si proponeva di rilanciare la sua fragile
maggioranza, ormai indebolita, attraverso la presentazio-
ne di un listone nazionale comprensivo anche di candida-
ti fascisti e nazionalisti.
Il voto indebolì ulteriormente lo schieramento liberale
per il successo dei popolari, cosicché lo stesso Giolitti fu
costretto a rassegnare le dimissioni. Non solo: i fascisti,
che portarono in Parlamento 35 deputati (a cui si aggiun-
gevano 10 nazionalisti), lungi dall’essere “addomesticati”,
si trovarono pienamente legittimati, e dunque trassero
ulteriore forza nella campagna “militare” contro i socia-
listi. In questo contesto Matteotti sostenne l’esigenza che

79
Giacomo Matteotti eroe socialista

il Gruppo parlamentare socialista dovesse essere “pronto


a fare tutto ciò che era parlamentarmente utile al proleta-
riato”, libero da condizionamenti della Direzione massi-
malista, pur con un generico impegno a svolgere comun-
que un’azione unitaria. Al tempo stesso preparò il ricorso
alla Giunta per le elezioni per l’invalidazione delle elezio-
ni in provincia di Rovigo, che poi portò all’annullamento
dell’elezione del fascista Piccinato.
Il tentativo dei socialisti riformisti di condiziona-
re il Governo per una più efficace politica interna che
contenesse il dilagante fenomeno squadristico si andò
chiaramente delineando In occasione del discorso pro-
grammatico del Governo Bonomi del 18 luglio 1921, im-
mediatamente successivo a gravi episodi di violenza squa-
dristica verificatisi il 10 e 12 luglio.
Scrisse a Velia: “Noi cercheremo di non dar troppo
contro il Ministero, per averlo almeno un po’ favorevo-
le, o che almeno diventi meno ingiustamente complice
dei fasci. Ormai anche gli altri pare che la capiscano”. E
il 25 luglio 1921: “Il ministero ha una grande votazione.
Noi abbiamo votato contro; ma per le nostre aspettative
avremmo volentieri votato a favore o per lo meno aste-
nuti”. Ancora al Congresso nazionale socialista di Milano
del 10-15 ottobre 1921 fece un intervento per superare l’
“equivoco inerte” del Partito al fine di contrastare il fasci-
smo con ogni mezzo, ma inutilmente perché la maggio-
ranza massimalista, che si trovava a contrastare a sinistra
la concorrenza del neocostituito Partito comunista d’Ita-
lia di Amedeo Bordiga e Antonio Gramsci attestatosi su
posizioni ancor più estremistiche e velleitarie, rinnovò
l’esclusione di ogni collaborazione parlamentare in attesa
che la crisi dello Stato liberale precipitasse. Per Matteot-
ti la disputa con gli “estremissimi” non verteva più tan-

80
4. In parlamento e alla segreteria del PSU

to sulla collaborazione parlamentare o meno, quanto sul


“metodo per la conquista del potere politico”, essendo la
posizione dei riformisti attestata senza incertezza sul prin-
cipio della “conquista legale graduale”, e quella dei massi-
malisti (“proselitismo, propaganda avveniristica, pressione
continua, opera di critica”) prigioniera di un equivoco o
un errore, essendo di fatto prossima alla prospettiva co-
munista della “formazione di quadri di forza che con un
assalto violento si impadroniscano del potere, mediante
una dittatura”. La distanza dal mito della rivoluzione di
Lenin non poteva essere maggiore.
Ritenendo Bonomi reo di “tollerare” o addirittura
fiancheggiare “coi suoi organi esecutivi e giudiziari l’aper-
ta organizzazione di bande armate”, il Gruppo parlamen-
tare cercò di affrettarne la caduta nel novembre 1921.
Matteotti scriveva alla moglie: “La Camera è in ebollizio-
ne per mantenere il ministero o per la crisi. Credo che an-
che per il nostro partito si svolgano giorni difficili. Tutta
l’organizzazione può perire sotto la violenza dei criminali;
e nello spirito anche dei più mansueti si fa strada il con-
cetto della necessità di resistere con la forza. I pochi mesi
per venire sono decisivi. Molti ne hanno l’incoscienza”.
Il riferimento era chiaramente rivolto ai comporta-
menti degli organi del Partito, che ancora nel gennaio
1922 si espressero contro ogni appoggio a governi bor-
ghesi. Le attese dimissioni, rilasciate il 2 febbraio 1922
non portarono comunque alla attesa svolta parlamentare,
per la quale si riponeva fiducia nel presidente della Ca-
mera De Nicola. Questi rinunciò all’incarico il 7 febbraio
1922 e Matteotti ne attribuì la responsabilità a Giolitti,
anche perché il testimone passò dopo a Facta, giolittia-
no di stretta osservanza. Di fronte ad una nuova ondata
di violenze fasciste, il 1 giugno 1922 la maggioranza del

