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Pettazzoni - Storia Delle Religioni e Mitologia

Il documento discute la formazione del monoteismo e gli esseri supremi dei popoli primitivi. Esamina due concezioni sull'origine del monoteismo e analizza le religioni monoteistiche come l'ebraismo, il cristianesimo e l'islamismo. Sostiene che il monoteismo si è formato non per evoluzione ma per rivoluzione, attraverso la negazione del politeismo ad opera di fondatori religiosi.

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Pettazzoni - Storia Delle Religioni e Mitologia

Il documento discute la formazione del monoteismo e gli esseri supremi dei popoli primitivi. Esamina due concezioni sull'origine del monoteismo e analizza le religioni monoteistiche come l'ebraismo, il cristianesimo e l'islamismo. Sostiene che il monoteismo si è formato non per evoluzione ma per rivoluzione, attraverso la negazione del politeismo ad opera di fondatori religiosi.

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Raffaele Pettazzoni

Storia delle religioni e mitologia

PREFAZIONE
L’argomento che interessa Raffaele Pettazzoni è la formazione del
monoteismo in relazione con il problema degli esseri supremi dei
popoli primitivi. Su questo terreno si sono scontrate due opposte
concezioni:

➢ Quella evoluzionistica che pone tre grandi costanti: l’animismo, il


politeismo e il monoteismo. Questa teoria ha un antecedente nel
sistema del positivista Comte con la triplice graduazione del
feticismo, politeismo, monoteismo, ed altri più remoti nel
Rousseau;
➢ Quella contraria che passa ad affermare l’esistenza di un
monoteismo primordiale anteriore ad ogni altra forma religiosa.
Questa ha un antecedente in Voltaire, nei razionalisti e nei deisti,
e si ricollega alla dottrina tradizionale della religione rivelata.
Gli esseri supremi dei popoli primitivi erano, nella concezione del
Pettazzoni, degli esseri celesti i quali in ragione della loro comune
natura diventavano poi gli dèi supremi dei vari pantheon politeistici, e
questi a loro volta passavano come iddii unici nelle religioni
monoteistiche.

Il monoteismo è, invece, sempre per il Pettazzoni, una formazione


originale che presuppone sì il politeismo, ma da esso procede
piuttosto per rivoluzione che per evoluzione. Questa concezione non
discende da astratte riflessioni, anzi aderisce alla concreta
conoscenza delle religioni storiche monoteistiche (il Cristianesimo, ad
esempio). Queste religioni ebbero ciascuna un suo fondatore, e nel
pensiero di questo rose l’idea monoteistica: in un pensiero, dunque,
che li portava a negare tutti gli altri dèi all’infuori di uno. In questa
negazione è il monoteismo.

1
Il monoteismo di Zarathustra consiste sì, nell’esaltazione di Ahura
Mazda, ma in primo luogo dipende dalla degradazione degli antichi
iddii a demoni. Di qui discende tanto la critica del monoteismo come
ultimo grado dell’evoluzione religiosa secondo la concezione
positivistica (Comte) quanto quella del monoteismo come forma
primordiale della religione (Padri della Chiesa).

Il monoteismo primordiale, invece, non è il monoteismo secondo la


sua vera natura di negazione e contrasto, bensì la nozione di un
supremo essere divino, unico sì nel suo genere, ma comportante
accanto a sé la nozione e l’adorazione di altri esseri divini inferiori. Ma
questa concezione del monoteismo come nozione di un primus inter
impares è non solo inadeguata, ma anche erronea, perché
contraddetta dalla storia religiosa, infatti gli dèi unici delle religioni
monoteistiche hanno, chi più chi meno, accanto a sé degli esseri divini
di grado inferiore. Questo, però, non è un carattere essenziale ed
originario inerente alla natura stessa del monoteismo, bensì un
carattere secondario e acquisito, e quindi non trasferibile alla
definizione di monoteismo.

➢ La PARTE I è dedicata agli esseri supremi dei popoli primitivi;


➢ La PARTE II è un insieme di scritti relativi alla confessione dei
peccati, in cui il Pettazzoni esprime una sua interpretazione della
confessione, ricavata dalla riduzione delle varie pratiche
confessionali di vari popoli ad un medesimo schema liturgico
fondamentale, consistente nell’espulsione del peccato per
magia della parola;
➢ La PARTE III è dedicata alla fenomenologia storico – religiosa, ad
un superamento, cioè, della scienza delle religioni. In questi scritti,
pur attraverso la terminologia naturalistica di ‘’funzione’’ e
‘’organismo’’ e lo schematismo cronologico di ‘’antico’’ e
‘’moderno’’, sarà da riconoscere la tendenza a costruire la storia
religiosa sopra le antitesi concettuali di nazione e supernazione,
di particolarismo e totalitarismo, di sincretismo e conversione, e
simili.

2
3
LA FORMAZIONE DEL MONOTEISMO E GLI ESSERI SUPREMI

1) LA FORMAZIONE DEL MONOTEISMO

In questo scritto Pettazzoni si propone di mostrare:


➢ in primo luogo, l'opportunità che la nota teoria evoluzionistica
dello svolgimento della religione attraverso i tre grandi
dell'animismo, del politeismo e del monoteismo, già tracciata da
Augusto Comte e poi formulata definitivamente da Edoardo
Taylor, sia sottoposta a revisione per ciò che riguarda la
formazione del monoteismo,
➢ in secondo luogo, egli procurerà di far vedere in quali direzioni si
potrebbe cercare una soluzione diversa del problema del
monoteismo e della sua formazione.
Ci sono, innanzitutto, delle forme che non possono rappresentare che
uno pseudo-monoteismo: quando un devoto è interamente assorto
nell’adorazione del suo dio, o quando una città è tutta dedita alla
celebrazione della festa della sua divinità protettrice. Per quel tale
individuo e per quella tale comunità in quel dato momento è come se
non esistesse nessun altro dio. Ma questo non è monoteismo: tutt’al più
si può chiamarlo, con Max Müller, enoteismo (temporanea adorazione
di una singola divinità).
Del resto, si può dire che una religione assolutamente e perfettamente
monoteistica non esiste. La storia delle religioni non conosce il
monoteismo allo stato puro: sempre esso ci appare più o meno
associato con elementi politeistici. In certi casi l’idea monoteistica, ci si
presenta come una nozione riservata a pochi individui (sacerdoti, ad
esempio). In altri casi, invece, essa è la religione di tutta quanta la
comunità.

In questi casi abbiamo la realizzazione più completa del monoteismo,


sia in senso soggettivo, in quanto esso è professato dalla grandissima
maggioranza della popolazione, sia in senso oggettivo, in quanto non
lascia sussistere nessun’altra divinità come tale accanto al Dio unico.
Anzi, si può dire che la negazione di ogni altra divinità è un criterio
4
oggettivo per distinguere le grandi formazioni monoteistiche. Infatti, se
consideriamo le tre grandi religioni, cioè la religione israelitico-
giudaica, il cristianesimo e l’islamismo, troviamo che in ciascuna di
esse l’affermazione di un Dio solo ha per concomitante la negazione
di un altro dio.
E’ da notare che questi tre monoteismi sono l’uno con l’altro
geneticamente connessi. Non soltanto il monoteismo cristiano
procede dal monoteismo giudaico, del quale è in certo qual modo il
prolungamento, ma anche il monoteismo islamico si è formato per
influenza del monoteismo giudaico e cristiano. All'infuori di queste tre
religioni ce n'è soltanto un'altra che può considerarsi monoteistica allo
stesso titolo, e cioè il mazdeismo zoroastrico, il cui carattere
monoteistico si esprime anch’esso nella negazione di ogni altra
divinità, quale è implicitamente contenuta nella nuova accezione che
l'antica parola da ‘’daeva’’ (Dio) assume nella religione di Zarathustra,
passando a significare demonio, cioè il contrario di Dio.

A parte il problema particolare delle origini del zoroastrismo, anche al


monoteismo ebraico si è negata l'originalità facendolo dipendere da
influenze esercitate dalle religioni di Babilonia ed Egitto. Altri insistono
piuttosto sugli antichi rapporti storici di Israele con l'Egitto, e in primo
luogo sulla riforma religiosa di Amenhotep IV, che si presterebbe ad
essere considerata come una realizzazione anticipata del
monoteismo. Ma è legittimo definire come monoteistica la religione di
Amenhotep IV? Essa fu, bensì, istituita sulla base della negazione del
dio Amun. Ma che per questa via Amenhotep IV sia giunto fino a
rinnegare anche tutti gli altri dei della religione egiziana (compreso
Osiride, ad esempio) è per lo meno inverosimile.

In Egitto ci furono sicuramente delle tendenze monoteistiche, ma


rimasero sempre più o meno isolate. Più legittimo è negare al primitivo
monoteismo di Israele il carattere di monoteismo assoluto, designando
lo piuttosto come monolatria, a indicare il suo carattere relativo di
fronte al monoteismo assoluto ed universale predicato dai Profeti. Ma
relativamente al popolo che la professava, la religione di Jahve era
innegabilmente un monoteismo nel senso da Pettazzoni indicato. Il

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monoteismo ebraico ebbe dunque un suo svolgimento che fu
promosso dallo sforzo assiduo di alcuni uomini di eccezione, i quali
esercitarono un’influenza straordinaria sul popolo.
Questa serie s’inizia con una grande figura, la figura di un primo
profeta che in una delle ore più gravi si levò in Israele insegnandogli a
venerare il Dio unico sotto il nome di Jahve. Queste altre religioni
monoteistiche (il cristianesimo, il zoroastrismo, il maomettismo) sono
anch’esse ‘’profetiche’’, nel senso che anch’esse procedono
dall’opera personale di un Fondatore che in un momento decisivo
affermò l’esistenza di un Dio unico.
Se il monoteismo è oggi la credenza religiosa comune alla maggior
parte dei popoli della terra, non è che ciascuno di questi popoli per
evoluzione interna, spontanea e indipendente, abbandonando la sua
antica fede politeistica, si sia foggiato un monoteismo per conto suo; è
invece per conversione ad una religione nuova e straniera, ad un
monoteismo formatosi altrove, che i singoli popoli sono diventati
monoteisti.
Ad ogni modo, questa conversazione implica anch’essa una
negazione. Come logicamente il monoteismo è la negazione del
politeismo, così storicamente esso presuppone un politeismo, dal
quale procede per negazione, cioè per RIVOLUZIONE. In ciò sta il
dissenso del Pettazzoni dalla teoria evoluzionistica, secondo la quale la
formazione del monoteismo non sarebbe che lo sbocco normale e
costante dell’evoluzione religiosa anteriore. Questa teoria,
concependo il monoteismo come il risultato di uno sviluppo naturale,
non dà ragione del carattere straordinario delle formazioni
monoteistiche: ecco perché Pettazzoni la giudica insufficiente.
Sufficiente essa è soltanto nello spiegare le formazioni di un
monoteismo relativo e imperfetto, formazione cui manca quella
negazione di ogni altra divinità, che è la caratteristica del vero
monoteismo. La sistemazione del pantheon babilonese od egiziano
elaborata sul modello di una monarchia assoluta con a capo un dio
supremo onnipotente; la teorizzazione astratta del divino fino alla
concezione di un essere universale: tutto ciò può bensì essere derivato
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dal politeismo per evoluzione interna. Ma questo svolgimento non va
più in là: è una linea che finisce. E non è su questa linea il vero
monoteismo, il quale non si forma per fusione delle varie divinità, bensì
per negazione di tutti gli dèi al di fuori di uno.
Il monoteismo non è dunque una creazione ex nihilo (‘’dal nulla viene
il nulla’’, Renan scriveva che non si può inventare il monoteismo), esso
si forma per negazione, in sedo ad un preesistente politeismo. Non
solo: gli dèi unici dei singoli monoteismi non sono essi stessi delle
creazioni ex nihilo; non sono venuti fuori improvvisamente
dall’immaginazione o dalla riflessione di un Fondatore ma
preesistevano anch’essi.

Che cosa sono dunque questi iddii ai quali era riservato un destino
così luminoso? Se noi li guardiamo un po’ da vicino, ci occorre di fare
una costatazione sorprendente, e cioè che questi iddii sono tutti della
stessa natura:

➢ Allah era un dio del cielo;


➢ Quanto ad Ahura Mazda, non c’è dubbio che anch’egli sia un
dio del cielo;
➢ In Jahve si è voluto vedere un dio-vulcano. Ma non è più
verosimile che egli sia un dio del cielo? Egli ama manifestarsi
nella tempesta, nel tuono e nel fulmine.
C’è dunque, a quanto pare, fra gli iddii unici delle diverse religioni
monoteistiche una essenziale identità di natura, in quanto tutti sono in
origine degli iddii del cielo. E da questa natura celeste dipende la loro
fortuna. Il cielo è fra gli elementi della natura il più atto a suscitare
nell’uomo l’idea di una grandiosità, di una maestà incomparabile. E
per questo gli dèi del cielo si prestavano meglio di ogni altro a
realizzare l’ideale di una divinità unica e suprema. La pioggia esercita
un’azione benefica sulla vita vegetale, e quindi su tutta la vita, e per
questo gli dèi del cielo sono dei creatori per eccellenza. La volta
celeste si stende perennemente su tutta la terra, e per questo gli dèi
sono eterni e infiniti. E per la stessa ragione sono anche onniscienti,
nulla può sfuggire a loro:
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Ahura Mazda è, come dice il nome, ‘’il signore che sa’’;
Allah vede e ode tutto, e perciò è concepito come testimone
dei giuramenti e dei trattati;
Il Signore che nutre gli uccelli e fa crescere le erbe nei campi
conosce anche i bisogni degli uomini.
D’altra parte, mentre nel sistema tyloriano il monoteismo è fatto risalire
all’animismo come punto di partenza di tutta l’evoluzione religiosa,
altri hanno preferito ricorrere ad una spiegazione naturistica. Per il
Renan sarebbe stato il deserto con la sua uniformità a suggerire l’idea
di una divinità unica. Da un punto di vista completamente diverso
Max Müller dava la preferenza al cielo come elemento naturistico
operante nella formazione del monoteismo. Analogo, in un certo
senso, è il punto di vista del Pettazzoni.
Se dunque la nozione di un dio del cielo sembra essere condizione
necessaria per la formazione del monoteismo nel senso proprio della
parola, essa non è la condizione sufficiente. A parte il zoroastrismo, le
grandi formazioni monoteistiche storiche sono tutte creazioni
semitiche.

Corrispondentemente, fra i popoli ariani gli Irani sono stati i soli a dar
vita a una formazione monoteistica, mentre a tutti questi popoli è
comune l’idea di un dio celeste. Infatti, al dio celeste iranico da cui
Zarathustra ricavò il suo dio unico Ahura Mazda corrispondono
altrettanti iddii nel cielo. Fatto è che questi vari dèi hanno anch’essi,
nelle singole religioni politeistiche a cui appartengono, il primo posto.

Max Müller, che aveva il ‘’senso del mito’’ sviluppato, non mancò, nel
suo Saggio sul monoteismo del Renan, di redigere anche un elenco di
iddii nel cielo appartenenti a diversi popoli della famiglia cosiddetta
turanica. Vero è che tra i popoli di questa famiglia non ce n’è nessuno
in cui un antico iddio del cielo sia diventato il Dio unico, perché
nessuno dei popoli turanici è uscito dal politeismo, nessuno è giunto al
monoteismo, se non per conversione, sia al cristianesimo, sia all’islam.
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Così la religione ufficiale dei Cinesi è sempre rimasta, come quella dei
Giapponesi, politeistica. Ma ecco che a capo del politeismo cinese
noi troviamo un dio del cielo nella figura di Tien, il ‘’cielo’’
personificato. C’è infatti una significativa sentenza cinese che dice
‘’poiché non c’è che un cielo solo, come potrebbero esserci più
dèi?’’.

E’ interessante constatare come questa tendenza monoteizzante si


applichi, anche in Cina, al cielo, allo stesso modo che presso i:

➢ Babilonesi con ANU, dio del cielo;


➢ Greci con ZEUS.

Da tutto questo discende una conclusione molto importante, e cioè


che, come gli iddii unici delle religioni monoteistiche sono secondo
ogni verosimiglianza degli antichi dèi del cielo, così gli iddii supremi di
molte religioni politeistiche dell’antichità e dei tempi moderni sono
anch’essi degli dèi del cielo.
A questo punto il Pettazzoni fa un’ultima constatazione di capitale
importanza, e cioè che la credenza in un essere supremo e localizzato
nel cielo e operante nei fenomeni meteorici si trova anche presso
popoli incolti attuali. Il punto di partenza delle sue ricerche personali è
stata una scoperta fatta nel campo delle religioni dei primitivi, la
scoperta di Andrea Lang sull’esistenza dell’idea di un essere supremo
presso alcune popolazioni dell’Australia.

Schmidt costruì sull’intuizione del Lang una teoria generale sull’origine


dell’idea di Dio, secondo la quale il monoteismo non sarebbe il
risultato né di un’evoluzione né di una rivoluzione religiosa, ma
risalirebbe ai primordi stessi della storia umana, come forma prima ed
originariamente unica della religione. A questo riguardo il Pettazzoni
ritiene:
1) Che gli esseri supremi appartengono alla credenza originale e
primitiva dei popoli incolti;

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2) Che essi non consentono affatto di sostenere l’esistenza di un
monoteismo primordiali;
3) Che gli esseri supremi dei popoli primitivi sono degli esseri celesti.
Il Lang, che ebbe sempre un certo scrupolo a chiamare dèi gli esseri
supremi, preferì considerarli come ‘’Padri universali’’, accentuando
specialmente il loro carattere di creatori e trascurando l’aspetto
naturistico della loro figura. Gli esseri supremi dei primitivi non sono che
dei fattori primordiali, la cui nozione si sarebbe formata nel pensiero
dell’uomo primitivo dall’innato bisogno di spiegarsi il perché delle
singole cose.
Pettazzoni non concorda con questo. L’attività creatrice è propria
degli esseri supremi in quanto sono in primo luogo largitori di pioggia, e
perciò fecondatori della vita vegetale, e, quindi, per estensione, di
tutta la vita, della quale possono anche farsi distruttori mandando i
malanni che affliggono il genere umano (la siccità, la sterilità, la
malattia e la morte). E poiché il cielo è immanente nel tempo, ecco
che gli esseri supremi dei primitivi non invecchiano (a ciò si riduce la
loro eternità).

Del resto, Pettazzoni non è il solo a credere che non si possa


prescindere dall’elemento celeste per spiegare gli esseri supremi dei
popoli primitivi. La loro natura non è sfuggita, per esempio, al Preuss.
Quest’ultimo ha precisato la sua opinione nel senso che gli esseri
supremi in genere sarebbero in primo luogo delle ‘’incorporazioni’’ di
tutto l’universo, in varie figure (anche femminili), che poi sarebbero
state secondariamente localizzate nel cielo e concepite come iddii
del cielo.

In complesso, dunque, si può dire che il riconoscimento della natura


celeste degli esseri supremi dei primitivi è in cammino. Le ricerche del
Pettazzoni sono orientate verso una determinata questione, ovvero se
anche il nostro monoteismo attuale non abbia per fondamento la
credenza in un dio-cielo. Il monoteismo non si trova dunque alla base
iniziale della storia religiosa, ma al termine di un lunghissimo
svolgimento.
2) IL MONOTEISMO E POLITEISMO
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STORIA DEL PROBLEMA
Dalla presa di contatto del monoteismo giudaico e cristiano con le
religioni politeistiche, si formò una prima teoria della storia religiosa
umana che poneva il politeismo posteriore al monoteismo come
religione rivelata. Questa teoria durò fino al Rinascimento e oltre. La
stessa posizione mantennero i filosofi razionalisti del 17esimo e 18esimo
secolo, soltanto sostituendo alla religione rivelata la religione
‘’naturale’’ e ‘’razionale’’ come rappresentante del monoteismo
originario.

Hume fu il primo a capovolgere la posizione dei due termini,


affermando che ‘’politeismo e idolatria sono la prima e la più antica
religione dell’umanità’’, seguito da Rousseau. E’ da notare che Hume
quanto Rousseau includevano nel politeismo le credenze dei selvaggi,
circa allo stesso tempo il De Brosses adottava il termine speciale di
feticismo. Feticismo, politeismo, monoteismo furono assunti come i tre
gradi dell’evoluzione religiosa nel sistema del positivista Comte, che
diventò poi il sistema classico dell’evoluzionismo formulato da Tylor:
animismo, politeismo, monoteismo.
Un distacco dall’evoluzionismo sistematico è già implicito nell’idea di
Renan che il monoteismo, suggerito dalla visione del deserto, sia stato
una specialità dei popoli semitici. Criticando quest’ultimo Max Müller
poneva come originario l’enoteismo, cioè da una specie di
monoteismo relativo (momentaneo), da cui si sarebbe svolto tanto il
politeismo, quanto il monoteismo vero e proprio. In opposizione a Tylor,
Lang segnalò presso varie popolazioni primitive la nozione di esseri
supremi, non iddii, non spiriti, e dunque indipendenti dal politeismo
come dall’animismo, inesplicabili con la teoria evoluzionistica,
rappresentanti di un’elevata religiosità poi decaduta.
Sulla via aperta dal Lang la vecchia dottrina del monoteismo
primordiale non tardò ad essere ripresa da Schmidt. Secondo
quest’ultimo, un’eventuale infiltrazione di idee monoteistiche presso i
selvaggi poté essere considerata come gli antecedenti di singoli iddii
supremi di religioni politeistiche e monoteistiche, e adibiti alla
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formulazione di una nuova teoria generale sulla formazione e sviluppo
del monoteismo.

POLITEISMO
a) Il politeismo è la forma religiosa dominante presso i popoli più o
meno civili del mondo antico (Egizi, Babilonesi, Assiri, Fenici,
Greci, etc.), nonché nell’America precolombiana (Messico,
America Centrale, Perù); attualmente esso è rappresentato nel
Giappone (sintoismo), nella Cina, nell’India (induismo), ed anche
presso alcuni popoli di basso livello culturale (Polinesiani).
Il politeismo è una formazione relativamente tarda e complessa.
Caratteristiche del dio in seno al politeismo sono:
1. Un nome proprio in corrispondenza con una meglio definita
personalità individuale,
2. Un culto di adorazione prestato da una comunità.
Le ragioni per cui una comunità adotta come dio uno spirito o un
demone o un totem sono varie e molteplici: la prevalenza data
agli elementi naturistici è dovuta al fatto che la grandiosità dei
fenomeni della natura conferisce al dio che li rappresenta quella
potenza di cui la comunità ha bisogno per sentirsi tutelata e
protetta.
Carattere essenziale del politeismo è la credenza e l’adorazione
di più divinità. La formazione di un pantheon politeistico dipende
spesso dall’unificazione politica di varie comunità: sono qui in
gioco ragioni storiche, varie da luogo a luogo.
b) Le divinità di una religione politeistica sono per lo più sottoposte
ad un processo di sistemazione, sia col metodo della genealogia,
sia tramite il raggruppamento in triadi e così via. Oppure si
produce l’identificazione sincretistica di una divinità con un’altra
o con altre anche di religioni diverse. O ancora si determina la
supremazia di una divinità sopra tutte le altre, sia per ragioni
politiche, in quanto il dio di una comunità conquistatrice assume

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una posizione di predominio sopra gli dèi, sia per ragioni inerenti
alla natura stessa di una divinità.
Infatti, nella maggior parte delle religioni politeistiche la divinità
suprema è un dio del cielo (come abbiamo visto).
Talvolta la divinità suprema di una religione politeistica è una
divinità (femminile) della terra, altre volte una divinità del sole.
La supremazia di una divinità sopra le altre, quanto
l’identificazione di una con le altre, non intacca il carattere del
politeismo, lasciando sussistere accanto alla divinità suprema, le
singole divinità inferiori.

MONOTEISMO

Il monoteismo è propriamente credenza e adorazione di una sola


divinità con esplicita negazione di tutte le altre. Esse sono quattro:
1. La religione di Israele e di Giuda (Jahvè);
2. L’islam (Allah);
3. Il Cristianesimo,
4. Il Zoroastrismo (Ahura Mazda).
Altri esseri divini o superumani (come Angeli e Santi) sono in varia
misura oggetto di adorazione di ciascuna di queste religioni. Questa
concezione del monoteismo implica la sua posteriorità rispetto al
politeismo di cui esso è la NEGAZIONE.
Con ciò non è detto che il monoteismo si svolga dal politeismo nel
senso della teoria evoluzionistica. Le pretese ‘’tendenze
monoteistiche’’ rappresentano, semmai, un pseudo-monoteismo, in
quanto si riconducono facilmente sia al monoarcoteismo, sia al
sincretismo. Ma dal politeismo, il monoteismo non si svolge per
evoluzione, bensì per negazione, che è come dire RIVOLUZIONE.
Anche qui non si tratta di un fatto universale, si tratta, piuttosto, di un
fatto contingente, che si produsse pochissime volte nella storia del
mondo (i popoli nella loro maggioranza diventarono monoteisti non
per evoluzione, ma per conversione).
I quattro monoteismi della storia sono, a differenza delle religioni
politeistiche, religioni fondate, i cui fondatori sono:
13
➢ Mosè (e i profeti);
➢ Gesù
➢ Maometto
➢ Zarathusta.
Anche l’atenismo di Amenhotep IV è una fondazione personale.
Formazione originale è, per quanto si sa, Mosè. Il monoteismo cristiano
è inizialmente un prolungamento del monoteismo ebraico; poi ebbe
sviluppi proprii. Il monoteismo islamico dipende dal monoteismo
giudaico e dal cristiano. Indipendentemente si formò il monoteismo
dualistico di Zarathustra.

TEORIA DEL MONOTEISMO


Come negazione del politeismo, il monoteismo non sta all’inizio, ma al
termine della storia religiosa. All’inizio sta una varietà di forme religiose
elementari, una delle quali è la credenza in un essere supremo. Ma
l’essere supremo:
1. Non è un dio né uno spirito,
2. Non è unico, nel senso che non s’incontra mai da solo, ma
sempre in concomitanza con qualche elemento della magia o
dell’animismo.

Contro questa concezione, valgono i dati seguenti:


1. Alcune popolazioni tra le più primitive non hanno la nozione di un
essere supremo;
2. Di alcuni esseri supremi di popolazioni primitive non risulta che essi
siano creatori;
3. Molti fra gli esseri supremi dei primitivi abbondano di tratti uranici;
4. Dalla natura uranica dell’essere supremo procede l’attributo
dell’onniscienza.

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3) MITOLOGIA AUSTRALIANA DEL ROMBO
I rombi, antichi strumenti musicali rituali utilizzati per la caccia e riti
tribali, hanno una diffusione universale, e un altissimo valore religioso.
Innanzitutto, bisogna ammettere che la formazione delle figure
mitiche è una funzione della conoscenza intuitiva. Le figure mitiche
hanno dunque un’aderenza immediata alla realtà, senza simboli da
interpretare, senza profonde verità da scoprire o misteri da rilevare. Da
qui discende la più forte delle obiezioni contro quel razionalismo di cui
appare condizionata la teoria degli animisti, a cominciare da Tylor.
Questa teoria vede nell’animismo una specie di filosofia rudimentale,
un’erronea applicazione del principio di casualità, e giunge fino a
concepire gli spiriti come cause personificate. Invece, le
rappresentazioni animistiche non sono che un prodotto di quel
processo mentale che dà luogo ai miti naturistici.
Più volte fu constatata la mancanza di logica nel pensiero dei primitivi.
Recentemente è stato coniato il termine prelogismo, per designare
una delle caratteristiche essenziali della mentalità dei popoli selvaggi.
Ma il prelogismo del Bruhl ha una portata prettamente sociologica, in
quanto concerne quasi esclusivamente quelle operazioni del pensiero
associato (ovvero le rappresentazioni collettive). Tale prelogismo,
come non implica l’esistenza di una fase mentale anteriore alla fase
logica, così non esclude le operazioni logiche propriamente dette, pur
limitandole alla sfera delle rappresentazioni individuali.