81
Giacomo Matteotti eroe socialista

Gruppo parlamentare si dichiarò finalmente disponibi-


le ad “appoggiare un governo che assicurasse il ripristino
delle libertà pubbliche e della legge”; e a fronte del con-
fermato intransigentismo del Consiglio nazionale del
Partito il 14 giugno rivendicò finalmente piena libertà
d’azione, nominando il 16 giugno un nuovo direttorio,
chiamando a farvi parte anche Turati, Treves e Matteotti,
in precedenza dimissionari.
L’evidenza della drammaticità della crisi emerse tutta
nella seduta parlamentare del 15 luglio 1922: “Giornata
grossa, tumulti – scrisse alla moglie – la crisi deve esser
raggiunta ad ogni costo, e devono essere allontanati que-
sti imbecilli o complici”. Non celando i suoi timori: “Pare
che tutti abbiano piacere della sconfitta in pieno del so-
cialismo; eppure non ne rimangono sconfitti i difetti, ma
la civiltà medesima”.
In effetti la crisi del Governo Facta precipitò il 19 lu-
glio, ma non contribuì a aprire le strade sperate. Resta-
va solo vivissima la percezione della gravità del passaggio:
“La situazione – Matteotti scriveva alla moglie – è all’e-
stremo della gravità e dell’aspettativa. Qui è l’arco teso
all’estremo. Grande è la speranza, ma tutto dipende dai
più grandi e dai minimi fatti: Il pericolo è enorme, ma
tutto può ancora essere salvato”. Il 22 luglio 1922 il diret-
torio del Gruppo avanzò l’auspicio di “un Governo non
più mancipio della Destra sedicente liberale e del fasci-
smo agrario”, dichiarandosi disponibile a “concorrere” a
tale obiettivo.
Luigi Sturzo ricordò: “Sopravvenne il voto alla Came-
ra contro il gabinetto Facta e fu aperta la crisi. Tornaro-
no Turati e Matteotti da me”; “i popolari avevano tratta-
to, a mezzo mio, la collaborazione con Turati, Matteotti
e Treves, venuti a casa mia nel luglio di quell’anno”. Ma

82
4. In parlamento e alla segreteria del PSU

tali tentativi, pur promettenti, non approdarono a nulla,


mentre di contro, dopo il fallimento dello sciopero ge-
nerale legalitario dell’camera indetto dalla CGdL, la crisi
interna al Partito precipitò fino alla scissione consumata
al Congresso di Roma il 4 ottobre 1922, alla vigilia della
marcia su Roma. Nasceva il Partito socialista unitario, di
cui Matteotti fu eletto segretario.
Matteotti percepì tra i primi la drammaticità della
svolta che si andava compiendo nell’ottobre 1922, con-
vinto che l’avvitamento della crisi sarebbe sboccato nella
dittatura, termine che usò precocemente e senza incertez-
za. Di fronte alla crisi del Governo Facta e alla marcia su
Roma la posizione sembrava quella dello spettatore passi-
vo, a testimonianza dell’inanità politica dei socialisti così
come delle altre forze di opposizione (“del resto tutto si è
svolto fuori di ogni azione o possibilità di azione”). Nella
lettera a Treves dell’ottobre 1922 segnalava la natura “ex-
traparlamentare della crisi”, preannunciando le dimissio-
ni di Facta, e indicava la parvenza di “un movimento per
Orlando” (“ma non è ancora chiaro”), ben presto aborti-
to. In una successiva a Turati osservava: “Se il Governo o
il Re avessero voluto resistere, sarebbe stato facilissimo. Si
dice che il Re dapprima avesse consentito allo Stato d’as-
sedio, e solo poi abbia pensato altrimenti. Si dice che i
comandi d’esercito abbiano risposto che essi erano pron-
ti a resistere solo se il Governo voleva fare sul serio. Ciò
che naturalmente Facta non voleva”. Dava conto dell’ipo-
tesi di un Ministero Salandra e delle voci di un dissidio
tra i liberal-nazionali e i fascisti, del coinvolgimento pre-
sunto di Baldesi, dirigente della Cgdl. E a proposito del-
la marcia su Roma: “molti studi distrutti, una ventina di
morti, indifferenza pubblica. Viltà generale alla Camera:
tranne il vecchio Cocco. Tutti pronti a entrare nel Mini-

83
Giacomo Matteotti eroe socialista

stero con lo strazio nel cuore!”, e “l’aria di non sicurez-


za, perché tutto è affidato all’arbitrio”, nonostante che la
grande maggioranza delle squadre è partita.