Ma in queste stesse rappresentazioni è già presente il prelogismo in


quanto esse sono delle rappresentazioni e non dei concetti, delle
figure mitiche e non dei ragionamenti. E le figure mitiche sono, come
abbiamo detto, dei prodotti dell’attività immaginativa. D’altro lato, i
miti nascono in tutti i tempi, anche in mezzo a quelle società più
progredite: ma qualunque sia il loro ambiente di formazione, i miti non
appartengono all’ordine logico, bensì a quello fantastico, o semi-
fantastico.

→ C’era una volta, narra una leggenda dell’AUSTRALIA CENTRALE,


una quantità di omini che abitavano in un luogo chiamato
15
‘’mucchio di pietre’’. Si chiamavano Apuju, e avevano delle
mogli chiamate Melbati, e dei figli denominati Inankiri. Apuju
significa ‘’i ronzanti’’, questo è infatti il nome del rombo che si fa
vedere ai novizi dopo la circoncisione. Essi sono dunque i rombi.
→ Un’altra leggenda dei Loritja racconta che c’era un’altra
quantità di omini chiamati Majutu, che soggiornavano in una
località detta ‘’escrementi dei Majutu’’ e che compirono varie
imprese simili a quelle degli Apuju. Le mogli dei Majutu si
chiamavano anch’esse Melbati, che significa ‘’dalle braccia
corte’’. I capi di questo popolo dei Majutu si tagliarono la gamba
destra, se la caricarono in spalla e la portarono nel corso delle
loro peregrinazioni.
Tutto questo non è che una rappresentazione mitica. Sono questi
Majutu che, secondo la credenza delle donne, vengono a trasformare
i ragazzi in uomini: uno dei Majutu taglia la testa al ragazzo, e poi gliela
applica di nuovo sul collo, dopo di che il ragazzo non è più quello di
prima, è oramai un uomo. Poi il ragazzo ferisce a morte il Majutu e,
quando è morto, lo trasportai in una grotta nascondendolo sotto un
mucchio di pietre. Successivamente, sempre secondo la leggenda, il
novizio si reca da un altro Majutu che ha perduto una gamba. Il
ragazzo si carica il Majutu in spalla, lo trasporta lontano e infine lo
aiuta a rimettersi a posto la gamba: anche qui abbiamo una
rappresentazione del rombo.

Anche gli Arunta hanno una leggenda del tutto simile a quella dei
Loritjia (con la differenza che la quantità di omarini erano chiamati
Twanjiraka [dai piedi corti] e abitavano una località della Rubuntja).
Inoltre, nella leggenda degli Arunta compare, accanto ai twanjiraka,
un twanjiraka: questo sostituirsi dell’uno ai molti è un fenomeno dei più
frequenti del pensiero mitico. Da esso ha origine, secondo alcuni
mitologi, la formazione di vari esseri divini: questo fenomeno ha
un’importanza particolare, appunto, in Australia.

Ora è importante vedere se esistono credenze analoghe presso altre


tribù e in che consistono le analogie.

16
→ Presso i Kaitish il ronzio del rombo si chiama tumana. Ora, nella
loro credenza mitologiche, tumana è il nome di due uomini che
all’epoca mitica tentarono e riuscirono a far ronzare una
quantità di rombi. Inoltre, è anche il nome di un essere che
rapisce i ragazzi trasportandoli nella foresta e poi li riporta iniziati;
le donne odono soltanto la sua voce, che è il ronzio stesso del
rompo. Abbiamo qui ancora una volta la personificazione del
rombo o della sua voce, e lo stesso modo di concepirlo come un
essere connesso con l’iniziazione dei ragazzi.
→ Altrettanto trasparente è un mito dei Warramunga. All’epoca
mitica viveva un uomo che si chiamava Murtu-murtu, il quale
eseguiva molte cerimonie e produceva un rumore strano. In
linguaggio warramunga il rombo si chiama precisamente murtu-
murtu. Le donne Warramunga credono, infatti, che il rumore del
rombo sia la voce stessa del Murtu-murtu. Si noti dunque che il
murtu-murtu (rombo) personificato, è concepito come un uomo
avente il corpo rotondo come una palla, la testa con un sol
ciuffo in cima, i piedi consistenti soltanto nelle dita e nei calcagni.
Il mito continua a raccontare che due cani selvaici, avendo
udito il rumore fatto con la bocca da Murtu-murtu, gli saltarono
addosso e gli strapparono la carna. Questi pezzi di carne fecero
un rumore del tutto simile a quello del rombo, e ovunque
toccarono terra, lì spuntarono degli alberi. Col legno di questi
alberi i Warramunga fanno i loro rombi, quasi che esso conservi in
sé l’energia sonora trasmessa e comunicata dalla carne di
Murtu-murtu.

Passando ora alle regioni orientali, vi troviamo delle credenze del tutto
simili presso alcune tribù del Nuovo sud del Galles, e specialmente
presso i Wiradjuri.
→ Essi venerano un essere supremo che si chiama Baiame. Questo
aveva un ministro incaricato dell’iniziazione dei ragazzi. Una
volta, adiratosi con lui, lo distrusse lasciando sopravvivere soltanto
la sua voce negli alberi della foresta. In seguito egli insegnò agli
uomini a tagliare da un albero dei pezzetti di legno e a farne dei
rombi, avendo cura di tenerli nascosti alle donne. Questo
17
strumento è usato dai Wiradjuri nelle loro cerimonie, facendolo
roteare per mezzo di una corna essi riproducono la voce del
ministro di Baiame.
Ciò che è più notevole è che Baiame non è altro che Daramulun.
Infatti, se presso altre tribù quest’ultimo è l’essere supremo, presso i
Wiradjuri, invece, egli è una figura subordinata a Baiame. Qual è
dunque il significato del vocabolario daramulun? L’etimologia data
dal Ridley, e generalmente accettata dagli etnologi, fa derivare la
parola da ‘’gamba da un lato’’, che generalmente si traduce in
‘’zoppo’’. Qui si presenta il riscontro dei miti precedenti che viaggiano
con una gamba sola, portando l’altra sulla spalla. Notiamo dunque
come in popolazioni diverse, lontane l’una dall’altra, il medesimo
oggetto è concepito con la stessa figura.
Tuttavia ci sono popolazioni, come appunto di Wiradjuri, che hanno
anche altre specie di rombi, di forma diversa e chiamati con altro
nome.
Ad esempio, oltre al vero e proprio rombo con un foro ad un’estremità
per il quale passa la corda, se ne adopera anche un altro che non è
forato, ed ha invece all’estremità un’intaccatura che serve a fissare la
corda per uno dei suoi capi, mentre l’altro capo è attaccato a un
bastone di legno. Questo bastone tenuto in mano e agiato come il
manico di una frusta imprime al rombo quel movimento di rotazione
che produce il rumore caratteristico: questo rombo è chiamato
moonibear, è più piccolo dell’altro e dà un suono diverso per tonalità
e per intensità. Anche questo, tuttavia, non dev’essere visto dalle
donne.

Ma le donne percepiscono la diversità dei suoni prodotti dall’uno e


dall’altro, dando luogo conseguentemente a due personificazioni di
genere diverso, maschile e femminile. Per un processo analogo,
alcune popolazioni dell’Africa, presso le quali è in uso il linguaggio dei
tamburi, concepiscono un tamburo maschio e uno femmina a
seconda della maggiore o minore altezza di tono. Così un temporale
accompagnato da tuoni e fulmini si chiama ‘’pioggia mschio’’,
mentre un acquazzone senza scariche elettrice si chiama ‘’pioggia
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femmina’’. Così pure il nord, insieme al suo colore che è il nero,
appartiene all’ordine maschile, così il sud, col suo colore che è
l’azzurro, appartiene all’ordine femminile.
L’essere iniziatore è dunque una figura che appartiene propriamente
alle credenze australiane. Esso è un primo luogo una figura della
credenza exoterica, una figura dovuta all’immaginazione dei non-
iniziati. Nel problema degli esseri supremi australiani, Marret si è
pronunciato affermando che questi esseri sono tutti modellati sopra
uno stesso ed unico prototipo, in questo caso il rombo. Tuttavia la
miologia del rombo non ha nulla a che vedere con la nozione di un
essere supremo e quindi resta del tutto estranea al problema degli
esseri supremi.

Ci sono anche delle tribù presso le quali l’essere supremo non esiste,
mentre in altre la nozione dell’essere supremo non indica la presenza
dell’essere iniziatore. Ciò che importa notare, comunque, è che questi
esseri iniziatori da un lato e gli esseri supremi dall’altro, non soltanto
sono geneticamente indipendenti, ma si sono svolti anche in modo
diverso. Di qui consegue che i primi non sono affatto un riflesso mitico
dei secondi. Se Lang e lo Schmidt preferiscono attribuire agli esseri
supremi una genesi logica, il Pettazzoni ritiene che non abbia nulla a
che vedere con questo, piuttosto si tratta di immaginazione o intuito.

4) LA CATENA DI FRECCE: SAGGIO SULLA DIFFUSIONE DI UN MOTIVO


MITICO
E’ credenza diffusa presso i popoli primitivi che il cielo sia
materialmente vicino alla terra. Nell’Australia centrale gli Arunta
credono che il cielo sia sorretto dai pali, e temono che possa un
giorno cadere. Sempre nell’Australia, presso i Dieri, si racconta che
una volta il cielo non era quella sterminata distesa che è oggi: era
come una cortina fatta di nubi così dense che parevano solide e
sembravano poggiare sugli alberi. Un giorno, essendo caduti degli
alberi che fungevano da pilastri, si formò una grande apertura nella
volta che poi andò allargandosi sempre più e divenne il cielo com’è

19
ora. Infatti, pariwilpa (che significa grande apertura) è attestato come
termine per dire cielo presso alcune tribù.

Un caso a parte è dato dai due eroi Malku-malku-ulu, ossia i ‘’due


invisibili’’, dei quali si narra che, avendo una volta preso un Kanguru, lo
scorticarono, ne fissarono la pelle sul terreno e poi spingendo su la
pelle formarono la volta del cielo. Tuttavia, il motivo del sollevamento
del cielo quasi aderente alla terra è comune in tantissimi posti: si pensi
alla Polinesia e alla Micronesia. Si ritrova in tutta l’Indonesia.

I Mantra concepiscono il cielo attuale come un gran vaso sospeso


sopra la terra per merito di una corda, e credono che che intorno alla
terra crescano continuamente dei germogli, i quali giungerebbero ad
allacciarsi col cielo e lo chiuderebbero del tutto sopra di noi, se non
fosse per un certo vecchio che li taglia e li mangia. Quanto all’origine
del cielo, credono che da principio esso fosse molto basso e vicino
alla terra tanto che Blo, uno dei primi uomini, vi urtava contro e perciò
lo sollevò con le sue mani.
Riscontri simili, ovvero del cielo così basso da urtarci contro e da
poterlo toccare, li ritroviamo anche in Cina, specialmente presso le
popolazioni barbariche. Questa idea è poi implicita in tutti quei
racconti fra esseri terrestri e celesti: uomini (dotati di virtù magiche)
che salgono al cielo e abitatori del cielo che visitano la terra. Questi
racconti possono raggrupparsi secondo il motivo caratteristico:

➢ l’albero che cresce fino al cielo trasportando in su chi vi è salito;


➢ l’arcobaleno come ponte fra il cielo e la terra o come fune per
arrampicarsi;
➢ l’orizzonte come linea di confine dove cielo e terra si toccano.

Un altro motivo è quello della catena di frecce per la quale uno o più
personaggi della leggenda salgono dalla terra al cielo, e talvolta poi
scendono giù. Lo schema è il seguente: l’eroe lancia dei dadi; uno si
conficca nella volta celeste, poi un secondo va a conficcarsi nella
cocca del primo, poi un terzo si innesta nel secondo, e così fino a
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formare una lunga catena di frecce sulla quale aggrappandosi, come
una scala, l’eroe sale al cielo (ed eventualmente scende).

Quest’esaltazione dell’arciere (si ricorda Guglielmo Tell, figura


dell’eroe abilissimo nel lancio dei dadi) non poteva nascere che
presso popoli dediti alla caccia con l’arco. Un’umanità che quindi
vive di caccia, anziché di pastorizia o agricoltura: è naturale, dunque,
che racconti di questo genere abbondino presso i Melanesiani e gli
Americani del nord-ovest.

Quanto alla MELANESIA, è noto che essa è l’area di quella civiltà


che si fa chiamare ‘’civiltà dell’arco’’. A titolo di
esemplificazione, si può citare una leggenda: Muehu Katekale,
abbandonato dalla sua compagna e dal figlio di lei, volati in
cielo, prepara cento frecce; ne tira una e non ricade; ne tira
un’altra e la sua punta si conficca nella base della prima, e così
via, finchè l’ultima terra. Allora egli sale per la ‘’scala’’, ritrova la
donna e il figlio, poi scende, e tutte le frecce ricadono a terra,
vuol salire di nuovo, ma le frecce non si conficcano più.
Quanto all’AMERICA SETTENTRIONALE, il motivo delle frecce
ricade in quell’area che si fa chiamare ‘’Costa del nord-ovest’’.
Presso la popolazione più settentrionale, i Tlinkit, troviamo una
leggenda. Due ragazzi sono compagni di gioco: uno dice
qualche cosa che dispiace alla Luca, questa lo rapisce, l’altro
lancia una freccia in cielo e colpisce una stella e così via fino a
formare una scala per andare in cielo.
Non sempre il motivo della catena di frecce compare nella sua forma
più tipica: più volte si presenta in forma ridotta o alterata. Per esempio,
in un racconto dei Salish compaiono gli uccelli in atto di voler
muovere guerra al cielo, dopo vari tentativi un uccello riesce a
formare una catena di dardi che giunge fino a terra e su per questa si
arrampicano gli uccelli, poi ridiscendono, ma soltanto alcuni avevano
toccato terra di nuovo quando la catena si ruppe, e gli altri rimasero
per aria.

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Presso i Quinault, ancora, c’è la leggenda delle due sorelle che,
addormentatesi, sentono voglia delle stelle, e quando si svegliano si
trovano nel paese del cielo, spose di due stelle; la più giovane ricorre
al Ragno, che le offre un filo della sua tela per ridiscendere; ma il filo
non è abbastanza lungo, e la ragazza muore sospesa per aria. Allora i
suoi pensano di recuperare l’altra sorella, costruiscono un grande
arco, ma nessuno lo può piegare: soltanto il Reatino riesce a lanciare
una freccia in cielo; ma solo la Lumaca può vederla; allora la Lumaca
mira e il Reatino tira: un secondo dardo si conficca nella cocca del
primo e così via; giungono in cielo ma la catena di dardi si rompe, e
quelli che restano in cielo diventano costellazioni.
In altri racconti si trova una variante sbiadita della catena di frecce: si
tratta di fare una freccia col legno di un certo albero, ma questo
comincia a crescere e finisce per portare l’eroe su in cielo. Più dubbia
è la dipendenza dal motivo originario della catena di frecce in
un’altra leggenda in cui, il PADRE SOLE genera due figli, i quali salgono
al cielo per una strada fatta di farina. Si tratta forse di un adattamento
al motivo della catena di freccia ad un ambiente agricolo, ma ciò ha
reso questo adattamento irriconoscibile.

Tuttavia, oltre che in America settentrionale, questo motivo ricorre


anche in quella meridionale. Le leggende dei Tupi, tra le tante,
raccontano dei due figli dai quali il padre richiese una prova delle loro
virtù magiche; ed essi, per prova, lanciarono dardi che restarono
confitti nel cielo: ciascun dardo andò a colpire il precedente
formando una catena.
Il WUNDT, segnalando la presenza del motivo mitico della catena di
frecce presso i popoli cacciatori della Melanesia e dell’America,
tendeva a stabilire una connessione storico-culturale fra la presenza di
questo motivo ed una particolare civiltà in cui l’arco doveva essere un
elemento caratteristico. Con ciò egli faceva della etnologia storico-
culturale, pur senza affrontare il difficile problema dell’origine
dell’arco. Tuttavia, per egli la presenza del motivo della catena di
frecce si trovava solo in Melanesia e America settentrionale, e non in
quella meridionale.

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C’è un’analogia molto interessante che riguarda l’Australia. Anche in
Australia l’arco è ignorato (come in Asia, in cui si parla di cerbottana),
ma anche qui il silenzio mitologico non è assoluto. In Australia
meridionale credono in un essere meridionale, Nurrundere, che dimora
nel cielo. Nelle loro mitologie primeggia la figura di Nepelle.
Nepelle ha tuttavia un fratello, e le sue mogli vogliono suo fratello, il
quale finisce per cedere. Nepelle adirato incendia la capanna del
fratello, ordinando al fuoco di inseguirlo con le sue due mogli. I tre
fuggono verso la riva del lago e vi si tuffano. Il fratello di Nepelle
scaglia verso il cielo una lancia che ha, attaccata, una lenza; tira la
lanza, e la lancia ricade. Allora prende una lancia barbata, questa
volta essa resiste e così egli riesce a salire in cielo, e dietro a lui salgono
le due donne: tutti poi sono mutati in stelle.
In seguito, anche Nepelle sale al cielo con lo stesso mezzo. Manca in
questo racconto la catena di frecce, ma il motivo è ancora lo stesso.
La lancia barbata ha preso il posto del dardo. Presso le tribù del
territorio di Adelaide, ancora, c’è un altro adattamento: qui non si
tratta più di frecce ma di lance.

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LA CONFESSIONE DEI PECCATI
5) PENITENZA E CONFESSIONE
Presso i popoli primitivi, penitenza e peccato sono concetti correlativi.

Col peccato è turbato un ordine di cose che è ristabilito con la


penitenza. Questo ordine di cose può essere un sistema di forze sacrali,
o una legge imposta da una divinità. Nel primo caso al peccato
segue un male come emanazione delle forze sacrali turbate, anche se
la loro turbazione è avvenuta involontariamente. Questa concezione
oggettiva del peccato generatore di male prevale presso i popoli
incolti, e la relativa penitenza consiste in un’operazione atta ad
eliminare il peccato.
La confessione è praticata in ambienti di civiltà primitiva soprattutto in
casi di malattia, o di sterilità della donna; e i peccati che si confessano
sono in primo luogo quelli di natura carnale, probabilmente perché
l’indebolimento è dovuto a eccessi sessuali.
In ambienti di civiltà più progredita prevale invece generalmente il
concetto del peccato come trasgressione di una legge divina, e del
male conseguente come punizione da parte della divinità offesa, da
qui la penitenza diventa un mezzo per placare l’ira della divinità e per
ottenere la cessazione del male o la sua eliminazione. Ma anche in
questa fase sopravvivono i residui della concezione originaria del
peccato: nell’antico Messico, ad esempio, la penitenza consisteva in
un’estrazione di sangue dalla lingua o dalle orecchie.

Ancora, nell’antico Egitto la cosiddetta ‘’confessione negativa’’ fatta


dal defunto dinanzi al tribunale di Osiride non per dichiarare i propri
peccati, bensì per proclamare di non averne commessi.

Insieme con la concezione del peccato come offesa recata alla


divinità, si afferma sempre di più la concezione della colpa come
volontaria trasgressione di una legge divina, e contemporaneamente
si svolge l’esigenza di una penitenza fondata sul pentimento. Questi
aspetti raggiunsero una certa elevatezza in Israele (basti pensare ai
Profeti e ai Salmi), ma si riscontrano già nei Babilonesi e in antiche
iscrizioni greche d’Asia Minore.
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A parte queste manifestazioni penitenziali isolate e individuali, la
penitenza fondata sullo spirito interiore appare praticata da tutti i
credenti. Il carattere legislativo della penitenza si avverte
specialmente nel Giudaismo, nel Parsismo e nel Mandeismo. In
particolare:

➢ Nel Giudaismo, in un primo momento si accentua la pratica della


confessione collettiva dei peccati, in seguito la pratica di una
confessione individuale con enunciazione dei singoli peccati
commessi.
➢ Nel Parsismo si distinguono peccati inespiabili, o che solo una
volta possono essere perdonati; da quelli espiabili in base alla
loro gravità.
➢ Nel Mandeismo, il peccatore doveva essere ammonito una
prima, una seconda e una terza volta, ottenendo con il
ripiegamento spirituale il perdono delle sue colpe salvo a
perfezionare ulteriormente l’espiazione con opere buono. Se il
peccatore ripetutamente ammonito non avesse riconosciuto i
suoi errori, sarebbe stato condannato alle pene dei dannati.
Nel Manicheismo i laici erano tenuti a far penitenza dei loro peccati
una volta a settimana. La penitenza comprendeva anche una specie
di confessione fatta alla presenza di altri fedeli.
Nell’Islam il peccato è, caso per caso, semplicemente perdonato da
Dio in base alla fede interiore del peccatore accompagnata da una
preghiera, con l’aggiunta di penitenze volontarie: digiuni, buone
opere, ad esempio.

Nelle religioni ad organizzazione monastica, la penitenza è fissata in


una vera e propria regola disciplinare.

Al primo posto nei culti d’Asia Minore si trova specialmente la figura di


una grande divinità femminile, Cybele.

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6) LA CONFESSIONE DEI PECCATI NELLA STORIA DELLE RELIGIONI
L’indagine si è estesa finora a tre campi principali:
1. Dai popoli primitivi e incolti;
2. La confessione presso i popoli più o meno civili;
3. Le civiltà e le religioni del Vicino Oriente antico.
Ma il Pettazzoni non si ferma qui, vuole continuare la sua ricerca verso
la confessione dei peccati nelle religioni ‘’moderne’’. Questo termine
va inteso in senso tipologico, anziché cronologico. In questo senso, il
Cristianesimo è una religione moderna, in quanto introduce un nuovo
tipo di religione al posto del tipo antico rappresentato dal
paganesimo. Analogamente, lo è anche il Buddhismo di fronte al
Brahmanesimo, così come il Zoroastrismo, di fronte al paganesimo
iranico pre-zoroastrico.
Quanto alla confessione cristiana, il Pettazzoni è convinto che
certi fatti e certi aspetti appariranno in luce nuova sotto le sue
ricerche;
Quanto alla religione mandea, la confessione fu praticata
soltanto in epoca abbastanza recente presso le comunità di
Persia anziché di Mesopotamia;
Quanto al manicheismo, le scoperte fatte nell’Asia centrale
hanno rivelato un formulario di confessione per i laici, la quale si
svolgeva di fronte ai fedeli.
Quanto alla religione di Zarathustra, essa sembra aver ignorato la
confessione dei peccati fino ai tardi tempi del Parsismo.
Quanto al sessualismo, esso non scompare mai del tutto dalla
confessione. Ad esempio, nell’elenco dei peccati recitato dai monaci
buddhisti, nel quale i peccati sono ripartiti in otto sezioni in ordine di
gravità decrescente, il primo peccato della prima sezione, al primo
posto fra quelli più gravi, è il PECCATO CARNALE.
Tuttavia, la confessione è dappertutto liberazione, in quanto concorre
a liberare il male all’interno dell’uomo peccatore, ecco perché presso
i primitivi la confessione è costantemente associata a svariate pratiche
eliminatorie: il vomito, l’asportazione, l’estrazione del sangue, ad
27
esempio. Qui la liberazione ci appare in forma materiale. Queste
pratiche vengono meno nelle religioni superiori, nelle quali la
confessione è associata al rimorso, alla penitenza interiore.

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7) L’ELEMENTO SESSUALE NELLA CONFESSIONE DEI PECCATI
Pettazzoni è giunto a due scoperte:
1) La confessione dei peccati è praticata da un grandissimo
numero di popolazioni primitive sparse su tutti i continenti;
2) Presso i primitivi il peccato oggetto di confessione è
prevalentemente o quasi esclusivamente il peccato sessuale.

Il peccato più confessato è l’adulterio. Anche l’accoppiamento fra


coniugi può essere peccato e, come tale, esser oggetto di
confessione (se ha luogo in circostanze indebite, in giorni proibiti,
quando la donna è incinta). Meno frequente è la confessione dei
rapporti sessuali tra persone non coniugate. Altri peccati carnali di cui
si fa confessione sono:
➢ L’incesto;
➢ Rapporti contro natura;
➢ Onanismo (quando si utilizzano pratiche anticoncezionali).
Anche il procurare un aborto o tenerlo celato è oggetto di
confessione. Laddove anche altri peccati sono confessati, quelli
sessuali hanno sempre la precedenza. IL PECCATO SESSUALE E’
DUNQUE, NEL MONDO DEI PRIMITIVI, IL PECCATO PER ECCELLENZA. Ora,
l’idea d’impurità entra per gran parte nella nozione primitiva di
peccato. In secondo luogo, l’atto sessuale è naturalmente qualcosa
che indebolisce, specie se esercitato in forma abusiva o eccessiva.

Un altro tratto caratteristico della nozione primitiva di peccato è che è


concepito come generatore di male, e la forma più comune del male
è la malattia. Nel caso specifico del peccato sessuale il male
compare sotto forma di infermità o imperfezione degli organi genitali
(sterilità della donna, parto difficile), oppure di qualche altra disgrazia
privata o pubblica:

 I Bantu, ad esempio, quando non pioveva, credevano che la


siccità fosse la conseguenza di peccati sessuali;
 Nell’antico Perù, quando il gelo infieriva, si dava la colpa ai
gemelli, uno dei quali doveva essere frutto dell’adulterio.

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In Messico, la confessione delle donne si fa in un determinato modo:
ciascuna donna si procura un cordone e vi fa tanti nodi quanti sono
coloro con cui ha avuto relazioni amorose, dopo pronuncia il nome di
ogni singolo amante, infine getta il cordone nel fuoco. Questa usanza
di nominare il proprio amante è assai frequente nella confessione delle
donne, quasi a voler dire che col pronunciare il nome della persona
allora la si estragga da sé.

Ma non è soltanto nel mondo dei primitivi che la confessione è


dominata dal sessualismo: ciò si verifica anche in ambienti di civiltà
più progredita. Nel Messico antico, i peccati che erano oggetto di
confessione erano principalmente quelli carnali: la penitenza
consisteva in un’abbondante estrazione di sangue dalla lingua e dalle
orecchie. In molte iscrizioni, invece, si trovano quelle fatte da donne
che dichiarano di aver fatto confessione e penitenza per certi peccati
commessi (per lo più sessuali).
E’ vero che l’elemento sessuale scompare più o meno negli ambienti
di civiltà più progredita, ma sussistono ancora nel Buddhismo o ancora
nel Giainismo. Il peccato e la liberazione di esso furono concepiti in
modo del tutto diverso. L’idea del peccato come offesa fatta alla
divinità e della sua remissione concessa dalla divinità stessa era
incompatibile con lo spirito del Buddhismo, quanto la pratica dei riti a
scopo di eliminazione del peccato. Nel Giainismo il peccato è un
modo del karma, il quale, a sua volta, è un modo della materia: è
sostanza che deve essere consumata ai fini della salvezza e, l’ascesi,
ovvero il tapas, è il mezzo per distruggerla. Un’azione cattiva produce
il suo karma negativo, anche se commessa involontariamente.
Non così nel Buddhismo. Per il Buddhismo ciò che conta è la volontà. Il
karma è trasferito dal momento in cui l’azione eseguita è stata voluta.
Se quando l’azione è compiuta la volontà approva e ne è soddisfatta,
allora il karma matura. NON C’E’ KARMA SE NON C’E’ VOLONTA’
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CONSAPEVOLE. Non solo: se volontà ci fu e poi non resse, il karma si
genera sì, ma non matura. Il suo maturare viene impedito dalla
volontà che non regge più. Questo venir meno della volontà è il
pentimento. Pentirsi di un peccato è dunque il prodursi di una volontà
diversa. Con tutto questo, siamo ovviamente lontani dalla confessione
come evocazione magica del peccato a scopo eliminatorio.

Una cosa è certa ovunque: confessione è liberazione.