2. L’ O P P O S I ZO N E A L FA S C I S M O

Come segretario del Partito socialista unitario, Matte-


otti diradò l’impegno parlamentare occupandosi del par-
tito da una stanzina in Piazza di Spagna, dove era costret-
ta la direzione non riuscendo a trovare domicilio altrove.
Il locale era sprovvisto di riscaldamento, e Matteotti vi
prese a lavorare con il soprabito sulle spalle, con l’impe-
gno di sempre.
Alla nascita del Governo Mussolini, nato pochi giorni
dopo la scissione dal PSI massimalista, il neo segretario si
trovò di fronte a due opzioni: l’aperta opposizione o, per
vivere “vellutare la nostra opposizione, considerare il fatto
rivoluzionario esclusivamente dannoso alla democrazia e
portarci sui problemi concreti”.
Al socialista teramano Giuseppe De Dominicis in data
4 novembre 1922 ammetteva che era “probabile che per-
manga ancora quello stato di cose in virtù delle quali ci
siano rese impossibili le nostre attività di organizzazione e
di propaganda”, ma che era necessario continuare “a lavo-
rare com’era possibile, riunendo le sezioni”, senza “atteg-
giamenti che possono dare al nostro lavoro un carattere
cospiratorio” e soprattutto assicurando la pubblicazione
del giornale poiché in quel momento la stampa era il solo
mezzo di propaganda utile.
La lotta si riduceva alla pura “difesa delle posizioni”.
E poi c’era il disorientamento, del resto comune alle altre
forze politiche, mentre la debole opposizione parlamenta-
re rischiava di sfaldarsi. Per i socialisti unitari ciò era an-

84
4. In parlamento e alla segreteria del PSU

cora più grave per le ripercussioni sull’universo organizza-


tivo, sindacale e cooperativo.
Nella lettera a Treves del 9 novembre 1922 Matteotti
già parlava “di tutto un movimento di circuizione, eser-
citato su molti dei nostri uomini, dagli emissari del dit-
tatore”, convinto com’era che si volesse indurre il Partito
“a piegare, a consentire, cioè a permettere il più comodo
sviluppo della Dittatura”.
Si confermava “l’opera perfida di assalto a tutto l’ul-
timo rimasuglio di ciò che possediamo, non più con la
violenza certamente, ma con la semplice minaccia del ter-
rore, con la corruzione degli elementi più resistenti, con
la prigionia morale di chiunque dei nostri sarebbe capace
di agire”.
Matteotti era convinto che, anche a prendere per
buone, ma non lo erano, “le inevitabili tendenze dema-
gogiche (cosiddette di sinistra) del Governo Mussolini”,
la migliore tattica restava comunque “la più ferma e di-
gnitosa resistenza”. A Treves, che dirigeva a Milano “La
Giustizia”, organo del Partito, che sembrava individuare
i più impellenti problemi del nuovo Governo nell’ordine
pubblico e nel pareggio di bilancio, opponeva che sarebbe
stato meglio parlare semplicemente di “libertà” e di “vita,
cioè del pareggio nella economia dei lavoratori”.
A Turati scriveva il 18 dicembre 1922: “Le cose inter-
ne sembrano accomodate, e le corporazioni divengono
fasciste, mentre le milizie che divengono del Presidente
del Consiglio dovrebbero aprire gli occhi a tutti”. Nello
stesso Gruppo parlamentare serpeggiava verso il Governo
una linea attendista, che faceva capo a Enrico Ferri (“leale
attesa”), e con qualche difficoltà Matteotti riuscì a impor-
re la propria in una riunione del 6 febbraio 1923, favo-
revole ad un’opposizione decisa, e se ne lamentava: in un