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8) LA CONFESSIONE DEI PECCATI: METODO E RISULTATI
a) – La confessione dei peccati non è una specialità della religione
cristiana.
b) – Tutto ciò risulta da testimonianze. Con la raccolta del materiale,
ovviamente, Pettazzoni ha fatto procedere di pari passo la sua
valutazione critica.
Messo insieme un materiale abbondante, è passato a studiarlo dal
punto di vista morfologico. Infatti, la confessione dei peccati presenta
presso i vari popoli e nelle varie religioni una grande quantità di forme.
Confrontando queste forme l’una con l’altra, si notano delle
somiglianze e delle differenze.
➢ Le forme simili costituiscono gruppi che rappresentano altrettanti
tipi.
La classificazione tipologica ha maggior o minor valore a seconda
che si prenda come criterio di classificazione un carattere primario o
secondario della confessione stessa. Un carattere primario è, ad
esempio, la concomitanza della confessione con un’altra pratica
rituale o il fatto che il peccato più generalmente confessato è quello
sessuale.
Sull’analisi morfologica e sulla classificazione tipologica deve fondarsi
l’INTERPRETAZIONE. L’interpretazione che il Pettazzoni ha dato è
questa:
Confessione è enunciazione del peccato. Il peccato enunciato è
magicamente evocato in quanto è in gioco la magia della parola. Il
peccato assume un valore fondamentale: il valore della liberazione.
Alla raccolta delle testimonianze, alla classificazione delle forme e dei
tipi e all’interpretazione, segue la costruzione genetica. E’ questa la
parte in cui l’ipotesi ha il maggior gioco. Pettazzoni arriva a due dati:
1. La confessione appare principalmente praticata dalle donne;
2. La confessione dei peccati appare spesso praticata nel culto di
una grande divinità femminile (abbiamo parlato, ad esempio, di
Cybele).

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Questi fatti inducono il Pettazzoni ad un’ipotesi: l’ipotesi che la
onfessione dei peccati sia geneticamente connessa con una civiltà di
tipo ‘’matriarcale’’.

9. LA CONFESSIONE DEI PECCATI NELL’ ANTICHITÀ CLASSICA.

1.
Ovidio nella I delle Ex Ponto (vv. 51-58) accenna alla confessione dei
peccati praticata nella religione di Iside dai fedeli ,dove c’era chi
seduto dinanzi alla dea confessava di aver offeso il suo nume ,mentre
c’era chi privato dalla vista a causa della punizione subita andava
gridando di aver meritato tale castigo. L’autore afferma di aver visto
tutto ciò con i suoi propri occhi e che dunque la confessione dei
peccati veniva praticata già nell’antichità, come ad esempio risulta
da un gruppo di iscrizioni tebane dell’epoca in Egitto, dedicate a varie
divinità ,tra le quali una dea locale Isis-Hathor .
L’esistenza di pratiche penitenziali nella religione isiaca a Roma viene
attestata da Giovenale nel brano della VI Satira ,in cui si deridono le
matrone romane per la loro devozione nei confronti delle divinità
orientali; infatti il fanatismo per Iside non ha limiti e la matrona ripone
nel sacerdote egiziano tutta la sua fiducia, in quanto se ha commesso
peccati, questo suscita l’ira della dea e lo si dimostra proprio con il
moto della testa e con il serpente che la dea ha nelle sue mani, quindi
se il sacerdote non ottiene con orazioni e offerte il perdono della
colpa, la donna avrà gravi castighi. Anche Eliano racconta di un
serpente sacro ,certamente il serpente di Iside, custodito in una torre
nella città del Delta, dove il culto di questa divinità è attestato anche
da monete imperiali romane; l’autore racconta che il capo degli
addetti al culto ,che dovevano dare pasti ogni giorno al serpente ,una
volta lo spiò mentre mangiava e ne fu subito punito ,infatti egli uscì di
senno ,confessò il suo peccato e morì da lì a poco.
33
2.
a)Ovidio, nelle Metamorfosi XI narra l’avventura del re Mida, il quale
tormentato dalla sete, per cui Dioniso l’ha punito, leva le braccia al
cielo, confessa il suo peccato e invoca il perdono del dio offeso, a
questo punto il dio lo perdona e gli dice ciò che deve fare : deve
risalire il corso del fiume Pattolo e qui sommergersi totalmente fin
quando il suo peccato non sarà deterso e disperso . Rituale è proprio il
gesto di alzare le mani al cielo e dunque la confessione di Mida
rappresenta il riflesso di una pratica confessionale che doveva
effettivamente avvenire in qualche culto.
Questo culto lo possiamo identificare con certezza, in quanto Mida è
il re di Frigia e il Pattolo scorre in Lidia, infatti tra Frigia e Lidia si stende
una regione dove abbiamo parecchie iscrizioni confessionali dedicate
alle divinità locali, queste iscrizioni sono scritte in greco barbarico e
risalgono al ll e III secolo d.C. ; da qualche iscrizione dello stesso
gruppo risultano anche il praticarsi di abluzioni rituali(lavaggio del
corpo a scopo di purificazione), inoltre viene attestata una speciale
associazione religiosa di devoti della dea Meter e di Men .

b)Ancora Ovidio nei Fasti racconta l’episodio di Claudia Quinta,


l’eroina il cui nome è associata alla leggenda del simulacro della
Magna Mater a Roma nel 204.a.c, la nave che portava il simulacro si
impigliò alla foce del Tevere e non fu possibile trarla su dal fiume, a
questo punto interviene Claudia Quinta, con una descrizione che ci
sembra di assistere alla scena : Claudia si bagna tre volte la testa con
l’acqua del fiume, tre volte solleva le mani al cielo, poi si inginocchia e
pronuncia alla dea queste parole solenni “Se non sono pura ,fammi
morire, ma se sono pura ,fa che io possa trascinare la nave con
questa fune” . Abbiamo qui l’invocazione della divinità ,ma anche la
tripla abluzione rituale , gesto delle mani alzate e anche qui una
specie di confessione.
Dunque sia in questo episodio Ovidiano di Claudia Quinta, che in
quello di Mida ci può essere una religiosità penitenziale anatolica,
bisogna tenere presente che il simulacro della Magna Mater proviene
34
dalla Frigia e fra le divinità a cui sono dedicate queste iscrizioni
confessionali, la principale è una grande divinità femminile, la gran
Dea Madre asiatica.

c)Nel già citato brano della Satira VI di Giovenale ,dove abbiamo le


matrone devote a Iside che si confessano all’archigallo (sacerdote),
anche qui si tratta di una pratica penitenziale da eseguire almeno una
volta all’anno ,a settembre ,per espiare tutte le colpe dell’annata ,
anche questa pratica comprende una triplice immersione nel Tevere,
seguita da un trascinarsi in ginocchio fino al Campo Marzio, inoltre la
matrona deve fare dei doni all’archigallo, ovvero cedergli le sue vesti ;
questo è un processo che ha un valore religioso, ossia liberare la
peccatrice dal fluido peccaminoso, la matrona si purifica dei peccati
e quei peccati rimangono così intrisi nelle sue vesti ,ecco appunto
perché deve “donarle” e una volta spogliatasene ne indossa altre
nuove .
Da ciò che ci narra Giovenale si intende che i peccati della matrona
sono perlopiù peccati di natura sessuale ; tutto questo trova riscontro
nelle iscrizioni confessionali di una donna dell’Asia Minore che
confessa il suo peccato, quello di essere salita in un luogo sacro con
un abito succinto, capiamo che si tratti di un’impurità di origine
sessuale .
Ci viene da domandarci come mai proprio Ovidio ,il cantore
dell’amore ,il più sensuale dei poeti augustei dimostra quest’interesse
per le pratiche confessionali ? Vediamo che però ciò non è casuale in
quanto Ovidio nell’ultimo periodo della sua vita si trovò proprio nella
situazione di peccatore che confessa il suo peccato .
Infatti durante l’esilio gli vennero in mente tutti quei riti penitenziali, in
cui i peccatori ottenevano dalla divinità offesa il perdono . Ciò lo si
legge appunto in una delle sue epistole dell’esilio: il poeta ormai non
spera più, ma proprio da questa disperazione sorge nel suo animo un
nuovo sentimento , che se realmente disinteressato sembra più
cristiano che pagano, cioè il sentimento della colpa per se stesso , si
accorge pertanto che c’è un qualcosa ancor più doloroso della
sofferenza ed è la coscienza, la coscienza del peccato, in quanto la

35
pena è cancellata ma il peccato no, la morte potrà porre fine
all’esilio, ma non potrà annullare mai la sua colpa .

3.
a)Plutarco nel suo scritto Su la superstizione ci presenta il tipo del
superstizioso ,di colui che vedendo in ogni avversità la mano di dio, in
ogni avversità della vita un castigo divino per qualche sua colpa,
rifiuta ogni conforto umano e si accusa di essere colpevole e di
meritare le sue disgrazie. Anche questo racconto è preso dal vero in
quando ritrae un penoso spettacolo di coloro che colpiti da qualche
infermità o sciagura attribuita al castigo divino, dovevano offrire,
specialmente nei santuari , quindi facevano pubblica penitenza e
confessavano i loro peccati .
A proposito di ciò noi possiamo dire qualcosa di più , ovvero si può
indicare anche un culto preciso al quale appartengono le pratiche
penitenziali del “superstizioso “ di Plutarco, si tratta del culto della Dea
Siria ; questo viene confermato anche da un frammento perduto di
una commedia di Menandro ,il quale si riferisce sempre a questa
divinità e questo frammento di Menandro rappresenta la più antica
testimonianza della confessione fornita da un autore classico .
C’è anche da dire che Menandro scrisse proprio una commedia
intitolata “Il Superstizioso” ed è quindi probabile che il frammento
appartenga proprio a questa commedia, da cui dipenderà la
descrizione del superstizioso plutarcheo , ma in ogni modo dai testi
combinati di Plutarco e di Meneandro risulta sicuro che nella religione
della Dea Siria si praticava la confessione dei peccati e che in questa
religione fosse vietato di mangiare pesci e di toccarli appare anche
da altre testimonianze.

b)Tra i devoti della dea Siria c’erano anche i Galli , quest’ultimi


celebravano in onore della dea riti orgiastici e cruenti di cui Apuleio
narra nelle Metamorfosi VIII e ci ha lasciato una descrizione
indimenticabile : questi solevano in comitiva andare in giro per le
campagne ,si abbandonavano alle loro danze sfrenate , agitavano la
testa intorno al collo, perdevano conoscenza , si tagliuzzavano le
36
braccia con delle spade e inveivano a gran voce accusandosi dei
peccati commessi ; questo rappresenta quindi un’altra forma di
confessione praticata nel culto della dea Siria.

4.
Le testimonianze fornite fin ad ora sono tutte di scrittori classici, ma la
confessione di cui parlano non sono riferite alla religione greca o
romana, bensì a varie religioni orientali, in particolare tre e tutte
femminili : la egiziana di Iside, la anatolica della Gran Madre e la
siriaca della Dea Siria; bisogna quindi trovare qualche pratica
confessionale propria del mondo classico ,o se invece la confessione
dei peccati è estranea alla religione greca e romana.
Ed. Norden nel suo commento VI al libro dell’Eneide afferma che la
confessione dei peccati è praticata nella religione orfica, infatti qui è
da ammettere una dipendenza dall’orfismo, come dice l’autore, sia
per le apocalissi di Tespesio nel de sera numinis vindicta di Plutarco,
dove si vede appunto che il padre di Tespesio si trova nell’inferno ed è
costretto a confessare un delitto da lui commesso, sia per la katabasis
di Enea in Virgilio, con la continua descrizione dell’inferno, dove le
anime sono costrette a confessare le colpe di ciascuno; ma questa
confessione dei dannati nell’al di là, anche se risente di influenze
orfiche, non più provare che fosse praticata realmente dagli Orfici
(non ne abbiamo nessuna testimonianza).

Invece abbiamo degli indizi di alcune comunità orfiche in Asia Minore


che conobbero la confessione dei peccati di certi culti locali , questo
ci viene testimoniato sempre dalle iscrizioni confessionali di Lidia e
Frigia , infatti queste iscrizioni sembrano essere dedicate alla Meter
Hipta (figura locale della gran madre anatolica) una dea antichissima
il cui nome ricorre negli inni orfici come in quello della nutrice di
Dioniso fanciullo o nel neoplatonico Proclo nel commento al “Timeo“
di Platone.
Se quindi gli Orfici conobbero la dea Hipta, conobbero anche la
confessione dei peccati, in quanto era praticata in questa culto; ma
queste connessioni non bastano per affermare che gli Orfici
37
praticavano tale confessione dei peccati ,in quanto gli accenni in
Virgilio e Plutarco rappresentano soltanto un riflesso della confessione
anatolica che ci dimostra l’interesse che avevano per l’Orfismo
l’escatologia.
Quel processo di adattamento a cui sottostò la dea Hipta per
diventare nell’Orfismo la mitica nutrice di Dioniso fanciullo, si applicò
parallelamente alla confessione dei peccati, facendo si che questa
restasse proiettata, per gli Orfici, nel mondo dell’al di là.

5.
A parte l’Orfismo dove quindi la confessione dei peccati compare solo
in proiezione escatologica, si può dire che c’è solo un punto nel
mondo greco in cui si praticò una specie di confessione : l’isola di
Samotracia, isola sacra al culto dei Kabiri.
Queste misteriose divinità furono citate anche da autori come Goethe
o Shelling, mentre i moderni la mettono in relazione con i misteri e
alcuni stabiliscono una corrispondenza fra confessione nella religione
samotracia e confessione nella religione cristiana; ma in che cosa
consiste realmente questa confessione di Samotracia?
La sola testimonianza è fornita da due aneddoti che si leggono nella
raccolta pseudoplutarchea degli “Apoftegmi Spartani”, dove si
racconta dello spartano Antalcida in atto di farsi iniziare ai misteri di
Samotracia, il sacerdote gli domanda cosa abbia fatto di così grave
nella sua vita e lui risponde che se ha commesso qualcosa di grave, gli
dei lo devono sapere. Lo stesso aneddoto è riferito a proposito dello
spartano Lisandro che è presentato in atto di consultare l’oracolo, di
ciò interessa non il valore storico, ma il valore storico-religioso.
Troviamo infatti sulle figure di Antalcida e Lisandro, il riflesso di una
realtà rituale e religiosa propria di Samotracia ; sappiamo anche da
Esichio che nella religione dei Kabiri c’era un sacerdote incaricato di
purificare gli omicidi e anche Livio parla dei costumi a cui gli accusati
di omicidi erano sottoposti, “omicidi” erano in un certo senso anche
Antalcida e Lisandro per il molto sangue che avevano fatto versare
nelle battaglie navali e quindi si ritrovavano davanti al sacerdote
proprio per il bisogno di purificazione.
38
La confessione di Samotracia ha dunque il suo momento nella catarsi
degli omicidi, dove il colpevole doveva porsi dinanzi al sacerdote
secondo un tipo di liturgia di domanda e risposta. Secondo alcuni
autori la confessione di Samotracia sarebbe un residuo sopravvivente
ancora alla fine del V secolo a.c di una pratica confessionale diffusa
anche nel mondo greco e romano e poi ripresa in epoca ellenistica
per influenza della religiosità orientale.
Ciò che è certo è che l’isola di Samotracia entrò tardi nell’orbita
storica e culturale del mondo greco e conservò più a lungo gli
elementi della civiltà pre-greca ; anche la lingua al pari della religione
era pre-greca e Diodoro ci attesta che ancora al suo tempo erano
rimasti in uso termini del linguaggio della popolazione, proprio come la
parola Koes, il sacerdote dei Kabiri e deputato alla catarsi di omicidi,
perfino il nome stesso di Kabiri trova riscontro nella toponomastica
dell’Asia Minore, quindi la lingua pre-greca di Samotracia aveva delle
connessioni con le lingue asiatiche.
Non solo la lingua pre-greca, ma anche la religione “pelasgica”
accenna a particolari connessioni con l’Asia Minore, infatti tra le
divinità cabiriche di Samotracia, la principale con nome esoterico era
una “Demeter”, cioè una grande divinità femminile e pure nella vicina
Lemnos, altra sede della religione dei kabiri, la divinità principale era
una dea chiamata essa stesso Lemnos.
Secondo Stefano Bizantino, affine all’asiatica Cybele e alle molte altre
dee locali d’Asia minore, erano tutte forme della Gran Madre
anatolica.
Poiché quindi nei culti asiatici di questa Gran Madre si praticava fino ai
tardi tempi la confessione dei peccati, ecco che anche la
confessione di Samotracia appare originaria di quel primitivo substrato
etnico-culturale dell’isola che presenta tanti segni di connessione con
il mondo asiatico .

In Asia infatti la confessione dei peccati fu realmente diffusa , c’è però


da chiedersi come mai sia del tutto scomparsa in altri luoghi tranne
che a Samotracia ; pratica diffusa nel mondo greco e poi scomparsa,
39
la confessione di Samotracia si spiega come un prolungamento verso
Ovest di quel complesso culturale e religioso asiatico, dove la
confessione è attestata dal II millennio a.C al III millennio d.C.
Quindi in conclusione si può dire che la confessione dei peccati che
esisteva a Samotracia, invece di dimostrare l’esistenza della
confessione nel mondo greco, fornisce, per le sue connessioni
asiatiche, piuttosto un argomento per negare che il mondo geco
abbia conosciuto la confessione dei peccati.
Le sole testimonianze attendibili e certe della confessione di autori
classici si riferiscono alla confessione praticata in varie religioni orientali
, ma né presso gli Italici, né presso gli altri popoli Indoeuropei si ha
traccia della confessione dei peccati.
Ciò che se ne ricava dalle ricerche fatte è che la confessione dei
peccati come nel mondo greco, così presso gli altri popoli
indoeuropei non appartiene originariamente all’elemento
indoeuropeo .

40
FENOMENOLOGIA STORICO-RELIGIOSA

10.SINCRETISMO E CONVERSIONE

Il termine sincretismo che si trova in Plutarco col senso di “fronte unico


dei cretesi” ,cioè di quelli che tralasciano le interne discordie per
coalizzarsi contro la minaccia di un comune nemico,fu ripreso da
Erasmo e passò nella controversia umanistico-filosofico e teologica del
16º e del 17 secolo per designare le tendenze fra posizioni dottrinali
estreme, platonici e aristotelici, luterani e riformati con il senso o anche
“confusione/mescolanza” di cose eterogenee (con una punta
polemica).
Conversione è “un cambiamento di direzione” nel piano della vita
religiosa e morale (abbandono della falsa religione per la vera) in
particolare connessione con il pentimento.
Nella storia delle religioni sincretismo e conversione sono messi in
rapporto reciproco come fenomeni complementari,che danno luogo
l’incontro di due religioni diverse:
➔ fusione dell’una con l’altra (sincretismo)
➔ risolvimento dell’una nell’altra (conversione).

a) SINCRETISMO

Il sincretismo risale agli albori della storia. Le grandi migrazioni di popoli


danno luogo a una convivenza di conquistatori e conquistati,che ha
anche un riflesso religioso.
Le religioni nazionali dei popoli del mondo antico sono
originariamente delle formazioni sincretistiche. Nel politeismo che è la
loro forma tipica portano il segno della pluralità dei loro elementi
costitutivi.
[Per la religione romana l’originario carattere sincretistico è implicito
nel sinecismo da cui Roma ebbe origine . In analogia a quanto
41
accadeva in tutta L'Italia Centrale, le origini della città si devono ad
una progressiva riunione in un vero e proprio centro urbano dei villaggi
sorti sui tradizionali sette colli (fenomeno detto Sinecismo - "vivere
insieme") ].
In Grecia l’analisi storico religiosa consente di distinguere due
elementi, ellenico e pre-ellenico, che concorsero alla formazione
della religione: la religione micenea, con cui si apre la storia della
religione greca,rappresenta l’iniziale sincretismo di questi due
elementi.
Anche la religione di Israele è, sotto un certo aspetto, una formazione
sincretistica, determinato dalla fusione della religione jahvistica con la
religione agraria delle popolazioni cananee agricole e sedentarie
(Cananea è un antico termine geografico per indicare una regione
che comprende va l’attuale Libano,Israele,Palestina e parti della Siria
e Giordania).
In epoca storica, l’espansione conquistatrice fu uno dei mezzi che
portarono a contatto le religioni dei popoli diversi promuovendo il
sincretismo religioso.
L’epoca classica del sincretismo religioso è quella che inaugurata
dalle conquiste orientali di Alessandro,rappresenta il periodo della
massima compenetrazione culturale tra Oriente e Occidente,prima
sotto il segno dell’Ellenismo,poi sotto quello della romanità (impero
romano). Un fattore importante del sincretismo è la propaganda
religiosa esercitata tramite sacerdoti e fedeli. Le antiche religioni
dell’Egitto, della Frigia e dell’Iran si diffondono in Occidente nella
forma sincretistica dei misteri (di Osiride, di Attis e di Mithra).
Anche il giudaismo esercita la propaganda e da luogo a delle
formazioni sincretistica: Jahve in quanto Dio nazionale si presta a delle
teocrasie ( sinecismo= comunione con la divinità,nel senso di fusione di
divinità omogenee in una sola). Il Cristianesimo ad esempio si libera
dal nazionalismo giudaico e fa valere l’unicità assoluta del suo Dio:
impronta antisincretistica che prevale sul sincretismo orientalizzante.

42
b) CONVERSIONE

La conversione è praticata dal Buddismo in modo diverso dalle altre


religioni sopranazionali
(zoroastrismo,Cristianesimo,manicheismo,islamismo). La differenza del
buddhismo rispetto a queste religioni è proprio il fatto che il
buddhismo si propaga senza distruggere le religioni che trova nella
sua via. La convivenza non fu sempre pacifica: in Cina ci fu il
Confucianesimo a farsi persecutore mentre il Buddismo mantenne un
atteggiamento passivo. Mentre in Cina esso fu respinto dalle classi
colte, in Giappone si diffuse molto nella corte e nella famiglia
imperiale e questo proprio perché esso comincia ad essere
apprezzato non tanto per il suo valore religioso bensì per il suo valore
culturale. Solo nel IX secolo, il buddismo penetrò anche nelle classi
popolari e si svolse un sincretismo sinto-buddistico.
A tal punto si pone il problema se questa tolleranza che
contraddistingue il Buddismo dipende dal fatto che non è una
religione monoteistica. Le religioni monoteistiche hanno uno spirito
esclusivistico. Nel Cristianesimo ad esempio la conversione implicò il
distacco assoluto dalla religione pagana e da ogni altra: si procedette
alla distruzione del paganesimo dato il fondamento esclusivismo
cristiano. Così si compì la conversione dell’Impero Romano. Poi si
estese al resto dell’Europa barbarica, ma con un procedimento
diverso, in ragione delle condizioni culturali diverse. Questi popoli si
trovavano ad un dislivello culturale analogo a quello del Giappone
rispetto alla Cina.Prima le classi superiori si sentirono attratte dalla
religione cristiana, poiché era un elemento fondamentale sinonimo
della superiorità della civiltà romana. Poi su comando dei capi si
43
convertiva l’intera popolazione. È l’epoca delle conversioni di
massa,infatti così come lo Zoroastrismo, la religione sopranazionale
fondata da Zaratustra, aveva subito una involuzione nazionalistica,
diventando la religione nazionale dello Stato persiano all’epoca di
Sassanidi,Così il manicheismo, religione sopranazionale a carattere
sincretistico, ci offre uno svolgimento analogo con la conversione in
massa operata sui Uiguri.

11.RELIGIONI NAZIONALI SUPERNAZIONALI E MISTERICHE

Il cristianesimo, il buddhismo e l’islamismo sono le tre massime religioni


attuali dell’umanità. Nonostante siano molto diverse fra loro, hanno
dei caratteri comuni che possiamo definire “statici” e sono:
➔ hanno origine da un fondatore
➔ mirano alla salvazione dell’uomo
➔ esercitano il proselitismo (cercano di convertire altri individui a
una determinata religione)
➔ si rivolgono agli uomini di ogni nazionalità e cultura
Anche lo Zoroastrismo e il Manicheismo (che oggi è una religione
morta) presentano le stesse caratteristiche.
Dal punto di vista cronologico sono vecchie di oltre 1000 e di oltre
2000 anni, essendo il buddismo nato a 500 anni prima del cristianesimo
ed essendo lo Zoroastrismo ancora più antico del Buddhismo.
Queste religioni possono definirsi “moderne” in senso puramente
tipologico, in particolare in rapporto con le altre religioni appartenenti
ad un altro tipo che possiamo definire “antico”.

44
Le religioni antiche sono le religioni dei romani, dei greci e degli
egiziani etc., le quali:
➔ non hanno un fondatore
➔ vincolano tutti e solo i membri di una data nazione o stato
➔ Mirano alla conservazione e all’incremento delle rispettive
comunità nazionali o statali
➔ non esercitano il proselitismo
Il loro tratto specifico più importante è il comune carattere
civico,nazionale.

Cristianesimo e Buddhismo oltre ad avere in comune i tratti elencati


prima, presentano anche altre somiglianze riguardanti il loro
svolgimento e il loro rapporto con altre religioni.

Il Cristianesimo, nato in Palestina, esce dal suo luogo di origine e


conquista l’Occidente, stessa cosa accade per il buddhismo che
nasce in India e conquista l’oriente. L’espansionismo del cristianesimo
si compia i luoghi tempi e modi diversi, ma corrispondenti. Il primo
grande campo aperto alla penetrazione del cristianesimo è l’impero
romano così come per il buddhismo è l’impero cinese. La diffusione
del cristianesimo nel mondo romano è principalmente dovuta alla
propaganda religiosa che ci fu le classi inferiori della popolazione e
poi si estese anche alle superiori e analogamente è accaduto per il
buddismo in Cina.
Dalla Cina attraverso la Corea il Buddismo raggiunge nel VI sec d.C il
Giappone.
Fra la Cina e il Giappone c’era un dislivello storico-culturale
corrispondente a quello che esisteva tra l’Europa romana e il resto
dell’Europa oltre i confini dell’impero.
Nel primo tempo la diffusione del cristianesimo nel mondo romano,
come quella del buddhismo e il mondo cinese era stata frutto di forze
puramente religiose; nel secondo tempo prevalgono le ragioni
profane, culturali o politiche.
45
Il moto di espansione procede dall’alto verso il basso: nell’Europa
barbarica sono i regnanti che abbracciano per primi la religione di
Roma e poi segue la conversione del resto della popolazione;In
Giappone, il buddhismo viene accolto nei circoli di corte, mentre il
popolo per molto tempo ignora la nuova religione e inoltre Anche
coloro che aderirono alla nuova religione non ripudiarono tuttavia
l’antica.
Il sintoismo (religione nazionale giapponese) continuò ad esistere
accanto al buddismo e quando quest’ultimo penetrò anche nelle
masse ciò avvenne solo per via di un sincretismo sinto-buddistico.
Analogamente in Cina il buddhismo non riuscì a scalzare né il Taoismo
né il confucianesimo anzi fra le tre religioni si creò uno speciale modus
Vivendi. Questo processo fu del tutto diverso in Occidente, in quanto il
cristianesimo non lasciò sussistere i vari paganesimi nazionali.
Nel gioco complesso delle forze religiose, un ruolo rilevante fu
occupato dai misteri: misteri greci, fregi, egizi, persiani ed altri. Le
religioni di mistero hanno un fine soteriologico, l’azione proselitica
che, come abbiamo già visto, mancano alle religioni del tipo antico e
sono comuni alle religioni di tipo moderno.
Ma da queste, si differenziano in un punto molto importante in quanto
non hanno origine da un fondatore e le origini si perdono nella notte
dei tempi. Inoltre in queste religioni di mistero troviamo anche i segni
del primitivismo. Così il tatuaggio, che si praticava nei misteri mitraici e
frigi è largamente in uso presso i popoli incolti antichi e moderni ad
esempio il rombo che era adoperato nei misteri orfici corrisponde nella
forma e nell’uso ad alcuni strumenti degli Australiani, Nord Americani
ecc., adoperati specialmente nei riti di iniziazione dei giovani. Nei
misteri mitraici gli iniziati si travestivano da animali imitandone il grido.
Si aggiunga poi il crudo naturalismo sessuale che è comune ai misteri
di Eleusi, di Sabazio ecc.
Questi elementi arcaici sono residui di fasi culturali primitive, alle quali
risale il processo di formazione dei misteri stessi. C’è dunque una
preistoria dei misteri stessi. Hanno un posto a sé nel quadro religioso
del mondo antico e rappresentano un tipo religioso diverso, arcaico,
anteriore alla formazione delle comunità nazionali e statali: un tipo
46
che si potrebbe definire pre-antico. I misteri sono forme religiose pre-
nazionali rimaste incapsulate ciascuna entro un antico organismo
nazionale più progredito. Per ciò essi appaiono nazionalmente
differenziati. Ma il loro nazionalismo è illusorio: non è un carattere
organico, bensì acquisito. Le religioni di mistero vivono in margine alla
grande vita religiosa della nazione e riemergono quando la nazione
declina.