85
Giacomo Matteotti eroe socialista

“momento grave come questo, non fanno che danneggia-


re proprio l’unica cosa che ci resta, il nostro bagaglio idea-
le”. Ancora più grave si presentava “la crisi di persone per
la particolare situazione in cui ci troviamo”: l’accenno era
alle visite a Mussolini di Gino Baldesi, autorevole dirigen-
te della CGdL, e di Antonio Vergnanini, segretario della
Lega nazionale delle cooperative, entrambi nella speranza
di salvare il salvabile delle rispettive organizzazioni.
Matteotti continuava a vedere nella linea di Baldesi un
pericolo mortale, e quando al convegno confederale di
Milano del 23-25 agosto 1923 questi pretese che spettasse
al sindacato “la difesa degli interessi immediati dei lavora-
tori organizzati” e dunque la valutazione delle condizioni
“della solidarietà e dell’aiuto a quei partiti e a quei gover-
ni che si trovino sulla stessa linea del programma minimo
di attuazione pratica e immediata del Sindacato”, vi col-
se un favore agli avversari per colorare i socialisti di scopi
piccolo-borghesi di bassa utilità immediata, e interpretò
la rivendicata autonomia politica del sindacato come pre-
messa per un possibile accordo col Governo. In ogni caso,
capì che una volta accettata la rinuncia all’azione “media-
ta di tutta la classe e di tutta la collettività produttrice” at-
traverso il Partito, sarebbe stata inarrestabile la condanna
all’assoluta marginalità del PSU.
Nel manifesto redatto per il 1 maggio 1923 (“Di tut-
ta l’Europa civile, solo l’Italia mancherà alla festa del la-
voro”), oltre a denunciare la perdita della “libertà”, e
cioè dei diritti di associazione, riunione, propaganda e
di stampa, e del peggioramento delle condizioni salariali,
la riflessione era finalmente portata anche sulla debolez-
za della sinistra, sulle esagerate illusioni, sui rapidi scora-
menti di coloro che avevano ingrossato le file del partito
e del sindacato dopo la guerra e che più facilmente erano

86
4. In parlamento e alla segreteria del PSU

passati più tardi alle violenze opposte, sui seminatori e su-


gli autori di continue scissioni, sugli egoismi delle catego-
rie “più pronte a mutare colore”, sulla trascuratezza degli
elementi morali ed intellettuali. Tale impietosa denuncia,
anche autocritica, era la premessa alla proclamazione di
nuovo manifesto di indirizzo politico.
Con la lettera del 4 maggio 1923 trasmetteva a Turati
la prefazione del citato Direttive del Partito socialista uni-
tario italiano, ricordava la feconda opera di redenzione
delle plebi svolta in tre o quattro decenni dal partito so-
cialista e i significativi risultati ottenuti in tutti i campi
dalla “civiltà del lavoro”. Con orgoglio constatava come
“l’ascesa e lo sviluppo dell’Italia nella corte civile delle na-
zioni” coincidessero con quelli del partito socialista e delle
“libere organizzazioni operaie”. L’immagine era quella di
un graduale, ma profondo processo di emancipazione po-
polare, e quindi dell’intera nazione, che prima la guerra,
poi le illusioni comuniste, e infine “la reazione e la violen-
za fascista” avevano interrotto e in larga parte distrutto.
L’attesa era di riprendere il lavoro avviato improntato alla
“grande solidarietà umana” (“lo, rifaremo!”), essendo “il
socialismo, un’idea che non muore! Come la libertà!”.
Nell’opuscolo Matteotti rilanciava le ragioni del socia-
lismo rivedendone la dottrina e saggiandola al confron-
to dell’esperienza non senza una severa autocritica nei
confronti degli errori passati (“è cosa degna di un parti-
to d’avvenire”). Rivolgendosi non solo agli strati popolari
ma anche “ai più colti e moderni della borghesia”, ribadi-
va la scelta irreversibile del metodo democratico di libertà
politica e del sistema rappresentativo, ritenuto migliore
delle dittature e delle oligarchie perché aveva il vantaggio
della libera critica e quindi della capacità di correggere i
propri errori. Confermava fedeltà al principio della “lot-

87
Giacomo Matteotti eroe socialista

ta di classe”, ma nella chiara distinzione dalla “guerra di


classe”, di fatto riducendola al conflitto di interessi – nella
fattispecie tra datore di lavoro e lavoratore dipendente –
tanto più perché la riconduceva entro un quadro di regole
condivise, con la significativa notazione che così in ognu-
no sarebbero state sollecitate “l’aspirazione e la capacità di
elevarsi nella coordinata armonia di tutti per la comune
ascensione”.
Declinava la tradizionale logica produttivistica nel
contrasto alle aree della rendita e della speculazione. Non
escludendo la collaborazione, anche se saltuaria con i par-
titi borghesi, quando questi favorissero l’istruzione po-
polare, la libertà di organizzazione e di voto per l’oppo-
sizione, la pace internazionale, enunciava il concetto che
la “nazione, realtà geografica e vivente, entro cui tutti vi-
viamo e cresciamo, è la condizione prima del suo domani
socialista”, un “domani” concepito a beneficio di tutti, e
non di una classe esclusiva.
Matteotti guardava all’Europa, e al ruolo che la rico-
stituita Internazionale socialista avrebbe potuto avere nel
conseguimento di un equilibrio geopolitico, prodomo ad
un futuro sistema comune, che superasse i nazionalismi e
i rischi di una nuova guerra ancora più rovinosa di quella
del 1914-18, alla quale egli con tanta forza si era oppo-
sto e che continuò sempre a considerare una tragedia epo-
cale. È da rilevare che con assoluta pertinenza Matteotti
non divideva il profilo diplomatico da quello economi-
co e finanziario: ciò sarebbe diventato luogo comune in
occasione della seconda guerra mondiale, ma non lo era
affatto per la prima. È dunque particolarmente significa-
tivo che su “Critica sociale” avesse recensito il libro di J.
M. Keynes critico degli esiti della Conferenza di pace di
Versailles, alla quale aveva partecipato con la delegazione

88
4. In parlamento e alla segreteria del PSU

inglese (La revisione di Versailles secondo J. M. Keynes), per


denunciare la politica di ”oppressione della nuova Ger-
mania democratica” con la condanna alle “riparazioni di
guerra”. È da osservare ancora che assumeva tale orienta-
mento anche dal punto di vista dell’interesse nazionale.
Nella corrispondenza con il pubblicista francese Char-
les Omessa del dicembre 1921, ad esempio, lamentò che
la Francia si acconciasse ad politica di armamenti contro
la Germania disarmata, prevedendo che così avrebbero ri-
suscitato e fatto rimpiangere al popolo tedesco “l’antico
regime militarista e prussiano come quello che almeno in-
cuteva rispetto ai nemici”.
Criticava la politica francese anche per la Polonia e la
Jugoslavia perché, anziché mirare alla pace e alla ripresa
dei rapporti con la Russia e con l’Italia, “attizzava gli odi
e provocava armamenti e sospetti di qua e di là dei con-
fini”, cosicché il nazionalismo italiano avrebbe profittato
della tattica del nazionalismo francese, “per ripeterne gli
errori e i danni contro l’Europa lavoratrice che anelava al
ritorno della pace”.
Riteneva infine che in economia le pretese francesi a
danno della Germania sollecitassero il protezionismo,
“specialmente dannoso al popolo italiano privo di materie
e ansioso di occupare la sua manodopera sia in casa sia
all’Estero”.
Sviluppò tali posizioni in tutti i consessi socialisti eu-
ropei ai quali partecipò, specialmente dopo l’occupazione
francese della Rhur nel gennaio 1923, con una coerenza e
una competenza che gli furono riconosciute. In Europa,
in un’Europa distratta, portò anche l’accorata denuncia
contro il fascismo, che presentava come fenomeno sì ita-
liano, ma anche minaccia comune. Matteotti era un so-
cialista europeo.

89
Giacomo Matteotti eroe socialista

Contro il fascismo Matteotti puntava su un blocco di


alleanze per la libertà. Nel dicembre 1923 aderì ad un’As-
sociazione nazionale per il controllo democratico fondata
da antifascisti a Milano su un precedente inglese durante
la prima guerra mondiale, ma insorse quando per il rag-
gruppamento antifascista Prampolini propose il nome
“Democratico”, ritenendolo del tutto inopportuno.
Tra momenti di grande disillusione e incoercibili im-
pulsi a operare, Matteotti non perdeva comunque la
speranza di fare del PSU il centro aggregativo delle op-
posizioni (“l’unione di tutte le forze che onestamente e
lealmente intendono di opporsi alla dittatura fascista”), e
in tale prospettiva giunse a carezzare l’ipotesi di una ri-
unificazione con i massimalisti, anche per non perdere
completamente “il contatto con le masse”. Stava lavoran-
do all’opuscolo Mussolini nel 1919-20 (sarebbe uscito po-
stumo con il titolo Fascismo della prima ora. Pagine estratte
dal “Popolo d’Italia”) e portava avanti il lavoro preparato-
rio per il libretto Un anno di dominazione fascista, termi-
nato poi agli inizi del dicembre 1923, e pubblicato nel
febbraio 1924. L’opuscolo sarebbe diventato di 200 pagi-
ne, e ne ipotizzava l’uscita “ora per lo scioglimento Came-
ra”. Gli accludeva solo una premessa breve, ma di grande
efficacia, dove alla pretesa del Governo fascista di giusti-
ficare “la conquista armata del potere politico, l’uso della
violenza e il rischio di una guerra civile, con la necessità
urgente di ripristinare l’autorità della legge e dello Stato,
e di restaurare l’economia e la finanza salvandole dal pe-
ricolo”, opponeva “i numeri, i fatti e i documenti raccolti
(che) dimostrano invece che mai, come nell’anno fascista,
l’arbitrio si è sostituito alla legge, lo Stato asservito alla
Nazione, e divisa la Nazione in due ordini, dominatori e
sudditi”.