Ma altrettanto illusorio è il sopranazionalismo dei misteri, che li assimila


alle religioni del tipo moderno: le religioni di tipo moderno sono
supernazionali, mentre i misteri sono pre-nazionali.
Vero è che si è soliti considerare il cristianesimo come un mistero e
precisamente come il mistero giudaico. Ma contro questa formula di
mistero giudaico si può far valere la formula “il cristianesimo fin che fu
giudaico non fu u mistero e quando fu un mistero non fu più giudaico.”
E anche la semplice qualifica di mistero, giustificata dalle innegabili
somiglianze non deve tuttavia farci ignorare le differenze.

Nel 186 a.C. l’Italia romana fu sconvolta da un movimento religioso


che, sorto alcuni anni prima nel Mezzogiorno e fu represso dallo stato
romano: il movimento dei Baccanali. Questo episodio ci è descritto da
LIVIO.
Il senato romano considerò tale movimento dei Baccanali come una
minaccia politica. Era una religione molto diversa cui facevano parte
aderenti che giuravano di non rivelare ad estranei i segreti del culto.
I Baccanali, con i loro riti iniziatici, speranze di salvazione e
propaganda proselitistica appartengono al tipo delle religioni di
mistero. La religione romana, obbligatoria per tutti i cittadini,
indifferente al destino dell’uomo nell’aldilà, è una religione
tipicamente civica, pubblica, statale, come le altre del tipo antico.
L’episodio dei baccanali fornì il precedente giuridico per l’intervento
dello Stato romano contro altre religioni. Nel 139 a.C. i Giudei vennero
espulsi da Roma e il motivo dell’espulsione fu il loro culto di Jupiter
Sabazios. Poi fu la volta dei misteri egizi a cui si addossarono ragioni di
moralità pubblica.

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Ad un certo punto della storia di Roma l’imperatore Claudio fa
espellere da Roma i Giudei “tumultuanti a causa di un certo Chrestos”.
Probabilmente erano Giudei già aderenti al cristianesimo e sotto
Nerone i cristiani già sono perseguitati come tali. La religione romana
giunge a imporsi contro le leggi di mistero ma il cristianesimo finisce
per imporsi a sua volta alla religione romana e di mistero insieme.
Quando subentrò l’editto di Milano nel 313, le religioni di mistero si
trovano di fronte alla religione ufficiale dello Stato romano in una
posizione di inferiorità.
Con Costantino il cristianesimo era diventato una delle religione
riconosciuta dallo Stato, con Teodosio invece diventò la sola religione
riconosciuta dallo Stato.
Il cristianesimo ci appare nella sua specifica funzione che è quella di
opporsi alle religioni di tipo pre-antico così come a quelle di tipo
antico per realizzare in Occidente l’avvento di quel nuovo tipo di
religione che abbiamo chiamato moderno. L’avvento della religione
moderna in Occidente si attuò con la totale scomparsa della religione
antica e scomparsa l’antica religione romana finì anche l’antica
Roma.
Molti e vari elementi religiosi di origine pre-antica sono sopravvissuti
alle religioni antiche e da queste sono passati nelle moderne ad
esempio nel Taoismo cinese si avverte la presenza di alcuni elementi di
tipo pre-antico più precisamente misterico.

12. LA RELIGIONE NAZIONALE DEL GIAPPONE E LA POLITICA RELIGIOSA


DELLO STATO GIAPPONESE:
La storia della religione del Giappone si svolge in due grandi periodi e
la cesura è segnata dall’introduzione del Buddhismo.
Il Buddhismo entrò in Giappone nell’anno 552 d.C e sino a tale data, il
Giappone conobbe una sola religione, la sua religione nazionale,
quella che si designa con il nome di Sintoismo.
48
Dal 552 d.C. fino ad oggi, la storia religiosa giapponese continua ad
essere determinata dalla varia vicenda dei rapporti e delle
interferenze tra questa originaria religione nazionale e quella religione
extra nazionale e supernazionale che era ed è il Buddhismo.
Mentre il cristianesimo, introdotto nel 1549 dai gesuiti fu quasi
completamente sradicato con la violenza nei primi decenni del XVII
secolo.

Shinto è una parola sino-giapponese che vuol dire “via degli dei”. Il
termine venne in uso soltanto dopo l’introduzione del Buddhismo e
designa la religione nazionale del Giappone in funzione dei suoi molti
“Idii”, i quali dovettero essere sentiti come un elemento caratteristico e
differenziale del shinto rispetto al buddhismo, caratterizzato, dal canto
suo, come “la via, cioè la religione dei Buddha”.
Non per questo il shintoismo va inteso come una religione degli avi: il
culto degli avi nel Giappone si sviluppò e fiorì specialmente sotto
l’influenza della civiltà e della religione cinese. Ma all’epoca in cui tale
influenza cominciò a farsi sentire, cioè nei primi secoli dopo l’era
volgare, il shintoismo già esisteva, da tempo immemorabile, ed era,
come poi sarà in seguito, principalmente una religione naturalistica,
un culto di divinità della natura, tra cui privilegiavano la dea del sole
Amaterasu, il dio degli uragani Susanowo, la coppia Cielo e Terra, cioè
Izanagi e Izanami.
Il shintoismo, come religione nazionale, rientra in un tipo di religione
che oggi è scarsamente rappresentato nel panorama religioso
dell’umanità e fu il tipo di religione più frequente presso i popoli civili
del mondo antico.
Tra le religioni nazionali e politeistiche vi furono quelle degli egizi, dei
babilonesi, degli indiani, dei greci, dei romani, le quali oggi sono tutte
scomparse.

49
La dea del sole Amaterasu , attualmente, è oggetto di credenza e di
adorazione per il popolo giapponese e per questo il shintoismo
presenta un interesse enorme per la scienza e la storia delle religioni.
Esso rappresenta un tipo relativamente arcaico di religione e grazie a
dati filologici e archeologici, questo tipo arcaico di religione noi lo
possiamo ritrovare vivo e contemporaneo nel shintoismo.

Ma a partire dal 552 d.C., accanto al Shintoismo ,il Giappone possiede


nel buddhismo un’altra religione di tipo completamente diverso: la
diversità consiste principalmente nel fatto che il Buddhismo sia una
religione supernazionale. E religioni di questo tipo sono anche il
Cristianesimo e l’Islamismo.
Lo svolgimento globale della religione si è attuato nei secoli dal tipo
della religione nazionale, patrimonio esclusivo della nazione che l’ha
prodotta, al tipo della religione supernazionale, che è fatta per tutti gli
individui, a qualunque popolo o nazione appartengano.

Buddismo e cristianesimo sono religioni differenti nella dottrina:


❖ Il cristianesimo crede in un Dio solo, creatore del mondo
➢ Il buddhismo ammette le divinità come esseri partecipi di una
forma superiore di esistenza, ma sottoposti alla legge universale
del divenire.
❖ Il cristianesimo crede nell’esistenza di un’anima individuale
immortale
➢ Il Buddhismo nega tale esistenza di un’anima individuale
immortale
❖ Il cristianesimo insegna che l’uomo può salvarsi in virtù della
grazia di Dio
➢ Il buddismo insegna che la salvezza è frutto dello sforzo
individuale

50
Nonostante la radicale diversità della dottrina, buddismo e
cristianesimo compiono nella storia della religione una funzione
omologa: Il buddhismo attua in oriente mentre il cristianesimo attua in
occidente quel trapasso dal tipo della religione nazionale al tipo della
religione supernazionale.
Questa identità funzionale tra buddismo e cristianesimo stabilisce fra la
storia religiosa dell’oriente e quella dell’Occidente un sostanziale
parallelismo: da un punto di vista organico nello svolgimento,
l’espansione e propagazione del cristianesimo in Occidente presenta
delle singolari analogie con quella del buddhismo in Oriente.
Il cristianesimo nasce in Palestina e si diffonde principalmente ad
Occidente, prima nel mondo ellenistico-romano e poi nel mondo
barbarico situato alla periferia dell’impero romano.
Il buddhismo ,invece, nasce in India e si diffonde ad oriente, a partire
dal I secolo.
Si può notare il sincronismo dei due momenti di espansione: nel I
secolo incomincia anche la propagazione del cristianesimo
nell’impero romano e nel VI secolo vi sarà “la conversione dei barbari”
Ciò che conta è, però, il parallelismo nello svolgimento storico-
culturale:
i due momenti di espansione corrispondono tanto in oriente quanto in
Occidente a due piani culturali diversi, infatti, fra il mondo romano e
l’Europa barbarica c’era un dislivello culturale che corrisponde a
quello che c’era fra la Cina e il Giappone.
➔ Il buddhismo che si introduce nel Giappone non è l’originario
buddhismo indiano ma è quello cinese,
➔ così come il cristianesimo che si propaga fra le popolazioni
dell’Europa barbarica non è il cristianesimo di Palestina, bensì
quello di Roma o di Costantinopoli.
➔ La lingua ecclesiastica del buddhismo giapponese è il cinese
➔ La lingua ecclesiastica del cristianesimo europeo-barbarico è il
latino o il greco.

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La “conversione“ dei “barbari“ al cristianesimo rientra nel complessivo
processo della loro acculturazione: ossia attrazione nell’orbita della
civiltà, romana o bizantina, così come l’introduzione del buddhismo
del Giappone è uno dei molti aspetti della penetrazione della civiltà
cinese.
Questo parallelismo comporta una differenza: la differenza consiste
che mentre in Occidente, il cristianesimo distrusse i vari paganesimo
nazionali che incontrò sulla sua strada, il buddhismo in oriente lasciò
sussistere le religioni nazionali dei diversi paesi in cui si diffuse.
Questa differenza funzionale tra cristianesimo e il buddhismo ha dal
punto di vista storico un'importanza di gran lunga maggiore .
La storia religiosa di oriente presenta una varietà di religioni nazionali
che sono ignote all’Occidente, dove, dopo il paragone religioso
operato dal cristianesimo, la storia religiosa si svolse interamente sotto
il segno cristiano e anche le ispirazioni religiose a tendenza nazionale si
produssero e si realizzarono internamente al cristianesimo.
Mentre il cristianesimo nell’impero romano condusse una lotta
intransigente contro le varie religioni nazionali, come pure contro
quelle religioni di tendenza super nazionali, e specialmente contro la
religione ufficiale dello Stato la quale quel formarsi dell’impero si era
fatta anch’essa super nazionale, il buddhismo in Cina non riuscì mai a
scalzare il confucianesimo, il Taoismo e mentre da un lato il
Cristianesimo annullò le religioni pagane dei germani, dei celti,
dall’altro il buddhismo introdotto nel Giappone non distrusse il
Shintoismo, tant’è vero che questo persiste tutt’ora mentre sono morte
le religioni di Grecia e di Roma.

Il Buddhismo, entrando in Giappone, non fu ostacolato dal shintoismo


nei suoi primi progressi; quest’ultimo , infatti trovò le prime adesioni
nelle classi più colte e specialmente nei circoli di corte. L’idea di
elevare il buddhismo a religione dello Stato giapponese fu concepita

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dal principe Umayado , radicalmente da lui riformato anche nella sua
struttura sul tipo dello Stato cinese.
Ma un tale programma religioso, onde Umayado suol essere
paragonato a Costantino, non poter realizzarsi.
Il popolo giapponese non abbandonò la sua religione tradizionale: le
masse ignorarono il buddhismo; nelle conversioni che si produssero
nelle classi superiori implicarono il distacco assoluto dalle pratiche e
dalle credenze shintoistiche.
Possiamo dire che shintoismo e il buddhismo vissero l’uno accanto
all’altro, distinti, ma non avversi; una nuova fase di inizio si ebbe nel IX
secolo quando si attuò allora pienamente un vero e proprio
sincretismo fra le due religioni.
Quel contatto col “ paganesimo“, cui il Cristianesimo si sottrasse e si
ribellò in Occidente, fu ammesso nel Giappone-e altrove-dal
buddhismo.
Ne vennero fuori diversi sistemi sinto-buddhistici , tra i quali prevalse
quello di
Kobo, cioè il cosiddetto Ryobu-shinto o “sinto-bilaterale”

Il sincretismo religioso è complessivamente estraneo alla storia


religiosa dell’Occidente dopo il trionfo totalitario del cristianesimo. I
non pochi elementi di origine pagana che furono incorporati dal
cristianesimo poterono mantenervisi in quanto cessarono di essere
pagani, passando sotto il Comune segno cristiano.
Da un lato la romanità imperiale, dall’altro la barbarie europee
sopravvissero, in un certo qual modo, in quella formazione
eminentemente composita che è il Cattolicesimo.
Ed anche la reazione che si espresse prima con un ritorno dalla
romanità cristiana alla romanità genuina e pagana, il quale fu il
rinascimento, poi con un ritorno dal cristianesimo romano (cattolico)
dal cristianesimo delle origini il quale fu a riforma, poi con la
rivalorizzazione del paganesimo originale barbarico nelle sue proprie
forme nazionali europee il quale fu il romanticismo: anche questa
complessa reazione dello spirito “nuovo“ sullo spirito “medievale“ si
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attuò, nell’ordine della religione, internamente al cristianesimo
degenere e alterato il nome di un cristianesimo genuino, e fuori dal
cristianesimo sboccò soltanto nel laicismo, senza dar vita ad alcuna
religione nuova.
Nonostante i progetti accademici di Giorgio Gemisto Pletone, le
religioni antiche risuscitarono soltanto nell’arte e nella letteratura; e
letterario, poetico ,artistico fu anche il paganesimo barbarico del
romanticismo, fino all’opera wagneriana; fuori dall’arte, nella vita,
soltanto ai giorni nostri abbiamo sentito difendere esplicitamente
l’abbandono del cristianesimo per un ritorno al paganesimo:
➢ nei paesi tedeschi, in seno al nazionalismo , rinforzati
dall’antisemitismo, per un ritorno alla religione di Wotan e
all’arianesimo puro;
➢ E in Italia, in seno al fascismo all’imperialismo, per un ritorno alla
religione imperiale romana, e più specialmente al culto del “Dio
degli eserciti”: correnti e voci che non sembrano destinate ad
intaccare la compattezza cristiana del mondo occidentale
moderno.
Nel Giappone, una prima reazione al sincretismo “medievale” sinto-
Buddhistico si ebbe nella forma di un ritorno al buddhismo genuino:
questo movimento, che corrisponde dunque alla riforma protestante,
prese corpo nella scuola fondata da Niciren , che è a formazione
originariamente Giapponese, come del resto tutto il buddhismo del
periodo Kamakura presenta cospicui aspetti ed elementi di carattere
nazionale.
Successivamente, nel XVII secolo tra i samurai si produsse una nuova
orientazione verso il confucianesimo, la quale, sebbene si rifacesse al
neo confucianesimo di Chishi, rappresenta ad ogni modo un ritorno
alla Cina classica, alla Cina “pagana“, vale a dire non buddistica, e
dunque corrisponde sotto questo aspetto al Rinascimento europeo.