90
4. In parlamento e alla segreteria del PSU

Per rilanciare il partito considerò l’opportunità di un


concorso a premi per il “distintivo” o per la tessera del
1924, la quale infine fu oggetto di studi e vari tentativi.
Aveva in mente di organizzare convegni a Napoli, Ro-
ma e, il più importante, a Milano tra settembre e otto-
bre. Contava ancora sulla autorevolezza di Turati, come
dimostrava la lettera del 29 agosto 1923: sarebbe un suo
discorso quel “qualcos’altro”, più forte, su cui far leva per
cercare di aggregare ceti e persone interessate ad “un’azio-
ne per la riconquista della libertà, e per toccare l’opinione
pubblica”.
Ipotizzava come sede Torino, alla presenza dello sta-
to maggiore del Partito, e come “programma” la riaffer-
mazione di che cosa ci fosse di vivo nella dottrina socia-
lista, per poi ribadire “l’avversione ai metodi che hanno
discreditato il partito nel dopoguerra e a tutti gli eccessi
negli scioperi, negli appetiti di categoria, nei servizi pub-
blici” e quindi concludere con obiettivi immediati per la
riconquista della libertà e per “la ricostruzione economi-
ca e morale del paese”. La prospettiva era ambiziosa: solo
così sarebbe possibile “preparare una piattaforma nuova e
a larga base, che (avesse) ripercussione non soltanto ne-
gli strati popolari, ma anche nei più colti e moderni della
borghesia”.
Turati restava molto dubbioso “sull’opportunità – direi
anche sulla serietà e sulla possibilità – di aprire il fuoco
così presto, e di aprirlo proprio a Torino, dove il comuni-
smo e il fascismo ci prendono tra due fuochi, dove, non
è molto, si poterono assassinare varie diecine di compa-
gni, e dove un insuccesso comprometterebbe tutto per un
pezzo”. Ma infine accettò di aprire la campagna elettorale
il 20 gennaio 1924 al Teatro Scribe di Torino. Il testo in-
tegrale del discorso apparve su “La Critica sociale” e poi

91
Giacomo Matteotti eroe socialista

venne raccolto in opuscolo: resterà uno dei documenti


più alti dell’antifascismo italiano.
I rapporti con lo stesso Turati, tuttavia, non furono
sempre in sintonia, anche perché ben presto l’attività di
partito ebbe due centri, non sempre all’unisono: a Roma
restava la Direzione, a Milano si stampava “La Giustizia”
e l’influenza del gruppo di “Critica sociale” era più forte.
Il motivo di maggiore dissenso fu dato dalla risistema-
zione dell’organico del giornale. In data 8 gennaio 1924
Turati lamentò la frettolosità di certe decisioni della Di-
rezione.
Matteotti si sentì spiazzato, deprecò l’assenza di un mi-
nimo di disciplina, alzò i toni parlando di “disfattismo”
che trovava “tutti i pretesti e tutte le ragioni”, fino a coin-
volgere lo stesso Turati (“mi duole soprattutto quando
arriva a far presa su di te che eri uno dei pochissimi che
resistevi all’inerzia dei molti. Io non comprendo codesto
eterno dire e disdire”), fino a minacciare le dimissioni
(“se ciò non va, dite di riconvocare la Direzione, affinché
provveda altrimenti. Io così non vado avanti”). Ma poi
Matteotti si ributtò nella lotta con inalterato impegno.
Nel febbraio 1924 favorì una riunione con repubblicani,
bonomiani, sardisti, Italia libera e altri gruppi per rilan-
ciare l’idea del blocco elettorale per la libertà, cioè di una
lista nazionale comprendente tutta l’opposizione, ovvero
della comune deliberazione per l’astensione.
Una volta tramontata l’idea della lista nazionale delle
opposizione riunite, il partito avrebbe preferito l’astensio-
ne purché in questo proposito convenissero tutti i partiti
d’opposizione, da Amendola e Bonomi ai massimalisti,
“non richiedendo invece il concorso dei popolari e dei
comunisti”. Ma anche l’ipotesi dell’astensione svanì ben
presto, come risultava in una lettera a Giulio Zanardi del

92
4. In parlamento e alla segreteria del PSU

febbraio 1924. Restava il fatto che – lui stesso protagoni-


sta – già si preannunciava l’Aventino.
A fronte della proposta del PCdI di un blocco tra i tre
partiti di classe, Matteotti rispondeva a Palmiro Togliatti
in data 25 gennaio 1924 che essa contrastava “con l’obiet-
tivo preliminare della restaurazione pura e semplice delle
“libertà statutarie”, perseguito invece dal PSU.
Riteneva inaccettabili tre condizioni poste dai comu-
nisti: l’indirizzo tattico (“antitetico al nostro”); la rinun-
cia a priori dell’astensione dalla lotta elettorale che invece
avrebbe potuto esprimere con più immediatezza la prote-
sta del proletariato contro il regime di dittatura fascista,
e soprattutto l’esclusione della “restaurazione pura e sem-
plice delle libertà statutarie”, magari con l’appoggio di
elementi non appartenenti ai tre partiti di sinistra, come
finalità di qualsiasi blocco di opposizione al fascismo e al-
la dittatura da esso instaurata.
Tale posizione era confermata nella risposta alla Di-
rezione del Partito comunista in data 16 aprile 1924 in
merito all’ipotesi di una manifestazione unitaria per il
1 maggio. Matteotti respingeva la tesi del fronte unico,
di cui coglieva la strumentalità polemica da parte di chi
aveva inasprito le ragioni della scissione e della discordia
nella classe lavoratrice. E scriveva: “Restiamo quel che sia-
mo. Voi siete comunisti per la dittatura e per il metodo
della violenza delle minoranze; noi siamo socialisti e per
il metodo democratico delle libere maggioranze. Non c’è
quindi nulla di comune tra noi e voi”. Per lui il nemico
era uno solo: il fascismo, ma complice involontario di es-
so era il comunismo, perché la violenza e la dittatura pre-
dicata dall’uno, divenivano il pretesto e la giustificazione
della violenza e della dittatura in atto dell’altro. Il distacco
con i comunisti era ormai incolmabile. Troppo diversi gli

93
Giacomo Matteotti eroe socialista

obiettivi tattici e di fondo, perfino il linguaggio. Quello


socialista unitario parlava di libertà e di democrazia.
Le enormi difficoltà incontrate nella preparazione del-
la campagna elettorale indussero Matteotti a rivolgersi
ancora a Turati per annunciare le dimissioni dalla segrete-
ria dopo le elezioni. In realtà, percepiva chiaramente che
la lotta politica era entrata in una fase nuova, per la quale
larga parte dei vecchi quadri del Partito non sembravano
più idonei (“gente arrivata in altri tempi e per altri mo-
di”). I tempi richiedevano gente di volontà e non scet-
tica, per una “resistenza senza limite” contro la dittatura
fascista (“Cerco la vita, voglio la lotta contro il fascismo.
Per vincerla bisogna inacerbirla”).
Tale presupposto si basava sulla convinzione, rivelatasi
corretta, che il fascismo dominante non avrebbe deposto
le armi, né tantomeno restituito spontaneamente all’Ita-
lia un regime di legalità e di libertà perché “tutto ciò che
esso ottiene, lo sospinge a nuovi arbitri a nuovi soprusi.
È la sua essenza, la sua origine, la sua unica forza, ed è il
temperamento stesso che lo dirige”.
Da politico perseguiva sempre la “ricostituzione delle
nostre file” con fede nella libertà, ma l’appello era sempre
più rivolto ai “puri di cuore”. Andava dunque a ricercare
“gli atti di coraggio e di fermezza compiuti dai compagni
in nome del Partito, perché d’ora in avanti intendiamo
più che mai attingere alle energie morali del partito che
fortunatamente rimangono intatte in mezzo al frantu-
marsi dell’inquadramento materiale della nostra organiz-
zazione”.
La dimensione della lotta al fascismo era spostata sul
piano dei simboli, dei valori, delle idee. Il martirio di
Matteotti ne avrebbe rappresentato l’apoteosi.
Come previsto, le politiche del maggio 1924 segnaro-