Infine nel XVIII secolo si iniziò la reazione più vigorosa al sincretismo del
Ryobu-sinto, non più il nome di una regione super nazionale straniera,
come il buddhismo, o di un pensiero extra giapponese, come il
confucianesimo, bensì in nome del shintoismo stesso, che è in nome
54
dello spirito nazionale, della religione nazionale, della tradizione
nazionale, attraverso l’indagine e lo studio delle antichità religiose
nazionali, quale fu promosso specialmente dalla triade dei celebri
filologi e archeologi Mabuci, Motowori e Hirata: ovvero principali
rappresentanti di un movimento che, a parte il suo carattere erudito, si
può dunque paragonare al nostro romanticismo.

Ma mentre in Occidente i valori naturali furono restaurati sia


artisticamente e dunque nella stessa forma cristiana che avevano
assunto nel medioevo, e sia politicamente sotto il segno immanente
del cristianesimo, nel Giappone invece il movimento romantico-
erudito del secolo XVIII e XIX, che preparò la restaurazione
dell’autorità imperiale e la connessa unificazione politica e nazionale
del Giappone, preparò parallelamente un nuovo ordine di cose
religiose, che fu la restaurazione del puro scinto.
In complesso, mentre in Occidente esclusivismo religioso cristiano
generò per reazione il laicismo areligioso, in qualche caso,
antireligioso, nel Giappone la reazione al sincretismo religioso sinto-
buddistico fu essa stessa essenzialmente religiosa, e si espresse nei
movimenti del puro buddhismo, del neo-confucianesimo e del puro
Shintoismo.

3
Nel 1868, il Shintoismo, insieme con una nuova fase della storia del
Giappone ovvero la fase del meraviglioso incremento del Giappone
contemporaneo, liberato dalle sovrastrutture buddistiche e ricondotto
alle forme genuine delle credenze del culto, pose nuovi problemi alla
coscienza e alla politica religiosa del nuovo Giappone, che del
mondo civile è ormai entrato a far parte.
Il Shintoismo, la religione nazionale per eccellenza, dovette fare i conti
con l’antica religione super nazionale ovvero il Buddhismo, anche
dopo la restaurazione.
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Il shintoismo, inoltre, poté essere dichiarato la religione ufficiale dello
Stato giapponese, nella sua forma pura restaurata,( “unione della
chiesa con lo Stato“ 1870) .
Il buddhismo invece, che aveva sempre goduto dei favori del regime
Shogunale fino all’epoca Tokugawa, risentì il contraccolpo della
soppressione del shogunato e della restaurazione dell’autorità
imperiale: individuato per effetto della disintegrazione del sincretismo,
quest’ultimo ebbe a subire, confisca di beni, soppressioni di templi,
chiusure di conventi: ad esempio le statue del Buddha vennero
allontanati dal palazzo imperiale e vennero abolite le cerimonie
buddistiche a corte e proibito l’elemosinare.
Questo periodo di intolleranza religiosa ebbe però breve durata: il
buddhismo, infatti, aveva radici troppo profonde nella vita del popolo
giapponese per poter essere estirpato o ignorato.

Nel 1872 il buddhismo fu riconosciuto ufficialmente e fu parificato al


shintoismo:
➔ sia nelle funzioni: tra cui la funzione pedagogica di educare il
popolo ai sentimenti ai principi del patriottismo, ecc.
➔ sia nei diritti: infatti vi fu la soppressione “dell’ufficio del sinto”
fondato nel 1868 ed elevato nel 1871 alla dignità di ministero, e la
istituzione di un ministero della religione avente giurisdizione tanto
sul shintoismo quanto sul buddhismo.
Questa politica armonica era, però, destinata all’insuccesso in quanto
in contrasto con i recentissimi sviluppi storici che avevano portato alla
separazione delle due religioni;
Nel 1875, il governo procedeva a separare l’attività dei sacerdoti
shintoisti e buddisti nell’esercizio delle rispettive funzioni educative e
inoltre alcuni anni dopo, il ministero della religione fu abolito e fu
creato “un ufficio dei santuari e templi” con giurisdizione comune su
tutti gli affari religiosi, ma con un programma di netta distinzione fra
quanto concerneva i santuari ossia il Shintoismo, e quanto concerneva
i templi ossia il Buddismo.

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E inoltre, questa tendenza a isolare il sinto restaurato sì esplicò anche in
seno al shintoismo stesso, con la separazione del “puro sinto“ da quel
shintoismo del tutto diverso che il cosiddetto shusa shinto o sinto delle
sette.
Infatti contemporaneamente all’irrigidirsi del puro shinto nella nuova
posizione ufficiale, in quanto vi fu l’abolizione del sacerdozio ereditario
e trasformazione dei sacerdoti in funzionari dello Stato ecc, avvenne
che, alimentato da certe correnti oscure e profonde dell’anima
religiosa giapponese presenti ab antiquo nel Shintoismo , fiorirono
associazioni popolari esistenti da tempo con carattere tra religioso e
profano : si trattava di organizzazione di pellegrinaggi; dunque erano
ora organizzate con accentuazione del carattere religioso, ed ancor
più in certe organizzazioni più schiettamente religiose sorte in parte già
all’epoca Tokugawa e in parte di origine più recente, fiorì un vasto
Shintoismo popolare in cui rivissero quelle tendenze sincretistiche che
nel puro Sinto erano state bandite.

Questo Shintoismo impuro che già nella sua organizzazione di tipo


settario rivelava l’influenza del buddhismo, anche esso nel 1882
nettamente separato dal “puro sinto” con un altro provvedimento
governativo che distingueva radicalmente i santuari del sinto di Stato
dalle chiese della sinto popolare, vietando a quest’ultimo l’uso dei
santuari , abbandonandolo completamente all’iniziativa privata, pur
sotto il controllo dello Stato.

Questa progressiva separazione del “puro sinto” così dal buddhismo


come dalla shintoismo popolare , si risolveva in una progressiva
esaltazione come religione sopra le altre religioni conosciute.
Quando poi la costituzione del 1889 sancì la piena libertà religiosa per
tutti cittadini giapponesi, e nel Giappone non ci fu più nessuna
religione di Stato, sorse la preoccupazione di conservare tuttavia alle
shintoismo la sua posizione di privilegio.

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Come religione, il “puro sinto” era, ed è un anacronismo (Errore in cui si
cade attribuendo certi fatti ad un'epoca diversa da quella in cui sono
avvenuti.), specie di fronte al tipo di religione dominante in Occidente,
in quel mondo occidentale cui il Giappone voleva adeguarsi, come
nel regime politico costituzionale, così negli altri aspetti della vita e
della civiltà, compresa la religione.

Il Sinto è un elemento di coesione nazionale e politica, risalente per le


sue origini alle origini stesse della nazione, quest’ultimo insegna che il
paese del Giappone è di origine divina, che la dinastia imperiale
discende direttamente dalla suprema divinità del sole. Il patriottismo, il
lealismo giapponese hanno nel shintoismo un alleato eccezionale:
mentre i vari nazionalismi e imperialismi occidentali trovano nel
cristianesimo, religione super nazionale, un freno alle loro aspirazioni , in
Giappone gli ideali nazionali e imperiali sono perfettamente
all'unisono con quella creazione genuinamente giapponese che il
shintoismo.
A questo valore unico e insostituibile del shintoismo, il Giappone non
poteva rinunciare: ma quando il carattere religioso del Shintoismo
venne a creare un conflitto tra la sua posizione privilegiata e la
proclamata uguaglianza di tutte le religioni, il Giappone rinunciò al
shintoismo come religione per conservarlo come istituzione patriottiche
e nazionale.
Ufficialmente oggi il shintoismo, e cioè il puro shinto non è una
religione: è un’istituzione di Stato che specialmente per mezzo di feste
patriottiche celebrate da funzionari specializzati, i cosiddetti sacerdoti,
promuove i sentimenti di attaccamento alla tradizione nazionale e di
devozione al paese e al sovrano. Partecipare a tali cerimonia è un
dovere per ogni cittadino giapponese.
Il Shintoismo è definito come non-religione:
❖ Le religioni hanno credo
❖ Hanno un sistema di dottrine fuor dalla quale non c’è salvezza
❖ Religioni in questo senso sono il Buddhismo e il Cristianesimo e
anche il Shintoismo delle sette

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Il puro sinto non è un credo, non fa propaganda, non esercita il
proselitismo : perciò non è una religione.
La nuova definizione ufficiale del shintoismo di Stato si ebbe nel
campo amministrativo, quando si soppresse il Comune “ufficio dei
santuari e templi“ e si crearono due uffici distinti:
1. L’ufficio dei santuari per il shintoismo di Stato
2. L’ufficio delle religioni per le varie chiese della shintoismo
popolare (sinto delle sette)
Nel 1913, “l’ufficio delle religioni “passò alla dipendenza del ministero
della Educazione, restando così anche burocraticamente distinto dal
shintoistico “Ufficio dei Santuari” , rimasto sotto la giurisdizione del
Ministero dell’interno.

Il Shintoismo ha cessato di essere una religione in seguito alla


definizione in senso contrario adottata dal Giappone ufficiale?
Tale definizione fu suggerita dalla preoccupazione di salvare i valori
eccezionali del shintoismo senza intaccare il principio della libertà
religiosa e della uguaglianza di tutte le religioni di fronte allo Stato: un
principio che il Giappone ha preso con tutta la costituzione, dagli Stati
moderni occidentali, dei quali ha adottato gli ordinamenti.
La definizione del shintoismo come non religione servì a togliere il
Giappone da quello stato di inferiorità e arretratezza religiosa che il
shintoismo, come religione, gli conferiva. Questo tipo di religione
occidentale, rappresentata in Europa e in America dal cristianesimo
come in Asia dal buddhismo fornì il paradigma per la definizione del
Susha Shinto come religione e del puro sinto come non religione.
Tale definizione però è erronea perché è basata su un paradigma
parziale: parziale perché non ammette altro tipo di religione che non
sia quello della religione fondata, dogmatica, super nazionale,
disconoscendo il tipo della religione naturale , Nazionale, senza
dogmi, senza proselitismo, che è il tipo a cui lo stesso shintoismo
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appartiene e precisamente in quella sua forma pre-buddhistica che
nel puro sinto si é voluta restaurare.
Il popolo giapponese ha continuato e continua a sentire e praticare il
sinto come religione.
Non vale l’interpretazione commemorativa e pedagogica delle feste
e celebrazioni shintoistiche ad annullare nella coscienza dei
partecipanti il loro carattere originario di riti:
➢ Riti celebrati da sacerdoti che non cessano di essere tali per il
fatto di essere divenuti funzionari dello Stato;
➢ Riti che si svolgono con sacrifici e preghiere agli antichi Kami,
ossia gli esseri divini del mito e della tradizione giapponese, che il
culto ufficiale ha esaltato specialmente nel loro aspetto di avi
imperiali, ma che non hanno tuttavia perduto
l’originario carattere naturalistico.

Non solo nella massa del popolo, ma anche tra le persone colte resta
vivo il sentimento che il shintoismo è regione: interessante è il pensiero
di un professore di storia delle religioni dell’Università di Tokyo, Kato
Genci, il quale in un libro pubblicato in inglese nel 1926 afferma
esplicitamente il carattere religioso del Sintoismo.
Il libro è intitolato “the study of shinto, the Religion of the Japanese
Nation” ed ha lo scopo di dimostrare che il Sinto è veramente una
religione, cioè la religione originale del popolo giapponese.
Quanto alla secolarizzazione del Sinto, l’autore la spiega col fatto che
nel Sinto di Stato, dove predomina l’espressione teantropica della
religione, l’oggetto del culto è un sovrano secolare, in carne ed ossa,
onde il Sinto, religione nazionale non proselitistica, ha un carattere
mondano in contrapposizione al buddhismo.
Il carattere religioso dello Shintoismo, e specialmente del “puro Sinto”
è affermato dall’Autore in funzione di spirito nazionale. C’è la
preoccupazione patriottica di porre il shintoismo alla pari con il
buddhismo e con il cristianesimo, come una delle “tre religioni attuali
del mondo”

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Il Shintoismo dunque è riconosciuto come religione della patria e della
salvezza della patria, nonostante la tendenza ad avvicinarlo
idealmente a quell’altra forma di religione che storicamente ha
prevalso nel mondo: la religione dell’uomo e la salvezza dell’uomo

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