94
4. In parlamento e alla segreteria del PSU

no la débacle dei socialisti (il Psu portò alla Camera 24


deputati, il Psi 22). Il 30 maggio 1924 il neo presidente
della Camera Alfredo Rocco, presente Mussolini al banco
del Governo, ricevuta dalla Giunta delle elezioni la rela-
zione di convalida in blocco di tutti gli eletti della mag-
gioranza, ne mise ai voti l’accoglimento.
Le opposizioni furono prese alla sprovvista, e chiesero
la sospensione, che fu rigettata. Nella discussione su even-
tuali contestazioni, Matteotti contestò in blocco la validi-
tà delle elezioni e, chiedendo il rinvio di quelle inficiate
dalle violenze alla Giunta delle elezioni, per un’ora e mez-
zo parlò degli episodi di violenza, fra urla e interruzioni.
Denunciò l’invadenza di “una milizia armata, composta
di cittadini di un solo partito”, la quale aveva il compito
di sostenere “un determinato Governo con la forza, anche
se ad esso il consenso mancasse”.
La proposta di rinvio degli atti alla Giunta delle elezio-
ni, a firma Arturo Labriola, Matteotti e Enrico Presutti,
fu messa ai voti e ottenne solo 57 sì, 42 astenuti su 384
presenti e votanti. Come bene scrisse Sandro Pertini nella
premessa ai Discorsi parlamentari pubblicati in tre volumi
dalla Camera dei deputati nel 1970, a Matteotti “appariva
un’insipienza quella di far sì che fosse distrutto l’ultimo
rimasuglio di Parlamento nel momento in cui crescevano
l’arbitrio e la prepotenza della piazza.
Quasi presagio della fine dell’istituto rappresentativo,
si sorprendeva che dovessero essere proprio i socialisti le
ultime, sciolte, guardie del sistema costituzionale”. Men-
tre ogni spazio di agibilità politica si andava restringendo
nel paese, Matteotti aveva concentrato ogni azione nella
sede parlamentare, certamente la tribuna più autorevole,
ma anche il cuore autentico della democrazia rappresen-
tativa, il bene ultimo e più prezioso della collettività.

95
Giacomo Matteotti eroe socialista

E lì si sarebbe consumato il suo sacrificio.


Il 10 giugno 1924 alle ore 16,30 Matteotti usciva dalla
sua abitazione in Via Pisanelli 40, a pochi passi dal Lun-
gotevere Arnaldo da Brescia, fu aggredito e ucciso a col-
tellate. I miseri resti furono trovati nella macchia della
Quartarella presso Riano Flaminio.
Filippo Turati lo commemorò il 27 giugno 1924 a
Montecitorio, ma non nell’Aula dove i deputati dell’op-
posizione avevano deciso di non tornare più.
Matteotti non si era mai stancato di ammonire che l’i-
nefficienza delle istituzioni nella tutela delle libertà comu-
ni generava disaffezione e lacerazione nel tessuto sociale,
fino a minarne irrimediabilmente la stessa coesione. A

Le ricerche del corpo di Matteotti nella campagna romana

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4. In parlamento e alla segreteria del PSU

Filippo Turati (il secondo da sinistra), Claudio Treves (il terzo da sinistra, in secondo
piano) e l’odontoiatra Vincenzo Duca (il primo da sinistra) si recano a Riano per il
riconoscimento ufficiale della salma

ben vedere, il 10 giugno 1924 si determinò un solco non


più colmabile tra due Italie, destinato a produrre effetti
negativi nel lungo periodo. Subito dopo la morte, “La
Giustizia” scrisse che Matteotti era rimasto vittima del
“suo civico eroismo”, della sua “virtù”, e così egli ascende-
va “alla volontà operosa di redimerci per raccogliere la sua
eredità, di costruire su quelle ossa il monumento ideale
del riscatto d’Italia”.
Certo, Matteotti diventò immediatamente l’antiMus-
solini, simbolo dell’eroismo antifascista, con cui iniziava
una nuova storia d’Italia.
Nell’esigenza di segnare la discontinuità con il regime
fascista e con l’Italia monarchica, nella rimozione del pas-
sato (che pure era cosa diversa dalla critica del passato)
Piero Calamandrei, massimo cantore della Resistenza, nel
discorso alla Costituente il 4 marzo 1947, interrogandosi
sul giudizio dei posteri in merito all’opera dei Costituen-
ti stessi, ammonì a tradurre il sogno dei “Caduti in leggi
chiare, stabili e oneste, per una società più giusta e più
umana”, in modo da rendere la Costituzione “non una

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Giacomo Matteotti eroe socialista

carta morta”, ma piuttosto “il testamento” di un popolo”.


Si designava così a mito fondante del nuovo Stato de-
mocratico il culto dei Caduti per la Libertà, spesso oscu-
ri ma per questo non meno significativi, dietro i quali si
stagliavano i martiri dell’antifascismo: Matteotti apriva la
scia nella quale si annoveravano Amendola, Gobetti, Don
Minzoni, Gramsci, Rosselli. In termini epici, la loro mor-
te era rappresentata a riscatto/espiazione per tutti, per una
nazione intera: mito fondativo dell’Italia repubblicana.
Un mito fondativo che conviene ricordare sempre,
quando si avverta la necessità di esaltare il valore più alto
della politica e della coesione sociale nella libertà.

La macchia della Quartarella dove fu sepolto il cadavere di Matteotti

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